Luigi Speranza -- Grice e Rossi: la ragione
conversazionale di Romolo; o lo storicismo – la scuola di Torino. filosofia
piemontese -- filosofia italiana – l’astuzia della ragione converszionale di
Weber e Grice -- Luigi Speranza (Torino).
Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Torino, Piamonte. Studia a Torino sotto ABBAGNANO, Napoli, e Milano.
Insegna a Cagliari e Torino. Studia lo storicismo, l’illuminismo, e il
positivismo. Saggi: Lo storicismo, Einaudi, Torino; “Storia e storicismo, Lerici,
Milano; La storiografia Saggiatore, Milano; “Oltre lo storicismo, Saggiatore,
Milano; “Storia della filosofia”, Treccani Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Cf. Grice, “Speranza e l’opera di Grice in Italia.”
CLASSICI DELLA FILOSOFIA COLLEZIONE FONDATA D’ABBAGNANO DIRETTA DA GREGORY
CLASSICI UTET, Tipografia ‘Toso, via Capelli, Torino. È difficile isolare,
nell'àmbito della filosofia contemporanea, un indirizzo che possa essere
caratterizzato in maniera univoca, e al tempo stesso esaustiva, con la
designazione di « storicismo ». Ciò dipende in primo luogo dal fatto che il
termine « storicismo » — così come si è venuto diffondendo a partire dagli anni
’20, dapprima in Germania e poi in Italia — è stato impiegato per indicare
posizioni filosofiche (e anche non filosofiche) disparate, recando con sé quasi
sempre una carica polemica o, al contrario, elogiativa che gli ha impedito per
lungo tempo di essere assunto a contrassegno di un’impostazione di pensiero o
di diventare una designazione storiografica comunemente accettata. Nella
cultura tedesca lo storicismo è stato infatti identificato originariamente con
una considerazione storica dei diversi campi della vita e della cultura fondata
su un atteggiamento relativistico, che comportava quindi una relativizzazione
dei valori alla particolare cultura o al particolare periodo storico nel quale
si sono formati. Nella cultura italiana esso è invece servito a indicare
soprattutto, almeno fino alla seconda guerra mondiale, una concezione della storia
(di derivazione hegeliana) che affermava la fondamentale storicità di tutto il
reale, e di conseguenza la riduzione di ogni conoscenza a conoscenza storica.
In altri paesi, eccetto in quelli di lingua spagnola, il termine ha avuto
scarso successo: nella cultura francese è rimasto sostanzialmente assente —
tant'è vero che il primo studio organico del movimento storicistico tedesco,
cioè il libro di Raymond Aron del 1938, è intitolato alla « filosofia critica
della storia » anziché allo storicismo — mentre nella cultura anglosassone ha
acquistato, in virtù della polemica di Karl Popper contro la « miseria dello
storicismo », un significato quasi sempre negativo. In epoca più recente, cioè
nel corso degli anni ’60, è subentrata una tendenza piuttosto diffusa a
identificare lo storicismo con la concezione marxistica della storia, vale a
dire con il materialismo storico: tendenza chiaramente connessa con il processo
di rinnovamento del marxismo contemporaneo, operato attraverso il recupero di
autori come il Lukdcs di Geschichte und Klassenbewusstsein e il Gramsci dei
Quaderni del carcere, nonché attraverso l’incontro con altri orientamenti del
pensiero contemporaneo, in primo luogo con l'’esistenzialismo. AI di lì di
queste considerazioni relative al significato del termine, e ben più importanti
di esse, vi sono però altri due ordini di motivi i quali spiegano la difficoltà
di cui si diceva. Il primo ordine di motivi consiste in una caratteristica
intrinseca allo storicismo, ossia nel fatto che esso non è soltanto, né
principalmente, una dottrina o un complesso di dottrine filosofiche, ma è pure
un movimento che ha avuto larga influenza sulla ricerca storica e sulle scienze
sociali, e che presenta connessioni tutt'altro che irrilevanti con le vicende
politiche europee del secolo xx. Le formulazioni più propriamente teoriche
dello storicismo contemporaneo — come la teoria della conoscenza storica e
l’analisi della struttura storica del mondo umano e della relazione dell'uomo
con i valori — sono quindi aspetti di un fenomeno più vasto, al quale
continuamente rimandano. Il secondo ordine di motivi risiede invece nel legame
ricorrente dello storicismo con altri indirizzi della filosofia contemporanea:
per un verso con l’idealismo — in tutte le versioni che si richiamano,
direttamente o indirettamente, alla concezione hegeliana della storia — e per
l’altro verso con il neocriticismo o con l’esistenzialismo o con il marxismo o
con il pragmatismo, magari (in qualche caso) perfino con il neopositivismo.
Risulta così impossibile determinare un nucleo dottrinale al quale siano
riconducibili le diverse manifestazioni dello storicismo contemporaneo, e che
sia più o meno presente in tutte: al contrario, le varie forme di storicismo
divergono anche su questioni d'importanza fondamentale. La possibilità di
individuare lo, storicismo come un indirizzo a sé stante della filosofia
contemporanea appare perciò problematica sia per quanto concerne i rapporti tra
pensiero filosofico e altri campi culturali, sia all’interno dello stesso pensiero
fiosofico. Sarà opportuno soffermarci più da vicino su questi nessi. Già dal
punto di vista biografico gli esponenti dello storicismo contemporaneo che
siano filosofi di professione, e nient'altro che filosofi, sono assai rari, e
non certamente i più importanti. Dilthey, pur insegnando filosofia, è stato
però insieme studioso di psicologia e di pedagogia, e ha soprattutto dedicato
gran parte della propria attività all’analisi e alla ricostruzione storica di
alcuni momenti centrali di sviluppo della cultura moderna, dal Rinascimento
alla Riforma, dall’Illuminismo al mondo romantico. Georg Simmel e Max Weber
occupano un posto di grande rilievo nella sociologia contemporanea; inoltre,
mentre il primo è autore di numerosi saggi di argomento artistico, letterario
ed estetico, e ha ripetutamente affrontato i problemi concernenti la fisionomia
e il significato della cultura moderna, il secondo è pervenuto all'analisi
metodologica delle scienze sociali muovendo da studi sulle società commerciali
del Medioevo, sul diritto agrario romano, sulle condizioni dei contadini nella
Germania e, infine, sulla scuola storica di economia. Ernst Troeltsch è stato
in primo luogo un teologo, e tutta la prima fase della sua attività speculativa
è ispirata da preoccupazioni tipicamente teologiche: la sua successiva
riflessione sulla storia e sulla conoscenza storica è anch’essa radicata in una
problematica religiosa, e prende le mosse dalla consapevolezza dell’urto della
coscienza storica moderna sulla validità della fede cristiana. Friedrich
Meinecke è giunto ai problemi dello storicismo attraverso l’analisi del
processo di formazione dello stato nazionale tedesco e della struttura della
«ragion di stato » nell'età moderna; anche professionalmente, egli è stato uno
storico, e solo in secondo luogo un filosofo, In quanto a Benedetto Croce,
anch'egli è stato all'inizio — com'è noto — soprattutto studioso di storia e di
critica letteraria, e il suo sforzo di elaborazione filosofica è proceduto di
pari passo con l’approfondimento di temi di storia etico-politica, dî estetica
e di linguistica. E l’esemplificazione potrebbe agevolmente continuare. Ma la
connessione con altri campi culturali non è soltanto un dato biografico; essa è
pure una dimensione intrinseca dello storicismo contemporaneo. Da un lato,
infatti, la consapevolezza del fondamentale carattere storico dell’uomo e della
realtà sociale ha condotto all’analisi dei momenti decisivi della storia
culturale europea, nel duplice intento di delineare — secondo il programma
indicato da Dilthey — la vicenda dello « spirito europeo » e di porre in luce
le relazioni reciproche tra settori diversi del processo storico, c
contemporaneamente ha promosso il ricorso alle prospettive concettuali che
erano offerte dalle scienze sociali, in particolare dalla sociologia.
Dall'altro lato il riconoscimento della storicità della filosofia, del suo
legame con le altre manifestazioni culturali di un’epoca, della sua dipendenza
dai risultati della ricerca condotta dalle scienze particolari, ha mostrato l'impossibilità
di una filosofia che pretenda di configurarsi come una forma autosufficiente di
sapere, fornita di validità incondizionata. Non meno arduo è discriminare lo
storicismo dai diversi indirizzi della filosofia contemporanea con i quali è
quasi sempre intrecciato. Ciò vale sia per il legame con l’idealismo, che
risulta essenziale al pensiero di Croce (o del suo discepolo inglese R. G.
Collingwood), sia per il nesso con l’esistenzialismo o con il marxismo o ancora
con il pragmatismo, allorché la problematica storicistica s’innesta su una
piattaforma dottrinale diversa e rispondente ad altri interessi. È vero che
Croce si è proposto — fin dal saggio Ciò che è vivo e ciò che è morto nella
filosofia di Hegel (1906) e dalla Logica come scienza del concetto puro (1909)
— di differenziare la propria impostazione filosofica da quella di Hegel,
eliminando la distinzione hegeliana tra idea, natura e spirito e risolvendo
quindi i primi due momenti nel terzo, che viene così fatto coincidere con la
realtà intera, in maniera da identificare il processo di realizzazione dello
spirito con lo sviluppo storico e da interpretare ogni fatto come fatto
storico. Cionondimeno il crociano «storicismo assoluto » si configura come una
ripresa intenzionale della concezione della storia formulata dall’idealismo del
primo Ottocento e soprattutto da Hegel, dal quale deriva il postulato
fondamentale della razionalità dello sviluppo storico e l'affermazione del suo
carattere progressivo. Del resto, la stessa qualificazione di «storicismo » è
stata adottata da Croce molto tardi, nel corso degli anni ’30, durante il
trapasso dal « sistema » della filosofia dello spirito alla posizione de La
storia come pensiero e come azione e degli scritti successivi: il saggio /!
concetto della filosofia come storicismo assoluto è, difatti, del 1939. Nel
pensiero di Croce lo storicismo sorge quindi sulla base di un’impostazione
chiaramente idealistica, ed è inseparabile da questa. La stessa definizione
della filosofia come metodologia della storiografia ha ben poco in comune con
una concezione metodologica della filosofia (quale si è sviluppata partendo da
una prospettiva neocriticistica), ma poggia su una concezione idealistica —
anzi,neoidealistica — del sapere la quale nega il carattere conoscitivo delle
scienze naturali, interpretandole come prodotto della forma economica dello
spirito, e perciò riduce la conoscenza a conoscenza storica, vale a dire a
conoscenza dello sviluppo dello spirito nella serie infinita delle sue
manifestazioni finite. Anche in vari altri autori lo storicismo si presenta
come un approccio ai problemi della storia e della conoscenza storica
condizionato dall’assunzione di presupposti propri di orientamenti di pensiero
eterogenei, ed è lungi dal configurarsi in modo autonomo. Per esempio, la
concezione heideggeriana della storicità dell’esserci è strettamente dipendente
dalla teoria diltheyana della storicità; ma questa viene ricondotta a un quadro
ontologico del tutto estraneo alla filosofia di Dilthey, risolvendosi in un elemento
dell’analitica esistenziale di Sein und Zeit. Analogamente, se è vero che Karl
Jaspers si è richiamato con insistenza a Max Weber (fino ad asserire che egli «
non ha insegnato una filosofia, ma era una filosofia », anzi la filosofia per
eccellenza del suo tempo), la problematica storicistica occupa un posto del
tutto secondario nell’esistenzialismo jaspersiano. Né le cose stanno in maniera
diversa nel caso del marxismo. Molte delle categorie interpretative di
Geschichte und Klassenbewusstsein, in primo luogo quella di « possibilità
oggettiva », sono di origine weberiana; ma il rinnovamento del marxismo
intrapreso da Lukdcs poggia non già su un’accettazione dell’impostazione
metodologica di Weber, bensì su uno sforzo di replica a Weber, cioè sullosforzo
di sottrarre il materialismo storico alla critica a cui egli lo aveva
sottoposto. Anche la recezione di posizioni storicistiche nel clima
filosofico-culturale francese degli anni ’60, caratterizzato in misura
prevalente dall'incontro tra esistenzialismo e marxismo — basti pensare alla
Critigue de la raison dialectigue di Jean-Paul Sartre, apparsa nel 1960 — non
può certo essere scambiata per una forma vera e propria di storicismo. Al di
fuori della cultura europea, poi, l'affermazione dell'identità tra esperienza e
storia e del carattere problematico dell’esperienza in quanto sequenza di
eventi storici, formulata da John Dewey in Experience and Nature (1925),
sviluppa in modo originale temi propri del pragmatismo americano, € può caso
mai essere ricondotta a una matrice hegeliana filtrata attraverso
un’interpretazione naturalistica, non già a una piattaforma storicistica. In
tutti questi casi ci troviamo di fronte a forme d'incontro tra storicismo e
altri indirizzi filosofici (se non addirittura, come nell’ultimo, a un'affinità
piuttosto remota), in cui esso perde inevitabilmente qualsiasi specificità. Se
si vuole individuare, nell’ìmbito della filosofia contemporanea, un movimento
storicistico che abbia proprie caratteristiche distintive, e che non sia subordinato
ad altre impostazioni teoriche, occorre cercarlo nella cultura tedesca degli
ultimi due decenni del secolo xix e dei primi decenni di questo secolo, fino
alla vigilia della seconda guerra mondiale. Soltanto entro tale contesto si può
legittimamente parlare di uno storicismo contemporaneo, cioè di uno storicismo
che non sia la ripresa o la rielaborazione di una concezione della storia
formulata nel primo Ottocento (quale quella hegeliana), e che d'altra parte non
costituisca un semplice elemento di una costruzione filosofica fondata su
presupposti eterogenei. Con ciò non si vuol dire affatto che esso esaurisca il
panorama dello storicismo nella filosofia contemporanea, in cui rientrano a
buon diritto anche le altre forme a cui si è accennato; si vuol piuttosto
affermare che è la sola forma di storicismo che possegga una sua
caratterizzazione autonoma rispetto ad altri indirizzi filosofici, che cioè sia
sorto fin dall’inizio come un movimento indipendente. Anche se lo storicismo
tedesco appare legato, soprattutto nella sua fase iniziale di sviluppo, con il
neocriticismo sviluppatosi — a partire dal 1860 — sulla base del programma di «
ritorno a Kant» avanzato da Kuno Fischer, da Otto Liebmann e da Hermann von
Helmbholtz, il suo rapporto con questo è un rapporto non tanto di derivazione o
di dipendenza, quanto di differenziazione, che comporta quindi un crescente
distacco dai presupposti e dall'impostazione gnoseologica del neocriticismo. E
in seguito, già a partire dal primo decennio di questo secolo, tale legame
appare come un'eredità del passato, che sopravvive soltanto in figure piuttosto
marginali del movimento storicistico (per esempio nel vecchio Rickert). Perciò
la scelta presentata in questo volume si limita ai principali esponenti dello
storicismo tedesco, lasciando da parte autori che trovano la loro collocazione
primaria in altri orientamenti della filosofia contemporanea. II. Lo storicismo
tedesco contemporaneo prende le mosse dal dibattito metodologico sulla
conoscenza storica, cioè dalla discussione sul carattere peculiare, sul metodo
e sull’oggetto delle discipline che studiano l’uomo e la realtà sociale nella
loro dimensione storica. Alla base di tale dibattito c'è chiaramente
un'esigenza critica in senso kantiano, vale a dire l'esigenza di determinare le
condizioni che rendono possibile la conoscenza e che ne garantiscono la
validità. Se quest’esigenza è comune pure al movimento neocriticistico nelle
sue varie manifestazioni, è invece caratteristico dello storicismo il proposito
di estendere l’ìmbito dell’indagine critica a un campo del sapere che era
rimasto estraneo sia alla considerazione di Kant sia agli interessi propri del
neocriticismo, Agli occhi di Dilthey, ma anche di Windelband o di Rickert o di
Simmel, il limite della critica kantiana consiste nel fatto che essa si
riferisca esclusivamente alle scienze naturali, alla conoscenza
fisico-matematica nella sistemazione datane da Newton, senza rendersi ancora
conto che un analogo problema di fondazione critica si pone pure per la
conoscenza scientifica dell’uomo e del mondo umano, considerato nel suo
sviluppo storico. Questo limite trova certamente una base di giustificazione
nella situazione del sapere all’epoca di Kant, cioè in un’epoca in cui le
scienze storico-sociali facevano appena i primi passi. Ma a distanza di un
secolo — il primo (e unico) volume dell’Einleitung in die Geisteswissenschaften
di Dilthey compare nel 1883, poco più di cent'anni dopo la pubblicazione della
Kritik der reinen Vernunft — e cioè dopo i progressi decisivi che queste
discipline hanno compiuto nella prima metà dell’Ottocento, soprattutto ad opera
della scuola storica, esso risulta ormai privo di fondamento. Dilthey si trova
dinanzi a un edificio concettuale nuovo, che si è venuto in larga misura
costituendo dopo Kant, e che non trova posto nel quadro categoriale della «
critica della ragion pura »; perciò si propone di affiancare ad essa una
«critica della ragione storica », vale a dire un'indagine concernente le
condizioni di possibilità della conoscenza storica. Al problema kantiano della
possibilità della natura (e della conoscenza scientifica della natura) fa
riscontro il problema della possibilità della storia (e delle scienze
storico-sociali). Questa è l'ispirazione comune, pur nella diversità di
formulazioni e anche di presupposti, alla prima fase di sviluppo del movimento
storicistico. Su tale base Io storicismo prende posizione contemporaneamente
nei confronti del positivismo e del neocriticismo. Sorto in un periodo in cui
il positivismo veniva diffondendosi anche nella cultura tedesca, soprattutto
nell’àmbito degli studi psicologici e psico-sociologici — particolarmente
importante è, a questo proposito, l’opera di Wilhelm Wundt — esso accoglie
l’esigenza positivistica di un’analisi scientifica dei fenomeni del mondo
umano, e quindi il rifiuto di una considerazione metafisica dell’uomo e della
storia. Da ciò la sua diffidenza, se non l'ostilità, nei confronti della
concezione idealistica della storia; da ciò la polemica sotterranea ma non meno
accentuata verso Hegel e la visione hegeliana del processo storico come
realizzazione progressiva dello « spirito del mondo », che soltanto molto più
tardi cederà il posto a un tentativo di recupero dell'eredità dell’idealismo —
condotto da Dilthey sul terreno storiografico — attraverso lo studio degli
scritti giovanili di Hegel, e da Windelband piuttosto sul piano teorico,
attraverso la proclamazione della necessità di un «rinnovamento dell’hegelismo
» (come suona il titolo di un saggio del 1910). Ma lo storicismo respinge, al
tempo stesso, la riduzione dello spirito a natura che gli sembra implicita nel
positivismo classico; e soprattutto respinge il tentativo di ricondurre la
conoscenza dell’uomo e del mondo umano a un modello di spiegazione comune a
tutto il sapere, che comportava l’assimilazione delle scienze storico-sociali
al procedimento delle scienze naturali. Il distacco dal positivismo — nella
versione che ne avevano dato Auguste Comte nel Cours de philosophie positive o
John Stuart Mill nel System of Logic, Ratiocinative and Inductive — si esprime
proprio nella rivendicazione dell'autonomia metodologica della conoscenza
storica, nell’affermazione della sua irriducibilità alla conoscenza della
natura, e quindi nella tesi di una fondamentale dicotomia del sapere: scienze
della natura e scienze dello spirito in Dilthey, scienze nomotetiche e scienze
idiografiche in Windelband, conoscenza naturale e « scienze storiche della
cultura » in Rickert. Il modello milliano di spiegazione causale è valido,
secondo Dilthey, per le scienze della natura: così per Windelband e per Rickert
la conoscenza è, e dev'essere, orientata in vista della determinazione di leggi
generali organizzate in un sistema di leggi, a cui possano venir ricondotti i
fenomeni. Ma quel modello non è applicabile alla conoscenza dell’uomo e della
realtà, che ha per Dilthey un diverso fondamento e si serve di altre categorie;
e le leggi non trovano diritto di cittadinanza nelle scienze storico-sociali, o
per lo meno non possono costituirne il fine ultimo. Ma attraverso la critica al
positivismo si compiva anche un netto distacco dalle prospettive
neocriticistiche. Come nella Kritik der retnen Vernunft, così nelle opere dei
neocriticisti della fine dell’Ottocento — in particolare in quelle della scuola
di Marburg, rappresentata soprattutto da Hermann Cohen e da Paul Natorp — non
trovava posto la dicotomia del sapere che il nascente movimento storicistico
sosteneva: nella permanente identificazione della conoscenza con la conoscenza
fisico-matematica questo non poteva non scorgere una sostanziale incapacità di
adeguazione al mutamento di orizzonte scientifico intervenuto dopo Kant. Anche
in Windelband e in Rickert, che rimangono più legati all’impostazione
gnoseologica generale del neocriticismo, questa divergenza è esplicita: a un
secolo di distanza dalla critica kantiana il compito della teoria della
conoscenza è quello di estendere il proprio ambito alla conoscenza storica,
determinando anche per questa il fondamento che ne garantisce la validità. Ben
più nettamente, nell’Einleitung in die Geisteswissenschaften Dilthey si propone
di fare per le scienze storico-sociali ciò che Kant aveva fatto per le scienze
della natura; e, al pari di Kant, muove dal riconoscimento dell’esistenza di un
complesso di discipline organizzate, dinanzi alle quali non ha senso chiedersi
se siano valide oppure no, ma occorre invece andare alla ricerca del fondamento
della loro validità, cioè chiedersi come siano possibili e di quali princìpi si
avvalgono nell’organizzare concettualmente il dato empirico. È un decennio
dopo, in Die Probleme der Geschichtsphilosophie (1892), Simmel affronterà il
compito di determinare le categorie della conoscenza storica e i suoi rapporti
con le scienze sociali. Tuttavia l'allargamento o — se si vuole — il completamento
della teoria della conoscenza formulata da Kant costituisce soltanto un
aspetto, e forse neppure il più importante, del distacco dal neocriticismo.
L'altro aspetto, diversamente presente nei singoli autori, riguarda la stessa
impostazione gnoseologica del neocriticismo, vale a dire il tipo e i
presupposti dell'indagine critica. Come si è accennato, Windelband e Rickert
rimangono sostanzialmente fedeli a questa impostazione: nei primi saggi teorici
windelbandiani — a partire da Was ist Philosophie? e da Normen und Naturgesetze
(entrambi del 1882) e dagli altri scritti che compongono la prima edizione dei
Pràludien (apparsa l’anno successivo) — il distacco dal neocriticismo avviene
nella direzione di una teoria dei valori che attribuisce alla filosofia il
compito di individuare i princìpi a priori dell'attività umana in tutti i
campi, e quindi anche nell’ambito conoscitivo, e che li interpreta appunto come
« valori » forniti di una loro intrinseca validità indipendente
dall’esperienza, sulla base della distinzione tra essere e dover essere, tra la
necessità empirica (propria delle leggi naturali, oggetto della scienza) e la
validità ideale delle norme (di esclusiva pertinenza della filosofia). Il
soggetto del conoscere rimane quindi il soggetto trascendentale, capace di
pervenire a una verità incondizionata sulla base della conformità alle norme
proprie dell’attività conoscitiva; rimane il soggetto trascendentale sottratto
— come Rickert ribadisce in Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung
(1896-1902) — a ogni determinazione empirica. La conoscenza storica trova il
fondamento della propria validità, di una validità altrettanto universale e
necessaria di quella della conoscenza naturale, nella presenza di valori
incondizionati che costituiscono i princìpi della sua elaborazione concettuale.
Le cose stanno ben diversamente per Dilthey, e anche per Simmel. Entrambi
respingono infatti il postulato di un soggetto trascendentale per rivendicare
il carattere empirico dell'io che indaga la storia; perciò respingono anche
l’attribuzione alla conoscenza storica di una validità indipendente
dall'esperienza. Per Dilthey la conoscenza — quella delle scienze dello spirito
ancor più di quella delle scienze della natura — è inseparabile dal complesso
della vita umana, è cioè una funzione dell’esistenza concreta dell’uomo in
quanto individuo empirico e della situazione storico-culturale in cui egli
vive: di conseguenza la validità di ogni sapere è condizionata dalla struttura
complessiva della coscienza, dal suo radicarsi nell’esperienza vissuta. Perciò
negli anni ’go, e ancora nei suoi ultimi scritti, Dilthey sarà condotto ad
affrontare appunto l’analisi di questa struttura, nell'intento di mostrare come
da essa scaturisca il procedimento conoscitivo proprio delle scienze
storico-sociali e come in essa siano presenti le condizioni che ne fanno una
forma oggettivamente valida di sapere. Nello stesso periodo Simmel opera una
netta riduzione della conoscenza storica alla comprensione psicologica,
assumendo così un punto di vista radicalmente opposto a quello del
neocriticismo: dal momento che i fenomeni a cui si riferisce tale conoscenza
hanno la loro radice nella vita psichica degli individui, essa deve sempre
risalire da certi dati esterni, oggetto di osservazione empirica,
all’interiorità spirituale degli individui che in questi si manifesta. La
conoscenza storica si riassume quindi nell'atto psicologico dell’intendere,
cioè in un atto che comporta la proiezione di un processo psichico vissuto dal
soggetto conoscente a un'altra personalità, alla quale esso viene attribuito. E
le categorie di cui si avvale nell'organizzare concettualmente il dato empirico
non sono princìpi 4 priori, eterogenei a questo dato, ma INTRODUZIONE 19 sono
semplici presupposti psicologici, forniti di una validità puramente ipotetica:
anch’esse derivano, seppure in maniera indiretta, dall'esperienza. AI di là del
limite rappresentato dall’esclusiva considerazione delle scienze naturali,
l'impostazione gnoseologica del neocriticismo appariva perciò scarsamente
idonea al compito di fondazione della conoscenza storica, che il movimento
storicistico si proponeva. Il mutamento di àmbito dell’indagine critica
trascinava con sé anche un mutamento dei presupposti di quest’'indagine. E qui
entra in gioco un’altra componente, non meno essenziale, dello storicismo
tedesco: il richiamo all’opera della scuola storica, alla quale viene
attribuito — secondo le parole di Dilthey — il merito di una « definitiva
costituzione della scienza storica e, mediante questa, delle scienze dello
spirito ». Si può anzi rilevare una correlazione precisa tra tale richiamo e il
distacco dal neocriticismo. In Windelband e in Rickert, che accolgono
l'impostazione gnoseologica del neocriticismo, l'eredità della scuola storica è
sostanzialmente assente: anche quando, nel primo decennio del Novecento, essi
cercheranno nelpassato le premesse di una concezione della storia coerente con
la teoria dei valori, queste saranno rintracciate piuttosto nell’orientamento
storico dell’idealismo post-kantiano, nella visione storica della realtà
presente nei successori di Kant e particolarmente in Hegel. In Dilthey, invece,
l’abbandono dei presupposti neocriticistici si accompagna alla consapevole
recezione dei risultati e della stessa impostazione di ricerca della scuola
storica. Tra questa e il programma di una «critica della ragione storica » non
esiste, per Dilthey, una soluzione di continuità: lo storicismo accoglie il
lavoro compiuto dalla scuola storica e il suo edificio concettuale per
indagarne criticamente le condizioni di possibilità, in maniera analoga a
quella in cui Kant si era rifatto alla sistemazione newtoniana. Dilthey compie
così una scelta esplicita tra le due grandi direzioni di sviluppo della
concezione della storia che si possono individuare nella cultura tedesca della
prima metà del secolo — quella rappresentata dall’idealismo post-kantiano, che
era culminata nella filosofia della storia di Hegel, e quella rappresentata
dalla scuola storica, che trova il suo approdo nella Weltgeschichte di Leopold
von Ranke; ed è una scelta in favore della seconda, cioè opposta alla scelta di
Windelband e di Rickert. Tuttavia il richiamo all'opera della scuola storica
non va disgiunto da uno sforzo diretto a metterne tra parentesi i presupposti
più tipicamente romantici. Nello stesso modo in cui recupererà in seguito il
concetto hegeliano di spirito oggettivo, ma interpretandolo come il prodotto
dell’oggettivazione della vita, cioè come il complesso delle manifestazioni
dell’attività umana nel mondo sensibile, fin dagli scritti precedenti
all’Einleitung in die Geisteswissenschaften Dilthey lascia cadere la nozione di
« spirito del popolo » di cui Savigny e altri esponenti della scuola storica si
erano serviti per indicare il principio creativo unitario della vita di un
popolo, considerata nel suo sviluppo storico. E anche l’individualità di ogni
epoca storica, lungi dall’esprimere — come per Ranke — il suo rapporto diretto
con Dio, verrà a designare, nella fase conclusiva del pensiero diltheyano, il
suo carattere di autocentralità, vale a dire l'orizzonte entro il quale si
collocano tutte le manifestazioni culturali, politiche, sociali di un’epoca,
derivando da esso il loro significato specifico. Polemica contro il positivismo
e contro il « riduzionismo » metodologico implicito nell’assunzione di un
modello unitario di spiegazione dei fenomeni; distacco dal neocriticismo e
dalla sua stessa impostazione gnoseologica; richiamo all’opera della scuola
storica, ma contemporaneo abbandono dei suoi presupposti romantici — queste
sono le coordinate del movimento storicistico nella sua prima fase di sviluppo.
E in relazione ad esse si determina la posizione che i principali esponenti
dello storicismo assumono nel tentativo di pervenire a una fondazione critica
della conoscenza storica. La stessa polemica tra Dilthey e Windelband, che ha
inizio nel 1894, dev’essere collocata su questo sfondo. La rivendicazione
dell’autonomia della conoscenza storica si configura, in Dilthey, nella forma
di una distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito. Fin dal
1875, nel saggio Uber das Studium der Geschichte der Wissenschaften vom
Menschen, der Gesellschaft und dem Staat, Dilthey aveva sostenuto il carattere
peculiare di queste discipline e l’inapplicabilità al loro sviluppo della legge
di progresso scientifico enunciata da Comte nel Cours de philosophie positive.
Da tale punto di vista le scienze dello spirito costituiscono una totalità
caratterizzata — in contrapposizione alle scienze della natura — dall’appartenenza
del soggetto conoscente allo stesso mondo, cioè al mondo umano, che è oggetto
della loro indagine. La distinzione tra scienze della natura e scienze dello
spirito è quindi fondata, in ultima analisi, su un diverso rapporto del
soggetINTRODUZIONE 21 to conoscente con il loro oggetto: un rapporto di
estraneità nel primo caso, un rapporto dall’interno — e quindi di fondamentale
identità — nel secondo caso. Da questa differenza derivano le varie antitesi
mediante le quali Dilthey ha cercato, nell’Einleitung in die
Geisteswissenschaften, di definire la fisionomia rispettiva delle scienze della
natura e delle scienze dello spirito. Dal punto di vista dell’oggetto, le prime
studiano una realtà esterna all’uomo, mentre le seconde si riferiscono al mondo
umano considerato nella sua dimensione storica. Dal punto di vista della «
fonte » da cui proviene il dato empirico, le prime muovono dall’esperienza
esterna, cioè dall’osservazione sensibile, mentre le seconde si radicano
nell’esperienza vissuta che l’uomo ha di sé, della propria vita interiore e dei
propri rapporti con gli altri. Dal punto di vista del procedimento, le prime
tendono a fornire una spiegazione causale dei fenomeni, mentre le seconde si
propongono di «intenderli », avvalendosi di categorie eterogenee a quelle della
conoscenza naturale. Così caratterizzato, l’edificio delle scienze dello
spirito si presenta come un complesso di discipline che abbracciano lo studio
dell’individuo al pari di quello della società, l’analisi delle strutture del
mondo umano (sistemi di cultura e sistemi di organizzazione esterna della
società) al pari dell’analisi del suo sviluppo storico, cioè delle sue varie
epoche. « Universale » e « particolare », studio comparativo delle uniformità
presenti nella struttura psichica o nella struttura del mondo umano e studio
delle sue manifestazioni singole, considerate nella loro individualità,
costituiscono perciò i due scopi conoscitivi, tra loro inscindibili, delle
scienze dello spirito. Proprio contro questa conclusione si rivolge la polemica
di Wildelband, allorché egli affronta, undici anni dopo — nel saggio Geschichte
und Naturwissenschaft (1894) — il problema della conoscenza storica. Anche
Windelband intende garantire l’autonomia della conoscenza storica rispetto alla
scienza naturale, ma il criterio di distinzione tra di esse viene cercato sul
terreno puramente metolologico, vale a dire nella diversità del loro
orientamento. Da un lato vi sono scienze che mirano alla costruzione di leggi
generali (le scienze nomotetiche), dall’altro vi sono invece scienze che mirano
alla determinazione della fisionomia di un fenomeno nella sua individualità (le
scienze idiografiche). Le prime costituiscono, nel loro insieme, la conoscenza
naturale; le seconde costituiscono la conoscenza storica. Una distinzione
siffatta risulta perciò indifferen22 INTRODUZIONE te al carattere « naturale »
o « spirituale » dei fenomeni studiati, su cui aveva insistito Dilthey; anzi,
la distinzione diltheyana tra scienze della natura e scienze dello spirito non
poteva non apparire, agli occhi di Windelband, come l’eredità di un’antitesi
metafisica. Le scienze naturali sono tali non già in quanto studino fenomeni
ontologicamente distinti da quelli spirituali, ma in quanto sono orientate
verso la conoscenza di rapporti generali, esprimibili sotto forma di leggi; e
la conoscenza storica si differenzia da esse in quanto cerca in ogni fenomeno
ciò che gli è proprio, vale a dire la sua individualità. Quando Windelband
criticava il criterio di distinzione formulato da Dilthey, questi era ormai
impegnato in uno sforzo di approfondimento della posizione dell’Einleitung in
die Geisteswissenschaften. In un saggio apparso nello stesso anno, cioè nelle
Ideen dider cine beschreibende und zergliedernde Psychologie (1894), egli
muoveva dal rapporto tra scienze dello spirito ed esperienza vissuta per
affrontare l’analisi della struttura della vita psichica: se il compito di
queste discipline è un compito non già di spiegazione, ma di comprensione dei
fenomeni, e se la comprensione riposa sulla conoscenza che l’uomo ha di sé,
ossia sull’introspezione, allora lo studio di tale struttura assume
un'importanza centrale per la fondazione delle scienze dello spirito. L'analisi
della struttura della vita psichica, condotta dalla psicologia, viene perciò a
coincidere con l’indagine critica delle condizioni di possibilità delle scienze
dello spirito. Dilthey perviene così — in significativa consonanza con le tesi
espresse due anni prima da Simmel — a privilegiare la psicologia come scienza
«fondamentale », facendone la base e il punto di partenza di ogni conoscenza
dell’uomo e del mondo umano. Ma la psicologia capace di assolvere questa
funzione non è la psicologia associazionistica della tradizione herbartiana,
diffusa nella cultura tedesca di fine Ottocento, che Dilthey respinge in quanto
« esplicativa e costruttiva»: è una nuova psicologia « descrittiva e analitica
» che deve porre in luce la struttura della vita psichica, analizzarne i
diversi elementi e i loro rapporti, senza pretendere di offrirne una
spiegazione che avrebbe inevitabilmente carattere naturalistico. L'attribuzione
alla psicologia di un compito di fondazione critica era esposta alle obiezioni
di Windelband in misura ancora maggiore di quanto non lo fossero le formulazioni
dell’Einleitung in die Geisteswissenschaften. Di ciò Dilthey era consapevole: e
difatti egli abbandonerà ben presto tale strada, per affrontare direttamente la
polemica con Wildelband nei Beitràge zum Studium der Individualitit (1895-96).
Nel respingere la distinzione windelbandiana tra scienze nomotetiche e scienze
idiografiche Dilthey è condotto non soltanto a lasciar cadere la pretesa di
assegnare alle scienze dello spirito un fondamento psicologico, ma anche ad
approfondire l'analisi del loro procedimento di ricerca. Se nell’Einlestung in
die Geisteswissenschaften uniformità e individualità rappresentavano due
aspetti distinti della struttura del mondo umano, ai quali corrispondevano due
scopi conoscitivi diversi delle scienze dello spirito, ora il secondo termine
acquista un’importanza preminente. Il problema centrale dell'analisi
metodologica diltheyana diventa quello del sorgere dell’individuazione sulla
base dell’uniformità, vale a dire del configurarsi in forma singolare di
fenomeni che pur presentano caratteristiche analoghe. Dilthey lo risolve
inserendo tra uniformità e individuazione un termine medio, il «tipo», che
costituisce al tempo stesso l’elemento comune a una molteplicità di fenomeni e
la loro norma intrinseca. L’uniformità deriva dal legame con la realtà
naturale, con il mondo fisico e biologico che condiziona il sorgere dei
fenomeni spirituali; sulla sua base si realizza l'individuazione, resa
possibile da un insieme di forme fondamentali che sono appunto i vari tipi di
questi fenomeni. Il compito delle scienze dello spirito viene riposto non più
nello studio separato dell’uniformità e dell’individuazione, ma nello studio
del loro rapporto: ma in tal modo il tipo diventa il termine di riferimento del
processo dell’intendere, il quale cessa di identificarsi con l’introspezione —
o di essere riconducibile ad essa — per configurarsi soprattutto come
comprensione degli altri individui e delle loro manifestazioni di vita. Il
procedimento delle scienze dello spirito viene quindi a coincidere con la
comprensione, vale a dire con la «riproduzione» di stati interiori altrui, i
quali vengono « rivissuti » dall’individuo sulla base della propria esperienza.
Alla distinzione tra conoscenza delle leggi e conoscenza dell’individuale,
formulata da Windelband, Dilthey contrappone pertanto l’antitesi tra
spiegazione causale e comprensione; ma all’interno di questa impostazione
confluisce una nuova esigenza, quella di affermare il carattere individuale —
in ultima analisi — del mondo umano. Spetterà però a un allievo di Windelband,
Heinrich Rickert, concludere, per quanto provvisoriamente, questo dibattito in
Die 24 INTRODUZIONE Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung e nella
contemporanea, più breve trattazione di Kulturwissenschaft und Naturwissenschaft
(1899): due opere scolastiche che avranno però larga fortuna, e che saranno più
volte ripubblicate con modifiche e ampliamenti (di particolare rilievo saranno,
per i Grenzen, la seconda edizione del 1913 e la terza del ’21). Rickert
riprende la distinzione windelbandiana, cercando di ricondurla a un quadro
sistematico. Il procedimento della conoscenza storica e la sua autonomia
vengono « dedotti» attraverso un'analisi dei limiti propri della scienza
naturale, cioè mostrando che l’ideale di quest’ultima — l'ideale di
un’integrale spiegazione meccanica della realtà, da conseguire mediante la
costruzione di un sistema di leggi di sempre maggiore generalità — si lascia
sfuggire l’individualità di ogni fenomeno nella sua immediatezza empirica. Da
ciò la necessità di un’altra forma di conoscenza che si riferisca proprio a
questa individualità, e che risulta irriducibile alla scienza naturale e al suo
tipo di elaborazione concettuale del dato. In questa prospettiva la distinzione
tra le due forme di conoscenza — scienza naturale e conoscenza storica — rimane
fondata su una differenza di metodo: la medesima realtà può essere oggetto di
entrambe, indipendentemente dall’eventuale determinazione ontologica dei
fenomeni, ed anzi si presenta come natura quando è considerata in riferimento a
leggi generali e come storia quando è considerata in riferimento al
particolare. Ma l’individualità storica non coincide con l'immediatezza
empirica del dato; anch’essa è infatti il risultato di un procedimento di
elaborazione concettuale, sebbene differente da quello della scienza naturale.
Rickert indica la base di tale procedimento nella relazione ai valori, vale a
dire nel rapporto con valori forniti di validità incondizionata, i quali
presiedono alla scelta del dato empirico e alla costruzione un «individuo »
storico. L’individualità di un oggetto risulta così fondata sul suo riferimento
ai valori, che ne costituisce il significato. In tal modo la conoscenza storica
viene a differenziarsi dalla scienza naturale anche ‘per quanto riguarda il
campo di ricerca; e questo è identificato con la «cultura», cioè con una realtà
che abbraccia tutti i possibili fenomeni a cui viene attribuito un significato
in virtù della relazione a qualche valore. Il dibattito metodologico degli ultimi
due decenni dell’Ottocento mette perciò capo a un approfondimento di rilievo
delle posizioni iniziali degli studiosi che vi hanno preso parte. Dinanzi alla
critica INTRODUZIONE 25 di Windelband, Dilthey è condotto ad accentuare
l’importanza dell'individualità e a riformulare la distinzione tra scienze
della natura e scienze dello spirito nei termini di un’antitesi tra spiegazione
e comprensione, dalla quale prenderà le mosse l’elaborazione conclusiva del suo
pensiero, contenuta negli scritti del periodo 1905-1911. D'altra parte la
distinzione enunciata da Windelband nel °94 trova in Rickert uno sviluppo
sistematico nell’ambito della teoria filosofica dei valori; e in questo quadro
Rickert è costretto a riconoscere all’antitesi tra scienza naturale e conoscenza
storica anche una dimensione oggettiva, che il suo maestro aveva inteso
escludere. Anzi, la conoscenza storica risulta nient'altro che il complesso
delle « scienze della cultura », cioè il complesso delle discipline che hanno
per oggetto fenomeni forniti di significato, di un significato che può essere
stabilito — com’egli dirà nel 1913, richiamandosi esplicitamente a Dilthey —
mediante l’«intendere ». Erano così poste le premesse perché venisse messa in
disparte la questione se l’autonomia della conoscenza storica abbia un
fondamento oggettivo oppure una base puramente metodologica, mentre d’altra
parte nuovi problemi, suscitati dal costituirsi di nuove discipline e
dall'incontro con altri indirizzi di pensiero, si affacciavano ormai
all'orizzonte dello storicismo tedesco. III. Quando Dilthey scriveva
l’Einleitung in die Geisteswissenschaften, la sociologia era ancora una scienza
estranea all'ambiente culturale tedesco. In un capitolo di quell’opera egli
conduce una critica radicale dell’impostazione sociologica comtiana,
coinvolgendo la sociologia nella medesima condanna della filosofia della
storia. Filosofia della storia e sociologia rappresentano, ai suoi occhi, due
espressioni di un medesimo atteggiamento metafisico nei confronti del processo
storico, cioè di un atteggiamento che pretende di fare a meno del paziente
lavoro delle discipline particolari per attingere di colpo la totalità della
storia, per determinarne le leggi costitutive, le fasi e la direzione di
sviluppo. È vero che alla base della filosofia della storia c'è una prospettiva
teologico-religiosa, esplicita da Agostino a Bossuet e poi implicita da Vico e
da Lessing fino a Hegel, mentre la sociologia poggia su una concezione
naturalistica; ma anch'essa non è altro che una forma di metafisica, e
precisamen26 INTRODUZIONE te una «metafisica naturalistica della storia» che
presuppone la « subordinazione dei fenomeni spirituali all'insieme della
conoscenza della natura ». Contro la sociologia nella formulazione datane da
Comte — ma la critica vale, in fondo, per tutta la sociologia positivistica —
Dilthey fa valere la tesi che il processo storico può essere conosciuto
soltanto attraverso l’analisi dei suoi diversi aspetti, compiuta da una
pluralità di discipline particolari, non già attraverso la pretesa illusoria di
abbracciarlo nella sua totalità. Anche in seguito lo storicismo tedesco
manterrà la posizione critica verso la sociologia positivistica, enunciata da
Dilthey. Ma pochi anni dopo, nel 1887, un giovane studioso di formazione
filosofica, Ferdinand Ténnies, pubblicava un libro destinato a inaugurare un
tipo di sociologia svincolato dai presupposti del positivismo, dal titolo
Gemeinschaft und Gesellschaft. Esso si proponeva di mostrare l’esistenza di due
diverse forme di organizzazione, designate appunto la prima come « comunità » e
la seconda come « società », e fondate rispettivamente su rapporti di carattere
organico e su rapporti di carattere meccanico tra gli individui che ne fanno
parte. Attraverso l’analisi comparativa delle due forme di organizzazione
Tonnies perveniva a delineare due modelli differenti di relazioni tra gli
uomini e, al tempo stesso, due momenti storicamente successivi nello sviluppo
dell'umanità. Il modello della comunità è quello di una relazione organica tra
i membri del corpo sociale, la quale riposa su un’unità fondamentale delle
volontà individuali e si esprime dapprima nell’ambito della parentela, del
vicinato e dell’amicizia: è la forma originaria di organizzazione, che comporta
il possesso e il godimento in comune dei beni, nonché l’azione solidale del
gruppo nella difesa come nell’offesa. Il modello della società è invece quello
di una relazione meccanica, e quindi «arbitraria », la quale riposa
sull'incontro e sulla somma di volontà individuali separate e sulla
stipulazione di un contratto che le vincola all’osservanza di determinate
norme: è una forma derivata di organizzazione, che si esprime soprattutto nei
rapporti di scambio. La comunità è universalmente diffusa, e caratterizza in
modo esclusivo ogni tipo di associazione primitiva: è propria del villaggio, ma
si ritrova anche nella città antica e in quella medievale, organizzata sulla
base di un'economia corporativa. La società è, al contrario, la forma
specificamente capitalistica di associazione tra gli individui: essa è definita
dalla divisione del lavoro, dall’equivalenza tra lavoro e merce, dalla
proprietà privata, dal sorgere di un’economia monetaria, dallo sviluppo del
capitalismo e dall’allargamento del mercato fino a dimensioni mondiali. In quest’analisi
Tònnies proseguiva indubbiamente lo sforzo della sociologia positivistica di
individuare le caratteristiche strutturali della società industriale moderna,
distinguendola dalle precedenti forme di organizzazione sociale: sotto tale
profilo il suo rapporto con Comte (e in qualche misura anche con Spencer) è
esplicito, ancorché non privo di sostanziali riserve. Ma egli si richiamava
soprattutto ad altri due filoni culturali, dai quali desumeva gli elementi per
determinare la fisionomia rispettiva della comunità e della società. Nel
caratterizzare la comunità egli si rifaceva infatti — per il tramite di Otto
von Gierke e della sua opera Das deutsche Genossenschaftsrecht, apparsa tra il
1868 e il 1881 — alla scuola storica: la «comunità » tònnesiana non è altro, in
fondo, che la trasposizione in termini analitici dell'ideale romantico di una
società organica, fondata sull’unità dello « spirito del popolo ». Ma in tal
modo questo ideale veniva per così dire storicizzato, e le categorie di cui la
scuola storica si era servita per costruire la propria concezione della società
venivano utilizzate per definire una forma specifica di organizzazione sociale.
Nel caratterizzare la società Ténnies si rifaceva, assai più che alla
sociologia positivistica, per un verso a Hobbes e per l’altro verso a Marx. Dal
primo egli derivava la visione di un’organizzazione su base contrattuale, a cui
gli individui partecipano in quanto individui, mossi dalla duplice aspirazione
alla potenza e al guadagno; dal secondo traeva gli strumenti per individuare il
contenuto economico della società moderna e per identificarla quindi con il
capitalismo. Sul rapporto con la scuola storica — che tanta importanza riveste
in Dilthey — si innestava così il riferimento a Marx e alla sua interpretazione
della società moderna come società capitalistica. Bisognerà tuttavia attendere
l’ultimo decennio del secolo perché il materialismo storico, fin allora rimasto
un indirizzo « eterodosso» ed emarginato dagli ambienti accademici, entri nella
cultura tedesca. Nel 1894, annunciando la pubblicazione del terzo e ultimo
volume di Das Kapital (a cura di Engels), Werner Sombart richiamava gli
studiosi tedeschi a una diversa considerazione dell’opera di Marx, e insisteva
sulla necessità di tener conto dell’analisi che questa offriva del processo
capitalistico di produzione. E proprio sul28 INTRODUZIONE terreno
dell'interpretazione del capitalismo e della sua struttura economica doveva
compiersi l’incontro tra il pensiero marxistico e la storiografia economica ufficiale,
rappresentata soprattutto dalla suola di Gustav von Schmoller. In un paese che,
seppur parecchi decenni dopo l’Inghilterra e anche dopo altre nazioni
continentali come il Belgio c la Francia, aveva conosciuto un rapido e fiorente
sviluppo capitalistico — fino a diventare ormai una delle potenze dominatrici
del mercato mondiale — il problema delle origini del capitalismo e dei suoi
caratteri distintivi rispetto ad altre forme di economia, nonché dei rapporti
tra l'economia capitalistica e gli altri aspetti fondamentali della società
moderna, acquistava un rilievo preminente. Ed esso costituirà, all’inizio del
nuovo secolo, il terna centrale delle maggiori opere di Sombart, a partire da
Der moderne Kapitalismus (1902), e delle contemporanee ricerche di Max Weber
sul condizionamento reciproco tra religione e sviluppo economico. Nell'ultimo
decennio dell’Ottocento lo storicismo tedesco si trova perciò inserito in un
panorama culturale in rapida trasformazione. Esso non deve più fare i conti
soltanto con l’eredità della scuola storica e con l’edificio concettuale che
essa aveva costruito, ma ha davanti a sé una sociologia che sta sorgendo sulla
base di presupposti diversi da quelli della sociologia positivistica, ha
davanti a sé altre scienze sociali che si propongono di sviluppare un’analisi
empirica di particolari settori della società; e sullo sfondo comincia a
profilarsi l'ombra scomoda del materialismo storico. Nuovi problemi si
impongono quindi alla sua riflessione: non più quello dell’autonomia della
conoscenza storica e della sua distinzione dalle scienze della natura — che
appaiono ormai cosa acquisita — ma i problemi dei rapporti tra la sociologia e
le altre discipline, tra le scienze sociali e la ricerca storica, tra
l’interpretazione economica della storia e altre direzioni di analisi. Ad essi
rivolge la propria attenzione Georg Simmel, dal saggio Uber soziale
Differenzierung (1890) al volume Die Probleme der Geschichtsphilosophie (1892)
e alla contemporanea, ampia E:nleitung in die Moralwissenschaft (1892-93),
dalla Philosophie des Geldes (1900) alla Soziologie (1908). Simmel muove dal
presupposto del compito descrittivo delle scienze sociali. In esso si manifesta
il suo atteggiamento ambivalente verso il positivismo, dal quale accoglie il
postulato della possibilità di una descrizione empirica dei fenomeni sociali ma
di cui respinge, al tempo stesso, l’assunzione di una struttura legale della
INTRODUZIONE 209 realtà alla quale la conoscenza scientifica debba, in ultima
analisi, riferirsi. Con ciò Simmel non giunge a negare l’esistenza di una
struttura del genere, ma la considera inattingibile alla conoscenza, e quindi
irrilevante. Le leggi dei fenomeni sociali — questa tesi è formulata fin dal
1890 — sono leggi non macroscopiche ma microscopiche, e regolano non già il
comportamento e il processo evolutivo delle varie forme di associazione e di
organizzazione, bensì i rapporti tra gli individui che ne costituiscono gli
elementi ultimi. Non esistono quindi o, se anche esistono, non si possono
determinare — il che è la medesima cosa — leggi di sviluppo della società in
quanto tale, considerata nella sua totalità: al massimo, esistono leggi
psicologiche a cui si conforma l’azione degli individui. All’antitesi
diltheyana tra spiegazione e comprensione Simmel sostituisce così la
distinzione tra un procedimento esplicativo, fondato su leggi generali, e un
procedimento rivolto alla descrizione dei fenomeni; e questo gli appare l’unico
legittimo nell’ambito delle scienze sociali come nella ricerca storica. Tuttavia
la descrizione non costituisce la semplice riproduzione di una realtà
oggettivamente sussistente: essa comporta un’elaborazione del dato empirico che
può avvenire solo sulla base di categorie. Queste rappresentano l’elemento
formale della conoscenza, distinto dal contenuto: la loro funzione è di
organizzare il dato, e quindi di determinare la direzione di ricerca delle
varie discipline. Ma l’apriorità delle categorie, la loro differenza rispetto
al contenuto della conoscenza, non significa affatto che esse siano forme
universali e necessarie dell’intelletto: al contrario, anch'esse derivano
dall'esperienza e sono diverse da una disciplina all’altra. Compito
dell'indagine critica è perciò quella di individuare tali categorie, di
stabilirne la funzione, di accertare il modo in cui operano nelle varie scienze
sociali, attraverso un’analisi del procedimento concreto € del campo di ricerca
di ogni disciplina. Simmel ha condotto quest'analisi non tanto in termini
generali, quanto in riferimento a problemi specifici; né è possibile
rintracciare nelle sue varie opere una linea coerente e unitaria di sviluppo.
In Die Probleme der Geschichtsphilosophie egli affronta l'esame dei rapporti
tra psicologia e ricerca storica, cercando di determinare i presupposti psicologici
sui quali poggia il procedimento di comprensione di quest’ultima, per giungere
infine alla negazione del carattere scientifico delle leggi storiche — a cui
viene riconosciuto un valore puramente ipotetico e anticipatorio — e al rifiuto
dei vari tentativi di scoprire un « senso » della storia scientificamente
valido. Nell’Einleitung in die Moralwissenschaft egli si propone di dimostrare
la possibilità di una conoscenza scientifica della vita morale e di
individuarne il campo di ricerca, ai confini tra psicologia, scienze sociali e
ricerca storica. Nella Philosophie des Geldes egli prende in considerazione un
concetto economico fondamentale, quello di denaro, per analizzare il processo
attraverso il quale il valore economico diventa un'entità misurabile e trova
quindi la propria unità di misura appunto nel denaro. Più tardi, nel 1908,
Simmel perverrà ad affrontare il problema dell'autonomia della sociologia nei
confronti delle altre scienze sociali, proponendone una concezione svincolata
sia dai presupposti positivistici sia dall’impostazione storico-tipologica
ch’essa aveva trovato nell’opera di Tònnies, La concezione simmeliana è fondata
sull’affermazione del carattere puramente formale della sociologia. Dal punto
di vista del contenuto non è possibile differenziare la sociologia dalle altre
scienze sociali: i fenomeni che esse studiano sono pur sempre i medesimi, e
sono riconducibili a processi psichici individuali. Ma la sociologia
rappresenta un nuovo tipo di considerazione di questi fenomeni, in quanto essa
li studia non già come fenomeni morali o economici o politici, e via dicendo,
bensì nei modi di relazione — in certa misura permanenti — tra gli individui,
da cui hanno origine i processi di « associazione ». La sociologia prescinde
dal contenuto dei fenomeni sociali, che sono sempre variabili, per limitarsi
all'analisi delle forme di associazione; essa è la « dottrina
dell’essere-società dell'umanità ». In altri termini, mentre le singole scienze
sociali studiano i fenomeni sociali in quanto qualificati nel loro contenuto,
la sociologia indaga i processi in cui i rapporti reciproci tra gli uomini
dànno luogo alle strutture della società. Il suo oggetto specifico consiste
perciò nelle forme di associazione, che costituiscono l’elemento formale
onnipresente nella vita sociale e che, pur essendo anch'esse sottoposte a un
mutamento e a una trasformazione, posseggono tuttavia un grado di permanenza
superiore al ritmo della vita individuale. Quando Simmel pubblicherà la
Soziologie, questa disciplina avrà ormai trovato una piena legittimazione nella
cultura tedesca; e lo stesso Dilthey — in contrasto soltanto apparente con la
posizione assunta nell’Einl/eitung in die Geisteswissenschaften — avrà parole
di apprezzamento per la prospettiva simmeliana. Nel corso degli INTRODUZIONE 3I
anni ’90 e nei primi anni del nuovo secolo la sociologia aveva cercato non
soltanto di definire teoricamente il proprio compito e i propri metodi, ma si
era impegnata in uno sforzo di analisi empirica di diversi aspetti della realtà
tedesca contemporanea, Molto tempo era trascorso da quando Heinrich von
Treitschke aveva sbrigativamente asserito che la conoscenza della società si
esaurisce nella scienza politica, in quanto ogni aspetto della vita sociale è
riconducibile allo stato: i problemi della struttura economico-sociale della
Germania post-bismarckiana richiedevano un altro tipo di considerazione, che
era appunto offerto dalla nuova scienza. In questo contesto si viene compiendo
la formazione di una delle più importanti personalità del movimento
storicistico, cioè di Max Weber. Partito da studi a cavallo tra storia del
diritto e storia economica, il giovane Weber prende ben presto parte a
un'inchiesta sulla situazione del lavoro agricolo in Germania, promossa dal «
Verein fir Sozialpolitik », analizzando — nel volume Die Verhaltnisse der
Landarbeiter im ostelbischen Deutschland (1892) — il processo di trasformazione
dell’agricoltura tedesca nelle regioni orientali e i problemi, anche politici,
che ne derivavano; in seguito altri aspetti dell’economia capitalistica
contemporanea attraggono la sua attenzione, finché nel ’97 una grave crisi
nervosa non lo costringe a interrompere per vari anni ogni attività. Ma già in
questo primo, intenso periodo di lavoro intellettuale viene a delinearsi il
posto centrale che, negli studi successivi di Weber, assumerà il problema del
capitalismo moderno e della sua individualità storica, cioè della sua
specificità rispetto alle altre forme di economia. Nel medesimo tempo
l’emergere di sempre più marcati interessi metodologici lo spinge a seguire da
vicino la discussione sul materialismo storico, che proprio verso la metà degli
anni ’go si estende dalla Germania verso altri paesi europei, e ad avvertire
l’esigenza di definire il procedimento delle scienze sociali. Così egli si
accosta alla problematica dello storicismo, al cui sviluppo offrirà poi un
contributo decisivo agli inizi del nuovo secolo. IV. Nel 1905, dopo quasi un
decennio dedicato prevalentemente all'analisi dei principali momenti di sviluppo
della cultura moderna, Dilthey riprendeva il progetto di una «critica della
ragione 32 INTRODUZIONE storica », formulato nell’Einleitung in die
Geisteswissenschaften. Egli si rendeva certamente conto — ne sono prova i
tentativi piuttosto disparati di prosecuzione, compiuti negli anni ’90 — di non
essere riuscito a realizzare quella fondazione delle scienze dello spirito che
si era proposto. Anzi, si rendeva anche conto che la soluzione prospettata nel
1883 rischiava di vanificare la validità oggettiva di tali discipline,
riducendole all’immediatezza dell’esperienza vissuta. Infatti, se le scienze
dello spirito hanno la propria base nell’esperienza vissuta che l’uomo ha di sé
e degli altri, e se la comprensione degli altri poggia sulla capacità di
«rivivere» gli stati interiori altrui — com'era asserito nei Beitràge zum
Studium der Individualitit — è chiaro che la validità della conoscenza storica
e delle discipline che la costituiscono rimane confinata al piano psicologico.
Per dare alle scienze dello spirito un fondamento conoscitivo adeguato era
necessario abbandonare questo piano, e garantire in qualche modo l’oggettività
dell’intendere, la partecipabilità dei suoi risultati. Ancora una volta il
punto di partenza era offerto dall'analisi della struttura della vita psichica,
alla quale sono dedicate in massima parte le tre Studien zur Grundlegung der
Geisteswissenschaften (1905-10). Ma in quest’analisi Dilthey non soggiace più,
come nelle Ideen tiber eine beschreibende und zergliedernde Psychologie, alla tentazione
di risolvere il compito di fondazione critica delle scienze dello spirito in
una descrizione psicologica del loro procedimento. Un’impostazione del genere
non poteva ormai non apparirgli inficiata di psicologismo, cioè di una
confusione arbitraria tra determinazione delle condizioni di validità del
conoscere e analisi delle sue condizioni psichiche; e proprio lo psicologismo
era stato sottoposto pochi anni prima a una critica spietata da parte di Edmund
Husserl nelle Logische Untersuchungen (1900-1901), l’opera che segna l'inizio
del movimento fenomenologico. Come aveva rilevato Husserl, la psicologia è una
scienza sperimentale, che non può avanzare alcuna pretesa di fondazione; anzi,
essa stessa richiede di esser fondata nella sua validità, Dilthey, che aveva
letto attentamente le Logische Untersuchungen, recepisce questa critica: se il
punto di partenza della fondazione delle scienze dello spirito consiste
nell’analisi della struttura della vita psichica, essa non è tuttavia
riducibile a quest’analisi. L'indagine critica concerne la validità delle
scienze dello spirito: al di là della descrizione delle varie operazioni
conoscitive, sulla cui base si costituiscono le singole discipline, si pone
appunto un altro problema, quello della fondazione del loro metodo e dei loro
risultati. In questo contesto anche l’esperienza vissuta viene in qualche modo
ridimensionata nella sua importanza. Certamente, ogni manifestazione della vita
psichica ha la sua radice in essa, cioè nel corso ininterrotto dell’ErleZer, nella
successione di stati interiori da cui questo è formato. Ma l’Erleben possiede
una sua struttura, rappresentata dalla relazione tra atto e contenuto; e dai
diversi modi di questa relazione sorgono le varie forme di atteggiamento della
vita psichica, i suoi «sistemi» — cioè l'apprendimento oggettivo, il sentimento
e la volontà. La conoscenza coincide appunto col primo di questi sistemi, nel
quale è presente una tendenza verso l’oggetto, verso un oggetto concepito — e
qui è evidente la suggestione di Husserl — come « parzialmente trascendente »
rispetto all’esperienza vissuta. Perciò essa si sviluppa su un piano ulteriore
rispetto all’Erleben: su questo piano sorgono le operazioni comuni a ogni
specie di apprendimento oggettivo, da quelle elementari (come la comparazione,
la distinzione, la relazione) a quelle proprie del pensiero discorsivo (come la
riproduzione memorativa di uno stato passato, il rapporto tra espressione e ciò
che è espresso, il giudizio, il concetto, il sillogismo), e si compie altresì la
differenziazione tra i metodi delle varie discipline, in particolare tra
scienze della natura e scienze dello spirito. In tale prospettiva Dilthey
affronta, nell’ultima delle Studier zur Grundlegung der Geisteswissenschaften
e, più ampiamente, in Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den
Geisteswissenschaften (1910), il duplice problema della delimitazione delle
scienze dello spirito e della loro fondazione critica, Esso viene impostato
individuando il fondamento di queste discipline non più nell’esperienza
vissuta, ma nel nesso tra esperienza vissuta, espressione e intendere — comune
sia all’introspezione sia alla comprensione storica, vale a dire sia alla
conoscenza di sé sia alla conoscenza degli altri. Ogni elemento del mondo umano
è infatti, per Dilthey, l’espressione di un'esperienza vissuta, l’espressione
della vita di un individuo. Ma questa espressione, la quale comporta la
realizzazione dell’esperienza vissuta all’esterno, in forme sensibili, è una
realtà oggettiva e osservabile: a questa realtà, non alla vita psichica nella
sua immediatezza, si rivolge il processo dell'intendere. L’intendere non si
riduce 3. STORICISMO TEDESCO. 34 INTRODUZIONE quindi a un atto di «penetrazione
simpatetica », al rivivere un certo stato interiore proprio o di un altro
individuo; tanto meno si riduce all’introspezione, poiché — come Dilthey
afferma esplicitamente — «l’uomo si conosce soltanto nella storia, mai mediante
l’introspezione ». Tuttavia intendere un elemento della realtà spirituale vuol
dire pur sempre riportarlo all’esperienza vissuta da cui è scaturito, ossia
considerarlo come espressione della vita: l’intendere non è altro che «un
ritrovamento dell’io nel tu», la scoperta, in tutte le manifestazioni storiche,
della vita psichica dalla quale procedono. Il nesso tra esperienza vissuta,
espressione e intendere viene quindi a configurarsi come un nesso circolare:
come l’espressione deriva dall’esperienza vissuta e l’intendere si riferisce
all’espressione, così l’intendere deve anche risalire — per il tramite dell’espressione
— all’esperienza vissuta. Essendo fondate su tale nesso, le scienze dello
spirito risultano caratterizzate da un «riferimento retrospettivo»
all’esperienza vissuta. Come già nell’Ein/eitung in die Geisteswissenschaften,
così anche nell'ultima fase del pensiero diltheyano esse poggiano dunque sul
presupposto di un’identità fondamentale tra soggetto e oggetto, e la loro
possibilità deriva appunto dal fatto che «la vita coglie qui la vita». La loro
certezza non è più immediata ma mediata, in quanto trova una garanzia nel
rapporto tra esperienza vissuta, espressione e intendere; tuttavia anche questa
garanzia trae origine, in ultima analisi, dall’appartenenza dell’uomo allo
stesso mondo studiato dalle scienze dello spirito, vale a dire dalla struttura
dell’uomo come essere storico. Perciò le categorie della ragione storica, i
modi di apprendimento del mondo umano, coincidono con le forme strutturali di
tale mondo: esse ne costituiscono la semplice traduzione concettuale. Dilthey
rimaneva così legato, anche nell’ultima fase del suo pensiero, all’eredità
metodologica della scuola storica. L’insistenza sull’esperienza vissuta come
radice di tutta la vita psichica, sul costante « riferimento retrospettivo » ad
essa delle scienze dello spirito, e nel medesimo tempo il privilegiamento della
vita considerata come la dimensione fondamentale del mondo umano — che ha
fornito lo spunto a un’interpretazione metafisica della filosofia di Dilthey,
senza dubbio arbitraria ma tuttavia sintomatica — ne sono una chiara
dimostrazione. Non del tutto a torto Husserl estendeva allo storicismo
diltheyano, nel saggio Philosophie als strenge Wissenschaft (1910), la critica
rivolta allo psicologismo. La « costruzione INTRODUZIONE 35 del mondo storico »
delineata negli scritti del periodo 1905-11 rimane sempre in un difficile,
precario equilibrio tra lo sforzo di svincolarsi dal piano dell’immediatezza,
dalla tendenziale riduzione della conoscenza storica all’esperienza vissuta, e
il permanente legame con la scuola storica e con i suoi presupposti
metodologici. Ma nei medesimi anni in cui il vecchio Dilthey esponeva
all'Accademia delle Scienze di Berlino i risultati conclusivi della sua analisi
delle scienze dello spirito, quei presupposti subivano una critica radicale e
definitiva da parte di Max Weber — di trent'anni più giovane — sulle colonne
prima dello « Schmollers Jahrbuch » e poi del rinnovato « Archiv fir
Sozialwissenschaft und Sozialpolitik ». Se per Dilthey la conoscenza storica
coincideva pur sempre con l’edificio concettuale della scuola storica, per
Weber s’identificava ormai con un complesso di discipline che si erano
costituite — la sociologia in primo luogo, ma anche la scienza economica nella
versione marginalistica — distaccandosi da tale edificio e respingendone sia
l’impostazione generale sia la pretesa di onnicomprensività. A queste
discipline, al loro procedimento concreto e ai loro rapporti si riferisce
l’analisi metodologica di Weber, che non a caso prende le mosse dalla polemica
contro la scuola storica di economia. Quando Weber ritorna agli studi nel 1901,
il suo interesse è attratto soprattutto dal problema — largamente dibattuto in
quel periodo — del metodo della scienza economica; e a questo è dedicato il suo
primo saggio metodologico, Roscher und Knies und die logischen Probleme der
historischen Nationalbkonomie (1903-06). Da circa mezzo secolo la scuola
storica dominava gli studi di economia negli ambienti accademici tedeschi: essa
si proponeva, in opposizione all'economia classica di Smith o di Ricardo, di
indagare i fenomeni economici nel loro sviluppo, come parte integrante della
totalità della vita di un popolo. Ciò facendo Roscher, Hildebrand, Knies
avevano in realtà trasferito all'ambito economico l’impostazione organicistica
della scuola storica, la visione del processo storico come prodotto di uno «
spirito del popolo » che garantisce, in ogni momento di sviluppo, la
connessione dei diversi aspetti della realtà sociale. Questa impostazione era
stata criticata fin dal 1883 da Karl Menger nelle Untersuchungen ùiber die
Methode der Sozialwissenschaften und der politischen Oekonomie insbesondere,
un’opera che aveva dato inizio a una celebre disputa. Weber riprende le
obiezioni di Menger, respingendo la pretesa di determinare 36 INTRODUZIONE
leggi di sviluppo economico, cioè tendenze evolutive dei fenomeni economici
fornite di significato legale. Ma la sua critica si estende subito all’intera
eredità metodologica della scuola storica, all’edificio concettuale che essa
aveva costruito. E a tal fine egli si richiama a un’altra opera apparsa da
poco, ai Grenzen di Rickert, accogliendo la distinzione che egli aveva
formulato tra scienze naturali e scienze della cultura, Rickert gli offriva
infatti gli strumenti per condurre una duplice polemica: da un lato contro
l’oggettivismo storico, cioè contro la dottrina che ripone il fondamento
dell’autonomia della conoscenza storica in una determinazione oggettiva del
campo di ricerca, cioè in una presunta specificità ontologica dei fenomeni
storici, dall’altro contro l’intuizionismo storico, cioè contro la dottrina che
cerca tale fondamento in qualche forma di comprensione intesa come intuizione
immediata. Se Dilthey non è nominato, cadono invece sotto i colpi della
polemica di Weber autori come Wundt, Miinsterberg, Lipps, come il Simmel dei
Probleme der Geschichtsphilosophie e il Croce dell’Estetica. Il richiamo a
Rickert aveva però anche una portata positiva. Accogliendo un criterio
puramente metodologico di distinzione tra scienze naturali e scienze
storico-sociali Weber lasciava da parte l’antitesi — di origine diltheyana —
tra spiegazione e comprensione, e poteva rivendicare anche alla conoscenza
storica un compito di spiegazione causale. Soltanto che questa assumeva una
connotazione particolare. Nelle scienze naturali, infatti, la spiegazione
consiste nel riportare un fenomeno a leggi generali, di cui esso costituisce un
semplice caso particolare: tra l'avvenimento da spiegare e le leggi vi è un
rapporto di « sussunzione ». Nelle scienze storico-sociali la spiegazione
riveste invece un carattere individuale: essa è rivolta alla determinazione del
rapporto causale specifico che intercorre tra due o più fenomeni individuali,
ossia tra momenti successivi di uno stesso processo individuale di sviluppo.
Sulla strada indicata da Rickert era quindi possibile attribuire un compito
esplicativo anche alle scienze storico-sociali, ma asserirne al tempo stesso la
diversità da quello delle scienze naturali. La metodologia storiografica di
origine romantica e — al pari di essa — anche il positivismo avevano
identificato la causalità con la legalità; rifiutando tale identificazione
Weber affermava, al contrario, la specificità della spiegazione
causale-individuale e la sua compatibilità con il processo dell’intendere. Egli
perveniva così a recuperare un elemento centrale delINTRODUZIONE 37
l'impostazione diltheyana: la conoscenza storica deve, a differenza delle
scienze naturali, comprendere il proprio oggetto. Ma questa comprensione è
inseparabile dalla spiegazione causale. Più precisamente, la comprensione
consiste nella formulazione di ipotesi interpretative concernenti il « senso »
degli avvenimenti, che occorre poi verificare attraverso il ricorso alla
spiegazione causale. Si compie in tal modo l’incontro tra due orientamenti di
analisi metodologica, che nel corso degli anni ’90 erano apparsi
inconciliabili: da una parte la spiegazione causale viene svincolata dal
riferimento esclusivo a leggi generali, e si riconosce la possibilità di un
tipo di spiegazione proprio della conoscenza storica, orientato in senso
individualizzante; dall’altra l’intendere acquista una propria autonomia
metodologica nei confronti dell'esperienza vissuta, e il suo procedimento viene
ricondotto a regole oggettive. Su questa base Weber affronta, nel saggio Uber
die « Objektivitàt» sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntis
(1904) e nelle Kritische Studien auf dem Gebiet der kulturwissenschaftlichen
Logik (1906), il problema dell’oggettività delle scienze storico-sociali — che
rimarrà centrale nella sua riflessione metodologica. Le condizioni di tale
oggettività vengono determinate per un verso nell’esclusione dei giudizi di
valore, per l’altro verso nel ricorso alla spiegazione causale. Weber accoglie
infatti la distinzione rickertiana tra giudizio di valore e relazione ai
valori, per affermare l’estraneità del primo a ogni forma di conoscenza e per
individuare nella presenza o nell’assenza di quest’ultima la differenza
principale tra conoscenza storica e scienze naturali. Le scienze storico-sociali
poggiano su una relazione ai valori che designa il riferimento a certi criteri
di scelta del dato rilevante per la loro indagine, i quali presiedono quindi
alla sua elaborazione concettuale. Ma nell’analisi di questa relazione Weber si
distacca nettamente da Rickert, lasciando cadere il presupposto della validità
incondizionata dei valori. Egli muove, al contrario, dall’affermazione della
relatività dei criteri di scelta impiegati dalle scienze storico-sociali, e
perciò dalla constatazione del carattere inevitabilmente « soggettivo » delle
loro premesse, cioè del loro condizionamento culturale. Si pone così il
problema di stabilire come, date queste premesse soggettive, le scienze
storico-sociali possano tuttavia pervenire a risultati validi oggettivamente.
La garanzia di tale validità è rintracciata nel principio di causalità, che
vale — seppure in forma diversa — sia nelle 38 INTRODUZIONE scienze naturali
sia nelle scienze storico-sociali. Ma la relatività dei criteri di scelta
incide, in realtà, sullo stesso procedimento di spiegazione causale. Essa rende
impossibile in linea di principio, e non solamente di fatto, determinare tutti
gli elementi del processo causale da cui scaturisce un certo evento: ogni
spiegazione è sempre parziale, in quanto individua una particolare serie di
antecedenti e mai la totalità degli antecedenti di un fenomeno. Ciò implica che
il rapporto tra una certa condizione o un certo complesso di condizioni
(considerate come cause del fenomeno) e il fenomeno da spiegare non è esprimibile
in un giudizio di necessità, cioè in un giudizio il quale asserisca che, data
quella condizione o quel complesso di condizioni, ne deriva immancabilmente
come suo effetto quel fenomeno; esso deve venir formulato su una diversa base
categoriale, cioè in un giudizio di possibilità oggettiva, La spiegazione di un
avvenimento consiste perciò nella determinazione delle condizioni che lo hanno
reso oggettivamente possibile, nonché del grado di rilevanza di ognuna di
queste condizioni; tant'è vero che i giudizi di possibili tà oggettiva si
dispongono lungo una scala i cui estremi sono costituiti dalla « causazione
adeguata » e dalla « causazione accidentale », cioè dalla determinazione
rispettivamente dell’indispensabilità o della non-indispensabilità di una certa
condizione per il verificarsi del fenomeno da spiegare. Un oggetto storico,
considerato nella sua individualità, non è soltanto — come si è visto —
indeducibile da un sistema di leggi generali, ma non è neppure suscettibile di
una spiegazione esaustiva. Le scienze storico-sociali possono spiegarlo sempre
in maniera parziale, riportandolo a una o più serie particolari di condizioni;
e i giudizi che enunciano tale rapporto sono appunto giudizi di possibilità
oggettiva. Affermando l’orientamento individualizzante della spiegazione
storica Weber non ha però inteso escludere il riferimento a leggi generali, o
per lo meno a uniformità di comportamento dei fenomeni sociali : il sapere
nomologico è anzi presupposto indispensabile per la stessa formulazione di
giudizi di possibilità oggettiva. Ma esso ha una funzione puramente
strumentale, nel senso che quelle che Weber chiama «regole generali
dell’esperienza » intervengono nel procedimento esplicativo soltanto come
supporto per la costruzione di processi tipico-ideali con i quali comparare il
processo reale, e sono impiegate in vista della determinazione di un nesso
causale tra fenomeni individuali. La relazione tra generale e individuale si
INTRODUZIONE 39 presenta così in maniera inversa nelle scienze naturali e nelle
scienze storico-sociali. Nelle prime il fenomeno viene ridotto a caso
particolare di una legge, e anche il rapporto di causa ed effetto tra due
fenomeni viene considerato come una semplice specificazione di un rapporto
esprimibile in forma generale, cioè in forma di legge. Nelle seconde il
riferimento a regole empiriche generali serve invece come mezzo: il sapere
nomologico di cui la conoscenza storica si avvale è costituito del resto da
tipi ideali, cioè da concetti formati attraverso un processo di astrazione
dalla realtà empirica e di accentuazione unilaterale di alcuni suoi elementi.
Weber non si è però limitato a fornire una caratterizzazione del procedimento
esplicativo delle scienze storico-sociali in termini individualizzanti, sulla
linea tracciata da Rickert; gli ha anche dato una struttura categoriale diversa
da quello delle scienze naturali. Lo schema di spiegazione della conoscenza
storica, definito in termini di giudizi di possibilità oggettiva, si presenta
infatti come uno schema « condizionale ». Sotto questo profilo — che è
probabilmente il più importante — la teoria weberiana della spiegazione
rappresenta un radicale rifiuto del postulato di una struttura legale della
realtà sociale, che il positivismo ottocentesco aveva sovente associato al
modello di spiegazione su base deduttiva formulato da John Stuart Mill. Per
Weber la realtà sociale non è il dominio di leggi necessarie: in esse si
possono ritrovare soltanto uniformità di comportamento verificabili
empiricamente, la cui elaborazione concettuale dà luogo alle leggi che
costituiscono l'apparato teorico delle scienze storico-sociali. Perciò il
procedimento esplicativo di queste discipline poggia non già su relazioni
invariabili, bensì su possibilità oggettive; e i rapporti che esso pone in luce
sono rapporti di condizionamento i quali esprimono il grado maggiore o minore
di probabilità del verificarsi, sulla base di condizioni date, di un
determinato fenomeno. Mentre Dilthey concludeva una fase del dibattito
metodologico dello storicismo tedesco, Weber ne apriva contemporaneamente
un’altra. Ci troviamo qui di fronte a una svolta decisiva nello sviluppo del
movimento storicistico, a una svolta caratterizzata non soltanto dalla
consapevole rottura con l'eredità della scuola storica, ma anche dallo sforzo
di risolvere l'indagine critica nell’analisi metodologica del procedimento
concreto delle scienze storico-sociali e del loro tipo di spiegazione,
abbandonando le ambizioni di una loro « fondazione » filosofica. L'impostazione
weberiana avrà conseguenze durature, e di ampia portata, sullo sviluppo di
queste discipline, in primo luogo della sociologia. Del resto lo stesso Weber
simpegnerà in seguito, sulla linea tracciata nei suoi primi saggi metodologici,
nella definizione del compito e delle categorie della « sociologia comprendente
», indicando il suo oggetto specifico nelle uniformità dell'agire umano dotate
di senso e affermandone l’autonomia, anzi l’antitesi relativa, nei confronti
della ricerca storica. Su questa base egli giungerà a fornire, in quella che è
rimasta fino ad oggi l’opera più importante della sociologia novecentesca —
cioè in Wirtschaft und Gesellschaft, pubblicata postuma nel 1921 — una
sistemazione organica della teoria sociologica e dei principali campi
d’indagine della nuova scienza. V. La problematica dello storicismo tedesco non
si esaurisce tuttavia nel dibattito metodologico al quale abbiamo finora
limitato la nostra attenzione. Al contrario, alla discussione sul metodo della
conoscenza storica, sulla sua autonomia rispetto alle scienze naturali e sui
suoi rapporti con le scienze sociali si affianca, fin dall’inizio, la
consapevolezza che lo sviluppo di questo nuovo tipo di sapere non può non
incidere sull'immagine dell’uomo e della realtà, la consapevolezza che la
dimensione storica deve in qualche modo trovare diritto di cittadinanza in una
concezione filosofica generale. Molti anni prima dell’Etz/eitung in die
Geisteswissenschaften, in una lettera che risale al 1860, Dilthey aveva
individuato la caratteristica fondamentale di questa nuova concezione
filosofica nello sforzo di « comprendere l’uomo come un essere essenzialmente
storico, la cui esistenza si realizza soltanto nella comunità». E in base a
questo egli assumeva fin da allora una duplice posizione critica: da una parte
nei confronti di ogni metafisica la quale pretenda di cogliere il significato
della storia ancorandolo a un piano provvidenziale divino, dall’altra nei
confronti di qualsiasi tentativo di ricondurre il processo storico a un
principio assoluto ad esso immanente, Il rifiuto dell’interpretazione teologica
della storia diventerà esplicito nell’Einleitung in die Geisteswissenschaften,
in cui il sorgere delle scienze dello spirito viene collegato al processo di
liberazione del sapere dalla metafisica tradizionale; ma era già implicito
negli INTRODUZIONE 4Iscritti precedenti, nella stessa adesione del giovane
Dilthey ai presupposti metodologici della scuola storica. Ad esso si accompagna
però l'atteggiamento polemico verso Hegel, il rifiuto del postulato della
razionalità della storia e di una visione del processo storico come successione
razionalmente ordinata di incarnazioni dello « spirito del mondo ». Fin dal
1864, affrontando il problema dell’essenza della storia, Dilthey la
identificava con il puro e semplice « movimento storico », inteso come «il
lavorare di una generazione per la successiva, il concretarsi dell'individuo in
rapporti sociali ricchi di contenuto, per cui egli lavora ». Questa presa di
posizione anti-metafisica, sorretta dal richiamo alle prospettive
neocriticistiche, verrà poi chiaramente in luce nell’Einleitung in die
Geisteswissenschaften, in cui è asserita in modo esplicito la storicità
dell’individuo e del mondo umano nel suo complesso, e in cui viene compiuto il
tentativo di dare una definizione della storia che prescinda dal riferimento a
princìpi speculativi. La vita dell’uomo si risolve nel processo storico,
nell’instaurazione di rapporti con gli altri individui e nella costruzione dei
sistemi di cultura e dei sistemi di organizzazione esterna della società; e
ogni stato sociale è inserito in questo processo, per cui risulta « uno stato
storico ». La storicità viene in tale maniera assunta a dimensione costitutiva
non soltanto dell’uomo in quanto individuo, ma dello stesso mondo umano che è
oggetto delle scienze dello spirito. Dilthey ritornerà più tardi, nell’ultima
fase del suo pensiero, su queste implicazioni più generali della propria
filosofia, cercando di darne una sistemazione organica. Ma già prima esse erano
ben percepibili. Che lo storicismo avesse conseguenze di ampia portata — e
soprattutto conseguenze negative — sulla considerazione di tutti gli aspetti
della vita umana, che non soltanto richiedesse nuove prospettive di analisi ma
mettesse contemporaneamente in crisi credenze e sistemi tradizionali, appariva
chiaro già pochi anni dopo la pubblicazione dell’Einleitung in die
Geisteswissenschaften. Ed era quasi inevitabile che il primo terreno a venirne
investito dovesse essere quello religioso. La consapevolezza delle implicazioni
filosofiche dello storicismo poneva infatti in questione il postulato del
valore assoluto della fede cristiana e, insieme ad esso, la possibilità di una
teologia. Dalla coscienza di questa crisi prende le mosse la speculazione di
Ernst Troeltsch. Erede della teologia liberale, allievo di Albrecht Ritschl,
Troeltsch avverte il carattere antinomico del rapporto tra storia e religione:
se ogni forma di vita religiosa è storicamente condizionata, se può esser
compresa soltanto in relazione ai diversi aspetti di una certa cultura o di una
certa epoca, nessuna religione può aspirare a una validità incondizionata. E
quindi anche il Cristianesimo diventa una religione come le altre, ossia un
prodotto dello sviluppo storico, privo perciò di quel fondamento soprannaturale
che doveva distinguerlo dalle religioni non cristiane. In questa prospettiva
Troeltsch affronta — a partire dal saggio Christentum und Religionsgeschichte
(1897) — il problema della specificità e della validità del Cristianesimo. Di
questo problema Troeltsch ha dato soluzioni oscillanti e non sempre coerenti,
dapprima indicando nel Cristianesimo non già la religione assoluta ma la
religione più alta alla quale l’umanità sia pervenuta nel suo sviluppo storico,
e recuperando così un quadro storico-evolutivo che aveva respinto nella sua
polemica contro il tentativo di «conciliazione » tra storia e religione
compiuto dalla concezione romantica, poi andando in cerca di un «@ priori
proprio della vita religiosa che ne garantisca l’irriducibilità alle altre
forme di attività umana e affermando la presenza di valori assoluti all’interno
del processo storico. Pur nel variare delle soluzioni, l'orientamento del suo
pensiero rimane abbastanza determinato. Esso muove infatti dal riconoscimento
che, con il sorgere della coscienza storica moderna, anche la considerazione
della religione e quindi la costruzione di una teologia devono collocarsi sul
terreno della storia. Che cosa sia il Cristianesimo, quale sia la sua origine,
se sia giustificata la sua pretesa di validità universale, se abbia ancora
senso una teologia — tutte queste sono questioni da affrontare sulla base di
una prospettiva storica, facendo rientrare il Cristianesimo nell’ambito di una
storia generale della religione. Nel volume Die Absolutheit des Christentums
und die Religionsgeschichte (1902) Troeltsch lascia cadere il tentativo di
ricondurre tutte le religioni a un nucleo comune o a una linea unitaria di
sviluppo, per guardare invece al Cristianesimo come a un fenomeno storico individuale,
nel quale si realizza non già il possesso — impossibile in linea di principio —
ma il grado più elevato di partecipazione alla verità religiosa. Il
Cristianesimo è interpretato quindi come una religione storicamente
condizionata, da indagare nel suo sviluppo e nelle sue diverse manifestazioni:
qualsiasi fondazione della fede cristiana deve procedere ormai da questo
riconoscimento, senza di cui essa è destinata a INTRODUZIONE 43 naufragare di
fronte alla coscienza storica. Tuttavia la storia non costituisce, per
Troeltsch, una realtà autosufficiente e chiusa in se stessa: al contrario, può
riferirsi a valori assoluti, a una realtà trascendente che si colloca al di
fuori del processo storico e che è accessibile soltanto in maniera parziale e
in forme differenti. Troeltsch trova così nella teoria dei valori il punto di
partenza di una giustificazione della vita religiosa. Fin dal saggio Die
Selbstdindigkeit der Religion (1895) egli si era richiamato al neocriticismo;
cercando il fondamento della religione e della sua autonomia in un principio
trascendentale distinto da quelli che presiedono alla conoscenza o alla
moralità o all'arte: ma un fondamento del genere rimaneva puramente formale, e
non garantiva affatto la validità oggettiva delle credenze religiose, tanto
meno quella di una determinata forma storica di religione. Anche in seguito il
compito della filosofia della religione è additato nella determinazione della
possibilità della vita religiosa come sfera a sé stante dell’attività umana; ma
questa viene individuata non tanto nella struttura della vita psichica — come
farà Dilthey nei saggi dedicati alla teoria dell’intuizione del mondo e, in
particolare, nel breve saggio Das Wesen der Religion (1911) — quanto nella
relazione con valori trascendenti. In tal modo il rapporto tra coscienza
religiosa e valori si configura come un caso specifico di un rapporto più
generale, cioè del rapporto tra l’uomo nella sua esistenza storica e un mondo
al di là della storia, dal quale egli deve trarre i propri criteri normativi.
La posizione assunta da ’Troeltsch negli scritti di filosofia della religione
degli anni ’90 e dei primi anni del nuovo secolo era, per molti aspetti,
emblematica. Nell’intento di salvaguardare la vita religiosa dall’urto della
coscienza storica e dalle conseguenze relativizzanti che essa sembrava
comportare, Troeltsch iniziava un processo di recupero di prospettive
metafisiche all’insegna della teoria dei valori, che sarebbe stato ripreso con
maggior coerenza dall'ultimo Windelband e dal Rickert del dopoguerra (oltre che
da lui stesso, nei successivi scritti di filosofia della storia). Egli si
rendeva ben conto che il riconoscimento della storicità dell’uomo e del mondo
umano era un'acquisizione definitiva, e che per ritrovare nuove certezze occorreva
pur sempre muovere da tale base. Il tentativo idealistico di conciliare storia
e religione — comune a Schleiermacher e allo Hegel delle Vorlesungen tiber die
Philosophie der Religion — gli appariva una sostanziale mistificazione della
vita religiosa e della 44 INTRODUZIONE sua storia, arbitrariamente interpretata
come la manifestazione progressiva di un’ipotetica «essenza» della religione.
Agli occhi di Troeltsch la realtà storica era una realtà finita, distinta dal
mondo trascendente dei valori e in un rapporto problematico con questi; di
conseguenza, il divino gli si presentava come qualcosa di lontano, di
accessibile soltanto parzialmente e con fatica, in una dimensione diversa da
quella del sapere scientifico. La concezione romantica della storia, la
concezione del processo storico come sede di realizzazione di un piano
provvidenziale, era così respinta esplicitamente: tanto la filosofia hegeliana
della storia, che nella successione dei singoli «spiriti dei popoli» scorgeva
la marcia incessante dello « spirito del mondo », quanto la visione rankiana
che in ogni epoca ritrovava un rapporto immediato con la divinità,
appartenevano per lui a un passato ormai concluso. Il nuovo storicismo veniva
perciò a differenziarsi nettamente, nella sua concezione della storia, da
quello della prima metà del secolo XIX; e questa eterogeneità traspariva con
chiarezza dalla presa di posizione nei confronti di Hegel, Esso era così
destinato a incontrarsi — in un dialogo che non cesserà mai di essere più o
meno polemico — con il materialismo storico, il quale pure aveva preso le mosse
dalla crisi della filosofia idealistica della storia e dalla critica dei suoi
presupposti. Negli anni in cui l'emergere del problema del capitalismo moderno,
della sua origine e delle sue caratteristiche distintive costringeva la cultura
accademica tedesca a fare i conti con l’analisi marxiana (ed engelsiana) del
sistema capitalistico e del suo sviluppo, il materialismo storico si trovava da
parte sua impegnato in un difficile compito di revisione delle proprie
prospettive. Il crollo del capitalismo, che nel 1848 era potuto sembrare
imminente, si allontanava sempre più nel tempo, trasformandosi in un obiettivo
di lungo periodo; il sistema capitalistico si rivelava in grado di assorbire le
spinte del movimento operaio e di sopravvivere ai periodi di depressione
economica; la previsione di un progressivo accentuarsi della divisione della
società in due classi contrapposte appariva priva di fondamento. Lo stesso
Engels era costretto a riconoscere, nel 1895, la discrepanza tra teoria e
realtà, tra le aspettative rivoluzionarie e il consolidamento del capitalismo.
In questa situazione uno dei maggiori esponenti della socialdemocrazia tedesca,
Eduard Bernstein, avviava tra il 1896 e il 99 un processo di revisione dei
princìpi dottrinali del marxismo, i cui risultati — pubblicati dapprima sulla
rivista INTRODUZIONE 45 « Neue Zeit » — confluiranno in seguito nel volume Die
Voraussetzungen des Sozialismus und die Aufgaben der Sozialdemokratie (1889).
La polemica di Bernstein si rivolge contro le interpretazioni del materialismo
storico in chiave deterministica, contro la trasformazione della teoria
materialistica della storia in una dottrina della necessità storica,
esprimibile in presunte «leggi» di sviluppo. A tale polemica si accompagna lo
sforzo di sottrarre il materialismo storico al postulato della riconducibilità
di ogni fenomeno a cause (in ultima analisi) economiche, di cui gli altri
aspetti della vita sociale sarebbero semplici manifestazioni sovra-strutturali,
Contro la distinzione tra struttura economica e sovrastruttura Bernstein fa
valere infatti la tesi della molteplicità dei « fattori » del processo storico,
rivendicando quindi l’autonomia della sfera politica e soprattutto della sfera
ideologica rispetto ai processi economici. Ogni fenomeno dev'essere spiegato
come il risultato dell'incontro e della cooperazione di cause diverse, tra cui
quelle economiche rivestono certamente un’importanza essenziale, ma in nessun
modo esclusiva e determinante. Questa riformulazione del materialismo storico,
che tendeva chiaramente a presentarlo non più come una concezione generale ma
come una teoria scientifica della storia, era destinata ad avere larga
risonanza — fin dai primi anni del nuovo secolo — anche nell’ambito del
movimento storicistico. Certo non in Dilthey, concentrato nella realizzazione
del programma di una «critica della ragione storica », e neppure in Windelband
o in Rickert, che si proponevano di sviluppare una filosofia della storia sulla
base della teoria dei valori; ma piuttosto nei suoi esponenti più giovani, da
Max Weber allo stesso Troeltsch. E ancora una volta la religione diventava il
terreno principale di questa discussione, il terreno sul quale lo storicismo,
impegnato in un’interpretazione storica dei fenomeni religiosi, doveva però
evitare al tempo stesso la loro riduzione a processi puramente economici e
assicurarne in qualche modo l'autonomia. Fin dal 1904 Max Weber, ritornato al
lavoro dopo una parentesi di alcuni anni, affrontava il problema dell’origine
del capitalismo e dello «spirito capitalistico », e formulava la celebre tesi
della derivazione di quest’ultimo dalla ricerca calvinistica di una «conferma»
della salvezza individuale attraverso il successo conseguito nell’agire mondano,
in particolare nell’attività professionale. In questa prospettiva il rapporto
tra fenomeni economici e fenomeni religiosi risultava 46 INTRODUZIONE
rovesciato: lungi dal determinare lo sviluppo della religione, il capitalismo è
esso stesso condizionato all’origine — in uno dei suoi elementi costitutivi —
da un fenomeno religioso qual è l’etica calvinistica. Tuttavia Weber era ben
lontano da una concezione spiritualistica della storia, del tipo di quella
enunciata da Rudolf Stammler in Wirtschaft und Recht nach der materialistischen
Geschichtsauffassung (1896) — nei cui confronti egli assumerà anzi una
posizione aspramente critica in un saggio del 1907. Weber concepiva piuttosto
la relazione tra economia e religione (al pari di quella tra l’economia e qualsiasi
altra sfera della realtà sociale) come un nesso di condizionamento reciproco,
del quale si deve di volta in volta indagare la direzione e la portata.
Riconducendo l’origine non già del capitalismo ma di una sua particolare
componente, cioè dello spirito capitalistico, all’etica calvinistica, Weber
respingeva il materialismo storico come concezione generale della storia, ma
riconosceva la sua validità (e fecondità) in quanto principio euristico, in
quanto ipotesi interpretativa. In una sostanziale convergenza con Bernstein —
anche se muovendo da una posizione di critica al materialismo storico, non già
di revisione interna — egli rifiutava di ammettere un condizionamento univoco
dei processi storici, e quindi anche di quelli religiosi, da parte di una
presunta struttura economica della storia, e affermava l’impossibilità di
ricondurre qualsiasi fenomeno a cause solamente economiche; ma rivendicava
l’importanza di un’indagine diretta ad accertare il peso del condizionamento
economico sulle diverse sfere della vita sociale. L’unilateralità del
materialismo storico gli appariva nient’altro che un caso specifico della
unilateralità di ogni criterio di interpretazione: non la sua limitatezza, ma
la sua assolutizzazione è da respingere. E difatti nei successivi saggi
sull’etica economica delle religioni universali — che confluiranno nei
Gesammelte Aufsitze zur Religionssoziologie (1920) — Weber allargherà il
proprio ambito di considerazione, affrontando lo studio sia delle influenze che
la situazione economica e i rapporti di classe e di ceto esercitano sulla
formazione e sullo sviluppo delle dottrine religiose, sia del modo in cui
queste orientano l’attività economica di determinati gruppi sociali, il loro
atteggiamento tradizionalistico o razionalistico nei confronti del guadagno e
del lavoro professionale. In quei medesimi anni anche Troeltsch si accingeva a
un’analisi storica delle dottrine economico-sociali sorte sul terreno del
Cristiane INTRODUZIONE 47 simo. Lo separava da Weber non soltanto un’originaria
diversità di interessi, ma anche una differente valutazione della Riforma
protestante, che questi considerava un elemento decisivo per la formazione
dello spirito capitalistico e quindi della civiltà moderna, mentre Troeltsch vi
scorgeva piuttosto — nel volume Die Bedeutung des Protestantismus fiir die
Entstehung der modernen Welt (1906) — la continuazione di una cultura su base
teologica quale quella medievale. Ma la lunga consuetudine degli anni di
Heidelberg, dove Troeltsch insegnò dal 1894 al 1915, lo portò ad attenuare
questo giudizio e a riconoscere le possibilità di sviluppo in senso liberale e
democratico del Calvinismo, contrapposto al Luteranesimo conservatore. Così,
mentre Weber estendeva la propria analisi alle religioni della Cina e dell’India,
oltre che alla religiosità ebraica, Troeltsch dedicava alla sociologia del
Cristianesimo un’opera di ampio respiro, Die Soziallehren der christlichen
Kirchen und Gruppen (1908-12). Anch’egli si proponeva di indagare lo sviluppo
del Cristianesimo, dall’epoca primitiva al Cattolicesimo medievale e poi alla
Riforma, nei suoi mutevoli rapporti con la vita economica e con
l’organizzazione della società, ponendo in luce il trapasso dall’originario
atteggiamento di indifferenza rispetto al « mondo » a uno sforzo sistematico di
subordinarlo a fini religiosi. E in quest’impresa si trovava a dover fare i
conti con il materialismo storico, a rivendicare nei suoi confronti
quell’autonomia della religione che costituiva la preoccupazione dominante
degli scritti degli anni '90. Ma la posizione di Troeltsch veniva a divergere
in maniera significativa — al di là delle dichiarazioni di principio — da
quella di Weber, in quanto egli postulava l’esistenza di una causalità autonoma
della vita religiosa e concepiva così il condizionamento reciproco tra i vari
tipi di fenomeni storici come incontro di serie causali indipendenti. Se la
critica di Weber si collocava sullo stesso versante metodologico di Bernstein,
quella di 'Troeltsch era piuttosto assimilabile alla concezione spiritualistica
di uno Stammler, in quanto si richiamava a una definizione ontologica della
struttura del processo storico. Questa divergenza, ancora celata negli anni
fino al 1915, verrà chiaramente in luce più tardi, condizionando l’elaborazione
della filosofia della storia di Troeltsch e orientandola verso un esito assai
diverso da quello a cui era pervenuto Weber. 48 INTRODUZIONE VI. Allargando la
propria considerazione dal metodo della conoscenza storica alla struttura
oggettiva della realtà studiata dalle scienze storico-sociali, il movimento
storicistico si trovava impegnato nella critica delle concezioni della storia
prodotte dalla cultura filosofica della seconda metà del Settecento e della
prima metà dell’Ottocento, In tale maniera si compiva, da un lato attraverso il
rifiuto della visione del processo storico come manifestazione o realizzazione
di un principio assoluto, dall’altro attraverso la riduzione del materialismo
storico in termini metodologici, la dissoluzione della « storia universale ».
Il processo storico tendeva ad articolarsi in una molteplicità di processi
particolari, in una molteplicità di rapporti e di direzioni di sviluppo non
riconducibili a una matrice unitaria — sia essa il cammino dello « spirito del
mondo » o la presenza della divinità o anche soltanto l’azione determinante
della struttura economica. Non più la storia come totalità, ma la storicità
dell’uomo e del mondo umano nelle sue dimensioni concrete diventava il centro
di riferimento di una considerazione filosofica della storia. Il problema del
«senso» della storia, di un senso inerente al processo storico in quanto tale
ed esprimibile in una direzione di sviluppo o in un termine ultimo, lasciava
perciò posto alla ricerca del significato dei singoli avvenimenti, delle singole
epoche e dei loro rapporti reciproci. Questo mutamento di impostazione non
rivestiva soltanto un carattere negativo: al contrario, esso dava luogo a
un'analisi strutturale del mondo umano e della sua storicità, alla
determinazione dei modi concreti in cui questa permea la vita degli individui e
della società. Tale sforzo speculativo accomuna, al di là delle differenze,
autori come Dilthey o Simmel o lo stesso Weber, e costituisce — accanto al
dibattito sul metodo della conoscenza storica — il secondo nucleo problematico
dello storicismo tedesco.L'analisi strutturale dell’uomo e del mondo umano
viene condotta lungo tre direttrici principali. La prima è rappresentata da
Dilthey, il quale tende sempre più chiaramente — dopo l’Einleitung in die
Geisteswissenschaften — a trasformare la critica della ragione storica in una
filosofia dell’uomo come essere storico, riportando le categorie delle scienze
dello spirito alla struttura del mondo umano che costituisce il loro oggetto
complessivo. La seconda è rappresentata da Simmel che, dopo il 1910, compie il
trapasso dalla prospettiva relativistica formulata nel periodo precedente a una
metafisica di tipo immanentistico, la quale individua nel rapporto tra la «
vita » e le sue « forme » la struttura fondamentale dell’esistenza. La terza è
rappresentata da Weber, il quale muove dall’analisi della relazione ai valori
per definire su tale base l’esistenza dell’uomo, e con essa il significato da
un lato della scienza e dall’altro della politica. Le tre direttrici di analisi
si distinguono, già a prima vista, per il diverso atteggiamento che assumono
nei confronti del relativismo. Dilthey afferma la relatività di ogni fenomeno
storico e l'immanenza dei valori alla storia; ma il suo relativismo è enunciato
soprattutto in chiave negativa, e viene a coincidere con il riconoscimento
della finitudine dell’uomo e del mondo umano — in sostanza, esso non è altro
che il rifiuto di una concezione metafisica della storia la quale pretenda di
determinarne il senso attraverso il riferimento a qualche principio assoluto.
In Simmel lo storicismo viene invece identificato col relativismo, e la
conseguenza di ciò è che l’affermazione della relatività della vita si
trasforma nella sua assunzione a fondamento di ogni realtà: dal relativismo,
teorizzato in forma positiva, si sviluppa così una filosofia della vita di
stampo chiaramente romantico. Un esplicito atteggiamento anti-relativistico
caratterizza invece il pensiero di Weber: ai suoi occhi il relativismo poggia
su una teoria organicistica, che egli respinge per sostenere l’irriducibilità
dei valori al processo storico e per qualificare il rapporto dell’uomo con i
valori come una presa di posizione che comporta una scelta tra i diversi valori
e le diverse sfere di valori. Il riferimento ai valori perde quindi quella
funzione di garanzia della validità incondizionata della conoscenza e
dell’agire umano, che Windelband e Rickert gli avevano attribuito. Fin
dall’Einleitung in die Geisteswissenschaften Dilthey si è proposto di
determinare, sia pure in maniera sommaria, la struttura del mondo umano come
realtà storica. Questa struttura è caratterizzata dalla polarità tra
l'individuo e i «sistemi» costituiti in virtù delle relazioni che si instaurano
tra gli individui. L'individuo è il nucleo fondamentale, il Grundkòrper del
mondo umano, e quindi della storia. Ma l’individuo assume un’esistenza storica
soltanto nella misura in cui entra in rapporto con altri individui, cercando di
soddisfare i propri bisogni attraverso la divisione del lavoro e nel corso
delle generazioni. Da quest’azione reciproca, da queste relazioni che
acquistano una loro consistenza autonoma rispetto ai singoli uomini, sorgono
due tipi di sistemi, i sistemi di cultura e i sistemi di organizzazione esterna
della società. I sistemi di cultura — vale a dire l’arte, la religione, la
filosofia, la scienza e così via — nascono da una comunanza di scopi presenti
in una molteplicità di individui, che vi trovano la base della loro
cooperazione. I sistemi di organizzazione sociale — cioè le varie istituzioni,
dalla famiglia allo stato e alla chiesa — si reggono invece non soltanto su
interessi comuni, ma anche su rapporti di dominio e di subordinazione, e hanno
quindi sempre un carattere più o meno coercitivo. Gli uni e gli altri si
sviluppano nel corso temporale della vita, hanno cioè una dimensione storica:
anche se il grado della loro permanenza nel tempo è assai superiore a quello
dell’esistenza individuale, non per questo acquistano un’esistenza metastorica.
Questa struttura del mondo umano si riflette nell’edificio delle scienze dello
spirito, il quale comprende da un lato due discipline — la psicologia e
l’antropologia — che studiano in modo specifico l’individuo, dall’altro la
ricerca storica e le scienze dei vari sistemi di cultura e di organizzazione
sociale. In seguito, negli scritti del periodo 1905-1911, Dilthey è pervenuto a
concepire le categorie delle scienze dello spirito come la traduzione delle
forme strutturali del mondo umano. La vita, la temporalità, l'essenza e lo
sviluppo, il valore, lo scopo, il significato non sono categorie astratte,
applicabili a un oggetto qualsiasi; esse sono radicate nella struttura stessa
del mondo umano, la quale condiziona perciò il procedimento conoscitivo delle
scienze dello spirito. Su questa base il mondo umano viene inteso come il
prodotto del processo di oggettivazione della vita, vale a dire come « spirito
oggettivo» — anche se in senso del tutto differente da quello hegeliano, ossia
come il complesso delle manifestazioni storiche dell’attività umana — e la sua
struttura è definita facendo ricorso alla nozione di « connessione dinamica ».
Questa nozione, introdotta dapprima per caratterizzare la struttura della vita
psichica e in seguito estesa a ogni espressione della vita, designa un insieme
organizzato di elementi che ha il proprio centro in se stesso, che si prefigge
scopi suoi propri e che produce valori peculiari. È quindi una connessione
dinamica sia il mondo umano nel suo complesso sia ogni suo elemento singolo,
dall’individuo ai sistemi di cultura e ai sistemi di organizzazione sociale;
anzi, il mondo umano è una connessione dinamica la quale si articola, al suo
interno, in una INTRODUZIONE SI molteplicità di connessioni che ne ripetono i
caratteri strutturali. Non soltanto la vita storica è orientata in vista di
determinati scopi e crea valori, ma ogni connessione dinamica è contraddistinta
da scopi e valori particolari, che la differenziano da tutte le altre.
Riprendendo i risultati dell'analisi strutturale condotta nell’Ein/eitung in die
Geisteswissenschaften, Dilthey riconduce i vari elementi del mondo umano al
concetto unificante di connessione dinamica. Ma accanto ai sistemi di cultura e
ai sistemi di organizzazione sociale si collocano ora anche le epoche storiche,
che vengono a costituire la struttura diacronica del mondo umano: se i due tipi
di sistemi rappresentano le forme permanenti di relazione tra gli individui, le
epoche storiche dànno alla loro attività una fisionomia diversa nel tempo. E
difatti ogni epoca, pur essendo collegata da molteplici rapporti sia con quelle
precedenti sia con quella che la segue — come Dilthey pone in luce analizzando
l’esempio dell’Illuminismo — è caratterizzata da un proprio orizzonte, nel
quale rientrano tutte le sue manifestazioni. Di conseguenza, queste traggono il
loro significato dall’appartenenza a una data epoca, e possono essere comprese
soltanto in relazione ai suoi scopi e ai suoi valori peculiari. La tesi
dell’autocentralità delle epoche storiche sfocia quindi nell’affermazione della
relatività di ogni fenomeno storico. Questa conclusione vale anche per il
sapere, e più specificamente per la filosofia. Negli ultimi anni di vita
Dilthey ha cercato di porre in luce le implicazioni che il riconoscimento della
fondamentale storicità dell’uomo e del mondo umano comporta per la filosofia e
per la sua tradizionale aspirazione a una validità universale. Dapprima nel
saggio Das Wesen der Philosophie (1905), in seguito in Das geschichtliche
Bewusstsein und die Weltanschauungen e in Die Typen der Weltanschauung und ihre
Ausbildung in den metaphysischen Systemen (entrambi del rgri), Dilthey ha
tracciato le linee di una «filosofia della filosofia » impostata sulla
considerazione della filosofia come una forma non già di sapere scientifico,
bensì di intuizione del mondo. La filosofia, infatti, non è in grado di offrire
alcuna conoscenza oggettiva: il suo sforzo di affrontare il mistero del mondo e
della vita è accostabile più a quello dell’arte e della religione che non al
procedimento d'indagine delle scienze della natura o delle scienze dello
spirito. Arte, religione e filosofia trovano così la loro unità non nello «
spirito assoluto » a cui Hegel le aveva ricondotte, bensì nell’intuizione del
mondo, cioè in un atteggiamento di fronte alla vita che è caratterizzato da un
complesso di conoscenze, di modi di sentire e di princìpi di condotta. Tutte e
tre sorgono su questa base, proponendosi di dare per vie diverse unarisposta al
mistero del mondo e della vita: l’arte lo fa in forma intuitiva, la religione andando
in cerca di un rapporto con l’invisibile, la filosofia formulando soluzioni che
aspirano a una validità universale. Perciò la filosofia risulta anch’essa
condizionata dal tipo di intuizione del mondo che esprime, e la sua pretesa di
dare una soluzione del problema della realtà che valga per sempre è
contraddetta dalla stessa molteplicità delle dottrine filosofiche. Questo
condizionamento è però duplice, in quanto procede per un verso dalla struttura
della vita psichica e per l’altro verso dal processo storico. In quanto esprime
concettualmente un'intuizione del mondo, ogni dottrina filosofica rientra in un
tipo particolare di visione della realtà, caratterizzata dall’importanza
preminente accordata a un certo aspetto della struttura psichica; rientra cioè
nell’ambito o del naturalismo o dell'idealismo oggettivo o dell'idealismo della
libertà, che corrispondono alle tre possibili forme di atteggiamento dell’uomo
nei confronti del mondo. Nel medesimo tempo ogni dottrina filosofica,
appartenendo a una data epoca storica, ne riflette i problemi e le
caratteristiche peculiari. La storia della filosofia viene perciò a
configurarsi come lo sviluppo e la lotta reciproca di tre tipi fondamentali di
metafisica, che ricorrono in veste nuova nelle varie epoche. Da quest’analisi
Dilthey trae la conclusione che la filosofia deve abbandonare la pretesa
metafisica di determinare un principio incondizionato della realtà. Anch’essa
deve, in altri termini, riconoscere la propria storicità, accogliendo i
risultati della coscienza storica moderna. Dilthey riprende così, a proposito
della filosofia, le considerazioni che Troeltsch aveva formulato in riferimento
alla religione. Ma, a differenza di Troeltsch, egli si guarda bene dal proporsi
una « fondazione » della filosofia che ne ristabilisca la validità universale,
rivelatasi ormai illusoria: egli intende piuttosto costruire una « filosofia
della filosofia » intesa come «l’autoriflessione storica della filosofia sopra
di sé», che si sviluppa in primo luogo attraverso l’approfondimento del
significato storico delle diverse dottrine filosofiche. In questa prospettiva
si inquadrano i molteplici studi che Dilthey è venuto conducendo, soprattutto
dopo il 1890, sulla concezione dell’uomo nel Rinascimento e nella Riforma,
sull’età di Leibniz e sulla cultura illuministica tedesca, e infine sulla
concezione INTRODUZIONE 53 filosofica romantica e sull’influenza che questa ha
esercitato sulla formazione di Hegel. La relatività della filosofia è
considerata non già come la conseguenza negativa della coscienza storica
moderna, come una conclusione paralizzante a cui ci si debba sottrarre, ma come
la condizione indispensabile di una nuova impostazione di ricerca filosofica.
Nei medesimi anni — a partire dalla Philosophie des Geldes (1900) fino agli
Hauptprobleme der Philosophie (1910) e alla raccolta di saggi PAilosophische
Kultur (1911) — anche Simmel era impegnato nel delineare una prospettiva
rigorosamente relativistica. Ma il relativismo di Simmel aveva una base più
psicologica che storica, ed era alimentato dal richiamo ad autori di matrice
romantica come Goethe, Schopenhauer e soprattutto Nietzsche. Il suo punto di
partenza era infatti rappresentato da un’interpretazione psicologica delle
categorie: anche se le forme del conoscere assolvono una funzione distinta dal
contenuto, e servono anzi a organizzarlo, non per questo sono eterogenee
rispetto ad esso. Le categorie derivano dall’esperienza, e hanno quindi
un'origine psicologica, non già un carattere trascendentale. Questa impostazione
— che comportava un netto distacco dal neocriticismo e dal suo sforzo di
distinguere il piano della validità del conoscere da quello del procedimento
psicologico con cui lo si attinge — conduceva Simmel ad affermare la relatività
non soltanto della conoscenza, ma di ogni attività umana. La verità scientifica
è relativa all'assunzione di determinati presupposti, i quali rivestono
carattere psicologico e non posseggono alcuna validità universale;
analogamente, il valore di un'azione morale o di un atto economico dev'essere
commisurato a criteri che sono anch'essi sempre relativi. La stessa filosofia
può pervenire a una verità soltanto relativa, la quale consiste nella capacità
di esprimere l'elemento tipico di una certa persona e di renderlo comunicabile
ad altri individui. In questo relativismo Simmel individuava l’essenza della
civiltà moderna, il risultato di un secolare processo di distacco dalla fede in
una verità universale e in valori incondizionati. Lo stesso «rovesciamento dei
valori » proclamato da Nietzsche era interpretato — in maniera storicamente
discutibile — come l’affermazione della relatività di ogni criterio di condotta
etica. Ma il relativismo simmeliano del primo decennio del secolo era pur
sempre definito in modo prevalentemente negativo; e in ciò stava la sua
genericità e 54 INTRODUZIONE insieme la sua ambiguità. Infatti il
riconoscimento della relatività di tutti gli aspetti della vita umana tendeva a
trasformarsi in un principio assoluto, ed esprimeva né più né meno che
l’impossibilità di trascendere la vita, considerata come l’orizzonte
onnicomprensivo di ogni attività umana. Erano così poste le premesse per il
passaggio da una prospettiva relativistica a una metafisica della vita, che
Simmel compie negli anni successivi al 1910 e che si manifesta soprattutto nei
saggi apparsi su « Logos», nel volume Kan: und Goethe (1916) e infine nella
Lebensanschuung (1918). Di questa metafisica egli rintraccia i presupposti
remoti nella concezione romantica della realtà, in particolare nell’organicismo
di Goethe; e da Goethe, l’antitesi del razionalismo kantiano, trae la visione
della vita come un processo continuo che si realizza in una molteplicità di
forme, le quali si distaccano dal divenire per acquistare una propria autonoma
consistenza. La dialettica tra la vita e le forme diventa così il tema centrale
dell'ultima fase del pensiero simmeliano. La vita è intesa come un corso
infinito e ininterrotto, che produce forme finite e che, dopo averle create,
tende a distruggerle. Le forme nascono così dal divenire della vita ma nel
medesimo tempo gli si contrappongono, e devono quindi resistere allo sforzo
incessante che la vita fa per riassorbirle in sé e per produrre altre forme. La
vita è per Simmel contemporaneamente « più-vita » (Me4rLeben) e « più-che-vita
» (Me4r-als-Leben): è « più-vita » nel senso che è continuo superamento di ogni
limite che essa stessa pone; è « più-che-vita » nel senso che si auto-trascende
producendo una molteplicità di forme finite le quali diventano indipendenti da
essa. Da questa dialettica emergono i « mondi ideali », prodotto
dell’organizzazione sistematica delle forme, che nel loro insieme costituiscono
lo «spirito»: ognuno di questi mondi è trascendente rispetto al puro e semplice
divenire della vita, e ha la propria base in un principio fondamentale comune a
tutte le sue forme, Tra questi mondi ideali vi è anche il mondo della storia,
nel cui ambito gli avvenimenti acquistano un proprio significato elevandosi al
di sopra del divenire della vita. In tal modo la storicità, lungi dall'essere
un attributo o una dimensione della vita, viene a qualificare un piano di
realtà trascendente rispetto ad essa, in cui la temporalità del divenire — non
dissimile dalla «durata reale» di Bergson, un filosofo verso il quale Simmel
nutriva una non casuale simpatia — lascia posto al tempo propriamente storico.
Ben diverso è l’esito a cui perviene Weber riprendendo in esame, durante e dopo
la guerra, il problema del rapporto con i valori, e dando ad esso una portata
più generale. Dopo i grandi saggi metodologici degli anni 1903-06 Weber aveva
concentrato i suoi interessi da un lato sull’analisi dell'etica economica delle
religioni universali, in riferimento al problema dell'individualità del
capitalismo moderno, dall’altro sulla determinazione delle categorie
sociologiche (alla quale è dedicato il saggio Uber einige Kategorien der
verstehenden Soziologie del *13). Lo scoppio del conflitto aveva poi accentuato
— come vedremo — il suo impegno politico, che farà di lui, fino alla morte, uno
dei maggiori protagonisti del dibattito post-bellico in Germania. Sollecitato
da questo impegno, egli ritorna nel 1917, in un saggio dal titolo Der Sinn der
« Wertfreiheit » der soziologischen und òkonomischen Wissenschaften, sul tema
della « avalutatività » delle scienze storico-sociali, per ribadire la
differenza di principio tra il compito di queste discipline e la funzione dei
giudizi di valore. Ma il discorso si allarga ben presto a un tentativo di
enucleare le implicazioni filosofiche della propria impostazione metodologica,
che Weber sviluppa sia in quel saggio sia in due conferenze tenute a Monaco nel
1919 sulla « scienza come professione » e sulla « politica come professione ».
Diversamente da Dilthey (c anche da Simmel), Weber non si propone di fornire un'analisi
strutturale del mondo umano muovendo dall’analisi del procedimento delle
scienze storico-sociali: il campo di ricerca di queste discipline non può
essere per lui oggetto di un tipo di considerazione distinto da quella
metodologica, ma può essere individuato nelle sue relazioni interne soltanto
nell’ambito di questa, In altri termini, non esiste una struttura oggettiva del
mondo umano o della realtà storica a cui la filosofia possa riferirsi
prescindendo dal — o pretendendo di andare oltre il — lavoro delle varie
discipline, in un tentativo di unificarne i molteplici (e anche variabili)
punti di vista. Tuttavia la relazione di valore inerente al procedimento
conoscitivo delle scienze storico-sociali offre la base per un discorso più
ampio, che assume il rapporto con i valori come fondamento di un’analisi
dell’esistenza umana e della sua stessa storicità. Come si è visto, Weber si
era avvalso della nozione rickertiana di relazione ai valori per distinguere le
scienze storico-sociali per un verso dalle scienze naturali, per l’altro verso
dalla presa di posizione pratica che è costitutiva della politica e dai giudizi
di valore in 56 INTRODUZIONE cui questa si esprime. Le scienze storico-sociali
si differenziano dalle scienze naturali in quanto hanno a loro fondamento una
relazione con certi valori i quali presiedono alla selezione del dato empirico,
orientando la ricerca in una determinata direzione; si differenziano dall’agire
politico in quanto sono neutrali nei confronti dei fenomeni che esse studiano. L’oggettività
delle scienze storico-sociali è perciò garantita, in primo luogo, dal fatto che
il loro rapporto con i valori è eterogeneo rispetto a quello implicito nei
giudizi di valore. Ne deriva una duplice conseguenza, e cioè che — prescindendo
dalle scienze naturali, a proposito delle quali Weber accoglie acriticamente
l’interpretazione che ne aveva dato il positivismo ottocentesco — l’attività
umana è qualificata, in generale, da un rapporto con i valori, ma che questo
rapporto assume una configurazione diversa nelle sue varie sfere. Si pone così
a Weber il problema, fin allora rimasto in ombra, di determinare le forme di
tale relazione e di ricondurle eventualmente a una comune modalità. La risposta
a questo problema segna il distacco definitivo di Weber dalla teoria dei valori
qual era stata elaborata da Windelband e da Rickert, e soprattutto dal suo
sviluppo in senso metafisico, verso cui Rickert si avviava in quello stesso
periodo, Per Weber il rapporto con i valori non rappresenta più in alcun modo
un fondamento assoluto, capace di garantire la validità incondizionata del
sapere o dell’agire umano: al contrario, in ogni momento della propria
esistenza l’uomo si trova a dover compiere una scelta tra valori e tra sfere di
valori in conflitto reciproco. I valori cessano infatti di apparire come un
mondo organizzato sistematicamente, fornito di una propria coerenza interna: le
sfere di valori sono molteplici e non riconducibili a un ordine gerarchico,
così come i valori che appartengono a ogni sfera possono essere non soltanto
diversi, ma addirittura inconciliabili tra loro. Nel suo rapporto con i valori
l’uomo è obbligato a una scelta incessante, poiché l'assunzione di determinati
valori come criterio di orientamento del processo conoscitivo o dell’agire politico
comporta nel medesimo tempo la negazione o il rifiuto di altri. La relazione
tra l’uomo e i valori viene perciò a configurarsi sempre come una relazione
problematica, definita in termini di scelta da parte dell’uomo. Su questa base
Weber ha cercato di individuare il senso della scienza e, parallelamente ad
esso, il senso della politica. La scienza riveste ovviamente un'importanza
tecnica, in quanto consente l’elaborazione di determinati strumenti
suscettibili di uso pratico. Ma il suo significato non si esaurisce in questo;
anzi, la stessa funzione tecnica della scienza — si tratti di scienze naturali
oppure di scienze storico-sociali — rimanda alla questione se si debba o no
dominare tecnicamente la vita, e in vista di quali scopi. Muovendo da quest’analisi
Weber ha indicato, nel saggio Wissenschaft als Beruf (1919), il senso della
scienza nella sua capacità di fornire all’uomo la «chiarezza », vale a dire la
consapevolezza del proprio agire e soprattutto del rapporto tra gli scopi che
si prefigge e i mezzi dei quali si serve per conseguirli, In tal modo la
scienza, pur non potendo formulare giudizi di valore, assolve una funzione
critica nei confronti dei valori, in quanto pone in luce le condizioni e le
conseguenze della loro realizzazione: se non la validità, almeno la
realizzabilità dei valori cade quindi sotto la sua considerazione. Ma anche il
senso della politica risulta definito in base a un rapporto con i valori,
seppure di diverso genere. Nel saggio Politik als Beruf (anch’esso del ’19) Weber
muove dalla constatazione che la politica consiste sempre in rapporti di forza,
in quanto ogni agire politico è diretto all’acquisizione o al mantenimento di
un potere garantito coercitivamente; ma perviene a riconoscerne il senso nella
dedizione a una «causa», a un compito che dev'essere assolto appunto attraverso
la conquista e l’esercizio del potere. Il semplice dominio sugli altri non
costituisce lo scopo ultimo dell’agire politico più di quanto l’utilizzazione
tecnica di certi strumenti non costituisca il fine principale della scienza:
anch'esso acquista significato soltanto se vien posto in rapporto con i valori.
E infatti la dedizione a una « causa », che dà all’agire politico la sua
coerenza interna, coincide sempre con una presa di posizione in favore di
determinati valori e contro altri. Così stando le cose, l’agire politico non
può non entrare in una relazione positiva o negativa con l’etica. E infatti il
rapporto tra etica e politica diventa un tema centrale nell'ultima fase della
riflessione filosofica di Weber — fin dall'articolo Zwischen zwei Gesetzen del
1916 — intrecciandosi strettamente con l’analisi del rapporto dell’uomo con i
valori. Weber muove dalla distinzione tra due forme fondamentali di etica, che
obbediscono a criteri del tutto differenti: l’etica della « coscienza » o
dell’intenzione e l’etica della responsabilità, La prima è caratterizzata
dall'assunzione di un certo valore come scopo assoluto, da perseguire sempre e
in ogni caso, senza tener conto dei mezzi che occorrono per la sua
realizzazione; la seconda è caratterizzata invece dalla considerazione del
rapporto tra il valore assunto come fine e le sue condizioni o, una volta che
sia realizzato, con le sue conseguenze. L'etica dell’intenzione si esprime in
norme incondizionate, le quali prescrivono un determinato comportamento
prescindendo dalla possibilità di attuarlo di fatto: la sua manifestazione più
elevata è indicata da Weber nel Sermone della montagna, nell’etica evangelica
indifferente alle condizioni del « mondo ». Essa è un'etica irrelativa, che non
tiene conto dell’esistenza di altre sfere di valori o, al massimo, pretende di
subordinarle tutte al proprio imperativo assoluto: come tale, è indifferente
anche alla politica, se non addirittura ostile ad essa. Al contrario, l’etica
della responsabilità si esprime in norme le quali tengono presenti sia le
condizioni di realizzazione dei valori a cui l'agire si riferisce, sia le
conseguenze che questa comporta: il suo interesse è rivolto non soltanto al
perseguimento, ma anche all’attuazione effettiva di tali valori. Essa riconosce
quindi l’esistenza di altre sfere di valori, e in particolare l'importanza
dell’agire politico. Tra queste due forme di etica non c'è possibilità di
conciliazione e neppure d’incontro, ma c’è piuttosto un contrasto permanente.
Non diversamente dalle altre sfere di valori, anche quella etica contiene in sé
una scissione che le impedisce di offrire agli individui delle regole univoche
e incontrovertibili di comportamento. Così l’uomo risulta sempre coinvolto nel
conflitto tra i valori, e questi vengono a loro volta a dipendere
dall’assunzione o dal rifiuto che di essi compiono, in una situazione concreta,
i singoli individui. La stessa storicità dell’esistenza umana viene a
coincidere con questa presa di posizione di fronte ai valori, mediante la quale
l’uomo è impegnato a dare un senso al mondo. D’altra parte la validità dei
valori è definita dal loro rapporto con la storicità, in quanto lo sviluppo
storico è il terreno della loro possibile realizzazione. In tale maniera i
valori perdono quella trascendenza ontologica che aveva loro attribuito
Rickert, ma mantengono una trascendenza che si può dire normativa, nel senso
che assolvono una funzione di orientamento e di guida per l'agire umano. La
loro validità, se da un lato non è certo incondizionata, dall’altro non è
neppure circoscritta a una singola epoca o a un particolare ambito culturale.
Ciò spiega perché Weber abbia sempre respinto il relativismo, scorgendo in esso
il prodotto di una concezione organicistica che conduce a INTRODUZIONE 59
eliminare la relazione problematica dell’uomo con i valori. Se la filosofia dei
valori ne postulava arbitrariamente la validità per tutte le epoche e per tutte
le culture, il relativismo presuppone non meno arbitrariamente un legame
necessario tra i valori e l'orizzonte storico di una singola epoca o di una
singola cultura: in entrambi i casi i valori cessano di essere il termine di
riferimento di una scelta da parte dell’uomo, per configurarsi come una
struttura determinante della sua esistenza. Coerentemente, perciò, il distacco
definitivo da un’interpretazione metafisica dei valori si accompagnava negli
ultimi saggi filosofici di Weber con la polemica anti-relativistica, e con
l’esplicito richiamo alla dottrina platonica secondo cui «l’anima sceglie il
suo proprio destino — e cioè il senso del suo agire e del suo essere ». VII.
Nel corso del conflitto mondiale il panorama dello storicismo tedesco si
trasforma rapidamente. Scompaiono intanto, in breve volger di tempo, i maggiori
rappresentanti della sua prima generazione. Nel 1grr era morto Dilthey, dopo
aver dedicato la sua lunga esistenza al tentativo sempre rinnovato di costruire
una «critica della ragione storica» e dopo averne dato negli ultimi anni la
formulazione più compiuta. Nell'ottobre 1915 moriva Windelband e tre anni dopo,
nel settembre 1918, lo seguiva Simmel. Weber e Troeltsch, che appartenevano
ormai a una generazione successiva — in quanto erano nati rispettivamente nel
1864 e nel 1865 — sopravviveranno ancora per qualche anno, il primo fino al
1gzo e il secondo fino al 1923; e saranno per entrambi anni di intensa attività
intellettuale e di impegno politico. Rickert vivrà invece più a lungo, fino al
1936; ma le sue opere, a partire da Die Philosophie des Lebens del ’20, sono
sempre più caratterizzate dallo sforzo di affermare l’autonomia ontologica dei
valori e di fornirne un’elaborazione sistematica, e si collocano ormai al di
fuori del movimento storicistico. Accanto a questi elementi biografici, un altro
fattore interviene a modificare in maniera profonda il panorama dello
storicismo tedesco: l’importanza decisiva che la politica e i suoi problemi
assumono nel dibattito filosofico. Dilthey, Windelband, Rickert, in fondo lo
stesso Simmel (pur così attento allo sviluppo delle scienze sociali) 60
INTRODUZIONE avevano prestato scarsa attenzione alle vicende della Germania
bismarckiana e post-bismarckiana, o per lo meno i loro interessi politici non
si erano mai tradotti in uno sforzo di formulazione teorica. La stessa
esaltazione del passato tedesco, che si può trovare nel lavoro di ricostruzione
storica di Dilthey, e il risalto da lui dato alle peculiarità della tradizione
culturale tedesca rispetto a quella francese o inglese esprimevano assai più il
richiamo retrospettivo al mondo romantico anziché un'adesione al processo di
unificazione politica della Germania, Del resto, la formazione di Dilthey si
era compiuta prima dell'avvento di Bismarck al potere, in un ambiente ancora
permeato di motivi liberali su cui aleggiava il recente ricordo dell'assemblea
di Francoforte. Più in generale, il prevalere del problema dell’autonomia e
delle condizioni di validità della conoscenza storica e la connessione tra
analisi metodologica e analisi strutturale avevano contribuito a dare allo
storicismo tedesco un’impronta sostanzialmente apolitica; e i suoi esponenti
erano stati difatti filosofi accademici, inseriti nella vita universitaria
tedesca ma scarsamente partecipi a ciò che avveniva al di fuori. Questo stato
di cose cambia del tutto con la prima guerra mondiale: anche Windelband, poco
prima di morire, dedica il suo ultimo scritto, la « lezione di guerra » sulla
Geschicktsphilosophie (apparsa postuma nel 1916), alla ricerca di un senso
razionale della storia, impostandola in riferimento allo scoppio del conflitto
e alla rottura della solidarietà morale tra i popoli che esso comporta. Il
richiamo all’idea di umanità, intesa come principio regolativo del processo
storico, rappresenta la sua risposta al venir meno della fiducia in uno
sviluppo ordinato e pacifico del genere umano, che la guerra aveva
drammaticamente messo in questione. Sarebbe tuttavia errato far coincidere
l'emergere degli interessi politici in seno al movimento storicistico con la
crisi del 1914-18. Già prima, infatti, il processo di unificazione politica
della Germania e la soluzione bismarckiana erano stati oggetto della
riflessione sia di Weber che di uno storico a lui quasi coetaneo, Friedrich
Meinecke. Figlio di un deputato liberale, Weber aveva esordito sulla scena
politica tedesca da posizioni nazionalistico-conservatrici, ma ben presto se ne
era distaccato per avvicinarsi al gruppo dei « socialisti della cattedra ». Nei
saggi del periodo 1893-95, che traevano le conclusioni dell'inchiesta condotta
sulla situazione del lavoro agricolo nella Germania orientale, egli poneva in
rilievo il decadere dell’aristocrazia fondiaria prussiana in un ceto di
imprenditori capitalistici, ormai incapace di assolvere la funzione politica di
un tempo. Negli anni successivi la sua opposizione al regime personale di
Guglielmo II e alla politica imperialistica divenne sempre più aperta; e con
essa maturava anche una valutazione più positiva del sistema parlamentare,
favorita dallo studio e dall’esperienza diretta della democrazia americana.
Meinecke muove anch'egli da una sostanziale adesione a posizioni conservatrici,
condividendo il giudizio della scuola storica prussiana sul modo in cui la
monarchia degli Hohenzollern e Bismarck avevano realizzato l’unità politica della
Germania. Allievo di Droysen, di Sybel, di Treitschke, egli è il continuatore
della loro impostazione storiografica e al tempo stessso l’erede della loro
visione politica; anzi, le sue indagini si ispirano a un preciso obiettivo di
giustificazione storico-politica del processo di formazione dello stato
nazionale tedesco. Fin dalla biografia dedicata a uno degli eroi delle guerre
anti-napoleoniche, il maresciallo Hermann von Boyen (pubblicata nel 1886-99),
l’analisi di questo processo è diretta a mostrare il carattere positivo, e
storicamente inevitabile, della soluzione prussiana, in contrapposizione alla
vanità dei tentativi compiuti dal liberalismo riformatore del ’48. Non soltanto
l’edificio politico bismarckiano, ma in generale il concretarsi delle aspirazioni
nazionali tedesche in un’organica struttura statale diventa — dal volume Das
Zeitalter der deutschen Erhebung (1906) ai saggi raccolti sotto il titolo Von
Stein zu Bismarck (1909) e a Radowitz und die deutsche Revolution (1913) — il
centro di riferimento delle successive ricerche di Meinecke. Bisognerà
attendere la guerra e la sconfitta tedesca perché egli avverta finalmente i
limiti della costruzione di Bisrmarck e si impegni in una sostanziale revisione
delle prospettive della scuola storica prussiana. La prima grande opera di
Meinecke, Weltbirgertum und Nationalstaat (1908), costituisce infatti il
tentativo più compiuto di giustificare l’edificio politico bismarckiano,
considerato come il punto di confluenza e d’incontro tra la «nazione culturale
» tedesca e la « nazione territoriale » prussiana. Meinecke si propone qui di
mostrare come da una parte le aspirazioni della cultura tedesca al
conseguimento dell'unità nazionale si siano gradualmente svincolate dalle idee
universalistiche di origine settecentesca, e come dall'altra lo stato prussiano
sia diventato, dopo il 1848, l’interprete di tali aspirazioni e abbia saputo
realizzarle concretamente. Da Wilhelm von 62 INTRODUZIONE Humboldt a Novalis, a
Friedrich Schlegel, a Fichte, a Miiller, a Savigny, e infine a Ranke — momento
conclusivo di questo processo — la «nazione culturale » tedesca acquista
coscienza della propria individualità e del proprio diritto di costituirsi in
una struttura statale unitaria; e tale coscienza comporta appunto il progressivo
abbandono della visione cosmopolitica dell'Illuminismo e del suo astratto
ideale di umanità. Contemporaneamente la Prussia subordina i propri interessi
particolari a quelli della causa nazionale tedesca, assumendo l’egemonia del
processo di unificazione politica della Germania. Dopo il fallimento del ’48
Bismarck dà così esistenza storica all’ideale nazionale che la cultura
romantica aveva proclamato, innestandolo sulla struttura dello stato prussiano.
Questa giustificazione dell’edificio politico bismarckiano era però destinata a
rivelare la sua intrinseca debolezza al momento della sconfitta tedesca. Già
prima e durante il conflitto Weber aveva denunciato i limiti della costruzione
di Bismarck, imputando ad essa la mancanza di una classe politica in grado di
dirigere il paese e di controllare il potere della burocrazia. In numerosi
saggi scritti nel corso della guerra, e soprattutto nel volume Parlament und
Regierung im neugeordneten Deutschland (1917), egli insisteva sulla necessità
di tener distinti i compiti del funzionario e del politico, ossia di non
ridurre la vita politica ad amministrazione; e ciò lo conduceva a sottolineare
la funzione dei partiti e del parlamento come sede di formazione di una classe
politica. La situazione della Germania guglielmina, con la sua dipendenza
diretta della burocrazia dal potere monarchico, gli appariva caratterizzata da
uno « pseudo-costituzionalismo » che sottraeva al parlamento la direzione e il
controllo dell'amministrazione pubblica. Se in Weber la critica a Bismarck e
all’eredità politica bismarckiana si innestava su una linea di sviluppo che
risaliva all’ultimo decennio dell'Ottocento, in Meinecke la sconfitta tedesca
aveva invece un effetto traumatico, e lo costringeva a un profondo processo
autocritico. Il suo originario conservatorismo lasciava posto alla
rivendicazione del regime democratico, la quale si accompagnava alla denuncia
del militarismo prussiano e del fallimento dei suoi sogni imperialistici.
Venivano così in luce i difetti insanabili, già indicati da Weber, di una
costruzione che non era riuscita a modificare il vecchio ordinamento
economico-sociale di origine feudale né a rendere le masse popolari partecipi
alla vita politica. Quella che un decennio prima era INTRODUZIONE 63 potuta
sembrare una felice sintesi tra « nazione culturale » e « nazione territoriale
», tra le aspirazioni della cultura romantica all’unità nazionale e gli
interessi della monarchia prussiana, si rivelava ora a Meinecke come una
soluzione debole, come un compromesso instabile realizzato all’insegna di una «
politica di potenza» che avrebbe condotto al fallimento del 1918. Avanzata per
la prima volta nel saggio Kultur, Machtpolitik und Militarismus (1915),
sviluppata più ampiamente nei saggi di Nach der Revolution (1919), questa
critica sfocierà in seguito — in Das preussisch-deutsche Problem im Jahre 1921
— nella revisione del quadro storiografico tracciato in Weltbiirgertum und
Nationalstaat. Più tardi ancora, nel 1924, Meinecke ne trarrà spunto per
affrontare il problema dell’antitesi tra potenza e spirito, considerati come i
momenti antinomici della vita politica. Mentre Weber e Meinecke si portavano
(al pari di Troeltsch) su posizioni apertamente democratiche, appoggiando la
repubblica di Weimar e prendendo parte alla sua travagliata esistenza, la
coscienza della sconfitta tedesca trovava un'espressione emblematica in
un’opera destinata ad avere larghissima fortuna — in Der Untergang des
Abendlandes di Oswald Spengler, apparsa tra il '18 e il ’22. A differenza degli
altri esponenti del movimento storicistico, Spengler viveva ai margini della
cultura accademica: dopo aver conseguito il dottorato aveva dapprima insegnato
in liceo, e si era quindi dedicato all'attività pubblicistica. La sua stessa
formazione filosofica non era priva di aspetti dilettanteschi: i suoi « autori
» prediletti erano Goethe e Nietzsche, ma l’uno e l’altro subivano nell’opera
spengleriana un sostanziale travisamento. Accanto alla loro presenza non è
difficile cogliere alcuni temi caratteristici dell’ultimo Dilthey e di Simmel:
anzi, i presupposti fondamentali di Der Untergang des Abendlandes mostrano
chiaramente la loro derivazione da Dilthey, anche se si tratta di un Dilthey
interpretato (e il più delle volte frainteso) in senso relativistico. Spengler
accoglie infatti la distinzione diltheyana tra scienze della natura e scienze
dello spirito, trasformandola nell’antitesi tra il « mondo come natura» e il «
mondo come storia » e affermando l’irriducibilità della conoscenza storica al
metodo della scienza naturale; analogamente, egli fa propria la tesi
dell’autocentralità delle epoche storiche, traducendola nel postulato della
radicale eterogeneità delle culture e della loro reciproca incomunicabilità. Su
questa piattaforma s'innesta il richiamo alla 64 INTRODUZIONE prospettiva
organicistica di Goethe, in virtù del quale ogni cultura viene interpretata
come un organismo biologico che deve necessariamente percorrere il ciclo vitale
proprio della specie alla quale appartiene. Dalla visione della storia come sviluppo
di una molteplicità di culture chiuse in se stesse, destinate a morire dopo
aver esaurito il complesso di possibilità che le caratterizza al momento della
nascita, deriva la profezia spengleriana dell’imminente « tramonto
dell'Occidente », nella quale il crollo della potenza della Germania si
trasfigura nell’inevitabile destino di morte di un'intera civiltà. L’impianto
dottrinale di Der Untergang des Abendlandes si regge in primo luogo, come si è
accennato, sull’antitesi tra il «mondo come natura » e il « mondo come storia
»; e questa vien fatta coincidere con la contrapposizione goethiana tra
divenuto e divenire. Il « mondo come natura » è infatti il mondo del divenire,
caratterizzato dall’estensione spaziale e dalla necessità causale, che trova la
propria formulazione nella legge matematica; il « mondo come storia » è il
mondo del divenire, caratterizzato dalla direzione del corso temporale e dalla
necessità organica, che si esprime nella forma vivente. La loro conoscenza
comporta perciò due specie differenti di logica: la natura può essere appresa
avvalendosi di una logica meccanica, che si regge sul principio di causalità e
sulla determinazione di rapporti matematici, mentre la storia può essere colta
soltanto attraverso la logica organica, che si regge sull’intuizione della
forma vivente. Spengler riprende quindi da Dilthey la distinzione tra
spiegazione e comprensione, ma riduce al tempo stesso quest’ultima — procedendo
in senso opposto a Weber — a un atto intuitivo, all’immediatezza dello « sguardo
storico ». Il rifiuto del metodo naturalistico e della spiegazione causale
mette così capo all’antitesi tra due tipi di conoscenza, che vengono
rispettivamente designati come sistematica e come fisiognomica. C'è però ancora
un’altra differenza, non meno importante. I due tipi di conoscenza non si
pongono più sullo stesso piano, come avveniva in Dilthey: dal momento che ogni
divenuto procede dal divenire, il «mondo come storia » acquista una preminenza
ontologica rispetto al « mondo come natura », e l’immagine della natura viene a
dipendere dalla concezione del mondo, storicamente condizionata, delle singole
culture. Su questa base Spengler si propone di realizzare una « morfologia
della storia universale », concepita come studio delle forme INTRODUZIONE 65 viventi
del divenire storico. Ma la « storia universale » si articola, ai suoi occhi,
in una molteplicità di forme non riconducibili a una superiore unità. Il
divenire storico non è il progressivo dispiegamento di un principio unitario,
ma coincide con la ripetizione necessaria di una medesima vicenda, che è poi il
ciclo biologico delle culture. La struttura portante del « mondo come storia »
è perciò non il singolo individuo e neppure l'umanità nel suo complesso, ma la
singola cultura, nel suo sorgere attraverso il distacco dall’umanità primitiva
— astorica per definizione — e nel suo successivo sviluppo fino alla morte
inevitabile, a una morte cui non può sottrarsi come non può sottrarvisi nessun
altro organismo. La storia è quindi storia di culture, e l’esistenza storica
dell’individuo è definita dalla sua appartenenza a una cultura e al suo
particolare mondo simbolico. Infatti, se è vero che tutte le culture percorrono
uno stesso ciclo, esse si differenziano d’altra parte tra loro per quanto
riguarda la concezione del mondo. Ogni cultura è infatti caratterizzata, fin
dalla nascita, da un complesso di possibilità, da una propria eredità biologica
che è diversa da quella delle altre culture. La visione organicistica della
storia e l'affermazione della relatività delle culture e dei loro rispettivi
mondi simbolici rappresentano così i due aspetti — strettamente connessi —
dell’impostazione di Der Untergang des Abendlandes. "Tra le varie
manifestazioni delle culture vi è sì una corrispondenza formale, che consente
di stabilire analogie e di dar luogo a uno studio comparativo, ma c’è anche una
radicale eterogeneità di contenuto: la matematica occidentale e la matematica
indiana, tanto per fare un esempio, non hanno alcun rapporto tra loro. Non
soltanto non esiste alcuna verità assoluta, ma ogni prodotto storico — e quindi
anche ogni teoria scientifica, ogni dottrina filosofica o religiosa, ogni norma
etica — non è altro che l’espressione di una data cultura in un particolare
momento del suo sviluppo. Di conseguenza, la sua validità è circoscritta
all'ambito della cultura che l’ha prodotta, ed è ulteriormente limitata a una
certa fase del suo processo evolutivo. Ogni cultura ha un proprio orizzonte che
abbraccia tutte le sue manifestazioni, e che le rende perfino incomunicabili
alle altre culture. Spengler perviene in tal modo a preannunciare l'imminente
tramonto dell’Occidente. L'analisi del processo evolutivo della cultura
occidentale rivela infatti che essa non soltanto ha da tempo concluso la sua
fase creativa, ma è ormai prossima alla fine. Anzi, essa non è pro3. STORICISMO
TEDESCO. 66 INTRODUZIONE priamente più una cultura, ma è una cultura
meccanizzata e « divenuta», una « cultura-in-declino » (Zivilisation): ne è
prova il rovesciamento dei valori che caratterizza l’epoca moderna, al pari di
qualsiasi epoca di declino di una cultura. Spengler accoglie così la diagnosi
che della civiltà contemporanea avevano dato i critici aristocratici della
seconda metà dell'Ottocento, da Burckhardt a Nietzsche, i quali avevano
guardato con timore e preoccupazione all’avvento della democrazia e del
socialismo, all’irrompere delle masse sulla scena storica, all’importanza
crescente del sapere scientifico e della tecnica. La stessa contrapposizione
tra Kultur e Zivilisation esprime per un verso la predilezione, tipicamente
romantica, per i valori originari e « primitivi » della cultura, per l’altro
verso la valutazione negativa dell’azione uniformante della civiltà industriale
moderna e delle tendenze egualitarie che tendono a eliminare le differenze di
ceto. Anche per Spengler la dissoluzione del vecchio ordine sociale, il
mutamento dei rapporti tra le classi, il declino dell’aristocrazia e l’ascesa
della borghesia, la preminenza dell’economia sulla politica, l’onnipotenza del
denaro sono aspetti di una crisi che investe non soltanto la Germania, ma
l’intero Occidente. A questa crisi è impossibile sottrarsi, in quanto essa è il
portato inevitabile del ciclo biologico delle culture e si colloca quindi sotto
il segno del destino. L'individuo può soltanto riconoscerne la necessità, e
cercare di disporsi nella direzione del processo storico anziché pretendere
vanamente di opporglisi. L’opera di Spengler esprimeva la crisi
politico-culturale della Germania sconfitta, ma rivelava altresì l'incapacità
di analizzarne i motivi storici concreti e la tendenza a trasporla su un piano
metafisico. Attraverso la polemica contro la democrazia e il socialismo,
attraverso l’esaltazione degli aspetti primitivi della storia e il rifiuto
della civiltà industriale moderna, Spengler forniva elementi preziosi
all'elaborazione dell’ideologia nazista. In una serie di volumi di più
immediato intento politico — da Preussentum und Sozialismus (1919) a Der Mensch
und die Technik (1931) e a Jahre der Entscheidung (1933) — egli avanzava
infatti la proposta di un « socialismo prussiano » capace di restaurare
l’autorità dello stato, e concepito come la continuazione dell’ideale germanico
della subordinazione dell'individuo alla volontà collettiva del corpo sociale. Anche
se Spengler guarderà sempre con diffidenza a Hitler, rifiutando di riconoscersi
nel movimento che andava al potere nel °33, non per questo si può negare
l’affinità profonda tra la sua posizione anti-democratica (e anti-marxista) e
l’ideologia del nazismo. La stessa affermazione del dovere etico di accettare
il destino poteva facilmente tradursi in un atteggiamento di convinta adesione
al nuovo regime, esaltato come il segno dei tempi nuovi e lo strumento della
riscossa tedesca. Su un versante diverso, le conclusioni relativistiche di Der
Untergang des Abendlandes ponevano in luce un’altra crisi, quella dello
storicismo; ponevano cioè in luce il pericolo di una vanificazione dei valori a
cui questo era esposto. Non a caso lo stesso Weber, e con lui Troeltsch e
Meinecke, si affrettarono a prendere le distanze da Spengler e a denunciare le
aporie della sua opera. Dopo di allora l'ombra del relativismo graverà sempre
minacciosa sulla cultura filosofica tedesca, spingendola verso una
restaurazione dei valori che ne salvaguardasse, in qualche modo, la validità
oltre l'ambito della singola cultura o della singola epoca storica. VIII.
Toccherà a ‘Troeltsch e a Meinecke tentare una risposta alla crisi dello
storicismo. Partiti da interessi e da esperienze culturali differenti, essi si
trovano alla fine del conflitto impegnati in una comune battaglia contro le
conseguenze relativistiche dello storicismo e contro l’« anarchia dei valori »
che questo sembra comportare. Lasciata Heidelberg nel 1915, Troeltsch si era trasferito
a Berlino passando contemporaneamente dall’insegnamento della teologia
sistematica a una cattedra di filosofia; e qui egli incontrava Meinecke, che
era approdato alla capitale l'anno precedente. S’inizia così tra loro un
periodo d’intensa collaborazione filosofica a cui porrà termine, nel febbraio
1923, la morte di Troeltschj; e la piattaforma dottrinale definita in questi
anni continuerà a ispirare per lungo tempo l’elaborazione teorica di Meinecke,
ancora sotto il regime nazista e negli anni successivi alla seconda guerra
mondiale. Comune a entrambi è la consapevolezza della crisi dello storicismo,
intesa — secondo la formulazione di Troeltsch, che Meinecke sostanzialmente
condivide — non già come una crisi della ricerca storica ma come una crisi del
« pensiero storico », e cioè del significato che la storia riveste per la
concezione del mondo. Lo storicismo si configura ai loro occhi come una
concezione generale della realtà, che procede « dalla fondamentale
storicizzazione del nostro sapere e del nostro pensiero»: non tanto uno sforzo
di analisi metodologica delle scienze storico-sociali o di analisi strutturale
del mondo umano, quanto una visione complessiva del mondo e della vita. Comune
a Troeltsch e a Meinecke è pure l’intento di sottrarsi alla crisi dello
storicismo attraverso una restaurazione dei valori che ne recuperi
l’assolutezza — un’assolutezza senza la quale l’uomo rimane privo di criteri di
orientamento per il proprio agire. La riduzione dei valori a prodotto storico,
nella quale Dilthey aveva visto una conquista positiva dello storicismo, appare
invece una sua conseguenza negativa, che mette in pericolo la stessa
possibilità di norme etiche. Perciò essi cercano nella teoria dei valori un
punto di appoggio per opporsi all’esito relativistico dello storicismo, che
l’opera di Spengler esprimeva in modo emblematico. Già nel 1904, al suo primo
approccio ai problemi della filosofia della storia, Troeltsch si era richiamato
alla definizione rickertiana dell’oggetto storico, indicandone il fondamento
nella relazione ai valori. Anche nel periodo berlinese — in Der Historismus und
seine Probleme (1922) e poi nei saggi postumi raccolti sotto il titolo Der
Historismus und seine Uberwindung (1924) — la teoria dei valori costituisce lo
sfondo dell’elaborazione filosofica di Troeltsch. Il punto di partenza del suo
tentativo di restaurazione dei valori è rappresentato infatti dalla
caratterizzazione dell'oggetto storico come una «totalità individuale », a cui
è inerente una connessione di senso che la distingue in maniera radicale
dall'oggetto della conoscenza naturale. A differenza dei processi naturali,
l’oggetto storico è costituito da un rapporto con i valori che ne garantisce
l’unità, anzi un'unità di significato la quale abbraccia i molteplici elementi
che lo compongono. Troeltsch afferma così la presenza nell’oggetto storico di
un senso immanente, il quale viene identificato con il valore (individuale) di
tale oggetto. Ciò comporta un mutamento rilevante, ancorché non esplicito,
rispetto alla posizione di Rickert. Mentre per quest'ultimo il senso
dell’oggetto storico consisteva nel riferimento a valori incondizionati che si
realizzano storicamente ma che sussistono indipendentemente dalla storia, per
Troeltsch senso e valore coincidono: il mondo dei valori non è più un mondo
fornito di autonomia ontologica, ma diventa la connessione significativa
inerente allo sviluppo storico. Al pari del singolo oggetto storico nella sua
individualità, anche lo sviluppo storico nel suo complesso risulta costituito
dalla presenza immanente dei valori. Questi diventano perciò la struttura
assiologica della storia, la sua struttura per così dire « assoluta ». Il
recupero dell’assolutezza dei valori avviene postulandone non più la
trascendenza metafisica ma l'immanenza, e quindi ‘attraverso il ritorno alla
nozione romantica di individualità. In questa impostazione Meinecke poteva
trovare una sostanziale continuità rispetto al punto di vista espresso in
Welrbirgertum und Nationalstaat. Quando nel 1918, nel saggio Persònlichkeit und
geschichiliche Welt, egli affronta per la prima volta il problema del rapporto
tra storia e valori, è proprio la nozione romantica di individualità che gli
permette di riconoscere da un lato l’autonomia della singola persona e
dall’altro la presenza nella storia di forze sovra-personali che s'intrecciano
dando vita ai fenomeni storici. Lo sviluppo storico gli appare un processo nel
quale l'uomo, pur essendo inserito in una molteplicità di serie causali,
produce tuttavia un mondo di valori spirituali che, collocandosi oltre il
livello dell’esistenza naturale, si contrappongono alla causalità della natura.
Si ripropone così, sul terreno della storia, il problema kantiano del rapporto
tra necessità e libertà, concepito in termini per un verso di antitesi e per
l’altro verso di connessione. Per Meinecke lo sviluppo storico è infatti un
intreccio indissolubile di necessità e di libertà, dove il primo termine è
identificato con l’azione causale delle condizioni naturali e il secondo con la
capacità di creare valori culturali. Ma quest’intreccio è tutt'altro che una
coesistenza armonica: al contrario, la realizzazione dei valori comporta una
lotta costante contro le condizioni naturali e quindi lo sforzo di rompere il
quadro della loro causalità. La drammaticità di questo rapporto è stata posta
in luce da Meinecke soprattutto a proposito del mondo della politica e, in
particolare, dell’esistenza dello stato. Nella sua seconda grande opera
storica, Die Idee der Staatsrison in der neueren Geschichte (iniziata durante
la guerra ma pubblicata soltanto nel ’24), egli ha additato nell’antitesi tra
potenza e spirito la struttura fondamentale della politica e l’essenza stessa
della « ragion di stato ». Ma quest’antitesi non è altro che una manifestazione
del contrasto tra necessità e libertà. Da una parte la politica è legata a
condizioni naturali: al pari di ogni organismo, lo stato tende
all’autoconservazione e, per conservarsi, deve affermare la propria potenza nei
confronti degli altri stati e, occorrendo, in conflitto con essi, Dall'altra
parte la 70 INTRODUZIONE politica è in rapporto con i valori: anche lo stato si
propone di produrre o quanto meno di salvaguardare i valori culturali,
procedendo oltre la propria base naturale e abbracciando in sé la vita etica, giuridica,
religiosa, artistica di un popolo. Lo stato ha così un'essenza in qualche modo
duplice: esso è insieme necessità e libertà, natura e spirito, o più
precisamente krdtos e é:h05 — vale a dire aspirazione alla potenza e
aspirazione alla realizzazione di valori culturali. La sua esistenza si svolge
tra due poli, tra il polo della naturalità da cui prende le mosse e il polo
della spiritualità verso cui si eleva. Questo contrasto intrinseco al mondo
della politica costituisce l’antinomia della «ragion di stato », nel suo sempre
rinnovato tentativo di conciliare due termini tra loro inconciliabili. Che
questo tentativo sia aleatorio, e dia luogo soltanto a sintesi provvisorie, è
dimostrato soprattutto dalla tendenza del primo termine a prevalere sul primo,
cioè dalla tendenza dell'impulso alla potenza a subordinare a sé i valori
culturali. La potenza è infatti indifferente ai valori culturali e alla loro
realizzazione, è « indifferente rispetto al bene e al male». Ma quest'amoralità
della potenza trapassa di continuo — come dimostra la storia dell'idea di «
ragion di stato », da Machiavelli fino a Treitschke — nell’immoralità, ossia
nel rifiuto o nella soppressione dei valori culturali, Il diritto dello stato
alla propria conservazione e al proprio accrescimento lo spinge verso una
politica di potenza di stampo bismarckiano, nella quale l'autonomia dei valori
va inevitabilmente perduta. L’antinomia tra &rdtos e éthos appare quindi,
in sostanza, un aspetto particolare dell’antitesi tra il fondamento naturale
della storia e l’aspirazione a valori culturali; e l'esigenza di garantire
l’autonomia di questi ultimi nei confronti dell’opposta aspirazione alla
potenza coincide con l’esigenza di salvaguardarne l’assolutezza che, essa sola,
può evitare che la « relatività dei valori» degeneri in un «relativismo dei
valori ». In Der Historismus und seine Probleme (apparso due anni prima di Die
Idee der Staatsrison) Troeltsch si proponeva di offrire una via di uscita da
questa difficoltà attraverso la formulazione di una filosofia « materiale »
della storia. Compito della filosofia della storia è, in generale, quello di
elaborare una « sintesi culturale » adeguata a una certa situazione storica, e
capace perciò di indicare agli individui la direzione di sviluppo da percorrere
in riferimento ad essa. Anche per l’epoca contemporanea si pone un problema del
genere: non diversamente dal passato, la filosofia deve oggi proporre agli
uomini un ideale di civiltà costruito attraverso una critica immanente del
processo evolutivo della cultura occidentale e la determinazione delle sue
possibilità di sviluppo. Perciò la « sintesi culturale » contemporanea non può
non essere condizionata dai valori specifici di un certo ambito di civiltà, ed
anzi esprimere questi valori assumendoli a criterio direttivo per il futuro.
Ancora una volta, quindi, i valori rivelano la loro intrinseca relatività; e il
rapporto con l'assoluto, lungi dal configurarsi come un dato incontrovertibile,
si presenta piuttosto come un compito da realizzare. Il divenire storico, con
la molteplicità e la variabilità delle sue forme, si incontra e si scontra con
il bisogno insopprimibile di trovare delle norme in grado di fornire un
orientamento sicuro all’agire umano. Ma allora — come risulta chiaramente dai
saggi postumi di Der Historismus und seine Uberwindung — la conciliazione tra
relatività storica e assolutezza rimane sempre problematica. Essa è fondata, in
ultima analisi, su una convinzione personale, su un atto di fede. Una posizione
del genere era senza dubbio assai debole; né i tentativi di approfondimento
compiuti in quegli stessi anni da Meinecke — nei saggi Ernst Troeltsch und das
Problem des Historismus (1923) e Kausalitàten und Werte in der Geschichte
(1924) — riuscivano a darle una base più solida. La stessa distinzione tra
causalità naturale e causalità etico-spirituale, che riposava
sull’identificazione di quest'ultima con lo sforzo umano di realizzazione dei
valori culturali, si richiamava sempre alla nozione romantica di individualità,
mettendo capo all’affermazione dell’individualità del valore e della sua
inerenza al processo storico. Non a caso, un decennio più tardi, l’adesione
allo storicismo e lo sforzo di sottrarlo alle spire mortali del relativismo si
compongono non tanto sul terreno teorico, quanto in un nostalgico quadro
retrospettivo delle origini dello storicismo. In Die Entstehung des Historismus
(1936) Meinecke muove dalla convinzione che lo storicismo costituisca la
maggiore «rivoluzione » culturale dell’età moderna, in virtù della quale la fede
giusnaturalistica in una ragione eterna e atemporale ha lasciato il posto al
duplice riconoscimento dell’individualità dei singoli momenti del mondo umano e
della loro appartenenza a un processo di sviluppo che tutti li comprende. Il
diritto naturale — elemento costante della tradizione filosofica occidentale,
dal pensiero antico al Cristianesimo, dal Rinascimento all'Illuminismo — è
consi72 INTRODUZIONE derato da Meinecke il grande antagonista dello storicismo,
e al tempo stesso il suo immediato antecedente storico. Sorto attraverso un
secolare distacco dall’impostazione giusnaturalistica, che ha avuto inizio con
il trapasso dal razionalismo seicentesco alla cultura illuministica, lo
storicismo è giunto alla sua piena maturità nel pensiero tedesco di fine
Settecento con Herder, con Mîser, con Goethe. In questa prospettiva il rapporto
tra Illuminismo e storicismo si presenta come un rapporto di opposizione, ma
anche di continuità: la cultura illuministica ha messo in crisi, dall’interno,
la fiducia nell’esistenza di norme razionali immutabili, creando così le
premesse di un nuovo senso della storia. Perciò lo storicismo di cui Meinecke
delinea il processo genetico è pur sempre identificato con la concezione
romantica della storia e con l’elaborazione dottrinale che questa ha subìto da
parte della scuola storica tedesca, in particolare ad opera di Ranke. E nel
richiamo a Ranke, il quale concepisce « Dio al di sopra del mondo, il mondo
creato da lui, ma anche percorso dal suo spirito, e perciò affine a Dio e al
tempo stesso anche sempre imperfetto in quanto terreno », Meinecke cerca il
modo di sottrarre lo storicismo al suo esito relativistico. Contro l’idealismo
post-kantiano e contro la filosofia della storia di Hegel egli ribadisce — in
polemica con Croce, che aveva sostenuto l’ascendenza hegeliana dello storicismo
e la sua identità col «razionalismo concreto» — l'impossibilità di ricondurre
il processo storico a un principio razionale; contemporaneamente egli rivendica
nei confronti del movimento storicistico degli ultimi decenni l’assolutezza dei
valori, un’assolutezza operante nell’ambito della storia che designa
(rankianamente) la presenza di Dio in ogni epoca storica. Questa impostazione,
esplicitamente formulata in una serie di saggi poi raccolti in Vom geschichtlichen
Sinn und vom Sinn der Geschichte (1939) e negli Aphorismen und Skizzen zur
Geschichte (1942), segnava la conclusione dello sforzo speculativo dello
storicismo tedesco contemporaneo. Ma ne segnava anche, in larga misura, il
fallimento. L'ombra del relativismo dava luogo a un tentativo di restaurazione
dei valori che si risolveva, in fondo, nel ritorno alla visione romantica della
storia, a quella visione da cui il movimento storicistico aveva cercato — a
partire da Dilthey — di svincolarsi. E significativamente l’affermazione della
presenza dell’assoluto in ogni momento del processo storico veniva a coincidere
proprio con quella relativizzazione dei valori che Troeltsch e Meinecke si
erano proposti di evitare. La via di uscita dal relativismo era trovata in un
vago e generico rinvio al senso ignoto della storia, alla possibilità di
conciliare immanenza e trascendenza su un piano inaccessibile alla logica
umana. Caratteristico prodotto di un’epoca che aveva guardato alla storia con
fiducia, di un’epoca che aveva visto il consolidarsi del capitalismo
industriale e l’affermazione della potenza del nuovo stato nazionale tedesco,
di un’epoca che aspirava a penetrare scientificamente i processi storici senza
però ridurli naturalisticamente a processi biologici o psicologici, il
movimento storicistico non ha retto al trauma della guerra e della sconfitta.
Anche se i rapporti tra la crisi politico-culturale della Germania post-bellica
e la crisi dello storicismo tedesco sono tutt'altro che diretti, e sfuggono in
ogni caso a troppo facili semplificazioni — del tipo di quelle predilette dal
Luk&cs della Zerstorung der Vernunft — non si può negarne né la sostanziale
contemporaneità né la correlazione. Intorno al 1920 il movimento storicistico
ha ormai esaurito la sua carica produttiva; e la morte di Weber può essere
assunta come data emblematica di questa svolta. Da allora esso guarda al futuro
con timore, con il timore che il processo storico porti non già
all’accrescimento ma alla perdita del patrimonio culturale che la storia
precedente ha trasmesso. Da ciò il ripiegamento sul passato che spinge
Troeltsch e Meinecke a idealizzare l’eredità del pensiero romantico e a
cercarvi un rifugio. Il grandioso quadro storiografico di Die Enzstehung des
Historismus è sì un esame di coscienza dello storicismo, ma ne costituisce
anche — quasi inconsapevolmente — l’elogio funebre. In una Germania dominata
dal nazismo, la quale si apprestava a tentare una rivincita che avrebbe
condotto a un nuovo più grave disastro, in unclima culturale ormai
caratterizzato dalla presenza di altri orientamenti filosofici — in primo luogo
la fenomenologia e l’esistenzialismo — non c’era più posto per lo sforzo di
analisi metodologica e di analisi strutturale che lo storicismo aveva perseguito.
Il ritorno alla concezione romantica, al senso di uno sviluppo pervaso da forze
irrazionali mai completamente eliminabili, rappresentava la resa dinanzi al
presente, e insieme un tentativo di fuga dalla sua opprimente e disperata
realtà. Non per questo, tuttavia, l’eredità del movimento storicistico 74
INTRODUZIONE andava perduta. Nella breve e travagliata stagione della
repubblica di Weimar esso aveva fecondato per vie diverse il sorgere
dell’esistenzialismo, il rinnovamento del pensiero marxistico, lo sviluppo
lella sociologia del sapere. Dalla Psychologie der Weltanschauungen (1919) di
Jaspers a Sein und Zeit (1927) di Heidegger, da Geschichte und
Klassenbewusstsein (1923) di Luk&cs a Ideologie und Utopie (1929) di
Mannheim, esso ha contribuito in maniera decisiva al delinearsi di nuove
prospettive filosofiche e di nuove direzioni d'indagine storico-sociologica.
Anche più tardi, quando il nazismo sarà pervenuto al potere, il movimento
storicistico continuerà ad agire soprattutto fuori dei confini tedeschi, e
un'intera generazione di studiosi più giovani — educati nell'immediato
dopoguerra e costretti all'esilio all’inizio degli anni ’30 — recherà
all’estero l'insegnamento di Dilthey, di Simmel e soprattutto di Weber, Così lo
storicismo tedesco è sopravvissuto in forme molteplici alla propria crisi,
mostrando la sua non ancora cessata capacità di trasfigurazione. NOTA
BIBLIOGRAFICA Vengono qui indicate soltanto opere di carattere generale, che si
riferiscono in tutto o in parte allo storicismo tedesco contemporaneo e ai suoi
rapporti con la cultura filosofica otto-novecentesca. Le monografie dedicate a
singoli autori sono menzionate nelle rispettive note bibliografiche. R. Aron, Essai sur la
théorie de l'histoire dans l’ Allemagne contemporaine (La philosophie critique
de l’histoire), Paris, 1938, 19502. M. ManpeLsaum, The Problem of Historical
Knowledge, New York, 1938, parte I. C. Antoni, Dallo storicismo alla
sociologia, Firenze, 1939 (ristampa 1973). H. R. von SrBik, Geist und
Geschichte vom deutschen Humanismus bis zur Gegenewart, Miinchen, 1950-51. G. Luracs, Die Zerstorung der
Vernunft, Berlin, 1953; tr. it. Torino, 1959. P. Rossi, Lo storicismo tedesco
contemporaneo, Torino, 1956, 1971?. H. Stuart HucHes, Consciousness and Society
(The Reorientation of European Social Thought), New York, 1958; tr. it. Torino, 1967. P. Rossi, Storia e storicismo
nella filosofia contemporanea, Milano, 1960. I. S. Kon, Die
Geschichtsphilosophie des 20. Jahrhunderts Kritischer Abriss (tr. dal russo),
Berlin, 1964. G. ScHmipr, Deutscher Historismus und der Ùbergang zur parlamentarischen
Demokratie: Untersuchungen zu den politischen Gedanken von Meinecke, Troeltsch,
Max Weber, Liùbeck-Hamburg, 1964. M. C. Branps, MHistorisme als Ideologie: Het «
onpolitieke » en « anti-normative » Element in de Duitse Geschiedwetenschap,
Assen, 1965. G. G.
Iccers, The German Conception of History: The National Tradition of Historical
Thought from Herder to Present, Middletown (Conn.), 1968; tr. tedesca col
titolo Deussche Geschichtswissenschaft, Miinchen, 1971. 76 NOTA BIBLIOGRAFICA F. Tessitore, Lo storicismo,
nella Storia delle idee politiche, economiche e sociali, Torino, vol. IV, 1972,
pp. 27-126. Sulla storia e sui significati del termine « storicismo » si
rimanda ai seguenti studi: E. RorHacger, Historismus, « Schmollers Jahrbuch »,
LXII, 1938, pp. 388-99. D. E. Lee e R. N. Beck, The Meaning of « Historicism », « American
Historical Review », LIX, 1953-54, pp. 568-77. C. G. Ranp, Two Meanings of
Historicism in the Writings of Dilthey, Troeltsch and Meinecke, « Journal of
the History of Ideas», XXV, 1964, pp. 503-18. P. Rosst, Storicismo, nella Enciclopedia
Feltrinelli-Fischer, vol. XIV : Filosofia, Milano, 1966, pp. 446-72. M. ManpeLBAUM, Historicism, in
The Encyclopedia of Philosophy, New York, 1967, vol. IV, pp. 22-25. G. G.
Iccers, Historicism, nel Dictionary of the History of Ideas, New York, 1973,
vol. II, pp. 456-64. La presente
edizione I testi compresi in questo volume sono stati tradotti ex mzovo anche
quando ne esisteva un'altra traduzione italiana. Si è fatta eccezione soltanto
per gli scritti filosofici di Dilthey e per i saggi metodologici di Weber, a
suo tempo tradotti dal curatore in due volumi della « Biblioteca di cultura
filosofica» di Einaudi, nonché per il primo capitolo della Soziologie di
Simmel, del quale si è utilizzata la traduzione (non ancora pubblicata) di
Giorgio Giordano per i « Classici della sociologia » delle Edizioni di
Comunità, e per l’altro saggio weberiano Wissenschaft als Beruf, del quale si è
utilizzata l'ottima traduzione di Antonio Giolitti. Anche in questi casi, però,
la traduzione è stata sottoposta a una revisione accurata, e in diversi passi
modificata a scopo di uniformità terminologica. Il curatore desidera
ringraziare pubblicamente Sandro Barbera, che ha prestato la sua valida opera
di traduttore, nonché Claudio Magris, Massimo Mori ed Enzo Randone, che lo
hanno aiutato a rintracciare alcune citazioni. Un particolare ringraziamento va
a Massimo Mori, che ha contribuito alla correzione delle bozze. DILTHEY nasce a
Biebrich am Rhein, nel ducato di Nassau, figlio di un pastore calvinista. Dopo
aver compiuto gli studi liceali a Wiesbaden, si iscrive a Heidelberg e quindi a
quella di Berlino. A Heidelberg è allievo dello storico della filosofia Fischer,
a Berlino di alcuni dei maggiori maestri della scuola storica come il filologo
classico Boeckh, lo storico Ranke, il geografo Ritter, nonché di un altro
illustre storico della filosofia, Trendelenburg. In virtù del loro insegnamento
la partecipazione di Dilthey al mondo della cultura romantica, soprattutto alla
poesia e alla musica da un lato e alla religiosità dall’altro — partecipazione
di cui è testimonianza il diario, pubblicato dalla figlia Clara Misch Dilthey
col titolo Dilthey (Leipzig-Berlin; Gottingen) — si traduce nell’interesse
storico per la concezione del mondo e per le manifestazioni
artisticoletterarie, religiose, filosofiche del Romanticismo tedesco. Da questo
interesse prese le mosse una serie di studi su Hamann e su Schleiermacher, che
metteranno capo — dietro suggerimento di Trendelenburg — prima alla
dissertazione di dottorato De principiis ethices Schleiermacheri (Berlin, 1964;
tr. it. Napoli, 1974) e poi al primo volume di un'ampia biografia rimasta
incompiuta, il Leben Schleiermachers (Berlin, 1867-70; 2° ed. a cura di H.
Mulert, Berlin-Leipzig, 1922; 3* ed. a cura di M. Redeker, Berlin, 1970). Dopo
aver ottenuto l'abilitazione a Berlino, Dilthey diventa professore di filosofia
a Basilea nel 1867, per poi trasferirsi a Kiel nel 1868 e a Breslau nel 1871.
In quest'ultima città egli stringe amicizia col conte Paul Yorck von
Wartenburg, con il quale egli avrà un intenso e fecondo scambio intellettuale
fino alla morte di lui: testimonianza di questo scambio sono le lettere
pubblicate postume (nel Briefwechsel zwischen Wilhelm Dilthey und dem Grafen
Paul Yorck von Wartenburg, Halle, 1923). Nel 1882, infine, Dilthey fu chiamato
a succedere a Hermann Lotze all’Università di Berlino, dove insegnò fino al
1906. Priva di avvenimenti esteriori di rilievo (Dilthey non partecipò mai alla
vita politica tedesca), la vita di Dilthey coincide sostanzialmente con la sua
carriera accademica e con la sua attività intellettuale. Morì a Siusi (Bolzano)
il 1° ottobre 1911. Negli anni dal 1864 (in cui scrive il VersucA einer Analyse
der moralischen Bewusstsein, presentato come lavoro di dissertazione) al 1875
(in cui pubblica il saggio Uber das Studium der Geschichte der Wissenschaften
vom Menschen, der Gesellschaft und dem Staat) Dilthey ha elaborato i
presupposti della propria impostazione filosofica, staccandosi gradualmente
dalle posizioni romantiche della sua gioventù e avvicinandosi al movimento
neoccriticistico. L'Habilitationsschrift del 1864, dedicata a un'analisi della
coscienza morale che riflette da vicino l'insegnamento di Trendelenburg, vuol
rivendicare nei confronti dell'etica kantiana il carattere storico delle
prescrizioni in cui si esprime l’imperativo categorico, e quindi la variabilità
del contenuto della morale. In seguito, la prolusione con la quale Dilthey dà
inizio nel 1867 al suo insegnamento a Basilea (Die dichterische und
philosophische Bewegung in Deutschland 1770-1800), se da un lato pone in
rilievo l’importanza del contributo che la cultura tedesca di fine Settecento,
da Lessing a Hegel, ha dato alla comprensione delle manifestazioni storiche del
mondo umano, dall’altro fa valere l'esigenza di estendere l’indagine critica
alle scienze che studiano la realtà storico-sociale. Il saggio del 1875
riprende questi temi impostando per la prima volta in termini espliciti il
problema della fondazione critica di queste discipline, ossia delle « scienze
dello spirito ». Questo problema costituisce il punto di partenza di tutta la
successiva produzione filosofica diltheyana del periodo berlinese. Nel 1883
compare il primo (e anche unico) volume dell’Ein/eitung in die
Gersteswissenschaften (tr. it. Firenze, 1974), in cui Dilthey si propone di
rivendicare l'autonomia delle scienze storico-sociali nei confronti delle
scienze naturali, determinandone le caratteristiche specifiche e quindi le
condizioni che ne garantiscono la validità. Le scienze della natura e le
scienze dello spirito si differenziano — secondo l'analisi diltheyana — in
primo luogo per il loro oggetto, in quanto le prime studiano un complesso di
fenomeni esterni all'uomo, mentre le seconde studiano invece un dominio di cui
l’uomo è parte integrante e di cui possiede una coscienza immediata. A questa
differenza di oggetto si accompagna perciò una differenza di carattere
gnoscologico, dal momento che i dati delle scienze della natura provengono
dall'osservazione esterna e i dati delle scienze dello spirito derivano, in
primo luogo, dall'esperienza interna, dall'esperienza vissuta (Er/ebnis) che
l'uomo ha di sé e dalla comprensione che può avere degli altri uomini; inoltre,
mentre le prime si propongono di fornire una spiegazione causale, le seconde si
avvalgono di categorie peculiari come quelle di significato, di scopo, di
valore ecc. Entrambi questi criteri di distinzione riconducono però a una
differenWILHELM DILTHEY 8I za di rapporto tra soggetto e oggetto: nelle scienze
della natura i due termini sono eterogenei tra loro, mentre nelle scienze dello
spirito il soggetto conoscente appartiene allo stesso mondo umano che
costituisce l'oggetto dell'indagine. Ma non soltanto il rapporto tra soggetto e
oggetto, bensì la stessa struttura del mondo umano presenta un proprio
carattere specifico. Il mondo umano ha il suo nucleo elementare, il suo
Grundkéòrper (come Dilthey lo chiama), nell’individuo, e appare costitui to da
un complesso di rapporti storicamente condizionati, dai quali sorgono i sistemi
di cultura e i sistemi di organizzazione sociale. Gli uni e gli altri devono
essere compresi nella loro esistenza storica, in quanto la struttura del mondo
umano è appunto storica. Da ciò deriva l’articolazione sistematica
dell’edificio delle scienze dello spirito. Da una parte la ricerca storica
indaga le manifestazioni del mondo umano nella loro individualità; dall’altra
le discipline di tipo generalizzante cercano di scoprire le uniformità del
mondo umano. E di queste fanno parte sia la psicologia e l’antropologia, che
hanno per oggetto l'individuo, sia le scienze dei sistemi di cultura e le
scienze dell’organizzazione esterna della società, le quali studiano
rispettivamente le forme culturali (arte, religione, filosofia, scienza ecc.) e
le istituzioni politiche, economiche, giuridiche in cui si strutturano i
rapporti tra gli uomini. L'Einleitung in die Geisteswissenschaften segna così
la data d'inizio, per così dire, del movimento storicistico tedesco. Le due
direzioni di ricerca che in essa si intrecciano, cioè l’analisi metodologica
delle scienze dello spirito e l’analisi della struttura del mondo umano come
mondo storico-sociale, vengono riprese da Dilthey in una serie di saggi
successivi, particolarmente nelle /deen tiber eine beschreibende und
zergliedernde Psychologie (1804) e nei Beitrige zum Studium der Individualitit
(1895-96). Nel primo, partendo dalla determinazione della struttura della vita
psichica, Dilthey formula il programma di una psicologia descrittiva e
analitica che si contrappone alla psicologia esplicativa e costruttiva di
impostazione positivistica, e attribuisce ad essa un compito di fondazione
rispetto alle altre scienze dello spirito — compito che verrà in seguito messo
in disparte. Nel secondo egli addita nella spiegazione e nella comprensione i
procedimenti caratteristici propri rispettivamente delle scienze della natura e
delle scienze dello spirito e, respingendo la distinzione tra scienze
nomotetiche e scienze idiografiche che Windelband aveva formulato (come
vedremo) nel 1894, determina il compito delle scienze dello spirito nello
studio dell’individuazione storica, quale essa sorge sulla base dell'uniformità
attraverso la mediazione del tipo. Negli scritti del periodo 1905-1911 (cioè,
all'incirca, del periodo successivo alla conclusione dell’insegnamento
berlinese) il problema della fondazione delle scienze dello spirito trova la
sua più matura formulazio 6. STORICISMO TEDESCO. 82 WILHELM DILTHEY ne.
Soprattutto nelle Studien zur Grundlegung der Geisteswissenchaften (1905-10),
in Der Aufbau der geschichilichen Welt in den Geisteswissenschaften (1910) e
negli appunti manoscritti che ne costituiscono il Plan der Fortsetzung
(1910-11) Dilthey realizza nella sua forma definiti va il progetto, perseguito
fin dalla gioventù, di una «critica della ragione storica » (tr. it. Torino,
1954). Attraverso l’analisi delle scienze dello spirito egli perviene a
individuare il fondamento della loro validità nel nesso tra l’Erleben (ossia il
divenire della vita, di cui il soggetto è immediatamente consapevole),
l’espressione della vita e l’intendere: la vita si realizza in un complesso di
manifestazioni oggettive o di « oggettivazioni » che devono essere intese, cioè
che devono costituire il termine di riferimento dello sforzo umano di
comprensione. La conoscenza del mondo umano, fornita dalle scienze dello
spirito, si configura pertanto come una conoscenza dall’interno, che è opera
dell’uomo stesso; però questa conoscenza non è data immediatamente
nell’introspezione, ma può essere ottenuta soltanto attraverso lo studio dei
prodotti storici dell'attività umana. L’intendere implica un riferimento
retrospettivo all’Erleben, il quale è mediato dall'espressione; esso esprime la
consapevolezza dello scaturire di tutte le manifestazioni storiche dal processo
produttivo della vita. D'altra parte il mondo umano si configura come
l’oggettivazione dello spirito, cioè come « spirito oggettivo » — anche se in
senso ben diverso da quello hegeliano. E l’analisi di questa struttura pone in
luce che ogni fenomeno del mondo umano è una connessione dinamica, la quale
produce valori e realizza scopi, avendo il proprio centro in se stessa. Di tale
specie sono non soltanto i sistemi di cultura e i sistemi di organizzazione sociale,
ma anche le epoche storiche, le quali si differenziano per i loro valori e fini
particolari e sono caratterizzate ognuna da un proprio orizzonte; cosicché ogni
epoca deve essere compresa in base al suo sistema di valori, il quale
costituisce il criterio di valutazione di ogni sua manifestazione. Attraverso
quest'analisi della struttura del mondo umano Dilthey perviene, negli scritti
del periodo 1905-1911, a riconoscerne la fondamentale storicità: già
l'individuo in quanto tale è un essere storico, e storicamente condizionati
sono tutti i fenomeni del mondo umano. La critica della ragione storica sfocia
così in una critica « storica » della ragione, vale a dire in una filosofia
dell’uomo come essere storico. La storicità del mondo umano coinvolge la stessa
filosofia, che risulta qualificata come una forma particolare di intuizione del
mondo. Nel saggio Das Wesen der Philosophie (1907; tr. it. Torino, 1954) e
negli altri due saggi dedicati al medesimo tema, Das geschichtliche Bewusstscin
und die Weltanschauungen e Dice Typen der Weltanschauung und ihre Ausbildung in
den metaphysischen Systemen, Dilthey ha definito il rapporto tra filosofia e
intuizione del mondo. Arte, religione e filosofia sono tutti e tre modi di
esprimere un'’intuizione del mondo che non è soltanto una forma di conoscenza
della realtà, ma anche un complesso di valori, di fini e di regole di condotta,
ossia un atteggiamento di fronte alla vita; e la filosofia si
distinguedall’artee dalla religione per la sua aspirazione a una validità incondizionata
— un’aspirazione che è però contraddetta dalla coscienza storica, la quale pone
in luce il condizionamento storico di tutte le dottrine filosofiche. Su questa
base Dilthey individua le forme tipiche di intuizione del mondo (e quindi anche
di filosofia) nel naturalismo, nell’idealismo oggettivo e nell’idealismo della
libertà, e interpreta la storia della filosofia come una lotta tra questi tre
tipi ricorrenti. Tra la pretesa di validità incondizionata della filosofia e la
coscienza storica si determina quindi un’antinomia, la quale trova la propria
soluzione in una « filosofia della filosofia » intesa come indagine critica
sulla possibilità e sui limiti della filosofia. Essa deve porre in luce il
carattere illegittimo della pretesa metafisica di offrire una spiegazione
globale della realtà, e richiamare la ricerca filosofica alla consapevolezza
della propria relatività storica. Questa concezione della filosofia e della sua
storia ispira anche le numerose opere di storiografia filosofica a cui Dilthey
ha dedicato gran parte della sua attività. Dai primi studi su alcune figure del
mondo culturale romantico e dalla biografia di Schleiermacher egli è venuto
allargando il proprio campo di ricerca al Rinascimento, alla Riforma,
all’Illuminismo, per poi ritornare all’analisi del Romanticismo tedesco e
dell’idealismo post-kantiano. Un primo gruppo di saggi, pubblicati per la
maggior parte negli anni 1891-94 e quindi raccolti sotto il titolo generale
Weltanschauung und Analyse des Menschen seit Renaissance und Reformation (tr.
it. Firenze, 1927), è dedicato al Rinascimento e alla Riforma, nonché al
processo di fondazione del « sistema naturale delle scienze dello spirito » nel
secolo xvi. Un secondo gruppo concerne invece la cultura filosofica del Settecento,
con particolare riguardo a Leibniz e a Federico Il: particolarmente importante
tra di essi è quello dedicato alla concezione illuministica della storia, Das
achtzehnte Jahr hundert und die geschichiliche Welt (1901; tr. it. Milano,
1967). Un terzo gruppo riguarda invece gli aspetti poetici e musicali della
cultura romantica tedesca, considerati nel loro rapporto con l'intuizione del
mondo propria del Romanticismo: essi sono raccolti in Das Erlebnis und die
Dichtung (Leipzig, 1906; tr. it. Milano, 1947) e nel volume postumo Von
deutscher Dichtung und Musik (Leipzig, 1933). A questo filone di studi si
collega l’ultimo dei lavori storici di Dilthey, cioè l'ampia biografia del
giovane Hegel tracciata in Die Jugendgeschichte Hegels (1905-6), nella quale la
formazione del pensiero hegeliano viene studiata nei suoi 84 WILHELM DILTHEY
legami con l’ambiente culturale del Romanticismo tedesco e indagata nei suoi
motivi « teologici ». Al centro di tutti questi scritti sta la connessione tra
la filosofia e l'intuizione del mondo propria delle varie epoche, analizzata
nel ripresentarsi di certe posizioni fondamentali — corrispondenti ai vari tipi
di intuizione del mondo — che fanno della successione delle diverse dottrine un
processo storico unitario. Le opere di Dilthey sono state raccolte nelle
Gesammelte Schriften, edite dalla casa editrice Teubner in undici volumi (vol.
IIX e XI-XII) dal 1914 al 1936. Dopo la guerra, la casa Vandenhoeck und
Ruprecht di Géttingen ha ristampato più volte le opere di Dilthey, aggiungendovi
nuovi volumi: la raccolta è tuttora da completare. Il primo volume (a cura di
B. Groethuysen) comprende l'Einlcitung in die Geisteswissenschaften; il secondo
(a cura di G. Misch) racchiude gli studi sul Rinascimento e sulla Riforma,
sotto il titolo Weltanschauung und Analyse des Menschen seit Renaissance und
Reformation; il terzo (a cura di P. Ritter) raccoglie gli studi sull’età di
Leibniz, sull'età di Federico il Grande e il saggio Das achtzehnte Jahrhundert
und die geschichtliche Welt, sotto il titolo Studien zur Geschichte des
deutschen Geistes; il quarto (a cura di H. Nohl) comprende la Jugendgeschichte
HRegels und andere Abhandlungen zur Geschichte des deutschen Idealismus; il
quinto e il sesto (a cura di G. Misch, che vi ha premesso un ampio e importante
Vorbericht) raccolgono, sotto il titolo complessivo Die geistige Welt:
Einleitung in die Philosophie des Lebens, alcuni saggi fondamentali tra cui
Uber das Studium der Geschichte der Wissenschaften vom Menschen, der
Gesellschaft und dem Staat, i Beitrige zur Lòsung der Frage vom Ursprung
unseres Glaubens an die Realitàt der Aussenwelt und seinem Recht, le Ideen
iiber eine beschreibende und zergliedernde Psychologie, i Beitrige zum Studium
der Individualitit, Das Wesen der Philosophie, nonché diversi altri saggi di
poetica e di estetica; il settimo (a cura di B. Groethuysen) racchiude, sotto
il titolo Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften, le
tre Studien zur Grundlegung der Geisteswissenschaften, l'ampio saggio che dà il
titolo al volume e il relativo Plan der Fortsetzung; l'ottavo (a cura di B.
Groethuysen) comprende i saggi dedicati alla Weltanschauungslehre, e cioè Das
geschichtliche Bewusstsein und die Weltanschauungen e Die Typen der
Weltanschauung und ihre Ausbildung in den metaphysischen Systemen; il nono (a
cura di O. F. Bollnow) è dedicato alla Pidagogik; il decimo (a cura di H. Nohl,
e apparso nel 1958) racchiude il System der Ethik; l'undicesimo (a cura di E.
Weniger) raccoglie, sotto il titolo complessivo Vom Ausgang des geschichtlichen
Bewusst86 WILHELM DILTHEY sein, numerosi saggi giovanili su storici tedeschi
dell'Ottocento; il dodicesimo (a cura di E. Weniger) comprende vari saggi Zur
politischen Geschichte, a cui fa seguito l'elenco completo degli scritti di Dilthey
fino al 1883 (pp. 208-12); il quattordicesimo (a cura di M. Redeker, e apparso
nel 1966, su licenza dell’editore de Gruyter) contiene il vol. II del Leben
Schleiermachers; il sedicesimo (a cura di U. Herrmann, e apparso nel 1972)
raccoglie, sotto il titolo complessivo Zur Geistesgeschichte des 19.
Jahrhunderts, una serie di articoli e di recensioni del periodo 1859-74.
Rimangono al di fuori delle Gesammelte Schriften i seguenti volumi, già
menzionati nella nota biografica: Der junge Dilthey. Ein Lebensbild in Briefen
und Tagebiichern (1852-1870), Leipzig-Berlin, 1933, e Gòttingen, 1960?; Das
Erlebnis und die Dichtung, Leipzig-Berlin, 1906, 1907”, 1g1o3, e Géttingen,
1965 4; Von deutscher Dichtung und Musik, Leipzig-Berlin, 1933, e Gòttingen,
19572. Il Leben Schleiermachers è stato completato con la pubblicazione del
secondo volume, Schleiermachers System als Philosophie und Theologie (a cura di
M. Redeker), Berlin, 1966; lo stesso Redeker ha in seguito dato una nuova
edizione critica del primo volume, Berlin, 1970? Rimangono inoltre al di fuori
delle Gesammelte Schriften varie raccolte di lettere, e precisamente: il
Briefwechsel zwischen Wilhelm Dilthey und dem Grafen Paul Yorck von Wartenburg
(1877-1897), Halle, 1923; i Briefe Wilhelm Diltheys an Beyrnhardt und Luise
Scholz (1859-1864), « Sitzungsberichte der Preussischen Akademie der
Wissenschaften », Philosophisch-historische Klasse, 1933, n. 10, pp. 416-71; i
Briefe Wilhelm Diltheys an Rudolf Haym (1861-1873), « Abhandlungen der
Preussischen Akademie der Wissenschaften », Berlin, 1936. Si veda inoltre W.
Biemel, Einleitende Bemerkung zum Briefwvechsel Dilthey-Husserl, « Man-World »,
I, 1968, pp. 428-46. Tra l'ormai vasta letteratura critica dedicata all'opera e
al pensiero di Dilthey segnaliamo gli studi seguenti: B. GroetHursen, Wilhelm
Dilthey, « Deutsche Rundschau », CLIV, n. 4, 1913, pp. 69-92, € n. 5, 1913, pp.
24970. A. Stern,
Der Begriff des Geistes bei Dilthey, Tùbingen, 1913, 2° ed. col titolo Der
Begriff des Verstehen bei Dilthey, Tiibingen, 1926. B. ScHarpnact, Diltheys
Verhdltnis zur Geschichte, Berlin, 1927. L. Lanporese, Wilhelm Diltheys Theorie
der Geisteswissenchaften, Halle, 1928. G. MiscH, Lebensphilosophie und
Phinomenologie. Eine Auscinandersetzung der Diltheyschen Richtung mit Heidegger
und Husserl, Bonn, 1930, e Leipzig-Berlin, 1931, infine Stuttgart, 1967?.
WILHELM DILTHEY 87 K. Karsuse, Wilhelm Diltheys Methode der Lebensphilosophie,
Hiroshima, 193I. A. Decener, Dilthey und das Problem der Metaphysik, Bonn-Kéln,
1933. A. Liesert, Wilhelm Dilthey, Berlin, 1933. C. Cuppers, Die
erkenntnistheoretischen Grundgedanken Wilhelm Diltheys, Leipzig-Berlin, 1934.
J. Hennic, Lebensbegriff und Lebenskategorie. Studien zur Geschichte und
Theorie der geisteswissenschaftlichen Begriffsbildung mit besonderer
Beriicksichtigung Wilhelm Diltheys, Aachen, 1934. J. StenzeL, Dilthey und die
deutsche Philosophie der Gegenwart, « Philosophische Vortrige der
Kant-Gesellschaft », Berlin, 1934. G. Masur, Wilhelm Dilthey und die
europdische Geistesgeschichte, « Deutsche Vierteljahrschrift fir Literaturwissenschaft und
Geistesgeschichte », XII, 1934, pp. 479-503. D. BiscHorr, Wilhelm Diltheys
geschichiliche Lebensphilosophie, LeipzigBerlin, 1935. O. F. BoLLnow, Dilthey.
Eine Einfihrung in seine Philosophie, LeipzigBerlin, 1936, e Gottingen, 19557,
19672. W. ErxLEDEN, Erlebnis, Verstehen und geschichiliche Wahrheit.
Untersuchungen tiber die geschichiliche Stellung von Wilhelm Diltheys
Grundlegung der Geisteswissenschaften, Berlin, 1937. E. Puccraretti, Introduccibn a la filosofia de Dilthey,
La Plata, 1938. C.T.
Grocx, Wilhelm Diltheys Grundlegung einer twissenschaftlichen
Lebensphilosophie, Berlin, 1939. L.
Giusso, Wilhelm Dilthey e la filosofia come visione della vita, Napoli, 1940. F. Henner, Der Begriff der
Lebendigkeit im Diltheys Menschenbild, Berlin, 1940. H. A. Hopces, Wilhelm
Dilthey: an Introduction, London, 1944, 1949*, 1969 ?. G. MiscH, Vom Lebensund
Gedankenkreis Wilhelm Diltheys, Frankfurt a.M., 1947. E. Imaz, E! pensamiento de
Dilthey: evolucién y sistema, México, 1947. H. Hotsorn, Wilhelm Dilthey and the Critique of
Historical Reason, « Journal of the History of Ideas », XI, 1950, pp. 93-118.
88 WILHELM DILTHEY H.A. Hopaes, The Philosophy of Wilhelm Dilthey, London,
1952. G. Masur, Wilhelm Dilthey and the History of Ideas, «Journal of the
History of Ideas », XIII, 1952, pp. 94-107. W. Krusacx, Wilhelm Diltheys
Philosophy of History, New York, 1956. F. Diaz pe Cerio Ruiz, W. Dilthey y el
problema del mundo histérico, Barcelona, 1959. A. Necri, Saggi sullo storicismo tedesco: Dilthey e
Meinecke, Milano, 1959, parte I. A. WaisMann, Dilthey o la lirica del
historicismo, Tucumîn, 1959. J.-F. Suter, Philosophie et histoire chez Wilhelm
Dilthey, Basel, 1960. F. Diaz pE Certo Ruiz, Introduecibn a la filosofia de W.
Dilthey, Barcelona, 1963. H. Diwarp, Wilhelm Dilthey: Erkenntnistheorie und
Philosophie der Geschichte, Géttingen, 1963. K. MuLLer-VoLuMER, Towards a Phenomenological
Theory of Literature: A Study of Wilhelm Dilthey's « Poetik », The Hague, 1963.
L. von REnTHE-FinK, Geschichilichkeit: ihr terminologische und begriffliche
Ursprung bei Hegel, Haym, Dilthey und Yorck, Gòttingen, 1964, 1968 2, parte II
G. Marini, Dilthey e la comprensione del mondo umano, Milano, 1965. P. Gorsen,
Zur Phinomenologie des Bewusstseinsstroms. Bergson, Dilthey, Husserl, Simmel
und die lebensphilosophischen Antinomien, Bonn, 1966. P. Hiunermann, Der
Durchbruch geschichtlichen Denkens im 19. Jahrhundert: Johann Gustav Droysen,
Wilhelm Dilthey, Graf Paul Yorck von Wartenburg, Freiburg i.B., 1967. G. Catasrò, Dilthey e il diritto naturale,
Napoli, 1968. P. Krausser, Kritik der endlichen Vernunft. Wilhelm Diltheys Revolution der
allgemeinen Wissenschaftsund Handlungstheorie, Frankfurt a.M., 1968. R.E.
Parmer, Hermeneutics: Interpretation Theory in Schleiermacher, Dilthey,
Heidegger and Gadamer, Evanston (IIl.), 1969. F. Robi, Morphologie und Hermeneutik.
Zur Methode von Diltheys Asthetik, Stuttgart, 1969. WILHELM DILTHEY 89 H. N.
TurtLe, Wilhelm Dilthey's Philosophy of Historical Understanding, Leiden, 1969.
F. Branco, Dilthey e
Schleiermacher, « Proteus », I, 1970, pp. 87-133, poi raccolto nel volume
Storicismo ed ermeneutica, Roma, 1974, pp. 77-123. G. Marini, Dilthey e il
giovane Hegel, nel volume Incidenza di Hegel (a cura di F. Tessitore), Napoli,
1970, pp. 793-841. F. Branco, Dilthey e la genesi della critica storica della
ragione, Milano, 1971. U. Hernmanw, Die Pédagogik Wilhelm Diltheys, Gòttingen,
1971. G. Marini, Dilthey filosofo della musica, Napoli, 1973. Un'ampia
bibliografia si trova in F. Diaz pe Cerro Ruiz, W. Dilthey y el problema del
mundo histérico, cit., pp. xrx-Lv. Del medesimo autore si veda però ora il
saggio Bibliografia de W. Dilthey, « Pensamiento », XXIV, 1968, pp. 195-258. Ma
il lavoro più completo è quello di U. Herrmann, Bibliographie Wilhelm Diltheys:
Quellen und Literatur, Wernheim/Bergstr.-Berlin-Basel, 1969. SCIENZE DELLO
SPIRITO E SCIENZE DELLA NATURA * I. LE SCIENZE DELLO SPIRITO: UN COMPLESSO
AUTONOMO ACCANTO ALLE SCIENZE DELLA NATURA Il complesso delle scienze che hanno
come loro oggetto la realtà storico-sociale viene qui compreso sotto la
designazione di scienze dello spirito. Il concetto di queste scienze, in virtù
del quale esse costituiscono un complesso unitario, e la delimitazione di tale
complesso nei confronti delle scienze della natura potranno essere spiegati e
fondati in maniera definitiva soltanto nel corso dell’analisi; all'inizio ci
limitiamo a stabilire il significato in cui impiegheremo l’espressione e a
indicare provvisoriamente l'insieme dei fatti sul quale si fonda la
delimitazione di tale complesso unitario delle scienze dello spirito nei
confronti delle scienze della natura. L’uso linguistico comprende sotto il nome
di «scienza» un insieme di proposizioni i cui elementi sono concetti, cioè
perfettamente determinati, costanti in tutta la connessione di pensiero e
forniti di validità universale, i cui legami sono fondati, in cui infine le
parti sono reciprocamente connesse in una totalità allo scopo di poter
comunicare, cosicché un elemento della realtà può essere concepito nella sua
compiutezza in virtù di questa connessione di proposizione oppure un ramo
dell'attività umana può esser regolato in base ad essa. Indichiamo perciò *
Einleitung in die Geisteswissenschaften, libro I: Ubersicht tiber den
Zusammenhang der Einzelwissenschaften des Geistes, Leipzig, Duncker und
Humblot, 1883, capitoli u-vir, pp. 5-35, ora in Gesammelte Schriften, Leipzig
und Berlin, vol. I, 1914, PP. 4-28 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro
Rossi). qui col termine «scienza» ogni insieme di fatti spirituali in cui si
ritrovano le caratteristiche sopra indicate e a cui dunque generalmente viene
applicato il nome di «scienza»: in modo corrispondente presentiamo
provvisoriamente il nostro compito. Questi fatti spirituali, quali si sono
storicamente sviluppati nell’umanità, e ai quali è stata tramandata — secondo
un comune uso linguistico — la denominazione di scienze dell’uomo, della
storia, della società, costituiscono realtà che noi non vogliamo dominare, ma
anzitutto comprendere. Il metodo empirico esige che anche in questo settore
delle scienze venga determinato in modo storico-critico il valore dei singoli
procedimenti di cui il pensiero qui si serve per la soluzione dei suoi compiti,
e che venga chiarita, nell’intuizione di questo grande processo che ha per
soggetto l’umanità stessa, la natura del sapere e del conoscere relativi a
questo campo. Un tale metodo sta in antitesi a quell'altro — di recente troppo
di frequente praticato dai cosiddetti positivisti — che deriva il contenuto del
concetto di scienza da una determinazione concettuale del sapere sorta per lo
più sul terreno delle attività proprie delle scienze della natura, e che in
base ad essa decide quali siano le attività intellettuali a cui spetta il nome
e il rango di scienza. In tal modo alcuni, prendendo le mosse da un concetto
arbitrario di sapere, hanno con miopia e presunzione negato alla storiografia,
qual è stata praticata da grandi maestri, il rango di scienza; altri hanno
creduto di dover trasformare in conoscenza della realtà quelle scienze che
hanno a loro fondamento imperativi, e non già giudizi sulla realtà. L'insieme
dei fatti spirituali che ricadono sotto questo concetto di scienza viene di
solito suddiviso in due rami. L’uno è designato col nome di « scienza naturale
»; per quanto riguarda l’altro non si dispone, abbastanza stranamente, di una
designazione universalmente riconosciuta. Aderisco qui all’uso linguistico di
quegli studiosi che indicano quest'altra metà del globus intellectualis con
l’espressione di «scienze dello spirito». Da una parte questa designazione è
diventata — e non poco lo deve all’ampia diffusione del System of Logic di John
Stuart Mill! — abituale e universalmente intelligibile. D’al1. Il System of
Logic, Ratiocinative and Inductive di Mill tra parte, confrontata con tutte le
altre designazioni inadeguate tra cui è possibile scegliere, essa appare la
meno impropria. ‘È pur vero che essa esprime molto incompiutamente l’oggetto di
questo studio, giacché in esso i fatti della vita spirituale non sono separati
dalla vivente unità psico-fisica della natura umana. Una teoria che voglia
descrivere e analizzare i fatti storico-sociali non può prescindere da questa
totalità della natura umana e limitarsi all'elemento spirituale. Ma
l’espressione ha in comune questo difetto con tutte le altre che si sono
applicate: scienza della società (sociologia), scienze morali, scienze
storiche, scienze della cultura — tutte queste designazioni soffrono del
medesimo errore, di essere cioè troppo ristrette in rapporto all’oggetto che
devono esprimere. Il nome che qui si è scelto ha per lo meno il vantaggio di
designare adeguatamente l'ambito centrale di fatti a partire dal quale è stata
vista in realtà l’unità di queste scienze, abbozzato il loro ambito, compiuta —
benché ancora in maniera assai incompleta — la loro delimitazione rispetto alle
scienze della natura. Il motivo di cui è derivata l’abitudine di delimitare
queste scienze rispetto a quelle della natura, intendendole come una unità, è
radicato nella profondità e nella totalità dell’autocoscienza umana. Ancor
prima di procedere a indagini sull’origine del mondo spirituale, l’uomo trova
in questa autocoscienza una sovranità del volere, una responsabilità delle sue
azioni, una capacità di sottoporre tutto al pensiero e di opporsi a tutto nella
libertà della sua persona, mediante cui si distingue da tutta la natura. Egli
si ritrova infatti, in questa natura — per impiegare un'espressione spinoziana
— come un Imperium in imperio®. E poiché per lui esiste solamente ciò che è
fata. Pascal esprime in modo molto geniale questo sentimento della vita nelle
Pensées: « Tutte queste miserie provano la sua grandezza: sono miserie da gran
signore, miserie di un re spodestato » (I, 3). « Noi abbiamo fu pubblicato a
Londra nel 1843 e tradotto in tedesco da I. Schiel nel 1849. Questa traduzione
utilizza appunto il termine Geistessvissenschaften per rendere l'espressione
milliana moral sciences: così, per esempio, il titolo del sesto libro (On the
Logic of Moral Sciences) risulta tradotto Logik der Geisteswissenschaften.
Dilthcy fa ricorso per la prima volta al termine Geistestvissenschaften proprio
in riferimento a Mill, nel saggio Uber das Studium der Geschichte der
Wissenschaften vom Menschen, der Gesellschaft und dem Staat (1875), ora
raccolto in Gesammelte Schriften, vol. V, pp. 31-73. 94 WILHELM DILTHEY to
della sua coscienza, ogni valore e ogni scopo della vita risiede in questo
mondo spirituale che agisce in lui in maniera autonoma, e ogni fine delle sue
azioni risiede nella costruzione di fatti spirituali. Così egli distingue dal
regno della natura un regno della storia, nel quale — in mezzo alla connessione
di una necessità oggettiva, che costituisce la natura — la libertà emerge in
innumerevoli punti. In antitesi al corso meccanico dei mutamenti naturali, il
quale già contiene fin dall’inizio tutto ciò che in esso ha luogo, i fatti
della volontà producono realmente qualcosa in virtù del loro impiego di forza e
dei loro sacrifici, del cui significato l'individuo è consapevole nella propria
esperienza; essi suscitano lo sviluppo, sia nella persona sia nell’umanità —
attraverso e oltre la vuota e desolata ripetizione del corso della natura nella
coscienza, della cui rappresentazione come ideale di progresso storico si
compiacciono gli adoratori dello sviluppo intellettuale. Invano l’epoca
metafisica, per la quale questa differenza nelle basi di spiegazione si
configurava immediatamente come una differenza sostanziale inerente alla
struttura dell’universo, ha lottato per stabilire e giustificare formule in
vista della fondazione di questa differenza dei fatti della vita spirituale da
quelli del corso naturale. Tra tutte le trasformazioni che la metafisica antica
ha conosciuto presso i pensatori medievali, nulla è stato più ricco di
conseguenze del fatto che in questo periodo, in connessione con tutti i
movimenti religiosi e teologici dominanti in cui erano inseriti questi
pensatori, s’introdusse nel nucleo centrale del sistema la determinazione della
differenza tra mondo degli spiriti e mondo dei corpi, e quindi la relazione di
entrambi questi mondi con la divinità. La principale opera metafisica del
Medioevo, la Summa de veritate catholicae fidei di Tommaso, abbozza—a partire
dal secondo libro — una struttura del mondo creato in cui l’essenza (essentia
quidditas) è distinta dall’essere (esse), mentre in Dio i due momenti sono una
sola cosa*. Essa dimostra che nella gerarchia del un'idea così grande
dell'anima umana che non possiamo sopportare di esserne disprezzati, di non
esserne stimati » (I, 5) (Oeuvres complètes, Paris, 1866, vol. I, pp. 248-49).
a. Summa contra Gentiles, libro I, cap. xxt1; cfr. pure libro II, cap. LIV.
WILHELM DILTHEY 95 creato c'è un elemento necessario superiore, costituito
dalle sostanze spirituali che non risultano dall’unione di forma e materia ma
sono incorporee per sé — gli angeli — e dalle quali si distinguono le sostanze
intellettuali o forme incorporee che, per il completamento della loro specie
(cioè della specie « uomo »), abbisognano dei corpi. Su tale base essa elabora
—in polemica con la filosofia araba — una metafisica dello spirito umano la cui
influenza può venir seguita fino agli ultimi scrittori metafisici nei giorni
nostri*; da questo mondo di sostanze imperiture si distingue la parte del
creato che ha la propria essenza nell’unione di forma e materia. Questa
metafisica dello spirito (psicologia razionale) fu posta poi da altri eminenti
metafisici in relazione con la concezione meccanicistica della natura e con la
filosofia corpuscolare, non appena queste ultime diventarono dominanti. Ma ogni
tentativo di elaborare sul fondamento di questa dottrina delle sostanze, e con
i mezzi della nuova concezione della natura, una rappresentazione sostenibile
dei rapporti tra spirito e corpo naufragò. Quando Descartes sviluppò sulla base
delle proprietà chiare e distinte dei corpi in quanto grandezze spaziali la sua
rappresentazione della natura come un immenso meccanismo, considerando costanti
le grandezze di movimento presenti in questo complesso, si introdusse nel
sistema — insieme con l’ipotesi che una sola anima imprime dall’esterno un
movimento in questo sistema materiale — la contraddizione. L’impossibilità di
rappresentare un'influenza da parte di sostanze non-spaziali su questo sistema
esteso non veniva certo diminuita dal fatto che Descartes raccolse in un punto
il luogo spaziale di tale azione reciproca — come se potesse con ciò far
scomparire la difficoltà. L’avventurosità della concezione secondo cui la
divinità sorreggerebbe con ripetuti interventi questo gioco di azioni
reciproche, oppure di quell’altra, secondo cui invece Dio avrebbe, come il più
abile degli artefici, predisposto fin dall’inizio i due orologi del sistema
materiale e del mondo degli spiriti in modo tale che un avvenimento naturale
produca una sensazione e un atto di volontà realizzi una trasformazione del
mondo esterno, dimostrano nel modo più chiaro l’inconciliabilità della nuova
metafisica della natura con a. Summa contra Gentiles, libro II, cap. xvi. la precedente
metafisica delle sostanze spirituali. Cosicché tale problema operò come pungolo
sempre stimolante, favorendo la dissoluzione del punto di vista metafisico in
generale. Questa dissoluzione si completerà nella conoscenza — che si
svilupperà più tardi — che l’Erlebnis dell’autocoscienza è il punto di partenza
del concetto di sostanza, che questo concetto sorge dall’adattamento di tale
Erlebris alle esperienze esterne — prodotto dal conoscere che procede secondo
il principio di ragion sufficiente — e che in tal modo questa dottrina delle
sostanze spirituali altro non è che un riportare il concetto, formatosi in tale
metamorfosi, all’ErleBnis entro cui era originariamente dato il suo
presupposto. In luogo dell’antitesi tra sostanze materiali e sostanze
spirituali subentrò quella tra il mondo esterno dato nella percezione esterna
(sensation) mediante i sensi, e mondo interiore, dato primariamente in virtù
dell’apprendimento interno degli eventi e delle attività psichiche
(reffection)?. Il problema assume in tal modo un aspetto più modesto, che
implica però la possibilità di un'impostazione empirica. Di fronte al nuovo e
migliore metodo si fanno ora valere gli Erlebrisse che avevano trovato
un'espressione scientificamente insostenibile nella dottrina delle sostanze
propria della psicologia razionale. Per la costituzione in forma autonoma delle
scienze dello spirito occorre anzitutto che — in base a questo punto di vista
critico — da quei processi i quali sono formati mediante un collegamento
concettuale sulla base del dato sensibile, e soltanto di questo, si
distinguano, come un ambito particolare di fatti, quegli altri processi che
sono invece dati primariamente nell’esperienza interna, cioè senza alcuna
cooperazione dei sensi, e sono quindi formati sulla base del materiale
dell’esperienza interna, dato in modo primario, in occasione di processi
naturali esterni, per esser sottoposti a questi mediante un procedimento
equivalente, per la sua funzione, al ragionamento analogico. Nasce così un
particolare dominio di esperienze che ha la sua origine autonoma e il suo
materiale nell’Erlebnis interiore, e che diventa quindi spontaneamente oggetto
di una partico2. Dilthey si riferisce qui alla distinzione tra sensazione e
riflessione formulata da Locke. WILHELM DILTHEY 97 lare scienza di esperienza.
E finché qualcuno non asserirà di essere in grado di derivare dalla struttura
del cervello di Goethe e dalle qualità del suo corpo — e di rendere così meglio
conoscibile — l'insieme di passioni, di figure poetiche e di invenzione
concettuale che noi indichiamo come la vita di Goethe, non sarà neppure
contestata la posizione autonoma di una scienza siffatta. Orbene, ciò che per
noi qui esiste, ed esiste in virtù di questa esperienza interna, ciò che per
noi ha valore o costituisce uno scopo ci è dato soltanto nell’Er/ebnis del
nostro sentimento e della nostra volontà: in questa scienza sono così contenuti
i princìpi del nostro conoscere, che determinano in quale misura la natura può
esistere per noi, e i princìpi del nostro agire, che spiegano l’esistenza di
scopi, di beni, di valori su cui è fondato ogni commercio pratico con la
natura. Una fondazione più approfondita della posizione autonoma delle scienze
dello spirito accanto alle scienze della natura, che costituisce qui il nucleo
della costruzione delle scienze dello spirito, sarà compiuta più avanti,
gradualmente, nella misura in cui si procederà nell’analisi dell’Erlebnis
complessivo del mondo spirituale nella sua incomparabilità con ogni esperienza
sensibile concernente la natura. Mi limito qui a chiarire il problema, facendo
cenno al duplice senso in cui si può asserire l’incompatibilità dei due ambiti
di fatti: corrispondentemente, anche il concetto dei limiti della conoscenza
della natura acquista un duplice significato. Uno dei nostri maggiori
scienziati ha intrapreso la determinazione di questi limiti in un trattato
assai discusso, e ha di recente illustrato questa determinazione dei limiti
della sua scienza®. Supponiamo di aver tutte le trasformazioni del mondo corporeo
in movimenti di atomi, causati dalle loro forze centrali costanti: in questo
caso la totalità del mondo sarebbe conosciuta in base alle scienze della
natura. « Uno spirito — a. E. Du Bors-ReyMonp, Uber die Grenzen des
Naturerkennens, Leipzig, 4° ed. 1872: dello stesso autore si veda pure Die
sieben Weltritsel, Berlin, 18813. 3. Emil Du Bois-Reymond (1818-1896),
fisiologo positivista, autore delle due opere citate da Dilthey, sostenne
l'impossibilità per l’uomo di risolvere gli enigmi « trascendenti » e la
necessità di attenersi al principio dell’ignorabimus. egli prende le mosse da
quest'immagine di Laplace — che per un dato istante conoscesse tutte le forze
operanti della natura, e la reciproca posizione degli esseri di cui essa
consta, € che inoltre fosse anche abbastanza sapiente da sottomettere ad
analisi questi dati, sarebbe in grado di comprendere in una medesima formula i
movimenti dei massimi corpi celesti come dell’atomo più leggero » ®. Siccome
l'intelligenza umana nella scienza astronomica è una « debole copia di uno
spirito di tal fatta», Du Bois-Reymond indica la conoscenza di un sistema
materiale prospettata da Laplace come conoscenza astronomica. Partendo da tale
immagine si approda di fatto a una concezione assai chiara dei limiti entro cui
è racchiusa la tendenza dello spirito proprio delle scienze naturali. Ci sia
ora concesso di introdurre in questa considerazione del problema una
distinzione relativa al concetto di limite della conoscenza naturale. Dal
momento che la realtà, in quanto correlato dell’esperienza, ci è data nella
cooperazione della struttura dei nostri sensi con l’esperienza interna, dalla
differenza di provenienza dei suoi elementi costitutivi che ne deriva
scaturisce un'incomparabilità tra gli elementi del nostro calcolo scientifico,
la quale esclude la derivazione dei fatti di una determinata provenienza da
quelli di provenienza diversa. Dalle qualità dell'elemento spaziale perveniamo
così attraverso la fatticità del senso del tatto — nel quale viene esperita la
resistenza — alla rappresentazione della materia; ogni senso è racchiuso entro
il suo specifico ambito di qualità; e se dobbiamo apprendere uno stato della
coscienza in un momento determinato, siamo costretti a passare dalla
sensibilità alla percezione degli stati interni. Pertanto noi possiamo soltanto
accogliere i dati nell’incomparabilità in cui essi si presentano a seguito
dela. P. S.
LarLace, Essai philosophique sur les probabilités, Paris, 1814, p. 3°. 4. Pierre-Simon Laplace (1749-1827), matematico
e astronomo francese, autore dell'Exposition du système du monde (1796), del
Traité de mécanique céleste (1798-1825), della TAéorie analytique des
probabilités (1812) e del saggio citato da Dilthey, diede un contributo
decisivo alla formulazione della teoria — già enunciata da Kant — dell'origine
del sistema solare da una massa gassosa. L'Essai sviluppa le implicazioni
filosofiche del calcolo delle probabilità. la loro diversa provenienza; la loro
esistenza di fatto rimane per noi priva di giustificazione; ogni nostro
conoscere è limitato alla constatazione di uniformità nella successione e nella
contemporaneità, secondo le quali esse sono in relazioni reciproche nella
nostra esperienza. Si tratta di limiti inerenti alle condizioni stesse del
nostro esperire, cioè di limiti che sussistono in ogni punto della scienza
della natura, non già di barriere esterne in cui urti la conoscenza della
natura, bensì di condizioni immanenti allo stesso esperire. La presenza di
questi confini immanenti della conoscenza non costituisce però impedimento
alcuno per la funzione del conoscere. Se col termine comprendere si designa una
completa trasparenza nell’apprendimento di una connessione, allora ci troviamo
di fronte a barriere contro cui urta il comprendere. Ma, sia che la scienza sottometta
al suo calcolo, riconducendo i mutamenti della realtà a movimenti di atomi,
delle qualità oppure dei fatti della coscienza — sempre che questi si lascino
sottomettere — l’inderivabilità non costituisce impedimento alcuno alle sue
operazioni. È tanto poco possibile trovare un passaggio da una determinatezza
meramente matematica o da una grandezza di movimento a un colore o a un suono,
quanto a un evento della coscienza: non posso spiegare la luce azzurra mediante
il corrispondente numero di oscillazioni più di quel che possa spiegare il
giudizio negativo mediante un processo che accade nel cervello. Come la fisica
cede alla fisiologia il compito di spiegare la qualità sensibile dell’« azzurro
», così la fisiologia — che nel movimento di parti materiali non possiede
neppur essa un mezzo per far apparire d’incanto l'azzurro — trasmette alla
psicologia il suo compito, che rimane in definitiva, come in un gioco di
specchi magici, affidato alla psicologia. Ma l’ipotesi che le qualità sorgano
dal processo della sensazione è di per sé solamente un mezzo ausiliario di
calcolo, che riconduce le trasformazioni della realtà — quali si dànno nella
mia esperienza — a una certa classe di trasformazioni al suo interno che
costituisce un contenuto parziale della mia esperienza, per poterle collocare
in certo modo su uno stesso piano a scopo di conoscenza. Se fosse possibile
sostituire a fatti definiti in maniera determinata, che nel contesto della
considerazione meccanicistica della natura occupano un posto stabilito, fatti
di coscienza definiti in modo costante e determinato, e con ciò stabilire —
conformemente al sistema di uniformità in cui si trovano i primi — il
presentarsi dei processi della coscienza in un accordo completo con
l’esperienza, allora questi fatti di coscienza sarebbero inseriti nella
connessione della conoscenza naturale allo stesso modo di un qualsiasi suono o
colore. Ma proprio a questo punto l’incomparabilità tra processi materiali e
processi spirituali assume un diverso senso, e pone alla conoscenza naturale
limiti di tutt'altro genere. L’impossibilità di derivare i fatti spirituali da
quelli dell'ordine meccanico della natura, che si fonda sulla diversità della
loro provenienza, non impedirebbe l’inserimento dei primi nel sistema dei
secondi. Soltanto quando le relazioni tra i fatti del mondo spirituale si
presentano incomparabili nella loro specie con le uniformità della natura,
viene esclusa una subordinazione dei fatti spirituali a quelli accertati dalla
conoscenza meccanica della natura: infatti qui non ci si trova di fronte a
confini immanenti al conoscere empirico, bensì a limiti in cui la conoscenza
naturale finisce e ha invece inizio un’autonoma scienza dello spirito, che si
costituisce intorno a un proprio centro. Il problema fondamentale consiste
pertanto nello stabilire quella data specie di incomparabilità tra le relazioni
dei fatti spirituali e le uniformità dei processi materiali che esclude la
subordinazione dei primi e una loro interpretazione come qualità e aspetti
della materia, e che dev'essere di tutt’altro genere della differenza
sussistente tra i diversi ambiti particolari di leggi della materia — così come
queste si presentano nella matematica, nella fisica, nella chimica e nella
fisiologia, sotto forma di un rapporto di subordinazione che si sviluppa in
modo coerente. L’esclusione dei fatti spirituali dalla connessione della
materia, delle sue qualità e delle sue leggi presupporrà sempre un contrasto
che si manifesta, in qualsiasi tentativo di subordinazione siffatta, tra le relazioni
dei fatti di un campo e quelle di un altro. E ciò appare chiaro quando
l'incomparabilità della realtà spirituale viene ricondotta ai fatti
dell’autocoscienza e dell’unità della coscienza ad essa inerente, alla libertà
e ai fatti della vita normale ad essa collegati, in antitesi all’organizzazione
spaziale e alla divisibilità della materia nonché alla necessità meccanica a
cui soggiace il comportamento di ogni sua parte. Vecchi WILHELM DILTHEY IOI
quasi quanto la riflessione rigorosa sulla posizione dello spirito rispetto
alla natura sono i tentativi di formulare questo tipo di incomparabilità
dell’elemento spirituale con qualsiasi ordine naturale, sulla base dei fatti
dell’unità della coscienza e della spontaneità del volere. Nella misura in cui
nell'esposizione di questo illustre scienziato viene introdotta la distinzione
tra i confini immanenti dell’esperire e i limiti della subordinazione dei fatti
alla connessione della conoscenza naturale, i concetti di limite e di
inesplicabilità acquistano un senso esattamente definibile, e scompaiono quindi
difficoltà che si sono fatte ampiamente rilevare nella polemica intorno ai
limiti della conoscenza naturale provocata da questo scritto. L'esistenza di
confini immanenti all’esperienza non è affatto decisiva rispetto alla questione
riguardante la subordinazione di fatti spirituali alla connessione della
conoscenza della materia. Se ci si propone — come nel caso di Haeckel5 e di
altri scienziati — di inserire i fatti spirituali nella connessione della
natura, assumendo l’esistenza di una vita psichica negli elementi in base ai
quali si costituisce l'organismo, tra un tentativo del genere e la conoscenza
dei confini immanenti di ogni esperienza non sussiste assolutamente alcun
rapporto di esclusione; su di esso decide soltanto il secondo tipo di indagine
sui limiti del conoscere naturale. Per questo anche Du Bois-Reymond ha
proseguito nel secondo tipo di indagine, e nella sua dimostrazione si è servito
dell’argomento dell’unità della coscienza così come dell’argomento della
spontaneità del volere. La dimostrazione della tesi «che gli elementi
spirituali non possono mai essere compresi sulla base delle Ioro condizioni
materiali »° viene condotta come segue. Anche nel caso di una conoscenza
compiuta di tutte le parti del sistema materiale, della loro reciproca
posizione e del loro movimento, a. E. Du Bors-RexMonD, op. cit., p. 28. 5.
Ernest Heinrich Hacckel (1834-1919), biologo e filosofo positivista, autore di
numerose opere di argomento zoologico e di una Generelle Morphologie der
Organismen (1866), nonché di vari volumi sulla teoria dell'evoluzione, fu uno
dei maggiori esponenti del darwinismo in Germania. Il libro Die Welrétse!
(1899), scritto in polemica con Du Bois-Reymond, rappresenterà un tentativo di
risposta in chiave positivistica a quelli che Du Bois-Reymond aveva indicato
come gli enigmi insolubili del mondo. rimane però del tutto incomprensibile
perché a un certo numero di atomi di carbonio, d’idrogeno, di azoto, di
ossigeno, non dovrebbe essere indifferente in qual modo essi sono collocati e
si muovono. L'impossibilità di spiegare l'elemento spirituale rimane tuttavia
immutata anche se ognuno di questi elementi è corredato di coscienza al pari
delle monadi; in base a quest’ipotesi non si può spiegare la coscienza unitaria
dell’individuo*. a. E. Du Bois-RerMonD, op. cit., pp. 29-30; cfr. anche Die
sieben Weltritsel cit., p. 7. Quest'argomentazione ha del resto valore
conclusivo soltanto se alla meccanica atomistica si attribuisce una validità
per così dire metafisica. Alla sua storia, accennata da Du Bois-Reymond, si può
avvicinare anche la formulazione che troviamo nel classico della psicologia
razionale, Moses Mendelssohn? Leggiamo per esempio in Schriften, Leipzig, 1880,
vol. I, p. 277: « 1) Tutto quanto distingue il corpo umano da un blocco di
marmo può essere ricondotto a movimento. Ma il movimento non è altro che il
mutamento del luogo o della posizione. È evidente che tutti i mutamenti di
luogo possibili al mondo, per quanto possano essere raccolti insieme, non
comportano affatto la percezione di questi mutamenti di luogo. — 2) Tutta la
materia è costituita da più parti. Se le singole rappresentazioni fossero
isolate nelle parti dell'anima così come gli oggetti lo sono nella natura, non
si incontrerebbe mai la totalità. Noi non potremmo paragonare tra loro le
impressioni dei vari sensi, confrontare le rappresentazioni, percepire
rapporti, riconoscere relazioni. Ne deriva chiaramente che non soltanto nel
pensiero, ma anche nella sensazione la molteplicità deve convergere nell'unità.
Dal momento però che la materia non è mai un soggetto singolo ecc. ». Kant
sviluppa questo « tallone d'Achille di ogni conclusione dialettica della
dottrina pura dell’anima » come il secondo paralogismo della psicologia trascendentale.
In Lotze? questi « atti del sapere relazionante » sono stati svilupppati in
vari scritti (da ultimo nella Metaphysik, Leipzig, 1841, p. 476) come «il
fondamento insuperabile, su cui può riposare con sicurezza la convinzione
dell'autonomia dell'anima », e costituiscono la base di questa parte del suo
sistema metafisico. 6. Moses Mendelssohn (1729-1786), autore dei P/ilosophische
Gespriche (1755), dei Briefe tiber die Empfindungen (1755), del Phédon (1767),
delle Morgenstunden (1785) c di varie altre opere, fu uno dei maggiori
esponenti della « filosofia popolare » di ispitazione illuministica; amico di
Lessing, lo difese dall'attribuzione di spinozismo sostcnuta da Jacobi. Dilthey
si riferisce qui al tentativo di dimostrazione dell'immortalità dell’anima,
criticato da Kant nella Critica della ragion pura. 7. Rudolph Hermann Lotze
(1817-1881), autore della MetapAysik (1841), della Logi% (1843), del
Mikrokosnus (1856-58), del System der Philosophie (1874-79) e di numerose altre
opere, alcune delle quali pubblicate postume, fu il maggiore rappresentante
dello spiritualismo ottocentesco tedesco: il suo pensiero ebbe larga
diffusione, influenzando la cultura filosofica della seconda metà del sccolo in
senso anti-positivistico c antipsicologistico. WILHELM DILTHEY 103 Già la sua
tesi contiene in quel « non possono mai essere compresi » un doppio senso che
ha come conseguenza l'emergere, nella dimostrazione stessa, di due argomenti di
portata ben differente. Da un lato egli afferma che il tentativo di derivare fatti
spirituali da trasformazioni materiali (attualmente caduto in oblio in quanto
rozzo materialismo, e compiuto ancora soltanto attraverso l’ipotesi
dell’esistenza di proprietà psichiche negli elementi) non può eliminare i
confini immanenti di ogni esperienza: il che è certo, ma non decisivo contro la
subordinazione dello spirito alla conoscenza naturale. Egli afferma allora che
tale tentativo deve naufragare davanti alla contraddizione tra la nostra
rappresentazione della materia e il carattere di unità che è proprio della
nostra coscienza. Nella sua posteriore polemica con Haeckel, a quest'argomento
aggiunge quell’altro che, se si mantiene tale ipotesi, si ha un’ulteriore
contraddizione tra il modo in cui un elemento materiale è meccanicamente
condizionato nella connessione naturale e l’Er/ebnis della spontaneità del
volere; una « volontà » presente negli elementi della materia che « deve
volere, voglia o non voglia, e ciò in rapporto diretto al prodotto delle masse
e in rapporto inverso al quadrato delle distanze » è una contradictio in
adiecto. In un ambito più ampio, però, le scienze dello spirito comprendono in
sé fatti naturali, hanno a fondamento la conoscenza della natura. Se si
concepissero esseri puramente spirituali in un regno di persone costituito
soltanto da essi, il loro venire alla luce, la loro conservazione e il loro
sviluppo, al pari della loro scomparsa (in qualsiasi modo ci si rappresenti lo
sfondo da cui provengono e a cui sono destinati a fare ritorno), sarebbero
legati a condizioni di tipo spirituale; il loro benessere sarebbe fondato sulla
loro posizione rispetto al mondo spirituale; la loro connessione reciproca, le
loro origini si compirebbero con mezzi puraa. E. Dv Bois-Revmonp, Die sieben
Weltritsel. mente spirituali e gli effetti durevoli di tali azioni sarebbero
anch'essi di tipo puramente spirituale; lo stesso loro ritrarsi dal regno delle
persone avrebbe il suo fondamento nell’elemento spirituale. Un sistema composto
da individui siffatti potrebbe venir conosciuto da pure scienze dello spirito.
In realtà un individuo nasce, si conserva e si sviluppa sulla base delle
funzioni dell’organismo animale e delle sue relazioni col corso naturale
dell'ambiente; il suo sentimento vitale è, almeno in parte, fondato su queste
funzioni; le sue impressioni sono condizionate dagli organi di senso e dalle
influenze del mondo esterno; la ricchezza e la mobilità delle sue
rappresentazioni, la forza e la direzione dei suoi atti di volontà dipendono
sovente dalle modificazioni del suo sistema nervoso. L'impulso della sua
volontà comporta un accorciamento delle fibre muscolari, cosicché l’agire verso
l’esterno è connesso ai mutamenti di posizione delle particelle dell’organismo,
e le conseguenze durevoli delle sue azioni volontarie esistono soltanto nella
forma di trasformazioni all’interno del mondo materiale. La vita spirituale di
un uomo è perciò una parte — separabile solo in virtù di un’astrazione — della
vivente unità psico-fisica in cui si manifesta un'esistenza e una vita umana,
Il sistema di queste unità viventi è la realtà che costituisce l’oggetto delle
scienze storicosociali. In virtù del duplice punto di vista del nostro
apprendimento, l'uomo come unità vivente è per noi (quale che sia il suo stato
metafisico) una connessione di fatti spirituali fin dove giunge la
consapevolezza interiore, ed è invece un complesso corporeo nella misura in cui
apprendiamo per mezzo dei sensi. La consapevolezza interiore e l'apprendimento
esterno non si compiranno mai nello stesso atto, e quindi il fatto della vita
spirituale non ci è mai dato contemporancamente a quello del corpo. Ne derivano
necessariamente per la coscienza scientifica che voglia cogliere i i fatti
spirituali e il mondo corporeo nella loro connessione, di cui è espressione la
vivente unità psico-fisidue punti di vista differenti, e tra loro irriducibili.
Se procedo dall’esperienza interna, troverò l’intero mondo esterno dato nella
mia coscienza: le leggi di questo complesso naturale sottostanno alle
condizioni della mia coscienza e dipendono quindi da esse. Questo è il punto di
vista che la filosofia tedesca a cavallo tra il secolo xvi e il nostro
designava come filosofia trascendentale. Se invece assumo la connessione della
natura quale essa mi si offre come realtà nel mio apprendimento naturale, e
percepisco i fatti psichici come inseriti nella successione temporale di questo
mondo esterno nonché nella sua suddivisione spaziale, troverò che le
trasformazioni della vita spirituale dipendono dall’intervento della natura o
dell’esperimento, consistente in trasformazioni materiali provocate agendo sul
sistema nervoso: un'osservazione dello sviluppo della vita e degli stati
morbosi allarga queste esperienze in un quadro complessivo del condizionamento
dell’elemento spirituale da parte dell’elemento corporeo. Sorge allora il modo
di concepire proprio dello scienziato che procede dall’esterno ver-so
l’interno, dalle trasformazioni materiali alle trasformazioni spirituali. Così
l’antagonismo tra il filosofo e lo scienziato è condizionato dall’antitesi dei
loro rispettivi punti di partenza. ‘Procediamo ora dal tipo di considerazione
proprio della scienza naturale. Finché questo tipo di considerazione rimane
consapevole dei propri limiti, i suoi risultati sono incontestabili. Essi
ricevono una più precisa determinazione del loro valore conoscitivo soltanto
dal punto di vista dell'esperienza interna. La scienza della natura analizza la
connessione causale del corso naturale. Laddove quest’analisi ha raggiunto il
punto in cui una situazione o una trasformazione materiale è legata in maniera
regolare con una situazione o una trasformazione psichica, senza che sia
possibile rinvenire tra loro un ulteriore elemento intermedio, allora si può
soltanto constatare questa relazione regolare, ma non si può applicare a tale
relazione il rapporto di causa ed effetto. Noi scopriamo che le uniformità di
un ambito di vita sono regolarmente collegate con uniformità dell’altro, e
l’espressione di questo rapporto è dato dal concetto matematico di funzione.
Una concezione di tale rapporto, che consenta di paragonare il corso delle
trasformazioni spirituali e di quelle corporee alla marcia di due orologi
caricati in modo identico, è in accordo con l’esperienza tanto quanto una
concezione che assuma come base esplicativa uno solo dei due orologi,
considerando entrambi gli ambiti di esperienza come manifestazioni diverse di
uno stesso fondamento. La dipendenDI za dell’elemento spirituale dalla
connessione della natura è 106 WILHELM DILTHEY quindi il rapporto secondo il
quale la connessione universale della natura condiziona causalmente quelle
situazioni e trasformazioni materiali che sono per noi collegate regolarmente,
e senza un’ulteriore mediazione, con situazioni e trasformazioni spirituali. In
tal modo la conoscenza naturale vede la concatenazione delle cause spingere i
suoi effetti fino alla vita psico-fisica; qui sorge una trasformazione in cui
la relazione tra materiale e psichico si sottrae alla concezione causale, e
questa trasformazione ne richiama a sua volta una nel mondo materiale. In
questo contesto l’importanza della struttura del sistema nervoso si rivela
all’esperimento del fisiologo. I confusi fenomeni della vita vengono dipanati
in una chiara rappresentazione dei rapporti di dipendenza, nella cui
successione il corso naturale spinge le sue trasformazioni fino all’uomo;
queste poi penetrano, attraverso le porte degli organi di senso, nel sistema
nervoso: sorgono la sensazione, la rappresentazione, il sentimento e il
desiderio, che hanno poi un’azione retroattiva sul corso della natura. La
stessa unità vivente, che ci riempie col sentimento immediato della nostra
inscindibile esistenza, viene risolta in un sistema di relazioni tra i fatti
della nostra coscienza e la struttura e le funzioni del sistema nervoso che
possono essere empiricamente accertate: infatti ogni azione psichica si mostra
collegata con una trasformazione all’interno del nostro corpo soltanto
attraverso il sistema nervoso, e da parte sua la trasformazione corporea è
accompagnata da un mutamento del nostro stato psichico soltanto attraverso
l’effetto che ha sul sistema nervoso. Da quest’analisi delle viventi unità
psico-fisiche sorge ora una più chiara rappresentazione della loro dipendenza
dalla connessione complessiva della natura, all’interno della quale esse
compaiono e operano, e dalla quale nuovamente si ritraggono, nonché dalla
dipendenza dello studio della realtà storico-sociale dalla conoscenza della
natura. Su questa base si può stabilire il grado di attendibilità delle teorie
di Comte e di Spencer in merito alla posizione di queste scienze all’interno
della gerarchia della scienza nel suo insieme, da essi formulata. Poiché questo
scritto si propone di fondare la relativa autonomia delle scienze dello
spirito, esso deve pure sviluppare — in quanto aspetto complementare della loro
posizione nel complesso delle WILHELM DILTHEY 107 scienze — il sistema delle
dipendenze in virtù del quale esse sono condizionate dalla conoscenza naturale
e costituiscono quindi il momento ultimo e supremo della costruzione che ha
inizio con la fondazione matematica. I fatti dello spirito sono i limiti
superiori dei fatti della natura; i fatti della natura costituiscono le
condizioni inferiori della vita spirituale. Proprio perché il regno delle
persone, cioè la società umana, è la manifestazione suprema del mondo
dell’esperienza terrena, la sua conoscenza ha bisogno in innumerevoli punti
della conoscenza del sistema di presupposti che risiedono, per il suo sviluppo,
nella natura. E invero l’uomo, in virtù della sua posizione entro la
connessione causale della natura, è condizionato da questa secondo una duplice
relazione. Come abbiamo visto, l’unità psico-fisica riceve continuamente
influenze, per il tramite del sistema nervoso, dal corso universale della
natura, e a sua volta agisce su di esso. È tuttavia proprio della sua natura
che le influenze che da essa procedono assumano principalmente la forma di un
agire diretto da scopi. Per questa unità psico-fisica il corso della natura e
la sua qualità da un lato determina la formazione degli scopi, dall'altro
contribuisce al raggiungimento di questi scopi come un sistema di mezzi. E
perciò noi stessi esistiamo là dove vogliamo, dove operiamo sulla natura,
appunto perché non siamo forze cieche, bensì volontà che stabiliscono riflessivamente
i loro scopi indipendenti dalla connessione della natura. Pertanto le unità
psico-fisiche si trovano in una duplice dipendenza rispetto al corso naturale.
Da una parte questo condiziona, in quanto sistema di cause — a partire dal
posto della terra nell'insieme del cosmo — la realtà storico-sociale, e il
grande problema del rapporto tra connessione naturale e libertà all'interno di
tale realtà si scompone, per lo scienziato empirico, in innumerevoli questioni
particolari riguardanti il rapporto tra fatti dello spirito e influenze della
natura. D'altra parte, dagli scopi di questo regno di persone scaturiscono
effetti retroattivi sulla matura, sulla terra — che l’uomo considera in questo
senso come propria abitazione, e in cui agisce per accomodarvisi; anche questi
effetti retroattivi sono legati all’utilizzazione della connessione legale
della natura. Tutti gli scopi si presentano in definitiva all'uomo soltanto
all’interno del processo spirituale, giacché solo in esso esiste qualcosa per
lui; ma lo scopo cerca i suoi mezzi nella connessione della natura. Quanto poco
percepibile è spesso la trasformazione prodotta nel mondo esterno dalla potenza
creatrice dello spirito! E tuttavia soltanto su di essa poggia la mediazione in
virtù della quale il valore così creato esiste anche per gli altri. I pochi
fogli che, come residuo materiale di un più profondo lavoro intellettuale degli
antichi nella direzione dell’ipotesi di un movimento della terra, pervennero
nelle mani di Copernico, sono diventati il punto di partenza di una rivoluzione
nella nostra visione del mondo. A questo punto si può intuire quanto sia
relativa la reciproca delimitazione di queste due classi di scienze. Polemiche
come quelle condotte a proposito della posizione della linguistica generale
sono infruttuose. In entrambi i luoghi di trapasso che conducono dallo studio
della natura a quello dello spirito, nei punti in cui la connessione della
natura influenza lo sviluppo dell’elemento spirituale e negli altri in cui
invece riceve l’influenza dell'elemento spirituale oppure costituisce il luogo
di passaggio per l’influenza su un altro elemento spirituale, le conoscenze
relative alle due classi di scienze si mescolano sempre. Le conoscenze delle
scienze naturali si mescolano con quelle delle scienze dello spirito. E infatti
in questa connessione — in conformità alla duplice relazione con cui il corso
naturale condiziona la vita dello spirito — la conoscenza dell'influenza
formativa della natura si intreccia spesso con la constatazione dell’influenza
che essa esercita come materiale dell’agire. Così dalla conoscenza delle leggi
naturali di formazione dei suoni deriva una parte importante della grammatica e
della teoria musicale, e il genio del linguaggio o della musica è a sua volta
legato a queste leggi naturali: lo studio delle sue funzioni è quindi
condizionato dalla comprensione di tale dipendenza. A questo punto si può
inoltre intuire che la conoscenza delle condizioni presenti nella natura, e
formulate dalla scienza naturale, costituisce in larga misura il fondamento
dello studio dei fatti spirituali. Come lo sviluppo ‘dell’uomo singolo, così
anche la diffusione del genere umano sulla terra e la formazione dei suoi
destini nella storia sono condizionate dall’intera connessione cosmica. Per esempio,
le guerre costituiscono un elemento fondamentale di ogni storia: in quanto
storia politica, essa ha a che fare con la volontà di stati, ma questa si
presenta in armi e si impone per mezzo loro. La teoria della guerra dipende
però in primo luogo dalla conoscenza dell’elemento fisico, che offre terreno e
mezzi alle volontà in conflitto: la guerra persegue infatti lo scopo di imporre
al nemico la nostra volontà con i mezzi della violenza fisica. Ciò implica che
l’avversario dev'essere costretto, fino a essere privo di difesa — che è lo
scopo teorico di quell’atto di violenza designato come guerra — cioè fino al
punto in cui la sua situazione diventa più svantaggiosa del sacrificio che gli
si richiede, e può essere scambiata soltanto con una situazione ancor più
svantaggiosa. In questo grande calcolo, dunque, i numeri che risultano più
importanti per la scienza, e di cui essa si occupa in primo luogo, sono le
condizioni e i mezzi fisici, mentre c'è assai poco da dire circa i fattori
psichici. Le scienze dell’uomo, della società e della storia hanno dunque a
loro fondamento le scienze della natura, anzitutto perché le stesse unità
psico-fisiche possono essere studiate soltanto con l’aiuto della biologia, e
inoltre perché il mezzo in cui ha luogo il loro sviluppo e la loro attività
teleologica, e al cui dominio tale attività si riferisce in gran parte, è la
natura. Sotto il primo aspetto, il loro fondamento è costituito dalle scienze
dell’organismo, sotto il secondo prevalentemente da quelle della natura inorganica.
La connessione che si deve spiegare in questi termini poggia da una parte sul
fatto che queste condizioni naturali determinano lo sviluppo e la distribuzione
della vita spirituale sulla superficie terrestre, dall'altra sul fatto che
l’attività teologica dell’uomo è legata alle leggi della natura e quindi
condizionata dalla loro conoscenza e utilizzazione. Il primo rapporto indica
pertanto solo una dipendenza dell’uomo dalla natura, mentre il secondo contiene
questa dipendenza soltanto come aspetto complementare della storia del suo
crescente dominio sulla terra. Quella parte del primo rapporto che racchiude in
sé le relazioni dell’uomo con la natura circostante è stata sottoposta da
Ritter al metodo comparativo. Brillanti intuizioni, e in particolare la sua
valutazione comparativa dei continenti in base alla struttura dei loro
contorni, lasciavano intravvedere una predestinazione della storia universale
fissata II10 WILHELM DILTHEY nei rapporti spaziali della terra. I lavori
successivi non hanno però confermato quest’intuizione, concepita da
Ritter" come una teleologia della storia universale, e poi posta da
Buckle® al servizio del naturalismo: al posto della rappresentazione di una
dipendenza uniforme dell’uomo dalle condizioni naturali è subentrata la
rappresentazione più prudente secondo cui la lotta delle forze etico-spirituali
contro le condizioni della morta spazialità ha continuamente diminuito nei
popoli storici — a differenza dai popoli privi di storia — il rapporto di
dipendenza. Anche qui si è affermata una scienza autonoma della realtà
storico-sociale, che utilizza a scopo di spiegazione le condizioni naturali.
L’altro rapporto mostra invece — con la dipendenza inerente all’adattamento
alle condizioni naturali — che il dominio della spazialità è così legato al
pensiero scientifico e alla tecnica che l'umanità nella sua storia riesce a
prevalere proprio in virtù della subordinazione. Natura enim non nisi parendo
vincitur®. Il problema del rapporto delle scienze dello spirito con la
conoscenza della natura può quindi esser considerato risolto soltanto se si
risolve l’antitesi, dalla quale siamo partiti, tra il punto di vista
trascendentale, secondo cui la natura è sottoposta alle condizioni della
coscienza, e il punto di vista oggettivo-empirico, secondo cui lo sviluppo
dell’elemento spirituale è sottoposto alle condizioni della totalità della
natura. Questo compito costituisce un aspetto del problema della conoscenza. Se
si isola questo problema per le scienze dello spirito, non appare impossibile
una soluzione convincente per tutti. Le sue condizioni sarebbero la
dimostrazione della realtà oggettiva dell’esperienza interna e la comprova
dell’esistenza di un mondo esterno; pera. Bacone, De interpretatione naturae et
regno hominis, aforisma 3. 8. Karl Ritter (1779-1859) fu uno dei maggiori
gcografi tedeschi della prima metà dell'Ottocento: la sua opera principale è
Die ErdAunde im Verhiltnis zur Natur und Geschichte des Menschen (1817-18, 2°
cd. 1822-58), che offre una descrizione sistematica del Vecchio Mondo, ispirata
al presupposto (di origine herderiana) dell’individualità dei continenti e alla
considerazione dell'azione trasformatrice dell'ambiente da parte dell’uomo. 9.
Henry Thomas Buckle (1821-1862), storico inglese, autore di una History of
Civilization in England (1857-61) di ispirazione positivistica. tanto in questo
mondo esterno fatti ed esseri spirituali esistono in virtù di un processo di
trasposizione della nostra interiorità in essi. Come l'occhio accecato dal sole
ne ripete in modo variopinto l’immagine nei luoghi più vari dello spazio, così
il nostro apprendimento moltiplica l’immagine della nostra vita interiore e la
colloca in svariate maniere nei più diversi luoghi della natura circostante:
questo processo può essere però esposto e giustificato logicamente come
un’inferenza analogica da questa vita interiore originaliter data in modo
immediato soltanto a noi, attraverso le rappresentazioni delle manifestazioni
ad essa concatenate, a qualcosa di affine corrispondente a manifestazioni
affini del mondo esterno, che sta a loro fondamento. Qualunque cosa sia la
natura in se stessa, lo studio delle cause della realtà spirituale può
accontentarsi del fatto che in ogni caso i suoi fenomeni possono venir
concepiti e utilizzati come segni del reale, e le uniformità presenti nei suoi
rapporti di coesistenza e di successione possono venir concepite come segni di
uniformità presenti nel reale. Se però ci si introduce nel mondo dello spirito
e si indaga la natura o in quanto contenuto dello spirito o in quanto scopo o
mezzo intessuto nelle volontà, per lo spirito la natura è appunto ciò che essa
è in lui, e qui è del tutto indifferente quale possa essere in sé. È
sufficiente che lo spirito possa far conto nel suo agire, comunque la natura
gli sia data, sulla sua legalità, e possa gustare la bella apparenza della sua
esistenza. III. PROSPETTIVE SULLE SCIENZE DELLO SPIRITO Le scienze dello
spirito non si sono ancora costituite a complesso unitario; esse non sono
ancora in grado di stabilire una connessione in cui le singole verità siano
ordinate secondo i loro rapporti di dipendenza da altre verità e
dall'esperienza. Queste scienze sono cresciute nella prassi stessa della vita,
sviluppandosi in base alle esigenze della formazione professionale, e la sistematicità
delle facoltà al servizio di tale formazione è quindi la forma spontanea della
loro connessione. I loro primi concetti e le loro prime regole sono state
quindi trovate per lo più nell’esercizio delle funzioni sociali. Jhering!® ha
dimostrato che il pensiero giuridico ha prodotto i concetti fondamentali del
diritto romano mediante un cosciente lavoro spirituale compiutosi nella stessa
vita del diritto. Anche l’analisi delle più antiche costituzioni greche indica
in esse i precipitati dell’ammirevole forza di un pensiero politico consapevole
fondato su concetti e princìpi chiari. L'idea fondamentale in base alla quale
la libertà dell’individuo viene riposta nella sua partecipazione al potere
politico, ma questa è regolata dall’ordinamento statale in conformità alla
funzione che l’individuo assolve per il tutto, è stata dapprima decisiva per
l’arte politica, e soltanto in seguito è stata elaborata in forma scientifica
dai grandi teorici della scuola socratica. Il progredire verso teorie
scientifiche comprensive si appoggiava quindi prevalentemente sul bisogno di
una formazione professionale dei ceti dirigenti. Così già nella Grecia, dai
compiti di un insegnamento politico superiore sorsero, nell’età dei Sofisti, la
retorica e la politica; e la storia della maggior parte delle scienze dello
spirito nei popoli moderni mostra l’influenza dominante del medesimo rapporto
fondamentale. La letteratura dei Romani riguardo alla loro comunità ricevette
la sua struttura più antica dal fatto di essersi sviluppata in forma di
istruzioni per i sacerdoti e per i singoli magistrati®. Perciò la sistematica
di quelle scienze dello spirito che contengono la base per la formazione
professionale degli organi dirigenti della società, come anche l’esposizione di
tale sistematica in veste enciclopedica, è emersa in definitiva dal bisogno di
un compendio su quanto occorre a tale propedeutica; e la forma più naturale
delle enciclopedie sarà sempre — come Schleiermacher ha magistralmente mostrato
a proposito della teologia — quella che si articola con la coscienza di tale
scopo. Con queste condizioni limitative, chi penetri nelle a. Cir. T. Mommsen,
Romisches Staatsrecht, Leipzig, vol. I, 1871, p. 3 SBg10. Rudolph von Jhering
(1818-1892), giurista c filosofo del diritto tedesco, autore di Der Geist des
ròmischen Rechts (1852-65), di Der Kampf ums Recht (1872), di Der Zweck im
Recht (1877-84) c di numerose altre opere, alcune delle quali pubblicate
postume, diede un contributo fondamentale alla considerazione
storico-istituzionale del diritto c, in particolare, all'analisi del diritto
romano. scienze dello spirito troverà nelle opere enciclopediche uno sguardo
d’insieme sui singoli gruppi importanti di queste scienze?. Vari tentativi —
che vanno al di là di queste funzioni — di scoprire la struttura complessiva
delle scienze che hanno per oggetto la realtà storico-sociale hanno preso le
mosse dalla filosofia. In quanto cercavano di derivare questa connessione da
princìpi metafisici, essi sono ricaduti nel destino che tocca a ogni metafisica.
Già Bacone si servì di un metodo migliore, ponendo le scienze dello spirito
allora esistenti in relazione con il problema di una conoscenza della realtà
sulla base dell’esperienza, e commisurò a questo compito le loro funzioni e i
loro difetti. Comenio" si propose, con la sua « pansofia», di derivare dal
rapporto di reciproca dipendenza interna delle verità la successione di gradi
in cui esse devono presentarsi nell’insegnamento; e poiché in tal modo,
opponendosi al falso concetto di una istruzione formale, scoprì il principio
fondamentale di un’educazione futura (purtroppo al di là da venire ancor oggi),
con il principio della dipendenza reciproca delle verità preparò anche una
struttura appropriata delle scienze. Comte, sottoponendo a indagine la relazione
tra questo rapporto logico di dipendenza in cui stanno tra loro le verità e il
rapporto storico di successione in cui esse compaiono, creò il fondamento per
un'autentica filosofia delle scienze. Egli consia. Per uno sguardo d'insieme di
questo tipo su particolari campi delle scienze dello spirito, si rimanda alle
seguenti enciclopedie: R. von MoHI, Enzyklopidie der Staatswissenschaften,
Tubingen, 1859, 2° ed. non riveduta 1873; 3* ed. 1881 (si veda inoltre la
panoramica e la valutazione di altre enciclopedie nella sua Geschichte und
Literatur der Staatswissenschaften in Monographien dargestellt, Erlangen, vol.
I, 1855, pp. 111-46); L. A. WarNnKONIG, /uristische EnzyKlopéidie oder
organische Darstellung der Rechtswissenschaft, Erlangen, 1853; F. E. D.
ScHLErERMAcHER, Kurze Darstellung des theologischen Studiums, Berlin, 1810, 2°
ed. riveduta 1830; A. Bòcgn, Enzyklopidie und Methodologie der philologischen
Wissenschaften (a cura di E. Bratuschek), Leipzig, 1877. 11. Jan Amos Komensky,
lat. Comenius (1592-1670), filosofo e pedagogista moravo, autore della
Didactica magna (1631) e di varie altre opere, appartenne alla comunità dei
Fratelli Boemi e fu coinvolto nelle guerre di religione, che lo costrinsero
all'esilio. Il suo pensiero, ispirato all'ideale della « pansofia », ha
ispirato un largo movimento di riforma educativa, in Germania e fuori. derò la
costituzione delle scienze delle realtà storico-sociali come il fine del suo
grande lavoro, e di fatto la sua opera diede luogo a un forte movimento in questa
direzione: John Stuart Mill, Littré!”, Herbert Spencer hanno ripreso il
problema della connessione delle scienze storico-sociali®. Questi lavori
assicurano a colui che si introduca nelle scienze dello spirito uno sguardo
d'insieme di tipo completamente diverso da quello che offre la sistematica
degli studi professionali. Essi collocano le scienze dello spirito nella
connessione della conoscenza, ne colgono il problema nel suo ambito complessivo
e ne intraprendono la soluzione entro una costruzione scientifica che comprende
tutta la realtà storico-sociale. Però, pieni della smania temeraria di
costruzione scientifica oggi dominante in Inghilterra e in Francia, privi
dell’intimo sentimento della realtà storica che si forma solamente in base a
una consuetudine pluriena. Uno sguardo d'insieme sui problemi delle scienze
dello spirito, secondo la connessione interna in cui stanno tra loro in
rapporto sotto il profilo metodologico e in cui si può quindi ottenerne una
coerente soluzione, si trova abbozzata in A. Comte, Cours de philosophie
positive, Paris, 182042 (nei volumi IV-VI). Le sue opere successive, che
contengono un punto di vista modificato, non possono servire a questo scopo. Il
più importante abbozzo di sistema delle scienze ad esso opposto è quello di
Herbert Spencer. Al primo attacco a Comte (in Essays, prima serie, London,
1858) Spencer faceva seguire un'esposizione più precisa in The Classification
of the Sciences, London, 1864 (cfr. la difesa di Comte in E. Lirtré, Auguste
Comte et la philosophie positive, Paris, 1863). Ma la più compiuta esposizione
del complesso delle scienze dello spirito è ora offerta dal suo System of
Synthetic Philosophy, del quale sono apparsi per primi, nel 1855, i Principles
of Psychology, e poi a partire dal ’76 i Principles of Sociology (in relazione
all'opera Descriptive Sociology); la parte conclusiva, i Principles of Ethics —
e Spencer stesso dichiara di «ritenerli quelli per cui tutti i precedenti
costituiscono soltanto il fondamento » — tratta nel primo volume, apparso nel
1879, i « fatti dell'etica » [The Data of Ethics, London, 1879]. Accanto a
questo tentativo di delineare una teoria della realtà storico-sociale, merita
ancora di essere menzionato quello di John Stuart Mill, contenuto nel sesto
libro di A System of Logic, Ratiocinative and Inductive, London, 1851 (che
tratta della logica delle scienze dello spirito o scienze morali), e nello
scritto August Comte and Positivism, London, 1866. 12. Maximilien-Paul-Emile
Littré (1801-1881), scienziato e filosofo francese, fu allievo e divulgatore
del pensiero di Comte, a cui dedicò vari scritti; si distaccò tuttavia dal
maestro, rifiutando l'esito religioso della filosofia comtiana, WILHELM DILTHEY
115 nale con questa realtà nella ricerca particolare, i positivisti non hanno
trovato quel punto di partenza per i loro lavori che avrebbe dovuto
corrispondere al loro principio della connessione delle scienze particolari.
Essi avrebbero dovuto cominciare il loro lavoro studiando l’architettonica
dell'immenso edificio delle scienze positive, continuamente ampliato da
aggiunte, sempre trasformato dall'interno, sorto a poco a poco attraverso i
millenni, renderlo comprensibile attraverso l’approfondimento del suo piano di
costruzione e così render giustizia — con un’intuizione feconda per la ragione
della storia — alla molteplicità di aspetti con cui si sono effettivamente
sviluppate queste scienze. Essi hanno invece innalzato un edificio provvisorio
che non è sostenibile più di quanto lo siano le temerarie speculazioni di
Schelling o di un Oken” sulla natura. È così accaduto che le filosofie dello
spirito tedesche — sviluppate sulla base di un principio metafisico — di Hegel,
di Schleiermacher e del tardo Schelling impieghino l’acquisizione delle scienze
positive dello spirito con una penetrazione più profonda dei lavori di questi
filosofi positivi. Dall’approfondimento dei compiti delle scienze dello stato
hanno preso le mosse in Germania altri tentativi di fornire una struttura
comprensiva nel campo delle scienze dello spirito, provocando però ovviamente
un'unilateralità del punto di vista ?. Le scienze dello spirito non
costituiscono un complesso fornito di una costituzione logica analoga alla
struttura della conoa. Il punto di partenza è rappresentato dalle discussioni
sul concetto di società e sul compito delle scienze sociali, nelle quali si è
cercata un'integrazione alle scienze dello stato. La spinta è stata data da L.
von STEIN, Der Sozialismus und Communismus des heutigen Frankreichs, Leipzig,
2° ed. 1848, e da R. von Mont, Gesellschafts-Wissenschaften und
Staats-Wissenschaften, « Zeitschrift fr die gesamte Staatswissenschaft », VII,
1851, PP. 3-71, ripreso nella sua Geschichte und Literatur der
Staatswissenschaften, Erlangen, vol. I, 1855, pp. 67-110. Indichiamo come
particolarmente rilevanti due tentativi di articolazione, cioè quelli di L. von
STEIN, System der Staatswissenschaft, Stuttgart, 1852-56, e di A. ScHarrLe, Bau
und Leben des sozialen Kòrpers, Tùbingen, 1875-78. 13. Lorenz Oken (1779-1851),
naturalista, autore di numerose opere di filosofia della natura che si ispirano
all’organicismo schellinghiano. scenza naturale. La loro connessione si è
sviluppata diversamente e deve quindi essere considerata ora così come è
storicamente cresciuta. IV. IL MATERIALE DELLE SCIENZE DELLO SPIRITO Il
materiale di queste scienze è costituito dalla realtà storico-' sociale in
quanto essa è conservata nella coscienza dell’umanità come un insieme di
conoscenze storiche, ed è stata resa accessibile alla scienza sotto forma di
una conoscenza sociale che va al di là della situazione attuale. Per quanto
sterminato sia questo materiale, salta tuttavia agli occhi la sua
incompiutezza. Interessi in nessun modo corrispondenti all'esigenza della
scienza e condizionati dalla tradizione — pure privi di qualsiasi relazione con
quest’esigenza — hanno determinato lo stato della nostra conoscenza storica.
Fin dall'epoca in cui, raccolti intorno al fuoco dell’accampamento, i compagni
di tribù e d’arme narravano le gesta dei loro eroi e l’origine divina della
loro stirpe, il forte interesse della vita in comune ha salvato e conservato
alcuni fatti dall’oscuro fluire della vita umana abituale. L'interesse
dell’epoca successiva e la vicenda storica hanno deciso che cosa di questi
fatti dovesse giungere fino a noi. La storiografia come libera arte espositiva
accoglie una parte di questo sterminato complesso, cioè quella che appare
fornita di interesse da un qualche punto vista. Ne consegue che la società
odierna vive, per così dire, sugli strati e sulle rovine del passato; i
precipitati del lavoro culturale presenti nel linguaggio e nella superstizione,
nel costume e nel diritto, come pure nelle trasformazioni materiali che vanno
oltre le testimonianze, contengono tutti una tradizione che sorregge le
testimonianze in modo inestimabile. Anche per la loro conservazione ha deciso
la mano della vicenda storica. Soltanto in due punti si trova uno stato del
materiale che corrisponde alle esigenze della scienza. Il corso dei movimenti
spirituali nell'Europa moderna è conservato con sufficiente compiutezza negli
scritti che ne sono parte costitutiva. Così pure i lavori della statistica
consentono — per il breve periodo e il ristretto ambito di paesi WILHELM
DILTHEY II7 in cui sono stati applicati — di gettare uno sguardo numericamente
fondato nei fatti della società che quei lavori accolgono: essi permettono di
fornire alla conoscenza dello stato attuale della società un fondamento esatto.
L’impossibilità di penetrare nella connessione di questo materiale sterminato
conduce a tale lacunosità; anzi ha contribuito non poco a rafforzarla. Non
appena lo spirito umano cominciò a sottoporre la realtà ai suoi principi, esso
si rivolse anzitutto, preso dallo stupore, al cielo; questa vòlta al di sopra
di noi, che sembra poggiare sul cerchio dell’orizzonte, lo occupò tutto: una
totalità spaziale in sé conclusa che sempre e dovunque avvolge gli uomini. Così
l’orientamento nell'edificio del mondo fu il punto di partenza della ricerca
scientifica, nei paesi orientali come in Europa. Il cosmo dei fatti spirituali
non si offre invece alla vista nella sua immensità, ma si offre soltanto allo
spirito raccoglitore del ricercatore; esso emerge in alcune parti singole, dove
uno studioso collega dei fatti, li esamina e li accerta: allora esso si costituisce
nell’interiorità dell'animo. Un vaglio critico delle tradizioni, l'accertamento
dei fatti e la loro raccolta costituiscono quindi un primo lavoro comprensivo
delle scienze dello spirito. Dopo che la filologia elaborò una tecnica
esemplare sulla materia più difficile e bella della storia, l’antichità, questo
lavoro in parte viene condotto in innumerevoli ricerche particolari, in parte
viene a costituire un elemento di indagini ulteriori. La connessione di questa
pura descrizione della realtà storico-sociale — in quanto si propone, sulla
base della fisica della terra, con l'ausilio della geografia, di descrivere la
distribuzione dell’elemento spirituale e delle sue differenze sulla terra, nel
tempo e nello spazio — può acquistare la sua capacità di penetrazione sempre
soltanto se la riconduce a chiare misure spaziali, a rapporti numerici, a
determinazioni temporali, con strumenti di rappresentazione grafica. La
semplice raccolta e il semplice vaglio del materiale si trasformano qui
gradualmente in una sua elaborazione e articolazione concettuale. Le scienze
dello spirito, così come esse sono e operano, in virtù della ragione immanente
che agisce nella loro storia — non già nel modo che desiderano alcuni
architetti temerari, i quali vorrebbero costruirle su nuova base — congiungono
in sé tre distinte classi di asserzioni. Le asserzioni della prima classe
esprimono un reale che è dato nella percezione: esse contengono l’elemento
storico della conoscenza. Le asserzioni della seconda classe enunciano il comportamento
uniforme delle parti di questa realtà, isolate mediante un’astrazione: esse
formano l'elemento teorico di essa. Le asserzioni dell’ultima classe esprimono
giudizi di valore e prescrivono regole: in esse è racchiuso l'elemento pratico
delle scienze dello spirito. Fatti, teoremi, giudizi di valore e regole — da
queste tre classi di proposizioni sono costituite le scienze dello spirito. E
la relazione tra orientamento storico, orientamento teorico astratto e
orientamento pratico si presenta come un rapporto fondamentalmente comune a
tutte queste discipline. La comprensione del singolare, dell’individuale
rappresenta in esse uno scopo ultimo — e in ciò esse sono la costante
confutazione del principio spinoziano omnis determinatio est negatio — al pari
della formulazione di uniformità astratte. Dalla sua prima radice nella
coscienza fino alla vetta suprema, la connessione dei giudizi di valore e degli
imperativi è indipendente dalla connessione delle prime due classi. La
relazione reciproca di questi tre compiti nella scienza pensante può essere
sviluppata soltanto nel corso di un'analisi di teoria della conoscenza (o, in
senso più ampio, dell’auto-riflessione). In ogni caso le osservazioni
concernenti la realtà rimangono separate dai giudizi di valore e dagli
imperativi anche alla radice: sorgono così due tipi di proposizioni, che sono
distinte in linea di principio. Al tempo stesso si deve riconoscere che questa
distinzione all’interno delle scienze dello spirito ha come conseguenza una
loro duplice connessione. Una volta sviluppate, le scienze dello spirito
contengono, accanto alla conoscenza di ciò che è, la coscienza della
connessione dei giudizi di valore e degli imperativi, nella quale si
congiungono WILHELM DILTHEY 119 valori, ideali, regole, nonché la tendenza alla
formazione del futuro. Un giudizio politico che respinge un'istituzione non è
né vero né falso, ma è giusto o ingiusto, in quanto se ne valuta la tendenza,
il fine; vero o falso può essere invece un giudizio politico che illustri le relazioni
di questa istituzione con altre istituzioni. Soltanto se si assume questa
prospettiva per interpretare la proposizione, l’asserzione, il giudizio, si può
fondare una teoria della conoscenza che non comprima la realtà oggettiva delle
scienze dello spirito nei limiti ristretti di una conoscenza di uniformità,
secondo l’analogia con le scienze della natura, venendo pertanto a mutilarle,
ma che le comprenda e dia loro un fondamento così com’esse si sono sviluppate.
Gli scopi delle scienze dello spirito — cogliere l’aspetto singolare e
individuale delle realtà storico-sociale, conoscere le uniformità operanti
della sua formazione, determinare fini e regole per il suo ulteriore sviluppo —
possono essere conseguiti soltanto mediante gli strumenti del pensiero, cioè
mediante l’analisi e l’astrazione. L'espressione astratta in cui si prescinde
da determinati aspetti della situazione, mentre se ne sviluppano altri, non è
il fine ultimo esclusivo di queste scienze, ma è il loro mezzo indispensabile.
Come il conoscere che procede per astrazione non può risolvere in sé
l’autonomia degli altri scopi di queste scienze, così né la conoscenza storica
né quella teorica né lo sviluppo delle regole che dirigono di fatto la società
possono far a meno di tale conoscere. La disputa tra la scuola storica e la
scuola astratta è sorta in quanto la scuola astratta ha commesso il primo di
questi errori, e la scuola storica l’altro. Ogni scienza particolare sorge
soltanto mediante l’artificio dell'isolamento di una parte dall’insieme della
realtà storico-sociale. La storia prescinde da quei caratteri della vita di un
particolare uomo o di una particolare società che si presentano identici,
nell’epoca da essa indagata, con quelli di tutte le altre epoche; il suo
sguardo è diretto a quel che c’è di distintivo e di singolare. In ciò il
singolo storico può ingannarsi, in quanto da 120 WILHELM DILTHEY tale direzione
del suo sguardo già deriva la selezione di certi aspetti nelle sue fonti; ma
chi mette a confronto il procedimento effettivo dello storico con il complesso
della realtà storico-sociale, dovrà ben riconoscerlo. Da ciò deriva
l'importante principio che ogni scienza particolare dello spirito conosce la
realtà storico-sociale solo relativamente, in quanto ha coscienza della propria
relazione con le altre scienze dello spirito. L’organizzazione di queste
scienze e il loro corretto sviluppo nella loro particolarità dipendono pertanto
dalla capacità di tener presente la relazione di ognuna delle loro verità con
il complesso della realtà della quale fanno parte, nonché della costante
consapevolezza dell’astrazione in virtù della quale queste verità sussistono e
del limitato valore conoscitivo che ad esse spetta a causa di questo loro
carattere astratto. Tre diversi compiti deve assolvere la fondazione delle
scienze dello spirito. Essa determina il carattere generale della connessione
in cui, sulla base del dato, sorge in questo campo un sapere universalmente
valido: si tratta qui della struttura logica generale delle scienze dello
spirito. Occorre poi illustrare la costruzione del mondo spirituale nei suoi
campi particolari, quale avviene nelle scienze dello spirito attraverso
l’intreccio delle loro operazioni. Questo è il secondo compito, e nel corso
della sua soluzione verrà gradualmente in luce, per astrazione dal loro stesso
procedimento, la dottrina del metodo delle scienze dello spirito. Infine si
cercherà quale sia il valore conoscitivo di queste operazioni delle scienze
dello spirito e in quale misura sia possibile, mediante la loro cooperazione,
un sapere oggettivo intorno ai fenomeni spirituali. Tra questi due ultimi
compiti c'è una stretta connessione interna. La distinzione delle varie
operazioni rende possibile provarne il valore conoscitivo, e questo esame
mostra in quale misura sia possibile, in virtù di esse, tradurre in sapere la
realtà che è oggetto delle scienze dello spirito e la connessione reale in essa
sussistente: in tale maniera si otterrà un fondamento autonomo della conoscenza
per il nostro campo, mentre * Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den
Geisteswissenschaften, parte III: Allgemeine Sitze fiber den Zusammenhang der
Geisteswissenschaften, « Abhandlungen der kSniglich Preussischen Akademie der
Wissenschaften » (Philosophisch-historische Classe), 1910, pp. 49-123, ora in
Gesammelte Schriften, Leipzig und Berlin, vol. VII, 1927, pp. 120-188 (La
costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito, tr. it. di Pietro
Rossi, in Critica della ragione storica, Torino, Einaudi, 1954, pp. 200-289).
si apre la possibilità di una connessione generale della teoria della
conoscenza, il cui punto di partenza risieda nelle scienze dello spirito. Il
carattere generale della connessione nelle scienze dello spirito è dunque il
nostro prossimo problema. Il punto di partenza è la dottrina della struttura
dell’apprendimento oggettivo in genere. Essa mostra in ogni apprendimento una
linea progressiva dal dato ai rapporti fondamentali della realtà, che al di lù
di quello si rivelano al pensiero concettuale. Le medesime forme di pensiero e
le medesime classi di operazioni di pensiero, ad esse subordinate, rendono
possibile la connessione scientifica nelle scienze della natura e nelle scienze
dello spirito. Su questa base sorgono poi, nell’applicazione di quelle forme e
di quelle operazioni di pensiero ai compiti particolari e sotto le condizioni
particolari delle scienze dello spirito, i metodi specifici di queste. E poiché
i compiti delle scienze producono i metodi di soluzione, i singoli procedimenti
costituiscono una connessione interna, condizionata dallo scopo del sapere.
L'apprendimento oggettivo costituisce un sistema di relazioni, nel quale sono
contenuti percezioni ed Er/ebnisse, rappresentazioni della memoria, giudizi,
concetti, deduzioni, insieme alle loro forme composte. A tutte queste
operazioni nel sistema dell'apprendimento oggettivo è comune la presenza in
esse soltanto di relazioni di fatto: così nel sillogismo sono presenti soltanto
i contenuti e le loro relazioni senza che lo accompagni alcuna coscienza di
operazioni di pensiero. Il procedimento che suppone al di sotto del dato, come
sue condizioni di coscienza, singoli atti che vengono concepiti come
corrispondenti alle relazioni di fatto, derivando dalla loro cooperazione la
realtà dell'apprendimento oggettivo, contiene un'ipotesi che non può mai essere
verificata. I vari Erlebnisse entro questo apprendimento oggettivo sono
elementi di una totalità determinata dalla connessione psichica. In questa
connessione psichica la conoscenza oggettiva della realtà è la condizione per
l’esatta constatazione dei valori e per l’agire conforme allo scopo. Così il
percepire, il rappresentare, il giudicare, il dedurre sono operazioni che
collaborano nella teleologia della connessione dell’apprendimento, la quale
assume quindi il suo posto nella connessione della vita. 1. La prima operazione
dell’apprendimento oggettivo sul dato eleva a coscienza distinta ciò che in
esso è contenuto, senza far subire un mutamento alla forma della datità. Io
chiamo primaria questa operazione, in quanto l’analisi che muove dal pensiero
discorsivo non ritrova nessuna operazione più semplice. Essa sta al di là del
pensiero discorsivo, il quale è legato al linguaggio e si svolge nei giudizi;
poiché gli oggetti, su cui si giudica, presuppongono già operazioni di
pensiero. Comincio qui con l’operazione della comparazione. Io trovo il simile
e il dissimile, concepisco gradi di distinzione. Davanti a me stanno due
foglioline di diverso colore grigio: si osserva la diversità e il grado di
diversità nel colore non in base a una riflessione sul dato ma come un elemento
di fatto, poiché il colore stesso è uno stato di fatto. Del pari distinguo,
nella mia esperienza immediata, gradi di piacere, quando passo dal tocco di un
tono determinato e della sua ottava a una completa armonia. Questa operazione
di pensiero, con cui soltanto la logica ha che fare, è semplice. E il suo
risultato, in rapporto al suo valore di verità, non è diverso dall’osservare un
colore o un suono; qualcosa che esiste diventa osservabile. Identità e
differenza non sono qualità delle cose come l’estensione o il colore: esse
sorgono in quanto l’unità psichica reca a coscienza rapporti che sono contenuti
nel dato. E poiché l’affermazione dell’identità e l'affermazione della
differenza trovano soltanto ciò che è dato, così come sono dati l'estensione e
il colore, esse costituiscono un analogo della percezione stessa; ma in quanto
creano concetti di rapporti logici come quelli di identità, di differenza, di
grado, di affinità, contenuti nella percezione ma non dati in questa, esse
appartengono al pensiero. Sulla base della comparazione sorge un’altra
operazione. Quando separo due stati di fatto siamo di fronte, dal punto di
vista logico — e non si tratta affatto di processi psicologici — a
un'operazione di pensiero diversa dalla distinzione. Nel dato sono contenuti
separatamente due stati di fatto, e viene colta la loro estraneità. Così in un
bosco una voce umana, il rumore del vento, il canto di un uccello vengono colti
non solo come distinti tra di loro, ma anche come una pluralità. Quando un
suono della stessa qualità, cioè della stessa altezza, dello stesso timbro,
della stessa intensità e della stessa durata, ritorna una seconda volta in un
altro punto del corso temporale, in questa seconda operazione di pensiero sorge
la coscienza che il secondo suono è altro dal primo. Un ulteriore rapporto è
concepito in un secondo caso di separazione. In una foglia verde posso separare
tra loro colore e forma, e allora ciò che coerisce nell’unità dell’oggetto, e
che non può venir realmente separato, diventa tuttavia separabile idealmente.
Anche quando le condizioni preliminari di quest'operazione di separazione sono
molto complesse, l'operazione stessa è tuttavia semplice. Essa è determinata,
al pari della comparazione, dal contenuto di fatto che reca a conoscenza. E qui
si apre la prospettiva sul processo di astrazione, così importante per la
costruzione della logica. La distinzione delle membra di un corpo inerisce alla
realtà concreta del corpo; in ognuna delle sue parti è mantenuta questa realtà
concreta, ma quando estensione e colore vengono tra loro separati, e il
pensiero si rivolge al colore, allora da tale distinzione sorge l’operazione
dell’astrazione: di ciò che è stato idealmente separato viene posto in evidenza
un aspetto. L'unione di vari elementi distinti si può compiere solo sulla base
di una relazione tra questi vari elementi. Noi cogliamo il rapporto spaziale
tra stati di fatto distinti,o gli intervalli in cui i processi si susseguono
temporalmente. Anche questo collegare e questo unire portano soltanto a
coscienza rapporti che già sussistono; ma ciò avviene mediante operazioni di
pensiero che hanno a base relazioni, come quelle di spazio e di tempo, di fare
e subire. Questo prendere insieme è la condizione perché si costituisca
l'intuizione del tempo. Quando il battito di un orologio si succede varie
volte, davanti a me sta soltanto il susseguirsi di tali impressioni, ma solo
prendendole insieme diventa possibile comprendere questa successione. Questo prendere
insieme dà luogo al rapporto logico di una totalità con le sue parti. Sulla
base dei rapporti di separazione e della graduale differenza delle relazioni
contenute nel sistema di suoni sorge, in questo collegamento, un complesso così
condizionato che viene però in luce soltanto nel collegamento stesso, e cioè
l'accordo o la melodia. Qui appare particolarmente chiaro come il prendere
insieme avviene entro ciò che è contenuto nell’Erlebnis di percezione o di
ricordo, e come tuttavia sorge in esso qualcosa che non esisteva senza quel
prendere insieme. Noi ci troviamo qui ai limiti che conducono al di sopra della
constatazione di ciò che è contenuto in tali rapporti, nella regione della
libera fantasia. Questi esempi — e non si tratta di nulla di più — dimostrano
che le operazioni elementari del pensiero spiegazo il dato. Precedendo il
pensiero discorsivo, esse ne contengono le premesse, in quanto nella
comparazione si preparano la formazione dei giudizi e dei concetti generali e
il procedimento comparativo, nella separazione le astrazioni e il procedimento
analitico, e infine nelle relazioni ogni specie di operazioni sintetiche. Così
un’interna connessione fondante va dalle operazioni elementari di pensiero al
pensiero discorsivo, dall’apprendimento del contenuto di fatto degli oggetti ai
giudizi su di essi. Ciò che è percepito sensibilmente o immediatamente vissuto
trapassa, a un ulteriore grado di coscienza, nella rappresentazione della
memoria. In essa si compie un'ulteriore operazione dell'apprendimento oggettivo,
a cui corrisponde un particolare rapporto della nuova formazione con il suo
fondamento. Questo rapporto della rappresentazione della memoria con il
contenuto dell’apprendimento sensibile e dell’Erlebnis è un rapporto di
riproduzione. Infatti la libera mobilità delle rappresentazioni è, nel campo
dell’apprendimento oggettivo, limitata dall’intenzione di adeguarsi alla realtà
e tutti i modi di formazione delle rappresentazioni sono determinati da questo
orientamento verso la realtà. In esso sorgono rappresentazioni totali e
rappresentazioni generali, preparando un nuovo grado della coscienza. Questo
nuovo grado viene alla luce nel pensiero discorsivo: il rapporto di
riproduzione cede qui il posto a un’altra relazione entro l'apprendimento
oggettivo.Il pensiero discorsivo è legato all’espressione, in primo luogo al
linguaggio. In ciò consiste la relazione dell’espressione con ciò che è
espresso, mediante la quale sorgono forme linguistiche sulla base dei movimenti
degli organi linguistici e delle rappresentazioni dei loro prodotti. La
relazione con ciò che in esse viene espresso costituisce la loro funzione: esse
hanno un significato come elementi della proposizione, mentre la proposizione
medesima ha un senso. La direzione dell’apprendimento va dalla parola e dalla
proposizione all'oggetto che esse esprimono: in tal modo sorge la relazione tra
Gi proposizione grammaticale, o l’espressione effettuata mediante altri segni,
e il giudizio che produce tutte le parti del pensiero discorsivo. Qual è ora il
rapporto tra il dato o il contenuto rappresentativo, condizionato dalle
precedenti operazioni degli Erlebnisse di apprendimento, e il giudizio? In
questo uno stato di fatto viene predicato di un oggetto: da ciò deriva che non
si può qui parlare di una riproduzione del dato o del contenuto
rappresentativo. Dalla connessione di pensiero procedo alla determinazione
positiva del rapporto. Ogni giudizio è analiticamente contenuto in essa, e
viene inteso come suo elemento. Nella connessione dell’apprendimento oggettivo
ogni sua parte si riferisce, per il tramite della connessione in cui è
inserito, al fatto di essere contenuto nella realtà. Questa è infatti la regola
suprema a cui sottostà ogni giudizio: esso deve essere contenuto nel dato
secondo le leggi formali del pensiero e secondo le forme del pensiero. Anche
giudizi che esprimono qualità o azioni di Zeus o di Amleto sono riferiti nella
connessione del pensiero a un dato. Così tra il giudizio e le forme finora
illustrate dell’apprendimento oggettivo sorge un nuovo rapporto, il quale
mostra due aspetti. Questa duplicità è determinata dal fatto che il giudizio da
una parte è fondato nel dato, ma dall'altra rende esplicito ciò che in questo è
contenuto solo implicitamente, ma in forma esplicitabile. Nella prima relazione
sorge il rapporto di rappresentazione: il giudizio rappresenta per mezzo di
contenuti di fatto, racchiusi nel dato, elementi del pensiero che soddisfano le
esigenze di costanza, chiarezza, distinzione, legame stabile con i segni
verbali che sono inerenti al sapere. D'altro lato, i giudizi realizzano
l’intenzione dell’apprendimento oggettivo di avvicinarsi dal condizionato, dal
particolare e dal mutevole ai rapporti fondamentali della realtà. Il rapporto
di rappresentazione si estende all’intera connessione del pensiero discorsivo
entro l'apprendimento oggettivo, in quanto questo si compie mediante il
giudicare. Il dato nella sua concreta intuitività e il mondo di
rappresentazioni che lo riproduce sono in ogni forma del pensiero discorsivo
rappresentati da un sistema di relazioni tra elementi stabili del pensiero. E a
ciò corrisponde, nella direzione inversa, che quando si ritorna all’oggetto
questo conferma e verifica, nella pienezza della sua esistenza intuitiva, il
giudizio o il concetto. Proprio per le scienze dello spirito è particolarmente
importante che l’intera freschezza e l’intera forza dell’Er/ebris ritornino poi
direttamente, o nella direzione dall’intendere all'Erleden. Il rapporto di
rappresentazione implica che, in determinati limiti, il dato e il pensato
discorsivo siano scambiabili. Se si sottopone ad analisi la connessione del
pensiero discorsivo, si presentano in questa dei modi di relazione, i quali
ritornano regolarmente prescindendo dal mutamento dei contenuti del pensiero e
sussistono al tempo stesso in ogni luogo della connessione del pensiero, nonché
in rapporto interno tra di loro; tali forme del pensiero sono il giudizio, il
concetto e il sillogismo, che si presentano in ogni parte della connessione del
pensiero discorsivo e formano la sua intelaiatura. Ma anche le classi di
operazioni del pensiero discorsivo, subordinate a queste forme elementari — la
comparazione, l'analogia, l’induzione, la partizione, la definizione, e infine
la connessione fondante — sono indipendenti dalla delimitazione dei singoli
campi del pensiero, in particolare dalla reciproca delimitazione delle scienze
della natura e delle scienze dello spirito. Esse si distinguono secondo i
compiti dell’intera connessione del pensiero, che la realtà pone secondo i suoi
rapporti generali, mentre sono le forme particolari del metodo a esser
condizionate dalle qualità dei singoli campi. Alla regolarità di queste forme
corrisponde la validità del loro lavoro concettuale, e di questa acquistiamo
certezza mediante la coscienza dell’evidenza. E le qualità più generali a cui è
legata la validità di queste diverse forme, indipendente dal mutare degli
oggetti e costante nel venire e nell’andare degli Erlebnisse di pensiero e dei
loro soggetti, si esprimono nelle leggi del pensiero. Noi non abbiamo bisogno
di superare il rapporto di rappresentazione, quando passiamo dai giudizi di
realtà ai giudizi necessari. Un assioma di geometria è necessario in quanto
esso esprime i rapporti fondamentali ovunque constatabili con l’analisi dell’intuizione
spaziale, e del pari il carattere di necessità delle leggi del pensiero è
abbastanza spiegato dal fatto che esse sono ovunque contenute analiticamente
nella connessione del pensiero. Un metodo scientifico sorge in quanto le forme
e le operazione generali del pensiero vengono collegate in un tutto composto
mediante lo scopo racchiuso nella soluzione di un determinato compito
scientifico. Se si presentano problemi simili a questo compito, allora il
metodo applicato a un campo limitato si rivelerà fecondo anche per un campo più
ampio. Spesso un metodo, nello spirito del suo scopritore, non è ancora legato
alla coscienza del carattere logico e della portata che lo caratterizzano:
questa coscienza sorge soltanto in seguito. Essendosi il concetto di metodo
sviluppato per secoli particolarmente nell’uso linguistico dello studioso della
natura, anche il procedimento che tratta una questione di dettaglio, ed è
quindi assai più complesso, può venir designato come metodo. Quando si aprono
differenti vie per la soluzione dello stesso problema, esse vengono
differenziate come metodi diversi. Dove le forme di procedere di uno spirito
mostrano qualità comuni, la storia delle scienze parla di un metodo di Cuvier!
nella paleontologia o di un metodo di Niebuhr? nella critica storica. Con la
dottrina del metodo entriamo nel campo in cui comincia a farsi valere il
carattere particolare delle scienze dello spirito. 1.
Gcorges-Léopold-Chrétien-Frédéric Dagobert barone di Cuvier (1769-1832),
naturalista frapcese, autore del Tableau élfmentaire de l'histoire naturelle
(1798), delle Legons d’anatomie comparée (1800), delle Recherches sur les
ossements fossiles des quadrupèdes (1812), de Le règne animal distribué après
son organisation (1817) e di numerose altre opere, si dedicò a studi di
zoologia, con particolare riguardo all'analisi della struttura dci molluschi e
dei pesci, e di paleontologia. Le sue indagini hanno aperto la strada
all'esplorazione degli animali fossili. 2. Barthold Georg Niebuhr (1776-1831),
storico tedesco, autore di una fondamentale Rémische Geschichte (1811-32),
impostò la propria analisi del mondo antico sulla base di una critica
sistematica delle fonti; il suo « scetticismo » mise capo a una radicale
svalutazione delle testimonianze antiche sulla storia romana. Tutti gli
Erlebnisse dell’apprendimento oggettivo sono, entro la sua connessione
teleologica, diretti alla penetrazione di ciò che è, vale a dire della realtà.
Il sapere forma una gradualità di operazioni: il dato è spiegato nelle
operazioni elementari del pensiero, riprodotto nelle rappresentazioni, tradotto
nel pensiero discorsivo e così rappresentato in differenti modi. Perciò la
spiegazione del dato mediante le operazioni elementari del pensiero, la
riproduzione nella rappresentazione rammemorata e la traduzione nel pensiero
discorsivo possono venir racchiuse entro il più ampio concetto di
rappresentazione. Tempo e ricordo liberano l'apprendimento della dipendenza dal
dato e compiono una scelta di ciò che è significativo per l’apprendimento; il particolare
viene sottoposto agli scopi dell’apprendimento della realtà mediante la
relazione col tutto e mediante la subordinazione sotto il generale; la
mutabilità del dato intuitivo viene elevata a rappresentazione universalmente
valida in una relazione concettuale; mediante l’astrazione e il procedimento
analitico il concreto viene inserito in serie uniformi che consentono
asserzioni di regolarità, oppure penetrato nella sua articolazione attraverso
un’opera di suddivisione. L’apprendimento tende così a esaurire sempre di più
ciò che ci è accessibile nel dato. 2. In due direzioni sono logicamente
collegati gli Er/ebnisse che appartengono all’apprendimento oggettivo: nell’una
gli Erlebnisse sono in rapporto tra loro in quanto, come gradi nell’apprendimento
del medesimo oggetto, cercano di esaurire mediante esso ciò che è contenuto
nell’Erlebez o nell’intuire, e nell'altra l'apprendimento collega un elemento
di fatto con l’altro mediante le relazioni reciproche che vengono colte. Là si
ha un approfondimento nell’oggetto particolare e qui un’estensione universale:
approfondimento ed estensione che sono in dipendenza reciproca. Intuizione,
ricordo, rappresentazione totale, denominazione, giudizio, subordinazione del
particolare all’universale, collegamento delle parti in un tutto — queste sono
forme dell’apprendimento: senza che l’oggetto debba mutare, cambia il modo e la
forma di coscienza in cui esso esiste per noi, quando si passa dall'intuizione
al ricordo o al giudizio. La direzione verso lo stesso oggetto, che è loro
comune, le collega in una connessione teleologica, in cui hanno posto solo
quegli Erlebnisse che compiono qualche operazione nella tendenza a cogliere
questo determinato elemento oggettivo. Questo carattere teleologico della
connessione, che qui si presenta, condiziona il passaggio da un elemento
all’altro entro di essa. E finché l’Erlebnis non è pienamente esaurito, o
l’oggettività data parzialmente e unilateralmente nelle intuizioni particolari
non è ancora pervenuta a pieno apprendimento e a compiuta espressione, vi è
sempre un clemento di insoddisfazione, e questo esige che si proceda oltre. Le
percezioni che riguardano lo stesso oggetto sono tra loro legate in una
connessione teleologica, in quanto procedono riferendosi al medesimo oggetto.
Così una particolare osservazione sensibile ne richiede sempre più altre, che
vengono a completare l'apprendimento dell’oggetto; e in questo processo di
completamento si esige già il ricordo, come ulteriore forma di apprendimento.
Esso sta, entro la connessione dell'apprendimento oggettivo, in un saldo
rapporto con il fondamento intuitivo, in maniera che ha la funzione di
riprodurre, ricordare e mantenere così utilizzabile questo fondamento per
l'apprendimento oggettivo. Qui appare assai chiaramente la distinzione tra
l'apprendimento dell’Erlebris della memoria che studia il processo che sta a
base di esso nelle sue uniformità, e la nostra considerazione della memoria
secondo la sua funzione nella connessione dell’apprendimento, per cui esso
riproduce ciò che è immediatamente vissuto o appreso. La memoria può accogliere
in sé, sotto un’impressione o sotto l'influenza di uno stato d'animo,
molteplici contenuti distinti dal loro fondamento, e proprio qui hanno la loro
origine le immagini estetiche della fantasia: ma la memoria presente in tale
connessione teleologica, basata sulla penetrazione dell’oggetto, possiede la
tendenza verso l’identità con il contenuto intuitivo o vissuto
dell’apprendimento oggettivo. E che la memoria abbia compiuto la sua funzione nell’apprendimento
oggettivo risulta dalla possibilità di constatare la sua somiglianza con il
fondamento percettivo dell’apprendimento. In questa tendenza degli Erlebnisse
conoscitivi verso un oggetto particolare è già presente il procedere verso
qualcosa di sempre nuovo. I mutamenti nell’oggetto mostrano la connessione
dinamica in cui esso si trova, e, in quanto il contenuto di fatto può venir
spiegato solo mediante nomi, concetti, giudizi, è richiesto un ulteriore
passaggio dall’intuizione particolare all’universale. A questa tendenza verso
la totalità, l’elemento attivo, l’universale, corrisponde il procedere delle
relazioni rintracciabili nel singolo oggetto a quelle che hanno luogo in più
grandi connessioni oggettive. In tal modo la prima tendenza delle relazioni
conduce alla seconda. Nella prima tendenza erano tra loro collegati quegli
Erlebnisse di apprendimento che tendono a cogliere in maniera sempre più
adeguata lo stesso oggetto mediante diverse forme di rappresentazione. Nella
seconda sono invece collegati gli Er/ebnisse che si estendono a sempre nuovi
oggetti e penetrano leloro relazioni reciproche, sia nella stessa forma di
apprendimento sia attraverso l’unione di diverse sue forme. Sorgono così
rapporti complessi, i quali risultano particolarmente chiari nei sistemi
omogenei, che rappresentano cioè rapporti di spazio, di suono o di numero ®.
Ogni scienza si riferisce a un’oggettività suscettibile di delimitazione, in
cui risiede la sua unità, e la connessione del campo scientifico dà ai principi
che esso racchiude la loro coerenza reciproca. Il completamento di tutte le
relazioni contenute in ciò che è immediatamente vissuto o intuito costituirebbe
il concetto di mondo: in esso è racchiusa la pretesa di esprimere tutto ciò che
può venir immediatamente vissuto o intuito mediante la connessione delle
relazioni di fatto in esso racchiuse. Questo concetto di mondo è l’esplicazione
che è data anzitutto nell'orizzonte spaziale. Spiegazione, riproduzione e
rappresentazione sono gradi della relazione col dato, in cui l’apprendimento
oggettivo si approssima al concetto di mondo. Essi sono gradi, poiché in ognuna
di queste posizioni dell’apprendimento oggettivo quella precedente costituisce
la base di quella successiva. a. Ideen tiber eine beschreibende und zergliedernde
Psychologie, « Sitzungsberichte der kòniglich Preussischen Akademie der
Wissenschaften », 1894, p. 1352 (ora in Gesammelte Schriften, vol. V, p. 132].
b. Qui lo sguardo si dirige anche al compito logico di riduzione delle forme
del pensiero discorsivo a forme di espressione dei rapporti presenti nel dato,
così come vengono posti in luce dalle operazioni elementari del pensiero. Dai
fatti contenuti nel campo dell’apprendimento sensibile noi Allorché questa
connessione dell’apprendimento oggettivo sottostà alle condizioni contenute
nelle scienze dello spirito, viene a delinearsi la particolare struttura di
tali discipline. Sulla base delle forme e delle operazioni generali del
pensiero si fanno qui valere compiti specifici, che trovano la loro soluzione
nell’intreccio di metodi propri. Nell’elaborazione di queste forme di
procedimento le scienze dello spirito sono state ovunque influenzate dalle
scienze della natura; e poiché queste hanno elaborato prima i loro metodi, si è
avuto in larga misura un adattamento di essi ai compiti delle scienze dello
spirito. In due punti ciò risulta particolarmente evidente: nella biologia sono
stati scoperti per siamo condotti a considerare l’immanenza dell'ordine entro
la materia della nostra esperienza sensibile, e la distinzione della materia
delle impressioni dalle forme di collegamento si rivela un mero strumento di
astrazione. Il principio di identità dice che ogni proposizione vale
indipendentemente dal posto mutevole che essa occupa entro la connessione del
pensiero e dal mutamento che avviene nei soggetti delle asserzioni; e il
principio di contraddizione ha a suo fondamento quello di identità. In questo
al principio di identità si aggiunge la negazione, che è soltanto il rifiuto di
un'assunzione che si presenta in noi o al di fuori di noi, e si riferisce
sempre a un’asserzione già formulata, sia questa contenuta in un atto cosciente
del pensiero o in un'altra forma. Il principio di identità esige per la
proposizione una validità costante; e perciò viene esclusa l'eliminazione di
tale proposizione. Noi non possiamo al tempo stesso affermarla e negarla, in
quanto viene alla coscienza il rapporto di contraddizione. E quando dichiaro
falso il giudizio negativo, io rifiuto di eliminare la proposizione, e ne
risulta confermata l’'asserzione affermativa: il principio del terzo escluso
esprime questo fatto. Così le leggi del pensiero non designano alcuna
condizione aprioristica per il nostro pensiero; e i rapporti racchiusi nella
comparazione, nella separazione, nell’astrazione, nella relazione, si ritrovano
poi nelle operazioni del pensiero discorsivo e nelle categorie formali, di cui
si parlerà poi. Non è necessario ritenere che il giudizio presupponga il
subentrare del rapporto categoriale tra cosa e qualità, poiché questo può venir
inteso in base alla relazione tra l'oggetto e ciò che da esso è predicato. la
prima volta i metodi comparativi poi sempre maggiormente applicati alle scienze
sistematiche dello spirito, e i metodi sperimentali elaborati dall’astronomia e
dalla fisiologia sono stati trasferiti alla psicologia, all'estetica e alla
pedagogia. Anche oggi, nello sforzo di soluzione di compiti particolari, lo
studioso di psicologia di pedagogia, di linguistica o di estetica si chiederà
spesso se i mezzi e i metodi scoperti nelle scienze della natura per la
soluzione di problemi analoghi possano venir sfruttati nel proprio campo. Ma,
nonostante tali punti particolari di contatto, la connessione delle forme di
procedimento delle scienze dello spirito è, fin dal suo inizio, diversa dalla
connessione delle scienze della natura. Qui vengono considerati soltanto i
principi generali necessari per la penetrazione della connessione delle scienze
dello spirito, mentre la trattazione dei metodi appartiene allo studio della costruzione
delle scienze dello spirito. Due spiegazioni terminologiche devono essere qui
anticipate: per unità della vita psichica intendo gli elementi del mondo
storico-sociale, e con struttura psichica designo la connessione in cui, nelle
unità della Vita psichica, sono tra loro legate diverse operazioni. 1. La vita.
Le scienze dello spirito poggiano sul rapporto di Erledn:s, espressione e
intendere. Così il loro sviluppo dipende sia dall’approfondimento degli
Erlebnisse sia dalla crescente tendenza all'esaurimento del loro contenuto, ed
è nel medesimo tempo condizionato dall’estensione dell’intendere all'intera
oggettiva zione dello spirito e dalla capacità di cogliere in modo sempre più
compiuto e metodico il contenuto spirituale delle diverse manifestazioni della
vita. Il complesso di ciò che ci si rivela nell’Erleden e nell’intendere è la
vita come connessione che comprende il genere umano. E quando per la prima
volta ci troviamo di fronte a que134 WILHELM DILTHEY sto grande fatto, che per
noi è il punto di partenza non soltanto delle scienze dello spirito ma anche
della filosofia, occorre andar oltre la sua elaborazione scientifica e
penetrare il fatto stesso nella sua costituzione grezza. Infatti, dove la vita
ci si presenta come uno stato di fatto proprio del mondo umano, noi incontriamo
le sue determinazioni nelle varie unità della vita; incontriamo rapporti
vitali, presa di posizione, l’atteggiamento, la creazione effettuata sulle cose
e sugli uomini e la sofferenza che ne deriva. Nello sfondo permanente da cui
emergono le operazioni differenziate, non c'è nulla che non contenga un
rapporto vitale dell'io. Come tutto ha qui una posizione di fronte ad esso,
altrettanto viene però a mutare la situazione dell’io secondo il rapporto che
le cose e gli uomini hanno con esso: non esistono nessun uomo e nessuna cosa
che siano soltanto oggetti per me, e che non racchiudano una pressione o un
vantaggio, il fine di una tendenza o un’obbligazione del volere, un'importanza,
una pretesa di esser preso in considerazione, una vicinanza interna o una
resistenza, una distanza e una estraneità. Il rapporto vitale, sia esso
limitato a un dato momento o duraturo, fa sì che tali uomini e tali oggetti mi
rechino felicità, estendano la mia esistenza, accrescano la mia forza, oppure
vengano a limitare in questo rapporto lo spazio della mia esistenza, a
esercitare una pressione su di me, a diminuire la mia forza. E ai predicati che
le cose acquistano soltanto nel rapporto vitale con me corrisponde il mutare
degli stati in me stesso che ne scaturisce. Su questo sfondo della vita
emergono poi l'apprendimento oggettivo, la valutazione, la posizione di scopi,
come tipi di atteggiamento che hanno luogo in innumerevoli sfumature che
passano l’una nell'altra: essi sono legati nel corso della vita in interne
connessioni, le quali comprendono e determinano ogni occupazione e ogni
sviluppo. Se illustriamo ciò con il modo in cui il poeta lirico reca a
espressione l’Erlebnis, si vede che egli muove da una situazione e raffigura
uomini e cose nel rapporto vitale con un io ideale, in cui la sua esistenza e
entro di essa il corso della sua esperienza vengono accentuate nella fantasia;
questo rapporto di vita determina ciò che il vero lirico vede ed esprime degli
uomini e delle cose e di se stesso. Anche il poeta epico può dire soltanto ciò
che emerge in un rapporto di vita da lui raffigurato. Oppure, quando lo storico
descrive situazioni e persone storiche, egli desterà un'impressione della vita
reale, tanto più forte quanto meglio raffigura tali rapporti di vita. Egli deve
porre in luce le qualità degli uomini e delle cose che scaturiscono e operano
in tali rapporti di vita — e, si potrebbe dire, dare alle persone, alle cose,
ai processi, la forma e il colore in cui essi hanno dato forma, dal punto di
vista del rapporto di vita, a percezioni e a immagini di memoria nella vita
stessa. 2. L'esperienza della vita. L'apprendimento oggettivo scorre nel tempo,
e così in esso sono già contenute immagini di memoria. E in quanto ciò che è
immediatamente vissuto cresce continuamente e sempre più svanisce con il
progredire del tempo, sorge il ricordo del corso della propria vita. Parimenti,
sulla base della comprensione di altre persone, si formano i ricordi dei loro
stati e le immagini esistenziali delle diverse situazioni; e certo in tutti
questi ricordi la situazione è sempre legata con il suo ambiente di contenuti
di fatto, di avvenimenti e di persone. Dalla generalizzazione di ciò che in tal
modo si presenta insieme sorge l’esperienza di vita dell’individuo. Essa sorge
in forme di procedimento equivalenti a quelle dell’induzione. Il numero dei
casi, in base ai quali questa induzione decide, cresce di continuo nel corso
della vita; e le generalizzazioni che si formano vengono sempre corrette. La
sicurezza che spetta all'esperienza personale della vita è distinta dalla
validità universale di tipo scientifico: infatti queste generalizzazioni non
sono compiute metodicamente e non possono venir racchiuse in formule rigorose.
Il punto di vista individuale, inerente all’esperienza personale della vita, si
corregge e si amplia nell’esperienza generale della vita: con questa io intendo
i princìpi che si formano in qualsiasi ambito di persone in rapporto reciproco
e che sono comuni ad esse. Si tratta di asserzioni sul corso della vita, di
giudizi di valore, di regole della condotta di vita, di determinazioni di scopi
e di beni: il loro contrassegno sta nel fatto che esse sono creazioni della
vita collettiva, le quali riguardano tanto la vita dell’uomo singolo quanto la
vita delle comunità. 136 WILHELM DILTHEY Sotto il primo aspetto, in quanto
costume, abitudine e, in riferimento alla persona individuale, come opinione
pubblica, esse esercitano, per il prevalere del numero e per il sopravvivere
della comunità alla persona singola, un potere su di questa e sulla sua
esperienza o forza di vita, che sovrasta di solito la volontà di vita
dell’individuo. La sicurezza di questa esperienza generale della vita rispetto
a quella personale è maggiore, in quanto i punti di vista individuali
pervengono in essa a un equilibrio e cresce il numero dei casi che stanno a
base dell’induzione. D'altra parte in questa esperienza generale si rivela, in
modo ancor più forte che in quella individuale, l’incontrollabilità
dell'origine del suo sapere dalla vita. 3. La distinzione delle forme di
atteggiamento nella vita e le classi di asserzioni nell'esperienza della vita.
Nell’esperienza della vita si presentano ora diverse classi di asserzioni, le
quali si rifanno alla distinzione di atteggiamento nella vita. Infatti la vita
non è solo la fonte del sapere, considerata nel suo contenuto d'esperienza; le
tipiche forme di atteggiamento dell’uomo condizionano pure le diverse classi di
asserzioni. Qui si deve soltanto constatare per adesso il fatto di questa
relazione tra la diversità di atteggiamento della vita e le asserzioni
dell’esperienza della vita. Nei singoli rapporti di fatto della vita, che si
presentano tra l'io da un lato e le cose e gli uomini dall’altro, sorgono i
diversi stati della vita: situazioni differenziate dell’io, sentimenti di
pressione o di accrescimento dell’esistenza, desiderio di un oggetto, timore o
speranza. E come cose o uomini esercitanti una pretesa sull'io assumono uno
spazio nella sua esistenza, come sono portatori di vantaggi o di impedimenti,
come sono oggetti di desiderio, di aspirazione, di distacco, così da questi
rapporti vitali derivano le determinazioni a essi relative, che si aggiungono
all’apprendimento oggettivo di uomini e di cose. Tutte queste determinazioni dell’io
e degli oggetti o delle persone, quali scaturiscono dai rapporti della vita,
vengono elevate a riflessione ed espresse nel linguaggio: così nascono in esso
di-stinzioni come asserzioni di realtà, desiderio, esclamazione, imWILHELM
DILTHEY 137 erativo. Se si prendono ora in esame le espressioni che si
riferiscono alle forme di atteggiamento, cioè alle varie prese di posizione
dell'io di fronte agli uomini e alle cose, risulta che esse rientrano in certe
classi supreme. Esse constatano una realtà, valutano, designano una posizione
di scopo, formulano una regola, esprimono il significato di un fatto in base
alla più ampia connessione in cui esso è inserito. Inoltre vengono in luce Je
relazioni tra queste forme di asserzione contenute nell’esperienza della vita:
gli atti di penetrazione della realtà formano uno strato sul quale poggiano le
valutazioni, e questo strato è a sua volta la base per le posizioni di scopo.
Le forme di atteggiamento contenute nei rapporti vitali e i loro prodotti
vengono oggettivati nelle asserzioni che constatano tali forme in quanto stati
di fatto; analogamente vengono rese indipendenti le predicazioni di uomini e di
cose, che scaturiscono dai rapporti vitali. Questi stati di fatto sono
nell’esperienza della vita elevati a sapere universale mediante un procedimento
equivalente all’induzione: così sorgono le molteplici proposizioni, poste in
luce nella saggezza generalizzante del popolo e nella letteratura sotto forma
di proverbi, di regole di vita, di riflessioni sulle passioni, sui caratteri e
sui valori della vita. Anche in queste ritornano le differenze che si sono
osservate nell’espressione delle nostre prese di posizione o delle nostre forme
di atteggiamento. Ancora nuove distinzioni si fanno valere nelle asserzioni
dell’esperienza della vita. Già nella vita medesima la conoscenza della realtà,
la valutazione, l’elaborazione di regole, la posizione di scopi si sviluppano
in differenti gradi, di cui ognuno è il presupposto del successivo. Essi sono
stati indicati per l’apprendimento oggettivo; ma sussistono del pari nelle
altre forme di atteggiamento. Così la stima dei valori dinamici di cose o di
uomini presuppone che siano state constatate le possibilità di recar utile o
danno racchiuse negli oggetti, e una decisione diventa possibile solo mediante
la ponderazione del rapporto delle rappresentazioni di fine con la realtà e i
mezzi, in essa dati, di realizzare tali rappresentazioni. Le unità ideali come
sostegni della vita e dell'esperienza della vita. Un’infinita ricchezza di vita
si sviluppa nell’esistenza indivi duale delle varie persone, attraverso i loro
rapporti con l’ambiente, gli altri uomini e le cose. Ma ogni singolo individuo
è nel medesimo tempo un punto di incrocio di connessioni che pervadono gli
individui e sussistono in essi, ma sovrastano la loro vita e posseggono
un'esistenza autonoma e un proprio sviluppo per il contenuto, il valore, lo
scopo che vi si realizza. Sono cioè soggetti di tipo ideale: a essi è
intrinseco qualche sapere intorno alla realtà; in essi si sviluppano punti di
vista di valutazione; in essi si realizzano scopi; per cui acquistano e
mantengono un significato nella connessione del mondo spirituale. Ciò avviene
già in alcuni sistemi di cultura nei quali non c'è un’organizzazione che
racchiuda i suoi elementi, come in generale nell'arte e nella filosofia.
Altrove sorgono però unioni organizzate. Così la vita economica crea le sue
associazioni, e nella scienza nascono centri per la realizzazione dei suoi
compiti, e le religioni dànno vita alle organizzazioni più salde tra tutti i
sistemi di cultura. Nella famiglia, nelle varie forme intermedie tra questa e
lo stato, nello stato medesimo si trova poi la suprema elaborazione di
un’unitaria posizione di scopi entro una comunità. Ogni unità organizzata di uno
stato sviluppa una conoscenza di se stesso e delle regole, a cui è legata la
sua sussistenza, così come della sua situazione di fronte al tutto. Essa gode
dei valori sviluppatisi nel suo grembo; essa attua gli scopi che riposano sul
suo essere e che servono alla conservazione e alla promozione della sua
esistenza. Essa stessa è un bene dell’umanità, realizza beni e acquista un
significato specifico entro la connessione dell'umanità. Arriva ora il punto in
cui si presentano al nostro sguardo la società e la storia. Sarebbe però
erroneo voler limitare la storia al cooperare degli uomini in vista di scopi
comuni. L'uomo singolo, nella sua esistenza individuale che poggia su se
stessa, è un essere storico. Egli è determinato dalla sua posizione nella linea
del tempo, dal suo luogo nello spazio, dalla sua situazioWILHELM DILTHEY 139 ne
nell’azione reciproca dei sistemi di cultura e delle comunità. Lo storico deve
quindi intendere l’intera vita degli individui com’essa si manifesta in un
determinato tempo e in un determinato luogo. Proprio l’intera connessione che
va dagli individui, in quanto orientati verso lo sviluppo della propria
esistenza, ai sistemi di cultura e alle comunità, e infine all’umanità,
costituisce la natura della società e della storia. I soggetti logici, a cui ci
si riferisce nella storia, sono tanto gli individui particolari quanto le
comunità e le connessioni. 5. Lo scaturire delle scienze dello spirito dalla
vita degli individui e delle comunità. La vita, l’esperienza della vita e le
scienze dello spirito stanno dunque in una costante connessione interna e in un
costante scambio reciproco. Non un procedimento concettuale costituisce il
fondamento delle scienze dello spirito, ma la consapevolezza di uno stato
psichico nella sua totalità e il suo ritrovamento nel rivivere. La vita coglie
qui la vita, e la forza con cui vengono compiute le due operazioni elementari
delle scienze dello spirito è la condizione preliminare della loro compiutezza
in ogni parte di esse. Così anche in questo punto si nota una differenza
decisiva tra le scienze della natura e le scienze dello spirito. In quelle la
distinzione del nostro rapporto con il mondo esterno avviene sulla base del
pensiero naturalistico, le cui operazioni produttive hanno un riferimento
esterno, mentre in queste si mantiene una connessione tra vita e scienza, per
cui il lavoro della vita nell’elaborazione del pensiero costituisce la base per
la creazione scientifica. L’approfondimento in se stesso perviene nella vita,
sotto certe circostanze, a una perfezione a cui neppure Carlyle? è pervenuto, e
la comprensione degli altri viene qui condotta a un livello di virtuosismo che
neppur Ran3. Thomas Carlyle (1795-1881), storico e filosofo romantico inglese,
autore del Sartor Resartus (1833-34), della History of the French Revolution
(1838), di On Heroes, Hero-Worship, and the Heroic in History (1841) c di varie
altre opere, contribuì in misura rilevante all’introduzione dell'idealismo
tedesco, in particolare del pensiero di Schelling, nella cultura inglese. La
sua concezione della storia mette in risalto l’importanza decisiva degli « eroi
». 140 WILHELM DILTHEY ke' ha raggiunto. Da una parte le grandi nature
religiose, come Agostino e Pascal, sono gli eterni modelli per l’esperienza che
si nutre del proprio Erlebnis, e dall’altra, nella comprensione delle altre
persone, la corte e la politica educano a un'arte che guarda al di là di ogni
apparenza; un uomo di azione come Bismarck, al quale sono sempre presenti per
natura i suoi fini in ogni lettera che scrive e in ogni colloquio, non può
venir eguagliato da nessun interprete di atti politici e da nessun critico di
narrazioni storiche per ciò che riguarda l’arte di leggere le intenzioni che
stanno al di là dell’espressione. Tra la penetrazione di un dramma da parte di
un ascoltatore di forte sensibilità poetica e la più eccellente analisi di
storia letteraria non c’è, in parecchi casi, alcuna distanza. E anche
l’elaborazione concettuale è continuamente determinata, nelle scienze
storico-sociali, dalla vita medesima: mi riferisco alla connessione che conduce
continuamente dalla vita, dall’elaborazione concettuale intorno al destino, ai
caratteri, alle passioni, ai valori e agli scopi dell’esistenza, fino alla
storia come disciplina scientifica. Nell’epoca in cui, in Francia, l’azione
politica era fondata più sulla conoscenza degli uomini e delle personalità
eminenti che su uno studio scientifico del diritto, dell'economia e dello
stato, e la posizione nella vita di corte poggiava su tale arte, anche la forma
letteraria delle memorie e degli scritti sui caratteri e sulle passioni è
pervenuta a un’altezza non più raggiunta in seguito, ed è stata coltivata da
persone poco influenzate dallo studio scientifico della psicologia e della
storia. Una connessione interna unisce qui l'osservazione della società
illustre, i letterati e i poeti che da essa imparano, i filosofi sistematici o
gli storici scientifici che si formano sulla base della poesia e della
letteratura. Si è visto, agli inizi della scienza politica in Grecia, che lo
sviluppo dei concetti relativi alle costituzioni e alle funzioni politiche ha
preso le mosse dallo stesso 4. Leopold von Ranke (1795-1886), storico tedesco,
autore della Geschichte der romanischen und germanischen Vélker von 1494 bis
1535 (1824) seguita dalla celebre dissertazione Zur Kritik neuerer
Geschichtsschreiber, di Die ròmischen Pùpste, ihre Kirche und ihr Staat im 16.
und 17. Jahrhundert (1834-36), della Deutsche Geschichte im Zeitalter der
Reformation (1839-47) e di numerose altre opere, è la principale figura della
scuola storica tedesca. La sua attività storiografica culmina nelle conferenze
dedicate alle Epochen der neueren Geschichte (1854) e nella Weltgeschichte
(1881-1885), rimasta incompleta. sviluppo della vita statale, e che muove creazioni
in questa hanno poi condotto a nuove teorie. Questo rapporto risulta quanto mai
evidente nei più antichi stadi della scienza giuridica tanto romana quanto
germanica. 6. La connessione delle scienze dello spirito con la vita e il loro
compito di validità universale. Così il sorgere dalla vita e la perdurante
connessione con essa costituisce il primo tratto fondamentale della struttura
delle scienze dello spirito; esse poggiano infatti sull’Er/eden, sull’intendere
e sull’esperienza della vita. Questo rapporto immediato, in cui stanno tra loro
la vita e le scienze dello spirito, conduce in tali discipline a un’antitesi
tra le tendenze della vita e il loro fine scientifico. Dal momento che gli
storici, gli economisti, i teorici del diritto pubblico, gli studiosi della
religione sono inseriti nella vita, vogliono anche influire su di essa. Essi
sottopongono al loro giudizio persone storiche, movimenti di massa, tendenze,
ma tale giudizio è condizionato dalla loro individualità, dalla nazione a cui
appartengono, dal tempo in cui vivono. Anche quando credono di procedere senza
presupposti, essi sono determinati da questo loro orizzonte: ogni analisi
intrapresa sui concetti di una generazione passata mostra che in questi sono
contenuti elementi, i quali derivano dai presupposti dell’epoca. Però nel
medesimo tempo in ogni scienza come tale è contenuta l'esigenza della validità
universale. Se debbono esserci scienze dello spirito nel significato ristretto
del termine, esse debbono porsi questo fine in maniera sempre più cosciente e
più critica. Sull’antitesi di queste due tendenze si basa gran parte dei
contrasti scientifici che si sono manifestati, negli ultimi tempi, nella logica
delle scienze dello spirito. Tale antitesi si esprime nella maniera più forte entro
la scienza storica, che è diventata il punto centrale in questa discussione. La
soluzione di questa antitesi si compie soltanto nella costruzione delle scienze
dello spirito; gli ulteriori principi generali sulla connessione delle scienze
dello spirito già contengono il principio di tale soluzione. Il risultato
finora da noi conseguito permane. La vita e l’esperienza della vita sono le
fonti 142 WILHELM DILTHEY sempre nuove della comprensione del mondo
storico-sociale; la comprensione procede dalla vita verso sempre maggiori
profondità; e soltanto nella reazione sulla vita e sulla società le scienze
dello spirito pervengono al loro più alto significato, che è in continuo
accrescimento. Ma la strada verso questa azione deve passare attraverso
l’oggettività della conoscenza scientifica. La coscienza di ciò era già
operante nella grande epoca creatrice delle scienze dello spirito. In seguito a
vari disturbi che si possono riscontrare nel corso del nostro sviluppo
nazionale, ma anche nell’applicazione di un ideale culturale unilaterale dopo
Burckhardt®, noi cerchiamo ora di elaborare questa oggettività delle scienze
dello spirito in maniera sempre più priva di presupposti, più critica, più
rigorosa. Io trovo il principio per la soluzione dell’antitesi che si presenta
in queste scienze nella comprensione del mondo storico come una connessione
dinamica, la quale è centrata in se stessa, in quanto ogni connessione dinamica
particolare in essa contenuta ha in sé, in virtù della posizione e della
realizzazione di valori, il proprio centro, ma tutte sono strutturalmente unite
in una totalità nella quale il senso della connessione del mondo
storico-sociale deriva dalla significatività delle singole parti; cosicché ogni
giudizio di valore e ogni posizione di scopi diretta verso il futuro, devono
essere fondati esclusivamente su questa connessione strutturale. A questo
principio ideale ci avviciniamo ora nei seguenti princìpi generali sulla
connessione delle scienze dello spirito. La connessione delle scienze dello
spirito è determinata dal suo fondamento nell’Erlebden e nell’intendere, e
tanto nell’uno 5. Jacob Burckhardt (1818-1897), storico svizzero, autore di Die
Zeit Constantins des Grossen (1853), di Die Cultur der Renaissance in Italien
(1860) e di una postuma Griechische Kulturgeschichte (1898-1902), nonché di
varie altre opere, è uno dei maggiori esponenti della storiografia
post-romantica; il suo libro sulla civiltà del Rinascimento ha rinnovato
l'interpretazione di questo periodo storico. Le sue idee sulla storia sono
esposte nel corso di lezioni Uber das Studium der Geschichte, pubblicato
postumo col titolo Weltgeschichiliche Betrachtungen (1905). WILHELM DILTHEY 143
quanto nell’altro si fanno subito valere importanti differenze rispetto alle
scienze della natura, le quali dànno un carattere proprio alla costruzione di
tali discipline. 1. La linca delle rappresentazioni che procede dall’Erlebnis.
Ogni immagine ottica è diversa da un’altra, che si riferisca al medesimo
oggetto, per il punto di vista e le condizioni dell’apprendimento: queste
immagini sono legate in un sistema di relazioni interne in virtù dei vari modi
di apprendimento oggettivo. La rappresentazione totale, che così sorge dalla
serie delle immagini secondo i rapporti fondamentali racchiusi nel contenuto di
fatto, è qualcosa di rappresentato e di pensato in aggiunta. Gli Erlebrisse
sono invece legati tra loro in un’unità di vita entro il corso temporale; e
ognuno di essi ha così il suo posto in un corso i cui elementi sono uniti
reciprocamente nella memoria. Non parlo qui ancora del problema della realtà di
questi Er/ebrisse, e tanto meno delle difficoltà inerenti all’apprendimento di
un Er/ebnis: basta che il modo in cui l’Erlebnis esiste per me sia del tutto
diverso dal modo in cui stanno davanti a me le immagini. La coscienza di un
Erlebnis e della sua qualità, il suo esistere-per-me e ciò che in esso esiste
per me, sono la stessa cosa: l’Er/ebrnis non si contrappone a chi lo apprende
come un oggetto, ma la sua esistenza per me non è distinta da ciò che in esso
esiste per me. Non vi sono diverse posizioni spaziali da cui possa venir visto
ciò che in esso esiste; e differenti punti di vista, da cui esso può venir
appreso, possono sorgere soltanto in seguito, mediante la riflessione, e non
incidono sul suo carattere di Erlebris. Esso è sottratto alla relatività di ciò
che è dato sensibilmente, per cui le immagini si riferiscono all'elemento
oggettivo soltanto nella relazione con il soggetto conoscente, con la sua
posizione nello spazio e con ciò che sta in mezzo tra lui e gli oggetti.
Dall’Erlebris una linea diretta di rappresentazioni procede fino all’ordine dei
concetti in cui esso viene appreso pensando. Esso viene anzitutto spiegato
mediante le operazioni elementari del pensiero; e qui trovano il loro significato
specifico i ricordi, in cui esso viene poi appreso. E che cosa accade quando
l’Erlebnis diviene oggetto della mia riflessione? Io sto sveglio di notte, mi
preoccupo 144 WILHELM DILTHEY della possibilità di terminare nella mia
vecchiaia i lavori iniziati, rifletto su ciò che vi è da fare. In questo
Erlebris c'è una connessione strutturale di coscienza: l’apprendimento
oggettivo costituisce il suo fondamento, su questo poggia una presa di
posizione come preoccupazione e come sofferenza provocata dall'elemento
soggettivamente appreso, e come tendenza a andare oltre di esso. E tutto ciò
esiste per me in questa sua connessione strutturale. Io reco a coscienza
distinta un certo stato, pongo in luce ciò che in esso è strutturalmente
collegato, lo isolo: ma tutto ciò che vengo in tal modo a trarne fuori è
contenuto nell’Erlebris stesso e viene in tal modo solo spiegato. Il mio
apprendimento dell’Erlebris stesso viene però sviluppato, sulla base dei
momenti in esso contenuti, in Er/ebrisse che, sebbene separati da un lungo
spazio di tempo, sono legati strutturalmente nel corso della vita con tali
momenti: io ho coscienza dei miei lavori in virtù di un esame precedente, e con
questo stanno in relazione, in un passato ancor più lontano, i processi da cui
sono sorti tali lavori. Un altro momento si dirige verso il futuro; ciò che ora
sussiste richiederà ancora un lavoro incalcolabile da parte mia; io ne sono
preoccupato e mi oriento internamente a tale operazione. Tutto questo s, di e
a, tutte queste relazioni di ciò che è immediatamente vissuto con ciò che è
ricordato e anche con il futuro, mi spinge — indietro e avanti. Essere
trascinato in questa serie poggia sull’esigenza di sempre nuovi elementi,
richiesti, dall’Erleden; a ciò può cooperare pure un interesse che deriva dalla
forza emotiva di questo. È un essere trascinato, non una volizione, tanto meno
quell’astratta volontà di sapere a cui si è fatto ricorso dopo la dialettica di
Schleiermacher. Nella serie, che in tal modo sorge, tanto il passato quanto il
futuro o il possibile sono trascendenti rispetto al momento riempito
dall'Erlebnis: ma entrambi, il passato e il futuro, sono legati all’Er/ebris in
una serie che si articola mediante tali relazioni in una totalità. Ogni passato
è legato strutturalmente come riproduzione a un Er/ebnis trascorso, in quanto
il suo ricordo implica un riconoscimento. Anche il possibile da venire è legato
a tale serie mediante l’ambito di possibilità da essa determinate. Così in
questo processo sorge l’intuizione della connessione psichica nel tempo, la
quale costituisce il corso della vita, in cui ogni singolo Erlebnis è legato a
una totalità. E tale connessione della vita non è una somma o un complesso di
momenti successivi, ma un’unità costituita da relazioni che uniscono tutte le
parti. Muovendo dal presente noi percorriamo indietro una serie di ricordi fin
dove il nostro piccolo, debole e informe io si perde nel crepuscolo, e ci
spingiamo innanzi, da questo presente, verso possibilità in esso racchiuse, che
assumono vaghe ed ampie dimensioni. Da ciò deriva un risultato importante per
la connessione delle scienze dello spirito. Gli elementi, le regolarità, le
relazioni che costituiscono l’intuizione del corso della vita, sono insieme
contenuti nel corso della vita; e al sapere relativo al corso della vita spetta
quindi lo stesso carattere di realtà proprio dell’Er/ebnis. 2. Il rapporto di
reciproca dipendenza nell’intendere. Se negli Erlebnisse cogliamo la realtà
della vita nella molteplicità dei suoi rapporti, quel che ci appare, in questa
prospettiva, è sempre soltanto qualcosa di singolare, cioè la nostra propria
vita di cui siamo coscienti nell’Erleden. Tale sapere resta un sapere relativo
a qualcosa di irripetibile, e nessun strumento logico può superare la
limitazione alla singolarità contenuta nella forma di esperienza dell’Erleden.
Soltanto l’intendere elimina tale limitazione dell’Erlebnis individuale, come
d’altro lato conferisce agli Erlebnisse della persona il carattere di
esperienza della vita. Estendendosi a più uomini, a varie creazioni spirituali
e a varie comunità, esso amplia l’orizzonte della vita individuale e apre nelle
scienze dello spirito la via che reca, attraverso ciò che è comune, al
generale. L’intendersi reciproco ci assicura del rapporto di comunazza che
sussiste tra gli individui: questi sono infatti tra loro legati da una
comunanza in cui sono intrecciate appartenenza reciproca o connessione,
uniformità o affinità. La stessa relazione di connessione e di uniformità
pervade tutte le cerchie del mondo umano. Questa comunanza si esprime
nell’identità della ragione, nella simpatia presente nella vita affettiva,
nell’obbligazione reciproca del dovere e del diritto, accompagnata dalla
coscienza di ciò che deve essere. La comunanza delle unità viventi è il punto
di partenza per tutte le relazioni tra particolare e universale nelle scienze
dello spirito. L'esperienza fondamentale della comunanza pervade l’intero
apprendimento del mondo spirituale, collegando la coscienza dell’io unitario e
la coscienza dell’uniformità con gli altri, l'identità della natura umana e
l’individualità. Essa costituisce il presupposto dell’intendere.
Dall’interpretazione elementare, che richiede soltanto Ia conoscenza del
significato delle parole e delle regolarità con cui esse sono legate in
proposizio-ni dotate di senso, cioè la comunanza del linguaggio e del pensare,
l'ambito di ciò che è comune si estende di continuo, rendendo possibile il
processo di comprensione nella misura in cui il suo oggetto è costituito da
nessi superiori di manifestazioni della vita. Dall'analisi dell’intendere
risulta però un secondo rapporto fondamentale, che è determinante per la
struttura della connessione delle scienze dello spirito. Noi abbiamo visto come
le verità delle scienze dello spirito poggiano sull’Erlede e sull’intendere: ma
l’intendere presuppone d'altra parte l’utilizzazione delle verità delle scienze
dello spirito. Per illustrare ciò con un esempio si prenda il compito di
comprendere Bismarck: una straordinaria quantità di lettere, di documenti, di
narrazioni e di racconti su di lui costituisce il materiale che si riferisce al
corso della sua vita. Lo storico deve ampliare il confine di questo materiale,
per cogliere ciò che ha influito sul grande uomo di stato e ciò che egli ha
prodotto. Fin quando dura il processo dell’intendere, la delimitazione del
materiale non è ancora conclusa. Già per conoscere uomini, avvenimenti,
situazioni come appartenenti a questa connessione dinamica, egli ha bisogno di
princìpi generali, i quali stanno anche a base della sua comprensione di
Bismarck, estendendosi dalle qualità comuni dell’uomo alle qualità di classi
particolari. Lo storico darà a Bismarck un posto tra gli uomini d’azione in
base alla psicologia individuale, seguendo in lui la specifica combinazione dei
tratti che sono loro comuni. Da un altro punto di vista si ritroveranno nella
sovranità del suo essere, nell’abitudine a comandare e a dirigere,
nell’inflessibilità del volere, le qualità fondamentali del nobile prussiano
latifondista. E, in quanto la sua lunga vita ha occupato un posto determinato
nel corso WILHELM DILTHEY 147 della storia prussiana, ecco di nuovo un altro
gruppo di princìpi generali da cui sono determinati i tratti comuni agli uomini
di questo tempo. L'enorme pressione che si esercitava, secondo la situazione
dello stato, sulla consapevolezza politica produceva naturalmente le più
diverse forme di reazione. La comprensione di queste esige princìpi generali
sulla pressione che una certa situazione esercita su una totalità politica e
sui suoi elementi, nonché sulle sue ripercussioni. I gradi di sicurezza
metodica nella comprensione dipendono dallo sviluppo delle verità generali
mediante cui tale rapporto consegue il suo fondamento. Risulta ora chiaramente
che questo grande uomo di azione, il quale ha avuto le sue radici completamente
nella Prussia c nel suo regno, dovrà sentire in modo particolare la pressione
che si esercita su di essa dall’esterno. Egli dovrà pure valutare le questioni
interne della costituzione di questo stato principalmente dal punto di vista
del potere statale. In quanto poi è il punto di incontro di comunità quali lo
stato, la religione, l'ordine giuridico, e in quanto ha pure, come personalità
storica, determinato e mosso în modo eminente una di queste comunità, e nel
medesimo tempo opera in esse, egli richiede da parte dello storico una
conoscenza generale intorno a queste comunità. In breve, il suo intendimento
giungerà a compimento solo in virtù della relazione col complesso di tutte le
scienze dello spirito. Ogni relazione, che deve essere elaborata nella
rappresentazione di questa personalità storica, acquista la massima sicurezza e
distinzione solo attraverso la sua determinazione mediante i concetti
scientifici relativi ai vari campi. E il rapporto reciproco di questi campi è
fondato infine su una intuizione totale del mondo storico. Così il nostro
esempio ci illustra la duplice relazione insita nell’intendere: l’intendere
presuppone l’Erleben, e l’Erlebnis si eleva a esperienza della vita solo in
quanto l’intendere conduce al di fuori della ristrettezza e della soggettività
dell’Erleben, nella regione della totalità e dell’universale. Inoltre, la
comprensione della personalità singola esige per la sua compiutezza il sapere
sistematico, come d'altra parte il sapere sistematico dipende dalla viva
penetrazione della singola unità vitale. La conoscenza della natura inorganica
si compie in una costru148 WILHELM DILTHEY zione scientifica nella quale il
grado sottostante è sempre indipendente da quello che esso fonda: invece nelle
scienze dello spirito tutto, a partire dal processo dell’intendere, è
determinato dal rapporto di reciproca dipendenza. A ciò corrisponde il corso
storico di queste discipline. La storiografia è in ogni punto condizionata
dalla conoscenza delle connessioni sistematiche che si intrecciano nel corso
storico, e la cui profonda investigazione determina il progredire
dell’intendere storico. Tucidide si fondava sul sapere politico sorto nella
prassi dei liberi stati greci, e sulle dottrine intorno allo stato sviluppatesi
nel periodo sofistico. Polibio ha riunito in sé l'intera saggezza politica
dell’aristocrazia romana, che in questo tempo era al culmine del suo sviluppo
sociale e spirituale, con lo studio delle opere politiche greche da Platone fino
allo Stoicismo. L’unione della saggezza politica fiorentina e veneziana,
sviluppatasi in una élite assai evoluta e piena di vivaci dibattiti politici,
con il rinnovamento e la prosecuzione delle dottrine antiche ha reso possibile
la storiografia di Machiavelli e di Guicciardini. La storiografia ecclesiastica
di Eusebio”, dei sostenitori e degli avversari della Riforma, come Neander” e
Ritschl*, è piena di concetti sistematici riguardanti il processo religioso e
il diritto ecclesiastico. E infine la fondazione della storiografia moderna
nella scuola storica e in Hegel aveva dietro di sé da un lato il legame della
scienza giuridica moderna con le esperienze dell’età rivoluzionaria e
dall’altro l’intera sistematica delle scienze dello spirito sorte da poco. Quando
Ranke sembra avvicinarsi alle cose con ingenua gioia di narra6. Eusebio di
Cesarca (265-339), padre della Chiesa ispirato dal neoplatonismo, autore del
Chronicon, della Historia ecclesiastica, della Praeparatio evangelica, della
Demonstratio evangelica, del De ecclesiastica theologia e di vari altri
scritti, è una delle fonti principali per la storia del Cristianesimo
primitivo. Scrisse parecchi pampAlets di polemica anti-pagana, e prese parte
alla controversia tra Ario e Alessandro sull’interpretazione della trinità. 7.
Johann August Wilhelm Neander (1789-1850), storico della chiesa e teologo
tedesco, autore di diversi volumi sull’imperatore Giuliano, su Bernardo di
Chiaravalle, su Giovanni Crisostomo, su Tertulliano, nonché di una Allgemeine
Geschichte der christlichen Religion und Kirche (1825-45) rimasta incompiuta.
8. Albrecht Ritschl (1822-1889), teologo protestante tedesco, autore di Die Ent
stehung der altkatholischen Kirche (1850), di Die christliche Lehre von
Rechifertigung und Versohnung (1870-74), della Geschichte des Pietismus
(1880-86), di Theologie und Metaphysik (1881) e di varie altre opere. WILHELM
DILTHEY 149 tore, la sua storiografia può venir tuttavia intesa solo se si
ripercorrono le molteplici fonti di pensiero sistematico, che si sono
incontrate nella sua formazione. E questa reciproca dipendenza dell’elemento
storico e dell’elemento sistematico cresce sempre di più avvicinandoci al
presente. Proprio la critica storica, nei suoi lavori fondamentali, ha mostrato
la sua dipendenza non solo dallo sviluppo formale dei metodi ma anche dalla più
profonda penetrazione delle connessioni sistematiche, dai progressi della
grammatica, dallo studio della connessione del discorso, quale si è sviluppato
dapprima nella retorica, e inoltre dalla nuova concezione della poesia — come
ci appare sempre più chiaramente nel caso dei precursori di Wolf° che hanno
derivato le loro conclusioni su Omero da una nuova poetica — e dalla nuova
cultura estetica nel medesimo F. A. Wolf, dalle considerazioni economiche,
giuridiche e politiche in Niebuhr, dalla nuova filosofia congeniale con Platone
in Schleiermacher, e in Baur!° dalla comprensione del processo in cui si sono
formati i dogmi, come l’avevano sviluppata Schleiermacher e Hegel. E,
viceversa, il progresso nelle scienze sistematiche dello spirito è stato sempre
condizionato dal movimento dell’Er/ebez verso nuove profondità, dall’allargarsi
dell’intendere in un maggiore ambito di manifestazioni della vita storica,
dalla scoperta di fonti storiche fin allora ignote o dall’emergere di grandi
masse di esperienze in nuove situazioni storiche. Ciò è già dimostrato dalla
formazione delle prime linee di una scienza politica nell’età dei Sofisti, di
Platone e di Aristotele, così 9. Friedrich August Wolf (1759-1824), pedagogista
e filologo tedesco, autore della Geschichte der ròmischen Literatur (1787), dei
Prolecomena ad Homerum (1794), di una Enzyklopidie der Philologie pubblicata
postuma (1830), nonché di diversi altri volumi di argomento classicistico 0
pedagogico, occupa un posto importante nella storia della critica omerica. 1o.
Ferdinand Christian Baur (1792-1860), storico e teologo tedesco, autore di Das
manichdische Religionssystem (1831), di Die christliche Gnosis oder die
christliche Religionsphilosophie in ihrer geschichtlichen Entwicklune (1835),
del LeArbuch der christlichen Dogmengeschichte (1837), di Paulus der Apostel
Jesu Christi (1845), di Die Epochen der kirchlichen Geschichtsschreibung
(1852-55) e di numerose altre opere, tra cui le postume Vorlesungen ùber die
christliche Dogmengeschichte (1865-67), è il maggiore esponente
dell'atteggiamento razionalistico nella storiografia religiosa della prima metà
dell'Ottocento, La sua concezione della religione e della storia della
religione si ispira in larga misura a Hegel. 150 WILHELM DILTHEY come
dall’origine di una retorica e di una poetica in quanto teoria della creazione
spirituale nella medesima epoca. Sempre tale intreccio dell’Erleben con la
comprensione di persone singole o di comunità come soggetti sovra-individuali è
stata determinante nei grandi progressi delle scienze dello spirito. I geni
dell’arte narrativa come Tucidide, Guicciardini, Gibbon, Macaulay ", Ranke
producono anche nella loro limitazione opere storiche non soggette al tempo; e
nella totalità delle scienze dello spirito vi è dunque un progresso, in quanto
viene gradualmente conquistata alla coscienza storica la penetrazione delle
connessioni che cooperano nella storia, la storiografia si immerge nelle loro
relazioni che costituiscono una nazione, un'epoca, una linea di sviluppo
storico, e di qui si dischiudono poi profondità della vita, quali sono esistite
nelle varie situazioni storiche, che vanno al di Îà di ogni intendere
precedente. Come potrebbe venir comparata quella passata con la comprensione
che uno storico odierno ha di artisti, poeti, scrittori? 3. La spiegazione
graduale delle manifestazioni della vita attraverso la costante azione
reciproca deî due orientamenti scientifici. Il rapporto di condizionamento
reciproco ci appare dunque come rapporto fondamentale tra l’Erleden e
l’intendere. Più da vicino, esso viene a determinarsi come rapporto di
spiegazione graduale nella costante azione reciproca tra le due classi di
verità. L’oscurità dell’Erlebris viene chiarita, gli errori derivanti dalla
ristretta comprensione del soggetto vengono corretti, l’Erlebnis medesimo è
ampliato e completato nell’intendimento di altre persone, come d’altra parte le
altre persone sono intese mediante i propri Erlebnisse. L'intendere allarga
sempre più l'ambito del sapere storico mediante la più intensa utilizzazione
delle fonti, mediante il ritorno indietro nel passato finora non compreso, e
infine mediante il progredire della storia medesima, che produce sempre nuovi
avvenimenti estendendo così 11. Thomas Babington Macaulay (1800-1859), uomo
politico e storico inglese, autore della History of England from the Accession
of James II (1849-61), nonché di numerosi Essays e Biographical Essays, recò
nella sua storiografia un'impostazione liberale: Dilthey si riferisce qui
soprattutto alle suc grandi qualità narrative. WILHELM DILTHEY ISI l'oggetto
dell’intendere. In tale procedere l'ampliamento di ambito richiede sempre nuove
verità generali per la penetrazione di questo mondo della singolarità; e
l’estensione dell’orizzonte storico rende nel medesimo tempo possibile
l'elaborazione di concetti sempre più generali e sempre più fecondi. Così in
ogni punto e in ogni tempo si presenta, nel lavoro delle scienze dello spirito,
una circolarità di Erleden, di intendere e di rappresentazione del mondo
spirituale in concetti generali. E ogni grado di questo lavoro possiede
un’unità interna nel suo apprendimento del mondo spirituale, poiché la
conoscenza storica del singolare e le verità generali si sviluppano in un'azione
reciproca e quindi appartengono alla stessa unità dell’apprendimento. A ogni
grado l’intendimento del mondo spirituale è qualcosa di omogeneo e unitario,
dalla concezione del mondo spirituale ai metodi di critica e di indagine
particolare. Qui possiamo rivolgere ancora uno sguardo all’epoca in cui è sorta
la moderna coscienza storica. Essa è stata realizzata quando l'elaborazione
concettuale delle scienze sistematiche si è coscientemente fondata sullo studio
della vita storica, e la conoscenza del singolare è stata coscientemente
fecondata dalle discipline sistematiche dell'economia politica, del diritto,
dello stato, della religione. A questo punto poteva sorgere la comprensione
metodica della connessione delle scienze dello spirito: il medesimo mondo spirituale
diventa, secondo la diversità del punto di vista da cui è considerato, oggetto
di due classi di discipline. La storia universale come connessione singolare,
il cui oggetto è l’umanità, e il sistema di scienze dello spirito indipendenti
che si riferiscono all’uomo, al linguaggio, all’economia, allo stato, al
diritto, alla religione e all’arte, si completano reciprocamente. Esse sono
distinte dal fine e dai metodi che questo determina, ma al tempo stesso
cooperano nel loro costante legame alla costruzione del sapere relativo al
mondo spirituale: Erleben, rivivere e verità generali sono legati
dall’operazione fondamentale dell’intendere. L'elaborazione concettuale non è
fondata su norme o valori che si presentano al di lì dell’apprendimento
oggettivo, ma sorge dal carattere dominante di ogni pensiero concettuale, cioè
dalla tendenza a porre in luce ciò che è stabile e duraturo entro il corso del
divenire, Il metodo si muove così in una duplice direzione: nella tendenza
verso il singolare procede dalla parte al tutto e da questo di nuovo alla
parte, e nella tendenza verso il generale tra questo e il particolare ha luogo
la medesima azione reciproca. III. L’OGGETTIVAZIONE DELLA VITA 1. Se
abbracciamo l’insieme di tutte le operazioni dell’intendere, allora appare in
esso, di fronte alla soggettività dell'Er/ednis, l’oggettivazione della vita.
Accanto all’Erlebris l’intuizione dell’oggettività della vita, e del suo
manifestarsi in molteplici connessioni strutturali, diventa il fondamento delle
scienze dello spirito. L'individuo, le comunità e le opere in cui si sono
trasposti la vita e lo spirito, costituiscono il dominio esterno dello spirito.
Queste manifestazioni della vita, quali si presentano nel mondo esterno alla
comprensione, sono per così dire inserite nella connessione della natura.
Questa grande realtà esterna dello spirito ci circonda sempre: essa è una
realizzazione dello spirito nel mondo sensibile, a partire dall’espressione
fuggevole fino al dominio secolare di una costituzione o di un testo giuridico.
Ogni manifestazione particolare della vita rappresenta, nel campo di tale
spirito oggettivo, ur elemento comune. Ogni parola, ogni proposizione, ogni
gesto e ogni formula di cortesia, ogni opera d’arte e ogni impresa storica sono
comprensibili solamente in quanto un rapporto di comunanza unisce chi in essi
si esprime con chi li intende; l’individuo vive, pensa e agisce di continuo in
una sfera di comunanza, e solo in questa può intendere. Tutto ciò che viene
inteso reca, per così dire, il marchio della sua conoscibilità in base a questa
comunanza: noi viviamo in questa atmosfera, che ci circonda costantemente, e
siamo immersi in essa. Noi siamo ovunque a casa in questo mondo storico che
intendiamo, ne penetriamo il senso e il significato, siamo coinvolti in questi
rapporti di comunanza. Il mutare delle manifestazioni della vita, che agiscono
su di Noi, ci spinge di continuo a una nuova comprensione; ma nel medesimo
tempo anche nell’intendere si ha, poiché ogni manifestazione della vita e la
sua comprensione sono legate ad altre, un movimento che progredisce secondo i
rapporti di WILHELM DILTHEY 153 affinità dal singolo individuo dato verso il
tutto. E, crescendo le relazioni tra ciò che è affine, aumentano nel medesimo
tempo le possibilità di generalizzazione già racchiuse nella comunanza come
determinazione di ciò che è inteso. Nell’intendere si fa valere anche
un'ulteriore qualità dell’oggettivazione della vita, che determina tanto
l'articolazione secondo affinità quanto la tendenza della generalizzazione.
L’oggettivazione della vita contiene in sé una molteplicità di ordini
articolati. Dalla distinzione delle razze fino alla diversità delle forme di
espressione e dei costumi in una stirpe, in una città, vi è un'articolazione di
differenze spirituali condizionata su base naturale. Differenze di altro tipo
si presentano nei sistemi di cultura, altre separano tra loro le epoche — in
breve, molte linee che delimitano da qualche punto di vista ambiti di vita
affine attraversano il mondo dello spirito oggettivo e si incrociano in esso.
La pienezza della vita si manifesta in innumerevoli sfumature e viene compresa
mediante il ricorrere di tali differenze. Mediante l’idea dell’oggettivazione
della vita noi perveniamo per la prima volta a gettare uno sguardo sull’essenza
di ciò che è storico. Tutto è qui sorto dall’attività spirituale e reca quindi
il carattere della storicità: perfino nel mondo sensibile esso si inserisce
come prodotto della storia. Dalla distribuzione degli alberi in un parco, dalla
disposizione delle case in una strada, dallo strumento appropriato di un
artigiano fino alla sentenza del tribunale, tutto è intorno a noi, a ogni ora,
storicamente divenuto. Ciò che lo spirito immette oggi del proprio carattere
nella sua manifestazione di vita, è domani, quando ci sta dinanzi, storia. Col
procedere del tempo noi siamo attorniati dalle rovine di Roma, da cattedrali,
dai castelli della monarchia assoluta. La storia non è nulla di separato dalla
vita, nulla di staccato dal presente a causa della sua distanza nel tempo.
Guardiamo il risultato: le scienze dello spirito hanno, come loro datità
complessiva, l’oggettivazione della vita. Ma in quanto l’oggettivazione della
vita diventa per noi qualcosa di inteso, essa racchiude sempre, in quanto tale,
la relazione dell’esterno all’interno. Perciò tale oggettivazione è ovunque
legata nell’intendere all’Er/eben, in cui all'unità della vita si dischiude 154
WILHELM DILTHEY il suo contenuto, permettendo così ad essa di interpretare
quello di tutte le altre. Dal momento che qui stanno i dati delle scienze dello
spirito, risulta pure che tutto ciò che è stabile ed estraneo, in quanto
proprio alle immagini del mondo fisico, deve venir eliminato dal concetto del
dato proprio di questo campo. Tutto il dato è qui venuto alla luce, e quindi è
storico; è inteso, e quindi contiene in sé un elemento comune; è noto in quanto
è inteso, e contiene in sé un raggruppamento del molteplice, poiché già
l’interpretazione del manifestarsi della vita nell’intendere superiore poggia su
un raggruppamento. Anche il procedimento di classificazione di tali
manifestazioni è quindi già presente nei dati delle scienze dello spirito. E
qui viene a completarsi il concetto delle scienze dello spirito. Il loro ambito
si estende quanto l’intendere, e l’intendere ha il suo oggetto unitario
nell’oggettivazione della vita. Così il concetto di scienza dello spirito è
determinato, in base all’ambito dei fenomeni che rientrano in essa, mediante
l’oggettivazione della vita nel mondo esterno. Lo spirito intende soltanto ciò
che esso stesso ha creato. La natura, cioè l’oggetto della scienza naturale,
comprende la realtà prodotta indipendentemente dall’opera dello spirito. Tutto
ciò in cui l'uomo ha impresso, operando, la sua impronta, costituisce l’oggetto
delle scienze dello spirito. E anche l’espressione « scienza dello spirito »
riceve a questo punto la sua giustificazione. Si è nel passato discorso dello
spirito delle leggi, del diritto, della costituzione: ora possiamo dire che
tutto ciò in cui lo spirito si è oggettivato, rientra nell’ambito delle scienze
dello spirito. 2. Io ho finora designato questa oggettivazione della vita anche
con il nome di spirito oggettivo: tale termine è stato profondamente e
felicemente coniato da Hegel. Debbo però indicare anche con precisione il senso
in cui lo uso, distinguendolo da quello che Hegel gli attribuisce. Tale
distinzione riguarda tanto il posto sistematico del concetto quanto la sua
finalità e il suo ambito. Nel sistema hegeliano il termine designa un grado nello
sviluppo dello spirito, un grado posto tra lo spirito soggettivo e lo spirito
assoluto. Il concetto di spirito oggettivo ha pertanto presso di lui il suo
posto nella costruzione ideale dello sviluppo dello spirito, la quale trova il
suo substrato reale nella realtà storica e nelle relazioni che in essa
sussistono e si propone di comprenderla speculativamente, lasciando così alle
sue spalle le relazioni temporali, empiriche, storiche. L'idea, la quale nella
natura si manifesta nel suo essere altro, estraniandosi da sé, ritorna in se
stessa nello spirito, sul fondamento di tale natura. Lo spirito del mondo
ritorna alla sua pura idealità, realizzando la sua libertà nel suo sviluppo.
Come spirito soggettivo esso è la molteplicità degli spiriti individuali; e poiché
in questa il volere si realizza sulla base della conoscenza dello scopo
razionale attuantesi nel mondo, nello spirito individuale si compie il
passaggio alla libertà. In tal modo è dato il fondamento per la filosofia dello
spirito oggettivo. Questa mostra come la volontà libera razionale, e quindi in
sé universale, viene a oggettivarsi in un mondo etico: «questa libertà, che ha
il contenuto e lo scopo della libertà, è anzitutto soltanto concetto, principio
dello spirito e del cuore, ed è destinata a svilupparsi come oggettività, come
realtà giuridica, etica e religiosa e come realtà scientifica » *. In tal modo
è posto lo sviluppo dallo spirito oggettivo allo spirito assoluto: «lo spirito
oggettivo è l’idea assoluta, ma solo come idea che è in sé; e in quanto esso è
sul terreno della finitudine, la sua razionalità reale conserva in sé l’aspetto
dell’apparenza esterna » È. L'oggettivazione dello spirito si compie nel
diritto, nella moralità e nell’eticità. L’eticità realizza la volontà razionale
universale nella famiglia, nella società civile e nello stato; e lo stato
realizza nella storia universale la sua essenza, in quanto realtà esterna
dell'idea etica. In tal modo la costruzione ideale del mondo storico ha
raggiunto il punto in cui i due gradi dello spirito, la volontà razionale
universale del soggetto singolo e la sua oggettivazione nel mondo etico come
sua superiore unità, rendono possibile a. Hecet, Werke, vol. VII, parte II
(1845), p. 375 [EnzyK/opadie der philosophischen Wissenschaften, parte III, $
482]. b. Op. cit., p. 376 [EnzyKWopidie der philosophischen Wissenschaften,
parte III, $ 483]. l’ultimo e massimo grado: il sapere che lo spirito ha di se
stesso come forza creatrice di ogni realtà nell’arte, nella religione e nella
filosofia. «Lo spirito soggettivo e oggettivo devono esser considerati il
cammino su cui si» costituisce la suprema realtà dello spirito, lo spirito
assoluto. Qual è stata la posizione e l’importanza storica di questo concetto
dello spirito oggettivo, scoperto da Hegel? L’Illuminismo tedesco, troppo
spesso disconosciuto, aveva posto in luce il significato dello stato come il
più ampio ente collettivo che realizza l’eticità intrinseca degli individui.
Mai dopo i giorni dei Greci e dei Romani la comprensione dello stato e del diritto
è stata più fortemente e profondamente espressa come in Carmen, Svarez, Klein,
Zedlitz, Herzberg, i massimi funzionari dello stato federiciano!. Questa
intuizione dell’essenza e del valore dello stato si è unita in Hegel con le
idee antiche di eticità e di stato, e con la penetrazione della realtà di
queste idee nel mondo antico: egli ha fatto così valere il significato dei
rapporti di comunanza nella storia. La scuola storica perveniva nello stesso
tempo, sulla strada della ricerca storica, alla scoperta dello spirito
collettivo, a cui Hegel era giunto mediante una propria specie di intuizione
storico-metafisica. Anch'essa perveniva a una comprensione, che andava oltre i
filosofi idealistici greci, dell’essenza della comunità, quale si manifesta nel
costume, nello stato, nel diritto e nella fede, e che non può venir derivata
dal cooperare degli individui. In tal modo sorgeva in Germania la coscienza
storica. Hegel ha raccolto il risultato di tutto questo movimento in un solo
concetto — nel concetto di spirito oggettivo. Ma i 12. Johann Heinrich Casimir
barone von Carmer (1720-1801), fu dal 1779 al 1795 gran cancelliere e
presidente della Commissione Icgislativa dello stato prussiano; sotto la sua
direzione fu pubblicato, nel 1780-81, il primo volume del Corpus iuris
Friedericianum. — Karl Gottlieb Svarez (1746-1798), collaborò alla redazione
del codice prussiano, — Ernst Ferdinand Klein (1744-1810), anch'egli
collaboratore di Carmer nella redazione del codicc prussiano, autore dei
Grundsùtze des gemeinen deutschen peinlichen Rechts (1799) e di mumerose altre
opere giuridiche, soprattutto di carattere penalistico. — Karl Abraham barone
von Zedlitz (1731-1793), ministro di Federico II, ebbe gran parte nella riforma
del sistema scolastico prussiano. — Ewald Herzberg (17251795), anch'egli
ministro sotto il regno di Federico II, autore del Mémoire raisonné con cui il
sovrano cercò di giustificare nel 1756 l'invasione della Sassonia, che diede
inizio alla Guerra dei sette anni. presupposti sui quali Hegel ha fondato
questo concetto non possono più venir mantenuti. Egli ha costruito le comunità
sulla base della volontà universale della ragione: noi dobbiamo oggi muovere
dalla realtà della vita, poiché nella vita opera la totalità della connessione
psichica. Hegel ha costruito metafisicamente; noi analizziamo il dato. E
l’analisi attuale dell’esistenza umana suscita in tutti noi la coscienza della
fragilità, della forza dell'impulso oscuro, della sofferenza derivante dalle
tenebre e dalle illusioni, della finitudine presente in tutto ciò che è vita,
anche dove da essa derivano le supreme forme della vita della comunità. Non
possiamo quindi intendere lo spirito oggettivo sulla base della ragione, ma
dobbiamo rifarci alla connessione strutturale delle unità viventi che si
continua nelle comunità. E non possiamo costringere lo spirito oggettivo entro
una costruzione ideale, ma dobbiamo piuttosto porre a base la sua realtà nella
storia. Noi cerchiamo di intendere e di rappresentare con concetti adeguati
questa realtà. E in quanto lo spirito oggettivo viene così liberato dalla sua
fondazione unilaterale in una ragione universale, che esprimeva l’essenza dello
spirito del mondo, e liberato anche dalla costruzione ideale, diventa allora
possibile un nuovo concetto di esso, il quale comprende il linguaggio, il
costume, ogni specie di forma della vita e di stile di vita al pari della
famiglia, della società civile, dello stato e del diritto. Così cade anche
quello che Hegel ha distinto, rispetto allo spirito oggettivo, come spirito
assoluto: arte, religione e filosofia rientrano in questo concetto, poiché
proprio in esse l'individuo creatore si mostra nel medesimo tempo come
rappresentante della comunanza spirituale, e lo spirito si oggettiva proprio in
tali forme vigorose, e può esservi riconosciuto. Questo spirito oggettivo
contiene certo in sé un’articolazione, che va dall’umanità fino ai tipi di
minore estensione: in esso agisce questa articolazione, cioè il principio di
individuazione. E quando l’individuale viene appreso nell’intendere, in base a
ciò che è universalmente umano e attraverso la sua mediazione, si ha un
rivivere della connessione interna che conduce da ciò che è universalmente
umano alla sua individuazione. Questo movimento viene appreso nella
riflessione, e la psicologia individuale abbozza la teoria che fonda la
possibilità dell’individuazione *. A base delle scienze sistematiche dello
spirito sta pertanto lo stesso rapporto tra le uniformità, che stanno a
fondamento, e l'individuazione che sorge sulla loro base — cioè il rapporto tra
teorie generali e procedimenti comparativi. Le verità generali, quali possono
esservi accertate a proposito della vita etica o della poesia, diventano così
il fondamento per la penetrazione delle differenze dell’ideale morale o dell’attività
poetica. E in questo spirito oggettivo tutte le realtà del passato, in cui si
sono formate le grandi forze totali della storia, sono diventate presente.
L'individuo, come portatore e rappresentante dei rapporti di comunanza che in
lui sono intrecciati, gode e penetra la storia in cui essi sono sorti. Esso
intende la storia perché è un essere storico. In un ultimo punto il concetto
qui formulato di spirito oggettivo si distingue da quello di Hegel. Sostituendo
alla ragione universale di Hegel la vita nella sua totalità, l’Er/ebnis,
l’intendere, la connessione della vita storica, la forza dell’irrazionale in
essa presente, sorge il problema della possibilità della scienza storica. Per
Hegel questo problema non esisteva: la sua metafisica, nella quale lo spirito
del mondo, la natura come sua alienazione, lo spirito oggettivo come sua
realizzazione e lo spirito assoluto fino alla filosofia come attuazione della
sua autocoscienza interiore sono identici, lascia alle sue spalle questo
problema. Ma oggi occorre viceversa riconoscere il dato delle manifestazioni
storiche della vita come il vero fondamento del sapere storico, e trovare un
metodo per affrontare la questione della possibilità di un sapere
universalmente valido intorno al mondo storico sulla base di questo dato. IV.
IL MonDo SPIRITUALE COME CONNESSIONE DINAMICA Così nell’Erleben e
nell’intendere — attraverso l’oggettivazione della vita — si apre dinanzi a noi
il mondo spirituale. E a. Cfr. il mio saggio Beitrige zum Studium der
Individualitàt, « Sitzungsberichte der koniglich Preussischen Akademie der
Wissenschaften », 1896, pp. 295-335 [ora in Ges. Schr., vol. V, pp. 241-316].
WILHELM DILTHEY 159 il nostro compito è ora quello di determinare più da vicino
nella sua essenza questo mondo dello spirito, questo mondo storico e sociale,
in quanto oggetto delle scienze dello spirito. Riprendiamo anzitutto i
risultati delle indagini precedenti in rapporto alla connessione delle scienze
dello spirito. Questa connessione poggia sul rapporto tra Erleben e intendere,
e da ciò derivano tre princìpi fondamentali. L'ampliamento del nostro sapere
intorno a ciò che è dato nell’Erleder si compie mediante l’interpretazione
delle oggettivazioni della vita, e questa interpretazione è a sua volta
possibile soltanto sulla base della profondità soggettiva dell’Erledez. Così
pure la comprensione del singolare è possibile soltanto mediante la presenza in
esso del sapere generale, e questo ha a sua volta il proprio presupposto
nell’intendere. Infine, la comprensione di una parte del corso storico si
compie pienamente solo mediante la relazione della parte col tutto, e l’analisi
storico-universale della totalità presuppone la comprensione delle parti che
sono in essa unite. In tal modo viene in luce la reciproca dipendenza in cui
stanno tra loro l'apprendimento di ogni particolare elemento oggettivo delle
scienze dello spirito nella totalità storico-sociale di cui l'elemento fa
parte, e la rappresentazione concettuale di questa totalità nelle scienze
sistematiche dello spirito. Così nel progresso delle scienze dello spirito, in
ogni punto del loro corso, si rivelano l’azione reciproca dell’Erleben e
dell'intendere nell’apprendimento del mondo spirituale, la dipendenza reciproca
del sapere generale e del sapere singolare, e infine la graduale spiegazione
del mondo spirituale. Perciò noi li ritroviamo in tutte le operazioni delle
scienze dello spirito, in quanto formano in generale il substrato della loro
struttura. Così noi dovremo riconoscere la dipendenza reciproca di interpretazione,
critica, collegamento delle fonti, sintesi di una connessione storica: un
rapporto simile sussiste nella formazione dei concetti di soggetti quali
l'economia, il diritto, la filosofia, l’arte, la religione, che designano le
connessioni dinamiche di diverse persone in una operazione comune. Ogni volta
che il pensiero scientifico cerca di compiere un’elaborazione concettuale, la
determinazione dei segni distintivi costituenti il concetto presuppone pure la
constatazione degli stati di fatto che devono 160 WILHELM DILTHEY esser
compresi nel concetto; e la constatazione e la scelta di questi stati di fatto
esige segni distintivi, sulla base dei quali poter decidere sulla loro
appartenenza all'ambito del concetto. Per determinare il concetto di poesia, io
debbo trarlo da quegli stati di fatto che costituiscono l’ambito di tale
concetto, e per constatare quali opere appartengano alla poesia debbo già
possedere un segno distintivo sulla base del quale l’opera può venir
riconosciuta come poetica. Questo rapporto è quindi il carattere più generale
della struttura delle scienze dello spirito. 1. Carattere generale della
connessione dinamica del mondo spirituale. Da ciò deriva il compito di
concepire il mondo spirituale come una connessione dinamica, cioè come una connessione
contenuta nei suoi prodozti duraturi. Le scienze dello spirito hanno il loro
oggetto in questa connessione dinamica e nelle sue creazioni. Esse analizzano
sia tale connessione sia quella logica, estetica, religiosa, che si manifesta
in solide formazioni e che caratterizza i vari tipi di queste, sia la
connessione presente in una costituzione o in un libro giuridico, che si
riferisce poi appunto alla connessione dinamica da cui è sorta. Questa
connessione dinamica si distingue dalla connessione causale della natura in
quanto, conformemente alla struttura della vita psichica, essa produce valori e
realizza scopi. E invero non è un fatto occasionale, ma dipende dalla struttura
stessa dello spirito che questo produca valori e realizzi scopi nella propria
connessione dinamica, sulla base dell’apprendimento: tale carattere può venir
definito il carattere teleologico immanente delle connessioni dinamiche dello
spirito. Con ciò intendo una connessione di operazioni, che è fondata nella
struttura di una connessione dinamica. La vita storica crea; essa è
continuamente attiva nella produzione di beni e di valori, e tutti i concetti
relativi sono soltanto riflessi di questa sua attività. I portatori di questa
costante creazione di valori e di beni nel mondo spirituale sono individui,
comunità e sistemi di cultura in cui gli individui agiscono insieme. La
cooperazione tra gli individui è determinata dal fatto che essi si
sottopongoWilhelm Dilthey intorno al 190 WILHELM DILTHEY 16I no a regole per la
realizzazione dei valori e si prefiggono degli scopi. Così in ogni specie di
questa cooperazione c’è un rapporto vitale, che inerisce all’essenza dell’uomo
e lega tra loro gli individui — quasi come un nucleo che non si può afferrare
psicologicamente, ma che si manifesta in ogni sistema di relazioni tra uomini.
L’azione entro di esso è condizionata dalla connessione strutturale tra
l'apprendimento, gli stati psichici che si esprimono nella scelta di valori e
quelli che consistono nella posizione di scopi, di beni e di norme. Questa
connessione dinamica si rivela in primo luogo negli individui. In quanto poi
essi sono punti di incrocio tra sistemi di relazioni, di cui ognuno costituisce
un centro permanente di attività, entro tali sistemi vengono a svilupparsi beni
comuni e forme di attuazione di tali beni secondo regole, a cui viene
attribuita una specie di validità incondizionata. Ogni relazione permanente tra
individui racchiude perciò in sé uno sviluppo nel quale valori, regole e scopi
vengono prodotti, elevati a coscienza e consolidati nel corso dei processi del
pensiero. Questa creazione che si compie in individui, comunità, sistemi di
cultura, nazioni, sotto le condizioni naturali che sempre offrono a essa il suo
materiale e la sua spinta, perviene nelle scienze dello spirito alla
riflessione su se stessa. Da tale connessione strutturale deriva poi che ogni
unità spirituale 4a il suo centro in se stessa. Come l’individuo, così anche
ogni sistema di cultura e ogni comunità ha il suo centro entro di sé; in virtù
di esso l’apprendimento della realtà, la valutazione e la produzione di beni
sono collegati in un complesso unitario. Ora si presenta un nuovo rapporto
fondamentale nella connessione dinamica che costituisce l'oggetto delle scienze
dello spirito. I diversi soggetti creativi sono intrecciati in più ampie
connessioni storico-sociali, come le nazioni, le età, i periodi storici. Così
sorgono forme più complicate di connessione storica. I valori, gli scopi, i
nessi che in esse si presentano, portati da individui, comunità, sistemi di
relazioni, debbono essere compenetrati dallo storico. Essi debbono venir
comparati, ponendo in luce l'elemento comune che è in essi e raccogliendo le
diverse connessioni dinamiche in sintesi. E qui dall’autocentralità, intrinseca
a ogni unità storica, deriva un’altra forma di 11. STORICISMO TEDESCO. 162
WILHELM DILTHEY unità. Ciò che opera nel medesimo tempo in un nesso reciproco,
come individui e sistemi di cultura e comunità, vive in un continuo scambio
spirituale e completa anzitutto la sua vita psichica con quella altrui: già le
nazioni vivono più sovente in una forte chiusura reciproca e hanno perciò il
loro orizzonte proprio; se però considero un periodo come quello medievale, il
suo ambito visuale è separato da quello dei periodi precedenti. Anche quando i
risultati di tali periodi mantengono la loro influenza, essi vengono tuttavia
assimilati nel sistema del mondo medievale. Questo ha così un orizzonte chiuso.
E un'epoca è così incentrata in se stessa în un muovo senso. Le varie persone
dell’epoca hanno il criterio di misura del loro operare in un elemento comune.
Il nesso delle connessioni dinamiche nella società dell’epoca ha tratti simili.
Le relazioni dell’apprendimento oggettivo mostrano in essa una interna
affinità; il modo di sentire, la vita dell'animo, gli impulsi che ne derivano
sono affini tra loro. E così anche il volere si sceglie scopi uniformi, mira
agli stessi beni e si trova vincolato in maniera simile. È compito dell’analisi
storica ritrovare negli scopi, nei valori, nei modi di pensare concreti la
concordanza in un elemento comune che domina l’epoca. Proprio da questo
elemento comune sono determinate anche le antitesi che qui si presentano. Così
ogni azione, ogni pensiero, ogni creazione comune, in breve ogni parte di
questa totalità storica acquista la propria significatività in virtù del suo
rapporto con la totalità dell’epoca o dell’età. E quando lo storico giudica,
egli constata ciò che l'individuo ha compiuto in tale connessione, e anche in
quale misura il suo sguardo e il suo operare sono andati già oltre di essa. Il
mondo storico come una totalità, questa totalità come una connessione dinamica,
questa connessione dinamica come produttrice di valori e di scopi, cioè
creatrice, quindi la comprensione di questa totalità in base a se stessa,
infine l’autocentralità dei valori e degli scopi nelle età, nelle epoche, nella
storia universale — questi sono i punti di vista da cui deve essere concepita
la connessione, a cui dobbiamo pervenire, delle scienze dello spirito. Così il
rapporto immediato della vita, dei suoi valori e dei suoi scopi con l’oggetto
storico viene gradualmente sostituito nella scienza, in base alla sua tendenza
alla validità universale, dall'esperienza delle relazioni immanenti che
sussistono nella connessione dinamica del mondo storico tra la forza attiva, i
valori, gli scopi, il significato e il senso. Soltanto su questo terreno della
storia oggettiva può sorgere il problema se e come siano possibili le
previsioni sul futuro e sulla subordinazione della nostra vita a fini comuni
dell’umanità. L’apprendimento della connessione dinamica si forma in primo
luogo in chi ne ha coscienza immediata, per il quale la successione del
divenire interiore si sviluppa in relazioni strutturali. E tale connessione è poi
ritrovata, mediante l’intendere, in altri individui. La forma fondamentale
della connessione sorge così nell’individuo, riunendo il presente, il passato e
le possibilità del futuro in un corso vitale: questo corso si riproduce poi nel
corso storico, in cui sono inserite le unità della vita. In quanto lo
spettatore di un avvenimento vede connessioni più ampie o una narrazione le
racconta, sorge l'apprendimento dei fatti storici. E in quanto questi assumono
un posto nel corso temporale, presupponendo in ogni punto l’azione del passato
e spingendo le loro conseguenze fin nel futuro, ogni avvenimento implica un
movimento ulteriore e il presente conduce avanti verso il futuro. Altri modi di
connessione sussistono in opere che, scisse dai loro autori, recano in sé la
propria vita e la propria legge. Prima di spingerci entro la connessione
dinamica da cui esse sono sorte, noi cogliamo le connessioni sussistenti
nell’opera compiuta. Nell’intendere sorge la connessione logica in cui sono
legati tra di loro i princìpi giuridici che formano un libro di diritto. Se
leggiamo una commedia di Shakespeare, troviamo che gli elementi di un
accadimento, legati secondo i rapporti di tempo e di azione, sono qui elevati
secondo le leggi della composizione poetica a un’unità che li solleva,
all’inizio e alla fine, al di fuori del corso dinamico collegando le loro parti
in una totalità. 2. La connessione dinamica come concetto fondamentale delle
scienze dello spirito. Nelle scienze dello spirito noi cogliamo il mondo
spirituale sotto forma di connessioni che si formano nel corso temporale. 164
WILHELM DILTHEY Operare, energia, corso temporale, accadere sono quindi i
momenti che caratterizzano l’elaborazione concettuale delle scienze dello
spirito. Da queste determinazioni di contenuto non dipende però la funzione
generale del concetto nella connessione delle scienze dello spirito, la quale
richiede determinatezza e costanza in tutti i giudizi. I caratteri di un
concetto, il cui nesso ne forma il contenuto, debbono soddisfare tali esigenze;
e le asserzioni, in cui i concetti sono collegati, non debbono contenere
contraddizioni né entro di sé né tra di loro. Questa validità indipendente dal
corso temporale, che sussiste in tal modo nella connessione del pensiero e
determina la forma dei concetti, non ha alcun rapporto con il fatto che il
contenuto dei concetti propri delle scienze dello spirito può rappresentare il
corso temporale, l’operare, l'energia e l’accadere. Noi vediamo operante nella
struttura dell'individuo una tendenza o una forza impulsiva che si partecipa a
tutte le forme più complesse del mondo spirituale. In questo mondo si
presentano forze collettive che si fanno valere in una determinata direzione
nella connessione storica. Tutti i concetti delle scienze dello spirito, in quanto
rappresentano qualche elemento della connessione dinamica, contengono in sé
questo carattere di processo, di corso, di accadere o di agire. E quando le
oggettivazioni della vita spirituale vengono analizzate come qualcosa di
compiuto, quasi di fisso, resta sempre il compito ulteriore di penetrare la
connessione dinamica in cui tali oggettivazioni sono sorte. In un ambito più
vasto i concetti delle scienze dellospirito sono rappresentazioni fissate di un
procedere, e costituiscono la solidificazione nel pensiero di ciò che è corso o
direzione di movimento. Pure le scienze sistematiche dello spirito racchiudono
il compito di un'elaborazione concettuale, che esprime la tendenza insita nella
vita, la sua mutabilità e la sua mobilità, ma soprattutto la finalità che vi si
realizza. E nelle scienze dello spirito, sia storiche sia sistematiche, si
presenta il compito ulteriore di dare alle relazioni una corrispondente
elaborazione concettuale. È stato merito di Hegel aver cercato di esprimere
nella sua logica l'incessante corrente dell’accadere. Ma è stato suo errore
ritenere che tale esigenza fosse inconciliabile con il principio di
contraddizione: contraddizioni non risolubili sorgono soltanto se si vuol
spiegare il fatto del fluire della vita. E altrettanto erroneo è stato, ed è,
giungere da tale presupposto al rifiuto dell’elaborazione concettuale
sistematica nel campo storico. Così nel metodo dialettico di Hegel la varietà
della vita storica è venuta a irrigidirsi, mentre gli avversari
dell’elaborazione concettuale sistematica nel campo storico lasciano
sprofondare in una profondità irrappresentabile della vita la molteplicità
dell’esistenza. A questo punto si può comprendere la più profonda intenzione di
Fichte. Nel faticoso approfondirsi dell’io in se medesimo, esso si ritrova non
come sostanza, essere, datità, ma come vita, attività, energia. In tale modo
egli aveva già elaborato i concetti che esprimono l’energia del mondo storico.
3. Il procedimento di determinazione delle connessioni dinamiche particolari.
La connessione dinamica è in sé sempre complessa. Il punto di partenza è
un’azione particolare, per la quale cerchiamo — procedendo indietro — i momenti
causanti. Tra i molti fattori, ne è determinabile soltanto un numero limitato
che abbia importanza per questa azione. Quando ricerchiamo l'intreccio delle
cause del mutamento della nostra letteratura, in virtù del quale è stato
superato l’Illuminismo, distinguiamo allora gruppi di cause, ci sforziamo di
misurarne l'influenza, e delimitiamo in qualche modo lo sconfinato contesto
causale secondo il significato dei momenti e secondo i nostri scopi. Così
poniamo in luce una connessione dinamica per spiegare il mutamento in
questione. D'altra parte noi distinguiamo, in un'analisi metodica condotta da
diversi punti di vista, le connessioni particolari presenti nella concreta
connessione dinamica; e su questa analisi poggia precisamente il progresso che
ha luogo sia nelle scienze sistematiche dello spirito sia nella storia.
L’induzione, che constata i fatti e i nessi causali, la sintesi che lega tra
loro con l’aiuto dell’induzione le connessioni causali, l’analisi che distingue
tra loro singole connessioni dinamiche, la comparazione — questi, o
equivalenti, sono i modi in cui si costituisce in prevalenza la nostra
conoscenza della connessione dinamica. E noi applichiamo gli stessi metodi
quando indaghiamo le creazioni durature scaturite da questa connessione
dinamica — quadri, statue, drammi, sistemi filosofici, scritti religiosi, libri
giuridici. La connessione in essi presente è diversa secondo il loro carattere,
ma anche qui l’analisi dell’insieme dell’opera su base induttiva e la
ricostruzione sintetica della totalità in base alla relazione delle sue parti,
sempre su base induttiva, si intrecciano tra loro con la costante presenza di
verità generali. A questa tendenza del pensiero verso la connessione è legata
nelle scienze dello spirito un’altra tendenza che, procedendo dal particolare
al generale e viceversa, indaga le regolarità presenti nelle connessioni dinamiche.
Qui si manifesta il più ampio rapporto di reciproca dipendenza tra le forme di
procedimento. Le generalizzazioni servono a formare delle connessioni, e
l’analisi della concreta connessione universale in connessioni particolari è la
strada più feconda per la scoperta di verità generali. Se si tiene presente il
procedimento di constatazione delle connessioni dinamiche nelle scienze dello
spirito, viene in luce la grande differenza che lo separa da quello che ha reso
possibili gli enormi successi delle scienze della natura. Le scienze della
natura hanno a proprio fondamento la connessione spaziale dei fenomeni: la
numerabilità e la misurabilità di ciò che si estende spazialmente o si muove
nello spazio rendono in esse possibile la scoperta di leggi generali esatte. Ma
l’interna connessione dinamica è solo aggiunta dal pensiero, e i suoi elementi
ultimi non possono venir indicati. Invece, come abbiamo visto, le unità ultime
del mondo storico sono date nell’Erleden e nell’intendere. Il loro carattere di
unità è fondato nella connessione strutturale in cui sono collegati
l'apprendimento oggettivo, i valori e la posizione di scopi. Noi abbiamo
un’esperienza vissuta di questo carattere dell'unità vivente anche per il fatto
che può costituire uno scopo soltanto ciò che è posto nel suo volere, che è
vero soltanto ciò che trova conferma di fronte al suo pensiero, e che possiede
valore per essa soltanto ciò che ha un rapporto positivo con il suo sentire. Il
correlato di questa unità vivente è il corpo che si muove e opera in base a un
impulso interno. Il mondo storico-sociale dell’uomo è costituito da queste
viventi unità psico-fisiche: tale è il risultato sicuro dell’analisi. E anche
la connessione dinamica di queste unità mostra poi qualità particolari che non
sono esaurite dai rapporti di unità e di pluralità, di tutto e di parte, di
composizione e di azione reciproca. Procedendo, l’unità vivente risulta una
connessione dinamica che si pone al di là della natura in quanto viene
immediatamente vissuta, ma le cui parti attive non possono venir misurate
secondo la loro intensità bensì solo valutate, e la cui individualità non può
venir scissa dall’elemento umano comune, di modo che l’umanità è soltanto un
tipo indeterminato. Pertanto ogni stato particolare nella vita psichica è una
nuova posizione dell’intera unità vivente, un rapporto della sua totalità con
le cose e con gli uomini; e, in quanto ogni manifestazione della vita
procedente da una comunità o appartenente alla connessione dinamica di un
sistema di cultura è il prodotto del cooperare di varie unità viventi, gli
elementi di queste forme composte rivestono un carattere corrispondente. Per
quanto ogni processo psichico appartenente a tale totalità possa dipendere
dall'intenzione della connessione dinamica, tuttavia questo processo non è mai
determinato da essa in maniera esclusiva. L'individuo, in cui esso si compie,
si inserisce come unità vivente nella connessione dinamica; e nella sua
manifestazione esso opera come totalità. La natura, per la differenziazione dei
sensi di cui ognuno racchiude un ambito di qualità sensibili omogenee, è
distinta in diversi sistemi ognuno dei quali è internamente omogeneo. Lo stesso
oggetto, una campana ad esempio, è duro, bronzeo, capace di produrre al
rintocco una serie di suoni; e ognuna delle sue proprietà occupa un posto in
uno dei sistemi dell’apprendimento sensibile, senza che ci sia data una
connessione interna tra queste qualità. Nell’Erlebder io esisto a me stesso
come connessione. Ogni situazione mutata produce una nuova posizione della vita
intera. Del pari in ogni manifestazione della vita, che appare dinanzi alla
nostra comprensione, opera sempre tutta la vita. Perciò né nell’Erleden né
nell’intendere ci sono dati sistemi omogenei, che ci consentano scoprire leggi
di mutamento. Comunanza e affinità si presentano a noi nell’intendere, e questo
ci porta d’altro lato a cogliere innumerevoli sfumature di differenziazione,
dalle grandi distinzioni tra razze, stirpi e popoli, fino all’infinita
molteplicità degli individui. Perciò nelle scienze della natura domina la legge
dei 168 WILHELM DILTHEY mutamenti, mentre nel mondo spirituale domina la
comprensione dell’individualità, dalla persona singola all'umanità intera,
nonché il procedimento comparativo, che cerca di ordinare concettualmente
questa molteplicità individuale. Da questi rapporti derivano i limiti della
conoscenza spirituale in rapporto sia allo studio della psicologia sia alle
discipline sistematiche, che dovranno essere illustrati più da vicino nella
dottrina del metodo. Da un punto di vista generale è evidente che sia la
psicologia sia le singole discipline sistematiche avranno un prevalente
carattere descrittivo e analitico; e qui possono servire le mie precedenti
considerazioni sul procedimento analitico nella psicologia e nelle scienze
sistematiche dello spirito, a cui mi rifaccio nell’insieme *. 4. La storia e la
sua comprensione per mezzo delle scienze sistematiche dello spirito: il sapere
storico. La conoscenza spirituale si compie, come si è visto, attraverso la
reciproca dipendenza della storia e delle discipline sistematiche; e poiché
l'intenzione dell’intendere precede in ogni caso l'elaborazione concettuale,
noi cominciamo con le proprietà generali del sapere storico. L'apprendimento
della connessione dinamica, costituita dalla storia, sorge anzitutto in base a
punti particolari, in cui i resti raccolti del passato vengono tra loro
collegati nell’intendere mediante la relazione con l’esperienza della vita; ciò
che ci circonda da vicino diventa mezzo per comprendere ciò che sta lontano ed
è passato. La condizione di questa interpretazione dei resti storici risiede
nel carattere di persistenza nel tempo e di universale validità umana di ciò
che noi vi rechiamo dentro. Così noi vi trasponiamo la nostra conoscenza dei
costumi, delle abitudini, delle connessioni politiche, dei processi religiosi;
e il a. Cfr. Ideen tiber eine beschreibende und zergliedernde Psychologie, «
Sitzungsberichte der kòniglich Preussischen Akademie der Wissenschaften »,
1894, pp. 1309-1407 [ora in Gesammelte Schriften, vol. V, pp. 139237]. Si
vedano inoltre le Studien zur Grundlegung der Geisteswissenschaften: Erste
Studie, « Sitzungsberichte » cit., 1905, vol. II, pp. 322-43 [ora in Gesammelte
Schriften, vol. VII, pp. 3-23], l’Eiz/eitung in die Geistewissenschaften, e C.
Siwart, Logik, Tubingen, vol. II, 3° ed. 1904, p. 633 sgg. WILHELM DILTHEY 169
presupposto ultimo di questa trasposizione è costituito sempre dalle
connessioni che lo storico ha vissuto in sé. La cellula originaria del mondo
storico è l’Erlebnis, nel quale il soggetto si trova in rapporto al suo
ambiente nella connessione dinamica della vita. Questo ambiente opera sul
soggetto e ne subisce l'influenza: esso è composto dall'ambiente fisico e
spirituale. In ogni parte del mondo storico vi è quindi la medesima connessione
del corso di un accadere psichico in rapporto dinamico con il suo ambiente. Qui
sorge il problema di valutare le influenze naturali sull'uomo e di constatare
pure l’azione che su di lui esercita l’ambiente spirituale. Come la materia
prima viene nell’industria sottoposta a diversi modi di lavorazione, così anche
i resti del passato vengono elevati a piena comprensione storica mediante
diverse procedure. La critica, l’interpretazione e il procedimento che reca
unità nella comprensione di un processo storico si collegano tra di loro.
L'aspetto caratteristico sta però anche qui nel fatto che non si ha una
semplice fondazione di un’operazione sull’altra: la critica, l’interpretazione
e il collegamento concettuale hanno compiti diversi; ma la soluzione di ogni
compito richiede continuamente cognizioni ottenute per altre vie. Proprio
questo rapporto ha però come conseguenza che la fondazione della connessione
storica dipende sempre da un intreccio di operazioni che non può venir
illustrato logicamente in modo completo, e che mai può giustificarsi di fronte
allo scetticismo storico mediante prove incontestabili. Si pensi alle grandi
scoperte di Niebuhr sull’antica storia romana. La sua critica è in ogni punto
inseparabile dalla sua ricostruzione del corso effettivo. Egli ha dovuto
constatare come sia sorta la tradizione della più antica storia romana e quali
conclusioni si possano trarre sul suo valore storico in base a tale origine.
Egli ha dovuto nel medesimo tempo cercar di trarre da un’argomentazione
oggettiva i lineamenti fondamentali della storia reale. Senza dubbio questo
procedimento metodico si muove in un circolo, se si applicano le regole di una
dimostrazione rigorosa. E quando Niebuhr si è contemporaneamente servito della
conclusione analogica da processi di sviluppo affini, la conoscenza di tali
processi sottostà allo stesso circolo, e la conclusione analogica qui impiegata
non dà nessuna certezza rigorosa. 170 WILHELM DILTHEY Anche le narrazioni
contemporanee debbono prima venir esaminate in riferimento alla concezione
dell’autore, alla sua attendibilità e al suo rapporto con il processo in
questione. E quanto più le narrazioni vengono a distare temporalmente
dall'avvenimento, tanto più diminuisce la loro credibilità, se il loro valore
non può venir accertato mediante una riduzione ad altre più antiche e
contemporanee all’avvenimento stesso. La storia politica del mondo antico ha
una base sicura dove esistono dei documenti, e così pure la storia politica del
mondo moderno dove sono conservati gli atti che fanno parte del corso di un
avvenimento storico. Con le raccolte critico-metodiche dei documenti e il
libero accesso degli storici agli archivi è cominciata per la prima volta una
conoscenza sicura della storia politica. Questo può arrestare completamente lo
scetticismo storico di fronte ai fatti, di modo che su tali fondamenti sicuri
viene a costruirsi, con l’aiuto dell’analisi delle narrazioni in rapporto alle
loro fonti, e dell'esame dei punti di vista dei narratori, una ricostruzione
che possiede probabilità storica e la cui utilità può venir negata soltanto da
menti spiritose ma non scientifiche. Questa ricostruzione non perviene certo a
un sapere sicuro intorno ai motivi delle persone che agiscono, ma vi perviene
intorno alle azioni e agli avvenimenti, e gli errori a cui sempre rimaniamo
esposti per i fatti particolari non mettono in dubbio l'insieme. In posizione
assai più favorevole che nella comprensione del corso politico la storiografia
si trova di fronte ai fenomeni di massa, ma soprattutto quando si tratta di
opere artistiche o scientifiche che si possono sottoporre ad analisi. 5. I
gradi della comprensione storica. Il graduale assoggettamento del materiale
storico si compie per diversi gradi, che sono sempre più immersi nelle
profondità della storia. Molteplici interessi spingono anzitutto alla
narrazione di ciò che è accaduto. Qui viene in primo luogo soddisfatto il
bisogno originario di curiosità per le cose umane, in particolare per quelle
della propria patria; e si fa pure valere la consapevolezza della nazione e
dello stato. In tal modo sorge l’arte narrativa, il cui modello per ogni tempo
resta Erodoto. Ma poi viene in primo piano la tendenza alla spiegazione. La
cultura ateniese nell’età di Tucidide ha per la prima volta offerto le
condizioni indispensabili per tale spiegazione. Le azioni sono state derivate,
mediante un’acuta osservazione, da motivi psicologici; le lotte tra gli stati,
il loro corso e il loro esito sono stati spiegati in base alle forze militari e
politiche, e sono stati studiati gli effetti delle costituzioni statali. E
quando un grande pensatore politico come Tucidide spiega il passato mediante il
sobrio studio della connessione dinamica in esso presente, ne deriva contemporaneamente
che la storia ammaestra anche intorno al futuro. Per conclusione analogica,
quando si è riconosciuto un corso dinamico antecedente e si è mostrata
l'affinità con esso dei primi stadi di un processo, si può prevedere il
ripresentarsi di un simile corso in seguito. Questa conclusione, sulla quale
Tucidide ha fondato la capacità della storia di ammaestrare sul futuro, è
infatti di decisiva importanza per il pensiero politico. Come nelle scienze
naturali, così anche nella storia una regolarità entro la connessione dinamica
consente di effettuare asserzioni € di svolgere un’azione fondata sul sapere.
Se già il contemporaneo dei Sofisti aveva studiato le costituzioni come forze
politiche, in Polibio ci si presenta una storiografia in cui la trasposizione
metodica delle scienze sistematiche dello spirito nella spiegazione della
connessione dinamica della storia consente di introdurre nel procedimento
esplicativo l’azione di forze permanenti, come la costituzione e
l’organizzazione militare o le finanze. L'oggetto di Polibio è stata l’azione
reciproca degli stati che, dall’inizio della lotta tra Roma e Cartagine fino
alla distruzione di Cartagine e di Corinto, costituirono per lo spirito europeo
il mondo storico; egli ha quindi cercato di derivare dallo studio delle forze
permanenti in essi operanti i singoli processi politici. Il suo punto di vista
diventa storico-universale, in quanto egli riunisce in sé la cultura teoretica
greca, lo studio della raffinata politica e della condotta militare della sua
patria, con una conoscenza di Roma che era resa possibile soltanto dal contatto
con i maggiori uomini di stato della nuova potenza mondiale. E numerose forze
spirituali operano nel tempo da Polibio fino a Machiavelli e a Guicciardini, in
primo luogo l’approfondirsi senza fine del soggetto in se medesimo e 172
WILHELM DILTHEY nello stesso tempo l'estensione dell’orizzonte storico; ma i
due grandi storici italiani restano affini a Polibio nel loro procedimento. Un
nuovo livello è stato raggiunto dalla storiografia soltanto nel secolo xvitr.
Allora sono stati introdotti due grandi princìpi, in quanto la connessione
dinamica concreta, estratta come oggetto storico dal grande fluire della
storia, è stata 424 lizzata in connessioni particolari, come quelle del
diritto, della religione, della poesia, comprese nell’unità di un’epoca. Ciò
presupponeva che lo sguardo dello storico mirasse, al di là della storia
politica, alla storia della civiltà, che per ogni suo campo fosse già
conosciuta, mediante le scienze sistematiche dello spirito, la funzione che
esso esercita, e che si fosse già formata una comprensione del cooperare di
tali sistemi di cultura. La storiografia moderna ha avuto inizio nell'età di
Voltaire. E in seguito è stato introdotto un nuovo principio, quello di sviluppo,
a opera di Winckelmann”, di Justus Méser" e di Herder: esso afferma che in
una connessione dinamica storica è racchiusa, come nuova qualità fondamentale
che essa percorra — in virtù della sua essenza — una serie di mutamenti di cui
ognuno è possibile soltanto sulla base dei precedenti. Questi diversi gradi
designano momenti che, una volta conquistati, sono rimasti vitali nella
storiografia. L'arte narrativa di intrattenimento, la spiegazione acuta,
l’applicazione ad essa del sapere sistematico, l’analisi in connessioni
dinamiche particolari e il principio dello sviluppo — questi momenti sono
venuti a sommarsi e a rafforzarsi reciprocamente. 13. Johann. Joachim
Winckelmann (1717-1768), archeologo e storico dell’arte tedesco, autore della
Geschichte der Kunst des Altertums (1764) e di varie altre opere, fu il maggior
teorico del classicismo settecentesco: la sua dottrina del bello ebbe larga
influenza sull'estetica di fine Settecento c della prima metà dell'Ottocento.
14. Justus Mser (1720-1794), storico tedesco, autore della Osnabriickische
Geschichte (1768-1824) e di altre opere, fu un rappresentante della reazione
anti-illuministica del pensiero tedesco della seconda metà del Settecento: la
sua impostazione storiografica, fondata suli’csaltazione della struttura
feudale e patrimoniale della vecchia Germania c quindi orientata in senso
fortemente conservatore, è stata considerata un importante momento preparatorio
dello storicismo romantico. L’isolamento di una connessione dinamica dal punto
di vista dell'oggetto storico. Sempre più chiaro ci appare il significato
dell’analisi della concreta connessione dinamica e della sintesi scientifica
delle singole connessioni dinamiche in essa contenute. Lo storico non segue
all’infinito, partendo da un punto, il nesso degli avvenimenti in tutte le
direzioni; piuttosto nell’unità di un oggetto, che costituisce il suo tema,
risiede un principio di selezione che è dato proprio insieme al compito
dell’apprendimento di tale oggetto. Infatti la trattazione dell’oggetto storico
non richiede soltanto il suo isolamento dalla vastità della concreta
connessione dinamica, ma l’oggetto contiene al tempo stesso un principio di
selezione. La caduta di Roma, la liberazione dell'Olanda, la Rivoluzione
francese richiedono la selezione di processi e di connessioni che racchiudano
le cause tanto particolari quanto generali, cioè le forze operanti in tutte le
loro trasformazioni, per la rovina dell’Impero romano o per la liberazione
dell'Olanda o per il compiersi della rivoluzione. Lo storico che lavora con
connessioni dinamiche deve distinguerle e collegarle in maniera che nessun
dettaglio vada smarrito, poiché ogni particolare viene rappresentato nei forti
tratti della connessione dinamica complessiva. In ciò non consiste soltanto la sua
capacità rappresentativa, ma questa è piuttosto il risultato di un determinato
modo di vedere. Quando si indagano queste salde e profonde connessioni, risulta
anche qui che la loro comprensione deriva dal nesso tra il progredire
dell’intendere storico delle fonti con una sempre più profonda penetrazione
delle connessioni della vita psichica. Se ci si avvicina poi alla specie di
connessione dinamica che sì presenta nei maggiori avvenimenti storici, le
origini del Cristianesimo o la Riforma o la Rivoluzione francese o le guerre di
liberazione nazionale, la si può concepire come opera di una forza totale che
supera, nella sua tendenza unitaria, tutti gli ostacoli. E si troverà sempre
che in essa operano due specie di forze. L'una è costituita da tensioni che risiedono
nel sentimento di bisogni imperiosi e non soddisfatti dalla situazione
presente, in nostalgie di ogni specie, nell’accrescersi degli attriti e delle
lotte, e anche nella coscienza di un'insufficienza delle capacità di difen174
WILHELM DILTHEY dere ciò che esiste. L’altra è costituita dalle energie che
spingono in avanti, da un volere e un potere e un credere di carattere
positivo. Esse riposano sugli istinti vigorosi di molti, ma sono manifestati e
rafforzati da Erlebnisse di personalità importanti. In quanto tali tendenze
positive derivano dal passato per dirigersi verso il futuro, esse sono
creatrici: racchiudono in sé degli ideali, la loro forma è l’entusiasmo, e in
questo è insita una forma peculiare di parteciparsi e di estendersi. Da ciò deriviamo
il principio generale che nella connessione dinamica di grandi avvenimenti
storici i rapporti tra pressione, tensione, sentimento di insufficienza dello
stato di fatto — cioè sentimenti con segni negativi e con forme di rifiuto —
costituiscono il fondamento per l’azione, sorretta da sentimenti positivi di
valore, da fini da raggiungere e da determinazioni di scopo. Quando entrambi
gli elementi cooperano, si verificano i grandi mutamenti del mondo. Nella
connessione dinamica l’agente peculiare è perciò costituito dagli stati
psichici che si esprimono nel valore, nel bene e nello scopo, e tra i quali non
si debbono considerare come forze operanti soltanto le tendenze verso i beni di
cultura, ma anche la volontà di potenza, anche l’inclinazione a opprimere gli
altri. 7. I sistemi di cultura. Da ciò risulta che già la determinazione
dell’oggetto di un’opera storica implica una selezione degli avvenimenti e
delle connessioni. Ma la storia racchiude un sistema coerente per cui la sua
concreta connessione dinamica riposa su campi particolari isolabili, in cui
sono compiute operazioni separate, di modo che i processi svolgentisi negli
individui in rapporto a un’operazione comune costituiscono una connessione
dinamica unitaria e omogenea. Tale relazione è già stata illustrata da me in
precedenza ®: su di essa poggia l'elaborazione concettuale mediante cui
diventano conoscibili, nell’indagine storica, connessioni di carattere
generale. L’analisi e l'isolamento mediante cui vengono poste in luce tali
connessioni dinamiche è quindi il a. Einleitung in die Geistestissenschaften,
p. 52 sgg. [ora in Gesammelte Schriften, vol. I, p. 42 sgg.]. procedimento
decisivo che l’analisi logica delle scienze dello spirito deve prendere in
esame. Appare subito evidente l’affinità di tale analisi con quella in cui
viene scoperta la connessione strutturale dell’unità della vita psichica. Le
più semplici e omogenee connessioni dinamiche, che compiono una funzione
culturale, sono l’educazione, la vita economica, il diritto, le funzioni politiche,
le religioni, la socialità, l’arte, la filosofia, la scienza. Io prendo ora in
esame le qualità di un sistema siffatto. In esso viene compiuta un’operazione.
Così il diritto realizza le condizioni coercitive per l’attuazione dei rapporti
della vita. La poesia ha la sua essenza nell’espressione di ciò che è
immediatamente vissuto e nella rappresentazione dell’oggettivazione della vita,
in maniera tale che l'avvenimento isolato dal poeta si presenta, nel suo
significato per la totalità della vita, ricco di conseguenze. In questa
operazione gli individui sono legati tra di loro. I processi particolari, che
in essi hanno luogo, si riferiscono alla connessione dinamica costituita da
tale operazione e le appartengono: così essi sono membri di una connessione che
realizza l'operazione. Le regole giuridiche del testo legislativo, il processo
in cui le parti avverse discutono, dinanzi a un tribunale, intorno a
un'eredità, secondo le regole del testo legislativo, la decisione del tribunale
e la sua esecuzione costituiscono una lunga serie di processi psichici
particolari, che si distribuiscono e si intrecciano in diverse persone, per
risolvere infine il compito inerente al diritto relativamente a un determinato
rapporto della vita. Il compimento della funzione poetica è, in grado assai
maggiore, legato al processo unitario che avviene nell’animo del poeta; ma
nessun poeta è il creatore esclusivo della sua opera, in quanto egli trae un
avvenimento dalla saga, si trova davanti la forma epica in cui lo eleva a poesia,
studia l’efficacia di scene particolari nei suoi predecessori, impiega una
misura metrica, deriva la sua concezione del significato della vita dalla
coscienza popolare o da individui eminenti, ha bisogno di ascoltatori che
godano nell’accogliere in sé l'impressione dei suoi versi e nell’attuare così
il suo sogno di influenza. Così la funzione del diritto, della poesia o di un
altro sistema di scopi della cultura si realizza in una connessione dinamica
che riposa su determinati processi, legati da tale operazione, i quali hanna
luogo in certi individui. Nella connessione dinamica di un sistema di cultura
si fa valere anche una seconda qualità. Il giudice, oltre a esplicare la sua
funzione nell’ordine giuridico, è inserito anche in varie altre connessioni
dinamiche; agisce nell’interesse della sua famiglia, deve realizzare una
funzione economica, esercita la sua finzione politica, forse scrive pure dei
versi. Perciò gli individui non sono legati nella loro totalità a tale
connessione dinamica, ma nella molteplicità dei rapporti dinamici sono uniti
tra loro soltanto quei processi che appartengono a un determinato sistema, e
l’individuo è inserito in diverse connessioni dinamiche. La connessione
dinamica di un tale sistema di cultura si realizza mediante una posizione
differenziata dei suoi membri. La solida impalcatura di ognuno di essi è
formata da persone in cui i processi, che servono a tale funzione,
costituiscono l’occupazione principale della loro vita, sia per inclinazione
sia per motivo professionale. Tra di esse emergono poi le persone che
incorporano in sé, per così dire, l'intenzione verso tale funzione, e che per
la loro unione di talento e di professione diventano i rappresentanti di questo
sistema di cultura. E infine i portatori veri e propri della creazione che ha
luogo in tale campo sono le nature produttive — i fondatori delle religioni,
gli scopritori di una nuova intuizione filosofica del mondo, gli scopritori
scientifici. Così in una connessione dinamica siffatta ha luogo un intreccio:
le tensioni, accumulate in un vasto ambito, spingono al soddisfacimeno del
bisogno; l'energia produttiva trova la strada per la quale si compie tale
soddisfacimento o suscita l’idea creatrice che spinge in avanti la società;
infine si aggiungono i collaboratori e poi i molti che l’accolgono. Procedendo
nell’analisi, ognuno di tali sistemi di cultura, che realizza un’operazione,
attua un valore comune a tutti coloro che sono ad essa indirizzati. Ciò di cui
l’individuo ha bisogno, e che non può mai realizzare, gli proviene dall’ agire
della totalità: un valore creato in comune, a cui egli può partecipare.
L'individuo ha bisogno delia sicurezza della sua vita, della sua proprietà,
dell'insieme della sua famiglia; ma soltanto una forza indipendente della
comunità soddisfa il suo bisogno mediante il mantenimento di regole coercitive
della vita comune, che rendono possibile la protezione di questi beni.
L'individuo soffre, nei tempi primitivi, sotto la pressione di forze indomabili
intorno a lui, di forze cioè che stanno al di là dell’ambito ristretto di
attività della sua stirpe o del suo popolo; ma una diminuzione di tale
pressione è ottenuta solo mediante la creazione della fede da parte dello
spirito collettivo. In ognuno di tali sistemi di cultura, dall'operazione a cui
mira la connessione dinamica deriva un ordine dei valori; questo viene creato
nel lavoro comune compiuto in vista di essa; sorgono oggettivazioni della vita
in cui il lavoro si è condensato; e sorgono pure organizzazioni che servono
alla realizzazione delle varie operazioni nei sistemi di cultura — libri
giuridici, opere filosofiche, poesie. Il bene, che la funzione doveva
realizzare, è ora creato e sarà sempre più perfezionato. Le parti di tale
connessione dinamica acquistano una significatività nel loro rapporto con la
totalità quale portatrice di valori e di scopi. Anzitutto le parti del corso
della vita hanno un significato in base al loro rapporto con la vita, con i
suoi valori e con i suoi scopi, con lo spazio che qualcosa occupa in essa. E
quindi gli avvenimenti storici diventano significativi in quanto sono elementi
di una connessione dinamica, cooperando alla realizzazione di valori e di scopi
della totalità insieme ad altre parti. Mentre noi ci troviamo perplessi di
fronte alla complessa connessione dell’accadere storico, senza percepire in
esso né una struttura né delle regolarità né uno sviluppo, ogni connessione
dinamica, che realizza una funzione culturale, ha una propria struttura. Se
concepiamo la filosofia come connessione dinamica, essa si presenta anzitutto
come una molteplicità di operazioni: elevazione delle intuizioni del mondo a
validità universale, riflessione del sapere su se stesso, relazione della
nostra attività conforme a uno scopo e del sapere pratico con la connessione
della conoscenza, spirito critico sempre presente nell’intera cultura, opera di
collegamento e di fondazione. L’indagine storica mostra però che abbiamo qui da
fare ovunque con specifiche funzioni che si presentano sotto certe condizioni
storiche, ma che sono alla fine fondate su una funzione unitaria propria della
filosofia. Essa è riflessione universale che procede continuamente verso le più
alte generalizzazioni e le fondazioni ultime. La struttura della filosofia sta
quindi nel rapporto di questo suo carattere fondamentale con le funzioni
particolari, in base alle condizioni temporali. Così la metafisica si sviluppa
sempre nell’interna connessione della vita, dell’esperienza della vita e
dell’intuizione del mondo. In quanto la tendenza a un saldo fondamento, che in
noi lotta continuamente contro l’accidentalità della nostra esistenza, non
trova alcuna soddisfazione duratura nelle forme religiose e poetiche di
intuizione del mondo, sorge allora il tentativo di elevare l'intuizione del
mondo a sapere universalmente valido. Inoltre nella connessione dinamica di un
sistema di cultura si può ogni volta rintracciare un’articolazione in forme
particolari. Ogni sistema di cultura ha uno sviluppo che si compie sulla base
della sua funzione, della sua struttura, delle sue regolarità. Mentre nel
concreto corso dell’accadere non si può trovare nessuna legge di sviluppo, la
sua analisi in connessioni dinamiche particolari e omogenee rivela la
successione di stati determinati dall’interno, che si presuppongono l’un
l’altro in maniera che dallo strato sottostante ne emerge ogni volta uno
superiore, e che procedono a una crescente differenziazione e a un crescente
collegamento. 8. Le organizzazioni esterne e l'insieme politico: le nazioni
organizzate politicamente. a) Sulla base dell’articolazione naturale
dell'umanità e dei processi storici si sviluppano gli stati del mondo civile,
ognuno dei quali riunisce in sé connessioni dinamiche di sistemi di cultura, e
soprattutto le nazioni organizzate in forma statale. L'analisi si limita qui a
questa forma tipica dell’attuale organizzazione politica. Ognuno di questi
stati è un’organizzazione composta da varie comunità: la coesione delle
comunità in esso racchiuse è quindi il potere sovrano dello stato, al di sopra
del quale non esiste nessun'altra istanza. E chi potrebbe negare che il senso
della storia, fondato nella vita, venga a esplicarsi tanto nella volontà di
potenza che riempie questi stati, nel bisogno di WILHELM DILTHEY 179 dominio
verso l’interno e verso l’esterno, quanto nei sistemi di cultura? E a tutto
questo aspetto di brutalità, di temibilità, di distruzione, che è contenuto
nella volontà di potenza, a tutta la pressione e a tutta la coercizione
intrinseche al rapporto di dominio e di obbedienza, non è forse legata la coscienza
della comunità, dell’appartenenza reciproca, la gioiosa partecipazione al
potere dell'insieme politico, tutti Erlebrisse propri dei supremi valori umani?
Il lamento sulla brutalità del potere dello stato è fuori luogo poiché, come
Kant ha visto, il più difficile compito del genere umano sta proprio nel
riuscire a contenere il volere individuale e la sua tendenza a estendere la
propria sfera di potenza e di godimento mediante la volontà collettiva e la
coercizione che essa esercita, e inoltre perché per tale volontà, in caso di
conflitto, la decisione risiede soltanto nella guerra, e anche all’interno la
coercizione resta l’ultima istanza. Sul terreno di questa volontà di potenza,
intrinseca all’organizzazione politica, sorgono le condizioni che rendono
possibili i sistemi di cultura. Così si presenta qui una struttura complessa,
nella quale i rapporti di forza e le relazioni dei sistemi di scopo sono legati
in un’unità superiore, e la comunanza sorge anzitutto dall’azione reciproca dei
sistemi di cultura. Io cerco ora di illustrare tutto questo rifacendomi alla
più antica società germanica a noi nota, quale ce la descrivono Cesare e
Tacito. Qui la vita economica, lo stato e il diritto si trovano legati alla
lingua, al mito, alla religiosità e alla poesia proprio come in ogni epoca
successiva: tra le qualità dei singoli campi della vita c'è un’azione reciproca
che pervade in un dato tempo la totalità. Così, nella Germania di Tacito, dallo
spirito guerriero è sorta la poesia eroica che già magnificava Arminio"!
nei suoi canti, e questa poesia a sua volta rafforzava lo spirito guerriero. Da
questo spirito guerriero è derivata pure l’inumanità presente nella sfera
religiosa, come mostrano il sacrificio dei prigionieri e l’impiccagione dei
loro cadaveri in luoghi sacri. Proprio tale spirito influiva sulla posizione
del dio della guerra 15. Arminio (17 a. C.-21 d. C.), principe dei Cherusci,
sconfisse le legioni romane, guidate da Quintilio Varo, nella Foresta di
Teutoburgo nel 9 d. C., e in seguito guidò la resistenza germanica contro
l'invasore, costringendo i Romani ad abbandonare la frontiera dell'Elba per
ritirarsi sul Reno. La sua figura fu esaltata come quella di un eroe nazionale
tedesco. entro il mondo divino, e da ciò risultava di nuovo una ripercussione
sul sentimento bellico. Così viene a costituirsi una concordanza tra i diversi
campi della vita, la quale è così forte che dallo stato di uno di essi possiamo
compiere un’illazione sullo stato di un altro. Ma quest’azione reciproca non
spiega compiutamente i rapporti di comunanza che collegano tra loro le diverse
operazioni di una nazione. Che tra economia, guerra, costituzione, diritto,
linguaggio, mito, religiosità e poesia vi sia in questa età una straordinaria
concordanza e una straordinaria armonia, non deriva dal fatto che una funzione
fondamentale qualsiasi, sia essa anche la vita economica o l’attività bellica,
abbia condizionato le altre. Il fatto non può venir considerato neppure come
prodotto dell’azione reciproca dei diversi campi nella loro situazione in quel
dato periodo. In termini generali, quali che siano le influenze derivanti dalla
forza € dalle proprietà di certe operazioni, tuttavia l’affinità che lega tra
loro i diversi campi della vita entro una nazione deriva da una profondità
comune che nessuna descrizione può esaurire. Essa esiste per noi soltanto nelle
manifestazioni della vita che scaturiscono da tale profondità e che la
esprimono. È l’uomo, facente parte di una certa nazione in un dato tempo, che
inserisce in ogni manifestazione della vita entro un determinato campo della
civiltà qualcosa della sua particolare essenza; poiché i momenti della vita
degli individui, legati nella connessione delle operazioni, non procedono da
essa esclusivamente come abbiamo visto, ma l’uomo intero è sempre operante in
ognuna di queste attività e partecipa loro le proprie qualità peculiari. E
poiché l’organizzazione statale racchiude in sé diverse comunità fin giù alla
famiglia, l'ambito più vasto della vita nazionale racchiude pure piccole
connessioni e comunità che hanno propri movimenti, e tutte queste connessioni
dinamiche si incrociano nei singoli individui. Più ancora lo stato attrae
l’attività che ha luogo nei sistemi di cultura; e la Prussia di Federico è
l'esempio tipico di tale estremo aumento di intensità e di estensione
dell’influenza statale. Accanto alle forze indipendenti, che collaborano nei
sistemi di cultura, agiscono in essi anche le attività che procedono dallo
stato; e nei processi appartenenti a tale totalità statale, l’attività autonoma
e il condizionamento da parte della totalità sono sempre legati tra loro.
WILHELM DILTHEY 181 5) Il movimento proprio di ogni cerchia particolare in
questa grande connessione dinamica è determinato dalla tendenza a compiere la
propria funzione. Questa forza attiva ha in sé la duplicità della tensione e di
un’energia positiva volta alla posizione di scopi: tutte le connessioni
dinamiche concordano in ciò, ma ognuna ha pure la sua peculiare struttura,
dipendente dall’operazione che compie. Molto differente è infatti la struttura
di un sistema di cultura, in cui si realizza una connessione articolata di
operazioni, in cui i processi individuali vengono mossi da tale connessione, in
cui lo sviluppo dei valori, dei beni, delle regole, degli scopi è determinato
dall’essenza immanente di questa funzione, da quella propria della connessione
dinamica di un’organizzazione politica, poiché in questa non esiste tale legge
di sviluppo immanente in una funzione, i fini mutano in genere secondo la
natura delle organizzazioni, la macchina è per così dire impiegata per attuare
un altro compito, mentre vengono risolti compiti del tutto eterogenei e
realizzati valori di classe totalmente differente. Da tale articolazione del
mondo storico in connessioni dinamiche particolari risulta una conclusione, che
ci fornisce l’indicazione per l'ulteriore soluzione del problema contenuto nel
mondo storico. La conoscenza del significato e del senso del mondo storico è
stata spesso ottenuta, per esempio da Hegel o da Comte, mediante la determinazione
di una direzione generale del movimento della storia universale; questa
operazione riunisce il cooperare di diversi momenti in un'intuizione
indeterminata. In realtà risulta che il movimento storico si compie nelle
connessioni dinamiche particolari; e inoltre appare chiaro che l’intera
problematica diretta a porre in luce un fine della storia è del tutto
unilaterale. Il senso manifesto della storia deve essere cercato anzitutto in
ciò che sussiste sempre, in ciò che ricorre nelle relazioni strutturali, nelle
connessioni dinamiche, nella formazione di valori e di scopi entro di esse,
nell'ordine interno in cui stanno tra loro — dalla struttura della vita
individuale fino all’ultima più vasta unità: questo è il senso che la storia ha
sempre e ovunque, che poggia sulla struttura dell’esistenza individuale e che
si manifesta nella struttura delle connessioni dinamiche più complesse entro
l’oggettivazio ne della vita. Tale regolarità ha determinato anche lo sviluppo
182 WILHELM DILTHEY passato e ad essa è sottoposto il futuro. L'analisi della
costruzione del mondo spirituale avrà soprattutto il compito di mostrare tali
uniformità nella struttura del mondo storico. In tal modo viene pure eliminata
la concezione che ha visto il compito della storia nel progresso da valori,
obbligazioni, norme, beni relativi ad altri incondizionati: con essa ci
trasferiremmo dal campo delle scienze empiriche al campo della speculazione.
Infatti la storia assiste pure alla posizione di un elemento incondizionato,
sotto forma di valore, di norma o di bene. Elementi del genere si presentano
sempre in essa — sia come dati nella volontà divina, sia come dati in un
concetto razionale di perfezione, in una connessione teleologica del mondo, in
una norma universalmente valida del nostro agire, fondata su base
trascendentale. Ma l’esperienza storica ha conoscenza soltanto dei processi,
per essa così importanti, in virtù dei quali questi elementi vengono posti:
essa non sa nulla, di per sé, in merito a una loro validità universale. Seguendo
il corso in cui si elaborano tali valori, beni o norme incondizionate, essa
osserva per diversi di essi il modo in cui la vita li ha prodotti; la posizione
incondizionata è stata possibile solo in virtù della limitazione dell’orizzonte
temporale. Essa guarda di qui alla totalità della vita nella pienezza delle sue
manifestazioni storiche, e osserva la disputa mai appianata che si svolge tra
queste posizioni incondizionate. La questione se la subordinazione a tale
elemento incondizionato, che è appunto un fatto storico, debba essere
ricondotta in maniera logicamente necessaria a una condizione generale, non
limitata temporalmente, insita nell'uomo, o se sia da considerare come prodotto
della storia, conduce alle estreme profondità della filosofia trascendentale,
che stanno al di là dall’ambito dell’esperienza storica e a cui neppur la
filosofia è in grado di fornire una risposta sicura. E se anche tale questione
fosse decisa nel primo, ciò non potrebbe servire allo storico per la selezione,
la comprensione, la scoperta di qualche connessione, qualora non potesse venir
determinato il contenuto di tale elemento incondizionato: così l'intervento
della speculazione nel campo di esperienza dello storico difficilmente potrà
avere successo. Lo storico non può rinunciare al tentativo di intendere la
storia in base a se stessa, in base all’analisi delle varie connessioni
dinamiche. Così una nazione organizzata in forma statale può venir concepita
come un’unità strutturale individualmente determinata di connessioni dinamiche.
Il carattere comune delle nazioni organizzate in forma statale poggia su
regolarità che consistono nella forma di movimento delle connessioni dinamiche,
nelle loro relazioni reciproche e, poiché esse sono creatrici di valori e di
scopi, nel rapporto tra connessione dinamica, determinazione di valori,
posizione di scopi e connessione di significato entro un’organizzazione
politica. Ognuna di queste connessioni dinamiche è incentrata in se stessa in
un modo particolare, e su ciò è fondata la regola interna del suo sviluppo.
Sulla base di tali regolarità, che pervadono tutte le nazioni organizzate
statalmente, si elevano le loro forme individuali, lottando e cooperando nella
storia per la loro vita e la loro validità. In ogni nazione organizzata in
forma statale l’analisi — e soltanto questa, non già la storia dell'origine
delle nazioni interviene in tale connessione — distingue vari momenti. Tra gli
individui in essa racchiusi, che stanno tra loro in un rapporto di azione
reciproca, esistono uniformità di carattere e di manifestazioni della vita;
essi hanno coscienza di queste uniformità e dell’appartenenza reciproca che su
queste riposa; in essi vive perciò una tendenza a rafforzare tale appartenenza
reciproca. Queste uniformità possono venir constatate negli individui singoli,
ma pervadono e caratterizzano anche tutte le connessioni esistenti entro la
nazione. L'analisi mostra inoltre in ogni nazione un nesso di connessioni
dinamiche particolari. Il potere esterno e interno dello stato fa della nazione
un'unità che opera in forma autonoma. Entro questa unità si sovrappongono vari
gruppi sociali, e ognuno costituisce una connessione dinamica relativamente
indipendente. I sistemi strutturali, che procedono al di là della singola
nazione, si presentano qui in rapporto con altre connessioni dinamiche, e sono
modificati dalle uniformità che pervadono l’intero popolo; e la forza della
loro azione è accresciuta dai gruppi che si costituiscono in base alla loro
tendenza a una determinata funzione. Così sorge la complessa struttura di una
nazione organizzata in forma statale: ad essa corrisponde una nuova interna
disposizione di questa totalità. In essa viene vissuto un valore per tutti;
l’agire degli individui ha in essa un fine comune. La sua unità si oggettiva
nella letteratu184 WILHELM DILTHEY ra, nei costumi, nell'ordinamento giuridico
e negli organi della volontà collettiva, manifestandosi pure nella connessione
dello sviluppo nazionale. Voglio ora illustrare in alcuni punti fondamentali la
cooperazione dei diversi momenti che fanno parte di una totalità statale
organizzata, così come sono stati determinati, nella vita nazionale di una
certa epoca. A tale scopo mi rifaccio ai Germani dell’età di Tacito. Quando
Tacito scriveva, il fondamento della vita germanica era sempre l'unione della
guerra con lo sfruttamento del terreno, della caccia con l’allevamento del
bestiame e con l’agricoltura. L’'arrestarsi della diffusione delle stirpi
germaniche ha accelerato il corso naturale verso la fissazione del domicilio, e
la Germania è divenuta un paese agricolo. Da questo rapporto con il suolo e il
terreno nella caccia, nell'allevamento del bestiame e nell’agricoltura, è
derivato il legame dei Germani di allora con la terra e con ciò che su di
essa-cresce e vive: tale legame è il primo momento decisivo per la vita
spirituale dei Germani in questa epoca, Altrettanto chiara è l’influenza
dell’altro fattore sociale, prima accennato, di questa età, cioè dello spirito
guerriero delle stirpi germaniche nella vita politica, negli ordinamenti
sociali e nella cultura intellettuale del tempo. I compiti della guerra
pervadevano tutti i settori della vita; si facevano valere nel rapporto delle
famiglie con l’ordinamento militare, cioè nelle centurie; incidevano sulla
posizione dei capi e dei prìncipi. Dallo spirito guerriero è sorto poi anche il
sistema del seguito, di importanza decisiva per lo sviluppo militare e
politico. Il principe è circondato da un seguito composto da gente libera, che
costituisce la sua corte militare: soltanto la guerra poteva nutrire tale
seguito. Esso era legato quindi al principe dal più saldo rapporto di fedeltà,
da un rapporto che a noi si rivela nel canto eroico e nell’epica popolare con
la sua bellezza propriamente germanica. Dalla guerra scaturisce poi il regno
militare di un Marbod". A questi fattori si aggiunge l’individualità dello
spirito nazionale. Le sue uniformità si fanno valere nel risultato delle
connessioni dinamiche. Lo spirito guerriero, che le stirpi germa16. Marbod,
principe dei Marcomanni, contemporanco e avversario di Arminio. niche di
quest'epoca hanno in comune con gli stadi primitivi di altri popoli, mostra
tuttavia presso di esse una forza e un carattere particolare. Il valore della
vita di una persona singola è riposto nelle sue qualità belliche. Da Tacito
appare che i migliori di essi vivevano in modo completo soltanto in guerra; la
cura della casa, del focolare e del campo era lasciata alle donne e agli
individui inadatti alla guerra. Un carattere peculiare spinge questi Germani a operare
nella pienezza del loro essere e ad abbandonarsi senza riserve alla lotta. Il
loro agire non è determinato e limitato da una posizione razionale di scopi; in
esso c'è una sovrabbondanza di energia che li spinge al di là dello scopo, c'è
qualcosa di irrazionale. Nella loro passione inconsumabile e indomabile essi
mettono in gioco con i dadi la loro persona e la loro libertà. Nella battaglia
si rallegrano del pericolo; dopo la lotta cadono in una pigra quiete. Il loro
mito e Ia loro saga eroica sono totalmente pervasi da questo carattere ingenuo
e inconscio che ripone il valore e il piacere maggiore dell’esistenza non già
nella serena intuizione del mondo propria dei Greci, non già nella razionale
determinazione di scopi propria dei Romani, ma nella manifestazione illimitata
della forza in quanto tale, nella scossa e nell’estensione e nell’elevazione
che ne deriva per la personalità. Questo aspetto, che trova la sua suprema
espressione nella gioia della lotta, esercita la sua influenza sull'intero sviluppo
dei nostri ordinamenti politici e della nostra vita spirituale. L’ultimo tra i
momenti contenuti in una totalità nazionale, e che determinano il suo sviluppo,
risiede nella subordinazione dei gruppi minori alla totalità politica, quale
essa sorge in virtù dei rapporti di dominio e di obbedienza e dei rapporti di
comunità compresi in una volontà statale sovrana. Così in Germania vengono a
susseguirsi il regno popolare in piccole comunità di struttura imperfettamente
differenziata, poi, sulla base della crescente divisione del lavoro,
l’articolazione professio nale e la distinzione dei ceti in una totalità
nazionale poco solida, la formazione della signoria indipendente con la sua
intensiva ed estesa attività statale negli stati territoriali, che gradualmente
stritola, in mezzo ai diritti individuali e alla volontà di potenza dei
prìncipi, l’ordinamento fondato sulle professioni e sui ceti, e infine lo
sviluppo di tali stati verso un continuo ampliamento dei diritti individuali,
dei diritti della comunità popolare nel sistema rappresentativo, conforme a
ordinamenti democratici, e d’altra parte la subordinazione dei diritti
principeschi all’impero nazionale. Se si guarda a tale sviluppo, esso appare
ovunque condizionato in duplice modo: da un lato esso dipende dal rapporto
mutevole delle forze entro il sistema statale, e dall’altro è condizionato dai
fattori dello sviluppo interno, propri dello stato particolare, che noi abbiamo
seguito. Così risulta chiara la possibilità di sottoporre ad analisi la connessione
dinamica che condiziona i momenti particolari dello sviluppo di una nazione e
lo sviluppo totale di essa, distinguendola nei suoi fattori. Le regolarità
presenti nella struttura della totalità politica determinano le situazioni
della totalità c i suoi mutamenti. Vi sono quasi degli strati successivi
nell’ordinamento di vita di questa totalità, di cui il posteriore presuppone il
precedente, come abbiamo visto dai mutamenti dell’organizzazione politica.
Ognuno mostra un ordine interno in cui, a partire dall’individuo, le
connessioni dinamiche formano valori, realizzano scopi, raccolgono beni,
sviluppano regole di condotta. I portatori e i fini di tali operazioni sono
però differenti. Così sorge il problema dell’interna relazione reciproca tra
tutte queste operazioni, dalla quale esse traggono il loro significato.
Pertanto l’analisi della connessione logica delle scienze dello spirito ci
conduce di fronte a un compito ulteriore, sulla cui soluzione getterà luce la
costruzione delle scienze dello spirito in virtù del collegamento dei loro vari
metodi. 9. Età ed epoche. In un determinato periodo di tempo si possono quindi
porre in luce analiticamente singole connessioni dinamiche e mostrare i momenti
di sviluppo in esse contenuti, determinando inoltre le relazioni che uniscono
tali connessioni in una totalità strutturale e le uniformità presenti nelle
parti di un insieme politico: così noi possiamo pure intendere l’altro aspetto
del mondo storico, la linea del corso temporale e dei mutamenti che esso
racchiude in riferimento alle connessioni dinamiche, come una totalità continua
e tuttavia separabile in sezioni temWILHELM DILTHEY 187 porali. Ciò che
caratterizza anzitutto le generazioni, le età, le epoche *, sono tendenze
dominanti di profonda incidenza. Ciò che le caratterizza è la concentrazione
dell’intera cultura di un periodo in se stessa, cosicché nella determinazione
di valori, nella posizione di scopi, nelle regole di vita dell’epoca risiede il
criterio di giudizio, di valutazione e di stima delle persone e degli
orientamenti che attribuisce a una determinata epoca il suo carattere. Un
individuo, una tendenza, una comunità acquistano il proprio significato in
questa totalità in base al loro rapporto interno con lo spirito del tempo. E in
quanto ogni individuo è inserito in tale periodo, ne deriva pure che il suo
significato per la storia consiste in questo suo rapporto con l'età. Quelle
persone che procedono vigorosamente innanzi in un certo periodo sono gli
esponenti dell’età, i suoi rappresentanti. In questo senso si parla di spirito
di un’epoca, per esempio dello spirito del Medioevo o dell’Illuminismo. Da ciò
risulta pure che ognuna di tali epoche trova una limitazione in un orizzonte di
vita: con questo intendo la limitazione per cui gli uomini di un'età vivono in
rapporto al suo pensiero, al suo modo di sentire, alla sua volontà. In essa c'è
una relazione di vita, rapporti vitali, esperienza della vita e formazione
intellettuale, che mantiene e lega gli individui in un determinato ambito di
modificazioni dell’apprendimento, della formazione di valori e della posizione
di scopi. Elementi inevitabili sovrastano qui gli individui particolari.
Accanto alla grande tendenza che domina e pervade un'intera età, dando a quel
periodo il suo carattere, ve ne sono altre che si contrappongono a essa. Esse
mirano a conservare l’antico, osservano le conseguenze dannose
dell’unilateralità dello spia. Già nel 1865, nel saggio su Novalis [ora in
Er/ebnis und Dichtung] ho illustrato e impiegato il concetto storico di generazione,
usandolo più ampiamente nel primo volume del Leben Schleiermachers e poi, nel
1875, nel saggio Uber das Studium der Geschichte der Wissenschaften vom
Menschen, der Gesellschaft und dem Staat [ora in Gesammelte Schriften, vol. V,
pp. 31-73], sviluppandolo insieme ai concetti ad esso collegati. L’ulteriore
determinazione dei concetti di « continuità storica », « movimento sto rico »,
« generazione », «età », «epoca » è possibile soltanto nell’illustrazione della
costruzione delle scienze dello spirito. rito dell’epoca e si rivolgono contro
di questo; se invece si presenta qualcosa di creativo e di nuovo, che sorge da
un altro sentimento della vita, allora comincia entro questo periodo il
movimento indirizzato a produrre una nuova età. Ogni contrapposizione resta
quindi sul terreno dell’età o dell’epoca; ciò che in essa si oppone ha nel
medesimo tempo la struttura di quell'età. In questo elemento creativo ha allora
inizio un nuovo rapporto di vita, di relazioni vitali, di esperienza della vita
e di formazione intellettuale. Così i rapporti di significato che esistono in
un periodo tra le forze storiche sono fondati in quella relazione reciproca
delle uniformità e delle connessioni dinamiche, che si possono designare come
tendenze, correnti, movimenti. Da esse si perviene per la prima volta al
problema più complicato di determinare analiticamente la connessione
strutturale di un’età o di un periodo. Tale problema può venire illustrato
considerando l’Illuminismo tedesco dal punto di vista di questa interna connessione:
compiendo l’analisi di un’età anzitutto in una nazione particolare, si viene
infatti a semplificare il compito. La scienza si era costituita nel secolo xvi.
Dalla scoperta di un ordine legale della natura e dall’applicazione di questa
conoscenza causale al dominio sulla natura era sorta la fiducia dello spirito
in un regolare progresso della conoscenza. In questo lavoro di indagine le
varie nazioni civili erano unite tra loro: così è sorta l’idea di un’umanità
unita nel progresso. Si formò l’ideale di un dominio della ragione sulla
società; esso ispirò le forze migliori; così queste si unirono in uno scopo
comune, lavorando in base agli stessi metodi e attendendo dal progresso del
sapere il miglioramento dell’intero ordinamento sociale. L'antico edificio alla
cui costruzione avevano cooperato il dominio della chiesa, i rapporti feudali,
il dispotismo illimitato, i capricci dei principi, l'inganno pretesco —
edificio sempre trasformato dai tempi e sempre bisognoso di nuovi restauri —
doveva venir mutato in una costruzione razionale chiara e simmetrica. Questa è
l’unità interna in cui sono legate in una totalità la vita spirituale degli
individui, la scienza, la religione, la filosofia e l’arte nella connessione
europea dell’Illuminismo. Questa unità si compì in modo differente nei vari
paesi, atteggiandosi in maniera particolarmente felice e solida in Germania.
Qui una tendenza generale si fece valere nella sua più alta vita spirituale. Se
ci si rifà indietro in Germania si può trovare, a partire da Freidank”, la
tendenza a subordinare coscientemente la vita a salde regole; e se si volesse
designarle come morali, il fatto sarebbe rappresentato da un punto di vista
unilaterale e determinato entro un ambito troppo ristretto. La serietà dei
popoli nordici è qui legata a un bisogno di riflessione, che deriva da un
orientamento verso l’interiorità della vita ed è senza dubbio connesso con le
situazioni politiche. Come nell’immobilità della vita statale le clausole
giuridiche, i privilegi, gli accordi ostacolano il libero movimento della vita,
così anche nell’individuo il sentimento dell’obbligazione sovrasta la libera
posizione di scopi: nel godimento della vita si scorge sempre qualcosa di
illecito. I potenti lo arraffano per sé, ma in esso c'è qualcosa che mette in
crisi la loro coscienza. Così nella filosofia tedesca del secolo xviti vi è un
tratto fondamentale che unisce tra loro Leibniz, Thomasius *, Wolff”, Lessing,
Federico il Grande, Kant e innumerevoli altri minori. Tale tendenza
all’obbligazione e al dovere era stata promossa dallo sviluppo del Luteranesimo
e della sua morale fin da Melantone. Essa era favorita dall’articolazione della
so17, Freidank, nome o (più probabilmente) pseudonimo di un poeta didattico
tedesco della prima metà del secolo x1tr, che seguì Federico II in Palestina:
il suo poema Bescheidenheit (pubblicato nel 1508) ebbc larga fortuna. 18.
Christian Thomasius (1655-1728), giurista e filosofo tedesco, autore di tre
libri Institutionum iurisprudentiue divinae (1688), della Introductio in
philosophiam ratio. nalem (1701), dei Fundamenta iuris naturae et gentium
(1705) e di numerose altre opere soprattutto di etica, fu uno dei maggiori
esponenti della scuola del diritto naturale alla fine del Seicento: la sua
opera si ispira in larga misura all'insegnamento di Pufendorf. 19. Christian
Wolff (1679-1754), filosofo tedesco, è il principale rappresentante
dell'Illuminismo di derivazione Icibniziana: fu autore di numerosi manuali
scientifici e di opere filosofiche come la Philosophia rationalis, sive logica
methodo scientifico pertractata (1728), la Philosophia prima sive Ontologia
(1729), la Cosmologia generalis (1731), la Psychologia empirica (1732), la
Psychologia rationalis (1734), la Theologia naturalis (1736-37), la Plilosophia
practica universalis (1738-39), lo Jus naturae methodo scientifico pertractatum
(1740-48), lo Ius gentium (1749), le Institutiones suris naturae (1750), la
Philosophia moralis sive Ethica (1750-53) e l'Oeconomica (1750). Il suo lavoro
di sistemazione del sapere filosofico ebbe larga influenza nella cultura
tedesca del Settecento, e ad esso si richiamerà anche Kant. 190 WILHELM DILTHEY
cietà in base al concetto di professione e di ufficio, che Lutero aveva
introdotto nell’età moderna. E nella misura in cui la tendenza all’autonomia
della persona progrediva nell’Illuminismo, la perfezione diventava dovere:
nella ragione vi è una legge naturale dello spirito, che richiede
dall’individuo la realizzazione della perfezione in sé e negli altri. Questa
esigenza è dovere: un dovere che non è imposto dalla divinità, ma che deriva
dalla legge della nostra propria natura e può venir stabilito su basi
razionali. Soltanto in seguito la regola razionale può venir riferita al
fondamento delle cose: questa è la dottrina di Wolff, che si rifà indietro a
Pufendorf ”, Leibniz, Thomasius, e che procede in avanti fino a Kant,
riempiendo tutta la letteratura dell’Illuminismo tedesco. In questa dottrina
risiede il legame che unisce i Tedeschi dell’Illuminismo con i Tedeschi del
secolo xvi, producendo uno spirito unitario in quest’epoca, un qualcosa di
imponderabile che, ovunque modificato e pur sempre il medesimo, pervade
l’intera nazione: una determinazione del valore della vita, che sta a base
della connessione vitale dell’Illuminismo tedesco. Il nuovo schema di movimento
dell’anima verso il suo valore supremo è fondato nel carattere razionale
dell’uomo. La persona individuale realizza il suo scopo in quanto divenuta
maggiorenne in virtù delle sue capacità razionali, realizza in sé il dominio
della ragione sulle passioni, e questo della ragione si manifesta come
perfezione. In quanto la ragione è poi universalmente valida e a tutti comune,
e la perfezione della totalità mediante la ragione è superiore alla perfezione
dell'individuo — nel senso che la perfezione di tutti ha un valore superiore a
quella di una persona sola — e sorge qui l'obbligazione suprema in virtù della
quale l’individuo è legato al bene della totalità, ne deriva la più precisa
determinazione di questo principio come principio di perfezione di tutti gli
individui, da raggiungersi mediante il progresso della totalità. Questo
principio dell'Illuminismo non ha la sua base nel puro pensiero, e il suo
dominio non poggia su questo, ma in 20. Samuel von Pufendorf (1632-1694),
giurista e filosofo tedesco, autore dei De iure naturae ei gentium libri octo
(1672), dei De officio hominis et civis iuxta legem natttralem libri duo (1673)
c di Eris scandica (1686), nonché di varie altre opere di argomento storico e
giuridico, è la maggiore figura del giusnaturalismo seicentesco. esso
pervengono a un'espressione astratta tutti i valori della vita di cui hanno
esperienza gli uomini dell’Illuminismo. Per queste menti, Wolff soprattutto, la
perfezione diventa quindi, in modo abbastanza strano, un dovere, la tendenza
verso di essa diventa una legge vincolante per l'individuo, e infine la
divinità diventa per Wolff e i suoi scolari oggetto di doveri i quali hanno il
loro centro di riferimento nella tendenza alla perfezione. La stessa esperienza
della vita, in cui sono fondate queste idee, può venir studiata in Leibniz nel
modo migliore. Essa poggia sull’Erlebnis della felicità dello sviluppo. E il
grande pensatore, come poi anche Lessing, ripone nel progredire medesimo la
suprema felicità dell’uomo, in quanto essa non può mai essergli offerta dal
contenuto del momento. E che tale progredire non si riferisca a questo o a
quello scopo particolare, ma allo sviluppo della persona individuale,
comprendendo e legando tutto ciò che vi è in essa, Leibniz per primo lo esprime
mediante il suo Er/eden. Questo Erlebnis è stato ovunque preparato dal fatto
che l’individuo nell’infelicità della vita nazionale veniva spinto sempre verso
se stesso, e indirizzato ai compiti culturali comuni. E così come Leibniz lo
aveva enunciato, esso agì dappertutto. Con i concetti di valore derivanti dalla
vita stessa, che Leibniz accoglieva, è determinato anche il compito che egli
poneva alla sua filosofia, cioè quello di derivare il significato della vita e
il senso del mondo dalla connessione dei valori individuali dell’esistenza.
Così nell’età dell’Illuminismo una connessione unitaria conduce dalla forma
della vita all'esperienza della vita, dagli Erlebnisse in essa contenuti alla
loro rappresentazione in concetti di valore, in imperativi del dovere, in
determinazioni di scopo, nella coscienza del significato della vita e del senso
del mondo. In questa connessione cresce la coscienza che tale epoca ha di sé, e
nel passaggio a formule astratte queste pervengono, mediante la dimostrazione razionale,
a un carattere assoluto; vengono formulati valori, obbligazioni, doveri, beni
incondizionati, mentre proprio qui lo storico percepisce chiaramente la loro
origine dalla vita medesima. Se nella riflessione dell'individuo sulla vita
troviamo in Germania una tendenza alla sua formazione razionale, una tendenza
analoga si sviluppa nel medesimo tempo nella vita statale, sulla base delle
condizioni particolari della connessione dinamica della vita politica. Sempre
più invadente diventava l’attività statale nello sviluppo europeo dell’età
moderna, in tutti i vari campi della cultura: nella burocrazia, nella classe
militare, nelle istituzioni finanziarie risiede il centro di organizzazione di
tutti i rapporti di forza, e l’attività dello stato diventa una forza
propulsiva del movimento culturale. Su questo processo influiscono ovunque la
lotta reciproca dei grandi stati per la potenza e per l'ampliamento, e il
bisogno interno di trasformare in una totalità unitaria le parti messe insieme
attraverso le guerre e le successioni ereditarie. L'unità degli stati moderni
si concentra nel monarca, nella sua burocrazia e nel suo esercito. Ma essi
debbono pervenire a una più salda articolazione dei loro organi e a un impiego
più intensivo delle loro forze. Ciò diventa possibile soltanto con una più
razionale condotta degli affari; il progresso politico non avviene
spontaneamente ma viene prodotto. Ogni attività dell’insieme è determinata da
una razionale posizione di scopi. Questo insieme include sempre in sé vari compiti
culturali — la scuola, la scienza, anche la vita ecclesiastica, ove essa può
venir raggiunta. I prìncipi rappresentano in sé non solo l’unità, ma anche
l’orientamento culturale di tutto lo stato. Le libere forze irrazionali della
fedeltà della persona alla persona vengono sostituite da altre operanti in modo
più calcolabile e più sicuro. Così anche nella vita statale si attua la
relazione di forze che dà all’età illuministica la sua unità. All’ordine
razionale della vita e all’utilizzazione razionale della natura, di cui lo
stato ha bisogno, viene incontro il movimento scientifico fondato nel secolo
xvII, e questo trova a sua volta nello stato l'organo necessario per sottoporre
tutti i settori della vita a una regolamentazione razionale, dall'impresa economica
alle regole del buon gusto nelle arti. Nessun paese era politicamente preparato
come la Germania a questa interna relazione, nella quale risiedeva l’essenza
dell’Illuminismo. I suoi piccoli stati dipendevano dallo sviluppo della
cultura, e la Prussia anche dal progredire delle forze spirituali necessarie
alla lotta per il potere. La circolazione delle forze religiose e scientifiche,
dalla vita delle comunità protestanti al sistema scolastico e alle università,
da queste allo sviluppo del pensiero religioso presso il clero e alle teorie
giuridiche presso i giuristi, e poi di nuovo giù giù fino al popolo, non fu mai
in alcun paese sviluppata come in esso. Nell’Illuminismo tedesco cooperano
forze di origine assai diversa, e connessioni dinamiche colte in stati assai
differenti del loro sviluppo. Mentre l’unità dello spirito dell’Illuminismo si
realizza nella scienza e nella riflessione filosofica come nella vita sociale,
essa viene ad attuarsi pure mediante l’efficacia di questo spirito in tutti i
singoli campi della vita spirituale. Nello sviluppo del diritto troviamo in
Germania un interessante esempio di tale fenomeno nell’origine della più
compiuta legislazione dell’epoca, il diritto territoriale. A Halle, dallo
spirito dello stato prussiano si forma un indirizzo autonomo del diritto
naturale e della giurisprudenza che su esso si fonda. Thomasius, Wolff, B6hmer?
e vari seguaci diffondono dappertutto, con i loro scritti, la concezione
giuridica di tale scuola. Essi formano i funzionari adatti, per l’unità e il
carattere nazionale del loro orientamento spirituale, a compiere l’opera
legislativa, a lungo bloccata, della Prussia. Sotto l’influenza di questo
diritto naturale stanno il re, che promuove tale opera, e i ministri e i
consiglieri che la eseguono. La stessa connessione interna si trova nel
movimento religioso dell’età illuministica: anch'esso mostra la duplicità
peculiare dell’Illuminismo tedesco, in quanto è a un tempo polemico e
costruttivo. La storia ecclesiastica, il diritto naturale e il diritto
ecclesiastico cooperano nel Protestantesimo tedesco a formare una visione del
Cristianesimo primitivo che in Bòhmer, Semler ”, Lessing, Pfaff” diventa la
forza produtti21. Johann Samuel Friedrich von Bòhmer (1704-1772), giurista
tedesco, autore degli Elementa iurisprudentiae criminalis (1733), delle
Observationes selectae ad B. Carpzovii Practicam novam rerum criminalium (1759)
e di Meditationes sulle recenti leggi penali (1770), fu uno dei più importanti
studiosi di diritto penale del Settecento. 22. Johann Salomon Semler
(1725-1791), teologo protestante tedesco, autore delle Vorbereitungen zur
theologischen Hermeneutik (1760-69), della /nstiturio brevior ad liberalem
eruditionem theologicam (1765-66), dell'Apparatus ad liberalem Novi Testamenti
interpretationem (1769), delle Asketische Vorlesungen zur Beforderung einer
verniinftiger Anwendung der christlichen Religion (1722) e di altre operc,
sostenne — in polemica col Pietismo — una teologia liberale, fondata sulla
distinzione della parola divina dalla parola della Bibbia. 23. Christoph
Matthàus Pfaff (1686-1760), teologo protestante tedesco, autore delle
Institutiones theologiae dogmaticae et moralis (1719), del De origine iuris
ecclesiastici 13. STORICISMO TEDESCO. 194 WILHELM DILTHEY va di un nuovo ideale
della religiosità e dell'ordinamento della chiesa. E anche qui si ha la
medesima circolazione delle idee che dall’insoddisfazione per lo stato presente
e dalla forza positiva delle nuove idee universali, attraverso le scuole e le
università che sono indipendenti dal potere dell'ortodossia ecclesiastica e che
stanno in connessione con lo spirito scientifico, conduce alla formazione del
singolo sacerdote che fa valere nella città o nella campagna un Cristianesimo
illuminato, affine allo spirito dell’epoca. La religiosità cristiana non ha mai
esercitato in nessun altro tempo all’infuori dell’Illuminismo tedesco
un’influenza così schietta, così coerente, così orientata verso le supreme idee
morali e religiose, e nel medesimo tempo così concorde con il teismo cristiano.
Nuovi valori religiosi di grande portata si sono allora formati nella vita
ecclesiastica e religiosa. Anche la poesia tedesca dell’epoca è determinata
dalla trasformazione dei valori e degli scopi che si compie nell’età
dell’Illuminismo. Negli stati indipendenti tedeschi l’Illuminismo incide sulla
creazione poetica. Muovendo dalla Francia, anche in Germania viene elaborata la
prosa moderna in rapporto con la società colta. Vengono assegnati ai generi
poetici le loro regole, e queste disciplinano la forma superiore di arte
fantastica di Shakespeare e di Cervantes in componimenti poetici articolati in
maniera strettamente logica. L'ideale di questa poesia diventa l’uomo
determinato dall’idea della perfezione e dell’Illuminismo; e la sua intuizione
del mondo è la fede nell’ordine teleologico del mondo a partire dalla natura.
La diretta espressione diquesto ideale e di questa intuizione del mondo diviene
la poesia didattica; ad essa seguono l’idillio e l’elegia. Non viene afferrato
il carattere tragico della vita: la commedia, il dramma e soprattutto il
romanzo diventano la suprema espressione poetica dell’epoca, e acquistano una
struttura corrispondente: un realismo guidato da idee ottimistiche pervade ogni
opera poetica. Questa connessione unitaria, nella quale si esprime nei diversi
campi della vita l'orientamento dominante dell’Illuminismo tedesco, non
determina però tutti gli uomini che apparten(1719), delle Institutiones iuris
ecclesiastici (1727) e di varie altre opere, fu uno dei maggiori rappresentanti
della dottrina teologica della prima metà del Settecento. gono a tale età; e
anche là dove essa influisce, trova accanto a sé altre forze. Si fanno valere
le opposizioni delle età precedenti: particolarmente efficaci si mostrano le
forze che si riallacciano a situazioni e a idee antiche, cercando però di dare
loro una nuova forma. Nella sfera religiosa si è presentato così il Pietismo.
Esso è stato la più robusta tra le forze in cui l’antico ha assunto forme
nuove. Esso è affine all’Illuminismo nella crescente indifferenza per tutte le
forme ecclesiastiche esteriori e nell’esigenza di tolleranza, ma soprattutto
nel fatto che, al di là della tradizione e dell’autorità distrutte dalla
critica, cerca un semplice e chiaro fondamento di legittimità per la fede. Tale
fondamento risiede nel contatto con Dio e nell’esperienza religiosa che ne
deriva. Soltanto il convertito intende la Bibbia; a lui si rivela la parola
divina che gli è partecipata in essa; egli è in grado di fare delle scoperte,
per così dire, nel campo del Cristianesimo. La tolleranza del Pietismo sta nel
riconoscimento di ogni fede cristiana fondata sulla conversione: il Pietista
risvegliato da essa deve completare la propria esperienza religiosa mediante la
storia di conversioni altrui. E così vediamo che il Pietismo appartiene al
grande movimento individualistico, poiché esso procede oltre il Luteranesimo
escludendo la chiesa dal processo interiore della persona. Ma nel medesimo
tempo si contrappone all’Illuminismo per la sua adesione alla fiducia di Lutero
nell’esperienza religiosa derivante dal contatto con Dio. Il Pietismo si
ritrova poi in un rapporto interno con la compiutezza raggiunta dalla nostra
musica religiosa in J. S. Bach. Certo, Bach non era pietista, ma i canti
dell'anima cristiana, che accompagnano la rappresentazione della vita di
Cristo, mostrano già di per sé abbastanza chiaramente la sua connessione con la
soggettiva interiorità religiosa, che era venuta in luce nel movimento
pietistico. La medesima tendenza verso lo stato di cose esistente si manifesta
di fronte alle tendenze politiche del governo illuminato. Essa è diretta al
mantenimento del regno e dei privilegi di ceto nei singoli stati, e alla
conservazione degli antichi diritti. Ma anche queste tendenze raggiungono la
loro più alta coscienza e la loro fondazione mediante lo studio della
letteratura illuministica di teoria dello stato, e Ie proposte di Schlos196
WILHELM DILTHEY ser e di Méser cercano anche di soddisfare i nuovi bisogni e lo
spirito dell'Illuminismo. Le idee politiche dell'Illuminismo dovevano
circondare Méser quando egli, in base alla situazione presente, sviluppava la
sua comprensione di essa e le sue tendenze pratiche. Dall’esempio
dell’Illuminismo tedesco si comprende quindi la relazione interna delle
tendenze che hanno determinato le antitesi c la mutabilità in tale periodo,
allorquando si constatano i momenti che, entro il suo orientamento
fondamentale, rendono possibile rivolgersi verso il futuro. Proprio la tendenza
illuministica verso ciò che è regolare ha prodotto in diversi campi una
penetrazione degli avvenimenti storici, in cui sembrava essersi realizzata la
regola. Così nel Cristianesimo primitivo si trovava il tipo di una religiosità
più libera e questa rafforzava la tendenza al suo studio in Thomasius, in
B6hmer e in Semler. Le regole, che la critica contemporanea stabiliva
nell’arte, erano rafforzate dall’analisi approfondita del tipo dell’arte
antica, e da questo punto di vista Winckelmann e Lessing illustravano l’arte
antica e le leggi della creazione artistica, spiegando l’un termine con
l’altro. Un altro momento dell’orientamento verso i compiti del futuro stava
nel fatto che la comprensione della persona singola conduceva a porre l’accento
sull'individualità della creazione e del genio. Se ci chiediamo poi come, in
mezzo al corso degli eventi che trascina la Germania e procede dando luogo a
ininterrotti, continui mutamenti, possa venir delimitata tale unità, la
risposta è anzitutto questa: che ogni connessione dinamica reca in sé la sua
legge, e le sue epoche sono del tutto diverse da quelle delle altre in virtù di
tale legge. Così la musica ha un movimento peculiare, secondo cui lo stile
religioso che scaturiva dalla massima forza dell’ErleBnis cristiano raggiungeva
il suo culmine nella stessa età con Bach e con Hiindel, quando l’Illuminismo
era già la tendenza dominante in Germania. E nella stessa epoca in cui sorgono
le più importanti opere di Lessing 24. Johann Georg Schlosser (1739-1799),
giurista c uomo politico tedesco, autore del Kasechismus der Sittenlehre fiirs
Landvolk (1771), dell’Anti-Pope, oder Versuch tiber den natiirlichen Menschen
(1776), dei Politische Fragmente (1777), del saggio Uber Scelenwanderung
(1781), fu esponente dell'Illuminismo tedesco; polemizzò contro la filosofia
kantiana, WILHELM DILTHEY 197 nasce il nuovo movimento creatore dello Sturm «nd
Drang, che segna l’inizio di un'epoca successiva nella letteratura. E se ci
chiediamo quali siano i legami che creano un’unità tra le diverse connessioni
dinamiche, la risposta è questa: essa non è un’unità esprimibile in un pensiero
fondamentale, ma piuttosto una connessione tra le tendenze della vita medesima,
che si costituisce nel suo corso. Nel corso storico si possono delimitare
periodi nei quali, dalla costituzione della vita fino alle idee supreme,
un'unità spirituale si forma, raggiunge il suo culmine e di nuovo si dissolve.
In ognuno di tali periodi vi è una struttura interna che esso ha in comune con
gli altri, e che determina la connessione delle parti del tutto, il corso e le
modificazioni nelle tendenze: noi vedremo in seguito a che cosa può servire il
metodo di comparazione per l'apprendimento della struttura. Nell’efficacia
costante dei rapporti strutturali generali ci si rivela anzitutto il
significato e il senso della storia. Nel modo in cui questi dominano in ogni
punto e in ogni età, determinando la vita dell’uomo, risiede in primo luogo il
senso del mondo spirituale. Il compito è ora quello di studiare
sistematicamente le regolarità che costituiscono la struttura della connessione
dinamica nei suoi portatori, a partire dall’individuo. In qual modo queste
leggi strutturali consentano di formulare asserzioni sul futuro, può venir
determinato solo se è posto tale fondamento. L'aspetto immutabile e regolare
dei processi storici è il primo oggetto di studio, e da ciò dipende la risposta
a tutte le questioni sul progresso nella storia, e sulla direzione in cui si
muove l'umanità. La struttura di una certa età si mostra quindi come una
connessione delle connessioni e dei movimenti particolari entro il grande
complesso dinamico di tale età. In base a momenti quanto mai molteplici e
mutevoli viene a costituirsi una totalità più complicata; e questa determina il
significato che riveste tutto ciò che agisce nell’epoca. Quando lo spirito di
tale età è nato da dolori e dissonanze, allora ogni individuo ha in esso e
mediante esso il suo significato. Da questa connessione sono in primo luogo
determinati i grandi uomini storici: la loro creazione non si muove a distanza
storica, ma assume i suoi fini dai valori e dalla connessione di significato
dell'età medesima. L'energia produttiva di una nazione in un dato 198 WILHELM
DILTHEY tempo riceve la sua forza maggiore proprio in quanto gli uomini di tale
età sono limitati entro il suo orizzonte; il loro lavoro serve alla
realizzazione di ciò che costituisce la tendenza fondamentale dell’ epoca. Così
essi diventano i loro rappresentanti. Tutto in un'età acquista il suo
significato dalla relazione con l’energia che dà ad essa il suo orientamento
fondamentale. Essa si esprime nella pietra, sulla tela, nelle azioni o nelle
parole; e si oggettiva nella costituzione e nella legislazione delle nazioni.
Pieno di essa, lo storico penetra le epoche passate, e il filosofo cerca in
base ad essa di interpretare il senso del mondo. Tutte le manifestazioni
dell'energia che determina l’epoca sono imparentate tra di loro. Qui si
presenta il compito dell’analisi, cioè il compito di riconoscere nelle diverse
manifestazioni della vita l’unità della determinazione di valore e della
tendenza verso uno scopo. E in quanto le manifestazioni di vita di questa
tendenza spingono verso valori e scopi assoluti, si chiude il cerchio in cui
sono racchiusi gli uomini di questa età; poiché in esso sono contenute pure le
tendenze che vi si contrappongono. Si è visto come il tempo imprime anche su di
esse la propria impronta e come la tendenza dominante ostacola il loro libero
sviluppo. Così l’intera connessione dinamica dell’epoca è determinata in forma
immanente dal nesso della vita, del mondo affettivo, della formazione di valori
e delle relative idee di scopo. È storico ogni agire che si inserisca in questa
connessione: essa costituisce l'orizzonte dell’età, e da essa è determinato
infine il significato di ogni parte in questo sistema dell’epoca. Tale è
l’autocentralità delle età e delle epoche, in cui si risolve il problema del
significato e del senso che sì possono trovare nella storia. Ogni età contiene
il riferimento retrospettivo a quella precedente e continua le forze
sviluppatesi in quella, ma nel medesimo tempo è già presente in essa la
tendenza creativa che prepara l’età successiva. Come essa è sorta
dall’insufficienza dell'età che la precede, così reca con sé i limiti, le
tensioni e la sofferenza che preparano l’età posteriore. E poiché ogni forma
della vita storica è finita, deve esservi contenuta una mescolanza di forza
gioiosa e di pressione, di estensione dell’esistenza e di ristrettezza della
vita, di soddisfacimento e di bisogno. Il culmine degli effetti della sua
tendenza fondamentale è breve; e da un'età all’altra Ia fame passa attraverso
tutti i modi di soddisfacimento, senza mai poter essere saziata. Qualsiasi cosa
ci risulti in merito al rapporto delle età e dei periodi storici tra loro, in
relazione alla crescente complessità della struttura della vita storica, è
proprio della natura finita di tutte le forme della storia che esse siano
accompagnate dall’atrofia e dalla schiavitù, cioè da una brama insoddisfatta: e
questo soprattutto in quanto i rapporti di potere non possono venir eliminati
dalla vita comune degli esseri psico-fisici. Come lo stato sovrano dell’età
illuministica produceva pure le guerre di gabinetto e lo sfruttamento dei
sudditi per il godimento della corte, al pari della tendenza allo sviluppo
razionale delle forze, così ogni altro ordinamento dei rapporti di potere
racchiude pure una siffatta duplicità di effetti. E il senso della storia può
venir cercato soltanto nel rapporto di significato di tutte le forze legate
nella connessione delle varie età. 10. L'elaborazione sistematica delle
connessioni dinamiche e dei rapporti di comunanza. In quanto la comprensione
della storia avviene mediante l'applicazione ad essa delle scienze sistematiche
dello spirito, l’illustrazione precedente della connessione logica della storia
ha già rivelato i caratteri generali della sistematica delle scienze dello
spirito. Infatti l'elaborazione sistematica delle connessioni dinamiche, poste
in luce entro la storia, ha come proprio fine la scoperta dell’essenza di tali
connessioni dinamiche. Per ora mi limito a stabilire solo i seguenti tre punti
di vista per l'elaborazione sistematica. Lo studio della società poggia
sull’analisi delle connessioni dinamiche contenute nella storia. Quest’analisi
procede dal concreto all’astratto, dallo studio scientifico dell’articolazione
naturale dell'umanità e dei popoli verso la distinzione delle singole scienze
della cultura e la separazione dei campi dell’organizzazione esterna della
società *. Ogni sistema di cultura forma una connessione dinamica a. Ciò è
trattato più ampiamente nell’Einleitung in die Geisteswissenschaften, p. 44
sgg. [ora in Gesammelte Schriften, vol. I, p. 35 sgg.]che poggia su rapporti di
comunanza; poiché la connessione compie un'operazione, essa ha un carattere
teleologico. Ma qui si presenta una difficoltà riguardante l’elaborazione
concettuale che avviene in queste scienze. Gli individui, che cooperano in tale
operazione, appartengono alla connessione soltanto nei processi in cui
collaborano a realizzare l’operazione stessa, ma tuttavia agiscono con tutto il
loro essere, e quindi un campo siffatto non si può mai costruire in base allo
scopo dell’operazione, poiché accanto all’energia orientata verso tale
operazione stanno sempre anche gli altri aspetti della matura umana; e si fa
valere la sua mutabilità storica. Qui risiede il problema logico fondamentale
della scienza dei sistemi di cultura; e vedremo come per la sua soluzione si
sono formati e combattuti metodi differenti. A questa difficoltà si aggiunge un
limite che riguarda l’elaborazione concettuale delle scienze dello spirito:
esso deriva dal fatto che le connessioni dinamiche realizzano operazioni e
hanno un carattere teleologico. L'elaborazione concettuale non è pertanto qui
una semplice generalizzazione che ricavi l’elemento comune dalla serie dei casi
particolari. Il concetto esprime un tipo, e sorge nel procedimento comparativo.
Ad esempio, io cerco di precisare il concetto di scienza, comprendendo sotto di
essa ogni connessione diretta a ottenere una conoscenza. Tuttavia entro i libri
dedicati a lavori scientifici vi è molto di infruttuoso e di illogico, cioè di
erroneo: ciò contraddice all’intenzione orientata verso la loro funzione.
L'elaborazione concettuale pone in luce quei tratti in cui è realizzata la
funzione di tale connessione: questo è il compito della dottrina della scienza.
Oppure, se voglio precisare il concetto di poesia, anche qui ha luogo una
costruzione concettuale a cui non tutti i versi possono venir subordinati. La
molteplicità dei fenomeni in un campo siffatto si raggruppa intorno a un punto
centrale, costituito dal caso ideale in cui l'operazione è realizzata in modo
compiuto. La discussione intorno alla connessione generale delle scienze dello
spirito è pertanto conclusa. L'analisi seguente della costruzione delle scienze
dello spirito illustrerà i metodi particolari in cui si realizza la connessione
logica generale. IL MONDO STORICO * 1. L'uomo storico!. Il mondo storico esiste
sempre, e l’individuo non lo considera soltanto dall’esterno, ma è intrecciato
in esso; né è possibile scindere queste relazioni. Ciò che rimarrebbe sarebbe
soltanto la condizione inafferrabile dalla quale si dovrebbero derivare,
astratte dal corso storico, le condizioni necessarie di questo corso in tutte
le età insieme con il dato: problema insolubile al pari di quello della
possibilità della conoscenza prima o indipendentemente dal conoscere stesso.
Noi siamo esseri storici prima di considerare la storia, e soltanto perché
siamo quelli diveniamo questi. Tutte le scienze dello spirito poggiano sullo
studio della storia trascorsa fino a ciò che sussiste nel presente, in quanto
questo è il limite di ciò che rientra nella nostra esperienza relativa
all'oggetto costituito dall’umanità. Quello che può venir immediatamente
vissuto, inteso e tratto fuori dal passato nella coscienza, viene qui compreso:
in tutto questo noi cerchiamo l’uomo, e anche la psicologia è soltanto una
ricerca dell’uo* Plan der Fortsetzung zum Aufbau der geschichilichen Welt in
den Geisteswissenschaften: Zweîtes Projekt einer Fortsetzung, in Gesammelte
Schriften, Leipzig und Berlin, vol. VII, 1927, pp. 277-282, 287-291 (Secondo
progetto: il problema della storia, tr. it. di Pietro Rossi, in Critica della
ragione storica, Torino, Einaudi, 1954, PP. 372-384). — Non sono stati tradotti
alcuni paragrafi che, per il loro carattere di puri e semplici appunti, nonché
per le frequenti interruzioni del discorso, sarebbero risultati di troppo
difficile lettura. I passi omessi vengono indicati di volta in volta nelle
note. 1. Non è stata tradotta la parte iniziale del paragrafo (Gesammelte
Schriften. mo in ciò che viene immediatamente vissuto e inteso, nelle
espressioni e negli effetti che ne derivano. Perciò ho indicato come compito
fondamentale di ogni riflessione sulle scienze dello spirito quello di una
critica della ragione storica. Occorre che la ragione storica risolva il
compito rimasto fuori dall’ambito visuale della critica della ragione di Kant,
il cui problema è stato determinato in riferimento ad Aristotele, secondo cui
la conoscenza avviene nel giudizio. Noi dobbiamo uscire dall’aria pura e
raffinata della critica della ragione kantiana per adeguarci alla natura del
tutto differente degli oggetti storici. Qui si presentano le questioni
seguenti: io ho esperienza immediata delle mie situazioni e sono intrecciato
nelle azioni reciproche della società come punto di incrocio dei suoi diversi
sistemi, i quali sono sorti dalla stessa natura umana che io vivo in me e
intendo negli altri. La lingua in cui penso è sorta nel tempo, i miei concetti
si sono formati in esso: io sono, fino alla profondità non più penetrabile del
mio io, un essere storico. In tal modo si presenta il primo importante momento
per la soluzione del problema conoscitivo della storia: la prima condizione di
possibilità della scienza storica risiede nel fatto che io stesso sono un
essere storico, € che colui che indaga la storia è il medesimo che fa la
storia. Così sono possibili giudizi storici sintetici e universalmente validi.
Ma i princìpi della scienza storica non possono essere formulati in princìpi
astratti che esprimano equivalenze, poiché, in conformità alla natura del loro
oggetto, debbono poggiare su rapporti fondati nell’Erleden. Nell'Erleben vi è
la totalità del nostro essere, che riproduciamo poi nell’intendere: qui è dato
il principio della reciproca affinità tra gli individui. 2. Il concetto
storico.L’uomo si conosce soltanto nella storia, mai mediante l’introspezione.
In fondo noi tutti lo cerchiamo nella storia, anzi vi cerchiamo anche
l’elemento umano quale si manifesta nella religione, ecc.: noi vogliamo sapere
che cosa esso sia. Se vi fosse una scienza dell’uomo, questa sarebbe
un’antropologia capace di intendere la totalità degli Erlebnisse secondo la loro
connessione strutturale. L’uomo singolo realizza sempre una WILHELM DILTHEY 203
sola possibilità del suo sviluppo, che poteva sempre assumere un’altra
direzione in base all'orientamento del suo volere. L’uomo in generale esiste
per noi solo sotto la condizione di certe possibilità realizzate. Anche nei
sistemi di cultura noi cerchiamo una struttura antropologicamente determinata,
nella quale si attua un x; e noi lo diciamo essenza, ma questa è soltanto una
parola per designare un procedimento spirituale che costituisce una connessione
concettuale in questo campo. Anche qui le possibilità di tale campo non vengono
esaurite. L'orizzonte si allarga. Infatti, anche quando lo storico ha dinanzi a
sé un materiale limitato, mille fili lo conducono sempre più avanti
nell’illimitatezza di tutti i ricordi del genere umano. La storiografia
comincia in quanto, muovendo dal presente e dal proprio stato, si rappresenta
ciò che ancora quasi vive nella memoria della generazione presente; ciò
costituisce un ricordo ancora in senso proprio. Oppure vengono stesi degli
annali in cui si registra, procedendo negli anni, ciò che è accaduto. Col
procedere della storia lo sguardo si allarga al di là del proprio stato, e una
sezione sempre più vasta del passato entra nel regno dei morti della memoria.
Di tutto ciò è rimasta l’espressione dopo che la vita stessa è trascorsa, sia
sotto forma di espressione diretta, con la quale certe anime hanno manifestato
ciò che sono state, sia sotto forma di narrazioni relative ad azioni e a situazioni
di individui, di comunità e di stati. E lo storico sta in mezzo a tutti questi
resti di cose passate, e di manifestazioni di anime racchiuse in fatti, parole,
suoni, immagini di anime che da tempo non sono più. Come deve egli evocarle?
Tutto il suo lavoro diretto a tal fine poggia sull’interpretazione dei resti
conservati. Si pensi a un uomo che non abbia alcun ricordo del suo passato, ma
che pensi o agisca soltanto in base a ciò che questo passato ha prodotto in
lui, senza esser cosciente di alcuna sua parte: tale sarebbe anche la
situazione delle nazioni, delle comunità, dell'umanità medesima se essa non
riuscisse a completare i resti, a interpretare le espressioni, a ricondurre la
narrazione dei fatti dal loro isolamento alla connessione in cui sono sorti.
Tutto questo è interpretazione, ossia un’arte ermeneutica. Il problema è ora di
vedere quale forma questa assuma quando essa è completamente staccata
dall’esistenza individua204 WILHELM DILTHEY le, e si debbono formulare
asserzioni su soggetti che costituiscono in qualche senso delle connessioni di
persone, cioè su sistemi di cultura, nazioni o stati. Anzitutto occorre qui un
metodo per ritrovare, in questa illimitata azione reciproca tra esistenze
individuali, delle rigorose delimitazioni, quando queste mancano invece
nell’unità vivente della persona. È come se si dovessero tirare linee e
disegnare figure che rimangono ferme nella corrente continua di un fiume. Tra
questa realtà e l’intelletto non sembra possibile alcun rapporto conoscitivo,
poiché il concetto separa ciò che è legato nel fluire della vita e rappresenta
qualcosa di valido universalmente e per sempre, indipendentemente dalla mente
che lo ha formulato, mentre il fluire della vita è ovunque soltanto singolare,
e ogni onda va e viene entro di esso. Questa difficoltà, dopo che Hegel
contrappose per primo la conoscenza intellettuale, caratteristica
dell’Illuminismo, all'essenza del mondo storico € umano, costituisce il
problema proprio del metodo storico. Ma questo problema può venir risolto: non
abbiamo bisogno di rifugiarci nell’intuizione e di rinunciare ai concetti, ma
dobbiamo invece rielaborare i concetti storici e psicologici. È stato merito
geniale di Fichte aver formulato tali concetti adatti alla vita psichica e in
generale allo spirito, mettendo l'energia al posto della sostanza, e ponendo le
attività spirituali in relazione con le precedenti e in antitesi con quelle
contemporanee, in modo che venga a delinearsi un progredire che diventa
possibile in virtù del tempo, dell’energia che in questo opera e dell’unità che
si differenzia. Tuttavia egli si è limitato a formulare questo schema di
dinamica psichica, ma la sua realizzazione si richiama ai concetti kantiani
anziché alla realtà. Herbart e Hegel non sono pervenuti neppur essi all'aria
aperta del mondo storico reale. Tuttavia ciò è stato l’inizio di uno
sconvolgimento di tutto il pensiero relativo al mondo storico, in una
connessione interna che scaturisce nella maniera più chiara nel Romanticismo,
prima con Niebuhr e poi con Hegel e con Ranke, conducendo così alla moderna
storiografia. Noi possiamo liberarci dalla confusione concettuale in cui
quest’antitesi tra realtà storica e conoscenza intellettuale si esprimeva
allora mediante concetti ispirati al principio di identità, in quanto guardiamo
alla natura stessa dei concetti storici. Il loro carattere logico è
l'indipendenza dell’asserzione dal soggetto in cui si presentano e dal momento
in cui essa ha luogo: la loro validità è indipendente dal luogo e dal tempo in
senso psicologico. Il loro contenuto è invece l’accadere, il corso di qualsiasi
specie; l’asserzione è indipendente dal tempo, mentre ciò che viene espresso è
il corso temporale. Anzi, non tutti i concetti storici risultano correttamente
formulati da questo punto di vista; ma, soltanto in quanto lo sono, possono
occupare un posto nell’apprendimento del mondo storico. Nel medesimo tempo i
concetti esistenti debbono spesso venir rielaborati in modo che possa
esprimersi in essi ciò che è mutevole e dinamico. In fondo il problema appare
simile a quello della matematica superiore, che cerca di dominare i mutamenti
della natura. Ogni parte della storia, ad esempio un'età, non può venir colta
mediante concetti che esprimano qualcosa di stabile in essa, cioè in un sistema
di relazioni tra qualità definite, quali sarebbero state per l’età
illuministica l'autonomia nello stato o l’Illuminismo nella vita spirituale. In
tal modo non si coglie la natura specifica del tempo, ma si tratta piuttosto di
un sistema di relazioni le cui parti sono dinamiche e inoltre mostrano continui
mutamenti qualitativi nell'azione reciproca. Infatti le relazioni medesime,
poggiando sull’azione reciproca tra forze, sono mutevoli, cioè ognuna di esse
racchiude in sé una regola di mutamento. Applicando questo al periodo
illuministico risulta che l’'ordine sociale che era esistito fino al termine
del secolo xvi e all’inizio del xvi diventa impossibile poiché i contrasti tra
gli interessi particolari della nobiltà, dei ceti e del governo, e quelli tra
gli interessi delle province tra di loro e in rapporto all'insieme, non
consentono in Germania il sorgere di una volontà statale unitaria, una cura
comune per il tutto e un continuo perseguimento degli scopi statali. Diverse
sono invece le epoche nelle quali, in Inghilterra, in Francia e in Italia, si
fa valere la medesima insufficienza dell’esistenza politica. Essa diventava
insopportabile verso l’esterno, poiché l'aspirazione alla potenza in questi
stati concorrenti si manifestava assai diversamente che in qualsiasi epoca
precedente. Essi erano sorti l’uno accanto all’altro, condizionati nella loro
forma soprattutto dall’eredità e dalla guerra, senza ancora esser legati da
nessuna letteratura unitaria e da nessuna lingua comune sviluppatasi entro di
questa. Tale letteratura, e tale lingua, fu creata per la prima volta per gli
Italiani da Dante. In tal modo sorse la tendenza all’unità nazionale, che però
non trovò alcuna possibilità di attuazione per la politica contrastante dei
tiranni e delle repubbliche, secondo la situazione delle forze. Tale sviluppo
ha avuto luogo altrimenti sia in Inghilterra sia in Francia; mentre per la
Germania il momento decisivo è stata la terribile pressione che grandi stati
quali la monarchia universale spagnola e la potenza francese hanno esercitato
su un paese che è stato in tal modo costretto a cercare la sua unità nazionale.
Sorge però ora la questione del modo in cui può formarsi nello storico una
connessione che non è prodotta da una mente né è immediatamente vissuta, e
neppure può venir ricondotta all’Erlebnis di una persona, in base alle sue
espressioni e alle asserzioni relative ad esse. Ciò ha come presupposto la
possibilità di formare soggetti logici, e non psicologici. Devono quindi
esserci strumenti per delimitarli e un fondamento di legittimità per
apprenderli come unità o connessione. Noi cerchiamo l’anima: questo è l’ultimo
punto a cui siamo pervenuti nel lungo sviluppo della storiografia. Ma qui si
pone il problema: certamente ogni azione reciproca avviene tra unità psichiche,
ma per quale via noi troviamo un’anima dove non c'è anima individuale? La base
più profonda è offerta dalla vita e da ciò che da essa procede, dal
raggiungimento della vitalità e, per così dire, dalla melodia della vita
psichica nell’eliminazione di ogni regola rigida”. 3. Il progresso. Quando si
parla della storia, il presupposto dell’intendere storico sta nel fatto che vi
sia un significato dei momenti storici e un senso del corso storico. Secondo
questo presupposto, anche se lo scopo della sua esistenza è posto
nell’individuo stesso, nella storia dovrebbe tuttavia esserci un progredire
della 2. Non sono stati tradotti i paragrafi sulle nazioni e sullc ctà
(Gesammelte Schriften, vol, VII, p. 282-87). WILHELM DILTHEY 207 felicità
individuale e un estendersi della felicità a molti: questa è insomma la
concezione dei moderni storici inglesi. Ma tale concezione procede al di là di
se stessa: anche se qui il progresso della vita individuale di generazione in
generazione è concepito come un’azione quasi meccanica di accumulazione di
valori, viene in tal modo presupposto un modo di azione nella cui natura è
insito un progresso. Proprio in questa maniera agisce nella storia un rapporto
in virtù del quale il suo corso ha un senso; infatti questo termine designa
soltanto il presupposto in base al quale può venir inteso il corso storico, ma
non un’affermazione su qualche forza distinguibile dal modo di agire medesimo,
la quale possa conferire alle varie parti del corso il loro significato core
un'essenza immanente a questo corso. In ciò risiede soltanto la condizione
sotto cui può venir intesa la storia, e il prodotto e il risultato di questa è
la storia universale. Ma anche qui non c’è alcun presupposto ulteriore su
qualsiasi agente unitario nella storia, sia esso un agente immanente o una
condizione reale, il quale possa venir considerato nella filosofia della storia
come provvidenza o come scopo immanente o come forza di svolgimento storico. 4.
La connessione storica universale: dalla fatticità all’ideale. Le epoche sono
differenti tra loro per struttura. Ad esempio, il Medioevo contiene una
connessione di idee affini che dominano nei suoi vari campi, quali le idee di
fedeltà nel feudalesimo, la successione di Cristo come principio di obbedienza,
il cui contenuto è costituito dalla trascendenza dello spirito rispetto alla
natura in virtù dell’abnegazione, la successione teleologica di gradi nella
scienza. Ma si deve riconoscere che lo sfondo di queste idee è la violenza, che
questo mondo più alto non può superare. E ovunque è così: la fatticità della
razza, dello spazio e dei rapporti di violenza costituisce la base che non può
mai venir elevata spiritualmente. È stato un sogno di Hegel credere che queste
età costituiscano un grado dello sviluppo della ragione: rappresentare un’età
implica sempre un chiaro sguardo su tale fatticità, Ma c’è tuttavia una
connessione interna, la quale conduce dai rapporti condizionanti, dalla
fatticità, dalla lotta delle forze allo sviluppo degli ideali. Ogni situazione
data in questa serie senza fine condiziona un mutamento, poiché i bisogni, che
trasformano le energie esistenti în attività, non possono mai venir
soddisfatti, e il desiderio di ogni specie di soddisfacimento non può mai venir
saziato. Ogni forma della vita storica è finita, e contiene perciò un insieme
di forza gioiosa e di pressione, di estensione dell’esistenza e di ristrettezza
della vita, di soddisfazione e di penuria, provocando così le tensioni di forza
e una nuova distribuzione da cui derivano di continuo altre azioni. Inoltre,
soltanto in pochi punti della vita storica vi è un temporaneo stato di quiete,
le cui cause sono diverse — equilibrio, forze opposte, ecc.: ma la storia è
movimento. Anche nello stesso procedere c’è una felicità, poiché in esso si
risolve la tensione e si realizza l’ideale. Tra la morta necessità di fatto e
Ja più alta vita spirituale sta il continuo sviluppo dell’organizzazione,
dell’istituzione, dell'impiego regolato della forza: l'intelletto crea, per
così dire, meccanismi che servono al soddisfacimento dei bisogni,
perfezionandoli di continuo. Lo scopo, che l’intelletto pone, dà luogo a tali
meccanismi, che possono essere tanto ferrovie quanto armate, tanto fabbriche
quanto miglioramenti costituzionali: essi costituiscono il campo proprio dell'intelletto,
che cerca mezzi per certi scopi e calcola le azioni come cause. Qui appare una
combinazione, la quale rivela propriamente l’essenza della storia. La sua base
è la fatticità irrazionale, da cui deriva da un lato il parteciparsi della
tensione fino ai meccanismi e dall’altro la differenziazione in nazioni, in
costumi, in forme di pensiero, fino all’individualità su cui riposa la vera e
propria storia dello spirito. 5. Realtà, valori, cultura. Gli avvenimenti
diventano significativi in quanto si riferisco no a una connessione per la
quale essi lo sono. Se mi formo un concetto di connessione di valore fondata
sovra-individualmente e trascendentalmente — poiché trascendentale è ogni
determinazione avente la sua base nel sovra-individuale — allora sorge la
WILHELM DILTHEY 209 questione se tale procedimento sia possibile, anche se si
intendessero soltanto punti di riferimento formali, dotati di carattere
incondizionato, per ciò che è empirico. Ma se si lascia da parte tale
fondazione mediante la filosofia trascendentale, non c’è più alcun metodo per
stabilire norme, valori o scopi incondizionati: ve ne sono soltanto di quelli
che avanzano la pretesa a una validità incondizionata, ma che, per la loro
origine, sono inficiati di relatività. Noi attribuiamo invece un significato
effettivo a qualsiasi connessione di tipo reale o ideale, in rapporto a cui un
uomo o un avvenimento acquisti questo carattere. Quando considero nella
connessione dinamica un luogo in quanto tale, come fa Meyer?, e lo valuto in
conformità al presente, dovrei però avere prima un criterio che serva a
determinare ciò che è significativo nel presente, perché altrimenti sarebbe
significativo tutto ciò che ha agito sull’infinita serie delle situazioni
presenti. E una cosa è chiara: che io trovo significativo nel presente ciò che
è fecondo per il futuro, per la mia azione in esso, per il progredire della
società verso tale futuro. E qui vedo in maniera assai chiara, nella mia
posizione pratica, che, se voglio regolare il futuro, io parto da giudizi
universalmente validi su ciò che deve essere realizzato. Il presente non
contiene situazioni, ma processi e connessioni dinamiche, che racchiudono anche
il procedere verso il futuro di qualcosa che può venir prodotto. La frase di
Bismarck, secondo cui egli sarebbe stato collocato dalla sua religione e dal
suo stato in una posizione nella quale il servizio di tale stato era più
importante di ogni altro compito culturale, aveva per lui una validità
universale in virtù del suo fondamento religioso. Da ciò deriva che noi
dobbiamo ammettere tale rapporto anche per il passato. In un’età si sviluppano
norme, valori, scopi universali, in rapporto ai quali deve esser anzitutto
compreso il significato delle azioni. Se questi debbano venir determinati solo
in una limitazione o incondizionatamente, è una questione ulteriore. Sembra 3.
Eduard Meyer (1855-1930), storico tedesco autore di una monumentale Geschichte
des Altertums (1884-1902), nonché di altri importanti volumi sulla cronologia
dell'antico Egitto, su Cesare e Pompeo, sulle origini del Cristianesimo.
Dilchey si riferisce qui alla tesi sostenuta in Zur TAcorie und Methodik der
Geschichte, Halle. che anche in una nazione abbia luogo un antagonismo a
proposito dei valori. In questa maniera si perviene al principio che lo svilu
po di tali idee si muove entro contrapposizioni (Kant, Hegel) che sono
contenute entro il corso dello svolgimento delle istituzioni, di modo che il
loro rapporto reciproco rende sempre possibile un’altra posizione più ampia e
più libera. Anzitutto non vi sono valori che valgano per tutte le nazioni.
Nell'Impero romano si è sviluppata una concezione aristocratica dell’umanità
come sostegno dell’humanitas; nel Cristianesimo l’umanità è divenuta soggetto
di valore; tale concezione si è poi trasformata nell’Illuminismo. La storia è
essa medesima la forza produttiva delle determinazioni di valore, degli ideali
e degli scopi, in base a cui viene commisurato il significato di uomini e di
avvenimenti. In tale processo questo rapporto mostra una duplice direzione,
verso le epoche e verso il progresso dell'umanità. 6. Il problema del valore
nella storia. Si dice che in tal modo sorga soltanto la coscienza della
relatività storica. Senza dubbio la relatività è propria di ogni fenomeno
storico per fatto che esso è finito... Si pone però il problema seguente: ciò
che viene espresso nelle categorie storiche sussiste soltanto come momento del
movimento storico? in altri termini, nella storia è contenuto qualcosa che ha
valore solamente in quanto sorge, agisce e tramonta in questa connessione? ed è
possibile per caso una determinazione di valori separata da questo corso?
L’ultimo problema di una critica della ragione storica su questa direzione è il
seguente. Ovunque nella storia c’è formulazione e selezione nella ricerca della
connessione interna, ovunque c'è un progresso secondo i rapporti di finitudine,
dolore, forza, antitesi, accumulazione, che lega una parte della storia con le
altre, e la forza, il valore, il significato e lo scopo sono ovunque gli elementi
a cui è legata la connessione storica: ma la connessione, il valore, il
significato, lo scopo, quali essi vengono colti nell’esperienza, costituiscono
l’ultima parola dello storico? La strada che imbocco è determinata dai seguenti
princìpi: il concetto di valore deriva dalla vita, e il criterio per ogni
giudizio è offerto da concetti relativi di valore, di significato e di scopo,
propri di certe nazioni e di certe epoche. Occorre perciò illustrare come
questi si siano ampliati in qualcosa di assoluto: ciò vuol dire, insomma, il
pieno riconoscimento dell’immanenza dei valori e delle norme, anche
presentantisi come incondizionati, nella coscienza storica. 7. Conclusione. La
coscienza storica della finitudine di ogni fenomeno storico, di ogni situazione
umana o sociale, la coscienza della relatività di ogni specie di fede è
l’ultimo passo verso la liberazione dell’uomo. Con esso l’uomo perviene alla
sovranità di trovare in ogni Erlebnis il suo contenuto e di darsi a questo
completamente, senza il vincolo di nessun sistema filosofico o religioso. La
vita si libera dalla conoscenza concettuale; lo spirito diventa sovrano
rispetto a tutte le ragnatele del pensiero dogmatico. Ogni bellezza, ogni
santità, ogni sacrificio, rivissuti e interpretati, schiudono delle prospettive
che rivelano una realtà. E così pure accogliamo in noi tutto ciò che c’è di
malvagio, di terribile, di brutto, riconoscendo che occupa un posto nel mondo e
che racchiude in sé una realtà, la quale dev'essere giustificata nella
connessione del mondo: qualcosa su cui non ci si può illudere. E di fronte alla
relatività si fa valere, come il fatto storico essenziale, la continuità della
forza creatrice. Così dall’Erleden, dall’intendere, dalla poesia e dalla storia
deriva un'intuizione della vita, la quale esiste sempre in e con questa. La
riflessione la eleva a distinzione e a chiarezza concettuale. La considerazione
teleologica del mondo e della vita viene riconosciuta come una metafisica che
poggia su una visione unilaterale, non arbitraria cioè ma parziale, della vita,
e la dottrina di un valore oggettivo della vita come una metafisica che va
oltre ogni possibile esperienza. Ma noi abbiamo esperienza di una connessione
della vita e della storia, in cui ogni parte ha un significato. Come le lettere
di una parola, la vita e la storia hanno un senso, e come una particella o una
coniugazione, nella vita e nella storia vi sono momenti sintattici che hanno un
significato. Ogni uomo procede alla sua ricerca. Nel passato si è cercato di
penetrare la vita in base al mondo; ma c'è solo la via che procede
dall’interpretazione della vita al mondo, e la vita esiste solo nell’Erleben,
nell’intendere e nella comprensione storica. Noi non rechiamo nella vita nessun
senso del mondo. Noi siamo aperti alla possibilità che senso e significato
sorgano soltanto nell’uomo e nella sua storia. Ma non nell’uomo singolo, bensì
nell’uomo storico, poiché l’uomo è un essere Storico. Tra i motivi che sempre
dànno nuovo alimento allo scetticismo, l’anarchia dei sistemi filosofici è uno
dei più potenti. Tra la coscienza storica della loro illimitata molteplicità e
la pretesa di ognuno di essi a una validità universale sussiste una contraddizione
che sostiene lo spirito scettico in misura maggiore di qualsiasi dimostrazione
sistematica. Illimitata, caotica, la molteplicità dei sistemi filosofici sta
alle nostre spalle e si estende intorno a noi: in ogni tempo, fin da quando
esistono, essi si sono esclusi e combattuti a vicenda. E non si intravvede
alcuna speranza che si possa giungere a una decisione tra di essi. La storia
della filosofia conferma questo effetto che l’antitesi dei sistemi filosofici,
delle intuizioni religiose e dei princìpi etici ha sull’incremento della
scepsi. La lotta tra le spiegazioni del mondo del pensiero greco più antico
produsse la filosofia del dubbio all’epoca dell’illuminismo greco. Quando le
campagne di Alessandro e l’unione di differenti popoli in regni più grandi
misero davanti agli occhi dei Greci le diversità dei costumi, delle religioni,
delle visioni della vita e del mondo, si * Die Typen der Weltanschauung und
ihre Ausbildung in den metaphysischen Systemen, nella raccolta Weltanschauung,
Philosophie und Religion in Darstellungen (a cura di M. Frischeisen-Kéhler),
Berlin, Verlag Reichl und Co., 1911, pp. 1-51, ora in Gesammelte Schriften,
Leipzig und Berlin, vol. VIII, 1931, pp. 75-118 (traduzione di Sandro Barbera e
Pietro Rossi). 214 WILHELM DILTHEY formarono le scuole scettiche, le quali
estesero le loro operazioni corrosive anche ai problemi della teologia — il
male e la teodicea, il conflitto tra la personalità divina e la sua infinitezza
e perfezione — e alle assunzioni concernenti il fine etico dell'uomo. Anche il
sistema di credenze dei popoli europei moderni e la loro dogmatica filosofica
vennero seriamente scossi, nella loro universale validità, dal momento in cui —
alla corte di Federico II Hohenstaufen — Maomettani e Cristiani pervennero a un
raffronto reciproco delle loro convinzioni e nell'orizzonte del pensiero
scolastico penetrò la filosofia di Averroè e di Aristotele. E quando
l’antichità risorse, quando gli scrittori greci e romani furono compresi nei
loro autentici motivi e l'epoca delle scoperte geografiche pervenne a conoscere
in misura crescente la varietà dei climi, dei popoli e dei loro modi di pensare
presenti sul nostro pianeta, scomparve del tutto la fiducia degli uomini nelle
credenze fin allora saldamente delimitate. Oggi i viaggiatori accertano e
annotano con cura i più diversi tipi di fede; noi registriamo e analizziamo i
potenti, grandi fenomeni delle convinzioni religiose e metafisiche che si
trovano presso i ceti sacerdotali dell'Oriente, nelle città-stato greche, nella
cultura araba. Noi guardiamo indietro alla sconfinata distesa di rovine delle
tradizioni religiose, delle affermazioni metafisiche, dei sistemi dimostrati:
lo spirito umano ha tentato e saggiato, nel corso di molti secoli, possibilità
di ogni tipo per fondare scientificamente la connessione delle cose, per
rappresentarla poeticamente o per annunciarla religiosamente; e la ricerca
storica condotta con metodo critico indaga ogni frammento, ogni residuo di
questo lungo lavoro compiuto dalla nostra specie. Ogni sistema esclude l’altro,
lo confuta; e nessuno riesce a dimostrare se stesso. Nelle fonti storiche non ci
è dato trovare nulla di analogo al sereno dialogo che caratterizza la Scuola
d’Atene dipinta da Raffaello, espressione della tendenza eclettica di quel
tempo. In tal modo la contraddizione tra la crescente coscienza storica e la
pretesa delle filosofie a una validità universale è diventata sempre più aspra,
e sempre più generale la disposizione alla curiosità dilettevole nei confronti
di nuovi sistemi filosofici, quale che sia il pubblico che possono raccogliere
intorno a sé e il tempo per cui possono trattenerlo. WILHELM DILTHEY 215 2.
Assai più in profondo delle conclusioni scettiche che muovono dal carattere
antitetico delle opinioni umane giungono però i dubbi cresciuti sul terreno
della progressiva formazione della coscienza storica. Era un tipo d’uomo
compiuto, dotato di un contenuto spirituale determinato, che costituiva il
presupposto dominante del pensiero storico dei Greci e dei Romani. Questo
stesso tipo stava alla base della dottrina cristiana del primo e del secondo
Adamo, del figlio dell'uomo. Il sistema naturale del secolo xvi era sorretto
dal medesimo presupposto. Il sistema naturale scoprì nel Cristianesimo un
paradigma astratto e durevole di religione — la teologia naturale; dalla
giurisprudenza romana astrasse la dottrina del diritto naturale e dalla
produzione artistica greca un modello di gusto. Secondo questo sistema
naturale, in ogni diversità storica erano quindi contenute forme fondamentali,
costanti e universali, di ordinamenti sociali e giuridici, di fede religiosa e
di eticità. II metodo di derivare dalla comparazione delle forme di vita
storica un elemento comune, di estrarre dalla molteplicità dei costumi, delle
proposizioni giuridiche e delle teologie, attraverso il concetto di un tipo
supremo, un diritto naturale, una teologia naturale e una morale razionale —
secondo un procedimento che, a partire da Ippia!, si era sviluppato attraverso
lo Stoicismo e il pensiero romano — dominava ancora il secolo della filosofia
costruttiva. La dissoluzione del sistema naturale ebbe inizio con lo spirito
analitico del secolo xvi. Esso prese l’avvìo dall'Inghilterra, dove la più
libera prospettiva su forme di vita, costumi e modi di pensare barbari e
stranieri si incontrerà con le teorie empiristiche e con l'applicazione del
metodo analitico alla teoria della conoscenza, alla morale, all'estetica. Con
Voltaire e Montesquieu questo spirito passò poi in Francia. Hume e d’Alembert,
Condillac e Destutt de Tracy? videro nel fascio I. Ippia di Elide, sofista
vissuto tra la seconda metà del secolo v e la prima del secolo Iv a. C., si
occupò di problemi matematici e astronomici, nonché di grammatica, di retorica
e di dialettica. Dilthey si riferisce qui alla distinzione tra « leggi scritte
», proprie delle singole città, e le « leggi non scritte », comuni a tutti gli
uomini e aventi il loro fondamento nella natura. 2. Antoine-Louis-Claude
Destutt de Tracy (1754-1836), sviluppò la teoria della conoscenza di Condillac
nell'« ideologia », concepita come analisi delle facoltà e del pro216 WILHELM
DILTHEY di impulsi e di associazioni — così concepirono l’uomo — illimitate
possibilità di far emergere le forme più svariate tra la diversità di clima, di
costumi e di educazione. L'espressione classica di questo modo di
considerazione storica furono la Natural History of Religion e i Dialogues
concerning Natural Religion di Hume. E dai lavori di questo secolo xvi scaturì
già l’idea dello sviluppo, che doveva poi dominare il secolo xix. Da Buffon?
fino a Kant e a Lamarck* viene acquisita la conoscenza dello sviluppo della terra,
del succedersi su di essa di differenti forme di vita. D'altra parte si
formava, in lavori di importanza decisiva, lo studio dei popoli civili: a
partire da Winckelman, Lessing e Herder, questi lavori applicarono ovunque
l’idea di sviluppo. Da ultimo, nello studio dei popoli primitivi si trovò
l’elemento intermedio tra la dottrina scientifica dello sviluppo e le
conoscenze storico-evolutive fondate sulla vita statale, sulla religione, sul
diritto, sui costumi, sul linguaggio, sulla poesia e sulla letteratura dei
popoli. In tal modo il punto di vista storico-evolutivo poteva venir realizzato
nello studio dell’intero sviluppo naturale e storico dell’uomo, e il tipo
«uomo» si risolveva in questo processo di sviluppo. La dottrina dello sviluppo
così formatasi è necessariamente legata alla conoscenza della relatività di
ogni forma di vita storica. Di fronte allo sguardo che abbraccia la terra e
tutto il passato scompare la validità assoluta di qualsiasi singola forma di
vita, costituzione, religione o filosofia. Così la formazione della coscienza
storica distrugge, ancora più radicalmente della disputa tra i vari sistemi, la
fede nella validità universale di qualsiasi filosofia che abbia voluto
esprimere in modo rigoroso la connessione del mondo mediante una connessione
concettuacesso di formazione e di combinazione delle idec. La sua opera
principale è rappresentata dagli E/4ments d'idéologie (1801-17). 3.
Gcorges-Louis Leclerc conte di Buffon (1707-1788), grande naturalista autore di
una monumentale Histoire naturelle, générale et particuliòre (1749-1804),
intraprese per primo un tentativo di classificazione sisternatica delle specie
viventi affermando la loro continuità nell’ambito della « catena » degli
esseri. 4. Jcan-Baptiste-Pierre-Antoine de Monet de Lamarck (1744-1829),
naturalista autore di numerose opere tra cui la Philosophie zoologique (1809) e
la Histoire naturelle des animaux sans vertèbres (1815-22), fu tra i fondatori
della teoria evoluzionistica: egli affermò la capacità di trasformazione delle
specie biologiche in conseguenza del rapporto con l'ambiente, nonché la
trasmissibilità dei caratteri acquisiti nel corso della trasformazione. WILHELM
DILTHEY 217 le. La filosofia deve cercare non già nel mondo ma nell’uomo la
connessione interna delle proprie conoscenze. Intendere la vita vissuta
dell’uomo — questa è l’aspirazione dell’uomo moderno. La molteplicità dei
sistemi, che hanno cercato di cogliere la connessione del mondo, è in
connessione manifesta con la vita; essa è una delle sue creazioni più
importanti e più istruttive, per cui la stessa formazione della coscienza
storica, che ha esercitato una funzione così distruttiva rispetto ai grandi
sistemi, dovrà fornirci gli strumenti per eliminare l’aspra contraddizione
esistente tra la pretesa di validità universale di ogni sistema filosofico e
l'anarchia storica di questi sistemi. I. VITA E INTUIZIONE DEL MONDO 1. La
vita. La radice ultima dell’intuizione del mondo è la vita. Diffusa sulla terra
in innumerevoli corsi di vita particolari, rivissuta in ogni individuo,
saldamente assicurata nella risonanza del ricordo — dal momento che, in quanto
mero attimo del presente, si sottrae all’osservazione — e d’altra parte
afferrabile più compiutamente in tutta la sua profondità, così come essa si è
oggettivata nelle sue manifestazioni, da parte dell’intendere e
dell’interpretazione che non in qualsiasi percezione interiore e in qualsiasi
apprendimento del proprio Er/ebris, la vita ci è presente nel nostro sapere in
innumerevoli forme, e mostra tuttavia ovunque gli stessi tratti comuni. Tra le
sue diverse forme ne metto in rilievo «24. Non spiego, non separo in parti; mi
limito a descrivere lo stato che ognuno può osservare in se stesso. Ogni
pensiero, ogni azione interna o esterna emerge come una punta raccolta e
penetra avanti. Mi è però anche possibile rivivere uno stato di quiete
interiore; esso è sogno, gioco, distrazione, sguardo all’intorno e lieve
agilità — come sostrato della vita. In esso comprendo altri uomini e altre cose
non soltanto come realtà che stanno con me e tra di loro in una connessione
causale: da me si dipartono in ogni direzione relazioni vitali, io mi rapporto
a uomini e cose, prendo posizione nei loro confronti, soddisfo le loro esigenze
verso di me e mi attendo da essi qualcosa. Le une mi rendono felice, ampliano
la mia esistenza, accrescono la mia forza; le altre esercitano su di me una
pressione e mi limitano, E dove la determinatezza della singola tendenza che
spinge in avanti lascia spazio all’uomo, egli nota e sente queste relazioni.
L'amico è per lui una forza che innalza la sua esistenza, ogni membro della
famiglia ha un posto determinato nella sua vita, e tutto quanto lo circonda
viene da lui inteso come vita e come spirito che si sono oggettivati. La panca
davanti alla porta di casa, l’albero ombroso, la casa e il giardino hanno in
questa oggettivazione la loro essenza e il loro significato. È in questo modo
che la vita di ogni individuo crea da sé il proprio mondo. 2. L'esperienza
della vita. Dalla riflessione sulla vita sorge l’esperienza della vita. I
singoli eventi, che il fascio di impulsi e di sentimenti richiama in noi
all'atto dell’incontro con il mondo circostante e col destino, vengono in essa
raccolti in un sapere oggettivo e universale. Nello stesso modo in cui la
natura umana è sempre la medesima, sono comuni a tutti anche i tratti
fondamentali dell'esperienza della vita: la transitorietà delle cose umane e la
nostra forza di godere l’attimo; la tendenza delle nature forti o anche
limitate a superare questa transitorietà con la costruzione di una solida
impalcatura della loro esistenza; l’insoddisfazione delle nature meno
resistenti o più pensierose di fronte ad essa e la nostalgia per un elemento
realmente duraturo in un mondo invisibile; la penetrante potenza delle passioni
che, come un sogno, creano immagini fantastiche finché in esse si smarrisce
l'illusione. Così l’esperienza della vita si forma in maniera differente nei
singoli individui. Il loro substrato comune in tutti è formato dalle intuizioni
della potenza del caso, della corruttibilità di tutto ciò che possediamo,
amiamo o anche odiamo e temiamo, della costante presenza della morte, che
determina onnipotente per ciascuno di noi il significato e il senso della vita.
Nella catena degli individui sorge l’esperienza universale della vita. Sulla
base della ripetizione regolare delle singole esperienze si forma — nella
coesistenza e nella successione deWILHELM DILTHEY 219 gli uomini — una
tradizione di espressioni, che col trascorrere del tempo acquistano una precisione
e sicurezza sempre maggiore. La loro sicurezza poggia sul numero sempre
crescente dei casi da cui perveniamo a una conclusione, sulla loro
subordinazione a generalizzazioni precedenti e su una continua verifica. Anche
dove, in un singolo caso, i princìpi dell’esperienza della vita non vengono
recati a coscienza, essi agiscono su di noi. Tutto quanto ci domina sotto forma
di costume, di consuetudine, di tradizione, è fondato su tali esperienze della
vita. Ma sempre, nelle esperienze particolari come in quelle universali, il
tipo di certezza e il carattere della formulazione è assolutamente diverso
dalla validità universale propria della scienza. Il pensiero scientifico può
controllare il procedimento sul quale poggia la sua sicurezza, può formulare esattamente
e fondare le sue proposizioni: la nascita del nostro sapere dalla vita non può
essere controllato nello stesso modo, e non possiamo progettare formule fisse
per esprimerla. A queste esperienze della vita appartiene anche il saldo
sistema di relazioni entro cui l’identità dell'io è collegata con le altre
persone e con gli oggetti esterni. La realtà di se stesso, delle persone
estranee, delle cose intorno a noi, e le loro relazioni regolari formano
l’impalcatura dell’esperienza della vita e della coscienza empirica che in essa
si forma. L’io, le persone, le cose circostanti possono essere designati come
fattori della coscienza empirica, che ha la sua consistenza nelle relazioni
reciproche di questi fattori. E quali che siano le procedure del pensiero
filosofico mediante cui esso astrae dai singoli fattori o dalle loro relazioni,
questi rimangono i presupposti determinanti della vita stessa, indistruttibili
al pari di essa e non modificabili da alcun pensiero, in quanto sono fondati
nell'esperienza della vita di innumerevoli generazioni. Tra queste esperienze
della vita le più importanti sono quelle che fondano la realtà del mondo
esterno e le mie relazioni con esso, poiché limitano la mia esistenza,
esercitano su di essa una pressione che non posso eliminare e ostacolano le mie
intenzioni in una maniera inattesa e non modificabile. L’insieme delle mie
induzioni, la somma del mio sapere riposa su questi presupposti fondati nella
coscienza empirica. 220 WILHELM DILTHEY 3. Il mistero della vita. Dalle mutevoli
esperienze della vita emerge, di fronte all’apprendimento orientato verso la
totalità, il volto della vita: volto contraddittorio, vitalità e al tempo
stesso legge, ragione e arbitrio, volto che offre aspetti sempre nuovi, e
quindi chiaro forse nei particolari ma completamente misterioso nell’insieme.
L’anima cerca di raccogliere in un complesso le relazioni della vita e le
esperienze in esse fondate, ma non vi riesce. Al centro di tutte le cose
incomprensibili stanno la procreazione, la nascita, lo sviluppo e la morte. Il
vivente sa della morte, e non è tuttavia in grado di intenderla. Già dal primo
sguardo a un morto, la morte risulta incomprensibile alla vita: su ciò poggia
anzitutto la nostra posizione di fronte al mondo come a qualcosa di altro, di
estraneo e di terribile. Nel fatto della morte vi è quindi una forza che
costringe a rappresentazioni fantastiche che hanno il compito di rendere
intelligibile questo fatto; fede nei morti, culto degli antenati, culto dei
trapassati generano le rappresentazioni fondamentali della fede religiosa e
della metafisica. E l’estraneità della vita si accresce nella misura in cui
l’uomo sperimenta nella società e nella natura una lotta permanente,
l’annientamento continuo di una creatura da parte di un’altra, la spietatezza
di ciò che opera nella natura. Emergono strane contraddizioni che
nell'esperienza della vita vengono sempre più forti alla coscienza e non sono
mai risolte: tra l’universale transitorietà e la volontà in noi presente verso
qualcosa di saldo, tra la potenza della natura e l'autonomia del nostro volere,
tra la limitatezza di ogni cosa nello spazio e nel tempo e la nostra facoltà di
oltrepassare ogni limite. Questi misteri hanno impegnato i sacerdoti egizi e
babilonesi al pari della predicazione cristiana, Eraclito al pari di Hegel, il
Prometeo eschileo al pari del Faust di Goethe. 4. La legge di formazione delle
intuizioni del mondo. Ogni grande impressione mostra all'uomo la vita in un
aspetto particolare; il mondo appare in una luce diversa; dal momento che
queste esperienze si repetono e si connettono, sorgono le nostre disposizioni
interiori nei confronti della vita. WILHELM DILTHEY 221 Da una relazione vitale
la vita intera riceve una colorazione e un’interpretazione nelle anime
affettive o pensierose — così sorgono le disposizioni universali. Esse cambiano
man mano che la vita mostra all'uomo aspetti sempre nuovi; ma nei diversi
individui predominano, secondo la loro essenza, determinate disposizioni di
vita. Gli uni si attaccano alle cose concrete, sensibili, e vivono nel
godimento immediato; altri perseguono, attraverso il caso e il destino, grandi
scopi che dànno durata alla loro esistenza; vi sono nature gravi che non
sopportano la transitorietà di ciò che amano e posseggono, e alle quali la vita
appare quindi priva di valore e quasi intessuta da vanità e da sogni, oppure
che cercano qualcosa di permanente al di là di questa terra. Le più universali
tra le grandi disposizioni di vita sono l’ottimismo e il pessimismo. Essi si
differenziano però in svariate sfumature. A chi lo contempla in qualità di
spettatore, il mondo — estraneo — appare come uno spettacolo variopinto e
fuggevole; a chi governa ordinatamente la propria vita secondo un progetto, lo
stesso mondo appare invece familiare, di casa: egli sta nel mondo a pie’ fermo
e appartiene ad esso. Queste disposizioni di vita, le innumerevoli sfumature
della posizione di fronte al mondo, costituiscono il terreno per laformazione
delle intuizioni del mondo. In queste si compiono, sulla base delle esperienze
di vita in cui sono operanti le molteplici relazioni vitali degli individui nei
confronti del mondo, i tentativi per risolvere il mistero della vita. E proprio
nelle loro forme superiori si fa valere in modo particolare un procedimento: la
comprensione di un dato incomprensibile mediante uno più chiaro. Ciò che è
chiaro diventa mezzo di comprensione o fondamento di spiegazione di ciò che è
incomprensibile. La scienza analizza, e quindi sviluppa relazioni generali
dalle situazioni omogenee così isolate; religione, poesia e metafisica
originaria esprimono il significato e il senso della totalità. Quella conosce,
queste intendono. Una tale interpretazione del mondo, che rende trasparente la
sua essenza molteplice attraverso un'essenza più semplice, comincia già col
linguaggio, per svilupparsi poi nella metafora in quanto sostituzione di
un'intuizione mediante un’altra affine che la rende in qualche senso più
chiara, nella personificazione che avvicina e rende comprensibile umanizzando,
oppure attraverso ragionamenti analogici, che determinano il meno noto a
partire dal più noto sulla base dell’affinità e così si accostano ormai al
pensiero scientifico. Ovunque la religione, il mito, la poesia e la metafisica
originaria cercano di rendere qualcosa intelligibile e capace di suscitare
impressione, ciò avviene mediante il medesimo procedimento. |, 5. La struttura
dell’intuizione del mondo. Tutte le intuizioni del mondo, quando si propongono
di fornire una soluzione compiuta del mistero della vita, contengono di regola
la stessa struttura. Questa struttura è sempre una connessione in cui, sulla
base di un'immagine del mondo, vengono decise le questioni relative al
significato e al senso del mondo, e da essa vengono derivati l’ideale, il sommo
bene, i princìpi supremi della condotta della vita. Essa è determinata dalla
legalità psichica in virtù della quale l'apprendimento della realtà nel corso
della vita costituisce la base per la valutazione delle situazioni e degli
oggetti secondo i criteri di piacere e di dispiacere, di gradevole e di
sgradevole, di approvazione e di disapprovazione; e questa valutazione della
vita forma quindi a sua volta il substrato delle determinazioni del volere. Il
nostro comportamento attraversa regolarmente queste tre posizioni della
coscienza, e la natura peculiare della vita psichica si fa valere nel fatto che
in tale connessione dinamica persiste lo strato sottostante: le relazioni
presenti negli atteggiamenti in base a cui io giudico gli oggetti, provo
piacere di fronte ad essi e sono indirizzato alla realizzazione di qualcosa in
essi, determinano la costruzione di questi diversi strati e costituiscono in
tal modo la struttura delle formazioni in cui la connessione dinamica della
vita psichica. trova la propria espressione. La lirica mostra nella forma più
semplice questa connessione — una situazione, una successione di sentimenti da
cui spesso scaturisce un desiderio, una tensione, un'azione. Ogni rapporto
vitale si sviluppa verso una connessione in cui le medesime forme di atteggiamento
sono legate strutturalmente. Così anche le intuizioni del mondo sono formazioni
regolari in cui si esprime questa struttura della vita psichica. Il loro
substrato è sempre un'immagine del mondo; essa sorge dall’atteggiamento
dell’apprendere quale si presenta nella successione regolare dei gradi del
conoscere. Noi osserviamo processi interiori e oggetti esterni. Noi spieghiamo
le percezioni che in questo modo sorgono rendendo in esse trasparenti, mediante
le funzioni clementari del pensiero, i rapporti fondamentali del reale; quando
le percezioni svaniscono, esse vengono tuttavia riprodotte e ordinate nel
nostro universo di rappresentazioni, che ci solleva al di sopra
dell’accidentalità delle percezioni; la saldezza e la libertà che lo spirito
acquisisce a questo livello, il suo dominio sulla realtà giungono poi a
compimento nella regione dei giudizi e dei concetti, dove la connessione e
l’essenza del reale vengono colte come fornite di validità universale. Quando
un’intuizione del mondo giunge al suo pieno sviluppo, ciò avviene di regola a
questi gradi di conoscenza della realtà. A questo punto su di essa si
costruisce un altro atteggiamento tipico, in un’analoga regolare successione di
livelli. Nel sentimento di noi stessi assaporiamo il valore della nostra
esistenza, attribuiamo a persone e a oggetti che ci circondano una capacità di
influenza sulla nostra esistenza, in quanto la elevano e la estendono: quindi
determiniamo questi valori secondo le possibilità di recar giovamento 0 danno
che sono contenute negli oggetti, valutiamo tali possibilità e cerchiamo per
questa valutazione una misura incondizionata. In tal modo situazioni, persone e
cose acquistano un significato in rapporto al complesso della realtà, e questo
ne riceve un senso. Percorrendo questi gradi nell’ atteggiamento del sentire si
forma per così dire, nella struttura dell’intuizione del mondo, un secondo
strato; l’immagine del mondo diventa fondamento della vita e della comprensione
del mondo. Secondo la medesima legalità della vita psichica, dall’apprezzamento
della vita e dalla comprensione del mondo emerge uno stato supremo della
coscienza: gli ideali, il sommo bene e i princìpi supremi in cui l'intuizione
del mondo ottiene la sua energia pratica — come dire, la punta con cui essa si
apre un varco nella vita umana, nel mondo esterno e nella profondità
dell'anima. L’intuizione del mondo si fa ora formatrice, plasmatrice.
riformatrice! E anche questo stato supremo dell’intuizione del mondo si
sviluppa attraverso gradi differenti. Dall’intenzione, dalla tensione, dalla
tendenza si sviluppano le posizioni di scopo durevoli indirizzate alla
realizzazione di una rappresentazione, il rapporto tra scopi e mezzi, la scelta
tra gli scopi, la selezione dei mezzi e infine la connessione delle posizioni
di scopo in un ordinamento supremo del nostro comportamento pratico — in un
progetto complessivo di vita, in un sommo bene, in norme supreme dell’agire, in
un ideale di formazione della vita personale e della società. Questa è la
struttura dell’intuizione del mondo. Ciò che è confusamente contenuto come un
fascio di compiti nel mistero della vita, viene qui elevato a una connessione
consapevole e necessaria di problemi e di soluzioni. Questa progressione si
svolge secondo gradi determinati in maniera regolare dall’interno: ne consegue
che ogni intuizione del mondo ha uno sviluppo e nel corso di questo perviene
all’esplicazione del suo contenuto; essa ottiene così gradualmente durata,
saldezza e potenza, nel corso del tempo: essa è un prodotto della storia. 6. La
molteplicità delle intuizioni del mondo. Le intuizioni del mondo si sviluppano
in condizioni differenti. Il clima, le razze, le nazioni determinate attraverso
la storia e la formazione degli stati, le delimitazioni temporalmente
condizionate secondo epoche ed età in cui le nazioni cooperano, si collegano
alle condizioni specifiche che producono la molteplicità delle intuizioni del
mondo. La vita, che nasce in queste condizioni specificate, ha moltissimi
aspetti; lo stesso vale per l’uomo che apprende la vita. A queste differenze
tipiche si aggiungono quelle delle singole individualità, del loro ambiente e
della loro esperienza di vita. Nello stesso modo in cui la terra è ricoperta di
innumerevoli forme viventi, tra le quali ha luogo una lotta continua per la
sopravvivenza e per lo spazio vitale, nel mondo umano si sviluppano le forme di
intuizione del mondo, contendendosi tra loro il potere sull’anima. Si fa così
valere un rapporto regolare per cui l’anima, spinta dall’incessante mutamento
delle impressioni e dei destini, nonché dalla potenza del mondo esterno, deve
tendere a una saldezza interiore per potersi contrapporre a tutto ciò: essa
viene condotta dal mutamento, dalla discontinuità, dallo scivolare e dal fluire
della sua costituzione, delle sue intuizioni della vita, a una valutazione
durevole della vita e a fini ben definiti. Le intuizioni del mondo che
promuovono la comprensione della vita e conducono a fini utili, si conservano e
soppiantano quelle che meno rispondono a queste esigenze. Si compie così una
selezione tra di esse. E nella successione delle generazioni le intuizioni del
mondo più vitali si sviluppano verso una forma sempre più compiuta. E come
nella molteplicità della vita organica opera la stessa struttura, così anche le
intuizioni del mondo sono formate secondo un medesimo schema. Il profondo
mistero della loro specificazione ha la sua base nella regolarità che la
connessione teleologica della vita psichica imprime alla particolare struttura
delle formazioni di intuizione del mondo. i AI centro dell’apparente
accidentalità di queste formazioni vi è, in ognuna di esse, una connessione
teleologica che scaturisce dalla reciproca dipendenza delle questioni contenute
nel mistero della vita, e in modo particolare dal rapporto costante tra
immagine del mondo, apprezzamento della vita e fini della volontà. Una comune
natura umana e un ordine dell’individuazione stanno in salde relazioni vitali
con la realtà; e quest'ultima è sempre e dovunque la stessa, la vita mostra
sempre gli stessi aspetti. In questa regolarità della struttura dell’intuizione
del mondo e del suo differenziarsi in forme particolari si presenta un momento
impercettibile: le variazioni della vita, il mutamento delle epoche, le
trasformazioni della situazione scientifica, il genio delle nazioni e degli
individui. In virtù di ciò cambia incessantemente l’interesse ai problemi, la
potenza di determinate idee che sorgono dalla vita storica e che la dominano;
nelle intuizioni del mondo si fanno valere, secondo il luogo storico che
occupano, combinazioni sempre nuove dell’esperienza della vita, disposizioni
interiori e pensieri sempre nuovi: esse sono irregolari in conformità ai loro
elementi, alla forza e al significato che questi ultimi assumono nel complesso.
Tuttavia, a causa della legalità che opera nel profondo della struttura e della
regolarità logica, esse non sono aggregati ma formazioni. A questo punto,
sottoponendo queste formazioni a un procedimento comparativo, risulta inoltre
che esse si ordinano in gruppi all’interno dei quali sussiste una certa
affinità. Come le lingue, le religioni, gli stati rivelano — in virtù del
metodo comparativo — certi tipi, certe linee di sviluppo e regole di
trasformazione, la stessa cosa si può mostrare anche nelle intuizioni del mondo.
Questi tipi attraversano la singolarità storica delle formazioni particolari.
Essi sono sempre condizionati dalla particolarità propria del campo in cui
sorgono. Ma volerli derivare da tale particolarità è stato un grave errore,
proprio del metodo costruttivo. Soltanto il procedimento storico comparativo
può accostarsi alla determinazione di questi tipi, delle loro variazioni, dei
loro sviluppi e incroci. La ricerca deve pertanto tener sempre aperta, nei
confronti dei suoi risultati, ogni possibilità di prosecuzione. Qualsiasi
analisi è solamente provvisoria. Essa è e rimane nient’altro che uno strumento
per vedere in modo storicamente più profondo. E al procedimento storico
comparativo si collega sempre la sua preparazione mediante l’osservazione
sistematica e l’interpretazione dell’elemento storico che ne scaturisce. Anche
quest’interpretazione psicologica e storico-sistematica della realtà storica è
esposta all'errore del pensiero costruttivo, che in ogni campo dell’ordinamento
vuol porre alla base un rapporto semplice, come se fosse un impulso formativo
in esso presente. Riassumiamo ora quanto è stato fin qui posto in luce in un
principio, che la considerazione storica comparativa conferma in ogni punto. Le
intuizioni del mondo non sono prodotti del pensiero; esse non nascono dalla
mera volontà di conoscenza. L'apprendimento della realtà è certo un momento
importante, ma è soltanto un momento. Esse scaturiscono dall’atteggiamento di
vita, dall'esperienza della vita, dalla struttura della nostra totalità psichica.
L’elevazione della vita a coscienza nella conoscenza della realtà, nella
valutazione della vita e nell'operazione della volontà è il lungo e difficile
lavoro che l'umanità ha compiuto nello sviluppo delle intuizioni della vita.
Questo principio della dottrina delle intuizioni del mondo riceve conferma se
poniamo mente al corso della storia nel suo insieme: mediante tale corso
risulta confermata una conseguenza importante del nostro principio, che ci
riporta al punto di partenza di questo saggio. La formazione delle intuizioni
del mondo è determinata dalla volontà rivolta alla stabilità dell’immagine del
mondo, della valutazione della vita, dell’azione delWILHELM DILTHEY 227 la
volontà, derivante dal carattere fondamentale — sopra descritto — della successione
di gradi dello sviluppo psichico. Sia la religione sia la filosofia cercano la
stabilità, l’efficacia, il dominio, la validità universale. Ma su questa via
l'umanità non ha fatto un solo passo avanti. La lotta reciproca tra le
intuizioni del mondo non è pervenuta ad alcuna decisione in nessuno dei suoi
punti nodali. Certamente la storia compie una selezione tra di esse, ma i
grandi tipi permangono autosufficienti, indimostrabili e indistruttibili, gli
uni accanto agli altri. Essi non devono la loro origine ad alcuna
dimostrazione, perché non possono essere risolti da alcuna dimostrazione. I
singoli gradi e le formazioni specifiche di un tipo vengono sì confutate, ma la
loro radice nella vita perdura, continua ad agire e produce sempre nuove formazioni.
II. I TIPI DI INTUIZIONE DEL MONDO NELLA RELIGIONE, NELLA POESIA E NELLA
METAFISICA Prendo le mosse da una distinzione tra le intuizioni del mondo che è
condizionata dai campi della cultura in cui esse compaiono. Il fondamento della
cultura è formato dall’economia, dalla vita sociale, dal diritto e dallo stato.
In ciascun campo domina una divisione del lavoro in virtù della quale la
singola persona assolve, in un determinato luogo storico del suo operare, una
funzione determinata. Qui la volontà è inquadrata in compiti delimitati che
vengono ad essa assegnati dalla connessione teleologica propria di un dato
campo. La scienza introduce in questa connessione pratica della vita, mediante
la conoscenza, una regolamentazione razionale del lavoro; in questo modo sta in
connessione strettissima con la prassi e, poiché anch'essa sottostà alla legge
della divisione del lavoro, ogni scienziato si prefigge, in un determinato
campo e in un determinato punto del lavoro conoscitivo, un compito limitato. La
stessa filosofia è sottomessa, in una parte dalle sue funzioni, a questa
divisione del lavoro. Invece il genio religioso, poetico o metafisico vive in
una regione in cui è sottratto al vincolo sociale, al lavoro racchiuso in
compiti delimitati, alla subordinazione a ciò che 228 WILHELM DILTHEY può venir
raggiunto nei limiti del tempo e della situazione storica. Ogni riguardo a tale
vincolo falsifica anzi la sua comprensione della vita, che deve porsi di fronte
a ciò che è dato in piena spontaneità e sovranità. Essa diventa non vera già a
causa della limitazione della prospettiva, del riferimento a una situazione
temporale — a causa di una qualsiasi tendenza. In questa regione della libertà
sorgono e si formano le intuizioni del mondo più valide e più potenti. Le
intuizioni del mondo sono però distinte nel genio religioso, in quello
artistico e in quello metafisico secondo la loro legge di formazione, la loro
struttura e i loro tipi. 1. L'intutzione religiosa del mondo. Le intuizioni
religiose del mondo scaturiscono da un particolare rapporto di vita dell’uomo.
Al di là della realtà dominabile in cui l’uomo primitivo — in quanto guerriero,
cacciatore, lavoratore e fruitore del suolo — produce trasformazioni nel mondo
esterno, mediante il suo agire fisico, in una razionale posizione di scopi, il
campo di tale operare si estende fino all’inaccessibile, a ciò che non è
attingibile da parte della conoscenza. E in quanto di qui gli sembrano
procedere effetti che gli procurano fortuna nella caccia, successo nella
guerra, mentre nella malattia, nella follia, nella vecchiaia, nella morte,
nella perdita della moglie, dei figli, del gregge, si scopre dipendente da
qualcosa di sconosciuto, nasce allora la tecnica diretta a influenzare questa
realtà incomprensibile — che non si lascia dominare dall’attività fisica — con
le proprie preghiere, con le proprie offerte, con la propria subordinazione.
Egli vuole accogliere in sé le forze di esseri superiori, stabilire un buon
rapporto con essi, unirsi ad essi. Le azioni dirette a questo fine costituiscono
il culto originario. Nasce la professione dello stregone, del guaritore o del
sacerdote; man mano che questo ceto si organizza sempre più saldamente, in esso
si concentrano abilità, esperienza, sapere, e vi si forma un modo di vita
particolare che lo separa dagli altri membri della società. In questo modo
nelle piccole comunità chiuse dell’orda e della tribù nasce una tradizione di
esperienza religiosa della vita, che si è sviluppata nel rapporto con gli
esseri superiori, e di ordinamento spirituale di vita; e dalle pratiche del
culto magico lo sviluppo di questa religiosità superstiziosa perviene a poco a
poco fino al processo religioso, nel quale l'animo e la volontà dell’uomo
vengono assoggettate mediante una disciplina interiore al volere divino. II
momento decisivo risiede nel modo in cui le idee religiose primitive si
sviluppano sulla base degli Er/ebnisse, sempre e dovunque ricorrenti, della
nascita, della morte, della malattia, dei sogni, della follia, sulla base di
interventi malvagi o benefici dell'elemento demoniaco sul corso della vita,
sulla base di strane commistioni di ordine nella natura — che comporta sempre
un rapporto teleologico di colui che apprende nei confronti di essa — e infine
sulla base del caso, della forza distruttiva e del conflitto. Il secondo io
presente nell’uomo, le forze divine del cielo, nel sole e nelle stelle, il
demoniaco nella foresta, nella palude e nelle acque — queste rappresentazioni
fondamentali determinate da rapporti vitali costituiscono i punti di partenza
di una vita fantastica condizionata affettivamente, che viene alimentata da
esperienze religiose sempre nuove. L'influenza dell’invisibile è la categoria
fondamentale della vita religiosa elementare. Il pensiero analogico combina poi
le idee religiose fino a tradurle in dottrine concernenti l’origine del mondo,
dell’uomo e dell’anima. L'influenza del soprasensibile, presente nelle cose e
negli uomini, conferisce loro un significato religioso. Queste cose e questi
uomini sono sensibili, visibili, distruttibili, limitati, e tuttavia sono una
sede di influenze divine o demoniache. Il mondo è pervaso da un rapporto
religioso di cose e persone singole, concrete e finite, con l’invisibile, in
virtù del quale il loro significato religioso risiede nell'influenza
dell’invisibile celata in esse. Luoghi e persone sacri, immagini della
divinità, simboli, sacramenti sono tutti casi particolari di questo rapporto:
nella religione esso ha lo stesso significato che possiede il simbolico
nell'arte e il concettuale nella metafisica. E la traduzione diventa,
all’interno del rapporto religioso — proprio a causa dell’oscurità della sua
origine — una potenza di eccezionale efficacia. Questa è la base di tutto
l’ulteriore sviluppo religioso. Mentre negli stadi primitivi opera in
prevalenza lo spirito della comunità, il passaggio verso gradi superiori si
compie in virtù 230 WILHELM DILTHEY del genio religioso — nei misteri, nella
vita dell’eremita, nel profetismo. A influenze particolari tra l'uomo e gli
esseri superiori subentra, nel genio religioso, un rapporto dell’uomo nella sua
totalità nei confronti di essi. Questa esperienza religiosa concentrata
raccoglie quindi le idee religiose elementari per tradurle in intuizioni
religiose del mondo, le quali hanno la loro essenza nel fatto che qui
l’interpretazione della realtà, l'apprezzamento della vita e l'ideale pratico
scaturiscono dal rapporto con l’invisibile. Esse sono contenute nel discorso
metafisico e nelle dottrine della fede; poggiano su una costituzione della
vita; si sviluppano nella preghiera e nella meditazione. Tutte le formazioni
tipiche di queste intuizioni religiose del mondo comportano, fin dal loro
inizio, l’antitesi tra esseri benefici ed esseri malvagi, tra esistenza
sensibile e mondo superiore. L’immanenza della religione universale negli
ordinamenti della vita e nel corso naturale, l’Uno-Tutto spirituale che
costituisce la verità, la connessione e il valore di tutte le cose particolari
e a cui l’esistenza particolare deve quindi fare ritorno, la volontà divina creatrice
che produce il mondo e che crea gli uomini secondo la sua immagine o che sta in
opposizione a un regno del male e per combatterlo prende al suo servizio gli
uomini pii — questi sono i tipi principali delle varie intuizioni religiose del
mondo. E come fin dall'inizio il rapporto con l'invisibile è separato dal
lavoro e dal godimento inerenti all’esistenza sociale terrena, così queste
intuizioni religiose del mondo sono in contrasto permanente con la concezione
mondana della vita: in questa si fa spesso valere, all’interno di tale
antitesi, un naturalismo originario che trae la sua energia e la sua potenza
proprio dall’antitesi nei confronti delle intuizioni religiose del mondo. Nelle
epoche religiose troviamo quindi la lotta tra tipi diversi che mostrano una
chiara affinità con quelli della metafisica. Il monoteismo giudaico-cristiano,
la forma cinese e indiana di panenteismo e — per contro — la posizione e il
modo di pensare naturalistici sono i gradi preliminari e i punti di partenza
per l'ulteriore sviluppo della metafisica. Ma il rapporto religioso, con la sua
magia, con le sue forze, le sue figure e i suoi luoghi di culto religiosi, con
le immagini del simbolismo religioso, costituisce sempre il substrato delle
intuizioni religiose del mondo, nello stesso modo in cui il popolo costituisce
l'ampio strato inferiore della vita comunitaria della chiesa. In queste
intuizioni del mondo si conserva sempre un nucleo oscuro, specificamente
religioso, che il lavoro concettuale dei teologi non è mai in grado di spiegare
e di giustificare. Mai può essere superata l’unilateralità di un’esperienza che
scaturisce dal rapporto di preghiera, di sollecitazione, di sacrificio di sé
con esseri superiori e che dalle relazioni dell'anima con essi perviene a
coglierne i predicati. Di qui nasce un rapporto per cui l’intuizione religiosa
del mondo è sì la preparazione di quella metafisica, ma non può mai risolversi
completamente in quest’ultima. La dottrina giudaico-cristiana del dio puramente
spirituale, che crea liberamente, e delle anime formate a sua immagine si è
trasformata nell’idealismo monoteistico della libertà; le differenti forme
della dottrina religiosa dell’Uno-Tutto hanno preparato il panenteismo
metafisico; nella speculazione indiana, nei misteri e nella Gnosi si è
sviluppato lo schema dell’emanazione della molteplicità del mondo dall’Uno e
del ritorno in esso, qual è stato elaborato dai neoplatonici, da Bruno, da
Spinoza e da Schopenhauer. Altrettanto chiara è la connessione che dal
monoteismo conduce alla teologia scolastica dei pensatori giudaici, arabi e
cristiani, e da essa a Descartes, a Wolff, a Kant e ai filosofi dell'età della
Restaurazione nel secolo xrx. Ma per quanto il lavoro concettuale che la
teologia compie nelle intuizioni religiose del mondo possa accostarle alla
metafisica, la loro legge di formazione e la loro struttura le separano pur
sempre dal pensiero metafisico. Il punto di vista unilaterale della
costituzione religiosa della vita e dell’intuizione religiosa del mondo
costituisce il loro limite. L’animo religioso è sempre, con le sue esperienze,
nel giusto. Lo spirito progressivo riconosce che il fissarsi dell'anima al
mondo sopra-sensibile — questo prodotto storico della tecnica sacerdotale —
manteneva in piedi l’idealismo, sia pure in virtù di una trasposizione
artificiosa, e imponeva un disciplinamento della vita, sia pure con ascetica
rigidità, ma anche che il procedere dello spirito nella storia deve cercare
posizioni più libere nei confronti della vita e del mondo, le quali non devono
essere legate a tradizioni che scaturiscono da discutibili origini misteriose.
Le posizioni dell’intuizione del mondo nella poesia. Nella religione cose e
uomini acquistavano la loro significatività in virtà della fede nella presenza
in essi di un forma soprasensibile. La significatività dell’opera d’arte
consiste nel fatto che un elemento singolare, un dato sensibile viene separato
dal nesso dei rapporti di causa ed effetto ed elevato a espressione ideale
delle relazioni vitali così come esse ci parlano con il colore e la forma, la
simmetria e la proporzione, gli accordi dei suoni e il ritmo, il processo
psichico e l’accadimento. C'è in tutto questo una tendenza a formare
un’intuizione del mondo? In sé, la produzione artistica non ha niente in comune
con l’intuizione del mondo; ma il rapporto della costituzione vitale
dell’artista con la sua opera ha qui tuttavia dato luogo a una relazione
secondaria tra opera d’arte e intuizione del mondo. L’arte si è sviluppata, in
un primo momento, sotto l’influenza della religione. L'ambito delle cose sacre
è il suo oggetto più prossimo; gli scopi della comunità religiosa si fanno
valere nell’architettura e nella musica; in questa connessione l’arte ha
elevato il contenuto della religiosità all’eternità in cui scompaiono i dogmi
transitori, e da questo contenuto è scaturita la forma interna dell’arte più
alta — come mostrano l’epica religiosa di Giotto nella pittura, la grande
architettura ecclesiastica e la musica di Bach e di Handel. Ciò che costituisce
quindi l'andamento storico del rapporto dell’arte con le intuizioni del mondo è
il fatto che la costituzione vitale dell’artista è pervenuta a una libera
espressione sulla base di questo approfondimento religioso dell’arte. Questo
non dev'essere cercato nell’introduzione di un’intuizione della vita nell’opera
d’arte, bensì nella forma interna delle formazioni artistiche. È stato compiuto
uno sforzo considerevole per comprovare la presenza di tale elemento nella
pittura e per mostrare l’influenza delle tipiche costituzioni vitali — da cui
scaturiscono l’intuizione naturalistica del mondo, quella eroica e quella
panenteistica — sulla forma delle opere pittoriche. Un analogo rapporto si
potrebbe mostrare anche nella creazione musicale. E quando artisti della
potenza spirituale di un Michelangelo, di Becthoven, di Richard Wagner
arrivano, in virtù di un impulso interiore, a formare un'intuizione del mondo,
questa contribuirà a rafforWILHELM DILTHEY 233 zare l’espressione della loro
costituzione vitale nella forma artistica. Tra le arti, però, la poesia ha un
rapporto particolare con l'intuizione del mondo. Infatti il mezzo in cui essa
opera, il linguaggio, le consente un'espressione lirica o una rappresentazione
epica o drammatica di tutto ciò che può venir visto, udito, vissuto. Io non
voglio qui tentare di definire l'essenza e la funzione della poesia.
Svincolando un avvenimento dal nesso delle relazioni della volontà, e
trasformando la sua rappresentazione in questo mondo dell’apparenza in
un’espressione della natura della vita, la poesia libera l’anima dal peso della
realtà e nel medesimo tempo ne rivela ad essa il significato. Soddisfacendo la
segreta aspirazione dell’uomo, imprigionato dal destino e dalle proprie
decisioni nei confini di una vita determinata, ad attuare nella fantasia quelle
possibilità di vita che non ha potuto realizzare, essa amplia l’io dell'uomo e
l'orizzonte delle sue esperienze di vita. Essa gli apre lo sguardo verso un
mondo più alto e più forte. In tutto questo si esprime però il rapporto
fondamentale su cui poggia la poesia: la vita costituisce il suo punto di
partenza; i rapporti vitali con gli uomini, le cose, la natura diventano il suo
nucleo; nel bisogno di raccogliere le esperienze che scaturiscono dai rapporti
di vita sorgono così le disposizioni universali della vita, e la connessione di
ciò che si è esperito nei singoli rapporti di vita è la coscienza poetica del
significato della vita. Queste disposizioni universali stanno alla base del
libro di Giobbe e dei Salmi, dei cori della tragedia attica, dei sonetti di
Dante e di Shakespeare, della grandiosa conclusione della Divina Comme- dia,
della grande lirica di Goethe, di Schiller e dei romantici, nonché del Faust di
Goethe, dei Nibelunghi di Wagner e del- l'’Empedocle di Hòlderlin. La poesia non
vuole quindi conosce- re la realtà così come fa la scienza, ma vuol mostrare la
significatività dell’accadimento, degli uomini e delle cose, pre- sente nelle
relazioni vitali; così il mistero della vita si con- centra qui in una
connessione interna di tali relazioni, intessu- ta di uomini, di destini, di
circostanze. In ogni grande epoca poetica si compie di nuovo, secondo una
successione regolare, il passaggio dalla fede e dai costumi ad essa relativi,
che si forma- no sulla base dell’universale esperienza di vita della comunità,
234 WILHELM DILTHEY al compito di rendere nuovamente intelligibile la vita in
base ad essa stessa. Questa fu la via che ha condotto da Omero ai tragici
attici, dalla fede cattolica alla lirica cavalleresca e all’epi- ca, dalla vita
moderna a Schiller, Balzac, Ibsen. A questo passaggio corrisponde la
successione delle forme poetiche nella quale dapprima si forma l’epica e quindi
il dramma realizza la massima concentrazione, elaborando in una concezione
della vita la connessione dei rapporti di azione, di carattere e di destino
creati dalla vita, mentre il romanzo dispiega infine l’illimitata pienezza
della vita ed esprime una coscienza del significato della vita. Concludiamo.
L’emergere della poesia dalla vita la porta direttamente a esprimere
nell’accadimento un'intuizione della vita stessa, concepita sulla base della
sua particolare costituzio- ne. Essa si sviluppa poi nella storia della poesia,
in cui questa si accosta gradualmente al suo fine di intendere la vita in base
a essa stessa, esponendosi con piena libertà alle grandi impres- sioni vitali.
Pertanto la vita mostra alla poesia aspetti sempre nuovi. La poesia indica in
tal modo le possibilità illimitate di vedere la vita, di valutarla, di dare ad
essa una nuova forma. L'accadimento diventa così simbolo, ma non di un
pensiero, bensì di una connessione osservata nella vita — osservata a partire
dall’esperienza di vita del poeta. È così che Stendhal e Balzac vedono nella
vita un tessuto — creato senza finalità dalla natura stessa, in virtù di un
oscuro impulso — di illusio- ni, di passioni, di bellezza e di corruzione, in
cui la volontà forte si acquista la vittoria; Goethe vi scorge invece una forza
formatrice che riunisce in una connessione dotata di valore le forme organiche,
lo sviluppo umano e gli ordinamenti sociali; Corneille e Schiller vedono in
essa il teatro di azioni eroiche. Ognuna di queste costituzioni vitali
corrisponde a una forma interna della poesia. Di qui ai grandi tipi di
intuizione del mondo non c’è che un passo, e il legame della letteratura con i
movimenti filosofici conduce un Balzac, un Goethe, uno Schil- ler a questa
perfezione suprema della comprensione della vita. In tal modo i tipi
dell’intuizione poetica del mondo preparano quelli della metafisica, oppure
trasmettono la loro influenza a tutta la società. WILHELM DILTHEY 235 3. 1 tipi
di intuizione del mondo nella metafisica. Tutti i fili del discorso si
intrecciano nella dottrina della struttura, dei tipi e dello sviluppo delle
intuizioni del mondo nella metafisica. Riassumo i rapporti che sono qui
decisivi. I. Il processo complessivo del sorgere e del consolidamento delle
intuizioni del mondo spinge all’esigenza di elevarle a un sapere universalmente
valido. Anche nei poeti di maggiore ca- pacità di pensiero le grandi
impressioni sembrano illuminare sempre la vita sotto nuovi aspetti: la tendenza
al consolidamen- to conduce al di là di esse. Nel nucleo delle religioni
univer- sali rimane qualcosa di bizzarro e di estremo, che scaturisce dai più
accentuati degli Erlebnisse religiosi, dalla fissazione dell'anima
nell’invisibile propria della tecnica sacerdotale, e che è inaccessibile alla
religione. L’ortodossia si irrigidisce su que- sto; la mistica e lo
spiritualismo tentano di riportarlo all’Erle- ben; il razionalismo vuole
afferrarlo concettualmente e si vede costretto a dissolverlo: così la volontà
di dominio presente nel- le religioni universali — che si era appoggiata
all'esperienza interiore dei credenti, alla tradizione e all’autorità — viene
sostituita dall’esigenza della ragione di trasformare in conformi- tà a se
stessa le intuizioni del mondo e di fondare razionalmen- te la propria
validità. Quando l’intuizione del mondo viene così elevata a una connessione
concettuale, e quando questa viene fondata scientificamente, presentandosi così
con la pretesa di validità universale, allora nasce la metafisica. La storia
mostra che, dovunque essa compaia, lo sviluppo religioso l’ha prepara- ta, che
la poesia la influenza e che la costituzione vitale delle nazioni, il loro
apprezzamento della vita e i loro ideali agisco- no su di essa. L’aspirazione a
un sapere universalmente valido dà a questa nuova forma di intuizione del mondo
la sua struttu- ra propria. Chi è in grado di dire quali siano i punti in cui
la tenden- za al conoscere, che opera in tutte le connessioni teleologiche
della società, diventa scienza? Il sapere matematico e astronomi- co dei
Babilonesi e degli Egizi si è svincolato dai compiti pratici e dal legame con
la casta sacerdotale, ed è così diventato autonomo, soltanto nelle colonie
ioniche. E quando la ricerca prese a suo oggetto la totalità del mondo, la
nascente filosofia e le scienze entrarono in una relazione strettissima.
Matemati- ca, astronomia, geografia diventarono mezzi di conoscenza del mondo.
L'antico problema della soluzione del mistero della vita impegnò i Pitagorici o
Eraclito così come aveva impegnato i sacerdoti dell'Oriente. E se la potenza
avanzante delle scienze naturali fece del problema della spiegazione della
natu- ra il centro della filosofia nelle colonie, nel suo sviluppo ulterio- re
tutte le grandi questioni inerenti al mistero del mondo ven- nero discusse
nelle scuole filosofiche, le quali erano appunto orientate verso la relazione
interna tra conoscenza della realtà, direzione della vita e volontà negli
individui e nella società, ossia verso la formazione di un’intuizione del
mondo. La struttura delle intuizioni del mondo nella metafisica è stata
determinata anzitutto dalla loro connessione con la scien- za. L'immagine
sensibile del mondo si trasformò in immagine astronomica; il mondo del
sentimento e delle azioni della vo- lontà fu oggettivato in concetti di valori,
di beni, di scopi e di regole; l'esigenza di forma concettuale e di fondazione
portò gli indagatori del mistero del mondo a fare della logica e della teoria
della conoscenza la loro base: lo stesso sforzo di soluzio- ne condusse dai
dati condizionati e limitati a un essere universa- le, a una causa prima, a un
sommo bene, a uno scopo ultimo; la metafisica diventò sistema e quest’ultimo
procedette, attraver- so l'elaborazione di rappresentazioni e concetti
insufficienti che si erano formati nella vita e nella scienza, a formare
concetti ausiliari che oltrepassavano qualsiasi esperienza. Al rapporto della
metafisica con la scienza si aggiunse quel- lo con la cultura mondana. In
quanto la filosofia si trasmette allo spirito di ogni connessione teleologica
presente nella cultu- ra, essa ne riceve nuove forze e al tempo stesso
partecipa a questa l’energia della sua idea fondamentale. La filosofia conso-
lida i procedimenti e il valore conoscitivo delle scienze; ela- bora le
esperienze non metodiche della vita e la letteratura che le riguarda,
traducendole in un apprezzamento generale della vita; eleva a una connessione
unitaria i concetti fondamentali del diritto, scaturiti dalla prassi del
negozio giuridico; pone i princìpi relativi alle funzioni dello stato, alle
forme di costitu- zione e alla loro successione, sorti dalla tecnica della vita
politi- WILHELM DILTHEY 237 ca, in rapporto con i compiti supremi della società
umana; intraprende a dimostrare i dogmi oppure, quando il loro nu- cleo oscuro
risulta inaccessibile al pensiero concettuale, esercita su di esso la sua opera
universale di distruzione; razionalizza le forme e le regole della pratica
artistica sulla base di uno scopo proprio all’arte: ovunque essa vuol imporre
la direzione della società da parte del pensiero. Infine, un’ultima cosa. Oguno
di questi sistemi metafisici è condizionato dal posto che occupa nella storia
della filosofia; esso dipende da un certo stato del problema ed è condizionato
dai concetti che ne scaturiscono. Così nasce la struttura di questi sistemi
metafisici — la connessione logica in essi presente e nel medesimo tempo la loro
irregolarità condizionata in varie maniere, l'elemento rap- presentativo che
esprime in determinati sistemi un determinato stato del pensiero scientifico, e
nel medesimo tempo l'elemento della singolarità. Pertanto ogni grande sistema
metafisico diven- ta un complesso che irradia in molteplici direzioni, che
illumi- na ogni parte della vita a cui appartiene. Un unico sistema metafisico
universalmente valido — tale è la tendenza di tutto questo grande movimento. Il
differenziar- si della metafisica che scaturisce dalla profondità della vita
appare a questi pensatori come un’aggiunta accidentale e sog- gettiva, che
dev'essere eliminata. Il lavoro sterminato rivolto alla creazione di una
connessione concettuale dimostrabile in maniera concorde — nella quale sarebbe
quindi possibile risol- vere metodicamente il mistero della vita — acquista un
signifi- cato autonomo; nello sviluppo verso questo fine ogni sistema trova il
suo posto in base allo stato del lavoro concettuale. Il corso di questo lavoro
si compie nei paesi civili dell'Europa, dapprima negli stati mediterranei e
poi, a partire dal Rinasci- mento, negli stati romano-germanici — in uno strato
superiore che soltanto di tempo in tempo viene influenzato dalla religiosi- tà
prevalente al di sotto di esso, e che cerca sempre più di sottrarsi a tale
influenza. 2. In questa connessione compaiono distinzioni tra i sistemi che
sono fondate sul carattere razionale del lavoro metafisico. Alcune indicano
certi stadi del suo sviluppo, come quella tra 238 WILHELM DILTHEY dogmatismo e
criticismo. Altre percorrono l’intero processo: esse scaturiscono dallo sforzo
che la metafisica compie di rap- presentare in una connessione unitaria quanto
è contenuto nel- l'apprendimento della realtà, nell’apprezzamento della vita e
nella posizione di scopi; e il loro oggetto è costituito dalle possibilità di
risolvere questi problemi fondamentali. Se ponia- mo mente alle fondazioni
della metafisica, ci si presentano le antitesi tra empirismo e razionalismo,
tra realismo e ideali smo. L'elaborazione della realtà data viene compiuta
sulla base degli opposti concetti dell’uno e dei molti, del divenire e dell’es-
sere, della causalità e della teleologia, e a tutto ciò corrispondono
differenze tra i sistemi. I differenti punti di vista a partire dai quali viene
concepito il rapporto tra il fondamento del mondo e il mondo, tra l’anima e il
corpo, si esprimono nelle prospetti- ve del deismo e del panteismo, del
materialismo e dello spiritua- lismo. E in base ai problemi della filosofia
pratica si producono altre differenze, tra cui si deve sottolineare quella tra
l’eudemo- nismo — e la sua prosecuzione nell’utilitarismo — e la dottrina di
una regola incondizionata del mondo morale. Tutte queste differenze trovano il
loro posto nei campi particolari della meta- fisica e designano le varie
possibilità di sottoporre questi cam- pi — sulla base di concetti opposti — al
pensiero razionale. Tutte quante possono essere considerate, nel contesto di
tale lavoro sistematico, come ipotesi in virtù delle quali lo spirito metafisi-
co si avvicina a un sistema universamente valido. Sono così sorti infine i
tentativi di classificare i sistemi metafisici da questo punto di vista. Alle
prevalenti contrapposi- zioni dei concetti nella riflessione, fondata sulla
natura della stessa elaborazione concettuale della metafisica, corrisponde
perciò nel migliore dei casi una duplicazione dei sistemi, con l’antitesi tra
punto di vista realistico e idealistico, o un’altra analoga. A chi potrebbe sfuggire il significato che il
lavoro concettuale della filosofia ha compiuto nei campi più diversi? Esso
prepara le scienze indipendenti; essa le abbraccia. Di questo punto ho già detto prima in maniera dettagliata. Ma
ciò che distingue l’attività metafisica dal lavoro delle scienze positive è
la volontà di sottomettere ai metodi
scientifici — che si sono formati per i
singoli campi del sapere — la connessione dell’universo e della vita stessa.
Questi metodi superano i limiti dei procedimenti delle scienze particolari
mirando all’incondizionato. 3. A questo
punto è possibile chiarire l’idea fondamentale
da cui ha preso le mosse in generale il nostro tentativo di una dottrina dell’intuizione del mondo, e che
definisce anche questo lavoro. La coscienza storica ci riporta al di qua della
tendenza dei metafisici a un sistema unitario universalmente valido, al di qua delle differenze da essa derivanti che
dividono i pensatori, e infine al di qua del collegamento di queste differenze
in forma di classificazioni. La coscienza storica assume a proprio oggetto
l’antitesi effettivamente esistente tra i sistemi nella loro costituzione
complessiva. Essa vede queste costituzioni comples- sive nella loro connessione
con il corso delle religioni e della poesia. Essa mostra inoltre come tutto il
lavoro concettuale della metafisica non
abbia fatto un solo passo in direzione di
un sistema unitario. In tal modo essa considera l’antitesi tra i sistemi metafisici come fondata sulla vita
stessa, sull'esperienza della vita,
sulle posizioni nei confronti del problema della vita. Su tali posizioni poggia la molteplicità dei
sistemi e al tempo stesso la possibilità
di distinguere al loro interno determinati
tipi. Ognuno di questi tipi abbraccia la conoscenza della realtà, l'apprezzamento della vita e la posizione di
scopi. Essi sono indipendenti dalla
forma dell’antitesi in cui, in base a punti di
vista contrapposti, vengono risolti i problemi fondamentali. L'essenza di questi tipi si manifesta
chiaramente se si guarda ai grandi geni metafisici che hanno espresso la loro
costituzione personale in sistemi concettuali con pretesa di validità. La loro tipica costituzione vitale è tutt'uno
con il loro carattere: essa si esprime
nel loro ordinamento della vita; riempie ogni
loro azione; si manifesta nel loro stile. E se i loro sistemi sono ovviamente condizionati dallo stato dei
concetti in cui vengono alla luce,
tuttavia i loro concetti — storicamente considerati — sono soltanto strumenti ausiliari per la
costruzione e la dimostrazione della loro intuizione del mondo. Spinoza comincia il suo trattato sulla via
per arrivare alla conoscenza perfetta
con l’esperienza vitale della nullità dei dolori e delle gioie, della paura e
della speranza della vita quotidiana; prende la decisione di cercare il vero
bene, che garantisce 240 WILHELM
DILTHEY una gioia eterna, e risolve
quindi questo compito nella sua Ethica
attraverso il superamento della schiavitù verso le passioni nella conoscenza di Dio come fondamento
immanente della molteplicità delle cose
transeunti, e attraverso l’amore intellettuale infinito di Dio che procede da
questa conoscenza, e in virtù del quale
Dio, l’infinito, ama se stesso nei limitati spiriti umani. L'intero sviluppo di Fichte è
l’espressione di una tipica costituzione
dell'anima — dell’autonomia morale della persona di fronte alla natura e a tutto il corso del
mondo; e così la sua parola ultima, con
cui si chiude la grande azione di volontà di
questa vita tempestosa, è l'ideale dell'uomo eroico, in cui la funzione suprema della natura umana — che si
compie nella storia in quanto teatro
della vita morale — è legata all'ordine
sopra-terreno delle cose. E l'enorme influenza storica di Epicu- ro —
che pure dal punto di vista intellettuale rimase molto al di sotto dei massimi
pensatori — sta nella pura chiarezza con cui egli ha espresso una tipica
costituzione dell’anima. Essa consiste nella serena subordinazione dell’uomo
alla connessione regolare della natura e nel godimento sensibilmente gioioso,
e tuttavia riflessivo, dei suoi
doni. Così intesa, ogni genuina
intuizione del mondo è un’intuizione che nasce dallo stare entro la vita
stessa. Le giovanili annotazioni di
Hegel, sorte dal contatto delle sue esperienze
metafisico-religiose con l’interpretazione dei documenti del
Cristianesimo primitivo, costituiscono un esempio di siffatte intuizioni.
Questo stare dentro la vita si compie nelle prese di posizione nei suoi confronti, nelle relazioni
vitali. È questo, del resto, il
significato profondo del detto ardito, secondo cui il poeta sarebbe il vero uomo. A queste prese di
posizione si rivelano dunque certi
aspetti del mondo. Non ci azzardiamo qui
a continuare. Noi non conosciamo la legge di formazione in base a cui dalla vita scaturisce il
differenziarsi dei sistemi metafisici.
Se vogliamo accostarci alla comprensione dei tipi di intuizione del mondo dobbiamo rivolgerci alla
storia. E ciò che di essenziale la
storia ha qui da insegnarci è la possibilità di
cogliere la connessione tra vita e metafisica, il collocarsi nella vita come centro di questi sistemi, la
coscienza delle grandi connessioni dei
sistemi che percorrono la storia e in cui esiste un atteggiamento tipico — per quanto si
voglia poi limitarli o frammentarli. Si tratta cioè di vedere in profondità
sulla base della vita, di seguire le
grandi intenzioni della metafisica. È
questo il senso nel quale proponiamo una distinzione di tre tipi principali. Per tale distinzione non
c’è altro strumento che la comparazione
storica. Il suo punto di partenza è che
ogni mente metafisica si pone di fronte al mistero della vita da un
determinato punto di vista, quasi dovesse dipanarne l’intri- co: questo punto è
condizionato dalla posizione rispetto alla vita, e a partire da esso si forma
la struttura specifica del suo sistema. Possiamo quindi ordinare i sistemi in
gruppi secondo il loro rapporto di dipendenza, di affinità, di attrazione e
di repulsione reciproca. Ma qui si presenta
una difficoltà propria di ogni
comparazione storica. La comparazione, infatti, deve presupporre un criterio di selezione delle
caratteristiche presenti in ciò che si compara, e questo criterio determina poi
l’ulteriore procedimento. Pertanto ciò che qui propongo ha un carattere del
tutto provvisorio. Il nucleo di questo può essere soltanto l’intuizione che è
scaturita da una lunga consuetudine con i
sistemi metafisici. La loro stessa comprensione in una formula storica può avere un carattere solamente
soggettivo. Rimane aperta la possibilità
di disporre logicamente la cosa in modo diverso, unificando per esempio le due
forme di idealismo op- pure legando l’idealismo al naturalismo, oppure
procedendo in altre maniere. Questa distinzione di tipi deve servire soltanto a
vedere più profondamente nella storia, e ciò a partire dal- la vita. L’uomo si
trova determinato dalla natura. Essa comprende
il suo corpo non meno del mondo esterno. E proprio la situazione
oggettiva del corpo, i potenti impulsi animali che lo scuotono, determinano il suo sentimento della
vita. Quella visione e quella considerazione della vita che ne esauriscono
il corso nel soddisfacimento degli
impulsi animali e nella subordinazione al mondo esterno, da cui traggono il
loro nutrimento, sono vecchie come
l’umanità stessa. Nella fame, nell’impulso sessuale, nella vecchiaia e nella
morte l’uomo si vede sottoposto alle potenze demoniache della vita della
natura. Egli stesso è natura. Eraclito e
l’apostolo Paolo la descrivono entrambi,
con analoghe parole piene di disprezzo, come la concezione della vita propria della massa legata ai
sensi. Essa è permanente; non c’è periodo in cui non abbia dominato una parte
degli uomini. Anche al tempo del più
rigido dominio della casta sacerdotale orientale
esisteva questa filosofia della vita dell’uomo sensibile; e anche quando il
Cattolicesimo reprimeva ogni espressione
teorica di questo punto di vista si parlava molto di « Epicurei »; ciò che non era consentito di
esprimere in princìpi filosofici risuonava tuttavia nelle canzoni dei
Provenzali, in alcune poesie di corte
tedesche, nelle epopee francesi e tedesche
di Tristano. E proprio ciò che Platone dipingeva come la vita di piacere e la dottrina edonistica dei
proprietari e dei commercianti, si ripresenta ai nostri occhi come la filosofia
della vita della gente di mondo del
secolo xvii. Al soddisfacimento
dell’animalità si aggiunge un elemento nel quale l’uomo è mmaggiormente
dipendente dal suo ambiente: la gioia del proprio rango e del proprio onore. Alla base di
questa concezione del mondo sta sempre
lo stesso atteggiamento: la subordinazione
della volontà alla vita animale dell’impulso che domina il corpo e alle
sue relazioni con il mondo esterno. Il pensiero e l’attività teleologica da esso diretta sono
qui al servizio di quest’animalità, si
realizzano nel suo soddisfacimento.
Questa costituzione della vita trova la sua espressione anzitutto in una
parte considerevole della letteratura di tutti i popoli — a volte come forza intatta
dell’animalità, più spesso in lotta con
l'intuizione religiosa del mondo. Il suo grido di battaglia è l'emancipazione
della carne. In quest’antitesi contro il necessario ma tremendo disciplinamento
dell'umanità da par- te della religione consiste il diritto storico, relativo,
della reazio- ne di un' affermazione sempre risorgente e operante nella vita
naturale. Quando questa costituzione della vita diventa filosofia, allora sorge
il naturalismo. Questo afferma teoricamente
ciò che in essa è vita: il processo della natura è la realtà unica e intera; fuori di esso non esiste nulla; la
vita spirituale è distinta soltanto
formalmente, in quanto coscienza, dalla natura fisica, secondo le qualità
contenute in questa, e tale determinatezza della coscienza, vuota di contenuto,
deriva dalla realtà fisica secondo la
causalità naturale. La struttura del
naturalismo — da Democrito a Hobbes e da
questo al Sistème de la natureS — è uniforme: il sensismo come teoria della conoscenza, il materialismo
come metafisica e un duplice
atteggiamento pratico — da un lato la volontà di godimento, dall’altro la conciliazione con il
corso prepotente ed estraneo del mondo,
attuata sottomettendosi ad esso nell’osservazione. La legittimità filosofica del naturalismo
poggia su due proprietà fondamentali del mondo fisico. Come sono preponderanti
all’interno della realtà data nella nostra esperienza l’estensione e la forza
delle masse fisiche! Esse circondano come qualcosa di smisurato e continuamente
più esteso le rare manifestazioni spirituali; così considerate, queste appaiono
come interpolazioni nel grande testo dell’ordine fisico. Perciò l’uomo
naturale, nella considerazione teorica di tali rapporti, deve trovarsi totalmente soggetto a quest'ordine. Al tempo
stesso la natura è la sede originaria di
ogni conoscenza delle uniformità. Già le
esperienze della vita quotidiana insegnano a constatare queste uniformità e a contare su di esse; le scienze
positive del mondo fisico si accostano,
attraverso lo studio di queste uniformità,
alla conoscenza della loro connessione regolare. Così esse realizzano un
ideale di conoscenza irraggiungibile per le scienze dello spirito, fondate sull’Er/edez e
sull’intendere. A questo punto, però, le
difficoltà inerenti a questo punto di
vista spingono il naturalismo, in una dialettica incessante, verso formulazioni sempre nuove della sua
posizione nei confronti del mondo e della vita. La materia da cui il naturalismo procede è un fenomeno della coscienza; in tal
modo esso cade nel circolo vizioso di
voler derivare da ciò che è dato sola- mente come fenomeno per la coscienza la
coscienza stessa. È impossibile derivare dal movimento, che ci è dato come
fenome- no della coscienza, la sensibilità e il pensiero. L’incompara- bilità
di questi due fatti conduce — dopo che il problema si è rivelato insolubile nei
più disparati tentativi compiuti dal mate5. È il titolo dell'opera principale
di Paul Heinrich Dietrich barone d’Holbach
(1723-1789), pubblicata nel 1770, in cui sono sistematicamente esposti i
princìpi del materialismo illuministico. rialismo antico fino al Sistème de la
nature — alla tesi positivistica della corrispondenza tra fisico e spirituale.
Anche questa è esposta a forti
obiezioni. Infine, la morale del naturalismo originario si mostra incapace di
spiegare lo sviluppo della società. 2.
Cominciamo con l'aspetto gnoseologico del naturalismo. Il naturalismo ha il suo fondamento gnoseologico
nel sensismo. Col termine « sensismo »
intendo il riconducimento del processo della coscienza o delle funzioni
all'esperienza sensibile esterna, delle determinazioni di valore e di scopo al
criterio del piacere e del dispiacere
sensibile. Il sensismo costituisce l’espressione filosofica diretta della
costituzione naturalistica dell’anima. È qui dato, fin dal suo porsi, il
problema psico-genetico del naturalismo,
quello di derivare dalle singole impressioni
l’unità della vita psichica come una unitas composttionis. Il sensista non rifiuta né il fatto
dell’esperienza interna né l’elaborazione concettuale del dato, ma trova
nell’ordine fisico la base di ogni
conoscenza della connessione regolare del reale, e le proprietà del pensiero diventano per lui, in
maniera immediata o per il tramite di
una teoria, una parte dell’esperienza sensibile. La prima teoria sensistica è stata formulata
da Protagora*. Nella metafisica
precedente la forza universale della ragione
operante nel pensiero umano non era stata ancora separata dalle proprietà fisiche dell’uomo, dal
processo di respirazione e dalle
immagini dei sensi concepite come corporee. Protagora insegnò che la percezione nasce dalla
cooperazione di due movimenti, l'uno esterno e l’altro organico, che ha luogo
nell’uomo; dato che per lui la percezione e il pensiero erano inseparabili,
egli derivò dalle percezioni sorte in tal modo l’intera vita dell'anima. Egli spiegò anche il piacere, il
dispiacere e l’impul- so sulla base della cooperazione dei due movimenti. Era
dun- que senza dubbio un sensista. Egli scoprì inoltre fin da allora, muovendo
da questo punto di vista, le conseguenze fenomenisti- che e relativistiche in
esso implicite. La dottrina relativistica di 6. Protagora di Abdera, il
maggiore rappresentante della Sofistica, vissuto nella seconda metà del secolo
v a. C., elaborò una teoria sensistica della conoscenza e formulò il principio
secondo cui «l’uomo è misura di tutte le cose », tradizionalmente interpretato
— come anche qui da Dilthey — in senso relativistico. Protagora considera ogni
conoscenza, ogni posizione di valore e ogni determinazione di scopo determinato
dall'elemento pura- mente empirico dell’organizzazione umana; essa esclude
quindi che sia possibile comparare queste funzioni con i processi ester- ni a
cui esse si riferiscono. In tale maniera la conoscenza, la determinazione di valore e la posizione di
scopo posseggono una validità soltanto
relativa, cioè nella correlazione con
questa organizzazione. È qui eliminato il legame tra il soggetto e il
suo oggetto, presente nell’assunzione di un’identica ragione universale che
agisce nell’universo, e che in quanto simile
riconosce il simile. L'organizzazione sensibile mostra nel regno dell’animalità — che giunge fino all'uomo —
le forme più diverse, e da ognuna di
esse deve sorgere un mondo totalmente differente. La fattualità meramente
empirica dell’organizzazione sensibile, il fatto che ogni pensiero è vincolato
ad essa e l'inserimento di tale
organizzazione nella connessione fisica costituiscono il fondamento di tutte le
dottrine relativistiche dell'antichità.
Com'è possibile, sulla base di questi presupposti, un’esperienza e una
scienza empirica? Questo era il problema successivo. Matematica, astronomia, geografia, biologia
si sviluppavano continuamente, e la
scepsi sensistica doveva rendere comprensibile la loro possibilità. Già il
probabilismo di Carneade” conteneva in sé la tendenza a istituire un equilibrio
positivo tra i presupposti sensistici e
le scienze empiriche. Nella sua scepsi la
validità della coscienza viene riposta, anziché nei rapporti (così conformi allo spirito greco) di riproduzione
di una realtà esterna oggettiva da parte delle rappresentazioni, nell’accordo
interno delle percezioni tra di loro e con i concetti, in una connessione priva
di contraddizioni. Nell’ideale della massima probabilità raggiungibile, nella
distinzione dei suoi livelli, si otteneva
un punto di vista in base al quale si poteva contemporaneamente
combattere la metafisica e assicurare al sapere empirico una misura, anche se modesta, di validità. Ma soltanto quando la grande epoca della
fondazione della scienza matematica
della natura riconobbe, nel secolo xvi,
l’esistenza di un ordine della natura secondo leggi, il sensismo 7. Carneade, filosofo della Media
Accademia. entrò nel suo ultimo e decisivo periodo. La scienza naturale si era
costituita come sapere empirico inattaccabile; il sensismo era costretto a
riconoscere questo fatto, a collegarsi ad esso e a superare le conseguenze
scettiche dell'epoca antecedente. Fu questa la grande impresa di David Hume.
Egli stesso ha consi- derato la sua filosofia come una prosecuzione della
scepsi accademica. E infatti in lui ricorrono i caratteri principali di questa scepsi: la fattualità meramente
empirica della nostra organizzazione
sensibile e del pensiero ad essa connesso; di
qui l’eliminazione di qualsiasi rapporto di riproduzione tra lo spirito che apprende e il mondo oggettivo, e
quindi lo spostamento della conoscenza nel mero accordo interno delle
percezioni tra di loro e con i concetti. Ma questi princìpi acquistano nella
sua analisi il loro sviluppo più fecondo: dalle regolarità dell’accadere nascono
le abitudini di determinate associazioni; nella capacità di associazione ad
esse inerenti risiede il fondamento
esclusivo dei concetti di sostanza e di causalità. Ne derivano conseguenze che avrebbero costituito
i fondamenti del positivismo. La
connessione del mondo diventa, in virtù dei
legami di sostanza e di causalità, un effetto secondario dei fatti animali dell’abitudine e dell’associazione;
la scienza empirica viene limitata alle
uniformità di coesistenza e di successione
dei fenomeni, escludendo ogni sapere concernente le relazioni interne, l’essenza, la sostanza o la
causalità; queste uniformità costituiscono l'oggetto del nostro sapere riguardo
ai fatti spirituali e fisici: tutte
le‘parti del mondo sono legate in un’unica legalità. Il sensismo è l’intimo spirito del sistema
di David Hume; ma i suoi grandi
risultati si sono svincolati dai presupposti
metafisici nella teoria positivistica della conoscenza di D’Alembert. Il
positivismo diventò un metodo, e nei confronti di questo punto di vista fenomenistico il
naturalismo stesso fece valere — con
Feuerbach, Moleschott*, Biichner? — la « solare
evidenza del sensibile », e con Comte la reciproca connessione 8. Jakob Moleschott (1822-1893), biologo e
fisiologo, autore della Physiologie des
Stoffwechsels in Pflanzen und Tieren (1857) e di Der Kreislaut des
Lebens (1852), è uno dei più noti
esponenti del positivismo materialistico tedesco. 9. Ludwig Biichner (1824-1899), medico e
filosofo, autore di Kraft nad Stoff (1855),
di Natur und Geist (1857), di Die Stellung des Menschen in der Natur
(1869), è un altro importante esponente del positivismo materialistico tedesco.
dei fatti fisici e la dipendenza da essi di quelli psichici, così come insegnava la nuova fisiologia del
cervello. La metafisica del
naturalismo trovò il suo fondamento mec- canicistico nell’età successiva a
Protagora. La spiegazione mec- canicistica è, in sé e per sé, un procedimento
proprio delle scienze positive, e quindi è compatibile con diverse visioni del
mondo: la metafisica meccanicistica sorge soltanto quando nel- la realtà non si
vede altro che il meccanismo, quando certi
concetti che, per la conoscenza della natura, sono strumenti del suo procedimento vengono considerati come
entità. Le cause dei movimenti vengono
riposte nei singoli elementi materiali
dell'universo, e a questi elementi vengono ricondotti, secondo un metodo qualsiasi, i fatti spirituali.
Dalla natura viene espulsa quell’interiorità che la religione, il mito e la
poesia vi avevano collocata: ora la natura è diventata senza anima, e da nessuna parte una connessione unitaria pone
limite alla sua interpretazione tecnica.
Soltanto questo punto di vista permette
di dare al naturalismo una forma rigorosamente scientifica. Il suo problema diventa ora quello di derivare
il mondo spirituale dalla disposizione
meccanica delle parti corporee ordinate secondo leggi. Una letteratura sterminata si è proposta di
risolvere questo compito. I suoi culmini
sono il sistema epicureo e la splendida
esposizione datane da Lucrezio; il tenebroso e possente sistema di Hobbes, che concepì in modo coerente
l’intero mondo spirituale dal punto di vista dell’impulso da cui scaturisce la
lotta per il potere degli individui, dei
ceti e degli stati; nella Francia del secolo xvrri il sistema della natura, che
espresse nelle sue fredde formule il
mistero degli uomini più miscredenti e
dei libertini di tutti i tempi; infine la fanatica dottrina
materialistica di Feuerbach, Biichner, Moleschott e compagni. La potenza di queste dottrine poggiava sul
fatto che esse erano state costruite sul
terreno della realtà esterna spaziale
che cade sotto i sensi, accessibile al pensiero esatto delle scienze della natura. In nessun luogo esse
contenevano un oscuro residuo di forze impenetrabili. Non c’era angolo in cui
potesse celarsi un elemento spirituale autonomo o un elemento trascendente.
Tutto era razionale e naturale. Infatti l’anima di questa metafisica
materialistica è la lotta contro la potenza della religiosità e della
metafisica spiritualistica con le loro oscu- rità. E la sua legittimità storica
risiedeva nello sforzo di supera- re l’alleanza della chiesa con il dispostismo
all’interno della società. In un tale ordinamento delle cose non c'è
spazio alcuno per la considerazione del
mondo dal punto di vista del valore e
dello scopo. Valori e scopi sono qui ciechi prodotti del corso della natura, i quali hanno un interesse
particolare soltanto per l’uomo, poiché
l’uomo è per se stesso, in virtù della sua vita
interiore, centro del mondo e tutto misura in conformità ai suoi sentimenti, alle sue aspirazioni, ai
suoi fini. di L’ideale di vita del naturalismo doveva
essere duplice, in base al suo doppio
rapporto con il corso della natura. A causa
della sua passione l’uomo è schiavo del corso della natura — ma uno schiavo accorto e calcolatore che si
pone al di sopra di esso in virtù della
potenza del pensiero. Già l’antichità
sviluppò entrambi gli aspetti dell’ideale naturalistico. Il sensismo di Protagora
aveva già in sé le condizioni
dell’edonismo di Aristippo! Per quest’ultimo, infatti, tanto le percezioni sensibili quanto i sentimenti e
i desideri sorgono nei contatti
dell'organizzazione sensibile con il mondo esterno; essi non possono quindi esprimere i valori
oggettivi contenuti nella realtà ma
soltanto il rapporto in cui il soggetto, con il
suo sentimento, si pone nei loro confronti. Da ciò Aristippo concludeva
che nel piacere — inteso come il movimento migliore che abbia luogo nella nostra
organizzazione sensibile — risiede il criterio e il fine del giusto agire.
Nella connes- sione fisica della nostra animalità con la natura esterna, quale
si palesa nei movimenti sensibili, dev'essere ricercato il criterio e il fine dell’arte di vivere. La riflessione
socratica diventa qui gioco sovrano del
pensiero formale che calcola i valori del
10. Aristippo di Cirene (435-366 a. C.), filosofo socratico, fu il
maggiore rappresentante dell’edonismo nel pensiero greco. piacere e che si
eleva al di sopra delle convenzioni, cioè sopra
gli ordinamenti oggettivi della vita. Ma nell’apprendimento ottico e nel
godimento estetico — che tanta importanza rivestiva per lo spirito greco — c'era un altro ideale,
e anche questo si collocava nell’ambito
di quella metafisica naturalistica che ha i
suoi rappresentanti in Democrito, in Epicuro, in Lucrezio. Ad esso condussero le esperienze dell'impulso
vitale. Si tratta della tranquillità
d'animo che nasce in colui che accoglie in sé la connessione sempre salda e duratura
dell’universo. Tale costituzione dell'anima trovò la sua espressione nel poema
didattico di Lucrezio. Egli riviveva in
sé la potenza liberatrice della grande
visione cosmica, astronomica e geografica del mondo creata dalla scienza greca. L'universo smisurato e le sue leggi eterne,
la nascita dei sistemi del mondo, la
storia della terra che si copre di piante
e di animali e che infine produce l’uomo — questa concezione gli consentì di osservare molto al di sotto
di sé gli intrighi politici e le povere
marionette divine adorate dal suo popolo.
Anzi la stessa vita dell'individuo, con la sua sete di godimento e di potere, la lotta delle esistenze
particolari sul teatro dell’Impero romano si rimpiccioliva da questo punto di
vista cosmico: « pio è chi guarda
all’universo con spirito sereno ». Già
nell’antichità l’esperienza che, nel corso del mondo, compie l’uomo che desidera la felicità dei
sensi aveva dissolto la rigidità della
dottrina del piacere sensibile come fine della
vita. Accanto a quello sensibile si era affermato il durevole piacere
spirituale. Già allora la scuola epicurea si era proposta di risolvere —
mediante l’assunzione di uno sviluppo progressi vo — il compito decisivo di
derivare la cultura, in tutta la sua ricchezza e grandezza, dai sentimenti del
piacere e del dispiace- re sensibile. Ma solamente l’epoca moderna approntò
strumenti scientificamente validi per la
spiegazione naturalistica dello sviluppo spirituale: la comprensione della vita
spirituale in base all'ambiente, la
derivazione della vita economica dagli interessi dell'individuo, la derivazione della cultura
intellettuale dal progresso economico e infine la teoria dell'evoluzione, che
consentì di porre a fondamento delle
caratteristiche intellettuali e morali
degli uomini l’accumularsi di trasformazioni minime avvenute nel corso di smisurati spazi di tempo.
L'ideale naturalistico quale fu enunciato, al termine di un lungo sviluppo
culturale, da Ludwig Feuerbach — l’idea
dell’uomo libero che in Dio, nell’immortalità
e nell’ordine invisibile delle cose riconosce i
fantasmi delle sue aspirazioni — ha esercitato un'influenza potente
sulle idee politiche, sulla letteratura e sulla poesia. Prendiamo nuovamente le mosse dal fatto
dell’affinità tra un gran numero di
sistemi che, essendo fondata su una costituzione vitale e su una posizione nei
confronti del mondo, racchiude in sé la soluzione dei problemi inerenti al
mistero della vita secondo una
determinata tendenza, e in tal modo riunisce
questi sistemi in un secondo tipo di intuizione del mondo. I.
L’idealismo della libertà è una creazione dello spirito ateniese.
L'energia formatrice, plasmatrice, sovrana in esso presente diventa con Anassagora !, Socrate, Platone e
Aristotele principio di comprensione del mondo. Cicerone ha espresso con vigore
il suo accordo, il suo sentimento di affinità con Socrate e tutta la scuola
socratica della storia greca successiva. I grandi apologisti e padri della
Chiesa cristiana si trovano in un consa- pevole accordo sia con lo spirito
socratico sia con la filosofia romana. La scuola scozzese poggia completamente
sull’orienta- mento di pensiero di Cicerone ed è al tempo stesso consapevole
della propria comunanza con gli antichi scrittori cristiani. E proprio la coscienza di tale affinità collega
a questi scrittori precedenti Kant e
Jacobi !, Maine de Biran" e i filosofi francesi a lui imparentati fino a
Bergson. rt. Anassagora di Clazomene
(500 circa-428 a. C.), filosofo ionico, elaborò la teo- ria del nous, ossia
dell'intelletto divino che regola la mescolanza degli clementi i qua- li
costituiscono la realtà fisica, inserendo in essa un principio ordinatore: a
questa dottrina si riferisce esplicitamente Socrate, nel Fedone platonico. 12.
Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819), autore di una seric di lettere
polemiche contro Moses Mendelssohn Uber
die Lehre des Spinoza (1785), traduttore di Bruno, claborò una « filosofia dell'identità »
criticando sia Kant sia l’idcalismo post-kantiano. È una figura centrale nel dibattito sullo
spinozismo che caratterizza il pensiero tedesco verso la fine del secolo
xvi. 13. Frangois-Pierre Maine de Biran
(1766-1824), autore dell’Essui sur les fonde- La coscienza di tale affinità è
accompagnata da un'aspra polemica dei
rappresentanti di questo indirizzo contro il sistema naturalistico. La
coscienza della completa diversità dal naturalismo nella concezione della vita,
nell’intuizione del mondo e nell’ideale
ispira ognuno di questi pensatori, e si afferma con la massima intensità nei più profondi. Ma
anche l’opposizione al panteismo fu resa
sempre più consapevole da questo idealismo della personalità. Se il panteismo
greco più antico si era distaccato dalla
personificazione religiosa della divinità e dal
rapporto personale con essa, Socrate si oppose a questo panteismo, e la
filosofia romana dominante insistette sull’affinità con Socrate. Anche la più antica filosofia
cristiana si sente unita ai
rappresentanti dell’idealismo della libertà e della personalità in antitesi sia al naturalismo sia al panteismo.
La stessa posizione emerge nella
polemica della più tarda filosofia cristiana contro l’idealismo oggettivo di Averroè. Essa si
manifesta poi durante il Rinascimento
nella lotta di Giordano Bruno contro ogni
forma di filosofia cristiana e di quest’ultima contro il nuovo panteismo bruniano. A partire da questo
periodo essa prosegue poi nel conflitto
tra Spinoza e tutte le dottrine della persona- lità o della libertà, o tra
Leibniz e numerosi esponenti della dottrina della libertà, infine nelle lotte
tra Kant, Fichte, Jaco- bi, Fries e Herbart da un lato, Schelling, Hegel e
Schleierma- cher dall'altro. Tutte le grandi polemiche filosofiche degli ulti-
mi secoli acquistavano un carattere appassionato in virtù del legame in cui le varie soluzioni autentiche
di un problema stanno con le diverse
intuizioni del mondo. Il conflitto di
Bayle! con Spinoza ha alla radice un’esigenza di libertà nei confronti del determinismo. Il conflitto di
Voltaire con Leibniz ments de la psychologie
(1812), del saggio Des rapports des sciences naturelles avec la psycologie (1813) e di numerosi altri scritti
— tra cui il Journal intime, pubblicato postumo — è il capostipite dello
spiritualismo francese dell'Ottocento: la sua posizione esercitò una larga influenza sul pensicro
spiritualistico, fin verso gli inizi del nuovo
secolo. 14. Jakob Friedrich
Fries (1773-1843), autore di una Neue Kntik der Vernunfe (1807) e di numerose altre opere, in cui è
formulata un'interpretazione in chiave psicologica della filosofia
kantiana. 15. Pierre Bayle (1647-1706),
autore delle Pensées diverses sur la comète (1682) e soprattutto del celebre Dictionnaire
historique et critique (1695-97, 2° ed. 1702), fu una delle grandi fonti di ispirazione della
cultura illuministica francese, che da lui derivò il suo atteggiamento critico nei confronti
della tradizione e il ricorso all'analisi erudita si richiama a una presa di
posizione pratica della coscienza che
muove dall'uomo e che tende quindi in un primo luogo a garantire la libertà contro la metafisica
contemplativa fondata sull’intuizione
dell'universo. Rousseau contrappone con enorme
successo alle forme più diverse di naturalismo o di monismo una filosofia della personalità e della
libertà. La discussione tra Jacobi e
Schelling tocca i principali problemi che separano idealismo oggetttivo e
filosofia della personalità; e nessuna disputa
è stata mai condotta con tanta passionalità. Anche la polemica di Herbart contro la filosofia monistica
deriva la propria veemenza dalla convinzione che il monismo poneva in
questione le grandi verità del sistema
teistico, mentre egli si ergeva a
difensore della visione cristiana del mondo, che nelle sue radici più profonde è teistica. L’asprezza con cui
Fries e Apelt'‘ conducono la loro battaglia contro la speculazione monistica è
condizionata in egual misura dall’odio verso la deformazione delle scienze
sperimentali della natura compiuta da Schelling e da Hegel e dall’odio verso la
dissoluzione del teismo cri- stiano sotto il manto di una difesa del
Cristianesimo. De A questa coscienza di comunanza reciproca e
di antitesi, che rispettivamente unisce
tra loro i rappresentanti dell’idealismo
della libertà e li separa sia dall’idealismo oggettivo sia dal naturalismo, corrisponde l’effettiva affinità
tra i diversi sistemi di questo tipo. Il
legame che in questi sistemi tiene insieme
l'intuizione del mondo, il metodo e la metafisica consiste nel fatto che l’atteggiamento, che con sovrana
autosufficienza si contrappone a ogni
datità, contiene in sé l'indipendenza dello
spirituale da tale datità: lo spirito è consapevole della sua essenza
come distinta da ogni causalità fisica. Con profonda penetrazione etica Fichte
ha colto la connessione tra il carattere di un
certo gruppo di pensatori e l’idealismo della libertà, in antitesi a ogni sistema della natura. Questa libera
potenza dell'io si come strumento
critico. Dilthey si riferisce qui alla polemica con Spinoza, condotta nella voce « Spinoza » del Dictionnaire. 16. Apelt (1812-1859), allievo c
continuatore di Frics, del cui pensiero diede un'esposizione nella Mezaphysik
(1857). trova quindi legata nel
rapporto con altre persone non già
fisicamente, bensì nella forma e nell’obbligazione morale; nasce così il concetto di un regno di persone in
cui gli individui sono vincolati da
norme e tuttavia interiormente liberi. A queste premesse è poi sempre connessa
la relazione degli individui liberi,
responsabili e interiormente legati in virtù della legge, nonché del regno delle persone, con una causa
originaria personale e libera. In base alla costituzione vitale ciò è fondato
sul fatto che la spontanea e libera
vitalità si scopre come una forza che
determina altre persone secondo la loro libertà, ma nel medesimo tempo avverte
che in essa stessa altre persone sono divenute una forza da cui essa viene
determinata in modo corrispondente alla propria spontaneità. Così questa
vivente for- ma di determinazione attiva e passiva diventa lo schema della
connessione universale in generale: essa viene per così dire proiettata nella stessa connessione
universale, la si ritrova in ogni
rapporto in cui sta il soggetto del pensiero sistematico, fino al più comprensivo. In tal modo la
divinità viene sottratta alla
connessione della causalità fisica e concepita come qualcosa che la governa — come una proiezione della
ragione che pone scopi, fornita di
potenza autonoma nei confronti della datità.
Anassagora e Aristotele hanno determinato filosoficamente ed espresso con precisione questo concetto di
divinità mediante il rapporto della
divinità con la materia. Quest'idea di un dio
personale acquista la sua formulazione metafisica più radicale nel concetto cristiano della creazione del
mondo dal nulla, dal non-esistente; essa
esprime infatti la trascendenza della divinità rispetto alla legge causale, che
regna nel mondo naturale secondo la
regola ex ni/tilo nihil. La trascendenza di Dio rispetto alla coscienza del
mondo, la quale connette le sue verità in
base al principio di ragion sufficiente, viene poi giustificata criticamente da Kant: Dio è presente soltanto
alla volontà, che lo richiede in virtù
della sua libertà. Sorge così la
struttura comune a tutti i sistemi che rientrano in questo tipo di intuizione del mondo. Dal
punto di vista gnoseologico questo tipo si fonderà, non appena diventa
filosoficamente consapevole del suo presupposto, sui fatti della coscienza.
Nella metafisica questa intuizione del mondo passa attraverso diverse forme.
Essa compare dapprima nella filosofia attica
come concezione della ragione formatrice, che plasma il mondo della materia. La grande scoperta di un
pensiero concettuale e di una volontà
morale indipendenti dalla connessione naturale,
e della loro connessione con un ordine spirituale, costituisce in Platone il punto di partenza di tale
concezione, e anche in Aristotele ne
rimane il fondamento. Preparata dalla nozione
romana di volontà e dall’intuizione, anch'essa romana, di un rapporto di governo di Dio nei confronti del
mondo, si forma nel Cristianesimo la seconda concezione, cioè la dottrina della
creazione. Essa costruisce un mondo trascendente sulla base delle relazioni
esperite nell’atteggiamento del valore. I concetti di Dio propri della
coscienza cristiana sono il rapporto del padre con i suoi figli, il contatto
con Dio, la provvidenza come simbolo del
governo del mondo, la giustizia, la misericordia. Un lungo cammino è stato poi percorso da qui
fino al supremo raffinamento a cui tale
coscienza di Dio perviene nella filosofia
trascendentale tedesca. In un’asciutta ed eroica grandezza l’idealismo
della libertà costruisce qui — come appare nel mondo più compiuto in Schiller — il mondo
soprasensibile che esiste soltanto per
la volontà, poiché è posto dal suo ideale di un’aspirazione infinita. 4.
Questa intuizione del mondo possiede un fondamento universalmente valido
nei fatti della coscienza. In quanto coscienza metafisica dell’uomo eroico,
essa è indistruttibile: si rinnoverà sempre in ogni grande natura attiva. Essa non può tuttavia definire e fondare il
suo principio in maniera
scientificamente valida. Anche qui si mette però in moto una dialettica incessante che procede di
possibilità in possibilità, ma che è incapace di pervenire a una soluzione del
suo problema. La volontà operante
consapevolmente nella famiglia, nel
diritto e nello stato fu sviluppata dal pensiero romano in concetti di vita, e questi vennero alla fine
ricondotti a un’innata predisposizione verso la condotta della vita. In tal
modo la sicurezza della condotta della vita poggiava su un elemento irraggiungibile e indimostrabile. La
regolarità dell’ordinamento della vita fu fondata su presupposti innatistici,
che tuttavia potevano essere provati
soltanto sulla base degli ordinamenti
della vita, sulla base del reciproco accordo dei popoli. In questo modo
la filosofia romana della vita fondò il suo idealismo della personalità. Su di esso la coscienza
cristiana determinò come principio di
tale punto di vista la trascendenza dello spirito, la sua indipendenza da
qualsiasi ordine naturale. Ma la trascendenza è soltanto un'espressione
simbolica della volontà nel sacrificio, nel procedere oltre il nesso naturale
della motiva- zione attraverso l’abbandono della vita, ossia della forza di
vivere in vista della realizzazione di un ordine di vita soprasensibile.
L'ideale del sacro vale come prova di se stesso, ma nessuna formula consente di elevarlo a
coscienza logica. Kant e la filosofia
trascendentale si proposero quindi di determinare e di fondare in maniera universalmente valida
questa volontà ideale. Si fece valere,
rispetto al corso del mondo, un elemento
indeterminato come norma suprema e supremo valore. Il tentativo falli.
Ma esso si rinnovò nell’idealismo personalistico francese, da Maine de Biran a
Bergson, e nella forma idealistica del
pragmatismo quale si presentò in James e nei pensatori a lui affini, nonché nella grande corrente della
filosofia trascendentale tedesca. La sua potenza è indistruttibile; cambiano
solamente le sue forme e i modi di dimostrazione. Questa potenza poggia su una costituzione vitale che prende
le mosse dall’uomo che agisce ed esige una regola salda per la posizione di scopi.
Schiller è il poeta di questo idealismo della libertà, così come Carlyle è il suo storico: Umiliato a servire un vile, Alcide viveva un tempo un'aspra dura vita in un’eterna guerra: contro l'Idra ebbe a lottare ed abbatté il leone, per liberar gli amici si gettò vivo dentro la barca del nocchiero dei morti. Ogni gravame, ogni tormento getta l'inganno della Dea implacata sulle
docili spalle dell’odiato, finché finisce il suo cammino finché, spogliato il
suo terreno involucro, il Dio fiammante sciogliesi dall'uomo e beve le sottili
aure dell'etere. Lieto del nuovo, insolito aleggiare si leva in alto, e la
visione cupa della vita terrena, cade e cade!?, Legati da una connessione
reciproca si presentano poi altri
sistemi che divergono dai due tipi finora descritti. Essi formano la
massa principale di ogni metafisica, si estendono per l’intera storia della filosofia, e il loro
stretto legame con i grandi fenomeni
affini della fede e dell’arte rimanda a un'intuizione del mondo che attraversa
la religione, la concezione artistica, e il pensiero metafisico. I.
Intendiamo determinare l'ambito in cui questo tipo si presenta
all’interno della metafisica. La massa centrale dei sistemi filosofici non può venir assegnata né al
naturalismo né all’idealismo della libertà. Senofane!, Eraclito, Parmenide e i
loro continuatori, il sistema stoico,
Giordano Bruno, Spinoza, Shaftesbury ', Herder, Goethe, Schelling, Hegel,
Schopenhauer e Schleiermacher — tutti
questi sistemi rivelano un tipo chiara
17. Scuuter,
Gedichte, Das Ideal und das Leben, vv. 131-46 (tr. it. di G. A. Alfero).
e 18. Scnofane di Colofone, filosofo
ionico vissuto tra la scconda metà del secolo vi e l’inizio del secolo v a. C.,
critico della concezione antropomorfica della divinità: alcune testimonianze,
molto discusse, ne fanno il maestro di Parmenide e il fondatore della scuola
eleatica. 19. Anthony Ashley Cooper conte di Shaftesbury (1671-1713), filosofo
inglese, autore dell'Inquiry Concerning Virtue or Merit (1699), della Letter
Concerning Enthusiasm (1708), della Characteristics of Men, Manners, Opinions,
and Times (1711) e di numerosi altri
scritti, fu uno dei principali rappresentanti del deismo; elaborò la
teoria del senso morale come base e
criterio di valutazione del comportamento umano. mente comune, che diverge
completamente dagli altri che abbiamo già esposti. Essi sono reciprocamente legati da un
rapporto di dipendenza e dalla più definita coscienza della loro affinità. Lo
stoici- smo era consapevole della propria dipendenza da Eraclito. Gior- dano
Bruno ha utilizzato in un ambito più vasto i concetti fondamentali degli
Stoici; Spinoza è condizionato dallo Stoici- smo e dal complesso di idee
filosofiche che aveva come centro Giordano Bruno. In Leibniz la grande
prospettiva spirituale del Rinascimento
trova la sua espressione più compiuta, in antitesi al rigido monismo
spinoziano. Dopo la dissoluzione delle
forme sostanziali, nel Rinascimento non viene più riconosciuta alcuna realtà in mezzo tra la connessione
divina e le cose particolari: il mondo è
l’esplicazione di Dio, che si è scomposto in esso nella forma di una
molteplicità illimitata; ogni cosa
particolare rispecchia in sé l’universo. Questa è anche la prospettiva
di Leibniz. Se la sua dipendenza dalla situazione intellettuale del tempo gli
consente di concepire la divinità come
individuo, la dipendenza dalla sua cultura teologica lo ha indotto a
mettere in primo piano le relazioni con la teologia: il panenteismo rimane la sua intuizione
fondamentale, e la nuova grande idea del
suo sistema è la concezione dell'universo come
una totalità singolare in cui ogni parte è determinata dalla connessione ideale di significato del tutto.
Tale sistema è interamente determinato dalla questione del senso e del
significato del mondo. Il suo parente
più prossimo è Shaftesbury, influenzato sia dallo Stoicismo sia da Giordano
Bruno. I grandi idealisti oggettivi tedeschi vivono nella sfera di influenza di
Leibniz, sono condizionati da Shaftesbury attraverso il movimento poetico tedesco, in modo particolare per il
tramite di Goethe e di Herder; e la loro
dipendenza da Spinoza, in parte diretta,
in parte mediata dal precedente movimento letterario, è provata e può
esser dimostrata in un ambito ancor più ampio. Questi sistemi costituiscono così una connessione
storica non meno saldamente conclusa di quella del naturalismo e
dell’idealismo della libertà. Essi hanno sempre espresso nel modo più
deciso anche la loro antitesi verso gli
altri due tipi di intuizione del mondo. Con quanta durezza Eraclito giudica il
materialismo della plebel In quale netta opposizione lo Stoicismo si pone nei
confronti del sensismo epicureol Esso è però al tempo stesso consapevo- le, in
quanto rinnova l’ilozoismo, del proprio distacco da Plato- ne e Aristotele.
Giordano Bruno ha condotto, con una passione senza pari, la lotta contro ogni
forma di visione cristiana del mondo e di ideale di vita cristiano. La stessa
passionalità irrom- pe in Spinoza, tra le catene delle dimostrazioni, in quelle
appendici stilisticamente libere che erano state originariamente composte in forma autonoma, come
manifestazioni della sua disposizione di
vita. Schelling e Hegel indirizzano manifesti e
pamphlets contro l’idealismo della libertà e in particolare contro Kant,
Fichte e Jacobi, in quanto filosofi della riflessione. Prescindendo
dall’invettiva di Schopenhauer, la critica di
Schleiermacher alla dottrina etica è fondamentalmente un unico grande scritto polemico contro l’etica
sensistica e contro la limitativa etica dualistica di Kant e di Fichte, in
favore dell’idealismo oggettivo. Se il
procedimento comparativo segue questi indizi, esso è in grado di riconoscere l'affinità dei membri
di questo gruppo, reciprocamente così
legati, e la struttura ad essi comune in
virtù della quale sono riuniti a formare un medesimo tipo di intuizione del mondo. La connessione di
princìpi che costituisce la struttura di questo tipo comprende una posizione
gnoseologico-metodologica della coscienza, una formula metafisica che contiene varie possibilità di formazione di
sistemi metafisici, e infine un
principio di formazione della vita. La
posizione gnoseologica-metodologica della coscienza nei confronti del mistero del mondo consisteva,
nella prima delle tre intuizioni, nel
passaggio dalla conoscenza delle uniformità
presenti nel mondo fisico a generalizzazioni che permettevano di subordinare anche i fatti spirituali a
questa legalità meccanica esterna. Per contro l’idealismo della libertà ha
trovato nei fatti della coscienza il
punto saldo per una risoluzione universalmente valida del mistero del mondo;
esso richiedeva l’esistenza e la possibilità di constatare determinazioni
universali della coscienza, non
ulteriormente risolvibili, che con forza spontanea producono la formazione
della vita e dell’intuizione del mondo nella materia della realtà esterna. Il
terzo tipo di atteg- giamento gnoseologico-metodologico è completamente
distinto dagli altri due. Esso può venir rintracciato in egual misura in
Fraclito come nello Stoicismo, in Giordano Bruno come in Spinoza e Shaftesbury,
in Schelling, Hegel, Schopenhauer e
Schleiermacher. Esso è fondato infatti sulla costituzione vitale di questi pensatori. Diciamo che un
atteggiamento è di tipo contemplativo,
estetico o artistico quando in esso il soggetto si riposa, per così dire, dal lavoro conoscitivo
delle scienze naturali e dall’agire in riferimento ai nostri bisogni, agli
scopi che ne derivano e alla loro
realizzazione nel mondo esterno. In questo
atteggiamento contemplativo la vita del sentire, in cui la ricchezza
della vita, il valore e la felicità dell’esistenza vengono avvertiti anzitutto in modo personale, si
allarga in una specie di simpatia
universale. In virtù di tale ampliamento del nostro io nella simpatia universale noi riempiamo e
animiamo la realtà intera con i valori che sentiamo, con l’operare in cui
realizziamo la nostra vita, con le idee supreme del bello, del bene e del vero. Le disposizioni che la realtà
suscita in noi, le ritroviamo nuovamente in essa. E nella misura in cui allarghiamo
il nostro sentimento particolare della
vita nella partecipazione alla totalità del mondo e avvertiamo la nostra
affinità con tutte le manifestazioni del
reale, la gioia della vita si rinsalda e
cresce la coscienza della propria forza. È questa la costituzione dell’anima in cui l’individuo si sente
tutt'uno con la connessione divina delle cose e in tal modo affine a qualsiasi
altro membro di questa connessione.
Nessuno ha espresso questa costituzione dell'anima in modo più bello di Goethe.
Egli loda la fortuna di poter « sentire
e godere » la natura. .. Né tu m’accordi appena il freddo stupore d'un
ospite ma, come nel cuore a un amico, mi dai di fissare nel fondo del suo
essere. Guidi davanti a me la schiera dei viventi e a riconoscere m'insegni i
miei fratelli fra piante mute, in aria c in acqua 2. 20. GoetHE, Fasst (tr. it.
di F. Fortini). Questa costituzione dell'animo trova la soluzione di tutte
le dissonanze della vita nell’armonia
universale delle cose. Il sentimento tragico delle contraddizioni
dell’esistenza, la disposizione pessimistica, l'umorismo che coglie
realisticamente la limitatezza e l’angustia opprimente dei fenomeni, ma nella
loro profondità scopre l’idealità vittoriosa del reale, sono soltanto gradini
che conducono alla percezione di una connessione universale di esistenza e di valore. La forma di apprendimento è nell’idealismo
oggettivo sem- pre la medesima: non già l’ordinamento dei casi secondo rap-
porti di affinità o di uniformità, ma l’intuizione complessiva delle parti in
un tutto, l'elevazione della connessione della vita a connessione del mondo. Il
primo tra questi pensatori a riflettere sul suo procedimen- to filosofico fu —
a quanto ne sappiamo — Eraclito. Egli ha
avuto una profonda coscienza dell’atteggiamento contemplativo e ha
espresso la sua antitesi nei confronti del pensiero personificante della fede,
nei confronti della percezione sensibile —
che, presa da sola, egli tiene in scarso conto — e nei confronti della cosmologia scientifica. Il filosofo fa
oggetto della sua riflessione ciò che lo circonda da vicino, costantemente,
giorno per giorno, dove egli ritrova
dunque sempre le medesime cose. Essere
presente a ciò che ci accade: con questa espressione viene genialmente raffigurata la profonda
saggezza in virtù della quale i fenomeni del corso del mondo, evidenti agli
occhi della massa, diventano invece per
il filosofo autentico oggetto di stupore
e di meditazione. In base a questo atteggiamento contemplativo Eraclito concepiva il corso del
mondo come sempre identico — come il continuo fluire e la corruttibilità
di ogni cosa, ma anche come un ordine
concettuale presente in ogni suo punto.
In tal modo il sentimento tragico del trascorrere incessante del tempo, in cui
il presente è sempre e non è più, si
risolve ai suoi occhi nella coscienza di una regolarità nell'universo che permane in mezzo a tale
fuga. Nello Stoicismo domina la stessa
intuizione dell’universo come un tutto di cui le cose particolari sono parti, c
in cui esse vengono tenute insieme da
una forza unitaria. Esso ha eliminato il rapporto di subordinazione dei fatti a
unità concettuali astratte, che
prevaleva in Platone e Aristotele; in luogo della relazione logica del
particolare con l’universale subentra, nel
suo sistema, il rapporto organico di un tutto con i suoi elementi — cioè
quella forma di apprendimento che Kant ha posto in stretta relazione, come intuizione del
finalismo immanente della realtà organica, con la forma dell’intuizione
estetica. E dopo che erano scomparse la
sillogistica e la sisternatica
scolastica — che avevano impiegato le forme sostanziali al servizio della teologia cristiana, per
fondare un mondo trascen- dentale — le medesime categorie di intuizione del
mondo si presentano nel periodo di transizione dal Medioevo all’età mo- derna:
l’intero e le sue parti, l’individualità di queste par- ti fino alle più
piccole. Già in Nicola Cusano compare quella finissima concezione estetica
dell’universo secondo cui la cosa
particolare, in quanto contrazione del tutto, rispecchia in sé l'universo. Spinoza è il rappresentante di
questa dottrina dell’universo come uzità, e anche l’intuizione leibniziana del
mondo è scaturita — nonostante il suo
concetto di Dio, fondato sulla
monadologia e connesso con la sua tendenza teologica — da questa costituzione dell’anima. La piena
consapevolezza gnoseologica di tale atteggiamento contemplativo si ha in
Schelling, Schopenhauer e
Schleiermacher. L’intuizione intellettuale di
Schelling, l'atteggiamento estetico contemplativo, libero dal volere, di
Schopenhauer — in cui il soggetto non segue più le relazioni reciproche delle cose in base al
principio di ragion sufficiente, ma
coglie nei fenomeni ciò che ne costituisce l'essenza — e infine la religione
come intuizione e sentimento dell’universo nei Discorsi di Schleiermacher:
queste sono le diverse forme nelle quali
si esprimono i vari aspetti del medesimo atteggiamento, che è proprio di questo
tipo di intuizione del mondo. Da tale atteggiamento deriva la formula
metafisica comune a tutta questa classe
di sistemi. Tutti i fenomeni dell’universo
sono duplici: da un lato, cioè nella percezione esterna, essi sono dati come oggetti sensibili e stanno, in
quanto tali, in una connessione fisica;
d’altro lato recano in sé, considerati per
così dire dall'interno, una connessione vitale che può essere rivissuta
nella nostra interiorità. Questo principio può essere quindi espresso anche come affinità di tutte
le parti dell’universo con il fondamento divino e tra di loro. Esso corrisponde
alla concezione di una simpatia
universale che nel reale, in ciò che si
manifesta nello spazio, avverte ovunque la presenza della divinità. La coscienza di quest’affinità è il
carattere metafisico fondamentale comune
alla religiosità degli Indiani, dei Greci e
dei Germani; e da essa deriva, nella metafisica, l’immanenza di tutte le cose — come parti di un tutto — in
un fondamento universale e di tutti i valori in una connessione di significato
che costituisce il senso del mondo. La contemplazione, l’intui- zione, che
nella propria vita rivive quella del tutto — in qual- siasi modo possa
interpretarla — coglie nei fenomeni dati ester- namente un’interna connessione
divina. Da questo medesimo atteggiamento
sorge infine di regola la concezione deterministica; qui il singolo si scopre
determinato dal tutto, e la connessione dei fenomeni viene concepita come
caratteristica interna, quali che siano
le determinazioni che vengono ad essa attribute. 4.
Ciò che è contenuto in questa formula dell’idealismo oggettivo come
costituzione della connessione del mondo, la religiosità, la poesia e la
metafisica lo esprimono tutte soltanto in modo
simbolico. Esso è assolutamente inconoscibile. La metafisica separa
soltanto aspetti particolari dalla vitalità del soggetto, dalla connessione vitale della persona,
proiettandoli nell’immensità come connessione del mondo. Ne scaturisce una
nuova incessante dialettica che conduce
di sistema in sistema finché, esaurite
tutte le possibilità, viene riconosciuta l’insolubilità del problema.
È questo fondamento del mondo volontà oppure ragione? Se lo determiniamo come pensiero, occorre
però una volontà perché qualcosa nasca.
Se lo si concepisce invece come volontà,
essa presuppone un pensiero che ne determini lo scopo. Volontà e
pensiero non si lasciano però ridurre l’uno all’altro. A questo punto la possibilità di pensare
logicamente il fondamento del mondo si arresta, e ciò che rimane è soltanto il
rispecchiamento in esso della vita mediante la mistica. Se si concepisce il
fondamento del mondo in maniera personale, questa metafora esige tuttavia di
essere delimitata da determinazioni concrete. Se invece si applica ad essa
l’idea dell’infinito, scompaiono di nuovo tutte le sue determinazioni, e anche
qui rimane soltanto l’impenetrabile,
l’inconcepibile, l’oscurità e la mistica. Se è fornito di coscienza, esso
ricade sotto l’antitesi di soggetto e oggetto; d° altra parte non possiamo
comprendere come qual- cosa di inconscio possa produrre la coscienza che gli è
superio- re; siamo nuovamente di fronte a qualcosa di inafferrabile. Non ci è
possibile pensare come dall’unità del mondo possa nascere una molteplicità, dall’eterno
qualcosa di mutevole: ciò è logicamente
inconcepibile. Il rapporto di essere e pensare, di estensione e pensiero non viene reso
comprensibile dalla parola magica dell’«
identità ». Così, anche di questi sistemi metafisici ciò che rimane è soltanto
una costituzione dell’anima e un’intuizione del mondo. Goethe ha dato
l’espressione più alta di questa
intuizione del mondo. « Che sarebbe un
Dio che agisse soltanto dall'esterno,
facesse rotare intorno al dito l'universo! A Lui s’addice di muovere il mondo
dall’interno, di albergare la Natura in
Sé, Sé nella Natura, così che il mondo,
che in Lui vive, vibra ed è, mai senta
mancanza della Sua forza, del suo spirito » %!. 21. GoetHE, Gort und IVelt, procmio, vv. 1-6 (tr. it.
di F. Amoroso). WINDELBAND nasce a
Potsdam. Frequenta dapprima l’Università di Jena, poi quelle di Berlino e di
Gòttingen, dedicandosi inizialmente a
studi storici e sviluppando in seguito i suoi
interessi — sotto la duplice influenza di Fischer e Lotze — in direzione
della filosofia. Dopo aver conseguito il dottorato a Gòttingen con la dissertazione Die Lehren vom
Zufall (Berlin), Windelband ottiene
l’abilitazione a Lipsia con Über die
Gewissheit der Erkenntnis (Berlin), nel quale emerge chiaramente la sua
adesione al movimento neo-criticistico e, in particolare, all'interpretazione della filosofia in chiave
di teoria della conoscenza. Divienne professore a Zurigo, da dove si
trasferisce a Friburgo e dopo a Strasburgo. Viene chiamato a Heidelberg quale
successore di Fischer. La parte più cospicua della produzione di Windelband è
costituita da numerose opere di storia della filosofia, che hanno avuto larga
diffusione e risonanza anche al di fuori dei paesi di lingua tedesca. La prima di queste opere, Die Geschichte der
neueren Philosophie in ihrem
Zusammenhange mit der allgemeinen Kultur und den besonderen
Wissenschaften (Leipzig, 1878-80; tr. it. Firenze, 1925), rappresenta un
modello di interpretazione neocriticistica della storia della filosofia
moderna, considerata come avente il proprio centro nello sviluppo della
teoria della conoscenza. Il carattere
specifico del pensiero moderno rispetto a
quello antico e medievale viene individuato nel distacco dalla
metafisica e nello sforzo di pervenire a
un'indagine critica; cosicché l'opera di
Kant viene presentata come il punto di confluenza dei suoi
principali indirizzi, ossia come la
sintesi tra razionalismo ed empirismo. Nella
successiva Geschichte der Philosophie (1889-92), poi ripubblicata con
il titolo di LeArbuch der Geschichte der
Philosophie (Freiburg i.B., 1903; tr.
it, Firenze, 1910-12), si riflette invece il passaggio dall’originaria
prospettiva neocriticistica alla teoria dei valori: il presupposto della
centralità del problema gnoseologico
viene messo in disparte, e la filosofia si allarga ad abbracciare una molteplicità di problemi
teoretici e pratici, studiati nel loro rapporto con la vita culturale e con la
vita politico-sociale. Lo stesso vale
per la Geschichte der alten Philosophie (Miinchen, 1883) e per la monografia P/aton (Stuttgart, 1900;
tr. it. Palermo, 1914). Negli anni
successivi al 1880 Windelband è pervenuto a elaborare, sulla base del richiamo a Kant, i presupposti
di quell’impostazione filosofica che
sarà indicata come «teoria dei valori». Attribuendo alla filosofia il compito di determinare i
princìpi 4 priori che garantiscono la
validità del conoscere, egli li interpreta come valori forniti del
duplice carattere dell'universalità e
della necessità, ossia come valori incondizio
nati: in riferimento alla conoscenza, la filosofia si configura come
teoria critica in quanto si pone il
problema della validità del conoscere e
individua i valori su cui essa si fonda. Ma tale tipo di
considerazione non è limitato al campo
della conoscenza, bensì si estende anche alla
moralità e all'arte. In una serie di saggi raccolti col titolo di
Préludien (Freiburg i.B.-Tiibingen,
1883) e via via arricchita nelle successive edizioni (Tiibingen, 19027, 1907°,
1911*, 1914%; tr. it. Milano, 1947) Windelband delinea una concezione della
filosofia come ricerca e individuazio- ne dei valori che costituiscono la norma
intrinseca dell'attività umana nei suoi diversi campi, distinguendo così la
validità normativa dei valori dalla validità empirica delle leggi naturali. Ciò
che è proprio dei valori non è l’esistenza di fatto, bensì il « dover essere »;
anche se non trovano una realizzazione
empirica, non per questo i valori cessano di valere incondizionatamente. Essi fanno parte di una
« coscienza normale » che si colloca su
un piano trascendente rispetto alla realtà empirica, e sul quale questa non può incidere. Il compito
della filosofia diventa perciò quello di
stabilire i valori che stanno a base rispettivamente del conoscere, dell'agire
e del sentire — secondo la tripartizione kantiana delle facoltà umane. In questa prospettiva
Windelband ha affrontato, nel discorso
rettorale di Strasburgo Geschichte und Naturwissenschaft (1894), il problema della conoscenza storica;
e l’ha affrontato in aperta polemica con
Dilthey. Egli respinge infatti la distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito a causa
del suo fondamento oggetti vo, e vi
sostituisce una distinzione puramente metodologica tra due gruppi di discipline differenziate in base al
loro orientamento conoscitivo: le scienze nomotetiche, dirette alla
determinazione di leggi generali, e le
scienze idiografiche, rivolte alla comprensione dell’individuale. In quanto insieme delle scienze idiografiche, la
conoscenza storica appare quindi
caratterizzata dallo sforzo di determinare la fisionomia individuale di ogni
avvenimento, poco importa che esso appartenga alla natura o all'ambito dei fenomeni spirituali. Nell'ultimo periodo della sua vita
Windelband ha sviluppato le implicazioni
metafisiche della teoria dei valori, affiancando all'esigenza del ritorno a Kant il richiamo alla visione
storica del mondo elaborata dall'idealismo post-kantiano. Nel volume Die
Philosophie im deutschen Geistesleben
des 19. Jahrhunderts (Tiibingen, 1909) e in alcuni saggi del 1908-10, poi raccolti nei Pràludien, egli
addita nell’orientamento storico
dell'idealismo post-kantiano l’eredità principale della filosofia
dell'Ottocento, riprendendo su tale base la polemica contro il naturalismo
e contro il tentativo di ridurre la
storia a natura. Nell’Ein/eitung in die
Philosophie (Tiibingen, 1914) egli formula la distinzione tra
scienza naturale e conoscenza storica da
un altro punto di vista, cioè in riferimento al rapporto tra realtà empirica e
valori: la scienza naturale si presenta
come una conoscenza priva di rapporto con i valori, mentre la conoscenza storica diventa una conoscenza in
relazione ai valori, dal mo- mento che la realtà storica è il terreno della
realizzazione empirica dei valori. Nella postuma e incompiuta « lezione di
guerra » sulla Geschickts- philosophie (Berlin, 1916), infine, il senso della
storia viene definito in base all'idea di umanità, kantianamente intesa come
principio regolativo e quindi come
postulato che deve consentire la valutazione dei singoli avvenimenti. Non esiste alcuna raccolta delle
opere filosofiche di Windelband, né esse
sono state ristampate in epoca recente. Si dispone invece di ristampe aggiornate dei manuali di storia della
filosofia: il Lehrbuch der Geschichte
der Philosophie (completato da H. Heimsoeth fin dalla 13? ed., del
1935), è stato ancora pubblicato dalla
casa editrice Mohr, Tiibingen, 1957!, e
così pure la Geschichte der abendlindischen Philosophie im Altertum (a cura A. Goedeckenmeyer), Miinchen,
1963. Limitata è anche la letteratura
critica sulla filosofia di Windelband,
spesso considerata insieme con quella di Rickert. Tra gli studi in
proposito segnaliamo i più importanti:
H. Ricxert, Wilhelm Windelband, Tiibingen, 1915. A. Ruce, Wilhelm Windelband, « Zeitschrift fir
Philosophie und philosophische Kritik », CLXII, 1916-17, pp. 54-71 e
188-221. K. WieperHoLt, Wertbegriff
und Wertphilosophie, « Erginzungshefte »
alle « Kantstudien », Berlin, 1920.
B. W. ScHescHicHs, Die Kategorienlehre der Badischen
philosophischen Schule, Berlin, 1938. B.
JarowenKgo, Wilhelm Windelband: ein Nachruf, Prag, 1941. C. Rosso, Figure e dottrine della filosofia
dei valori, Torino, 1949, e Napoli. I nomi hanno un loro destino — di rado,
però, strano come quello del termine « filosofia ». Se ci rivolgiamo alla sto-
ria chiedendo che cosa propriamente sia la filosofia, e ci guardiamo intorno
tra quelli che sono stati definiti, e ancora vengono definiti, « filosofi »,
per sapere come concepiscono ciò che
hanno fatto e fanno, ne otteniamo risposte così diverse e divergenti tra
loro che sarebbe un'impresa disperata voler ricondurre questa variopinta e cangiante molteplicità a
un’espressione semplice, e costringere la pienezza di tali mutevoli fenomeni
sotto un concetto unitario ". Certamente un tentativo di questo genere è
stato compiuto abbastanza spesso dagli
storici della filosofia. Si è voluto prescindere dalle particolari
determinazioni di contenuto con cui ogni
filosofo è solito porre — già nell’esposizione del compito che si prefigge — la quintessenza dei punti
di vista che ha acquisito. Si pensava di
poter così pervenire a una definizione
puramente formale, indipendente sia dal mutare delle intuizioni
temporali e nazionali, sia dall’unilateralità delle convinzioni personali, e quindi adatta a comprendere
tutto quanto è stato chiamato «
filosofia ». Ma sia che s’intenda designare la filoso a. Sulle definizioni della filosofia si veda
più particolarmente W. WinDELBAND, Lehrbuch der Geschichte der Philosophie,
Tibingen und Leipzig, 4° ed. 1907, $$
1€2. * Was ist Philosophie? Uber Begriff und
Geschichte der Philosophie (1882), in
Pràludien, Freiburg i.B. und Tibingen, Akademische Verlag von ]. C. B. Mohr, 1884, Pp. 1-53 (traduzione di Sandro Barbera e
Pietro Rossi). fia come saggezza, o come scienza dei princìpi, o come dottrina
dell’assoluto, o come auto-conoscenza dello spirito umano, o in qualsiasi altra maniera, la definizione
rimarrà pur sempre troppo ampia o troppo
ristretta: sempre ci saranno formazioni
storiche che, indicate col nome di filosofia, non si lasceranno subordinare all’una o all’altra di quelle
determinazioni for- mali. Sarebbe inutile ripetere cose spesso dette ed esibire
le istan- ze negative (che è facile far emergere dalla storia) contro simi- li
tentativi. Vale invece la pena indagare con un po’ più di precisione i motivi
di questo fenomeno. È noto che, per ottene- re una definizione valida, la
logica pretende l’indicazione del
concetto di genere prossimo superiore e dell’attributo specifico: entrambe le esigenze non possono però venir
soddisfatte in questo caso. Anzitutto si affermerà subito che il
concetto superiore nel quale rientra la
filosofia è quello di scienza. Sarebbe un’obiezione ben debole dire che nel
nostro caso la specie coincide talora
completamente col genere: così per esempio alle origini del pensiero greco, dove appunto ancora non c’è
che una scienza indivisa, o più tardi,
in certi periodi, quando la tendenza universalistica di un Descartes o di uno
Hegel riconosce le altre «scienze »
soltanto nella misura in cui si lasciano ridurre a parti della filosofia. Ciò dimostra soltanto
che il rapporto tra questa specie e il
genere non è costante; ma lascia inalterato il
carattere della filosofia come scienza. Tantomeno sarebbe possibile
confutare la subordinazione della filosofia al concetto di scienza con la dimostrazione che nella
maggior parte delle dottrine filosofiche
sono sempre presenti elementi e procedimenti non scientifici. Anche
quest’obiezione dimostrerebbe solo
quanto poco la filosofia reale abbia finora assolto il suo compito. Del
.resto la storia delle altre «scienze» offre fenomeni paralleli a questo, come l’epoca fabulatoria
della storia, la fanciullezza alchimistica della chimica o il fanatico periodo
astrologico dell'astronomia. Nonostante ogni imperfezione, quindi, la filosofia meriterebbe la qualifica di scienza
a patto di poter stabilire che tutto
quanto si definisce come filosofia vuole essere
scienza, e può anche — con una corretta esecuzione — esserlo. Ma non accade così. Una simile subordinazione
sarebbe già problematica se si mostrasse — ed è possibile, anzi è stato
mostrato — che i compiti che i filosofi si sono imposti non soltanto
occasionalmente, ma che hanno indicato come loro autentico fine, mai e poi mai possono essere risolti
per via di conoscenza scientifica. Se la
dimostrazione — introdotta per la prima volta
da Kant, e da allora ripetuta in mille varianti — dell’impossibilità di
una fondazione scientifica della metafisica è giusta, tutte le «filosofie » di
tendenza essenzialmente metafisica escono
dall’ambito della « scienza »; e ciò colpisce seriamente non fenomeni
subordinati, ma proprio quelle vette della storia della filo- sofia i cui nomi
sono sulla bocca di tutti. I loro « poemi concet- tuali » non possono quindi
venir sussunti sotto il concetto di scienza in senso oggettivo, ma soltanto in
senso soggettivo: essi si proponevano di compiere, e credevano di aver compiuto
scientificamente ciò che non si può affatto compiere scientificamente. Ma
neppure è possibile trovare tra i rappresentanti della filosofia l'universalità di questa
pretesa soggettiva, che cioè la
filosofia debba essere scienza. Per non pochi tra di essi, intanto, l'elemento scientifico vale al
massimo come mezzo, più o meno
inevitabile, per lo scopo vero e proprio della filosofia. Chi vede in
quest’ultima un’arte della vita — come i filosofi dell’epoca ellenistica e
romana — non cerca più il sapere per il sapere, come invece conviene a una
scienza. Se poi al sapere scientifico si chiede soltanto un prestito, è del
tutto indifferen- te dal punto di vista della scientificità che lo si faccia
per scopi politici, tecnici, morali,
religiosi o di qualsiasi altro tipo. Anche tra quelli che intendono la
filosofia come conoscenza, molti sono
chiaramente consapevoli che non possono acquisire tale conoscenza mediante la
ricerca scientifica: senza pensare ai mistici
(per i quali tutta la filosofia è illuminazione), quanto spesso si ripete nella storia la confessione che le
radici ultime di una convinzione
filosofica non devono essere ricercate in un procedimento dimostrativo di tipo
scientifico! Come ancoraggio a cui la
filosofia deve tenersi stretta, sopra le onde del movimento scientifico, viene indicata a volte la
coscienza con i suoi postulati, a volte la ragione come percezione di
un’insondabile profondità vitale, talora l’arte come organo della filosofia,
talora una comprensione di tipo geniale,
un’« intuizione » originaria, talora una rivelazione divina: Schopenhauer,
l’uomo in cui molti contemporanei onorano il filosofo par excellence, confessa
più volte che la sua dottrina non è
stata acquisita, né può essere
dimostrata, mediante un lavoro metodico, ma prende forma soltanto davanti allo «sguardo» d'insieme che
solo riesce a dare un’interpretazione
complessiva ai risultati conoscitivi della scienza. La filosofia è quindi ben lungi dal poter
essere semplicemente subordinata al concetto di scienza, come spesso ci si
immagina, sviati da tendenze posteriori e definizioni consuete. Certamente il
singolo può ben costruirsi un concetto di filosofia che consenta tale subordinazione: ciò è accaduto,
accadrà sempre, e noi stessi vogliamo
tentarlo. Ma quando si considera la filosofia
come una formazione storica reale, quando si confronta tutto quanto è stato indicato come filosofia nei
movimenti spirituali dei popoli europei,
una sussunzione del genere non è consenti- ta. La consapevolezza di questo
fatto si manifesta in varie forme. Nella storia della filosofia essa assume la
forma per cui, di tempo in tempo, riappaiono aspirazioni a «elevare a scien-
za», finalmente, la filosofia. A ciò si connette il fatto che, anche laddove vi
sia sempre conflitto tra indirizzi filosofici,
ognuno di essi mostra la tendenza a pretendere per sé solo il carattere della scientificità, negandolo alla
prospettiva avversa. La distinzione tra
filosofia scientifica e filosofia non scientifica è un'espressione di battaglia di cui da
sempre ci si compiace. Platone e
Aristotele hanno contrapposto la loro filosofia, in quanto scienza (èriotiUn), alla Sofistica
come opinione (865x) ascientifica e
piena di pregiudizi; e con un capovolgimento che si potrebbe quasi dire uno scherzo della
storia, oggi i rinnovatori positivistici
e relativistici della Sofistica tentano di contrapporre la loro dottrina, in quanto filosofia «
scientifica », a quelli che ancora
accreditano la grande conquista della scienza greca. Tra chi sta al di fuori della mischia, non
considerano scienza la filosofia coloro
che nella sua storia non vedono altro che la
«storia degli errori umani ». Infine colui al quale la superficiale
presunzione del moderno enciclopedismo non ha ancora fatto perdere il rispetto per la storia, chi sta
ancora pieno di stupore di fronte alle grandi
formazioni concettuali della filosofia, dovrà diventare consapevole che non è
sempre il significato scientifico della filosofia ciò a cui rende il suo
tributo, bensì qui l'energia di una più nobile intuizione della vita, là
l’artistica armonizzazione di idee
contrastanti — qui l'ampiezza di rappresentazioni di portata universale, là Ia
forza ordinatrice del lavoro
combinatorio del pensiero. In realtà i
fatti storici esigono di prendere le distanze da una subordinazione così incondizionata della
filosofia al concetto di scienza, quale viene quasi ovunque ammessa.
L’aperto sguardo dello storico sarà
piuttosto costretto a vedere in essa un fenomeno culturale ramificato e proteiforme
che non si lascia schematizzare o
rubricare con semplicità. Egli comprenderà che con quella usuale sussunzione si
fa torto alla scienza non meno che alla
filosofia: alla filosofia in quanto si costringe in un ambito troppo stretto la sua
aspirazione verso un ambito sempre più
vasto, e alla scienza in quanto la si rende così responsabile di tutto quanto confluisce da
molte altre fonti nella filosofia. Anche ammesso che si possa sussumere il
fenomeno storico della filosofia sotto
il concetto di scienza e attribuire tutto quan- to vi si oppone
all’imperfezione delle singole filosofie, sorge la questione non meno ardua di
come si debba distinguere, all’in- terno di questo genere, la filosofia, in
quanto specie particola- re, dalle altre scienze. Anche a questa seconda
questione la storia — e soltanto di questa stiamo in definitiva parlando — non dà nessuna risposta universalmente
valida. Le scienze possono distinguersi in parte secondo i loro oggetti, in
parte secondo i loro metodi; ma in nessuna di queste due prospettive è possibile rintracciare un segno distintivo permanente
per tutte le manifestazioni storiche
della filosofia. Per quanto riguarda
gli oggetti, accanto a sistemi filosofici
che fanno oggetto della loro indagine tutto quanto esiste o perfino tutto quanto «è possibile», ve ne
sono altri, altrettanto significativi, che delimitano strettamente il loro
campo d'indagine, per esempio ai «
fondamenti ultimi» dell’essere e del
pensiero, o alla dottrina dello spirito, o alla teoria della scienza, e così via. Interi campi del sapere
che per l’uno sono, se non l’unico,
almeno il terreno principale dell’elaborazione
filosofica, vengono invece dall’altro espressamente esclusi dal dominio della filosofia. Vi sono sistemi che
non vogliono esser altro che etica; ve
ne sono altri che, delimitando la filosofia alla teoria della conoscenza, si
propongono di lasciare l’indagine dei problemi morali ed estetici alla storia
dell’evoluzione psicologica e biologica.
Vi sono sistemi in cui la filosofia viene
totalmente risolta in psicologia; ve ne sono altri che tracciano uno scrupoloso confine rispetto alla
psicologia, considerata come una scienza empirica. Di molti « filosofi »
presocratici non conosciamo che alcune
osservazioni e teorie, che al giorno d’oggi releghiamo nella fisica,
nell’astronomia, nella metereologia
ecc., ma che nessuno designerebbe mai come filosofiche: nei sistemi successivi compare talora come
elemento integrante una propria visione
della natura: talora, invece, vien fatta una
rinuncia di principio ad essa. In ogni filosofia del Medioevo il centro di gravità dell'interesse sta in
problemi che sono oggi oggetto della
teologia; lo sviluppo della filosofia moderna allontana sempre più da sé, di
secolo in secolo, tali questioni. I
problemi del diritto o dell’arte rappresentano qui gli oggetti più importanti della filosofia; là si negava
invece la possibilità di una loro
trattazione filosofica. Tutta l’antichità, e anche la maggior parte dei sistemi metafisici
anteriori a Kant, non ha avuto sentore
di una filosofia della storia: oggi essa è diventata una delle discipline più
importanti. Da questa diversità degli
oggetti della filosofia risulta ora per lo storico una difficoltà non
irrilevante, e finora quasi mai trattata in linea di principio®: con quale
estensione e in quali limiti, cioè, egli debba assumere nella storia della
filosofia le dottrine e i punti di vista formulati da un filosofo, prescinden-
do dal significato biografico che possono avere per la caratterizzazione della
sua personalità. Qui sembrano aprirsi soltanto
due vie pienamente coerenti: o si segue la storia in tutte le stranezze delle sue denominazioni e si lascia
che l'esposizione storica vaghi, allo
stesso modo dell’interesse « filosofico», da
un oggetto all’altro, oppure si pone a fondamento una determinata
definizione della filosofia e in base ad essa si compie la scelta e la distinzione delle singole
dottrine. Nel primo caso si paga l’«
oggettività storica » con una molteplicità sconcertante e a. Cfr. il mio saggio Geschichte der
Philosophie, in Die Philosophie im
Beginn des zwanzigsten Jahrhunderts (Festschrift fiv Kuno Fischer),
Heidelberg. con la mancanza di connessione tra gli oggetti; nel secondo caso
l’unitarietà e la capacità di penetrazione così acquisite poggiano
sull’unilateralità con cui si impone come schema un presupposto, determinato
personalmente, nel movimento stori- co. La maggior parte degli storici della
filosofia hanno im- boccato, senza rendersene conto (o anche senza poterlo
fare), una via di mezzo, sviluppando le
teorie di quei filosofi che si
addentrano nel dettaglio delle scienze particolari soltanto nella loro connessione di principio con il
complesso della dottrina e rinunciando
in misura maggiore o minore (secondo l'estensione del loro lavoro) a riprodurre la
realizzazione specifica. Siccome non
esiste per questo un criterio determinato, e nemmeno può esistere in una maniera che possegga una
validità universale di per sé evidente,
al posto di esso sono subentrati per lo più
l’arbitrio dell’interesse personale o l’accidentalità di una certa sensibilità.
Di fatto, per il modo con cui si configurano i rapporti storici, questa difficoltà non può essere
superata in linea di principio; essa
viene rammentata qui soltanto come conseguenza necessaria del fatto che non è
possibile stabilire in modo
universalmente valido l’oggetto della filosofia in base alla
comparazione storica. La storia dimostra piuttosto che nell’ambito in cui si può indirizzare la conoscenza non
vi è nulla che non sia già stato incluso
una volta nella filosofia, e così pure nulla
che non ne sia stato una volta escluso.
Tanto più comprensibile appare allora la tendenza a cercare il carattere specifico della filosofia non
già nell'oggetto ma nel metodo, e a
ritenere che la filosofia tratti bensì gli stessi oggetti delle altre scienze,
ma con un metodo suo proprio: di qui il fatto che essa respinge da sé
determinati oggetti inaccessibili al suo metodo, mentre deve esercitare una
pretesa permanente di possesso su altri, particolarmente appropriati al suo
modo di procedere. Un tentativo di tal genere — compiuto su larga scala da
Wolff, che per ogni gruppo di oggetti della conoscenza scientifica accostava
una disciplina filosofica a una disciplina « storica » (come si diceva allora:
oggi si direbbe « empirica») — può essere teoricamente formulato molto bene
come progetto. Ma anch'esso non basta a
una determinazione storica del concetto
di filosofia — per il semplice motivo che anche tra i filosofi che assumono per
la loro scienza un metodo particolare (e sono una piccola parte) non c'è il
minimo accordo riguardo a questo « metodo filosofico ». Non è quindi possibile
parla re con validità storica universale
di un particolare modo di trattazione
scientifica il cui impiego costituisca l'essenza della filosofia, né si può sostenere che tale
essenza possa trovarsi nell’aspirazione,
anche incompiuta, a questo metodo. Giacché
da un lato tutti quelli secondo cui la filosofia oltrepassa il lavoro scientifico non vogliono,
conseguentemente, saperne di un metodo
filosofico; d’altra parte proprio coloro che vogliono «elevare a scienza » la filosofia cedono
molto spesso al desiderio di comprimerla entro metodi di altre scienze
sperimentati in campi particolari, per
esempio entro i metodi della matematica o dello studio induttivo della natura.
Infine, laddove si è imposto un metodo
specifico della filosofia, quanto esso è lontano dall’essere universalmente
riconosciuto! Il metodo dialettico della
filosofia tedesca appare ai più un capriccio stravagante e stupido; e se Kant credeva di aver stabilito
per la filosofia il metodo «critico »,
gli storici non si sono messi ancor oggi
d’accordo su ciò che voleva dire.
Queste osservazioni potrebbero essere tirate in lungo con un'infinità di esempi. Ma per quanto riguarda
il significato logico inerente a
un'istanza negativa, anche quando essa abbia
un'estensione minima, i casi qui menzionati bastano a dimostrare che è
impossibile — qualunque sia la via imboccata — trovare mediante l’induzione
storica un concetto universale di filosofia che comprenda se non altro tutti i
fenomeni storici che vengono chiamati
«filosofia». Se non è possibile sussumere
senza residui la filosofia sotto il concetto generico di scienza, tanto meno è possibile farlo rispetto ad
altri concetti generici di attività
culturali come l’arte o la poesia: bisogna perciò rinunciare alla possibilità di trovare per
via storica il concetto superiore
prossimo comprensivo della filosofia. Nessuno mette- rà in dubbio che ogni
filosofia è un prodotto spirituale, una formazione della rappresentazione; ma
nessuno vorrà conside- rarlo come un punto di vista in qualche modo
utilizzabile. Sembra che ai filosofi accada come a tutti gli individui umani
che si chiamano Paolo, e nei quali non è assolutamente possibile indicare un
segno comune ir virtà del quale essi recano tutti questo nome. Ogni
denominazione si fonda sull’arbitrio
storico e può quindi rimanere più o meno indipendente e distante
dall’essenza di ciò che deve denominare: così sembra valere, se si considera l’intero corso
temporale, anche per il termine «
filosofia », poiché la comunanza della parola non corrisponde a un’unitarietà
dell'essenza da determinare concettualmente. Se ci si limita a brevi periodi e
a singoli ambiti culturali, si potrà forse trovare al loro interno un
significato costante connesso col nome
di filosofia: ma esso cessa di valere non
appena si segue il termine nella sua applicazione attraverso tutta la storia. Certamente, questo risultato della
considerazione storica appare quanto mai preoccupante: se esso rimanesse privo
di integrazione, una storia universale della filosofia risulterebbe priva di senso. Avrebbe, appunto, lo stesso valore
— per tornare al paragone di prima — del
tentativo di scrivere la storia di tutti
gli uomini che si chiamano Paolo. È chiaro allora che proprio a quei « pensatori autonomi » che hanno
costruito un loro concetto di filosofia rigidamente determinato, come Kant e
Herbart, la consueta storia della filosofia — che doveva offrire loro elementi così poco affini — è rimasta
estranea e antipatica, mentre le epoche
di eclettismo (che non sanno mai che cosa si
debba propriamente denominare filosofia) sono state anche quelle in cui
più si è occupati storicamente di filosofia. Se però la riflessione storica deve mantenere un senso
razionale, essa presuppone (anche se non è in grado di mostrare un concetto
universale di filosofia) che il mutamento sperimentato nel corso dei secoli dal termine « filosofia» non significhi
mero arbitrio e accidentalità, ma anzi
abbia un senso razionale e un valore
specifico. Se nonostante le stranezze delle digressioni individuali la
storia del termine « filosofia » è l’espressione di uno sviluppo profondamente
significativo nella connessione della vita culturale dell'umanità europea,
allora la storia di questo e dei
fenomeni particolari in esso compresi acquisisce un senso autonomo e
fornito di valore non già malgrado, ma proprio in virtù di questo mutamento di significato. Del resto le cose non stanno, di fatto,
diversamente; e solo quando si è chiarita la storia del termine « filosofia »
si è an- che in grado di determinare ciò che nel futuro, aspirando a una
validità più che individuale, possa essere legittimato a por- tare questo nome.
Dobbiamo ai Greci sia il termine sia il primo significato di qriocepla. Divenuto denominazione tecnica —
pare — ai tempi di Platone, il termine significa esattamente ciò che oggi noi Tedeschi designamo col termine « scienza
»* che, per fortuna, è molto più comprensiva di quanto non lo sia la
science dei Francesi e degli Inglesi. È
il nome che assume un bambino appena
nato. Saggezza, che si tramanda di generazione in generazione nella forma di
antichissime narrazioni mitiche; dottrina morale, espressione riflessa
dell'anima popolare; intelligenza pratica che, accostando esperienza a
esperienza, agevola alla nuova
generazione il cammino della vita; conoscenze pratiche acquisite nella lotta per l’esistenza in
singoli compiti e nella loro soluzione,
e accumulate col trascorrere dei tempi in un
potere e in un sapere imponente — tutto ciò è esistito da sempre in tutti i tempi. Ma la «curiosità»
dello spirito di cultura liberato dalla
necessità della vita, che nella nobiltà dell’ozio comincia a indagare per
possedere il sapere soltanto di per se
stesso, senza alcun scopo pratico, senza guardare all’edificazione religiosa o
alla nobilitazione morale, per trovare godimento in esso come valore assoluto e
completamente indipendente — questo puro impulso al sapere è stato sviluppato
per la prima volta dai Greci, che sono
così diventati i creatori della scienza.
Analogamente all’«impulso al gioco », essi hano no tratto fuori dagli intrecci
delle rappresentazioni mitiche, a. Non bisognerebbe mai dimenticare che nelle
traduzioni sorgono pa- recchi fraintendimenti quando si rende piXogopfa con «
filosofia », incor- rendo così nel pericolo che il lettore moderno intenda il
termine nel sen- so attuale, assai più ristretto. Basterà un esempio tra i
molti. Un noto passo di Platone viene facilmente tradotto nel modo seguente: «
La sventura dell'umanità non avrà
termine finché i governanti non filosoferanno o i filosofi non governeranno, ossia finché
potere politico e filosofia non coincideranno ». È comodo sorridere sc per «
filosofia » si pensa alle fantasticherie metafisiche e per « filosofi » ai
professori sprovvisti di senso pratico e
ai dotti solitari! Ma si traduca correttamente; e quando allora si trova che Platone non ha preteso altro se non che
il governo stia nelle mani della cultura
scientifica, si vedrà forse come egli abbia profeticamente precorso, con quella massima, lo sviluppo della vita
europea. dalla dipendenza a bisogni etici e quotidiani l'impulso al sapere,
trasformando così la scienza, al pari dell’arte, in organi autonomi della vita
culturale. Nella nebulosità fantastica della natura orientale gli esordi
dell’impulso artistico e scientifico si rdono nel tessuto di una vita
complessiva indistinta: i Greci, come guide dell’occidentalismo, cominciano a
distinguere l’indi- stinto, a differenziare quanto è ancora embrionalmente non
dispiegato e a introdurre, per le supreme attività dell’uomo civile, la
divisione del lavoro. La storia della filosofia greca è così la storia della nascita della scienza: tale è
il suo senso più profondo e il suo
significato intramontabile. Lentamente l’impulso scientifico si svincola dai
fondamenti generali in cui è
originariamente incapsulato; allora esso si comprende, si esprime con
fierezza e petulanza e infine giunge a compimento producendo, in completa chiarezza e in tutta
la sua estensione, il concetto di
scienza. Dalla ricerca di Talete! sul fondamento primo delle cose fino alla logica di
Aristotele, è tutto un grande sviluppo tipico il cui tema è la scienza. Questa scienza si indirizza perciò a tutto
quanto può diventare oggetto del sapere, o sembra poterlo diventare:
abbraccia il Tutto, l’intero mondo della
rappresentazione. Ciò che l’impulso al sapere divenuto autonomo trova davanti a
sé come materiale per la propria attività nei racconti mitici del passato,
nelle regole di vita dei saggi e dei poeti, nelle conoscenze pratiche di un popolo di commercianti
impegnato in svariate attività — tutto
ciò è ancora così poca cosa che può essere
agevolmente riunito in una sola testa ed elaborato con pochi concetti fondamentali. Così, in Grecia la
filosofia è scienza unica e
indivisa. Ma il processo di
differenziazione già avviato deve necessariamente procedere. Il materiale
cresce, e di fronte allo spirito
conoscente e ordinatore si articola in diversi gruppi di oggetti, che appunto perciò esigono una trattazione differenziata.
La filosofia comincia a dividersi: le
singole « filosofie » si separano e ognuna di esse pretende ora per sé sola il
lavoro di una vita di un ricercatore. Lo
spirito greco entra nell'età delle scien
1. Talete di Mileto, filosofo ionico vissuto tra il secolo vil e il
secolo vi a. C., è tradizionalmente
considerato il punto di partenza della speculazione filosofica greca. ze
specialistiche. Se ora ogni disciplina assume il nome del proprio oggetto, dove
rimane il nome di filosofia? In un primo tempo esso si lega all’universale. Il
possente spirito sistematizzatore di Aristotele, in cui quel processo di
differenziazione ha trovato il suo compimento, creò tra le altre anche una
filosofia «prima », cioè una scienza fondamentale che — detta anche, più tardi, metafisica —
trattava della connessione suprema e ultima di tutte le conoscenze. Qui tutti i
concetti prodotti nei singoli compiti della scienza si unificavano in un quadro complessivo dell’universo, e per
questa suprema funzione onnicomprensiva fu quindi mantenuto il nome
originario della scienza
complessiva. Soltanto che, nello stesso
tempo, comparve un altro elemento che aveva la sua base non in un movimento puramente scientifico, ma in un movimento culturale
generale. Quella divisione del lavoro scientifico avvenne nell'epoca di
decadenza della Grecità. Alle culture
nazionali subentrò una cultura universale in cui la scienza greca costituiva sì
un vincolo essenziale, ma retrocedeva rispetto ad altre esigenze, oppure si
poneva al loro servizio. Dalla Grecità
si passò all’Ellenismo, dall’Ellenismo all’Impero romano. Si andava istituendo
un enorme meccanismo sociale, che divorava la vita nazionale con i suoi
interessi particolari, che contrapponeva l’individuo, come atomo effimero, a una totalità impenetrabile ed
estranea, che con l’acurizzarsi della lotta sociale costringeva infine il
singolo a rendersi il più possibile indipendente, e a preservare per sé il
massimo di felicità e di serenità,
sottraendolo al grande strepito, nella
quiete dell’esistenza individuale. Dove i destini del mondo esterno
passavano annientando interi popoli e potenti imperi, la felicità e il godimento sembravano rifugiarsi
nell’interiorità della persona, e così per tutti i migliori la questione della
giusta direzione da dare alla vita
personale divenne la più importante e
scottante. Di fronte alla vivacità di questo interesse si indeboliva il puro
impulso al sapere: la scienza veniva ancora apprezzata soltanto nella misura in
cui poteva servire a questo interesse, e quella « filosofia prima » sembrava
offrire la sua immagine scientifica del mondo solo allo scopo di comprendere
quale posizione spetta all’uomo nella
connessione universale, e come egli
possa di conseguenza indirizzare la propria vita. L’esempio tipico di questo
movimento lo vediamo nello Stoicismo. La subordinazione del sapere alla vita è
il carattere universale del- l’epoca: per essa la filosofia è quindi arte di
vivere ed esercizio di virtù. La scienza non è più uno scopo in sé; essa è il
più nobile strumento di felicità. Il nuovo organo dello spirito umano
sviluppato dai Greci entra in uno stato di dipendenza destinato a durare a
lungo. Col trascorrere dei secoli esso
cambia padrone. Mentre le scienze
particolari entrano al servizio dei singoli bisogni sociali — tecnica, insegnamento, medicina,
legislazione ecc. — la filosofia è anzitutto quella scienza complessiva che
deve insegnare come l’uomo possa
diventare al tempo stesso virtuoso e felice.
Ma quanto più il mondo perdura in questa situazione, quanto più una sfrenata ricerca del godimento e la
mancanza di convinzione invadono la società, tanto più si frantuma
l’orgoglio della virtù, tanto più il
desiderio di felicità dell'individuo appare privo di prospettive. Con tutto il
suo splendore e con tutto il suo
desiderio di piacere il mondo esterno si spopola, e sempre più l’ideale si sposta dalla regione mondana
in una regione trascendente, più alta,
più pura. L'idea etica si trasforma in
idea religiosa, e ora «filosofia» significa conoscenza di Dio. L’intero apparato della scienza greca, il suo
schema logico, il suo sistema di
concetti metafisici sembra ora destinato soltanto a fornire un’espressione conoscitiva adeguata
all’aspirazione religiosa e a una convinzione piena di fede. Nella teosofia e
nella teurgia che si trasmettono dagli
agonizzanti secoli di transizione alla mistica del Medioevo questo nuovo
carattere della « filosofia» emerge non meno di quanto emerga nel duro
lavoro concettuale con cui tre grandi
religioni tentarono di assimilare a sé
la scienza greca. In questa forma, come ancella della fede, la filosofia si manifesta nei lunghi e
difficili secoli di apprendistato dei popoli germanici: l'impulso al sapere sì
è fuso nell’im- pulso religioso e non ha, accanto ad esso, un suo autonomo
diritto. La filosofia è il tentativo di sviluppo scientifico e di fondazione
delle convinzioni religiose. Nell’emancipazione dal dominio esclusivo della coscienza
re- ligiosa risiedono le radici del pensiero moderno, che affondano profondamente nel cosiddetto Medioevo. Anche
l'impulso al sapere si rifà libero,
riconosce e afferma il proprio valore specifico. Mentre le scienze
specialistiche seguono, con compiti e metodi in parte nuovi, la loro strada, la
filosofia ritrova negli ideali della
Grecia il puro sapere fine a se stesso. Essa si scrolla di dosso la finalità etica e religiosa
diventando di nuovo la scienza
complessiva della totalità del mondo, di cui vuole acquisire la conoscenza per
proprio conto e per se stessa, senza appoggio
estraneo. La « filosofia » diventa metafisica in senso stretto, sia che
riproduca i sistemi dei grandi filosofi Greci, sia che intenda poetizzare in
una combinazione fantastica le nuove intuizioni offerte dalle scoperte
dell’epoca, sia che vada alla rigorosa scuola di una matematica fornita di
antica dignità eppure ancor giovane, sia che voglia cautamente costituirsi con
le conoscenze della nuova indagine della
natura. In tutti i casi essa vuole
fornire, indipendentemente dal conflitto delle opinioni religiose, una
conoscenza autonoma del mondo fondata sulla
«ragione naturale », e si contrappone così alla fede in qualità di «sapienza mondana ». Ma accanto a questo interesse metafisico ne
compare fin dall'inizio un altro, che
prende gradualmente il sopravvento.
Sorta in opposizione alla scienza tutelata dalla Chiesa, questa nuova filosofia deve anzitutto mostrare come
intenda produrre il suo nuovo sapere.
Essa procede da indagini sull’essenza
della scienza, sul processo del conoscere, sull’adattamento del pensiero ai suoi oggetti. Se questa tendenza
è inizialmente metodologica, assume però sempre di più il carattere di
teoria della conoscenza. Non indaga più
soltanto sulle vie, ma sui limiti della
conoscenza. E proprio l’antitesi, che ora si ripete e si approfondisce, tra i sistemi metafisici
suscita la questione se sia in generale
possibile la metafisica, cioè se la filosofia abbia un proprio oggetto, se abbia diritto a
esistere accanto alle scienze particolari.
E alla questione si dà risposta negativa! Il secolo che nella sua suprema fiducia nel sapere pensava di
padroneggiare la storia con la sua
filosofia — il secolo xvi — è quello che
riconosce e confessa che la forza conoscitiva dell’uomo non basta per abbracciare la totalità del mondo e
per penetrare i fondamenti ultimi delle
cose. Non esiste metafisica: la filosofia
ha distrutto se stessa. Che cosa può ancora significare il suo vuoto nome? Tutti i singoli oggetti sono
divisi tra le scienze particolari; la filosofia è come il poeta, giunto troppo
tardi alla spartizione del mondo.
Infatti l’attività di ricucitura dei risultati ultimi delle scienze
specialistiche è ben lungi dal costituire la
scienza dell’universo: essa è compito di una diligente compilazione o di
una combinazione artistica, non della scienza. La filosofia è come il re Lear,
che ha suddiviso tutto il suo tra i figli e ora è costretto a subire di farsi
gettare sulla strada come un mendicante. Però dove massimo è il pericolo,
l’aiuto è vicinissimo. Se è stato possibile dimostrare che la filosofia che
voleva essere meta- fisica è impossibile, con queste indagini è sorto un nuovo
ramo del sapere, il quale ha bisogno di
un nome. Anche se tutti gli altri
oggetti sono stati divisi senza residuo tra le scienze specialistiche e si è
dovuto definitivamente rinunciare a una scienza
dell’intuizione del mondo, quelle stesse scienze sono però un “- forse uno dei più significativi, e
pretendono di essere oggetto di una
scienza specifica che stia con esse nello stesso rapporto in cui queste stanno con le cose.
Accanto alle altre scienze compare come
disciplina particolare e chiaramente determinata una zeoria della scienza. Se
non è una conoscenza del mondo che
riunisce tutti gli altri punti di vista, ora è però l’auto-conoscenza della scienza, l'indagine
centrale in cui tutte le altre scienze
trovano la loro fondazione. A questa « dottrina
della scienza » si trasmette il nome, divenuto privo di oggetto, di filosofia: essa non è più la dottrina
della totalità del mondo o della
condotta della vita, ma è la dottrina del sapere — non è più una metafisica delle cose, ma è una «
metafisica del sapere ». Se si fa
attenzione al mutamento che si è così compiuto
attraverso due millenni nel significato del termine, appare chiaro che
la filosofia — anche se non è mai stata completamente scienza e, quando pur voleva essere scienza,
non si è costantemente rivolta al medesimo oggetto — si è tuttavia
mantenuta in una determinata relazione
con la conoscenza scientifica; e che — questa
è la cosa più importante — il mutare di tale
relazione dipende dal cambiamento di valutazione, avvenuto nello sviluppo della cultura europea, nei
riguardi della conoscenza scientifica. La storia del termine filosofia è la
storia del significato culturale della
scienza. Non appena il pensiero scientifico si rende autonomo come impulso del
conoscere in vista soltanto del sapere, esso assume il nome di filosofia;
quando poi la scienza unitaria si divide
nei suoi rami, la filosofia diventa conoscenza del mondo connettiva,
conclusiva, universale. Non appena poi
il pensiero scientifico viene di nuovo ridotto a strumento della riflessione
etica e della contemplazione religio- sa, la filosofia si trasforma in arte di
vita o in formulazione di convinzioni religiose. Quando la vita scientifica
ridiventa libe- ra, anche la filosofia ritrova il carattere di conoscenza
autono- ma del mondo, e quando comincia a rinunciare alla soluzione di questo compito si trasforma in una teoria
della scienza. All’inizio scienza
complessiva e indifferenziata, nella differenziazione delle scienze particolari
la filosofia diventa in parte quell’organo che connette le operazioni di tutte
le altre scienze in conoscenza
complessiva, in parte uno strumento al
servizio di una condotta di vita etica o religiosa, in parte infine
l'organo nervoso centrale in cui deve pervenire alla coscienza il processo
vitale degli altri organi. Dapprima identica con la scienza, la filosofia è in seguito il
risultato di tutte le scienze particolari
o la dottrina di ciò in vista di cui la scienza
esiste, o infine la teoria della scienza medesima. Sempre la concezione di ciò che vien chiamato filosofia
è caratterizzante rispetto alla
posizione che la conoscenza scientifica assume
nella valutazione dei beni culturali di ogni epoca. Sia che la si consideri come un bene assoluto oppure
soltanto come un mezzo in vista di scopi superiori, sia che la si ritenga o no
in grado di comprendere il fondamento
vitale ultimo delle cose, ciò si
manifesta nel senso che di volta in volta si collega col termine « filosofia ». La filosofia di
un'epoca è il termometro del valore che
questa attribuisce alla scienza: proprio perciò la filosofia appare ora essa
stessa come scienza, ora come qualcosa
che procede al di là di questa, e quando viene considerata come scienza, essa
abbraccia la totalità del mondo, oppure
è l'indagine sull’essenza della conoscenza scientifica. Quanto diversa è la posizione che la scienza assume
nella connessione della vita culturale,
altrettanto equivoca e multiforme è la filosofia; e da ciò si comprende che
dalla storia non si può ottenere nessun concetto unitario di essa. S'intende che questo sguardo d'insieme alla
storia del termine « filosofia » è una considerazione di massima che si
concentra sull’interesse principale delle diverse epoche e che non vuol negare né dimenticare il fatto che le quattro
tendenze particola- ri qui distinte scorrono parallele in tutti i periodi per
ognuno dei quali è stato abbozzato uno specifico significato complessivo di
«filosofia ». Già nella filosofia greca si fanno valere certe tendenze a
trasformare la filosofia in arte di vita o in critica della conoscenza; e
d’altra parte l'ideale di una conoscenza fine
a se stessa non è mai scomparso completamente dall’orizzonte dell'umanità europea. Ma le inclinazioni dei
singoli cedono il passo al predominio
della coscienza complessiva: perciò è soltanto possibile proporre una tale
considerazione di massima. Quanto però
gli individui procedano tuttavia per la loro strada, risulta particolarmente chiaro se si tiene
presente che nella nostra epoca si sono
ancor sempre rinnovate quelle quattro
concezioni della filosofia, dopo che erano state messe in ombra da quella più importante. Infatti non si è ancora presa in esame la
trasformazione più importante che la
filosofia ha subìto, ossia quella che si ricollega al nome di Kant. Essa si
colloca immediatamente dopo quella
quarta fase, in cui la filosofia si è configurata come teoria della scienza. Che cosa vuol dire
teoria della scienza? Rispetto ad altri
oggetti teoria vuol dire la spiegazione di dati
fenomeni in base alle loro cause e la determinazione delle leggi secondo cui si compiono i processi causali
del gruppo di fenomeni in questione. Nel medesimo senso si concepiva prima
di Kant anche il compito della
filosofia: essa doveva comprendere la
scienza. Essa doveva cioè spiegare l'origine delle rappresentazioni e mostrare
le leggi secondo cui esse si trasformano in
prospettive scientifiche, in concetti generali e in relazioni tra concetti fondate su giudizi. È del tutto
evidente che, se la filosofia viene così
intesa come una scienza che deve spiegare
geneticamente il pensiero scientifico, si risolve completamente in indagini sulle leggi di sviluppo dello
spirito: essa è allora per metà
psicologia individuale, per metà storia della cultura — vale a dire quello che i Francesi chiamano
ideologia”. Essa 2. Il termine,
coniato da Destutt de Tracy negli El4ments d’idbologie (1801-4), designa quella corrente filosofica che,
richiamandosi a Condillac, ne sviluppa l’impostazione gnoscologica nel senso di
un'analisi del processo di formazione delle idee, dei loro rapporti e della loro combinazione.
mostra in base a quali leggi generali viene a formarsi, secondo una necessità
naturale, la certezza dell’individuo e il modo di rappresentazione dei popoli
civili. Da ciò si comprende la ten- denza psicologica che caratterizza tutte le
manifestazioni signi- ficative della filosofia nel secolo precedente Kant.
Questa filoso- fia è quindi essenzialmente un'applicazione di conoscenze
psicologiche e storiche al concetto della scienza: essa si propone di spiegarla nello stesso modo degli altri fatti
spirituali. È però facile trovare che
tale trattazione, fondata sul procedimento delle altre scienze, non soddisfa
affatto lo scopo per cui si andava alla
ricerca di quella « teoria della scienza ». Infatti il compito di una teoria
del genere dovrebbe appunto essere non
soltanto quello di distinguere e di descrivere, tra l’intera massa delle rappresentazioni e dei nessi
delle rappresentazioni, quelle che sono
di solito designate come scientifiche, ma di
mostrare perché proprio a queste competa un valore di verità, in modo che non solo vengano generalmente
riconosciute di fatto come scientifiche,
ma meritino di essere riconosciute come
tali. Si voleva appunto sapere da che cosa dipende il fatto che le conoscenze acquisite dalla
scienza posseggono un valore necessario
che oltrepassa la loro origine accidentale, e in quale modo la scienza debba procedere per
assicurare ai suoi risultati tale
valore. Questo problema non può essere risolto
indicando il processo conforme alle leggi naturali attraverso cui viene prodotto, negli individui o nella
specie, ciò che pretende al titolo di
scienza. Tale necessità naturale di origine psicologica si ritrova infatti
senza eccezione in tutte le rappresentazioni
e i rapporti tra rappresentazioni; in essa non c'è mai un criterio per
decidere sulla questione del valore. Se la filosofia prekantiana trattava
quindi sempre il problema gnoseologico nel
senso di cercare l’origine delle rappresentazioni, e portava avanti il
dibattito sulla questione se le nostre conoscenze siano fondate, per quanto
riguarda la loro origine, sull’esperienza o su
concetti innati, o su entrambi (e secondo quali rapporti tra i due termini), sul terreno di questa
impostazione psicologica il problema non
poteva mai essere deciso. Per la psicologia può
essere interessante stabilire se una rappresentazione è sorta per l'una o per l’altra via: ma per la teoria
della conoscenza la questione è soltanto se le rappresentazioni siano valide,
cioè se possano essere riconosciute come vere. La grandezza di Kant risiede proprio
nel fatto che, con un lavoro intellettuale indicibilmente arduo e complicato,
si è ele- vato al di sopra dei pregiudizi della filosofia della sua epoca fino
al punto di vista secondo cui per il valore di verità di una rappresentazione è del tutto indifferente il
processo naturale del suo pervenire alla
coscienza. Il modo e la maniera in cui, sulla
base di leggi psicologiche, perveniamo come individui, come popoli, come genere umano alla produzione di
determinate rappresentazioni e alla fede
nella loro correttezza, non decidono per nulla del loro valore assoluto di
verità. Il processo naturale del corso
della rappresentazione può, nell’individuo
come in tutti, condurre egualmente all’errore come alla verità; esso domina dovunque, e perciò la sua
indicazione non costituisce una prova della validità di certe rappresentazioni
in antitesi ad altre. Se in definitiva
anche Kant si è visto quindi costretto, nella
sua rinuncia alla precedente metafisica, a definire la filosofia come metafisica non delle cose ma del sapere,
per lui questa teoria della conoscenza
non era una storia dello sviluppo individuale o storico-culturale, e neppure
una teoria genetico-psicologica, bensì un’indagine critica. Poco importa come,
per quali motivi e secondo quali leggi
sono pervenuti alla coscienza, nell’individuo
o nel genere umano, quei giudizi per i quali si
pretende una validità universale e necessaria — la filosofia non indaga la loro causalità, bensì la loro
fondazione: essa non è spiegazione, ma
critica. Non è qui il luogo* di
approfondire con quali mezzi e in a.
A. questo proposito l’autore rimanda all’esposizione della filosofia kantiana, condotta dal punto di vista sopra
sviluppato, che è contenuta nella sua
Geschichte der neueren Philosophie, Leipzig, 4° ed. 1907, vol. II. Per coloro che si occupano più da vicino di
questa difficile questione, aggiungo esplicitamente che la soluzione del
problema, i suoi presupposti e il suo
metodo devono essere tratti unicamente dalla Critica della ragion pura, mentre
i Prolegomeni espongono soltanto la storia della scoperta kantiana, cioè il
processo psicologico attraverso cui egli è stato condotto alla comprensione di
questa « verità ». Cfr. anche la mia Geschichte der Philosophie. quale modo
Kant abbia compiuto questa critica, o mostrare come abbia faticosamente
elaborato il nuovo principio per sot- trarlo agli intrecci di una
considerazione psicologistica. Qui è sufficiente far risalire in piena
chiarezza il concetto assolu- tamente nuovo di filosofia che la critica
kantiana ha inaugurato. In quanto filosofia teoretica, essa vuol essere
soltanto un’indagine sulla legittimità
con cui si attribuisce a certe rappresentazioni e rapporti tra rappresentazioni
il carattere di una superiore necessità
e validità universale, che oltrepassano la necessità dell’origine empirica. Le
rappresentazioni vanno e vengono; come ciò avvenga, può spiegarlo la
psicologia: la filosofia indaga quale sia il valore che ad esse spetta dal
punto di vista critico della verità. Questo principio, sviluppato dapprima per la
teoria della conoscenza e
nell’elaborazione del suo compito specifico, viene da Kant esteso con grande consequenzialità.
La conoscenza scientifica non è l’unico
campo della vita psichica in cui noi
distinguiamo — tra i fenomeni condizionati per quanto riguarda il loro
processo causale in modo conforme a leggi naturali — quelli a cui si
attribuisce un valore necessario e universalmente valido e quelli in cui ciò
non avviene. Nel campo morale assumiamo
lo stesso valore, completamente indipendente dal modo di origine psicologica,
per valutare la bontà o la cattiveria
delle azioni, dei sentimenti e dei caratteri; nel campo estetico lo assumiamo
per valutare quei sentimenti particolari che, senza alcun riferimento a scopi
consapevoli o a interessi di qualsiasi
specie, caratterizzano il loro oggetto come gradevole o sgradevole. In entrambi
questi campi spetta quindi alla
filosofia il compito, del tutto parallelo al compito della teoria della conoscenza, di indagare la legittimità
di tali pretese. Anche qui non si tratta di una quaestio facti, ma di quaestio
iuris. In questa generalizzazione la
filosofia « critica » si manifesta come
la scienza delle determinazioni di valore necessario e universalmente validi. Essa indaga se esista
una scienza, cioè un pensiero che
possegga con validità universale e necessaria il valore della verità; indaga se esista una
morale, cioè un volere e un agire che
posseggano con validità universale e necessaria il valore del bene; indaga se esista un'arte,
cioè un intuire e un sentire che
posseggano con validità universale e necessaria il valore della bellezza. In
tutte queste tre parti la filosofia sta dinanzi al suo oggetto — e quindi nella
prima parte, quella teoretica, anche dinanzi alla scienza — non come le altre
scien- ze stanno di fronte ai loro oggetti particolari, bensì criticamen- te,
cioè in modo da sottoporre a esame il materiale effettivo del pensare, del
volere, del sentire in base allo scopo della validità universale e necessaria, e in modo da
escludere e da respingere tutto quanto
non regge a questo esame. In tal modo — per
citare soltanto l’esempio più eminente e più noto — Kant dimostra che la metafisica nel vecchio senso
di scienza dell’intuizione del mondo non può essere stabilita con validità
universale, per quanto necessariamente l'impulso psicologico del sapere possa
condurre a ciò. È facile capire in
quale rapporto specifico, di comprensività
e tuttavia di completa trasformazione, questa nuova determinazione
concettuale della filosofia stia con quelle precedenti. Questa filosofia lascia
cadere completamente la pretesa di costituire
tutta la scienza; ma in quanto indaga nella sua parte teoretica i fondamenti su cui poggia la validità
universale di ogni pensiero scientifico, assume l’intero ambito delle scienze
come proprio oggetto. Essa lascia però a una scienza particolare — alla psicologia — il compito di comprendere la
storia evolutiva e la conformità alle
leggi di questo suo oggetto, per indagare da
parte sua su che cosa si fonda il valore di verità delle
rappresentazioni, quale che ne sia l’origine. In quanto però estende questa sua critica a tutte le determinazioni
di valore universalmente valide dello spirito razionale, essa appare come
indagine generale sui valori supremi; e
se la trasformazione successiva del
senso del termine « filosofia » era caratterizzante del signiftcato attribuito
nelle varie epoche alla conoscenza scientifica,
nella risposta complessiva alle questioni critiche fornita con le sue tre grandi opere Kant diede anche una
formulazione totalmente nuova di questo interesse, cioè una formulazione
adeguata alle condizioni della cultura contemporanea *?. Come si è già ricordato, molto tempo doveva
trascorrere prima che il principio
kantiano fosse inteso e pervenisse a un
a. Si veda, in questo stesso volume, il discorso su Kant [Immanuel Kant: zur Sikularfeser seiner Philosophie, in
Praludien. predominio esclusivo. Tra i suoi successori Herbart è stato quel- lo
che vi si è maggiormente attenuto dal punto di vista forma- le. Altri hanno
immediatamente tradotto i suoi risultati in una metafisica o in una scienza
filosofica universale, le cui determi- nazioni ultime essi dovevano poi, per
esplicita ammissione, cercare in postulati etici o in intuizioni estetiche.
Molti hanno pensato di limitare
nuovamente la filosofia a una teoria della
conoscenza, e la maggior parte di questi sono ricaduti, o con indagini autonome o riproducendo teorie del
secolo xvni, nella tendenza psicologica.
Non sono mancate neppure le richieste di ricondurre la filosofia a un’indagine
esclusiva di ciò che ha significato per
gli scopi pratici della vita umana.
Tutti questi tentativi sottostanno all’uno o all’altro pericolo: essi
negano il carattere specifico della filosofia facendone o una scienza in generale o una scienza
delimitata in modo preciso rispetto alle altre. Nel primo caso fanno della
filosofia un «romanzo » di concetti,
nell’altro un ragù composto di rifiuti
provenienti dalla psicologia e dalla storia della cultura. La filosofia
può rimanere o diventare scienza autonoma soltanto se porta alle estreme conseguenze, con pienezza
e rigore, il principio kantiano. Senza quindi disconoscere la mutevolezza
storica del significato del termine
«filosofia », senza rifiutare a nessuno il diritto di chiamare «filosofia » ciò
che gli aggrada, faccio per l'appunto uso di questo diritto derivante dalla
mancanza di un saldo significato storico — sulla base dell’analisi storica
sviluppata — intendendo per filosofia in senso sistematico, e non storico, la scienza critica dei valori
universalmente validi. La scienza dei
valori universalmente validi designa gli oggetti; la scienza critica designa il metodo della
filosofia. Sono convinto che tale
concezione non è che Ja realizzazione compiuta dell'idea fondamentale di Kant.
Ma non mi sarei mai permesso di
pretendere per questa definizione il nome di
« filosofia » se non potessi dimostrare in modo convincente — indipendentemente dallo sviluppo storico, e
senza fare uso delle formule della
dottrina kantiana — la necessità di una
scienza particolare del genere, in cui il nome svolazzante di « filosofia » possa trovare un solido
appiglio. Da quando Kant ha fatto stare
in piedi l’uovo di Colombo, non è difficile
ripetere il trucco. WILHELM WINDELBAND
293 Tutte le proposizioni in cui esprimiamo i nostri punti di vista si
distinguono, nonostante l'apparente identità grammati- cale, in due classi che
devono essere esattamente separate l’una dall’altra: i giudizi e le
valutazioni. Nei primi viene espressa la connessione tra due contenuti
rappresentativi, nelle seconde è
espresso un rapporto della coscienza giudicante con l'oggetto rappresentato. Vi è una fondamentale
differenza tra le due proposizioni «
questa cosa è bianca» e «questa cosa è buona », nonostante che la loro forma
grammaticale sia del tutto identica. In
entrambi i casi al soggetto (secondo la forma grammaticale) viene attribuito un
predicato; ma questo predicato è in un caso — in quanto predicato del giudizio
— una determi- nazione compiuta in sé, ricavata dal contenuto di ciò che è
oggettivamente rappresentato, nell'altro è — in quanto predica- to della
valutazione — una relazione che rimanda a una co- scienza la quale pone uno
scopo. In un giudizio si esprime ogni
volta il fatto che una determinata rappresentazione (il soggetto del giudizio) viene pensata in una
relazione, diversa secondo le diverse
forme di giudizio, con un’altra determinata
rappresentazione (predicato del giudizio). In una valutazione, invece, a un oggetto rappresentato nella sua
completezza, e quindi presupposto come
conosciuto (il soggetto della proposizione valutativa), viene aggiunto il
predicato della valutazione, mediante il
quale non si accresce affatto la conoscenza del
soggetto in questione, ma si esprime il sentimento di approvazione o di
disapprovazione con cui la coscienza valutante sta in rapporto con l’oggetto rappresentato.
Tutti i predicati del giudizio sono quindi
rappresentazioni positive, le quali si riferiscono al mondo rappresentato come
concetti di genere, come qualità,
attività, stati, rapporti ecc. Una cosa è il corpo, che è grande, duro, dolce ecc., che si muove, urta,
si arresta, ne trascina altri ecc. Tutti
i predicati della valutazione sono invece espressioni dell'accordo o disaccordo
da parte della coscienza rappresentante:
una cosa è gradevole o sgradevole, un concetto
è vero o falso, un'azione è buona o cattiva, un paesaggio è bello o brutto ecc. È chiaro che una
valutazione non contribuisce affatto alla comprensione dell'essenza
dell’oggetto valutato. La cosa deve anzi
essere presupposta come nota, cioè come
compiutamente rappresentata, prima che abbia un senso dire di essa che è
gradevole, buona, bella ecc. E tutti questi modi di predicare della valutazione hanno senso
soltanto nella misura in cui si prende
in esame se l'oggetto rappresentato corrispon- da o no a uno scopo in base al
quale la coscienza valutante lo concepisce. Ogni valutazione presuppone, come
sua misura, uno scopo determinato, e ha senso e significato soltanto per chi
riconosce tale scopo. Ogni valutazione compare quindi nel- la forma alternativa
dell’approvazione o della disapprovazione.
Il soggetto rappresentato della proposizione corrisponde o non corrisponde allo scopo, e per quanto diversi
siano i gradi di corrispondenza o di non
corrispondenza (cioè di contraddizione), e altrettanto diversi siano quindi i
gradi di approvazione e di disapprovazione, dev’esserci o accordo o disaccordo
se si vuol parlare in generale di una
valutazione conseguente. Questa
distinzione tra giudizi e valutazioni sarebbe meglio compresa nel suo significato fondamentale e
di ampia portata se non effettuassimo
sempre una particolare combinazione tra i
due elementi. I giudizi, cioè le connessioni puramente teoretiche tra
rappresentazioni, che si compiono in forme diverse, vengono formulati — nel processo della
rappresentazione comune come nella vita scientifica — solamente in quanto viene
ad essi accordato o negato un valore che
supera la necessità dell’associazione, conforme alle leggi naturali, cioè in
quanto vengono dichiarati veri o falsi, affermati o negati. Nella misura
in cui il nostro pensiero è orientato
verso la conoscenza, cioè verso la
verità, tutti i nostri giudizi sottostanno subito a una valutazione che esprime la validità o non
validità della connessione tra rappresentazioni compiuta nel giudizio. Il
giudizio puramente teoretico è dato
propriamente soltanto nella domanda o nel cosiddetto giudizio problematico, nei
quali si compie solamente un certo
collegamento tra rappresentazioni, ma non
ci si esprime sul loro valore di verità. Non appena un giudizio viene affermato o negato, insieme con la
funzione teoretica si è compiuta anche
quella di una valutazione dal punto di vista
della verità. A questa valutazione che si aggiunge al giudizio non diamo nessuna espressione linguistica
quando la valutazione è affermativa, poiché la tendenza al valore di verità
dei giudizi viene presupposta come ovvia
nella comunicazione, mentre la disapprovazione si esprime mediante la
negazione. Ogni asserzione cosiddetta affermativa (A è B) implica quindi
l’opinione che il giudizio, il quale connette le rappresentazioni A e B nel
modo espresso, deve valere come vero; e ogni asserzione negativa (4 non è B)
implica l’opinione che quel giudizio già espresso, o di cui si teme la
formulazione, dev'essere ritenuto falso. Tutte le proposizioni conoscitive
contengono quindi im- mediatamente una combinazione di giudizio e di
valutazione: sono connessioni tra
rappresentazioni del cui valore di verità si
decide affermando o negando?*.
La distinzione tra giudizio e valutazione è quindi della massima importanza,
poiché su di essa si fonda l’unica possibilità
che ci è rimasta di determinare la filosofia come scienza particolare,
profondamente distinta dalle altre già in virtù dell’oggetto. Tutte le altre
scienze devono infatti stabilire un giudizio
teoretico: l'oggetto della filosofia è costituito invece dalle
valutazioni. Le scienze particolari
devono, in quanto scienze storiche o
descrittive, formare giudizi che attribuiscano a determinati oggetti,
dati all’interno dell'esperienza, determinati predicati — in parte singolari e in parte costanti — di
qualità, di stati, di attività, di
rapporti con altri oggetti; oppure, in quanto scienze esplicative, devono ricercare quei giudizi
generali da cui è possibile derivare, come casi specifici, tutte le qualità,
gli stati, le attività e le relazioni
delle cose particolari. Una scienza naturale descrittiva constata che a una
determinata cosa — per esem a. Questa
distinzione — estremamente importante, anzi fondamentale per la logica — tra i due elementi del «
giudizio », appena sfiorata da Descartes
nella quarta Meditazione e trattata di sfuggita da J. F. Fries (Neue Kritik, Heidelberg, 1807, vol. I, p.
208 sgg.), è stata recata a una precisa
comprensione soltanto nella logica moderna in virtù delle indagini sul giudizio negativo di C. Stowart (Logik,
Tiibingen, 1873-78, vol. I, $ 20), di R.
H. Lotze (Logik, Leipzig, 1874, p. 61) e specialmente di J. BercMann (Reine
Logik, Berlin, 1879, vol. I, p. 177 sgg.). Dal punto di vista psicologico ha richiamato l’attenzione su di
essa, anche se in forma barocca, F. Brentano (Psychologie, Wien, 1874, vol. I,
p. 266 sgg.). Sull'argomento si vedano i mici Beitràge zur Lehre vom negativen
Urteil, nelle Strassburger Abhandlungen
zur Philosophie: Eduard Zeller zu seinem
stebenzigsten Geburstage, Freiburg i.B. - Tiibingen, 1884, pp. 165-95, e
il saggio Vom System der Kategorien,
nelle Philosophische Abhandlungen, C.
Sigwart zu seinem siebzigsten Geburtstage, Tibingen. pio a una pianta o a un
organismo psichico — spettano questi o quei predicati, o in modo costante o
subordinatamente a certe condizioni; una scienza storica deve accertare che
singoli uomini o popoli si sono trovati in questi o quei rapporti, hanno
compiuto queste 0 quelle azioni, hanno vissuto questi o quei destini. Una
scienza esplicativa stabilisce col nome di leggi quei giudizi generali dai quali, nella loro
qualità di premesse maggiori, deriva
come conseguenza necessaria il corso dei mutamenti in cui le cose reali e le
loro situazioni stanno in rapporto reciproco di causa o effetto. Le scienze
matematiche, infine, formulano —
indipendentemente da qualsiasi evento temporale
— giudizi generali sulla necessità intuitiva con cui le forme spaziali e numeriche stanno tra
loro in relazioni determinate. Tutti questi giudizi, per quanto siano
particolari in un caso e generali
nell’altro, per quanto variamente e diversamente si configuri il loro significato gnoseologico,
contengono connessioni tra rappresentazioni, cioè connessioni tra un soggetto
rappre- sentato e un predicato rappresentato, il cui valore di verità deve
venir determinato dalla scienza. In base al presupposto che ad alcuni dei
giudizi possibili si attribuisce la verità e ad altri no, le scienze cercano di
stabilire l'ambito complessivo di quanto dev'essere oggetto di affermazione, e
a tale scopo di negare con una motivazione
esplicita ciò che rischia di essere
affermato erroneamente. Esse compiono quindi nel campo del conoscere affermazioni e negazioni,
approvazioni e disapprovazioni, e nella loro articolazione estendono tale
attività a tutti gli oggetti accessibili
in generale alla comprensione umana. Da
questo punto di vista alla filosofia non rimane più niente da fare. Essa non
può voler essere né una scienza descrittiva, né una scienza esplicativa, né una
scienza matematica: trova tutti i gruppi
di oggetti già occupati dalle scienze particolari, che si riferiscono ad essi
in una di queste tre maniere, e
consisterebbe soltanto di prestiti se volesse, con scelta arbitraria,
abbracciarne qualcuno. Il compito della filosofia non può consistere nell’affermare o nel negare, come
fanno le altre scienze, giudizi in cui devono venir riconosciuti, descritti o
spiegati determinati oggetti. L'oggetto che ad essa rimane è costituito
dalle valutazioni. Ma anche nei loro confronti deve, se vuol essere autonoma,
porsi in un rapporto totalmente diverso da quello che le altre scienze hanno
con i loro oggetti. La filosofia non deve né descrivere né spiegare le
valutazioni: questo è compito della psicologia e della storia della cultura.
Ogni valutazione è la reazione di un individuo che vuole e sente di fronte a un determinato contenuto rappresentativo. È un
processo della vita psichica che risulta necessariamente per un verso dallo
stato di bisogno, per l’altro dal
contenuto della rappresentazione. Ma sia
il contenuto della rappresentazione sia lo stato di bisogno sono a loro volta prodotti necessari del
movimento complessivo della vita, Come
tali essi devono venir compresi; e dal momento che non basta a spiegarli la
psicologia individuale — poiché gli
scopi e i bisogni in base a cui l'individuo sottopone a esame il proprio contenuto rappresentativo
per approvarlo o disapprovarlo sono per
molti versi comprensibili soltanto in base al movimento della società — bisogna
far intervenire la storia dello sviluppo
della cultura umana per comprendere in
tutta la sua estensione l’origine conforme a leggi delle
valutazioni e per riconoscere le leggi
secondo cui procedono tali valutazioni.
La trattazione psicologica e storico-evolutiva delle valutazioni e della
loro conformità a leggi costituisce quindi di per sé un problema del tutto legittimo della scienza
esplicativa dello spirito. La scienza
esplicativa assolverebbe il suo compito soltanto in modo incompleto se si
arrestasse di fronte a questi fatti. In
base alle leggi psicologiche e ai movimenti dello spirito sociale è necessario spiegare in quale modo
le forme di valutazione riconosciute nella nostra coscienza comune siano
sorte attraverso il suo sviluppo
naturale, come noi abbiamo imparato a
distinguere il vero, il bene, il bello dai loro contrari, e come il modo e la maniera particolare in cui
effettuiamo tali valutazioni, cioè la configurazione specifica che abbiamo
assegnato a questi scopi supremi che
determinano la misura e il valore, siano
condizionati dalla necessità della nostra storia. Queste indagini corrispondono perciò a un compito
incontestabile della scienza: non
costituiscono una disciplina autonoma, ma devono essere messe insieme da vari capitoli della
psicologia e della storia della cultura.
Chi voglia chiamare «filosofia » queste
combinazioni quanto mai interessanti — come fanno fin dall’e 298 WILHELM WINDELBAND tà illuministica i « filosofi » inglesi e
francesi e come, imitando- li, è accaduto qua e là anche da noi — /adeat sibi:
non intendiamo discutere sui nomi. Però dobbiamo protestare in nome della
filosofia tedesca inaugurata da Kant se con tale denominazione si vuol
importare anche da noi l’opinione super- ficiale che non esista, al di là di
questa storia dello sviluppo psicologico
e storico-culturale, nessun compito scientifico superiore. La filosofia, quale noi la intendiamo, ha un
punto di partenza del tutto diverso. Tutte le valutazioni che si compiono negli individui e nella società sono prodotti
necessari della vita psichica. Da questo
punto di vista esse sono tutte egualmente
legittime: comunque siano apparse, hanno tutte — una volta apparse — una causa sufficiente. Senza di
queste, infatti, non sarebbero apparse.
Come fatti empirici, quali vengono spiegati
dalla psicologia e dalla storia evolutiva, esse semplicemente esistono
alla stessa stregua. Appartengono alla realtà empirica e, come oggi ogni altra
cosa, hanno cause sufficienti di esistenza e le
loro leggi di origine e di movimento; sottostanno a tali leggi come gli oggetti a cui le valutazioni si
riferiscono e che, in quanto fatti
empirici, sono sottoposti alla stessa necessità naturale conforme a leggi. Le
sensazioni e le rappresentazioni con i
sentimenti di piacere e dispiacere che esse suscitano; le connessioni
tra rappresentazioni insieme alla certezza con cui vengono dichiarate vere o
false; le determinazioni della volontà e le
azioni, come le valutazioni in virtù delle quali vengono caratterizzate
come buone o cattive; le intuizioni e i sentimenti che le valutano come belle o brutte — tutto questo
è, come fatto empirico dello spirito
umano individuale o generale, prodotto
necessario di condizioni e leggi date. Tuttavia — e questo è il fatto fondamentale della filosofia — siamo
incrollabilmente convinti che, accanto a
questa necessità naturale che coinvolge
tutte le valutazioni e i loro oggetti senza eccezione, vi sono certe valutazioni le quali valgono in modo
assoluto anche se di fatto non
pervengono a un riconoscimento 0 per lo meno non pervengono a un riconoscimento generale.
Certamente ognuno pensa necessariamente
così come pensa, e ritiene vere le rappresentazioni sue o di altri perché tali
deve necessariamente ritenerle: tuttavia siamo convinti che di fronte a questa
necessità del ritenere vero, che si compie secondo una legalità naturale, vi è
wna determinazione di valore assoluta in base a cui si deve decidere del vero o
del falso, non importa che ciò accada o no di fatto. Noi tutti abbiamo questa
convinzione: infatti nella misura in cui dichiariamo vera una qualsiasi
rappresentazione in base al corso
necessario del nostro rappresentare, questa dichiarazione non significa altro
se non la pretesa che ciò debba valere
non soltanto per noi, ma per tutti gli altri. Non importa se tale pretesa venga soddisfatta nel caso
singolo, se sia giustificata nel caso singolo: ma è chiaro che la valutazione
delle rappresentazioni dal punto di
vista della verità presuppone un
criterio assoluto di questo genere, che deve valere per tutti. La stessa cosa vale per i campi dell'etica e
dell’estetica. Certamente ciò che uno giudica buono o cattivo da un lato, bello
o brutto dall’altro, è condizionato
secondo leggi dalla situazione culturale e dal corso della vita personale di
ciascuno; ma in entrambi i casi le
predicazioni in tal modo espresse implicano la pretesa di valere per tutti e di essere necessariamente
riconosciute da ognuno nello stesso modo. Per quanto queste valutazioni si
configurino in modo relativo nella loro realtà empirica, si elevano pur sempre alla pretesa di una validità assoluta,
e trovano il loro senso nel presupporre
la possibilità di una valutazione assoluta.
Sono questa pretesa e questo presupposto a distinguere le tre forme caratteristiche di valutazione — che
possiamo chiamare di valutazione logica,
etica ed estetica — da tutte le mille forme di valutazione in cui si esprime
soltanto il sentimento individua- le di piacere o dispiacere per un oggetto
rappresentato. A chi prova piacere per un colore, a chi gusta una cosa *, a chi
prova gioia in un oggetto perché ne trae un qualche vantaggio non capiterà mai,
purché sia provvisto di buon senso, di pretendere che tutti gli altri facciano propria la sua
valutazione. La conformità alle leggi delle funzioni psicologiche comporta certamente il fatto che in esseri organizzati in modo
eguale o analogo tendano a comparire le
stesse sensazioni, e con la stessa intensi
a. Il modo di esprimersi abituale parla, con la fluidità delle sue
designazioni, anche di un gustare e di un odorare « buono » o « bello ». È
auspicabile che nell’espresssione scientifica si eviti sempre questa
negligenza. tà di sentimento. Ma se, in virtù di qualche disturbo abituale o di una disposizione momentanea, questo o
quell’individuo diverge da questa
maniera generale di sentire, in ciò non vedia- mo una cosa degna di particolare
attenzione e non ce ne stupia- mo affatto. Quanto più però risaliamo da queste
tonalità ele- mentari del sentire ai sentimenti molto più vari e complessi di
piacere e dispiacere, che sono connessi a rappresentazioni com- poste di cose e
di rapporti tra cose, tanto più si restringe —
senza che ciò ci meravigli o ci colpisca — l’accordo tra gli individui. La molteplicità delle combinazioni
non consente, nonostante l’identità conforme a leggi dei processi
fondamentali, un'identità di risultati.
Nessuno presuppone una validità universale per i propri sentimenti di piacere o
di dispiacere; nessuno pensa neppure che
vi sia un criterio assoluto con cui determinare per chiunque la valutazione del
carattere gradevole delle cose. Una
pretesa siffatta non ha senso, e un’edonistica, cioè una dottrina del piacere, può essere soltanto
un capitolo della psicologia e della
storia evolutiva, mai una disciplina filosofica. Chi addossa quindi alla filosofia Ia
responsabilità di decidere nella polemica tra ottimismo e pessimismo, chi esige
da essa che pronunci un verdetto
assoluto sulla questione se il mondo sia
più adatto alla produzione di piacere che di dispiacere o viceversa, costui lavora — supposto che
proceda a un livello superiore al
dilettantismo — in base all’illusione di trovare una determinazione assoluta per un campo in
cui nessun uomo ragionevole l’ha mai
cercata. Di una valutazione dell’universo
dal punto di vista edonistico si potrebbe infatti parlare soltanto se esistesse un metro di legittimazione per i
sentimenti soggettivi di piacere e dispiacere. Ma siccome questo manca, agli
ottimisti e ai pessimisti non rimane che mettersi a fare un calcolo approssimativo dei singoli sentimenti
empirici di piacere e di dispiacere e
una valutazione dei loro rapporti di quantità e di intensità, che è priva di qualsiasi base
solida. Se qualcuno vuol chiamare tutto
ciò filosofia, fabeat sibi; io lo considero una
scarica dell'impulso al piacere, che appartiene alla storia della patologia del pensiero umano?. a. Cfr. il mio Der Pessimnismus und die
Wissenschaft, « Der Salon. Una volta esclusa l’edonistica rimangono soltanto
tre forme di valutazione in cui la pretesa di universalità si impone come
elemento essenziale — cioè le forme caratterizzate dalle tre coppie di concetti
del vero e del falso, del bene e del male, del bello e del brutto. Vi sono
dunque soltanto tre scienze fonda- mentali propriamente filosofiche: la logica,
l’etica e l'estetica. La psicologia * è
una scienza empirica in parte descrittiva e in
parte esplicativa; la metafisica nel vecchio senso di un sapere dogmatico concernente i fondamenti ultimi di
tutta la realtà è un’assurdità: invece
la teoria della conoscenza, la filosofia della natura, la filosofia della
società e della storia, la filosofia
dell’arte e la filosofia della religione sono legittimate solamente in quanto vengano trattate non in senso
metafisico ma in senso critico, dal
punto di vista di quelle tre scienze filosofiche fondamentali, come loro
ramificazioni, applicazioni o integrazioni.
In tutte e tre occorre quindi prendere in esame la pretesa della valutazione logica, etica ed estetica a
una validità universale. Bisogna osservare subito che a un’identica
impostazione problematica corrisponde
un’indagine metodologicamente identica e sistematicamente parallela per le tre
discipline; ma non per questo viene
minimamente condizionata o pregiudicata
un'identità del risultato e della risposta. Si potrebbe per esempio
pensare che la filosofia critica confermi il diritto della valutazione logica a una validità universale,
e che invece si veda costretta o a
respingere del tutto o a riconoscere soltanto
con limitazioni assai rilevanti la pretesa corrispondente in uno degli altri due campi. In questo caso il
campo in questione sarebbe totalmente abbandonato, proprio a causa della
mancanza di un criterio assoluto, alla
trattazione psicologica e storico-evolutiva. Ma poiché è presente la pretesa a
una validità universale, e poiché tale
pretesa non può venir presa in esame né dalla
scienza descrittiva né dalla scienza esplicativa, dev’esserci
assolutamente un'indagine filosofica, anche se questa dovesse portare a risultati semplicemente negativi. Anche chi
dovesse dunque pervenire con indagini
critiche o anche mediante una prevenzio
a. Ho già difeso la causa della completa separazione della psicologia dalla filosofia nella mia prolusione
zurighese Uber den gegenivàrtigen Stand
der psychologischen Forschung, Leipzig. ne più o meno chiara alla convinzione
che nell’uno o nell’altro di questi campi — o anche in tutti e tre — sono
possibili sempre e soltanto valutazioni relative (come avviene nel campo
dell’edonistica) e mai valutazioni assolute, sarebbe tuttavia co- stretto ad
ammettere il fatto della pretesa a quest'ultime, e pertanto a concedere la
legittimità dell’impostazione filosofica.
E solo di questo qui si tratta: non si debbono anticipare i risultati della filosofia. Se l’oggetto della filosofia è così
determinato, ci si domanda in che cosa
consista la critica a cui esso deve venir sottoposto, e quale sia il procedimento scientifico che la
rende possibile. Se qui si è sempre
parlato anzitutto della pretesa alla validità universale e alla necessità delle
valutazioni logiche, etiche ed
estetiche, occorre indicare con maggiore esattezza che questa validità universale non è una validità di
fatto e che la necessità non è necessità
causale. Chi è convinto della verità di un giudizio è di solito ben lontano dal
credere che questo giudizio sia
riconosciuto, o anche soltanto possa venir riconosciuto, da tutti. Nella nostra lotta per la verità,
l’universalità effettiva del riconoscimento è una prospettiva del tutto
esclusa. D'altra parte, per situazioni
culturali inferiori c'è senza dubbio una validità universale effettiva di rappresentazioni e di
modi di valutazione che sono manifestamente erronee e sbagliate.
L'importante non è quindi che tutti gli
esemplari della specie Homo sapiens
siano unanimi nel riconoscimento di un giudizio; e neppure è possibile trovare, attraverso un’induzione
comparativa delle valutazioni reali, una validità universale in senso
filosofico. Poiché cause identiche hanno effetti identici è possibile — e
accade di fatto in mille modi — che gli
stessi motivi provochino ovunque lo
stesso errore. Per la verità o la falsità di una rappre- sentazione è del tutto
indifferente il numero degli uomini che la riconoscono o la respingono. La
validità universale di cui qui si tratta non è una validità di fatto, bensì
ideale; non è una validità reale, ma una validità che dovrebbe essere. Lo
stesso discorso vale per la necessità di queste valutazioni. Causalmente
necessarie sono sia la pazzia sia la saggezza,
sia il peccato sia la virtù, sia il sentimento della bellezza sia
il suo contrario. Il sole della
necessità naturale splende sui giusti
come sugli ingiusti. La necessità con cui sentiamo la validità delle
determinazioni logiche, etiche ed estetiche è anch'essa una necessità ideale: non è una necessità
dell’essere costretti e del non poter altrimenti, ma del dover essere e del non
dover fare altrimenti. È quella necessità superiore che non si esaurisce
completamente nella necessità naturale a cui sono sottoposti il nostro
rappresentare, il nostro volere e il nostro sentire; è la necessità del dover
essere. Nessuna legge naturale costringe l’uomo a pensare, a volere e a sentire
nel modo in cui dovrebbe sempre pensare,
volere e sentire secondo la necessità logica,
etica ed estetical Se quindi la
filosofia deve stabilire i princìpi della valutazione logica, etica ed
estetica, non può limitarsi a chiedersi quali
determinazioni abbiano in questi campi una validità universale, oppure a indagare quali si facciano valere o
si siano fatte valere con una necessità
psicologica e storico-evolutiva. In nessuna di
queste due direzioni si può trovare un criterio di ciò che deve avere validità. La massa, o anche soltanto la
maggioranza, non è il tribunale di
fronte a cui si decide il valore assoluto, e
la dimostrazione delle cause del suo comportamento non è una fondazione della sua legittimità. D'altra parte nell’energia con cui il
singolo si attiene, contro un mondo che lo contraddice, a ciò che ha
riconosciuto per vero, buono o bello,
non si manifesta l’ostinazione dell’arbitrio
individuale ma un impulso della convinzione che in lui si è fatto strada qualcosa che dovrebbe valere per
tutti e di cui non può fare a meno.
Entro la necessità naturale del movimento
della storia umana, certamente, la difesa di questa convinzione può sembrare disperatamente analoga
all’illusione personale: lo scopritore
di una nuova verità, il riformatore della vita etica, il creatore di una nuova arte appare ai suoi
contemporanei — e forse anche a molte
generazioni di posteri — come un infatuato. Ma per quanto sia difficile, anzi
impossibile decidere nel singolo caso
quale dei due fenomeni sia presente in un dato
momento, tuttavia noi tutti crediamo nella possibilità di distinguere,
noi tutti siamo convinti che — anche se non sempre lo comprendiamo, e soprattutto se non lo
comprendiamo subito — esiste un diritto
del necessario in senso superiore che dovrebbe valere per tutti. Noi crediamo
in una legge superiore a quella dell'origine naturale di tutte le nostre
valutazioni: cre- diamo a un diritto che ne determina il valore. Ho detto che
tutti ci crediamo. Non dimentico così quei teorici del relativismo che in tutte
queste determinazioni e con- vinzioni non vedono altro che prodotti necessari
della società umana? Ma essi non intendono presentare la loro teoria soltanto
come si trattasse di una semplice opinione; vogliono anzi provarla e dimostrarla. E che cosa significa
dimostrare? Significa presupporre che al di sopra della necessità del movimento delle rappresentazioni c'è una necessità
superiore che tutti dovrebbero riconoscere. Chi dimostra il relativismo, lo
annienta. Il relativismo è una teoria in
cui nessuno ha ancora veramente creduto,
in cui nessuno potrebbe credere: è una fable convenue?. Perciò ovunque la coscienza empirica scopre
in sé questa necessità ideale di ciò che
deve valere universalmente, si imbatte in una coscienza normale, la cui essenza
consiste per no: nel fatto che noi siamo
convinti che essa debba essere reale, del
tutto indipendentemente dalla realtà che riveste nel dispiegarsi della
coscienza empirica, sottoposto alla necessità naturale. Per quanto ristretto
sia il grado e l’ambito in cui questa
coscienza normale penetra quella empirica e si fa valere all’interno di
essa, ciononostante tutte le valutazioni logiche, etiche ed estetiche sono costruite in base alla
convinzione che esista una coscienza
normale a cui dobbiamo elevarci se le nostre
valutazioni debbono pretendere una validità universale necessaria: una
coscienza normale che non vale nel senso del riconoscimento fattuale, ma che
dovrebbe valere — e che perciò costituisce non già una realtà empirica, ma un
ideale in base a cui dev'essere
commisurato il valore di ogni realtà empirica. Le leggi di questa «coscienza in generale » —
secondo l’espressione kantiana — non sono più leggi naturali, che valgono
in ogni circostanza e secondo cui devono
configurarsi i singoli fatti, ma sono
invece norme, che devono appunto valere e la
cui realizzazione determina il valore di ciò che è empirico. a. Su questo, come su ciò che segue, si
veda più particolarmente il saggio Kritische oder genetische Methode?, raccolto
in questo stesso volume [Préludien. La
filosofia non è quindi altro che la riflessione su questa coscienza normale,
l'indagine scientifica intorno a quelle, tra le determinazioni di contenuto e
le forme della coscienza empi- rica, che rivestono valore di coscienza normale.
Nella coscien- za empirica di un individuo, dei popoli, dell’umanità esse sor-
gono necessariamente così come sorgono stupidità, abiezioni, mancanza di gusto: compito della filosofia è
di rintracciare, entro il caos dei
valori individuali o effettivamente universali,
quelli a cui inerisce la necessità della coscienza normale. In nessun caso è possibile derivare tale necessità
da qualcosa: la si può soltanto
indicare; essa non viene prodotta, ma solo recata alla coscienza. L'unica cosa che la filosofia
può fare è di lasciar scaturire questa coscienza normale dai movimenti
della coscienza empirica e di confidare
nell’evidenza immediata con cui la sua
normalità, non appena giunta a chiara coscienza, si mostra operante e valida in ogni individuo,
così come essa deve valere. Un principio
come il principio logico di non contraddizione, o un principio come il
principio morale della coscienza del
dovere, non sono dimostrabili. Nella vita reale delle rappresentazioni e
della volontà si può soltanto recarli alla coscienza, a una chiara formulazione, e occorre confidare che
in ognuno, purché si rifletta
seriamente, la coscienza normale si faccia valere e riconoscere con evidenza immediata. Non
potremmo più avere alcun rapporto logico
e scientifico con chi rifiutasse la validità
delle leggi del pensiero; non potremmo intenderci moralmente con chi rifiutasse qualsiasi dovere. Il
riconoscimento della coscienza normale è il presupposto della filosofia: è, in
astratto, il medesimo presupposto che
sta in concreto a fondamento di tutta la
vita scientifica, etica ed estetica. Ogni intesa su qualcosa che gli individui
debbono riconoscere al di sopra di sé come
norma valida, presuppone questa coscienza normale. La filosofia è quindi la scienza della
coscienza normale. Essa penetra la
coscienza empirica per stabilire in quali punti
emerga in questa tale validità universale normativa. È essa stessa un prodotto della coscienza empirica,
e non si contrappone a questa come qualcosa di proveniente dall’esterno; ma
poggia sulla convinzione — costitutiva di ogni valore della vita umana — che in mezzo ai movimenti naturali
della coscienza empirica abbia una necessità superiore, e indaga i punti in cui
questa viene alla luce. Questa «coscienza in generale» è quindi un sistema di
norme che, come valgono oggettivamente, così devono pure valere
soggettivamente, e tuttavia soltanto in parte valgono nel- la realtà empirica
della vita spirituale dell’uomo. Solamente in
base ad essa si determina il valore del reale. Queste norme rendono pertanto possibile formulare valutazioni
universalmen- te valide per la totalità degli oggetti che vengono conosciuti,
descritti e spiegati nei giudizi delle altre scienze. La filosofia è la scienza
dei princìpi della valutazione assoluta. Non si incorrerebbe in contraddizione
se si sostenesse che questa coscienza normale è ciò che il linguaggio popolare
intende propriamente col termine «ragione », cioè l'elemento sovraindividuale
che deve valere universalmente, e perciò si potrebbe chiamare la filosofia scienza della ragione.
Ma preferisco rinunciare a questa denominazione perché il termine «ragione»
è stato usato dai filosofi tedeschi con
significati così diversi che il suo
impiego in una definizione sarebbe equivoco e darebbe luogo a vari malintesi. La filosofia come scienza della coscienza
normale è essa stessa un concetto ideale
che non è realizzato e la cui realizzazione — come risulterà anche in seguito —
è possibile solo entro certi limiti: le
fondamenta per la sua costruzione sono
state poste dalla filosofia kantiana. Ma dal punto di vista di questo concetto anche ciò che si chiama
storia della filosofia, e che dev'essere
trattato come tale, acquista subito un altro aspetto ben definito. La validità della coscienza normale come
misura assoluta di valutazione logica,
etica ed estetica sta sì, come presupposto
imprescindibile, a base di tutte le funzioni superiori dell’uomo e soprattutto di quelle che, in quanto
prodotti della cultura sociale, hanno
come contenuto la creazione e la conservazione
di ciò che sta al di sopra dell’arbitrio degli individui; ma si manifesta in primo luogo come impregiudicata
e ovvia subordinazione a una coscienza complessiva prodotta dal processo
necessario dell'anima del popolo. Soltanto in seguito alla scossa che questo subisce subentra la riflessione su
una misura ideale a cui tutti dovrebbero
piegarsi, e da tale riflessione si sviluppa la tendenza a elevarsi a questa
coscienza normale, a farla valere nella
coscienza empirica. Ma lo spirito umano non si identifica con questa coscienza ideale: esso sottostà
alle leggi del suo movimento naturale, e
soltanto a tratti conduce a un risultato
in cui si afferma l’evidenza immediata della validità normativa. Il processo storico dello spirito umano può
quindi essere considerato dal punto di vista secondo cui si è gradualmente
manifestata in esso — in mezzo al lavoro sui singoli problemi, al mutare dei
suoi interessi, all’intreccio dei suoi fili particolari — la coscienza delle
norme, e secondo cui esso rappresenta, nel suo movimento progressivo, una
penetrazione sempre più profonda e comprensiva della coscienza normale. Nulla
impedisce di concepire, in base a questa
determinazione del concetto di
filosofia, la progressiva consapevolezza delle norme come il senso autentico della storia della filosofia.
Questa è appunto una delle linee che,
muovendo da un saldo concetto della filosofia, si può ricostruire all’interno
della storia, senza però pretendere di abbracciare in tal modo tutto il suo
contenuto così ramificato. Questa linea
corre lungo le vette che, sull’ampio
sfondo delle altre rappresentazioni, hanno raggiunto l’etere della
coscienza normale, e designa anche le più alte frastagliature dello sviluppo storico-culturale. Infatti la
riflessione sulle norme assolute è semplicemente il prodotto di ogni attività
culturale, e alla filosofia rivendichiamo soltanto il compito di recarle alla coscienza nella loro connessione e nella
loro articolazione necessaria,
attraverso una indagine scientifica. Una
storia della filosofia di questo genere sarebbe quindi una scelta che dovrebbe mostrare il progresso
graduale in cui lo spirito scientifico
ha lavorato alla soluzione del compito che
abbiamo qui formulato. Perciò
essa non cessa affatto di essere una scienza empirica, come dev'essere appunto ogni disciplina storica.
Se si considera la storia dal punto di vista di un compito da risolvere, allora si ha soprattutto il dovere di
indicare il processo causale attraverso
cui essa ha proceduto per fasi successive alla sua soluzione. I compiti non si realizzano da
soli; essi vengono realizzati. Anche le
determinazioni della coscienza normale a
cui il pensiero filosofico si innalza sono venute alla luce nel processo naturale del movimento storico del
pensiero, come determinazioni di contenuto della coscienza empirica. La storia
della filosofia deve cogliere questa loro origine empirica, senza pregiudizio del valore che ad esse
spetta quando sono penetrate nella coscienza empirica in virtù della loro
evidenza normativa ?. Perciò questa concezione non dev'essere interpretata nel
sen- so che essa statuisca — per esempio secondo la ricetta hegelia- na — una
misteriosa auto-realizzazione delle «idee », in virtù della quale le mediazioni
empiriche appaiano come un accessorio non necessario. Nella conoscenza empirica
non abbiamo altro luogo in cui
trasportare le idee all’infuori delle teste degli uomini pensanti, e soltanto
in queste esse sono, se pervenute alla
coscienza, forze determinanti e operanti. La storia della filosofia non deve
considerarle come fattori, ma deve
spiegarle come prodotti. Il « principio » che il filosofo trova diventa una forza operante nel movimento
empirico dello spirito solamente per il fatto che egli lo reca alla coscienza
come risultato del suo lavoro. Oppure il filosofo è forse qualcosa di
diverso che un uomo tra uomini? In
realtà non gli è concessa una forza di pensiero
di tipo differente da tutti gli altri; ed egli stesso lo dimostra nel modo migliore quando, con la
pubblicazione delle sue opere, esprime il desiderio di far pensare gli altri
come lui e procede pertanto — nonostante
l’intuizione intellettuale e simili doti mistiche — dall’assunzione che gli
altri debbano compie re, sotto la sua
guida, lo stesso suo movimento di pensiero. Ma
le sue idee non sono sorte in modo diverso da quelle degli altri. Come tutti quanti, egli passa da una
fanciullezza senza idee a una lenta
maturazione; dall'ambiente in cui è nato ed è
stato educato assorbe conoscenze e punti di vista che si fissano in lui come un tesoro di « verità »
originario, ed egli le arricchisce con la propria ricerca e il proprio
giudizio. Ma l’orizzonte di pensiero e
la direzione d'interesse che gli pongono le questio a. L'autore ha cercato di trattare la storia
della filosofia da questo punto di vista, abbozzato nel 1884, nel suo LeArbuch
der Geschichte der Philosophie. Si vedano, nella quarta edizione (Tibingen und
Leipzig, 1907), l'introduzione e i
paragrafi conclusivi, e inoltre il saggio Geschichte der Philosophie, sopra citato. ni rimangono pur sempre tracciati in modo
inevitabile dalla somma complessiva di
ciò che ha fino a quel momento pensato e vissuto. Così dai lati più diversi,
dalle premesse più remo- te si forma — come avviene in ogni uomo — una massa di
rappresentazioni spesso eterogenea ma fusa in tutte le direzio- ni, un sistema
psichico che tende, come sempre, all’unificazio- ne. Ma invece di
accontentarsi, come avviene nella maggior
parte degli uomini, del compromesso superficiale tra le rappresentazioni
più visibilmente contrastanti, e invece di lasciarsi imporre da una delle opinioni dominanti le
linee più generali della concezione del
mondo, il quadro delle singole prospettive, l'individuo la cui attività
designamo come filosofia è in grado di
cercare mediante il proprio sforzo di riflessione — in virtù della situazione personale, delle doti
spirituali e dell’energia del carattere — una connessione unitaria delle sue
rappresentazioni. Non si deve però mai dimenticare che quest'attività di ricerca è completamente condizionata in
tutta la sua direzione e in tutta l’estensione del contenuto rappresentativo, e
quindi naturalmente anche nel suo risultato, dall'intera massa del materiale di pensiero già esistente. Nessun
principio filosofico cade dal cielo o
piove in grembo al filosofo, ma è il risultato
conclusivo della sua molteplice attività di pensiero. Che nella realizzazione definitiva di uno stato di
equilibrio certe rappresentazioni si dimostrino più potenti e significative di
altre, è cosa ovvia; ma questa forza e
questa significatività competono ad esse
12 primo luogo anche soltanto nelle condizioni statiche di questo sistema individuale di
rappresentazioni. Se al filosofo è
capitato di trovare, con uno sforzo maggiore o minore, un principio unitario per disporre tutto il suo
materiale ideale, le varie parti di
questo materiale staranno però chiaramente in un rapporto assai diverso con esso. Alcune — e
soprattutto quelle che sono determinanti
per cogliere tale principio — si connettono facilmente e quasi per proprio
conto all'immagine del mondo così costituita; altre si dimostrano invece più o
meno refrattarie. Infatti altre opinioni, che provengono da regioni
completamente diverse e hanno un aspetto del tutto indifferente, devono a volte
accettare di essere spostate e trasformate a profitto di quel principio
fondamentale; questo apre ora anche nuovi
ambiti di rappresentazione e nuove conoscenze; di fronte ad esse le
vecchie idee vengono relegate sullo sfondo e, se non soppiantate del tutto, almeno parzialmente
trasformate, conti- nuando però a costituire il materiale su cui soltanto può
farsi 0 l’attività assimilatrice e trasformatrice della nuova for- a. Ma di
rado vedremo un filosofo nella felice situazione di mr disporre tutto il suo
materiale rappresentativo in un’inti- ma relazione uniforme con il principio da
lui scoperto; e tra le idee contrastanti
ve ne saranno sempre alcune che non cedono
al nuovo principio, ma sono talmente radicate nell’anima con la loro forza originaria che — ad onta della
loro mancanza di relazione, o
addirittura della loro contraddizione rispetto a quel principio — si conservano accanto ad
esso e pretendono, con non minore forza,
un posto spesso assai significativo nell’intuizione umana del mondo. Ne
derivano smagliature e spaccature nel sistema, ma esse sono superate e nascoste
nella certezza soggettiva del filosofo.
E quanto più energicamente egli cerca di
mantenere insieme le sue diverse convinzioni,
tanto più lo vedremo incline a cedere all’illusione di considerarle in
accordo laddove in realtà non lo sono affatto né possono diventarlo, oppure a ipotizzare tra di esse
una connessione che mai, per la loro
stessa natura, possono acquisire. Si spiega così l’eterogeneità degli elementi che, in numero
più o meno grande, si trovano — in ogni sistema filosofico — in
un’antitesi altrimenti incomprensibile
rispetto al cosiddetto principio fondamentale. Anche la caratteristica
circostanza che proprio in questi punti
i filosofi siano soliti insistere nel modo più rigido sulla necessaria omogeneità di concezioni
disparate, risulterà comprensibile se
riflettiamo che soltanto le convinzioni intimamente legate con la personalità
del filosofo possono mantenersi
indipendenti dal principio appena scoperto, e che un sentimento di
certezza altrettanto salda fonde ora insieme rappresentazioni altrimenti diverse,
di modo che ne viene straordinariamente rafforzata la capacità di scoprire,
sotto la spinta di questo interesse, passaggi e connessioni apparenti. Ma tutte
queste mancanze di connessione e queste
contraddizioni con i loro artificiosi
intrecci non potrebbero esistere se un sistema filosofico crescesse in modo
organico fin dall’inizio completamente
indipendente, in base all'impulso del suo principio fondamentale. Esse
sono invece del tutto comprensibili se abbiamo chiaro il fatto che il
molteplice materiale ideale, prodotto e trasmesso dai lati più diversi, deve raccogliersi e
fissarsi nella testa del filosofo molto tempo prima che questi abbia anche
soltanto pensato alla ricerca del suo principio; e che quindi tale princi- pio
deve compiere più tardi, nell’assoggettare a sé il materiale preesistente, un
lavoro di difficoltà assai diversa e talora comple- tamente insolubile. La
concezione teleologica della storia della filosofia dal punto di vista della
soluzione successiva di un compito espresso in
un saldo concetto di filosofia è quindi una considerazione che è giustificata in quanto tale, ed è forse
necessaria e auspicabile nell’interesse
della filosofia così determinata. Ma essa non costituisce di per sé sola tutta
la storia della filosofia. La storia è
constatazione empirica e spiegazione empirica. Se anche nei confronti di tale oggetto questo compito deve
mantenere la sua purezza, esso richiede
una trattazione psicologica e storico-culturale. D'altra parte, però — occorre metterlo ancor
più in risalto di fronte alle
inclinazioni e alle tendenze attuali — la filosofia ha l’interesse più vivo a saper conosciuto e
riconosciuto il fatto che questo
processo naturale ha condotto, in virtù della riflessione sulla coscienza
normale, a convinzioni che non esistono semplicemente come ne esistono anche
altre e che non sono pervenute a validità soltanto perché tale è stato il
risultato del corso delle
rappresentazioni, ma che posseggono l’assoluto valore di dover avere validità. Non bisogna dimenticare
che questo prodotto della necessità naturale si identifica con una
necessità superiore, quella
normativa. Il movimento empirico del
pensiero umano conquista alla coscienza
normale, l’una dopo l’altra, le sue determinazioni. Noi non sappiamo se esso arriverà a un
termine; ancor meno sappiamo se la successione
storica, in cui ci appropriamo di alcune
di queste determinazioni, abbia un significato che indichi una loro connessione
interna. Per la nostra conoscenza, la
coscienza normale rimane un ideale di cui riusciamo a cogliere soltanto il margine. Il pensiero umano può
soltanto o, come scienza empirica,
comprendere il singolo dato nella sua connessione causale e nella sua
determinatezza fornita di valore, oppure, come filosofia, riflettere, con
l’aiuto dell’esperienza, sui princìpi evidenti di una valutazione assoluta. Una
comprensione completa della totalità della coscienza normale da un punto di
vista scientifico ci è negata. Nell’ambito della nostra esperien- za traluce a
tratti l’ideale; e se dobbiamo essere convinti della realtà di una coscienza
normale assoluta, ciò riguarda la fede personale, non più la conoscenza
scientifica. È un prezioso privilegio del rettore quello di poter intratte-
nere gli ospiti e i colleghi nell’anniversario della fondazione
dell’università, su un oggetto tratto dall’ambito della disciplina di cui egli
si occupa: ma il dovere che corrisponde a tale privilegio crea particolari
preoccupazioni al filosofo. Certamen- te, gli è relativamente facile trovare un
tema che possa contare con sicurezza su
un interesse generale. Ma su questo vantaggio
prevalgono di gran lunga le difficoltà che comporta il modo specifico di indagine della filosofia. Ogni
lavoro scientifico è rivolto a collocare
il suo oggetto particolare in un ambito più
vasto e a decidere le singole questioni sulla base di prospettive più generali. E fin qui la filosofia si
comporta come le altre scienze; ma,
mentre queste possono considerare, con una sicurezza sufficiente per l'indagine
specialistica, tali principi come saldi
e dati, alla filosofia è essenziale il fatto che il suo specifico oggetto di
ricerca è costituito appunto dai princìpi stessi e che quindi non può derivare le sue
decisioni da qualcosa di più generale,
ma deve di volta in volta determinarsi nel modo
più generale. Per la filosofia in senso stretto non esiste alcuna indagine specialistica: ogni suo problema
particolare estende spontaneamente le
sue direttrici fino alle questioni ultime e
supreme. Chi vuol parlare filosoficamente di cose filosofiche deve avere sempre il coraggio di prendere
posizione in modo complessivo, e deve
anche avere il coraggio, difficile da conser
* Geschichte und Naturwissenschaft (discorso rettorale tenuto
all'Università di Strasburgo, 1894), in
Pràludien, Tiibingen, Verlag von J. C. B. Mohr, 3° cd. 1907, PP. 355-379 (traduzione di Sandro Barbera e
Pietro Rossi). vare, di condurre i suoi uditori nell’alto mare delle
riflessioni più generali, dove la
terraferma minaccia di scomparire alla vista.
Da tali riserve il rappresentante della filosofia potrebbe sen- tirsi
tentato o a tracciare soltanto un quadro storico della sua disciplina o a
trovare rifugio nella particolare scienza empirica che gli indirizzi e le
consuetudini accademiche ancora gli asse- gnano — la psicologia. Anch’essa
offre una quantità di oggetti che toccano chiunque e la cui trattazione
promette un bottino tanto più sicuro
quanto più vari sono i punti di vista metodologici e oggettivi che il vivace
movimento di questa disciplina ha recato
in luce negli ultimi decenni. Ma rinuncio a entrambe le vie d’uscita: non voglio né sostenere
l’idea che non esiste più filosofia ma
soltanto storia della filosofia, né quell’altra
secondo cui la filosofia — come Kant l’ha nuovamente fondata — potrebbe restringersi nell’angusta cornice
della scienza specialistica il cui valore conoscitivo è quello che Kant stesso
stimava di meno tra le discipline teoretiche. In un'occasione come l'odierna mi sembra invece doveroso
testimoniare che, anche nella sua forma
attuale di rifiuto di ogni pretesa metafisica, la filosofia si sente all’altezza di quelle
grandi questioni a cui deve non soltanto
il contenuto significativo della sua storia, ma
anche il suo valore nella letteratura e la sua posizione
nell’insegnamento accademico. Così il rischio insito nel compito mi stimola a illustrare con un esempio quell’impulso
dell'indagine filosofica per cui ogni
problema specifico si allarga fino agli
enigmi ultimi della visione umana del mondo e della vita, e a mostrare qui la necessità con cui ogni
tentativo di recare a intelligenza piena quanto è apparentemente noto con
chiarezza € semplicità ci spinge,
rapidamente e inarrestabilmente, fino ai
confini estremi della nostra facoltà conoscitiva, circondati di oscuri misteri. Se a questo scopo scelgo un tema tratto
dalla logica, e in particolare dalla
metodologia, dalla teoria della scienza, è perché penso che in questo modo
possa venire in luce in modo
particolarmente chiaro e comprensibile l’intima connessione tra il lavoro filosofico e il lavoro delle
altre scienze. La filosofia non è mai
stata né vive estranea alla scienza in un
mondo inventato col pensiero, ma è esistita e sussiste in un ricco
scambio reciproco con ogni conoscenza vitale della realtà e con tutti i contenuti di valore della vita
reale dello spiri- to. Se la sua storia è stata la storia degli errori umani,
il motivo risiede nel fatto che essa assumeva in buona fede come compiute e
certe, dalle teorie delle scienze particolari, ciò che anche all’interno della
scienza poteva valere al massimo come verità in divenire. Questa connessione
vitale tra la filosofia e le altre
discipline appare nel modo più chiaro proprio nello sviluppo della logica, che
non è mai stata altro se non la riflessione
critica sulle forme di conoscenza reale ad essa preesistenti. Mai un metodo fecondo si è sviluppato sulla base
di una costruzione astratta o di
riflessioni meramente formali dei logici: ad essi spetta soltanto il compito di recare alla sua
forma universale ciò che è stato
eseguito con successo nelle singole scienze e di determinare in tal modo il suo significato,
il suo valore conoscitivo e i limiti della sua applicazione. Da dove la logica
moderna ha preso — per menzionare l'esempio più eminente — in antitesi con la sua progenitrice greca, la
rappresentazione matura dell’essenza
dell’induzione? Non dall’enfasi programmatica con cui l’ha raccomandata e
scolasticamente descritta Bacone, bensì
dalla riflessione sull’efficace applicazione che questa forma di pensiero ha
ottenuto dai tempi di Keplero e di
Galilei nel lavoro specifico della ricerca naturale, raffinandosi e rafforzandosi da un problema particolare
all’altro. Sulle medesime connessioni
riposano però ovviamente anche i
tentativi della logica moderna di tracciare, nel dominio del sapere umano sviluppatosi in modo così vario,
linee concettualmente determinate al fine di delimitarne le singole
province. Il mutevole predominio
esercitato negli interessi scientifici dell'età moderna dalla filologia, dalla
matematica, dalla scienza naturale,
dalla psicologia, dalla storia, si rispecchia nei diversi abbozzi di un «sistema delle scienze», come
si diceva una volta, o di una «
classificazione delle scienze », come viene chiamata oggi. Gran parte di
responsabilità spetta alla tendenza
universalistica che, disconoscendo l’autonomia dei singoli campi del
sapere, voleva sottoporre tutti gli oggetti alla costrizione di un unico metodo, di modo che per
l’articolazione delle scienze restavano
soltanto punti di vista oggettivi, cioè metafisici. L’uno dopo l’altro il
metodo meccanicistico, il metodo geometrico, il metodo psicologico, il metodo
dialettico, e da ulti- mo il metodo storico-evolutivo hanno preteso di ampliare
il loro dominio, dallo stretto campo della loro feconda applicazio- ne
originaria, possibilmente a tutto l’ambito della conoscenza umana. Quanto più
grande appare il contrasto di queste diver- se tendenze, tanto più cresce per
la riflessione della teoria logica il vasto compito di realizzare una giusta
ponderazione di quelle pretese e una
separazione equilibrata dei loro ambiti di
validità attraverso le determinazioni universali della dottrina della conoscenza. Grazie a Kant si è compiuta
la differenziazione metodologica della filosofia dalla matematica e, nelle
linee generali, anche dalla psicologia.
Da allora il secolo xix ha sperimentato
accanto a una certa paralisi dell’impulso filosofico, all’inizio sovraeccitato,
una più varia molteplicità di tendenze e di movimenti nelle scienze
particolari: nell’appropriarsi di
numerosi problemi di specie nuova l’apparato metodologico si è modificato da tutte le parti, estendendosi e
raffinandosi in misura prima sconosciuta. Intanto i diversi procedimenti si
sono variamente intrecciati tra di loro,
e nel momento in cui ognuno di essi pretendeva una posizione dominante nella
visione del mondo e della vita dei nostri giorni, per la filosofia teoretica
sorgevano nuove questioni. Su tali questioni, senza pretendere affatto di
esaurirle, intendo attirare la vostra attenzione. Non occorre quasi menzionare
il fatto che le divisioni alle quali qui
miro non possono riflettere l’articolazione che Ie scienze trovano nella
separazione delle facoltà universitarie. Questa
è infatti sorta dai compiti pratici delle università e dal loro sviluppo storico. Lo scopo pratico ha spesso
unificato ciò che da un punto di vista
puramente teoretico doveva essere separato, e
ha staccato ciò che doveva essere strettamente unificato: lo stesso motivo ha mescolato per vari versi le
discipline propriamente scientifiche con quelle pratiche e tecniche. Non si
deve però pensare che ciò sia andato a
tutto detrimento dell’attività
scientifica. Piuttosto, le relazioni pratiche hanno anche qui avuto la
conseguenza di provocare uno scambio tra i diversi campi del sapere più ricco e vitale di quello
prodotto nel caso delle più astratte
combinazioni di un materiale omogeneo, quali avvengono nelle accademie.
Tuttavia i mutamenti che gli ordinamenti delle facoltà delle università
tedesche hanno subito negli ultimi decenni, in modo particolare per quanto
riguarda quella che una volta era la
facultas artium, indicano una certa tendenza ad attribuire un'importanza
maggiore ai motivi metodologici di articolazione. Se si seguono questi motivi con un interesse
soltanto teoreti- co, si può anzitutto assumere come valido il fatto di
contrappor- re la filosofia — e quindi, come sempre, anche la matematica — alle
scienze empiriche. Le prime due possono essere raccolte sotto il vecchio nome
di scienze «razionali », anche se in un significato del termine assai
differente e che non si può qui
discutere più da vicino. Basti per ora esprimere il loro carattere
comune in forma negativa, dicendo che non sono indirizzate immediatamente alla conoscenza di qualcosa
che è dato nell’esperienza, anche se le prospettive da esse acquisite possono
e debbono essere impiegate a tale scopo
nelle altre scienze. A questo momento
oggettivo corrisponde, dal lato formale, un
comune carattere logico, in quanto entrambe — la filosofia come la matematica — non poggiano mai le loro
affermazioni su singole percezioni o su
masse di percezioni, anche se l’occasione di fatto, psico-genetica, delle loro
indagini e delle loro scoperte può
risiedere in motivi empirici. Per scienze empiriche intendiamo invece quelle che hanno il compito
di conoscere una realtà comunque data e
accessibile alla percezione: la loro
caratteristica formale consiste quindi nel fatto che per la fondazione
dei loro risultati hanno in ogni caso bisogno, accanto ai presupposti assiomatici universali e alla
correttezza del normale procedimento di
pensiero parimenti richiesta per ogni tipo di
conoscenze, di una constatazione dei fatti attraverso la
percezione. Per la divisione di queste
discipline dirette alla conoscenza del reale
è attualmente corrente la distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito: io la
considero però, in questa forma, poco
felice. Quella tra natura e spirito è un’antitesi oggettiva che è pervenuta a una posizione
predominante al tramonto del pensiero
antico e agli inizi di quello medievale, e
che nella metafisica moderna si è fatta valere, con la massima decisione, da Descartes e da Spinoza fino a
Schelling e a Hegel. Se giudico correttamente la disposizione della filosofia
più recente e le conseguenze della
critica gnoseologica, questa separazione rimasta aderente al modo generale di
rappresentazione e di espressione non
può più ora venir ritenuta così sicura e
ovvia da diventare senza riesame il fondamento di una classifi- cazione.
A ciò si aggiunga il fatto che a quest’antitesi tra oggetti non corrisponde
un’antitesi tra modi di conoscenza. Se Locke tradusse il dualismo cartesiano in
una formula soggetti- va, contrapponendo percezione esterna a percezione
interna (sensation e reffection) come organi distinti di conoscenza da un lato del mondo corporeo esterno, della
natura, dall'altro del mondo spirituale
interno, la critica della conoscenza dell’epoca
più recente ha fatto sempre più vacillare questa concezione e ha per lo meno posto fortemente in dubbio la
legittimità dell’assunzione di una « percezione interna» come modo
particolare di conoscenza. Non è neppure
ormai possibile ammettere che i fatti
delle cosiddette scienze dello spirito siano fondati semplicemente sulla
percezione interna. Ma l’incongruenza tra un principio oggettivo e un principio
formale di divisione si manifesta
soprattutto nel fatto che tra la scienza della natura e la scienza dello spirito non è possibile inserire una
disciplina empirica di tanta importanza
come la psicologia, la quale dev'essere caratterizzata in base all'oggetto solo
come scienza dello spirito e, in certo
senso, come il fondamento di tutte le altre scienze, mentre il suo intero
procedimento, il suo comportamento metodologico, è dall’inizio alla fine quello
delle scienze della natura. Perciò essa
ha dovuto accettare talvolta la designazione di
« scienza naturale del senso interno » o anche quella di « scienza della
natura spirituale ». Una divisione che
mostri difficoltà di tal genere non ha alcuna consistenza dal punto di vista
sistematico: ma per ottenerla ha forse
bisogno soltanto di piccole trasformazioni nella sua formulazione concettuale.
In che cosa consiste l'affinità metodologica
della psicologia con le scienze naturali? Evidentemente nel fatto che anch'essa, al pari di queste,
constata, raccoglie ed elabora i fatti
soltanto dal punto di vista e allo scopo di intendere la conformità a leggi
generali a cui questi fatti sono sottoposti. Certamente la diversità degli
oggetti comporta che i metodi
particolari di accertamento dei fatti, nonché il modo della loro utilizzazione induttiva e la
formulazione alla quale possono venir
ricondotte le leggi scoperte, siano molto differenti; e sotto questo aspetto la
distanza della psicologia, per esempio, dalla chimica è di poco maggiore a
quella che intercorre tra la meccanica e la biologia. Ma — ed è questo che qui
importa — tutte queste differenze di carattere oggettivo stanno in secondo piano
rispetto all'identità logica che tali discipline posseggono per quanto riguarda
il carattere formale dei loro fini conoscitivi: esse cercano sempre leggi
dell’accadere — sia che si tratti di un
movimento di corpi, di una trasformazione
di materia, di uno sviluppo della vita organica o di un processo del
rappresentare, del sentire e del volere.
Viceversa, la maggior parte delle discipline empiriche, che sono state da parte di altri designate come
scienze dello spirito, è decisamente diretta a rappresentare nel modo più
compiuto ed esauriente un evento singolo, più o meno esteso, con una sua realtà singolare e limitata nel tempo.
Anche da questo lato gli oggetti e gli
strumenti tecnici particolari con cui è assicurata la loro comprensione sono
quanto mai diversi. Si può infatti
trattare di un singolo avvenimento o di una serie complessiva di azioni e di vicende, dell'essenza e della
vita di un singolo uomo o di un intero
popolo, del carattere specifico e dello
sviluppo di una lingua, di una religione, di un ordinamento giuridico, oppure di un prodotto letterario,
artistico, scientifico — e ognuno di
questi oggetti richiede una trattazione adeguata alla sua particolare fisionomia. Ma sempre lo
scopo conoscitivo rimane quello di
riprodurre e di intendere nella sua realtà di
fatto una formazione della vita umana, che si è presentata nella sua configurazione singolare. È chiaro che
con ciò si designa l’intero ambito delle discipline storiche. Noi ci troviamo
quindi di fronte a una divisione puramente metodologica delle scienze
empiriche, che deve essere fondata su concetti logici sicuri. Il principio di
divisione è costitui- to dal carattere formale dei loro fini conoscitivi. Le
une cercano leggi generali, le altre fatti storici particolari: per esprimerci
nel linguaggio della logica formale, il fine delle une è il giudizio generale, apodittico, mentre quello
delle altre è la proposizione singolare,
assertoria. Questa distinzione si ricollega così a quell’importantissimo e
decisivo rapporto presente
nell’intelletto umano, che fu riconosciuto da Socrate come la relazione fondamentale di ogni pensiero
scientifico: il rapporto dell’universale con il particolare. A partire da
questo punto si è divisa la metafisica
antica, in quanto Platone cercava la realtà negli immutabili concetti di
genere, mentre Aristotele la cercava
nell’essere singolo che si sviluppa secondo uno scopo. La moderna scienza della natura ci ha
insegnato a definire ciò che è in base alle necessità durevoli dell’accadere
che in esso sì compie; ha messo la legge naturale al posto dell’idea platonica.
Perciò possiamo dire che nella conoscenza del reale le scien- ze empiriche
cercano o il generale nella forma di legge di natura o il singolare nella forma
storicamente determinata; esse
considerano da un parte la forma sempre permanente, dall’altra il contenuto singolare, in sé
determinato, dell’accadere reale. Le prime sono scienze di leggi e le seconde
sono scienze di avvenimenti; quelle
insegnano ciò che è sempre, e queste ciò
che è stato una volta. Il pensiero scientifico — se è consentito elaborare nuove espressioni — è
nel primo caso n0motetico, nel secondo idiografico. Se vogliamo attenerci
alle vecchie espressioni, possiamo pure
parlare in questo senso di un’antitesi
tra discipline naturali e discipline storiche, fermo restando che in questo senso metodologico lo
psicologia dev’essere senz’altro compresa tra le scienze naturali. In generale, rimane da considerare che
quest’antitesi metodologica classifica solo il modo di trattazione e non il
contenuto del sapere. Resta possibile — ed è di fatto vero — che gli stessi oggetti possono essere sottoposti a
un'indagine nomotetica e al tempo stesso
a un'indagine idiografica. Ciò dipende dal
fatto che l’antitesi tra il sempre eguale e il singolare è, per un certo verso, relativa. Ciò che all’interno di
periodi di tempo assai grandi non
subisce nessun mutamento immediatamente
percepibile e può quindi venir considerato nomoteticamente in base alle sue forme immutabili, può tuttavia
risultare da una prospettiva ulteriore
valido per un periodo di tempo pur sempre limitato, cioè qualcosa di singolare.
Così una lingua è dominata, in tutte le
applicazioni particolari, dalle sue leggi
formali, che rimangono le medesime in ogni mutamento dell’espressione;
ma d’altra parte questa stessa lingua particolare, con le sue specifiche leggi formali, è
soltanto una manifestazione singolare e transitoria nella vita linguistica
dell’uomo. Lo stesso vale per la
fisiologia del corpo, per la geologia e in un certo senso perfino per
l'astronomia: con ciò il principio storico viene trasferito nel campo delle
scienze naturali. L’esempio classico a
questo proposito è costituito dalla scien- za della natura organica. Come
sistematica, essa riveste caratte- re nomotetico in quanto, nel paio di
millenni per cui è stata finora condotta l’osservazione umana, può considerare
i tipi identici dell'essere vivente come la loro forma conforme a leg- gi. In
quanto storia dello sviluppo, che rappresenta l’intera successione degli organismi terrestri come un
processo di discendenza o di trasformazione che si compie gradualmente nel corso del tempo e la cui ripetizione su
qualche altro pianeta non soltanto non
possiede nessuna garanzia di certezza, ma
neppure qualche probabilità, essa è invece una disciplina idiografica,
cioè storica. Già Kant, anticipando il concetto della moderna teoria della discendenza, chiamava
colui che avesse osato affrontare
quest’« avventura della ragione » col nome di
futuro « archeologo della natura ».
Se ci chiediamo come la teoria logica si sia finora atteggiata nei confronti di quest’antitesi decisiva tra
le scienze particolari, ci imbattiamo esattamente nel punto in cui questa è
rimasta più che altrove bisognosa di riforma. Il suo intero sviluppo mostra la più decisa predilezione per le
forme di pensiero nomotetico. Certamente si tratta di un fatto ben spiegabile.
Dal momento che ogni ricerca e
dimostrazione scientifica si svolge
nella forma del concetto, l’indagine sull’essenza, sulla fondazione e
sull’applicazione di ciò che è generale rimane l'interesse più prossimo e più importante della logica. A
ciò si aggiunga l'influenza del corso
storico. La filosofia si è sviluppata muovendo da ricerche di scienza naturale,
dalla questione della pbsic, cioè dalla
permanenza dell'essere nel mutare dei fenomeni; e seguendo un corso parallelo — che non mancava
neppure della mediazione causale
rappresentata dalla tradizione storica del
Rinascimento — la filosofia moderna è pervenuta alla propria autonomia con l’aiuto della scienza della
natura. Perciò non poteva accadere se
non che la riflessione logica si rivolgesse in
primo luogo alle forme di pensiero nomotetico, facendo dipendere
durevolmente da queste le sue teorie generali. Ciò vale ancor sempre: tutta la nostra dottrina
tradizionale del concetto, del giudizio e del sillogismo è ancor sempre
ritagliata sul presupposto aristotelico che il principio generale sta al centro
dell'indagine logica. Basta aprire un qualsiasi manuale di logi- ca per
convincersi che non soltanto la grande maggioranza degli esempi viene scelta
dalle discipline matematiche e dalle scienze naturali, ma che anche i logici
che si mostrano piena- mente sensibili al carattere specifico della ricerca storica
cercano pur sempre i punti di riferimento ultimi delle loro teorie sul versante del pensiero nomotetico. Sarebbe
auspicabile — ma le premesse in questo
senso sono ancora troppo scarse — che la
riflessione logica rendesse giustizia alla grande realtà presente nel pensiero storico, nella stessa misura in
cui ha inteso cogliere le forme dell'indagine naturale fin nei suoi
particolari. Concedetemi per ora di
considerare un po’ da vicino il rapporto
tra sapere nomotetico e sapere idiografico. Come si è detto, all’indagine naturale e alla
conoscenza storica è comune il carattere
di scienza empirica: entrambe hanno cioè come
punto di partenza — o, in termini logici, come premesse delle loro dimostrazioni — delle esperienze, dei
fatti della percezione. Esse coincidono inoltre nel fatto che né l’una né
l’altra possono appagarsi di ciò che
l’uomo ingenuo pensa solitamente di
esperire. Entrambe hanno bisogno, come loro fondamento, di un'esperienza scientificamente purificata,
criticamente vagliata e sottoposta a esame nel lavoro concettuale. Nella
stessa misura in cui bisogna
disciplinare accuratamente i propri sensi
per stabilire le sottili distinzioni presenti nella conformazione di esseri strettamente imparentati, per
vedere con successo attraverso un microscopio, per cogliere con sicurezza Îa
sincronia dell’oscillazione di un
pendolo e della posizione di una lancetta, nello stesso modo occorre fatica per
determinare il carattere specifico di
una scrittura, per osservare lo stile di uno scrittore o per cogliere l'orizzonte spirituale e
l'ambito di interessi di una fonte
storica. Per natura l’una e l’altra cosa possono essere fatte soltanto in maniera imperfetta. Se
quindi la tradizione del lavoro
scientifico ha fatto sorgere, in entrambe le direzioni, una quantità di
strumenti tecnici sempre più raffinati — di
cui il discepolo della scienza si appropria nella pratica — ogni metodo specifico poggia da un lato su punti di
vista oggettivi già acquisiti o per lo
meno accolti in via ipotetica, dall’altro su
connessioni logiche spesso assai complicate. Qui occorre osservare di
nuovo che finora l’interesse della logica si è rivolto molto di più alla
tendenza nomotetica che alla tendenza idiografica. Sul significato metodologico
degli strumenti di precisione, sul- la teoria dell’esperimento, sulla
determinazione della probabili- tà in base a molteplici osservazioni di un
medesimo oggetto, e su questioni analoghe, si hanno indagini logiche
approfondite; ma i problemi paralleli
della metodologia storica non hanno
trovato eguale attenzione da parte della filosofia. Ciò è connesso con
il fatto che — com'è nella natura stessa della cosa, e come conferma la storia — l’ingegno e l’opera
della filosofia e della scienza naturale
si sono incontrati molto più spesso di
quanto non sia avvenuto tra la filosofia e la storia. Eppure sarebbe di estremo interesse per la dottrina
generale della conoscenza portare alla luce le forme logiche in base alle quali
si compie, nella ricerca storica, la
critica reciproca delle percezioni, formulare le «massime di interpolazione »
delle ipotesi e determinare così anche
qui quale parte assumono nell’edificio
della conoscenza del mondo, che si sorregge reciprocamente con tutti i suoi elementi, da una parte i
fatti e dall’altra i presupposti
generali con cui li interpretiamo.
Tutte le scienze empiriche coincidono in definitiva però nel principio ultimo, che consiste nell’accordo
senza contraddizione di tutti gli elementi della rappresentazione relativi al
medesimo oggetto: la distinzione tra indagine naturale e storia ha inizio soltanto dove si tratta di utilizzare
i fatti a scopo conoscitivo. Qui vediamo che l’una cerca leggi, l’altra forme.
Nella prima il pensiero conduce
dall’accertamento del particolare all'apprendimento di relazioni generali,
mentre nella seconda esso si arresta alla caratterizzazione accurata del
particolare. Per lo scienziato naturale
il singolo oggetto dato alla sua osservazione non possiede mai, in quanto tale,
valore scientifico; esso gli serve solo
in quanto si ritiene giustificato a considerarlo come un tipo, come un caso specifico di un
concetto di genere, e a trarne fuori
questo concetto: in ciò egli riflette soltanto su quei caratteri che sono appropriati alla
comprensione di una generalità conforme
a leggi. Allo storico si pone invece il
compito di far rivivere una formazione del passato nella sua intera configurazione individuale, rendendola
idealmente presente. Egli deve compiere nei confronti di ciò che è realmente
esistito un’opera analoga a quella dell’artista nei confronti di ciò che è
nella sua fantasia. Qui ha le sue radici l’affinità della creazione storica con
quella estetica, delle discipline storiche con le Belles lettres. Da ciò
consegue che nel pensiero naturalistico predomina la tendenza all’astrazione,
nel pensiero storico quella all’intuitivi- tà. Quest’affermazione risulterà
inattesa soltanto a chi si è abituato a limitare materialisticamente il
concetto di intuizione alla recezione
psichica di ciò che è presente in modo sensibile, e ha dimenticato che c’è intuitività — cioè
vitalità individuale di ciò che è
presente idealmente — tanto per l’occhio dello
spirito quanto per l'occhio del corpo. Certamente quella concezione
materialistica è al giorno d’oggi molto diffusa, ma suscita serie riserve.
Quanto più ci si abitua, ovunque si presentano
delle rappresentazioni, a mettere in evidenza il più possibile quel che vi è da toccare e da vedere, tanto più si
espone la spontanea facoltà dell’intuizione — a causa del prevalere
dell’intuizione ricettiva — al pericolo di rattrappirla per mancanza di esercizio, e poi ci si meraviglia quando la
fantasia sensibile diventa pigra e
incapace di funzionare non appena non può
più toccare e vedere in modo corporeo. Per la pedagogia vale infatti lo stesso che per l’arte, e in
particolare per l’arte drammatica, dove oggi ci si dà ogni pena per tenere
impegnati gli occhi, sicché non rimane
più nulla per l’intuizione interiore
delle forme poetiche. Che però
la forza dell’indagine naturale consista nell’astrazione e invece quella della
storia nell’intuitività, risalta ancor
più chiaramente se si comparano i risultati della loro ricerca. Per quanto intricato possa essere il lavoro
concettuale di cui la critica storica ha
bisogno per elaborare i dati della tradizione,
il suo fine ultimo è tuttavia quello di trarre fuori dalla massa del materiale la vera forma del passato per
tradurlo in chiarezZa piena di vita; ciò che essa fornisce sono immagini di
uomini e di vita umana, con tutta la
ricchezza delle loro configurazioni singolari, conservate nella loro piena
vitalità individuale. Così per bocca
della storia ci parlano lingue e popoli passati, sollevati dalla dimenticanza a nuova vita, e
così pure la loro fede e le loro figure,
la loro lotta per il potere e per la libertà,
la loro poesia e il loro pensiero. Quanto diverso è il mondo che
l'indagine naturale costruisce davanti ai nostri occhi! Per quanto intuitivi
possano essere i suoi punti di partenza, i suoi scopi conoscitivi sono le
teorie, sono le formulazioni — in ulti- ma istanza matematiche — delle leggi
del movimento: essa lascia dietro di sé — in modo autenticamente platonico — la
singola cosa sensibile che nasce e perisce, in un’apparenza priva di realtà, e aspira alla conoscenza
della necessità legale che domina, in
un'immutabilità atemporale, ogni accadere. Dal
variopinto mondo dei sensi essa estrae un sistema di concetti costruttivi entro cui vuol cogliere la vera
essenza delle cose che sta dietro i
fenomeni, un mondo di atomi, incolore e muto,
senza la terrestre fragranza delle qualità sensibili — il trionfo del pensiero sulla percezione. Indifferente a
ciò che è transitorio, essa getta la sua àncora in ciò che rimane
eternamente eguale a se stesso. Non
cerca il mutevole in quanto tale, ma la
forma immutabile del mutamento.
Ma se l’antitesi tra i due tipi di scienze empiriche è così profonda, si comprende perché tra di esse
deve scoppiare, ed è di fatto scoppiata,
la battaglia per esercitare un'influenza decisiva sulla visione generale del
mondo e della vita. Ci si domanda che
cosa sia più prezioso per lo scopo complessivo della nostra conoscenza, se il sapere concernente le leggi
o quello riguardante gli eventi, se la comprensione dell’universale essenza atemporale
o quella dei singoli fenomeni temporali. È chiaro fin dall’inizio che questa
questione può venir decisa soltanto in base a
una riflessione sui fini ultimi del lavoro scientifico. Mi limito ad accennare di sfuggita alla
valutazione che si fonda sull’utilità.
Di fronte ad essa entrambe le direzioni di
pensiero sono in egual misura legittime. Il sapere riguardante leggi generali ha sempre il valore pratico di
rendere possibile la previsione di
situazioni future e l’intervento in vista di scopi dell’uomo nel corso delle cose. Ciò vale sia
per i movimenti del mondo interno sia
per quelli del mondo materiale esterno:
nell’ultimo, in particolare, la conoscenza acquisita in virtù del pensiero nomotetico consente la produzione
degli strumenti con cui si amplia in
misura sempre crescente il dominio dell’'uomo sulla natura. Ma l’attività
diretta a scopi nella vita comune
dell’uomo dipende in grado non minore dalle esperienze del sapere storico. L'uomo è — per variare un
antico detto — l’animale che ha una storia. La sua vita culturale è una
connessio- ne storica che diventa più spessa di generazione in generazio- ne:
chi vuole entrare in questa per cooperarvi in modo attivo deve possedere la
comprensione del suo sviluppo. Una volta spezzatosi questo filo bisogna poi —
lo ha mostrato la storia stessa — rintracciarlo e riannodarlo di nuovo con
fatica. Se la cultura contemporanea
dovesse essere sepolta a causa di un evento
elementare — o nella configurazione esterna del nostro pianeta o nella configurazione interna del
mondo umano — possiamo star certi che le
generazioni successive ne scaveranno con
diligenza le vestigia così come noi facciamo con quelle dell’antichità. Già per questi motivi
l'umanità deve portare il suo grande
fardello storico, e se col trascorrere del tempo esso minaccia di diventare sempre più pesante, al
futuro non mancheranno i mezzi per alleggerirlo con cautela e senza danno. Ma non è questo l’utile in questione: qui si
tratta infatti del valore intimo del
sapere, non certamente della soddisfazione personale che il ricercatore ha nel
suo conoscere, e soltanto in virtù di
esso. Questo godimento soggettivo che proviene
dalla scoperta e dall’accertamento è in definitiva presente in egual modo in ogni tipo di sapere. La sua
misura viene determinata molto meno dall’importanza dell’oggetto che dalla
difficoltà dell'indagine. Senza dubbio
vi sono accanto a ciò distinzioni oggettive, c
quindi puramente teoretiche, nel valore conoscitivo degli oggetti: ma la
loro misura non è altro che il grado in cui essi contribuiscono alla conoscenza complessiva.
L’elemento singolo rimane oggetto di
curiosità oziosa se non diventa pietra di
costruzione in una struttura più generale. In senso scientifico il « fatto » è così già un concetto teleologico.
Non una qualsiasi realtà costituisce un
fatto per la scienza, ma soltanto ciò da cui
— per dirla in breve — essa può apprendere qualcosa. Questo vale soprattutto per la storia. Accadono
molte cose che non sono fatti storici.
Che nel 1780 Goethe si sia fatto costruire una
campana di casa e una chiave, e il 22 febbraio una cassetta per le lettere, è documentato dal conto di un
fabbro tramandato in modo assolutamente
autentico: ciò è quindi accaduto del tutto
realmente e con certezza, ma non per questo è un fatto storico — né storico-letterario, né biografico. Si
deve d’altra parte obiettare che è impossibile, entro certi limiti, decidere in
anticipo se al singolo elemento, a ciò che si offre all’osservazione o alla
tradizione, spetti o no questo valore di «fatto». Perciò la scienza deve fare
come Goethe in tarda età: fare provvista, raccogliere ciò di cui può
impadronirsi, paga dell’idea di non trascurare nulla di ciò che potrebbe
utilizzare in seguito, e della fiducia
che il lavoro delle generazioni future — nella
misura in cui non ne sarà impedito dalle vicende esteriori della tradizione — conserverà, come un grande
setaccio, quanto è utilizzabile e lascierà cadere ciò che è inutile. Ma questo scopo essenziale di ogni sapere
particolare, cioè lo scopo di inserirsi
in un grande complesso unitario, non è
affatto limitato alla subordinazione induttiva del particolare al concetto di genere o al giudizio universale:
esso si realizza in egual misura dove la
caratteristica singola diventa elemento
significativo di un’intuizione complessiva. Quell’attenersi a ciò che è conforme al genere è una unilateralità
del pensiero greco, diffusasi dagli
Eleati fino a Platone, che trovava il vero essere, come la vera conoscenza, soltanto nell’universale.
Da lui si è poi trasmessa fino ai giorni
nostri, in cui Schopenhauer si è fatto
portavoce di questo pregiudizio rifiutando alla storia il valore di scienza autentica perché essa
coglierebbe sempre il particolare, e mai
l’universale. È certamente esatto che l'intelletto umano può rappresentarsi il
molteplice soltanto perché coglie il contenuto comune dei singoli elementi
dispersi; ma quanto più aspira al
concetto e alla legge, tanto più deve
lasciare dietro di sé il singolare in quanto tale, dimenticarlo e abbandonarlo. È ciò che vediamo laddove si
tenta, in modo specificamente moderno,
di « fare della storia una scienza naturale », come si è proposta la cosiddetta
filosofia della storia del positivismo.
Che cosa rimane in definitiva, in una simile induzione di leggi, della vita dei
popoli? Un paio di banali generalità, che si fanno scusare soltanto se
accompagnate da un’accurata analisi delle loro numerose eccezioni. Di fronte a ciò occorre tener fermo il fatto
che ogni interesse e ogni valutazione, ogni determinazione di valore
dell’uomo si riferiscono al singolo e a
ciò che è singolare. Pensiamo soltan- to come si indebolisce presto il nostro
sentimento non appena il suo oggetto si moltiplica o si mostra come un caso
eguale tra mille. «Non è la prima» — così suona uno dei passi più crudeli del
Faust!. Nella singolarità e nell’incomparabilitàdel- l'oggetto si radicano
tutti i nostri sentimenti di valore. Su ciò
poggia la dottrina spinoziana del superamento dei moti dell’animo
attraverso la conoscenza: per essa la conoscenza è infatti un tuffarsi del particolare nell’universale,
del singolare nell'eterno. Ma che ogni
valutazione vitale dell’uomo dipenda dall’unicità dell’oggetto, risulta
anzitutto dalla nostra relazione con le
personalità. Non è forse un'idea insopportabile che un essere caro e amato possa esistere tal quale anche
soltanto una seconda volta? Non è
pauroso e impensabile che debba esistere nella
realtà un secondo esemplare di noi stessi, con questa nostra peculiarità individuale? Di qui l’orrore, la
spettralità inerente alla
rappresentazione del sosia — anche se a una distanza temporale molto grande. È
sempre stato per me penoso il fatto che
un popolo pieno di gusto e di sentimenti raffinati come quello greco si sia abbandonato alla dottrina, che
attraversa tutta la sua filosofia,
secondo cui nel ricordo periodico di tutte le cose deve ritornare anche la personalità, con
tutto il suo agire e il suo patire. Come
è svalutata la vita se si conosce con esattezza
quante volte è già esistita e quante volte si ripeterà! com'è spaventosa l’idea che già una volta io sono
vissuto e ho sofferto, ho desiderato e
lottato, amato e odiato, pensato e voluto, e che quando il grande anno cosmico è trascorso e
il tempo ritorna, devo recitare sempre
di nuovo lo stesso ruolo sulla stessa scenal E ciò che vale per la vita individuale
dell’uomo vale ancor più per l’insieme
del processo storico: esso ha valore soltanto
se è singolare. Questo è il principio che la filosofia cristiana ha vittoriosamente affermato nella Patristica
contro l’Ellenismo. Al centro della
visione del mondo erano in primo piano la
caduta e la redenzione del genere umano come fatti singolari. Si trattava della prima grande e forte
percezione dell’inalienabile diritto metafisico della conoscenza storica, ossia
del diritto di mantenere il passato, in
questa sua realtà singolare, per il
ricordo dell’umanità. 1.
GoerHE, parte I, scena « Giornata cupa - campagna » (è la scena in prosa, immediatamente
successiva al « Sogno della notte di Valpurga »). D'altra parte le scienze
idiografiche hanno però bisogno a ogni passo di princìpi generali, che possono
prendere a pre- stito in una fondazione completamente corretta soltanto dalle
discipline nomotetiche. Ogni spiegazione causale di un processo storico
presuppone rappresentazioni generali del corso delle co- se; e se si vuol
ricondurre le dimostrazioni storiche alla loro
pura forma logica, esse conservano sempre — come premesse supreme — le leggi naturali dell’accadere, in
particolare dell’accadere psichico. Chi non avesse alcuna notizia del modo in
cui gli uomini pensano, sentono e
vogliono, non naufragherebbe soltanto
nell’abbracciare insieme i singoli eventi per giungere alla conoscenza degli avvenimenti, ma già
nell’accertamento critico dei fatti. È
certamente assai strano con quanta indulgenza siano state in fondo accolte le
pretese della scienza dello spirito nel
campo della psicologia. Il grado notoriamente molto imperfetto con cui sono state finora
formulate le leggi della vita psichica
non è mai stato di impedimento agli storici: in
virtù di una conoscenza naturale dell’uomo, in virtù della sensibilità e
dell’intuizione geniale essi sapevano quel che basta a intendere gli eroi e le loro azioni storiche.
Ciò dà molto da pensare e mette
seriamente in dubbio se la concezione dei
processi psichici elementari, impostata dai moderni secondo uno schema matematico-naturale, possa fornire
un contributo apprezzabile alla nostra
comprensione della vita reale dell’uomo.
Nonostante tali insufficienze di realizzazione nel caso singolo appare
chiaramente che nella conoscenza complessiva, in cui ogni lavoro scientifico deve in definitiva
unificarsi, questi due momenti rimangono
l’uno accanto all’altro nella loro particolare
posizione metodologica. Quella conformità delle cose a leggi generali
offre il saldo quadro della nostra immagine del mondo esprimendo, al di sopra di ogni mutamento,
l'essenza eternamente eguale del reale; e all’interno di questo quadro si
dispiega alla memoria della specie la connessione vivente di tutte le singole configurazioni fornite di valore per
l'umanità. Questi due momenti del
sapere umano non possono essere
ricondotti a una fonte comune. Certamente la spiegazione cau-sale del
singolo accadimento con la sua riduzione a leggi gene- rali induce a ritenere
che dovrebbe essere possibile, in ultima istanza, comprendere in base alla
conformità delle cose a leggi naturali anche la particolare configurazione
storica dell’evento reale. Così Leibniz riteneva che tutte le vérités de fai:
abbiano le loro cause sufficienti nelle vérizés eternelles. Ma egli poteva
postularlo soltanto per il pensiero divino, non realizzarlo per quello umano. È
possibile illustrare questo punto con un semplice schema logico. Nella
considerazione causale qualsiasi evento partico- lare assume la forma di un
sillogismo in cui la premessa mag- giore è una legge naturale, ossia un certo
numero di necessità legali, la premessa minore è una condizione data nel tempo
o un complesso unitario di condizioni del genere, e infine la conclusione è il
singolo avvenimento reale. Nello stesso modo in cui la conclusione presuppone
dal punto di vista logico le due premesse, l’accadere presuppone due specie di
cause: da un lato la necessità atemporale in cui si esprime l’essenza durevo-
le delle cose, dall’altro la condizione particolare che si pre- senta in un
determinato momento del tempo. La causa di un'esplosione è nel primo
significato — quello nomotetico — la natura del materiale esplosivo che
esprimiamo in forma di leggi fisico-chimiche, mentre nell’altro significato —
quello idiografico — è un movimento singolo, cioè una scintilla, una vibrazione
o qualcosa di simile. Soltanto i due elementi presi insieme causano e spiegano
l'avvenimento, ma nessuno è una conseguenza dell’altro: la loro connessione non
appare fonda- ta in essi stessi. Quanto poco la premessa minore presente nella
sussunzione sillogistica è una conseguenza di quella mag- giore, altrettanto
poco nel corso dell’accadere la condizione che si aggiunge all’essenza
universale della cosa può essere derivata da questa essenza legale. Occorre
piuttosto ricondurre a sua volta questa condizione, in quanto evento temporale,
a un’altra condizione temporale da cui essa è derivata secondo una necessità
legale; e così via 17 infinitum. Non si può pensa- re concettualmente un
termine iniziale di questa serie infinita; e anche quando si tenti di
rappresentarlo, la situazione iniziale risulterà pur sempre qualcosa di nuovo
che si aggiunge all’es- senza universale delle cose, senza derivare da essa.
Spinoza ha espresso questo punto attraverso la distinzione tra due forme di
causalità, quella infinita e quella finita, e ha così eliminato con geniale
semplicità molte obiezioni su cui i logici moderni si sono affannati 2
proposito del « problema della pluralità del- le cause». Nel linguaggio della
scienza odierna si potrebbe dire che lo stato presente del mondo consegue dalle
leggi gene- rali della natura soltanto presupponendo lo stato immediata- mente
precedente, e questo a sua volta presupponendo il suo precedente, e così via;
ma una particolare determinata disposi- zione degli atomi non deriva mai dalle
leggi generali del movi- mento. Da nessuna « formula universale » si può pervenire
im- mediatamente alla particolarità di un singolo punto tempora- le: a questo
scopo occorrerebbe ancor sempre la subordinazio- ne alla legge dello stato
precedente. Dal momento che non esiste alcun termine fondato su leggi generali
al quale si possa pervenire seguendo a ritroso la catena causale delle
condizioni, nessuna sussunzione sotto quel- le leggi può aiutarci ad analizzare
il dato temporale fino ai suoi fondamenti ultimi. In ogni esperienza storica e
individuale rimane quindi per noi un residuo di incomprensibilità — qual- cosa
che non può essere espresso né definito. In tal modo l'essenza ultima e intima
della personalità resiste all’analisi condotta con categorie generali; e questo
elemento impenetrabi- le si manifesta alla nostra coscienza come il sentimento
dell’irri- ducibilità causale del nostro essere, cioè come il sentimento della
libertà individuale. A questo punto è già venuta fuori una quantità di concetti
e di problemi metafisici. Per quanto quelli possano essere infelici e questi mal
posti, ne sussiste pur sempre il motivo. L'insieme del dato temporale si
manifesta nella sua indeducibile autono- mia accanto alla conformità a leggi
generali in base alle quali esso pure si realizza. Il contenuto dell’accadere
del mondo non può essere compreso in base alla sua forma. Su questo scoglio
sono naufragati tutti i tentativi di derivare concettualmente il particolare
dal generale, i «molti» dall’«uno», il «finito» dall’« infinito »,
l’«esistenza» dall’« essenza ». Si tratta di una frattura che i grandi sistemi
di spiegazione filosofica del mon- do sono soltanto riusciti a nascondere, ma
non a riempire. Ciò è quanto vide Leibniz allorché indicò l’origine delle
vérités eternelles nell’intelletto divino e l'origine delle vérités de fait
nella volontà divina. Ciò è quanto vide Kant allorché trovò nel felice ma
inafferrabile fatto che tutto quanto è dato nella percezione può essere
ricondotto sotto le forme dell’intel- letto, e quindi ordinato e compreso, un
indizio di connessioni teleologiche divine che va molto al di là del nostro
sapere teoretico. Di fatto nessun pensiero può fornire risposte conclusive a
ta- li questioni. La filosofia può mostrare fin dove giunge la forza
conoscitiva delle singole discipline; ma al di là di queste, nep- pure essa può
conquistare un punto di vista oggettivo. La legge e l'avvenimento rimangono
l’una accanto all’altro come le gran- dezze ultime e incommensurabili della
nostra rappresentazione del mondo. Qui sta uno dei punti-limite in cui il
pensiero scientifico può soltanto determinare il compito e porre la que-
stione, con la chiara coscienza che non sarà mai in grado di risolverli.
RICKERT nasce a Danzica. Frequenta dapprima l’Università di Berlino e poi
quella di Strasburgo, dove consegue il dottorato — sotto la guida di Windelband
— con la dissertazione Zur Lehre von der Definition (Freiburg i.B.). Dopo aver
ottenuto l’abilitazione a Heidelberg, con il volume Der Gegenstand der
Erkenntnis (Tibingen), divienne professore a Friburgo, dove
succede al filosofo positivista Riehl. In questo periodo egli pubblica
le sue opere più significative, da Die Grenzen der naturwissenschafilichen
Begriffsbildung (Tiibingen) a Kulturwissenschaft und Naturwissenschaft
(Tibingen), dal saggio Geschichisphilosophie (Heidelberg) ad alcuni importanti
articoli sulla teoria dei valori apparsi nella rivista « Logos ». Nel 1916,
dopo la morte di Windelband, gli succede sulla cattedra di Heidelberg, dove
continuerà a insegnare fino alla morte, avvenuta il 28 luglio 1936. Anche
Rickert muove da un’impostazione neocriticistica, e in questa prospettiva egli
affronta, in Der Gegenstand der Erkenntnis, il proble ma del rapporto tra
soggetto e oggetto. Ma già in questo libro la garanzia della validità della
conoscenza viene individuata in un « dover essere » che appare indipendente
dalle condizioni psicologiche del cono- scere, cosicché l’analisi gnoseologica
risulta ricondotta ai presupposti della teoria dei valori. Successivamente, in
Die Grenzen der naturtwis- senschaftlichen Begriffsbildung e in
Kulturwissenschaft und Naturivis- senschaft, Rickert riprende la distinzione
windelbandiana tra scienze nomotetiche e scienze idiografiche cercando di recuperare,
al tempo stesso, una distinzione oggettiva tra la natura e il mondo
storico-sociale, identificato con la cultura. Egli cerca infatti di derivare
dalla distinzione tra i due gruppi di discipline, e dalla diversità del loro
orientamento conoscitivo, le caratteristiche differenzianti della natura e
della cultura. La medesima realtà si presenta come natura oppure come cultura
secon- do il punto di vista dal quale essa è considerata: perciò la natura è la
realtà considerata in riferimento al generale, cioè determinata nella sua
struttura di leggi, mentre la cultura è la realtà considerata in riferimen- to
all’individuale, cioè costituita da un complesso di fatti e di rapporti
particolari. Ma l’individualità dell'oggetto storico non è altro, per Rickert,
che la sua relazione con determinati valori culturali, i quali presiedono
all’elaborazione concettuale della conoscenza storica e valgono come suoi
criteri di scelta. Scienza naturale e conoscenza storica si differenziano
quindi non soltanto per il loro diverso orientamento cono- scitivo e per il
diverso modo di configurarsi della realtà che costituisce il loro oggetto, ma
anche per la presenza o l’assenza di un riferimento ai valori: mentre la
conoscenza della natura prescinde da qualsiasi relazione di valore, cosicché la
natura si presenta come un sistema di rapporti regolati da leggi generali, la
conoscenza storica seleziona il dato empirico in base a criteri di valore. La
cultura — oggetto della conoscenza storica — è perciò la realizzazione storica
dei valori, di valori incondizionati che sussistono di per sé,
indipendentemente dall’e- ventuale riconoscimento che' possono ricevere da
parte degli uomini. Questo rapporto con i valori costituisce il « senso» della
cultura, e dà perciò significato all’azione storica degli individui e alle
varie forme storiche di cultura. Negli anni successivi al 1g1o Rickert appare
sempre più impegnato nel tentativo di dare una formulazione sistematica della
teoria dei valori, alla quale fa riscontro un’interpretazione metafisica del
processo storico. E questo tentativo appare accompagnato, soprattutto in Die
Philosophie des Lebens (Tibingen, 1920), dalla presa di posizione pole- mica
contro i più svariati indirizzi della filosofia del Novecento, respon- sabili
ai suoi occhi di negare la trascendenza e l’assolutezza dei valori e ricondotti
all’etichetta della filosofia della vita — una designazione che serve per
qualificare tanto Nietzsche, Dilthey, Simmel, Spengler, quanto James e Bergson,
e che verrà in seguito estesa anche a Weber e a Jaspers. Nel primo volume, il
solo pubblicato, del System der Philosophie (Tibingen, 1921), Rickert cerca di
elaborare un sistema dei valori fondato sulla distinzione di sei sfere di
valori: tre sfere di carattere contemplativo, che sono quelle della scienza,
dell’arte e della religiosità, e tre sfere di carattere pratico, che sono
quelle della comunità etica, della comunità erotica e della comunità religiosa
con la divinità. In questo quadro la storia viene interpretata come l'organo di
riconoscimen- to dei valori, in quanto questi, pur avendo una loro autonoma
esistenza su un piano trascendente rispetto alla realtà empirica, possono
essere individuati soltanto sulla base di determinati beni culturali
storicamente realizzati. L'ultima fase del pensiero di Rickert — da Die Logik
des Pridikats und das Problem der Ontologie (Heidelberg, 1930) a Grundprobleme
der Philosophie (Tibingen, 1934) e ai saggi raccolti nel volume postumo
Unmittelbarkeit und Sinndeutung (Tibingen, 1939) — è caratterizzato dall'accentuazione
del carattere ontologico della teoria dei valori e dal duplice richiamo a
Hartmann e a Heidegger. I! problema del rapporto tra cultura e mondo dei valori
viene a configurarsi come il problema del posto dell’uomo nel mondo; e
l’analisi antropologica appare fondata sulla determinazione del legame
dell’uomo con i diversi modi dell’esse- re. L'uomo nasce e cresce come essere
naturale, e diventa «uomo culturale » ponendosi in relazione con i valori, cioè
con una realtà trascendente che stabilisce il senso della sua esistenza e del
suo sforzo di realizzazione storica dei valori. Ricordiamo qui le altre opere
di Rickert: Psycho-physische Kausalitàt und psycho-physischer Parallelismus,
Tibingen, 1900; Das Eine, die Ein- heit und die Eins: Bemerkungen zur Logik des
Zahlbegriffs, Heidelberg, 1911, 1924?; Kant als Philosoph der modernen Kultur,
Tiibingen, 1924; Die Heidelberger Tradition und Kants Kritizismus, Berlin,
1934. Nume- rosi sono gli articoli apparsi in « Logos », nelle « Kantstudien »
e in va- rie altre riviste, dei quali indichiamo qui soltanto i principali:
Uber die Aufgabe einer Logik der Geschichte, « Archiv fir systematische
Philoso- phie », VIII, 1902, pp. 137-63; Zwei Wege der Erkenninistheorie, «
Kant- studien », XIV, 1909, pp. 169-228; Vom Begriff der Philosophie, « Lo- gos
», I, I9I0, pp. 1-34; Lebenswerte und Kulturwerte, « Logos », II, 191I- 1912,
pp. 131-142; Vom System der Werte, « Logos », IV, 1913, pp. 295-327; Uber
logische und ethische Geltung, « Kantstudien », XIX, 1914, pp. 182- 221;
Psychologie der Weltanschauungen und Philosophie der Werte, « Lo- gos », IX,
1920-21, pp. 1-42 (in polemica con Jaspers); Die Methode der Philosophie und
das Unmittelbare, «Logos», XII, 1923-24, pp. 235-80; Vom Anfang der
Philosophie, « Logos », XVI, 1925, pp. 121-62; Die Er- kenninis der
intelligibeln Welt und das Problem der Metaphysik, « Logos », XVI, 1927, pp.
162-203, e XVIII, 1929, pp. 36-82; Geschichte und System der Philosophie, «
Archiv fiir Geschichte der Philosophie », XL, 1931, pp. 7-46 e 403-48;
Wissenschaftliche Philosophie und Weltanschauung, « Logos », XXII, 1933, pp.
37-57. Le opere di Rickert non sono state più ristampate in epoca recente, né
di esse esistono traduzioni italiane. Tra gli studi dedicati alla filosofia di
Rickert segnaliamo i seguenti: O. ScHLunke, Die Lehre vom Bewusstsein bei
Heinrich Rickert, Leipzig, IQII. A. Faust, Heinrich Rickert und seine Stellung
innerhalb der deutschen Philosophie der Gegenwart, Tibingen, 1927. F. FepeRIcI,
La filosofia dei valori di Heinrich Rickert, Firenze, 1933. G. GurvitcH, La théorie
des valeurs de H. Rickert, « Revue philosophique de la France et de l’étranger
», CKXIV, 1937, pp. 80-88. ScHescHics,
Die Kategorienlehre der Badischen philosophischen Schule, Berlin, 1938. E.
Pact, Pensiero esistenza e valore, Milano, 1940, pp. 47-53. G. Rammino, Karl Jaspers und
Heinrich Rickert. Existentialismus und Wertphilosophie, Bern, 1948. C. Rosso, Figure e dottrine della fiosofia dei
valori, Torino, 1949, e Na- poli, 1973”, cap. IX. A. Mitter-Rostowsra, Das individuelle als
Gegenstand der Erkenninis: eine Studie zur Geschichtsmethodologie Heinrich
Rickerts, Winterthur, 1955. H. Sere, Wert und Wirklichkeit in der Philosophie
Heinrich Rickerts, Bonn, 1968. Una
bibliografia ormai invecchiata, ma che fornisce molte indicazioni sugli scritti
di Rickert e su Rickert nei primi decenni del secolo, si trova in F. FeperIci,
La filosofia dei valori di Heinrich Rickert. All’inizio del secolo xx le
scienze filosofiche si trovano anco- ra, in gran parte, sotto il segno della
restaurazione. La loro ultima fioritura è dipesa dal ridestarsi dell’interesse
per Kant, e anche le idee con cui la filosofia di orientamento kantiano deve
oggi combattere non sono sorte nella nostra epoca, ma derivano da un periodo
ancora precedente dello sviluppo filosofico. Si tratta per lo più di respingere
di nuovo il naturalismo illumini- stico, su cui l’idealismo di Kant non è
riuscito a riportare una vittoria definitiva. Nello stesso modo, se qualcuno
volesse soste- nere che anche Kant è almeno in parte superato, non si potreb-
be dire che ciò sia avvenuto ad opera di idee elaborate di recente: quasi tutti
i progressi reali compiuti rispetto a Kant risiedono essenzialmente nella
direzione imboccata dai suoi im- mediati successori, a cui oggi ci si comincia
a rifare. Per questo motivo lo studio della storia della filosofia riveste oggi
un grosso significato, e per questo motivo festeggiamo un uo- mo come Kuno
Fischer, che non soltanto ha molto contribui- to a rianimare la comprensione di
Kant, ma ha anche riavvici- nato alla nostra epoca le idee dei suoi grandi
discepoli. Non bisogna temere di dover ripercorrere il processo di sviluppo che
* Geschichtsphilosophie, in Die Philosophie im Beginn des zwanzigsten Jahrhun-
derts: Festschrife fiir Kuno Fischer (a cura di W. Windelband), Heidelberg,
Carl Winter*s Universitàtsbuchhandlung, 1904-5, vol. II, pp. 51-133 (traduzione
di San- dro Barbera e Pietro Rossi). 1. Kuno Fischer (1824-1907), storico della
filosofia di orientamento hegeliano, au- tore di un'importante Geschichte der
neueren Philosophie (1854-77) e della monografia Hegels Leben, Werke und Lehre
(1901): la sua opera ha largamente ispirato l'interpre- tazione in senso
idealistico dello sviluppo del pensiero filosofico moderno. 342 HEINRICH
RICKERT ha condotto da Kanta Fichte, da questi a Schelling o a Schopen- hauer,
e poi fino a Hegel. La nuova epoca comporta nuove questioni, che esigono
risposte nuove: nulla si è mai ripetuto nella vita storica. Ma non si deve
chiudere gli occhi dinanzi alla prospettiva che l’idealismo kantiano e
post-kantiano contie- ne un tesoro di idee che è ancora lungi dall’esser stato
utilizza- to completamente e dal quale possiamo trarre, se dobbiamo misurarci
con i problemi filosofici della nostra epoca, una quan- tità di idee preziose.
Ciò vale per nessun'altra disciplina filosofica più che per la filosofia della
storia. Benché negli ultimi tempi l’interesse per essa sia straordinariamente
aumentato, la filosofia della storia non può, almeno per quanto riguarda i suoi
concetti fondamen- tali, avanzare la pretesa di insegnare qualcosa di mai
udito, di nuovo. Proprio le speculazioni che vengono considerate partico-
larmente « moderne » vivono quasi esclusivamente di idee che hanno trovato la
loro formulazione nell’Illuminismo; e anche la tendenza che combatte questi
indirizzi illuministici è costret- ta a riconoscere con gratitudine che alcune
delle sue armi migliori sono state forgiate in parte da Kant, e in parte ancora
maggiore dagli idealisti post-kantiani, in particolare da Fichte e da Hegel.
Chi volesse quindi avere un quadro della situazio- ne attuale della filosofia
della storia e dei suoi movimenti, dei suoi problemi principali e delle diverse
direzioni che Ja loro soluzione assume, potrebbe tentare — per acquisire i
concetti fondamentali — di seguire all’indietro i fili che portano all'i-
dealismo tedesco e più in là, procedendo verso il passato, fino
all’Illuminismo. Ma anche nell’ambito della filosofia della sto- ria non si
tratterà di una mera restaurazione dei precedenti. Per rendersene conto basta
pensare allo sviluppo della scienza storica nel secolo xx; e in ogni caso nei
sistemi del passato dobbiamo distinguere ciò che è valido in modo durevole da
ciò che è « storicamente » divenuto. Per la filosofia della storia ciò è stato
fatto soltanto in parte. Occorreranno ancora varie inda- gini, del tipo di
quelle condotte da Lask? sull’idealismo di 2. Emil Lask (1875-1915), filosofo
tedesco allievo di Windelband, autore di Die Logik der Philosophie und die Kategorienlehre
(1911) e di Die Lehre vom Urteil (1912). Rickert si riferisce qui al volume
Fichtes Idealismus und die Geschichte, Tibingen. Fichte e la storia, perché
emerga il significato durevole di queste idee. Già per questo motivo
l’orientamento storico non si presta a un rapido sguardo sul presente. E anche
a prescinde- re da ciò, qui non è consigliabile procedere in modo esclusiva- mente
storico. Nonostante tutta la gratitudine che proviamo per il nostro passato
filosofico, nonostante il riconoscimento della sua superiorità di originalità
creativa, occorre augurarsi di venir fuori della nostra situazione di epigoni,
di non procede- re soltanto dall’epoca dell’Illuminismo all’epoca di Kant, ma
di tentare di percorrere la nostra via; e proprio la filosofia della storia ha
forse più occasioni per porre in rilievo che il filosofo non può mai essere
soltanto uno storico, che la filosofia non può mai arrestarsi alla storia.
Lasciamo quindi da parte il passato e tentiamo di sviluppare un orientamento
sistematico. Ma anche su questa via ci imbattiamo in difficoltà. L’inten- sa
familiarità con la storia ha recato con sé non soltanto una grande ricchezza di
idee filosofiche, ma anche una confusione considerevole e quindi un’insicurezza
che si estende ai concetti più elementari del nostro lavoro. Alla questione di
che cosa sia in generale la filosofa non esiste alcuna risposta che goda di
riconoscimento generale, e ciò che vale per la totalità varrà per le sue parti.
Se vogliamo procedere senza arbitrio, dobbiamo anzitutto richiamare i diversi
significati che si connettono all’e- spressione « filosofia della storia » e
giustificare il nostro concet- to di tale scienza. Anzitutto tre concetti
emergono chiaramente. Della filosofia in generale si dice che sarebbe la scienza
dell’universale, in antitesi alle scienze particolari. Filosofare vorrebbe
quindi dire cercare una conoscenza complessiva della realtà, fornire l’insie-
me di ogni conoscenza scientifica. Se su questa base si determi- nano i compiti
di una filosofia della storia, essa deve raccoglie- re — mentre le scienze
storiche particolari hanno a che fare con i campi particolari della vita
storica — ciò che quelle singole discipline hanno scoperto in un quadro
complessivo uni- tario, in uno sguardo d’insieme sulla totalità, in breve, in
una storia universale. Filosofia della storia in questo primo significa- to del
termine equivarrebbe quindi a storia universale. Ma la generalità di
un’esposizione può essere intesa in modi diversi. Se, per richiamarci
nuovamente al concetto della filosofia in generale, si pone ad essa il compito
di fornire una conoscenza complessiva della realtà, allora non si può ritenere
che essa possa accogliere in sé tutta la pienezza di contenuto del mate- riale
conosciuto dalle discipline particolari. La sua generalità deve piuttosto
essere sempre connessa con una generalizzazione nel senso che il contenuto del
sapere specialistico va perduto in grado maggiore o minore, e in definitiva
tale generalizzazione può spingersi al punto che soltanto i « principi »
generali diven- tano oggetto di indagine. Di qui deriva anche un nuovo concet-
to della filosofia della storia. In questo modo tale disciplina deve lasciar da
parte il contenuto particolare della vita storica, per indagare sul suo «senso»
universale o sulle sue «leggi» universali. Anche senza un’ulteriore
determinazione dei concet- ti di senso e di legge, sorge così il concetto di
una scienza dei princìpi storici, che si distingue nettamente dal concetto di
storia universale. E infine, se storia non significa ciò che è ac- caduto,
bensì rappresentazione di ciò che è accaduto o scien- za della storia, si
perviene a un terzo concetto. In ogni caso, quest’ultimo concetto si accorda
con un punto di vista, varia- mente rappresentato, in merito ai compiti della
filosofia in ge- nerale, per cui essa — specialmente nella sua parte teoretica
— deve avere per oggetto non tanto le cose stesse, quanto il sapere relativo
alle cose. La filosofia della storia può quindi essere considerata anche come
scienza del conoscere storico o come una parte della logica nel senso più ampio
del termine. Forse si sentirà ancora la mancanza di una disciplina che si
occupi del significato del pensiero storico per la trattazione dei problemi
generali dell’intuizione del mondo e della concezione della vita. Ma a tali
questioni sarà facile rispondere se il lavo- ro finora solo indicato è stato
compiuto e non c'è quindi moti- vo di elencare un quarto tipo di filosofia
della storia. Certamen- te la storia universale, la dottrina dei princìpi della
vita storica e la logica della scienza storica sembrano essere, di fatto, tre
scienze egualmente legittime, ognuna delle quali ha i suoi problemi
particolari, e che hanno però tutte diritto al nome di filosofia della storia.
Ma se si guarda con maggior precisione, si presenta subito un quadro diverso.
Come la storia universale deve sussistere accanto alle singole discipline
storiche? Dev’essere concepita come una mera somma delle scoperte di quelle?
Certamente no. Da essa si esigerà al minimo che esponga in modo unitario la
totalità storica. Ma che cos’è questa totalità, in cui con- siste il principio
della sua unità e della sua articolazione? Attra- verso questioni di questo
genere il primo tipo di filosofia della storia conduce, nella trattazione dei
suoi concetti fondamenta- li, al secondo tipo. Ma anche i concetti di cui la
scienza dei princìpi ha bisogno per determinare il suo compito non posso- no
venir presupposti come ovvi, sia che si pensi a «leggi» universali a cui
dev'essere sottoposta ogni vita storica, sia che si voglia porre a fondamento
della totalità dello sviluppo storico un «senso» unitario. In questi concetti
vi sono dei problemi. Mentre ognuno ritiene ovvio cercare le leggi natura- li,
si contesta però decisamente la possibilità di indicare leggi storiche;
prescindendo da questo, perché nel campo delle scien- ze naturali le leggi
vengono ricercate dalle stesse discipline particolari, mentre per la storia
questo compito spetta a una disciplina filosofica? Con quale diritto, inoltre,
ipotizziamo un senso del corso storico, e quali strumenti abbiamo per ricono-
scerlo? La filosofia della storia come scienza dei princìpi non può cominciare
il suo lavoro senza affrontare questioni di tal genere; né potrà rispondere ad
esse se non ha chiara l’essenza del conoscere storico in generale, cioè se non
possiede nozioni logiche. Vediamo così la seconda delle tre discipline condurre
alla terza, nello stesso modo in cui la prima conduceva alla se- conda. Da ciò
deriva pertanto tra i diversi tipi di filosofia della storia — che a prima
vista sembravano costituire tre scienze indipendenti, ognuna con problemi
differenti — una connessio- ne tale che la logica della storia deve costituire
il punto di partenza e il fondamento di tutte le indagini di filosofia della
storia. Fino a quale punto, poi, i problemi della scienza dei princìpi e della
storia universale debbano trasformarsi in proble- mi logici, se devono poter
essere risolti in generale, è cosa che soltanto l’indagine concreta può
stabilire. Ma già da ora è certo che non è arbitrio, ma necessità, se prendiamo
qui le mosse da uno sguardo d'insieme sui problemi e sui dibattiti più
importanti della logica della storia. Anteponendo questa parte entriamo
immediatamente nel campo della filosofia della storia, in cui la nostra epoca
può maggiormente pretendere una certa originalità. Per la formula- zione e la
trattazione logica dei problemi si trovano nella filoso- fia dell’idealismo
tedesco osservazioni sì molto valide, ma isola- te e asistematiche; e nella
filosofia pre-kantiana del passato e del presente non si è fatto nulla per
rispondere a tali questio- ni. Nonostante l’evidente connessione tra logica
della storia e filosofia della storia in senso lato, i primi tentativi di
compren- dere a fondo, nel suo carattere specifico, l’essenza logica della
scienza storica non risalgono molto all’indietro di Paul*, di Navil- le‘, di
Simmel e soprattutto di Windelband. Anche sulle questio- ni più elementari,
infatti, domina finora in questo campo il più violento contrasto di opinioni;
anzi, una logica della storia che meriti questo nome deve ancora combattere per
la giustifi- cazione della sua esistenza. Non soltanto si crede — come fa per
esempio Lindner® — di poter trattare scientificamente i problemi della filosofia
della storia senza una fondazione logi- ca, ma si è addirittura contestato il
diritto di esporre un concet- to puramente logico della storia e del metodo
storico. I moti- vi non consistono soltanto nel fatto che in tali questioni
sono intervenuti molti ai quali fa difetto la preparazione necessa- ria per
trattare problemi del genere. E neppure derivano sol- tanto dalle difficoltà
che si presentano in questo campo: solo che si imbocchi la via giusta,
l'essenza logica della storia non è più difficile da comprendere di quella di
altre scienze. Ma proprio su questa strada non esiste, stranamente, alcuna
concor- dia. Sembrerebbe ovvio che chi va alla ricerca di chiarezza in questo
campo cerchi un orientamento, almeno preliminare, nel- 3. Hermann Paul (1846-1921),
glottologo tedesco, autore dei Prinzipien der Sprach- geschichte (1880), fu un
rappresentante del metodo storico nello studio della lin- guistica. 4. Adrien
Naville (1845-1930), filosofo svizzero di origine positivistica, autore del
volume De la classification des sciences, Paris, 1888 — al quale si riferisce
qui Rickert — e di altri scritti di teoria della conoscenza. 5. Theodor Lindner
(1843-1919), filosofo e storico tedesco, autore della Geschichts- philosophie:
das Wesen der geschichtlichen Entwicklung (1901), e di una Weltgeschich- te
scit der Volkerivanderung (1901-16). le opere dei grandi storici universalmente
riconosciuti, e stabili- sca anzitutto ciò che distingue il pensiero storico da
quello delle altre scienze. Sembrerebbe poi ovvio che debba essere anzitutto
compresa la struttura logica della scienza storica qua- le essa esiste, prima
di pronunciare un giudizio sul suo valore scientifico. Ma in questo caso
l’ovvio non coincide con ciò che avviene di solito. Talvolta il riferimento alle
opere dei grandi storici viene piuttosto respinto — per esempio da Lamprecht* e
da Tònnies” — come non scientifico: queste esposizioni non conterrebbero vera
scienza. In particolare, proprio coloro che per tutto il resto non si stancano
di celebrare l’esperienza co- me unico fondamento di ogni sapere, nell’indagine
logica delle scienze empiriche si mettono al lavoro utilizzando un concetto di
scienza storica fissato in precedenza e mai realizzato; e poiché non trovano
mai gli storici sulla via che conduce al loro ideale, pensano che sia anzitutto
necessario elevare a scienza la storia. In teste di questo genere si è così
fissata l’idea di un’antitesi tra scienza e storia, e proprio questi pensatori
si sentono stranamente chiamati a istruire la scienza storica sui suoi veri
fini. Non ci si deve meravigliare del fatto che la maggior parte degli storici
non vuole saperne di simili speculazioni estranee alla storia. Così avviene che
storia e filosofia spesso non si comprendono più, ed entrambe soffrono di questa
situazione. L’astorica filosofia della storia che un tempo aveva avuto larga
risonanza soprattutto nella forma delle teorie (non della pras- si) di un
Taine® e di un Buckle e che oggi viene rinnovata, 6. Karl Lamprecht
(1856-1915), storico tedesco, autore di importanti saggi meto- dologici come
Alte und neue Richtungen in der Geschichtswissenschaft (1896), Was ist
Kulturgeschichte? (1896-97), Die kulturhistorische Methode (1900) e della
Einf@zhrung in das historische Denken (1912), nonché di una monumentale Deutsche
Geschichte in dodici volumi (1891-1904), è il maggiore rappresentante
dell’orientamento positivi. stico nella storiografia tedesca dî fine Ottocento.
7. Ferdinand Tònnies (1855-1936), sociologo tedesco, autore di Gemeinschaft und
Gesellschaft (1887), di Die Sitte (1909), della Kritik der òffentlichen Meinung
(1922), del- la Einfiihrung in die Soziologie (1931), nonché di una nota
monografia su Hobbes (1896) e di vari scritto sul marxismo. 8.
Hippolyte-Adolphe Taine (1828-1893), storico e filosofo positivista francese,
au- tore della Philosophie de l'art (1865), del libro De l'intelligence (1870),
di numerosi saggi di critica e di storia letteraria, nonché di un'ampia opera,
rimasta incompiuta, su Les origines de la France contemporaine (1876-93), fu il
maggiore rappresentante dell'impostazione positivistica nell’ambito
dell'estetica. più con passione che con chiarezza, per esempio da Lamprecht, è
stata abbastanza respinta, per gli scopi della scienza storica empirica, da
Droysen’, Bernheim”, von Below", Eduard Me- yer e altri. Ma in questo
dibattito metodologico tra storici — in cui sono state introdotte anche
questioni come quelle della libertà e della necessità, della conformità alle
leggi e dell’acci- dentalità, della teleologia e del meccanicismo — molto è
rimasto non chiarito da un punto di vista filosofico, nonostante alcuni
preziosi risultati: perciò anche gli storici si mostrano talvolta assai
perplessi quando, seguendo la «caratteristica dell’epoca » che torna a farsi
più filosofica, passano dalle loro indagini specialistiche a considerazioni più
generali. Ma di questa situa- zione soffre molto di più la filosofia. A causa
della incompren- sione del pensiero storico, che proprio nella nostra epoca è
quanto mai importante, la filosofia è condannata a una profon- da mancanza di
influenza; e fino a qual punto tale mancanza d’influenza sia connessa alla
separazione dalla storia risulta in modo particolarmente chiaro dal fatto che,
se oggi si manifesta talora un interesse filosofico nei rappresentanti delle
cosiddette scienze dello spirito, esso è per lo più mediato dal legame con
indagini di metodologia della storia. Ai nostri giorni l’incomprensione
dell’essenza del lavoro sto- rico viene naturalmente in luce con la massima
chiarezza nei rappresentanti dei dogmi naturalistici, oggi nuovamente di mo-
da; e non fa una differenza essenziale se questo naturalismo si presenta come
materialismo o come psicologismo. In entrambi i casi il riconoscimento della
storia come scienza significhereb- be uno scuotimento dei concetti
naturalistici fondamentali. In- fatti dove si identifica la realtà con la
natura, vi è tanto meno spazio per la storia quanto più si pensa in modo
coerente. Ma l’estraneità della nostra filosofia alla storia ha motivi ancor
più 9- Johann Gustav Droysen (1808-1884), storico tedesco, autore della
Geschichte des Hellenismus (1836-43) e della Geschichte der preussischen
Politik (1855-86), nonché di un Grundriss der Historik (1868) che espone in
forma sistematica i principi del me- todo storico. ro. Ernst Bernhcim
(1850-1942), metodologo della storia tedesco, autore di un fortunato Le/lrbuch
der historischen Methode und der Geschichtsphilosophie (1889). rt. Georg von
Below (1858-1927), storico tedesco, autore di Der deutsche Staat des Mittelalters
(1914), di Die deutsche Geschichtsschreibung von den Befreiungskriegen an bis
zu unseren Tagen (1916), nonché di altri studi di storia costituzionale ed
economica. profondi. Per quanto il naturalismo come intuizione del mon- do sia
stato in linea di principio completamente superato per merito di Kant, nella
sostanza tale superamento non procede in direzione del pensiero storico. Nel
seguace di Newton vi sono al massimo le premesse per una comprensione di questo
pensie- ro, e la metodologia di Kant è ancora dominata quasi del tutto — e
proprio nella sua più importante opera teoretica — dall’interesse per la
matematica e per la scienza naturale. Dfatto, quindi, ci si può richiamare a
Kant — come fa per esempio Max Adler! — con una certa parvenza di legittimità
se si ricusa al lavoro storico un vero e proprio carattere scientifi- co. Si
aggiunga infine che tra le scienze della natura — nella misura in cui sono
scienze sistematiche — e la filosofia — che anch'essa aspira a un sistema — c’è
un’affinità formale maggio- re di quella che esiste tra la filosofia e la
storia, la quale non può mai diventare una scienza sistematica. Si deve anzi
parlare di un antagonismo tra pensiero storico e pensiero filosofico, che
nessuno può anche soltanto desiderare di accantonare: la filoso- fia dovrà
sempre combattere lo storicismo come intuizione del mondo. Ma tutto ciò fa
apparire ancor più urgenti i compiti di una logica della storia. Il naturalismo
viene respinto non meno dello storicismo, e la filosofia può sperare di aver
ragione dello storicismo soltanto se ha compreso a fondo l’essenza e il
significato del pensiero storico. Da tutto ciò deriva per la logi- ca il
compito di superare completamente nella sua unilateralità il naturalismo
metodologico, ancora rappresentato pure da Kant, e di pervenire così a una
comprensione di ogri lavoro scien- tifico. L'affermazione che finora poco si è
fatto per la soluzione di questo compito incontrerà forse opposizioni se si
tengono pre- senti le molte indagini sull’essenza delle «scienze dello spiri-
to» intraprese da Mill in poi; e certamente non si può dire che 12. Max Adler
(1873-1937), sociologo e filosofo austriaco, autore di Marx als Denker (1908),
di Marxistische Probleme (1913), di Kant und der Marxismus (1925), di Das
Soziologische in Kants Erkenntniskritik (1925), del Lehrbuch der
materialistischen Ge- schichtsauffassung (1930) e di varie altre opere, fu uno
dei maggiori esponenti del cosiddetto austro-marxismo, orientato verso
un’interpretazione in chiave kantiana di Marx, Rickert si riferisce qui al
volume Kausalitàt und Teleologie im Streite um die Wissenschaft, Wien. tutti
questi lavori siano privi di valore. Ma nelle indagini (per altro verso
estremamente preziose) condotte per esempio da Dilthey, Wundt!, Miinsterberg! e
da altri, il punto decisivo, che rende possibile una reale comprensione logica
della storia, non è stato affatto toccato (come da parte di Wundt e di
Miinsterberg) oppure (come in Dilthey) non è stato elaborato in modo preciso e
posto al centro, in modo da diventare real- mente fecondo in una logica della
storia. Ciò trova già espres- sione nella terminologia consueta, che
contrappone le scienze dello spirito alle scienze della natura. L’antitesi tra
natura e spirito è oggi tutt'altro che univoca. I pensatori che si sono
occupati dell'essenza delle scienze dello spirito determinano in modo assai
diverso anche il concetto fondamentale di spirito, e sono d'accordo soltanto su
un punto, cioè che esistono in gene- rale due gruppi diversi di scienze
empiriche. E nemmeno si può sperare che dal concetto di spirito si pervenga a
un accor- do sull’essenza del pensiero storico. Questi tentativi contengo- no
alla loro base troppi presupposti per lo più di carattere metafisico, che
offrono soltanto degli appigli a un naturalismo estraneo alla storia. L'unico
concetto di spirito con cui oggi si può lavorare senza bisogno di una
fondazione più precisa è quello di realtà psichica in antitesi a quella fisica:
che ciò che chiamiamo piacere o ricordo o volontà non sia un corpo, è infatti
ammesso da tutti i pensatori che meritano di essere presi in considerazione. Ma
quest’unico concetto di spirito, sen- z’altro utilizzabile, è del tutto
inadeguato per una delimitazio- ne delle diverse scienze e per la comprensione
dell’essenza della 13. Wundt, psicologo e filosofo tedesco, autore dei Bei-
trige zur Theorie der Sinneswahrnehmung (1858-62), delle Vorlesungen fiber die
Men- schen- und Tierseele (1863-64), dei Grundziige der physiologischen
Psychologie (1874), della Logik (1880-83), della Eekik (1886), del Systera der
Philosophie (1889), della Einleitung in° die Philosophie (1901), della
Volkerpsychologie e di varic altre opere, fu il maggiore esponente del
positivismo in Germania: è considerato il fonda- tore della moderna psicologia
scientifica, basata sul metodo sperimentale. Rickert si riferisce qui alla
terza parte della Logik, che reca il titolo Logi der Geisteswissen- schaften
(vol. Il-2, 2° cd. Stuttgart, 1895). 14. Hugo Miinsterberg (1863-1916),
psicologo c filosofo tedesco, autore dei Grund- zige der Psychologie, della
Philosophie der Werte (1908), di Psychologie und Wirtschaftsleben (1912), dei
Grundzige der Psychotechnik (1914) e di varie altre opere, si ispirò da una
parte all'insegnamento di Wundt e dall'altra alla filosofia dei valori. storia.
Il naturalismo può a buon diritto sostenere che, se l’ele- mento spirituale nel
senso sopra indicato non è certamente corpo, appartiene però del tutto alla
natura, e dev'essere quin- di indagato scientificamente allo stesso modo di tutti
gli altri oggetti naturali. Esso può sostenere che non si tratta soltanto di
una teoria, ma che la prassi della psicologia moderna eleva questa certezza al
di sopra del conflitto tra le diverse prospetti- ve metodologiche. Di fronte a
queste affermazioni i sostenitori dell’antitesi tra scienze della natura e
scienze dello spirito saran- no disarmati finché non avranno determinato il
loro concetto fondamentale in modo incontestabile, e nel caso del concetto di
spirito ciò non sarà mai possibile con mezzi logici, o in ogni caso lo sarà
soltanto qualora si sia già acquisito il concet- to logico della storia. La
dottrina del metodo non ha alcun bisogno di impegnarsi dapprima in tutte queste
questioni controverse, se rivolge la sua attenzione soltanto a ciò che vuol
porre in chiaro, cioè al metodo. Il metodo consiste nelle forme utilizzate
dalla scien- za nell’elaborazione del suo materiale. Con ciò non si vuol negare
che il metodo sia variamente condizionato dal carattere specifico del
materiale. Anche un’indagine che rifletta sulla diversità di contenuto delle
singole scienze può condurre quin- di a questo o a quel risultato, prezioso dal
punto di vista logico. Ma questi risultati si presenteranno in modo più o me-
no accidentale, e una logica che vuol raggiungere il suo fine con sicurezza e
per la via più breve prescinde pertanto da tutte le distinzioni di contenuto
delle singole scienze, per poter me- glio comprendere le distinzioni
metodologiche di carattere for- male. Essa deve soltanto riflettere sul fatto
che nelle scienze empiriche agli oggetti si contrappone sempre un soggetto
cono- scente che — siano essi oggetti spirituali o corporei, processi naturali
o prodotti culturali — li assume come « dati », e che il soggetto si prefigge
il fine di conoscere questa o quella parte, o anche la totalità del mondo dato.
Si riconoscerà allora facilmen- te che la conoscenza non consiste in una
riproduzione o in una copia, ma in una comprensione trasformatrice degli
oggetti. A dimostrarlo già basta, prescindendo da tutti gli altri motivi, la
semplice riflessione che la realtà data — da cui muove ogni scienza empirica —
si presenta, nella totalità come in ogni sua parte, come una molteplicità
sterminata che nessuno è in grado di riprodurre. Il contenuto di ogni giudizio
che asserisca qual- cosa sulla realtà è necessariamente, in confronto alla
realtà stes- sa, una grossa semplificazione. La scienza può perciò anche essere
considerata come una trasposizione del materiale dato intuitivamente in
immagini di pensiero, per le quali si preferi- sce usare il nome di concetto
per distinguerle dall’intuizione. In questo processo di trasformazione
concettuale consiste il me- todo della scienza. Inoltre — ed è questa la cosa
principale — le forme del lavoro scientifico, in quanto strumenti per il
conseguimento del fine scientifico, devono dipendere nel loro carattere
specifico dalla specificità formale dei fini a cui il soggetto tende nel
conoscere. La logica deve quindi indagare i compiti, formalmente diversi tra
loro, che le diverse scienze si pongono e cercare di comprendere i metodi
scientifici nella loro diversità come gli strumenti, necessariamente
differenti, per il conseguimento di questi diversi fini o come i modi,
anch'essi necessariamente differenti, della trasformazione e del-
l’elaborazione concettuale del materiale intuitivamente dato. Ovviamente, le
distinzioni metodologiche che ne risultano so- no, al pari delle distinzioni
dei fini, puramente formali; ma proprio in virtù di questo loro carattere
puramente formale esse devono valere come elementi fondamentali e decisivi per
la comprensione dell’essenza logica di un metodo scientifico. La logica ha a
che fare sempre e soltanto con le forme del pen- siero. Se da queste
determinazioni generali del compito di una logica delle scienze particolari ci
volgiamo ai concetti fonda- mentali che la logica della scienza storica deve
sviluppare in modo particolare, sarà necessario in primo luogo recare alla
coscienza la massima antitesi formale presente nella nostra con- cezione della
realtà empirica, cioè chiedersi che cosa significhi logicamente quest’antitesi
e indicare quale termine dell’antitesi sia determinante per la rappresentazione
storica della realtà. Che vi siano due tipi sostanzialmente diversi di
apprendimento della realtà, si può forse comprenderlo nel modo migliore guar-
dando alle conoscenze pre-scientifiche che possediamo di una parte più o meno
grande del mondo. Sarebbe illusorio credere di avere qui una copia della realtà
quale essa è. Prima che la scienza si accinga al suo lavoro è sorta già sempre
qualche specie di elaborazione concettuale, e la scienza trova come pro- prio
materiale i prodotti di questa elaborazione concettuale pre- scientifica, non
la realtà libera da interpretazioni. La massima distinzione formale in questa
elaborazione concettuale pre-scien- tifica è però quella seguente. La maggior
parte delle cose e degli eventi ci interessano solamente per quello che hanno
in comune con altri; e quindi noi facciamo attenzione a questo elemento comune,
anche se di fatto ogni parte della realtà è individualmente diversa da ogni
altra e nulla nel mondo si ripete esattamente. Poiché l’individualità della
maggior parte degli oggetti ci è del tutto indifferente, noi non la conosciamo;
per noi questi oggetti non sono che esemplari di un concetto di genere, che
possono essere sostituiti da altri esemplari dello stesso concetto: anche se
non sono mai identici, noi li vediamo come tali e quindi li designamo soltanto
con nomi di genere. Questa delimitazione, a tutti nota, dell’interesse a ciò
che è generale (nel senso di ciò che è comune a un gruppo di ogget- ti), o
apprendimento generalizzante, sulla cui base riteniamo a torto che nel mondo
esista qualcosa come l’identità e la ripeti- zione, è per noi al tempo stesso
di grande valore pratico. Esso articola in un modo determinato la molteplicità
e la policro- mia della realtà, e ci rende possibile di orientarci in essa.
D'altra parte l'apprendimento generalizzante non esaurisce affatto ciò che ci
interessa nel nostro ambiente, e che quindi conosciamo di esso. Questo o
quell’oggetto viene piuttosto pre- so in considerazione proprio per quello che
è ad esso peculia- re, e che lo distingue da tutti gli altri oggetti. Il nostro
in- teresse e la nostra conoscenza si riferiscono quindi proprio alla sua
individualità, a ciò che lo rende insostituibile; e se anche sappiamo che esso
si lascia cogliere, al pari degli altri oggetti, come esemplare di un concetto
di genere, tuttavia non voglia- mo considerarlo identico ad altre cose, ma vogliamo
estrarlo espressamente dal suo gruppo: ciò trova la sua espressione lin-
guistica nella designazione con un nome proprio anziché con un sostantivo di
genere. Anche questo tipo di articolazione, o apprendimento individualizzante
della realtà, è così corrente che non richiede una ulteriore analisi. Ma una
cosa è importan- te e dev'essere sottolineata: la conoscenza dell’individualità
di un oggetto non costituisce neppur essa una copia nel senso che noi
conosciamo l’intera molteplicità del suo contenuto, ma an- che qui si compie
una determinata scelta e trasformazione, cioè si estrae un complesso di
elementi che, in questa partico- lare composizione, appartiene soltanto a
quell’urico oggetto de- terminato. Dobbiamo quindi distinguere l’individualità
che spet- ta a qualsiasi cosa o evento — il cui contenuto coincide con la sua
realtà, e la cui conoscenza non può essere raggiunta né merita di essere
oggetto di aspirazione — dall’individualità per noi significativa, e
consistente di elementi determinati; e dobbiamo aver chiaro che questa
individualità in senso stretto (la sola a cui di solito si allude) non
costituisce una realtà, al pari del concetto di genere, ma è soltanto un
prodotto del nostro apprendimento della realtà, della nostra elaborazione
concettuale pre-scientifica. La distinzione qui illustrata deve suscitare in
alto grado l'interesse della logica. In primo luogo, non soltanto ogni lavo- ro
scientifico si richiama a processi pre-scientifici e ai loro risul- tati, ma
dev'essere in larga misura inteso come elaborazione sistematica di ciò che è
stato cominciato in modo non arbitra- rio. Inoltre tale distinzione è
particolarmente significativa sia perché è puramente formale — in quanto
qualsiasi oggetto può essere appreso in modo generalizzante e in modo
individualiz- zante — sia perché, come antitesi tra generale e particolare,
rappresenta la massima distinzione che si possa pensare da un punto di vista
logico. Se deve avere un significato per i metodi delle singole scienze, la
logica deve anche fare di esse il punto di partenza delle proprie indagini. Per
quanto riguarda la considerazione generalizzante degli oggetti, non c'è alcun
dubbio non soltanto sulla sua importan- Za pratica, ma anche sulla sua
importanza teoretica per la scienza. Il metodo di molte scienze consiste in una
subordina- zione del particolare al generale, che coincide con la formazio- ne
di concetti di genere e con la considerazione degli oggetti come esemplari di
questi. Conoscere significa allora comprende- re ciò che non è conosciuto come
caso particolare di ciò che è noto, in modo da eliminare l’individuale, il
singolare, e da accogliere nella scienza soltanto l'elemento comune. Il fine
su- premo di questa conoscenza è di ricondurre la realtà da conoscere sotto
concetti universali in modo che questi ultimi si uniscano, mediante rapporti di
sovra-ordinazione e di subordi- nazione, in un sistema unitario, e che si tenda
— dove è possibile — a concetti il cui contenuto valga ir modo incondi-
zionatamente universale per gli oggetti da indagare. Dove si perviene a questo
tipo di conoscenza, si è colto ciò che chiamia- mo le leggi della realtà. Del
tutto legittimo è poi anche il tentativo di applicare questo metodo di
comprensione a tutti i campi della realtà e di andare quindi ovunque alla
ricerca di leggi, sia nella realtà spirituale o in quella corporea, sia nei
processi naturali o nella vita culturale. Ciò può essere certamen- te più
difficile in un campo che in un altro, e anzi qualche volta i concetti
incondizionatamente universali sono inconoscibi- li all'uomo; ma la
considerazione generalizzante non è mai esclusa in linea di principio, e da ciò
sembra risultare una conseguenza metodologica fondamentale. Si può cioè
conclude- re che il pensiero scientifico coincide con la formazione di concetti
generali e che quindi, da un punto di vista puramente formale, esiste soltanto
“r metodo scientifico. L’antitesi tra ap- prendimento generalizzante e
apprendimento individualizzante avrebbe allora significato per la logica
soltanto nella misura in cui la scienza elimina ovunque l’individuale mediante
concetti generali; e proprio perché nella nostra analisi non si è tenuto alcun
conto della peculiarità del materiale delle diverse scien- ze, la divisione
consueta in scienze della natura e scienze dello spirito sembra svanire, almeno
nel suo significato metodologico formale. Piuttosto, la vita spirituale
dev'essere trattata in modo generalizzante al pari del mondo corporeo: perciò
anche la scienza storica è naturalmente costretta ad applicare il metodo
generalizzante. Di fatto, sono questi i motivi migliori su cui poggiare la
proclamazione di un metodo universale, perché si tratta di motivi puramente
formali e, nella misura in cui l’apprendimen- to generalizzante celebra i suoi
massimi trionfi nelle scienze della natura, qui abbiamo nel medesimo tempo il
miglior fon- damento del naturalismo metodologico. Ma una logica che vo- glia
comprendere le scienze così come realmente esistono non si accontenterà di
questo. Dal giusto principio che ogni realtà può essere sottomessa a una
considerazione generalizzante essa non concluderà che la formazione di concetti
generali è senz'altro identica con il procedimento scientifico. Essa si chie-
derà piuttosto se tutte le scienze applicano effettivamente que- sto procedimento
e dovrà rispondere negativamente osservando il lavoro scientifico che è
presente nelle opere di tutti gli stori- ci. Questo fatto è così evidente che
anche i sostenitori di un metodo universale di tipo generalizzante o del
naturalismo me- todologico non possono negarlo. Essi cercano di aiutarsi dicen-
do che la scienza storica è oggi ancora imperfetta e per questo motivo non si
adegua al sistema sopra indicato, ma che quanto più progredirà, tanto più si
servirà anch'essa dell’unico meto- do scientifico, cioè del metodo
generalizzante. Questo punto di vista è però insostenibile, e non soltanto —
come si deve sem- pre sottolineare nel modo più energico — per il fatto che la
realtà di cui la storia tratta non può essere ricondotta sotto concetti generali
— e infatti questa è un’affermazione indimo- strabile per la logica che procede
in modo formale — ma semplicemente perché rientra nell’essenza della scienza
storica che, non appena comprende se stessa, essa non vole compiere
un'elaborazione della realtà in riferimento a ciò che vi è di comune negli
oggetti, e non vuole compierla perché su questa via non è mai possibile
conseguire i fini che essa si pone in quanto storia. Ma quali sono questi fini,
nel loro carattere formale? Se l'oggetto storico — si tratti di una
personalità, di un popo- lo, di un’epoca, di un movimento economico o politico,
religio- so o artistico — dev'essere rappresentato come una totalità, occorre
in ogni caso coglierlo nella sua singolarità e nella sua individualità
irripetibile, e assumerlo nella rappresentazione co- me se non potesse essere
sostituito da nessun'altra realtà. Per- ciò la storia non può servirsi, se si
prende in considerazione il suo fine ultimo, ossia la rappresentazione
dell’oggetto nella sua totalità, del procedimento generalizzante, poiché questo
coinci- de con un’esclusione dell’individuale e conduce così al contra- rio
logico di ciò a cui la storia aspira. È quindi ancora una volta del tutto
indifferente che l’oggetto storico sia un oggetto corporeo o spirituale, un
prodotto culturale o un processo natu- rale; importa solo che, dove è presente
in generale un interesse storico per una qualsiasi realtà, si tende a una
rappresentazione con un contenuto individuale, perché questa soltanto si presta
alla soluzione del compito proprio della scienza storica. Ciò non deve
significare che la storia cerchi di fornire una copia dell’individualità del
suo oggetto: tanto poco essa potrebbe in- fatti ottenerla, quanto poco nelle
conoscenze pre-scientifiche possediamo copie degli oggetti designati con nomi
propri. Né deve significare che la storia rappresenti il suo oggetto indivi-
dualizzandolo in tutte le sue parti, ma vuol dire che viene anzitutto presa in
considerazione soltanto l’individualità del tutto e che questa non coincide
affatto, se prescindiamo dall’i- dea di una copia, con la somma delle
individualità delle sue parti. Infine, non si può negare che per raggiungere il
suo fine la storia ha bisogno di concetti generali e procede in modo
generalizzante, così come, all’inverso, nelle scienze generaliz- zanti non si
può fare a meno della rappresentazione dell’indivi- duale come punto di
partenza per la formazione di concetti generali. Si deve provvisoriamente
rendere consapevole il carat- tere logico del fize ultimo di ogni
rappresentazione storica, e la struttura logica del risultato che
necessariamente corrispon- de a questo fine. Se si va alla ricerca di esempi, è
naturalmente del tutto indifferente l’«indirizzo » a cui appartiene l’opera
storica che si prende in considerazione. Prendiamo la Weltgeschichte di Ranke o
Les origines de la France contemporaine di Taine, la Deutsche Geschichte im 19.
Jahrhundert di Treitschke! o la History of Civilisatton in England di Buckle,
la Begrindung des Deutschen Reiches durch Wilhelm I di Sybel! o la Caltur 15.
Heinrich von Treitschke (1834-1896), storico tedesco, autore del volume Die
Gesellschaftswissenschaft, ein kritischer Versuch (1858), della Deutsche
Geschichte im 19. Jahrkundert (1879-95), degli Historische und politische Aufsitze
(1886-97), delle Vorlesungen iiber Politi (pubblicate postume nel 1897-98) e di
numerosi altri scritti, fu il maggiore rappresentante della storiografia
ottocentesca tedesca di ispi- razione nazionalistica. Egli si richiama a Hegel
per formulare una concezione dello stato come fine supremo della società,
polemizzando contro il liberalismo e negando \la possibilità di una scienza
sociale autonoma nei confronti della scienza politica. 16. Heinrich von Sybel
(1817-1895), storico tedesco, autore della Geschichte des ersten Kreuzzuges
(1841), di Die Entstchung des deutschen Konigtums (1844), della Geschichte der
Revolutionszeit, 1789-1800 (1853-79), di Die Begriindung des deut- schen
Reiches durch Wilhelm I (1889-94) e di varie altre opere, fu uno dei principali
rappresentanti del punto di vista nazionale-liberale nella storiografia tedesca
dell'Ottocento; nel 1856 fondò la « Historische Zeitschrift ». Sotto il profilo
der Renaissance in Italien di Burckhardt, lo Scharnhorst di Max Lehmann" o
la Deutsche Geschichte di Karl Lamprecht: ovunque, in corrispondenza ai titoli
delle opere, che indicano la totalità storica, troviamo una serie di
avvenimenti trattati così come si sono svolti una sola volta nel mondo e —
quale che sia il modo in cui li ha plasmati lo storico — rappresentati nella
loro particolarità e individualità. Forse che la Deutsche Geschichte di
Lamprecht (il quale crede di lavorare con un metodo nuovo) contiene come
elemento costitutivo soltanto ciò che è dato trovare in altri esemplari del
concetto generico di nazione, vale a dire nello sviluppo del popolo francese,
inglese o russo, e ciò che si è ripetuto spesso e si ripeterà in tempi diversi
e in luoghi diversi? Basta porre questa domanda per vedere che anche uno
storico che rifiuta in teoria la concezione « individualistica », nella prassi
tratta sempre il suo oggetto in modo individualizzante. Ma tale procedimento,
che appartiene all'essenza di ogni rappresentazione storica, non è applicato in
nessun'opera di discipline non storiche — sia che si occupino di corpi o della
vita spirituale. La Lehre von den Tonempfindun- gen di Helmbholtz ! o il
Keimplasma di Weismann", la Medizi- metodologico è importante il suo
saggio Uber den Stand der neueren deutschen Ge- schichtsschreibung (1856). 17.
Max Lehmann (1845-1929), storico tedesco, fu allievo di Droysen e soprat- tutto
di Ranke; insegnò a Marburg e poi a Gòttingen. Le sue opere principali sono Ja
biografia di Scharnhorst (Leipzig, 1886-87) — alla quale si riferisce Rickert
nel testo — e un'altra importante biografia di Stein (apparsa nel 1902-1905).
18. Hermann Ludwig Ferdinand von Helmholtz (1821-1894), fisico, anatomista e
fisiologo tedesco, autore del volume Uber die Erhaltung der Kraft (1847), dello
Handbuch der physiologischen Optik (1856-67), di Die Lehre von den Tonempfin-
dungen als physiologische Grundlage fiir die Theorie der Musik (1863), dei
Populàre wissenschafiliche Vortrige (1865-76), delle Wissenschafiliche
Abhandiungen (1882-95), e di numerosi altri scritti, fu uno dei maggiori scienziati
della scconda metà del- l’Ottocento. I suoi contributi vanno dalla fisica
(scoprì la legge della conservazione dell'energia) all'elettrologia, dalla
geometria all'ottica geometrica, dall'anatomia alla fisiologia del sistema
nervoso. 19. August Weismann (1834-1914), zoologo e biologo tedesco, autore di
Uber die Berechtigung der Darwinschen Theorie (1868), di Uber den Einfluss der
Isolierung auf die Artbildung (1872), delle Studien zur Deszendenztheorie
(1875-76), di Die Konti- nuiràt des Keimplasmas als Grundlage einer Theorie der
Vererbung (1885), di Uber den Riickschritt in der Natur (1886), degli Aufsitze
tiber Vererbung (1892), di Das Keim- plasma (1892), di Die Allmacht der
Naturziichtung (1893), di Uber Germinalselektion (1896), dci Vortrige tiber Deszendenziheorie
(1902) e di varie altre opere, si richiamò a Darwin, di cui riprese e sviluppò
la teoria della selezione naturale. È considerato uno dei fondatori della
genetica moderna. nische Psychologie di Lotze”® o la Entwicklungsgeschichte der
Tiere di von Baer”, il Treatise on Electricity and Magnetism di Maxwell? o
Gemeinschaft und Gesellschaft di Tonnies — nell’esposizione definitiva tutte
queste opere considerano nei loro oggetti — come risulta già dai titoli —
soltanto ciò che consente di ritenerli eguali ad altri esemplari dello stesso
concet- to di genere, e di cui si può quindi dire che si ripete a piaci- mento.
Che vi siano non soltanto scienze generalizzanti dello spirito, ma anche
scienze individualizzanti dei corpi, non ha alcuna importanza in questo
contesto. Noi non ci occupiamo della differenza tra spirito e corpo, ma
soltanto della diffe- renza formale dei fini e dei metodi scientifici; e anche
ai fanatici del metodo scientifico sarà difficile rifiutare la differen- za che
abbiamo indicato. È quasi inconcepibile che si possa ancora discuterne.
Stabiliamo quindi come punto di partenza di una logica della storia che non
soltanto nelle nostre conoscenze pre-scienti- fiche vi sono due modi di
apprendimento della realtà distinti in linea di principio, quello
generalizzante e quello individua- lizzante, ma che ad essi corrispondono due
modi di elaborazio- ne scientifica della realtà differenti nei loro fini ultimi
e così pure nei loro risultati ultimi. Ciò non vuol dire ovviamente che si
debbano separare tra loro due gruppi di scienze, in modo che ne risulti al
tempo stesso il principio di una divisione del lavoro scientifico. Distinzione
logica non significa divisione reale, e l’antitesi formale non deve né può
servire alla divisione reale, poiché quest’ultima si collega a differenze
oggettive del materiale, non già a differenze logiche. È quindi del tutto
erroneo combattere il valore logico dell’antitesi dicendo che essa
frantumerebbe il lavoro scientifico in modo contraddittorio rispetto ai fatti e
che vorrebbe separare ciò che di fatto è 20. Rickert si riferisce qui alla
Medizinische Psychologie oder Physiologie der Scele, Leipzig, 1852. 21. Karl
Ernst von Bacr (1792-1876), zoologo c biologo tedesco, autore di Uber
Entwicklungsgeschichte der Tiere (1828-37), delle Reden und kleine Aufsàtze
(1864-76), del volume Zum Streit îîber den Darwinismus (1873), delle Studien
auf dem Gebiete der Naturwissenschaften (1874). 22. James Clerk Maxwell
(1831-1879), fisico inglese, autore del Treatise on Electricity and Magnetism
(1873), di Matter and Motion (1876) c di varie altre opere, diede un contributo
decisivo alla formulazione della teoria elettromagnetica della luce. ovunque in
un rapporto di cooperazione. Si tratta soltanto del- la distinzione concettuale
di due diverse tendenze di apprendi- mento nelle scienze, che possono molto
spesso, e fors’anche sempre, cooperare di fatto; e questa distinzione
concettuale sa- rebbe necessaria anche se non si potessero separare due tipi di
scienze neppure in riferimento ai loro fini ultimi. Se si cerca ora di
determinare in modo più preciso l'essenza del procedimento individualizzante,
occorre anzitutto porre in rilievo che il metodo della scienza non coincide con
quell’ap- prendimento individualizzante della realtà che possediamo nel- le
nostre conoscenze pre-scientifiche. Anche nel caso dell’ap- prendimento
generalizzante noi parliamo di metodo soltanto dove l'elaborazione concettuale
viene compiuta sistematicamen- te. Che cosa corrisponde nella storia a quella
connessione siste- matica di concetti più o meno generali? Nell’indicazione di
questi elementi che costituiscono la scientificità del metodo indi-
vidualizzante la logica della storia dovrà scorgere — una volta che abbia
trovato il suo punto di partenza — il suo ulteriore compito. Qui si potranno
naturalmente porre in luce soltanto alcuni punti che in tempi recenti hanno
dato occasione a que- stioni controverse, e che sono particolarmente adatti a
chiarire la differenza del procedimento individualizzante da quello ge-
neralizzante. Cominciamo con un'ulteriore analisi del concetto che abbiamo
posto in risalto fin dall’inizio: il concetto di totalità storica.
L'individualizzazione pre-scientifica estrae spesso gli oggetti dal loro
ambiente in modo da separarli l’un l’altro e quindi da isolarli. Ma l'elemento
isolato in quanto tale non è oggetto di interesse scientifico, e nulla è più
sbagliato che identificare il metodo individualizzante con il mettere insieme
fatti isolati — così come fanno i suoi avversari. Piuttosto la storia, al pari
delle scienze generalizzanti, deve cogliere tutto in una connes- sione. Ma in
che cosa consiste la connessione storica? A parti- re da ogni oggetto storico
essa si estende in certo modo lungo due dimensioni, che si potrebbero designare
come la dimensione della larghezza e quella della lunghezza; occorre cioè
anzitut- to stabilire le relazioni che uniscono l'oggetto con il suo a1- biente
e poi seguire nel loro legame reciproco i diversi stadi che percorre
dall'inizio alla fine, ossia, come si usa dire, imparare a conoscerne lo
sviluppo. Certamente, un oggetto così rappresentato è poi, a sua volta, parte
di un ambiente più grande e di uno sviluppo anteriore, e lo stesso vale poi per
questa connessione più comprensiva, di modo che scorge una serie a due
dimensioni che conduce fino ai limiti della totalità storica ultima. Dove stia
questo limite, non è ancora possibile chiarirlo con i concetti finora
acquisiti. In una specifica ricerca storica il punto dove si cessa di
perseguire la connessione stori- ca dipende dalla scelta del tema. Qui si
tratta provvisoriamente soltanto di fissare il concetto di una connessione
storica in gene- rale come connessione di una serie evolutiva di stadi diversi
reciprocamente connessi, concepita nel legame col proprio am- biente. Ciò è
tanto più necessario quanto più sono derivati di qui errori largamente diffusi
sull'essenza del metodo storico. La connessione può essere definita, in
antitesi ai singoli oggetti, come l’elemento generale della storia; e da ciò è
poi sorto il punto di vista secondo cui anche la scienza storica procederebbe
in modo generalizzante. L'inserimento di un oggetto nel suo ambiente — così
come lo storico lo compie — è un processo estraneo al procedimento delle
scienze generalizzanti. Il mi- lieu è sempre individuale, e viene preso in
considerazione dallo storico nella sua
individualità. Esso è generale soltanto
nel senso che i singoli individui in esso inseriti ne costituiscono le
parti. Ma che il rapporto della parte con il tutto non sia identico al rapporto tra l'esemplare e il
concetto di genere ad esso
sovra-ordinato, è cosa che non dovrebbe richiedere discussione. Proprio perché
la storia deve sempre considerare il particolare nel generale, cioè
considerarlo come elemento di un tutto, essa deve venir assegnata (in
riferimento ai suoi fini ultimi) alle scienze individualizzanti: lo stesso
risultato si ricava da una
considerazione dello sviluppo storico. Anche lo sviluppo è generale soltanto nel senso che costituisce
una totalità la quale comprende le sue
parti. Nella storia lo sviluppo significa
sempre il sorgere di qualcosa di nuovo, di qualcosa non mai esistito finora; e poiché nei concetti di
legge entra soltanto ciò che può essere
considerato come qualcosa che si ripete a piacimento, i concetti di sviluppo
storico e di legge si escludono a
vicenda. Soltanto l’equivocità del termine «sviluppo» rende possibile
unificare un procedimento storico-evolutivo con un procedimento scientifico fondato su leggi e
parlare di «leggi dello sviluppo »; per
esempio dove — come nell’embriologia storico-evolutiva » — si guarda alle serie
evolutive per quel che hanno di comune, e dove quindi z07 si deve prendere in
considerazione il divenire storico del nuovo nel suo carattere specifico.
In breve, gli sviluppi storici non sono
altro che individualità storiche
concepite nel loro divenire e nel loro crescere, e pertanto la loro rappresentazione è possibile,
analogamente a quella della connessione
con l’ambiente storico, soltanto con un metodo individualizzante. Anzi, la
connessione storica « generale » non è
che la totalità storica stessa, non già un sistema di concetti universali: la storia considera appunto
sempre questa totalità nella sua
particolarità, nella sua singolarità e nella sua individualità. Se poi indaghiamo anche sul ruolo che i
concetti generali hanno nella scienza
storica, ci imbattiamo anzitutto nel fatto
che tutti gli elementi dei giudizi e dei concetti storici sono generali. E tali devono essere già perché li
si indica con parole generalmente
comprensibili, e perché le parole debbono la loro comprensibilità soltanto al fatto di
possedere un significato generale, cioè comune a più oggetti. La storia
lavorerà quindi sempre con concetti
generali di realtà, che costituiscono gli
elementi ultimi dei propri concetti individuali, e perverrà alla loro rappresentazione individualizzante solo
mediante una determinata combinazione di questi elementi generali. Ma ciò non esaurisce ancora il significato dei
concetti generali nella storia. Essi
risultano indispensabili proprio anche per istituire la connessione storica. Il nesso reciproco
dei diversi stadi di una serie
storico-evolutiva o di un oggetto storico con il suo ambiente è sempre un legame causale, e la scienza
storica deve rappresentare questi rapporti di causa ed effetto per esprimere il
legame delle parti con la totalità.
Certamente non di rado si afferma che
gli oggetti dell'indagine storica — o una parte di essi — sono esseri « liberi » e che perciò lo
storico non dovrebbe indagarne le connessioni causali. Tuttavia, anche
prescindendo dalla questione se il concetto di libertà sia da identificare in
genere con quello di assenza di causa, e se il problema della libertà non debba essere trasferito dalla filosofia teoretica
all’etica, in ogni caso il concetto di assenza di causa non ha alcun senso
per una scienza empirica. Anche la
storia deve presupporre che ogni suo
oggetto sia l’effetto necessario di avvenimenti precedenti, e deve quindi
indagare anche la connessione causale.
Ancora una volta ci imbattiamo in un punto che può suscitare molte
questioni controverse. Si è cioè proclamata l’esistenza di un « metodo causale » della storia che
dovrebbe essere analogo al metodo delle scienze generalizzanti. Ciò può essere
ritenuto esatto soltanto se si identifica il concetto di causalità con il concetto di conformità a leggi. Se si fa
questo, certamente ogni scienza che
indaghi connessioni causali — e quindi anche la
storia — è una scienza di leggi; ma questa identificazione non ha alcuna legittimità. Per possedere realtà
empirica, i legami causali devono
piuttosto essere realtà individuali, poiché non vi sono altre realtà al di fuori di quelle
empiriche individuali. Invece le leggi
sono sempre generali e possono perciò valere, se devono essere più che concetti, soltanto come
realtà metafisiche. Ma la dottrina del metodo deve mantenersi libera da
presupposti metafisici; essa può quindi parlare soltanto di legami causali individuali in quanto realtà
empiriche e di leggi in quanto concetti
generali. L'espressione « metodo causale» —
che è particolarmente usata come antitesi al procedimento « teleologico»
— è perciò un'espressione polemica che non dice
nulla, proprio perché ogni scienza empirica ha a che fare con connessioni causali, e le connessioni causali
in quanto tali sono ancora indifferenti
rispetto alle differenze di metodo: esse permettono, al pari di ogni altra
realtà empirica e individuale, sia un
apprendimento generalizzante sia un apprendimento individualizzante. Ma — e con ciò ritorniamo al significato dei
concetti generali — anche se ogni connessione causale storica tra due stadi
di una serie storico-evolutiva è un
processo in cui la causa produce qualcosa che non esisteva prima, la
rappresentazione di questi nessi causali storici è possibile, al pari di ogni
rappresentazione dell’individuale, soltanto utilizzando elementi
concettuali che abbiano ognuno per sé un
contenuto generale e che solo nella loro
composizione particolare esprimono l’individualità del reale; nella
rappresentazione di legami causali individuali si aggiunge invece qualcosa che
richiede di fatto l’uso di concetti generali in un senso particolare. Lo
storico non vuole cioè indicare soltanto
la successione temporale di causa ed effetto,
ma anche acquisire uno sguardo sulla recessità con cui da questa causa individuale e irripetibile
scaturisce quest’effetto individuale e irripetibile; e qui non si può evitare
una deviazione attraverso concetti
generali di rapporti causali ed eventualmente attraverso leggi causali. Per
quanto il legame causale non possa
essere generalmente designato come realtà empirica, per esprimere scientificamente la sua necessità
noi possediamo soltanto lo «schema» spaziale e temporale del « dovunque» e
del « sempre », e perciò alla
rappresentazione scientifica anche della
necessità causale individuale si collega sempre la formazione di un concetto generale o (dove si può pervenire
ad essa) di una legge causale generale —
circostanza che spiega al tempo stesso
il consueto scambio tra legge e causalità. Ciò costringe anche la storia, se vuol gettare un ponte tra una
causa individuale e il suo effetto
individuale in modo che la connessione causale si lasci cogliere come necessaria, a impiegare
concetti generali di connessioni
causali. Essa raggiunge il proprio fine scomponendo il concetto dell’oggetto
individuale — che dev'essere colto come
effetto necessario — nei suoi elementi sempre generali e poi connettendo questi elementi, egualmente
generali, del concetto della causa individuale, in modo che ognuno di
questi legami tra elementi concettuali
generali esprima la connessione causale
necessaria delle realtà ad essi sottoposte. Fatto questo, la storia ricompone
gli elementi generali del concetto di
causa, considerati di per sé, in un concetto che rappresenta l'individualità di questa causa: essa ottiene
in tal modo, mediante una deviazione
attraverso concetti causali generali,
una prospettiva scientifica sul legame necessario della causa storica
individuale con l’effetto storico individuale. Ovviamente, in questo modo è stato indicato soltanto un
ideale logico la cui realizzaziorie può
essere raggiunta solo parzialmente dove non
si riesce a collegare causalmente tutti gli elementi del concetto di effetto a elementi del concetto di causa;
e quindi soltanto di rado potrà
scomparire dalle rappresentazioni storiche un residuo causalmente non
derivabile. In casi del genere si parla
anche di libertà, perché manca la possibilità di scorgere la necessità causale. Non sì può in questa sede
discutere più da vicino quali mezzi la storia possegga per cogliere nel modo
più compiuto possibile la necessità di
un nesso causale storico, e in quale
rapporto stia quindi con le scienze generalizzanti. Ma è fin d’ora chiaro che anche per lo storico è
importante la conoscenza di leggi causali — circostanza che spiega perché si
vuol fare della storia una scienza di
leggi. Altrettanto chiaro è però che con
questa importanza dei concetti di legge non cambiano per nulla i fini della storia. I prodotti del
pensiero generalizzante sono per essa sempre soltanto deviazioni o strumenti e
servono, al pari degli elementi generali dei concetti storici, a una rappresentazione che vuol cogliere la
totalità storica in modo
individualizzante. Neppure
mediante un'esposizione di tutti i casi in cui il procedimento generalizzante è soltanto mezzo
di una rappresentazione individualizzante si potrebbe esaurire il
significato che i concetti generali
hanno nella storia. Ciò che si prende in considerazione nella sua singolarità e
individualità è sempre e soltanto la totalità storica, non già tutte le sue
parti. Molte di es- se non vengono rappresentate dalla storia qualora non
abbiano alcun significato per l’individualità del tutto, e anche la mag-
gioranza delle parti rappresentate viene raccolta sotto concetti generali di
gruppo. Anzi, si può sostenere che in una rappresen- tazione storica non c'è
bisogno che siano presenti concetti di oggetti parziali, i quali contengano soltanto
ciò che è singolare e individuale, e che in essa si formano esclusivamente
concetti di gruppo che contengono ciò che è comune a una pluralità di oggetti. Tali concetti di gruppo sorgono
necessariamente quando lo storico non sa abbastanza degli avvenimenti che
rappresenta per poter penetrare nella loro individualità, ed è perciò costretto ad accontentarsi di un concetto
generale. Ma in moltissimi casi, e forse anche in tutti, lo storico vuole
formare di fatto un unico concetto di
gruppo, e allora sembra procedere, anche
riguardo al suo fine, in modo generalizzante. In relazione a ciò si può meglio
comprendere anche una questione assai
dibattuta. Si è ritenuto che la « vecchia tendenza » della storiografia
sia «individualistica », ma soltanto perché attribuisce troppo valore ad avvenimenti politici o di
altro genere, e quindi a singole persone. La « nuova » tendenza dovrebbe, per
non rimanere in superficie, occuparsi di
meno delle azioni politiche di singole personalità e di più dei movimenti di
massa, penetrando così l'essenza
autentica dello sviluppo culturale. AI
vecchio metodo « individualistico » si contrappone pertanto un nuovo metodo « collettivistico », e questo
viene valutato, proprio perché forma
soltanto concetti generali, come il nuovo metodo della storia, l’unico veramente scientifico e
da tempo in uso nelle scienze naturali.
Ammettiamo pure, per comprendere il significato logico di questo punto di vista, che sia vero che lo
storico operi soltanto con concetti di
gruppo — infatti questa proposizione è logicamente assurda come quella secondo
cui la storia dovrebbe formare un sistema di concetti generali — e
immaginiamoci per esempio una
rappresentazione della Rivoluzione francese che
tenga conto soltanto dei movimenti di massa, perché ciò che le singole persone hanno compiuto appare
inessenziale. Si potrebbe allora dire che la storia procede realmente, in base
al nuovo metodo, in maniera non soltanto
collettivistica ma anche generalizzante, come una scienza naturale? Tanto ovvia
quest'idea appare ai rappresentanti del
nuovo metodo, altrettanto essa è falsa,
perché — e questo motivo è sempre determinante — soltanto le parti della
totalità possono essere ricondotte a concetti
generali. Anche una storia che proceda in maniera collettivistica
considera sempre la totalità nella sua individualità, e anche i concetti generali di gruppo devono venir
formati in modo da essere adatti alla
rappresentazione dell’individualità del tutto.
Di metodo generalizzante si potrebbe parlare soltanto nel caso che si dovesse rappresentare una rivoluzione
qualsiasi e non già — come presupponiamo
e come dobbiamo presupporre finché la rappresentazione ha carattere di storia —
questa determinata Rivoluzione francese, che ha avuto inizio nel 1789 e così via. La contrapposizione tra metodo «
individualistico » e metodo « collettivistico » è quindi fuorviante. Tutti gli
storici procedono in modo più o meno collettivistico, e lo hanno sempre fatto. La circostanza che oggi qualcuno
lavora il più possibile con espressioni
generali come quelle di epoche e di movimenti
di massa, parlando soltanto di fattori psico-sociologici e dichiarando
inutilizzabile ogni « psicologia individuale » (che del resto soltanto i
dilettanti possono porre in relazione con la concezione « individualistica »
della storia), per dare a intendere a sé e agli altri di procedere al modo
della scienza naturale, può forse dar
luogo a una storia vaga e indeterminata oppure condurre, trascurando le
personalità essenziali, a una falsificazione diretta dei fatti, ma non può
cambiare per nulla il carattere individualizzante del metodo storico. Dobbiamo
anzi fare un passo più in là. Anche i
concetti generali di gruppo impiegati dalla storia non sono — pur contenendo
soltanto ciò che è comune a una
pluralità di oggetti — concetti generali nel senso di quelli che forma una scienza
generalizzante procedente in modo
sistematico. Lo storico può cioè ritenersi soddisfatto di un concetto di gruppo soltanto se in esso è
già contenuta nel medesimo tempo
l’individualità di tutti gli elementi di tale
gruppo, per lui significativa nella connessione storica. Perciò il fine in riferimento al quale sono formati i
concetti storici di gruppo non
costituisce una generalizzazione del tipo di quella compiuta dalle scienze generalizzanti, bensì
una rappresentazione dell’individualità di gruppo. Anche questi concetti
generali sono sempre prodotti di un
procedimento individualizzante, nella
misura in cui il principio che determina i loro elementi può essere compreso soltanto in base ai fini
della storia individualizzante. Si può anche designarli come concetti
collettivi individualizzanti, per
distinguerli sia dai concetti collettivi ai
quali si tende nelle scienze generalizzanti, sia dai concetti generali
impiegati strumentalmente nella storia.
Questa distinzione può forse suonare un po’ sofistica finché non si sarà trattato di un altro aspetto del
metodo storico. Occorre cioè richiamare
ora l’attenzione sulla circostanza, già
rammentata, che l'apprendimento individualizzante non considera tutta la
molteplicità individuale di una realtà, ma comporta una scelta trasformatrice.
Alla base di questa scelta e di questa
trasformazione dev'esserci nella scienza storica un principio, e soltanto il suo chiarimento esplicito
completerà la comprensione dell’essenza logica del metodo storico. Per pervenire a un tale principio riflettiamo
nuovamente sulle nostre conoscenze
pre-scientifiche. Esse dipendono dall’interesse che il nostro ambiente suscita
in noi. Ma che cosa vuol dire avere
interesse per gli oggetti? Vuol dire che non ci limitiamo a rappresentarceli,
ma che li riferiamo al tempo stesso alla nostra volontà e li poniamo in
relazione con le nostre valutazioni. Dove apprendiamo qualcosa in modo
individualizzante, la particolarità dell'oggetto deve in qualche modo
essere collegata con valori che non sono
collegati a loro volta con nessun altro
oggetto; se ci arrestiamo a un apprendimento generalizzante, il collegamento
con il valore dipende soltanto da ciò
che è allo stesso modo presente in altri oggetti e che può quindi essere sostituito da altri esemplari
del medesimo concetto di genere. Questo è l’aspetto non ancora illustrato
della differenza tra apprendimento
generalizzante e apprendimento individualizzante:
anche in riferimento ad esso i due metodi
scientifici mostrano un’antitesi di principio. Se dalla generalizzazione pre-scientifica si
procede a subordinare scientificamente gli oggetti a un sistema di concetti
generali, non soltanto si astrae dall’interesse per ciò che è singolare e individuale, ma si allenta sempre più, con il
progredire del processo di formazione
del sistema, il legame dell’elemento comune a più oggetti con i valori. Se cioè
ogni concetto generale è subordinato a
un concetto ancor più generale, e se alla fine
tutti i concetti sono ricondotti al concetto generalissimo verso cui tende l’indagine, allora anche gli
oggetti per i quali il sistema deve
valere possono essere considerati come egualmente forniti di valore o egualmente privi di
valore: infatti il princi- pio che determina ciò che è essenziale in un oggetto
non può più essere ora l'interesse originario, ma può essere soltanto la
posizione che l’oggetto assume nel sistema di concetti generali. La divisione
tra essenziale e inessenziale, originariamente com- piuta sempre in base a
punti di vista valutativi, viene così respinta da una scienza generalizzante, e
al tempo stesso sosti- tuita dal fatto che l'elemento generale o comune
coincide ora, in quanto tale, con l’essenziale. Lo svincolarsi degli oggetti da
tutte le relazioni di valore costituisce perciò l’altro aspetto, non ancora
considerato, del metodo generalizzante, e ci indica contemporaneamente l’altro aspetto, non ancora
considerato, dell’individualizzazione scientifica. Può quest’ultima
egualmente distinguersi
dall’individualizzazione pre-scientifica per il fatto di svincolare gli oggetti da tutti i valori?
Non si scorge in virtù di quale
principio diverso dalla relazione di valore debba sorgere l'apprendimento individualizzante. Se
sciogliamo un oggetto da tutte le
connessioni con i nostri interessi, esso potrà venir considerato semplicemente
come esemplare di un concetto generale.
L’individuale può diventare essenziale soltanto in riferimento a un valore, e quindi eliminando ogni relazione
di valore si eliminerebbe anche l’interesse storico e la storia stessa. Viene
così alla luce non soltanto una
connessione necessaria tra considerazione
generalizzante e considerazione avalutativa, ma anche una connessione
altrettanto necessaria tra apprendimento individualizzante e apprendimento
legato ai valori: per cogliere la struttura logica della storia anche sotto
questo aspetto, occorre perciò conoscere
più da vicino il tipo dei valori e del loro legame con gli oggetti storici. Anche qui è necessario,
naturalmente, una volta accertato
l’elemento comune presente nella relazione di
valore pre-scientifica e scientifica, separarle nettamente tra
loro. Che i valori abbiano nella scienza
un ruolo determinante, anzi debbano
essere princìpi dell’elaborazione concettuale, sembra contraddire l’essenza
della scienza. A buon diritto proprio
dallo storico si esige che rappresenti le cose il più « oggettivamente »
possibile, e per quanto questo fine non possa essere raggiunto completamente da nessuno, si può
però in ogni caso indicarlo come ideale
logico. Come si accorda con tutto ciò
l’affermazione che le relazioni di valore appartengono all’essenza del
metodo storico? Per comprendere questo fatto occorre chiarire che c’è un tipo di relazione di
valore che non coincide con una presa di
posizione e con una valutazione pratica, e che
gli oggetti possono essere riferiti ai valori anche in maniera puramente teoretica. Certamente, se dalla
molteplicità del reale si trae fuori questo elemento come essenziale, e si
lascia in disparte quell’ altro come
inessenziale, si può sempre designare tutto ciò come una presa di posizione nei
confronti della realtà, nella misura in cui l’essenziale è ciò che è fornito di
valore per la conoscenza scientifica. Ma questo tipo di valutazione non manca
in nessuna elaborazione concettuale della scienza — sia essa generalizzante o
storica — perché il fine della scienza deve sempre valere come valore per
conferire un senso al lavoro scientifico. Se si vuol comprendere nella sua
particolarità l’essenza della relazione di valore nella scienza storica si deve
perciò prescindere totalmente da questa valuta- zione, per quanto importante la
sua presenza possa essere per la trattazione di altri problemi filosofici. Qui
importa soltanto stabilire se, per il fatto che l’individualità di un oggetto
diventa essenziale in virtù del riferimento a un valore, ne derivi necessariamente anche una valutazione positiva
o negativa dell'oggetto; e a tale domanda occorre rispondere in modo
decisamente negativo. La rappresentazione storica implica una relazione di
valore soltanto nella misura in cui l'oggetto, appreso in modo individualizzante, ha un qualche
significato per un valore; ma non ha
bisogno di pronunciarsi sul fatto se esso
possegga un valore positivo o negativo e può quindi prescindere del
tutto da ogni valutazione, che dev'essere sempre positiva o negativa. Noi dobbiamo distinguere con
precisione la valuta zione pratica e la
relazione puramente teoretica di valore. Anzi, se pensiamo che non conosciamo
mai la realtà così com’era, ma che ogni
conoscenza è già una trasformazione della realtà, diventa chiaro che non si può disputare del
valore positivo o negativo di
un’individualità se tra coloro che disputano non c’è già un comune apprendimento individualizzante
della realtà, sorto da una relazione di
valore puramente teoretica e indipendente dalla diversità delle loro
valutazioni pratiche; altrimenti non si
disputerebbe affatto della stesse individualità. Perciò, quanto il conoscere teoretico e la
valutazione positiva o negativa sono due processi distinti in linea di
principio, tanto poco la relazione
puramente teoretica di valore è in contraddizione con la conoscenza scientifica. Lo storico non
valuta i suoi oggetti in quanto storici,
ma trova di fronte a sé dei valori —
come quelli dello stato, delle organizzazioni economiche, dell’arte,
della religione ecc.; e in virtù della relazione teoretica degli oggetti con questi valori, vale a dire
in riferimento al fatto se e come la
loro individualità significhi qualcosa per
questi valori, la realtà si articola ai suoi occhi in elementi essenziali e inessenziali, senza ch’egli
debba pronunciare un giudizio di valore
diretto, positivo o negativo, sugli oggetti.
L'essenza della relazione di valore storica diventa del tutto chiara se fissiamo ancora un secondo punto,
in virtù del quale l’individualizzazione
scientifica si distingue da quella pre-scientifica; e già i concetti di valore
prima utilizzati come esempi vi
alludono. La relazione teoretica di valore nella storia non è soltanto indipendente da una valutazione
positiva o negativa, ma deve anche essere 207 arbitraria sotto un altro punto
di vista, cioè in riferimento ai valori con cui gli oggetti vengono posti in
relazione. Ciò si consegue però solamente in quanto lo storico articola la
realtà in elementi essenziali e inessenziali in relazione a valori universali,
ossia a valori quali quelli incorpo- rati negli esempi sopra indicati dello
stato, dell’arte, della reli- gione ecc. Per quanto ciò sia in fondo semplice,
anche di qui sono sorte molte contese e molte incomprensioni. In particola- re,
si è ancora una volta ritenuto che il metodo della storia sia un metodo
generalizzante a causa dell’universalità dei valori. Certamente — così si può
giustificare questo punto di vista — lo stato è per esempio un concetto
generale, e se gli eventi storici vengono rappresentati come eventi politici,
l’elemento politico in essi presente, in virtù del quale sono storicamente
essenziali, è pur sempre l'elemento comune. Così essi vengono ricondotti sotto
il concetto generale di politico nello stesso mo- do in cui nelle scienze
generalizzanti gli oggetti vengono appre- si come esemplari di un concetto di
genere. È veramente giusto questo? È esatto che valori universali sono nel
medesimo tem- po concetti generali. Ma, in primo luogo, la storia non si
prefigge mai di formare o anche soltanto di ordinare sistematicamente questi
concetti universali di valore, come dovrebbe
fare se fosse una scienza generalizzante; essa si trova già di fronte concetti universali di valore, e
solamente la filosofia della storia, non già la scienza storica empirica può —
come vedremo avanti — porsi il compito
di pervenire a un sistema di concetti
universali di valore. Inoltre — e questa è la cosa principale — l’universalità del
valore non ha per la storia il significato di contenere ciò che è comune a più
valori particolari: importa soltanto il
fatto che la storia riferisce i suoi oggetti a
valori i quali valgono come valori per tutti coloro a cui si rivolge, o per lo meno vengono da tutti
intesi come valori. Del resto, il
riferirsi degli oggetti ai valori conduce a un apprendimento individualizzante,
poco importa che i valori siano puramente individuali oppure universali nel
senso indicato: questa differenza
riguarda infatti soltanto la validità dei valori, non già la struttura logica della relazione di
valore. In breve, che per giungere a
risultati universalmente validi la scienza storica abbia bisogno di valori universali non incide
affatto sull’antitesi tra il metodo
storico individualizzante riferito ai valori e il metodo generalizzante avalutativo
delle scienze di leggi. Volendo, si può anzi dire che ogni scienza, per avere
validità universale, deve sempre «subordinare » il particolare
all’universale. Ma questa frase è, per
la sua indeterminatezza, molto equivoca
e in ogni caso non dice nulla. Se si vuole adoperarla nella dottrina del metodo occorre distinguere rigorosamente
una « subordinazione » generalizzante a concetti avalutativi di genere o di legge da una « subordinazione »
individualizzante a concetti universali di valore; e la cosa migliore sarà di
impiegare il termine « subordinazione »
soltanto per designare il rapporto
reciproco dei concetti generali e il rapporto dell’esemplare con il concetto di genere ad esso superiore,
altrimenti possono sorgere soltanto errori.
Se con questa prospettiva più esatta sull’essenza del procedimento
individualizzante ritorniamo ancora una volta ai concetti storici che
sembravano costituire, per la generalità del loro contenuto, un’istanza negativa contro la
caratterizzazione della storia come
scienza individualizzante, è possibile comprendere meglio i concetti storici di gruppo nella
loro differenza dai concetti storici di gruppo generalizzanti. Essi non hanno
soltanto — come tutti i concetti
relativi a parti storiche — lo scopo di esprimere l’individualità del tutto
storica a cui appartengono; ma anche la scelta di ciò che è essenziale è
determinata, nella loro formazione, dal valore universale dominante. In altri
termini, non già l'elemento comune in
quanto tale costituisce di per sé l’essenziale, ma la circostanza che il suo
contenuto consiste dell’elemento comune a una pluralità di oggetti ha per unico
fondamento il fatto che soltanto
l’individualità del gruppo, e non l’individualità delle singole parti, riveste
significato per il valore universale, e che quindi già il concetto di gruppo
contiene individualità sufficiente a
esprimere ciò che è essenziale per la rappresentazione individualizzante
riferita ai valori. Il principio di elaborazione concettuale dei concetti
storici collettivi è quindi esattamente lo stesso che per tutti gli altri
concetti storici: ancora una volta
risulta quanto poco senso abbia definire collettivistico il procedimento della storia, in riferimento al
suo carattere /ogico. La polemica tra il cosiddetto metodo collettivistico e
il cosiddetto metodo individualistico è
una polemica sul contenuto della scienza storica, e non ha nulla a che fare con
i problemi logici del metodo. Anche una rappresentazione che proceda in modo puramente collettivistico non
soltanto sarebbe — come si è già visto —
individualizzante, ma sarebbe anche guidata,
al pari di qualsiasi rappresentazione storica, da punti di vista valutativi.
Il grosso ruolo che i punti di vista valutativi hanno nella storia viene del resto sempre più
riconosciuto e meglio compreso nei tempi recenti, anche se non sempre l’attenzione
è rivolta ai due punti più importanti, cioè alla distinzione della relazione
teoretica di valore dalla valutazione pratica e all’universalità dei valori.
Naturalmente qui non è possibile trattare in modo esaustivo tutte le questioni
connesse con i valori; ci limiteremo però a porre in rilievo almeno due
punti. Un'indagine logica non potrà mai
proibire allo storico di oltrepassare la
relazione teoretica di valore per assumere una
posizione valutativa nei confronti dei suoi oggetti; e forse nessuna rappresentazione
storica è mai del tutto libera da valutazioni positive o negative. Si deve però
anche stabilire che, dove sembra essere presente un giudizio di valore, non
sempre si intendeva realmente formularlo. In ogni rappresentazione stori- ca si
troveranno cioè proposizioni che accompagnano soprattut- to le azioni umane con
un predicato di lode o di biasimo, che constatano qui un atto di bontà o di
coraggio, là un delitto; e proprio questo sembra distinguere la storia dalle
scienze di leggi, per le quali il vizio e la virtù sono prodotti quanto lo sono
il vetriolo o lo zucchero. È anche chiaro che lo storico può prendere posizione
con proposizioni del genere. Ma in moltissimi casi i predicati di valore
servono soltanto all’accerta- mento di fatti e alla caratterizzazione puramente
teoretica degli avvenimenti. Quando per
esempio un’azione viene designata come
criminale, ciò può anche voler dire che le fonti costringono ad assumere che
siamo di fronte a un atto che generalmente
si definisce delitto; e se un altro storico accompagna quest’azione con
un altro predicato, ciò non significa necessariamente che egli valuti altrimenti lo stesso stato di
fatto, ma che egli può anche assumere un
altro stato di fatto che poi deve, naturalmente, designare in modo diverso.
Nella trattazione dei fattori valutativi
presenti nella storia ci si dovrebbe porre in ogni caso la domanda se il predicato di valore ha
realmente l’intenzione di valutare, o se non serva piuttosto soltanto allo
scopo di utilizzare il significato
terminologico ad esso generalmente connesso per stabilire un fatto, nello
stesso modo in cui ciò avviene con significati che non possono essere impiegati
a scopo di valutazione. Se quindi la comparsa di valutazioni può
sembrare in parecchi casi più frequente di quanto non sia in realtà,
occorre d’altra parte porre in rilievo
che in certo senso anche le valutazioni sono un elemento indispensabile della
scienza storica. Se è certo che la
relazione teoretica di valore non è una presa di posizione pratica e che perciò lo storico può
sempre astenersi da qualsiasi
valutazione dei suoi oggetti, altrettanto certo è che nell’ambito dei valori a cui riferisce i suoi
oggetti egli dev’essere in qualche modo, anche come storico, un uomo che
compie valutazioni. Nessuno che non
ponga i valori politici in relazione alle proprie valutazioni positive o
negative, che non abbia cioè un qualche
rapporto valutativo nei confronti di questioni
politiche, scriverà o leggerà di storia politica: senza essere egli stesso un uomo che compie valutazioni in
questo campo, non comprenderebbe infatti
i valori che guidano la selezione del
materiale storico, e non avrebbe quindi il minimo interesse storico per esso. Ma ciò che vale per la
storia politica deve parimenti valere
per la storia dell’arte, della religione, dell’economia ecc. Spesso ciò non
viene neppur osservato, come certe cose
evidenti: vi sono anzi molti storici i quali credono non soltanto di stare con i loro oggetti in un
rapporto semplicemente conoscitivo, ma anche di essere, in quanto storici, puri
spettatori. Di fatto lo storico si distingue dal ricercatore che procede in modo generalizzante anche perché nel suo
lavoro non soltanto deve riconoscere come valore il fine scientifico ch'egli
persegue, ma prende anche posizione se non verso gli oggetti storici, almeno nei confronti dei valori universali a
cui riferisce in modo individualizzante i
suoi oggetti. Quale significato abbia
per l’« oggettività » delle scienze storiche il fatto che c’è
storia soltanto per esseri capaci di
valutazione, in quale rapporto questa oggettività stia con l’oggettività delle
scienze generalizzanti o scienze di leggi, le quali non hanno bisogno di
riconoscere altro valore se non quello stesso
della scienza generalizzante, non può
venir discusso in questa sede. Qui si deve soltanto comprendere la struttura
logica della scienza storica quale esiste di fatto, e in particolare descrivere
l’essenza del suo metodo riferito ai valori e individualizzante, così come
viene realmente esercitato, e penetrare questo metodo nella sua necessità logica che risulta dai fini della
storia. In base ai fondamenti indicati
non si è finora parlato del carattere
specifico del materiale storico, e non si è quindi neppure potuto rispondere
alla questione del modo in cui perveniamo a rappresentare non soltanto in modo
generalizzante, ma anche in modo
individualizzante, il materiale di cui trattano le scienze storiche. Il motivo
di ciò dev'essere finalmente indicato
per rendere comprensibile l’essenza della scienza storica, e ciò in quanto lo
specifico carattere materiale degli oggetti
storici può essere inteso in base all’essenza logica del metodo storico. Decisiva è qui, ancora una volta, la
connessione dell’apprendimento individualizzante con l'apprendimento riferito
ai valori. La rappresentazione
individualizzante costituisce cioè un
bisogno soprattutto dove più stretto è il nesso degli oggetti con i valori. Se ripensiamo all’elaborazione
concettuale prescientifica, vediamo che essa è sempre caratterizzata dal
fatto che sono in prevalenza uomini
quelli che vengono considerati come
individui, e che in questi uomini è particolarmente significativo in virtù
della sua individualità ciò che è espressione
della loro vita psichica. Anzi, il nostro apprendimento
individualizzante è talmente dominato dall’interesse per la vita psichica degli
uomini che equipara addirittura il concetto di individuo con quello di
personalità, e si è costretti a riflettere
esplicitamente sul fatto che un qualsiasi oggetto mostra parimenti
un’impronta assolutamente individuale. Se e fino a qual punto la storia in quanto scienza che
riferisce i suoi oggetti non a valori
individuali puramente personali, ma a valori universali, debba rappresentare le
personalità, dipende soltanto da ciò che
le personalità significano nella loro singolarità per i valori universali; perciò
l’individualizzazione scientifica può allontanarsi di molto da quella
pre-scientifica. Dal momento però che ogni storia viene fatta da uomini, anche
la rappresentazione scientifica del singolare e del particolare dev'essere
prevalentemente rivolta alla vita psichica degli uomini; e questo è il motivo per cui le scienze storiche sono
sempre state inserite tra le «scienze dello spirito». Comprendiamo ora con
tutta chiarezza perché questa designazione esprime una caratteristica
secondaria dal punto di vista logico e non è neppure adatta, anche prescindendo da ciò, a caratterizzare
in modo compiuto il materiale della
scienza storica. Infatti non è soltanto la vita
spirituale, ma è in misura prevalente Ja vita spirituale che interessa lo storico nella connessione con i
processi corporei; inoltre non tutta la
vita spirituale, e neppure tutta la vita
psichica dell’uomo, ma soltanto una determinata e relativamente piccola
parte della vita psichica degli uomini viene presa in considerazione come materiale da parte della
scienza storica. Anche volendo limitare
questa parte per conseguire una caratterizzazione ancor più esatta del
materiale storico, ciò può avvenire
ancora una volta soltanto in base alla comprensione che abbiamo realizzato dell’essenza del
metodo storico, e cioè appunto in
riferimento alla particolarità dei punti di vista valutativi che
nell’elaborazione concettuale individualizzante sono determinanti per la selezione di ciò che è
essenziale. Il fatto che si tratti
sempre di valori umani universali può venir espresso anche dicendo che
diventano storicamente essenziali soltanto
gli oggetti che posseggono un significato in relazione a interessi
sociali. Perciò, in virtù della connessione storica delle parti con la totalità storica o con la società,
l’oggetto principale della ricerca
storica non è l’uomo in genere, concepito come svincolato da essa, ma è l’uomo
come essere sociale — e ciò soprattutto
perché partecipa alla realizzazione dei valori sociali. Certamente, il
concetto di societas dev'essere qui preso in senso tanto ampio da comprendere anche comunità come
quelle degli scienziati o degli artisti. Se chiamiamo con il nome di cultura il processo con cui i valori sociali universali
si realizzano nel corso dello sviluppo
storico, l’oggetto principale della storia
dev'essere la rappresentazione delle parti o della totalità della vita culturale umana, e ogni materiale
storicamente importante deve avere un
qualche legame con la vita culturale umana,
poiché soltanto allora vi è un motivo per riferirla ai valori universali e indagarla nella sua
particolarità e individualità. I valori
che guidano la selezione di ciò che è essenziale nella storia devono perciò essere designati anche
come valori culturali universali — così come li abbiamo incontrati, per
esempio, nei concetti di valore dello stato, del diritto, dell’arte, della religione, dell’organizzazione economica.
S'intende che lo storico non può dire che cosa sia progresso culturale o
regresso culturale, poiché in tal caso
passerebbe dalla relazione teoretica di valore alla valutazione pratica. Non
c'è bisogno che i suoi ideali culturali
assumano un'importanza determinante per
l'elaborazione del suo materiale; ma egli dev'esserein grado di comprendere i valori culturali universali
degli uomini e dei popoli che
rappresenta, per poter separare l’essenziale dall’inessenziale in virtù di una
relazione puramente teoretica di valore.
Inoltre l'indagine storica non è limitata ai processi culturali. Particolarmente quando occorre conoscere le
cause degli avvenimenti storici, possono risultare significativi anche oggetti
che appartengono semplicemente alla « natura », e che diventano importanti
proprio con riguardo alla loro individualità: per esempio la particolarità del clima di una determinata
regione, la posizione geografica di un paese, e così via. Ma per trovare posto
in una rappresentazione storica questi
oggetti devono sempre sia connettersi
causalmente con processi culturali sia essere considerati nel loro significato
per i valori culturali; e al centro di
una scienza individualizzante resterà sempre una qualche parte dello sviluppo singolare della vita
culturale. Che con ciò non sì intenda
affatto vantare un particolare « metodo storico-culturale», come oggi sovente
vien fatto in antitesi al metodo della
storia politica, non richiede un’esplicita assicurazione. La logica non
può decidere la questione del « campo di lavoro specifico» della storia, e
neppure perviene alla questione dell'essenza
del metodo storico. Se si vuol parlare di un’antitesi tra storia politica e storia culturale in genere, l’una
e l’altra devono però applicare il
medesimo procedimento individualizzante; può soltanto darsi che la storia
culturale, nel senso più ristretto in cui
oggi talvolta la si intende, applichi concetti di gruppo in misura più
ampia di quanto non faccia la storia dei processi politici. Noi sappiamo però
che un numero maggiore o minore di
concetti di gruppo non cambia per nulla l’essenza del metodo storico. A prescindere da ciò, non è affatto
stabilito che la storia culturale sia
configurata in modo più « collettivistico »
della storia politica. Tali
questioni hanno a che fare con la dottrina del metodo soltanto nella misura in
cui devono essere tenute scrupolosamente lontane dalle indagini logiche. Il
dilettantismo logico dei giorni nostri
ha anche qui prodotto disorientamento, ma non
possiede ancora un'importanza tale da giustificare un esame più ravvicinato in questa sede. Il termine «
cultura » viene qui usato nel senso che
la vita politica è una parte della vita culturale in genere. Esso non designa
altro che l’insieme degli oggetti che
hanno un significato diretto per la realizzazione dei valori universali e che, a causa di questa relazione
di valore, non possono mai essere
rappresentati in modo esaustivo da una
scienza generalizzante, ma richiedono invece di essere appresi da una scienza individualizzante. Con ciò è
subito chiaro in qual senso la scienza
storica sia una necessità per gli uomini
civili. L'uomo civile riferirà sempre la realtà ai valori culturali universali, cosicché deve sorgere la domanda
relativa al modo in cui si è compiuta la
realizzazione della cultura nel suo
sviluppo singolare: a tale questione può dare risposta soltanto la storia individualizzante, mai una scienza
generalizzante. Se guardiamo ancora una volta indietro, utilizzando i concetti
che abbiamo fornito si può delineare un sistema delle scienze empiriche in cui alla storia è
assegnato — in riferimento sia al suo metodo che al suo materiale — un posto
stabile; sulla base di questa
prospettiva si possono comprendere e affrontare gli altri gruppi di problemi di
filosofia della storia. Dal punto di
vista del metodo le scienze particolari procedono o in modo generalizzante e sistematico o in
modo individualizzante e quindi non sistematico. Il loro materiale consiste o
di oggetti naturali, svincolati dai
valori, o di processi culturali, che
sono invece riferiti a valori. Questo è soltanto uno schema generalissimo: non si deve quindi dire — si
dovrà sempre sottolinearlo — che le
diverse discipline lavorano in modo esclusivamente generalizzante o
esclusivamente individualizzante, che
trattano soltanto di oggetti naturali o soltanto di processi culturali, e che gli oggetti naturali devono
essere rappresentati soltanto in forma
generalizzante e i processi culturali soltanto in forma individualizzante. Al
contrario, i diversi metodi sono
strettamente congiunti nella trattazione dei diversi materiali, e i princìpi di divisione qui forniti possono
collegarsi in maniera differente. Il
procedimento generalizzante parte da fatti individuali, mentre quello
individualizzante ha bisogno di concetti
generali come strumenti di rappresentazione e di connessione. Accanto alle scienze naturali generalizzanti
vi sono discipline che trattano dei
processi naturali in modo individualizzante e
quindi, anche se mediatamente e indirettamente, in riferimento ai valori, come per esempio la storia
dell'evoluzione degli organismi; e viceversa la vita culturale può, nonostante
la relazione di valore, essere sottoposta a una rappresentazione
generalizzante. Anzi, anche prescindendo del tutto dalla psicologia, molte
delle cosiddette scienze dello spirito — come per esempio almeno in parte la linguistica, la
giurisprudenza, l'economia — sono
scienze culturali non certo storiche, ma sistematiche; il loro metodo non coincide necessariamente con
quello delle scienze naturali
generalizzanti, e la loro struttura logica costituisce quindi uno dei problemi più
difficili e interessanti della dottrina
del metodo. Ma per quanto grande possa essere la varietà delle aspirazioni
scientifiche che la logica non deve criticare, ma semplicemente riconoscere come
fatti, e per quanto i princìpi logici di divisione debbano quindi limitarsi
a distinguere concettualmente ciò che è
strettamente connesso nella realtà, la storia — la quale tratta degli uomini,
delle loro istituzioni e delle loro
imprese — può essere solamente designata, con riguardo ai suoi fini ultimi,
come scienza individualizzante della cultura. Il suo scopo è sempre la
rappresentazione di una serie di
sviluppo singolare, più o meno comprensiva; e i
suoi oggetti sono essi stessi” processi culturali oppure stanno in relazione con valori culturali. In tal modo
questa scienza risulta in linea di principio distinta per il suo contenuto da
tutte le scienze naturali, procedano
esse in modo generalizzante o individualizzante, e metodologicamente distinta
anche da tutte le scienze culturali che
trattano i loro oggetti in modo sistematico.
La logica della storia deve muoversi entro questo quadro. Soltanto
allora essa può penetrare che cosa è realmente la storia, e soltanto così può
essere utile a una filosofia che voglia comprendere il significato della storia reale per la
soluzione dei suoi problemi. La costruzione di scienze del futuro, oggi
particolarmente cara alla logica della
storia, non ha invece alcun valore né per la
ricerca particolare né per la filosofia, se non quello di un esempio
scoraggiante. Anche la questione d ei
princìpi dell’accadere storico, che
prendiamo ora in esame, può trovare risposta soltanto se ci si appoggia sul concetto di ciò che viene di
fatto rappresentato come storia dalle
scienze storiche. Già sappiamo che questi
princìpi vengono cercati o in leggi generali o nel senso generale della
vita storica. Se si vuole pervenire a chiarezza sui compiti della filosofia
della storia come dottrina dei princìpi, occorre determinare che cosa si può intendere quando
si parla di legge oppure di storia, e
chiedersi che cosa meriti il nome di principio della storia. Ne risulterà che
l’alternativa tra legge e senso della
storia, al pari della lotta tra metodo generalizzante e metodo individualizzante, investe le due
tendenze principali contrapposte della
filosofia della storia contemporanea, e che la
decisione in questo scontro dipende essenzialmente, ancora una volta, dalla comprensione dell'essenza logica
della scienza storica empirica. Il
termine «legge» appartiene a quelle espressioni la cui equivocità ha dato occasione a molteplici
oscurità e fraintendimenti. Mentre nell’identificazione tra legge e causalità
la causa lità viene unilateralmente considerata come forma dell’apprendimento
generalizzante, esiste d’altra parte un uso linguistico secondo cui « conforme a legge » equivale
senz'altro a « necessario ». Il termine può allora designare la necessità di
ciò che è singolare e particolare, e
anche la necessità di un imperativo o di
un valore. Pretendere di vietare in ogni caso quest’uso sarebbe pedantesco, e
non avrebbe successo. Nella filosofia, però,
bisognerebbe evitarlo almeno nei punti decisivi; e in ogni caso, se alla filosofia della storia viene posto il
compito di cercare le leggi della
storia, ciò ha un senso chiaro soltanto se per legge si intende la legge naturale. La necessità
della legge non significa allora la necessità di una realtà individuale, ma
universalità incondizionata di un
concetto, e più precisamente il nesso necessario di almeno due concetti
generali e il nesso necessario delle
realtà corrispondenti soltanto nella misura in cui la legge dice che, quando un oggetto individuale
mostra tra le altre caratteristiche anche quelle che costituiscono gli elementi
di un concetto generale, con esso è
dovunque e sempre connesso realmente un altro oggetto che, tra le altre
caratteristiche, possiede anche quelle che costituiscono gli elementi
dell’altro concetto generale. In breve, la conoscenza della legge è la forma
di apprendimento della realtà a cui
tende, come ideale supremo, ogni scienza
generalizzante della natura. Che la
scienza storica empirica non si ponga mai il fine ultimo di trovare leggi in quest’accezione,
già lo sappiamo. Lo storico che fa
questo cessa di essere storico e di volere una
rappresentazione storica del suo oggetto. Perciò, dal momento che scienza storica empirica e scienza di
leggi si escludono concettualmente tra
loro, si può dire che il concetto di « legge
storica » contiene una contradictio in adiecto — dove ovviamente il
termine «storico» ha soltanto il senso formale o logico già indicato, e questo principio riveste
carattere logico anche nella misura in
cui è indipendente non soltanto da ogni idea
sul materiale della storia, ma anche da ogni visione sull’essenza della
realtà in genere. Esso vale tanto presupponendo il materialismo o il parallelismo psico-fisico
quanto presupponendo una metafisica spiritualistica o una dottrina metafisica
della libertà. Anche la storia di un
oggetto le cui leggi ci fossero note senza
alcun residuo non consisterebbe mai di queste leggi, ma le utilizzerebbe
soltanto come mezzi. Ma ciò che vale
per la scienza storica empirica non vale necessariamente per la filosofia della storia.
Poiché è logicamente legittimo rivestire ogni realtà con un sistema di
concetti generali, e poiché non occorre
essere seguaci del materialismo o del
parallelismo psico-fisico per ritenere possibile che ogni essere accessibile
alle scienze empiriche possa venir ricondotto a
leggi generali, sembra che si possa senz'altro ritenere che il filosofo della storia — il quale, in quanto
filosofo, non è uno storico, ma ha
sempre a che fare con l’universale — scopra
leggi valide per lo stesso materiale che le scienze storiche empiriche
tendono ad apprendere in modo individualizzante. Dal momento che tale materiale è costituito
principalmente dalla vita sociale degli
uomini, da ciò sorge l’idea di una sociologia
come filosofia della storia che ricerca leggi — un'idea che è più vecchia della terminologia di Comte, ma che
trova molti seguaci anche ai giorni nostri. Per tale via, questi sociologi
cercano una conoscenza che conduca al di
là delle singole rappresentazioni storiche, con la loro aderenza al
particolare, e penetri l'essenza
universale di tutto lo sviluppo storico. Evidentemente — così ritengono almeno i più cauti
rappresentanti di questo punto di vista
— la conoscenza storica di ciò che è singolare e individuale non è priva di valore, ma
costituisce, al contrario,
l'indispensabile fondamento di una considerazione ulteriore — ossia costituisce, dal punto di vista della
filosofia della storia, soltanto il
fondamento, il lavoro preparatorio. Su questa base si deve poi innalzare l’edificio di una
filosofia della storia comprensiva, che abbracci nelle sue leggi il ritmo e
quindi i princìpi di tutta la vita storica.
Se passiamo a valutare questo punto di vista, vediamo infatti che, se il
termine «storico» designa non già il metodo,
ma il materiale della storia, il concetto di legge storica non contiene per lo meno nessuna contraddizione
logica; e in ogni caso è un'impresa del
tutto legittima ricercare le leggi della
vita sociale degli uomini. Del tutto diverso è però chiedersi se abbia un senso designare come princìpi
dell’accadere storico le leggi
eventualmente trovate attraverso la considerazione generalizzante del materiale
che la storia rappresenta in modo individualizzante, e se sia quindi corretto
chiamare la sociologia col nome di
filosofia della storia. Questa è qualcosa di più che una questione terminologica; e se ad essa si
risponde affermativamente in base al principio che si possono trovare leggi
per ogni realtà, quindi anche per gli oggetti
delle scienze storiche, si trascurano
due punti d'importanza decisiva. I princìpi storici devono cioè essere in primo luogo princìpi
della cultura e in secondo luogo
princìpi dell'universo storico. Sono appropriate a tale scopo le leggi nel senso di leggi
naturali? Ciò che soprattutto importa
può venir chiarito nel modo migliore se
si ripensa al fatto che né la conoscenza pre-scientifica, né una qualsiasi
conoscenza scientifica della realtà empirica
riproduce questa realtà quale esiste indipendentemente dalla nostra elaborazione concettuale, ma che ogni
conoscenza si costituisce soltanto in virtù di un apprendimento che
trasforma la realtà. Nel suo processo di
formazione la scienza può essere guidata
soltanto dai fini che si è posta come scienza generalizzante o
individualizzante, e una scienza generalizzante potrà quindi sperare di pervenire a leggi soltanto
se si libera da tutti gli interessi per
la realtà che non siano quelli indirizzati a
determinare concetti incondizionatamente generali per il proprio campo.
Essa deve poter separare ciò che ad altri modi di apprendimento appare connesso, e deve
comprendere sotto un concetto ciò che in
rapporto ad altri interessi non sembra
avere assolutamente nulla in comune. Quanto essa si allontani così dall’apprendimento pre-scientifico
risulta particolarmente chiaro allorché
si determinano le leggi più comprensive. Basta
considerare che le scienze di leggi conducono a una separazione di
principio dell’elemento fisico spaziale dall’elemento psichico inesteso, e
quindi alla rappresentazione di due mondi tra
i quali non è più possibile istituire alcuna connessione reale, mentre per il nostro apprendimento
pre-scientifico — e anche per il nostro
apprendimento storico — i due campi sono inscindibilmente legati tra loro.
Oppure si pensi come il trattamento
imposto dalle scienze di leggi faccia sempre più scomparire il carattere di cosalità della nostra immagine
del mondo e introduca al suo posto, in misura crescente, concetti di
relazione. Una scienza della vita
sociale degli uomini richiederà evidentemente, in linea di principio, la
medesima libertà di trasformare la realtà mediante l’elaborazione concettuale
generalizzante; se ciò viene applicato al suo rapporto con la vita storica, ne risulta che la sociologia — nel caso che
voglia essere al tempo stesso filosofia
della storia — non possiede questa libertà di
distruggere ogni forma di apprendimento della realtà diversa da quella determinata dal suo fine di una
conoscenza di leggi. Se della
sociologia si deve realmente poter dire che tratta il medesimo materiale della storia, essa dovrà
per lo meno cercare le leggi della vita
culturale, in quanto ogni scienza storica ha a
che fare o con processi culturali o con realtà che sono in relazione con
questi. Ma la cultura non è affatto una realtà libera da interpretazioni, che possa venir sottomessa a
una qualsiasi elaborazione e trasformazione concettuale; da una parte la
cultura è una sezione determinata della
realtà, di cui non si sa se per essa, e
soltanto per essa, valgano concetti di legge, dall’altra tale sezione è una realtà già articolata e
trasformata in modo ben determinato da
valori culturali. Chi può dire se questa articolazione, dalla cui consistenza
dipende se designamo una realtà come
cultura, si conserva allorché cerca di farsi valere l'apprendimento generalizzante? Se però
questo non avviene, allora la sociologia
in quanto scienza di leggi rappresenta insieme con l’altra vita sociale — non
storica — anche la medesima realtà
trattata dalla storia, ma non l’apprende come la medesima realtà, ossia non la
rappresenta come cultura; e quanto poco
importi da questo punto di vista la comunanza del materiale, appare chiaro non
appena si pensi che l'oggetto comune non
è che una parte di quella sterminata molteplicità che, in quanto tale, non soltanto non può confluire
in nessuna scienza, ma di cui possiamo
parlare solo in generale, mai in particolare, perché non la conosciamo libera
da interpretazioni. C'è perciò non
soltanto un’inconciliabilità tra metodo generalizzante e metodo
individualizzante nelle scienze particolari, ma manca pure ogni garanzia di
conciliabilità tra la considerazione
delle scienze di leggi e la considerazione delle scienze della cultura; anzi a causa della stretta relazione
tra pensiero individualizzante e pensiero riferito ai valori è, se non
logicamente impossibile, almeno molto
improbabile che i concetti di legge
possano sempre coincidere nel loro contenuto con i concetti culturali generali. Con ciò è tolto il
terreno, già in linea di principio, al
programma di una sociologia intesa come filosofia della storia, la quale poggi sul principio
che dev'essere possibile trovare leggi
per una qualsiasi realtà. Il tentativo di determinare leggi della vita sociale
mantiene ovviamente il suo buon diritto,
ma nulla ci autorizza a considerare queste leggi come princìpi della vita culturale, semplicemente
perché sono leggi della medesima realtà
libera da interpretazioni di cui tratta la
storia. A ciò si può credere soltanto se, indulgendo a un ingenuo
realismo concettuale, si scambia il nostro apprendimento pre-scientifico e scientifico della realtà
con la realtà stessa. Poiché in un
certo senso qui non andiamo al di là delle
possibilità logiche e — almeno secondo quanto si è detto finora — soltanto un caso miracoloso potrebbe far sì
che i concetti di legge e i concetti
culturali coincidano sempre, per giungere a
chiarezza occorre ancora mostrare esplicitamente in quale caso ogni ricerca di leggi della vita culturale è
priva di senso. Il punto decisivo sta
nuovamente nel concetto del rapporto che la totalità ha con le sue parti.
Anzitutto, in quali casi l’apprendimento della realtà come cultura può
accompagnarsi con l’apprendimento generalizzante? Dal momento che i valori
culturali sono sempre, in quanto valori universali, anche concetti di contenuto generale, gli avvenimenti storici —
i quali diventano essenziali in virtù
della loro individualità in riferimento a un
valore culturale universale — possono essere considerati come esemplari di questo concetto generale.
Infatti, anche se il procedimento individualizzante è sempre riferito a valori,
questo principio non può essere
rovesciato in modo da affermare che ogni
valore universale rende individualizzante la rappresentazione. Anche quei
processi che vengono in luce, per esempio,
in una storia dell’arte o del diritto possono essere visti come esemplari del concetto generale di «arte » o
di « diritto»; e se in tal modo si deve
sciogliere anche la relazione di valore che
le cose hanno, in virtù della loro individualità, con il valore culturale di arte o di diritto, una
rappresentazione generalizzante di questo tipo rimane tuttavia rappresentazione
di processi culturali anche nel senso
che essa considera gli oggetti come cultura; infatti il concetto culturale di
arte o di diritto è ciò che delimita il
campo e determina quali oggetti diventano esemplari di tale sistema di concetti
generali. Ciò che vale per questi valori
culturali può naturalmente valere anche
per tutti gli altri: si può quindi pensare che quelle grandi unità della vita storica che chiamiamo
popoli civili vengano tutte concepite come esemplari di un sistema di
concetti generali in cui poi si
esprimono le leggi che valgono per lo
sviluppo sempre ricorrente d’un qualsiasi popolo civile. Certamente, per
i motivi prima addotti, non si può mai chiamare
tutto questo col nome di storia; inoltre, se tale compito viene indicato come possibile, si deve pensare
soltanto alla possibilità logica,
lasciando da parte le difficoltà di fatto che si oppongono a una siffatta impresa. Infatti qui importa
solamente concedere al programma di una scienza della vita culturale
fondata su leggi tutto quanto è
pensabile per poi, fatto questo, poter
decidere con maggiore sicurezza se la scienza di leggi a cui si aspira, concepita nella sua perfezione, sia
in grado di soddisfare le pretese di una filosofia della storia come dottrina
dei princìpi della vita storica. Se si
vuol rispondere a questa domanda occorre tener presente che la filosofia della
storia, comunque si possa altrimenti
determinare il suo compito, non dev'essere filosofia dell’oggetto di un'indagine storica particolare, bensì
filosofia dell’oggetto di una storia
universale, e deve al tempo stesso stabilire i
princìpi dell’universo storico. Per universo storico si deve però in ogni caso intendere — per quanto
indeterminato possa essere questo
concetto — la totalità storica più comprensiva possibile, e quindi qualcosa di singolare e di
individuale nel suo concetto, a cui ogni
oggetto considerato da una scienza storica particolare appartiene come elemento
individuale; inoltre, dai princìpi della
storia pretendiamo che siano i princìpi dell’unità di questo universo. Già da
questo risulta che una scienza di leggi, in
quanto dottrina dei princìpi storici, non soltanto incontra difficoltà
più o meno grandi, ma è anche logicamente impossibile. Non si obietti che anche la totalità
dell’universo è, in base al suo
concetto, qualcosa di singolare e che quindi, se quest’argomentazione fosse
giusta, non dovrebbero esserci leggi che valgono — come assumiamo per esempio
nel caso della legge di gravità — per la
totalità dell’universo. Le scienze generalizzanti non hanno mai a che fare con
la totalità dell’universo nello stesso modo in cui la filosofia della storia ha
a che fare con l'universo storico. Esse
vanno alla ricerca di leggi soltanto nel senso che vogliono stabilire ciò che
vale per tutte le sue parti. Mai però
pensiamo di considerare queste parti come
elementi della totalità, e le leggi generali non possono affatto essere princìpi dell’unità di questo tutto.
Quanto più esse sono generali, tanto più
ogni parte è soltanto esemplare di un genere, ed è quindi sciolta da tutte le
determinazioni che la rendono un elemento della totalità. Se assumiamo quindi
che la sociologia abbia raggiunto il suo
fine supremo e abbia trovato leggi per
tutte le parti dell’universo storico, ad esempio per lo sviluppo di tutti i popoli civili, allora questi
sarebbero diventati per essa esemplari di un genere, e — in quanto esemplari
— concettualmente isolati l’uno
dall’altro. Essi non potrebbero venir ricondotti all'unità dell’universo
storico individuale, poiché come
elementi di una connessione storica dovrebbero sempre essere individui, e le leggi trovate dalla
sociologia non potrebbero venir utilizzate come princìpi dell’unità degli
elementi individuali dell’universo individuale. Il concetto di legge come
principio dell'universo storico è quindi per la filosofia della storia logicamente assurdo, tanto quanto lo è il
concetto di legge storica inteso come
fine di una scienza storica empirica. Certamente la filosofia della storia
guarda al « generale », ma soltanto nella misura in cui essa ha a che fare con
l'universo storico, e proprio perciò il
suo oggetto rimane sempre uno sviluppo
singolare e individuale, che ha come suoi elementi degli individui. La
sociologia come scienza di leggi può quindi, per quanto possa essere fornita di
valore sotto altri aspetti, offrire alla
storia concetti ausiliari per l’analisi di connessioni causali, ma non può mai prendere il posto della filosofia
della storia. Da questo punto di vista
devono essere valutati anche tutti i
tentativi di riconoscere « fattori » o « forze » generali della
vita storica. Dal momento che ogni
storia tratta di uomini, e in ogni uomo
si possono distinguere un aspetto corporeo e un
aspetto spirituale, è evidentemente possibile effettuare una divisione
di tali forze in fisiche e psichiche, e si potrà fors’anche dare con successo uno sguardo d’insieme ancor
più specializzato a quei fattori che agiscono nell’accadere storico. Ma,
quale che sia il giudizio che si può
dare nel singolo caso sul valore di tali
sforzi, non soltanto è necessaria, a causa della separazione tra apprendimento
naturale e apprendimento culturale della
realtà, la massima precauzione nell'impiego di tali teorie
generalizzanti, ma soprattutto non ci si deve mai illudere che queste forze e
questi fattori generali siano — e neppure determinino — ciò che è storicamente
essenziale. Si tratta piuttosto soltanto di condizioni senza le quali non
possono esserci avvenimenti storici; ma proprio perché sono condizioni
assolutamente generali, non hanno
interesse né per lo storico empirico né per
il filosofo della storia. Così, per esempio, il calore del sole è un fattore che non possiamo eliminare da
nessun avvenimento storico; e tutta la
storia avrebbe avuto un corso diverso — anzi
non ci sarebbe stata nessuna cultura — se gli uomini non si fossero potuti capire con il linguaggio. Ma
il calore del sole e il linguaggio non
sono certamente « princìpi storici ». È proprio il carattere di incondizionata
generalità che toglie ad essi interesse
storico. Anzi, prescindendo del tutto dal fatto che una scienza delle forze e dei fattori generali
della vita sociale possa essere chiamata filosofia della storia, si può ben
dubitare che le molteplici conoscenze
naturali, psicologiche e culturali che
vengono qui prese in considerazione possano congiungersi in una scienza unitaria. Almeno finora questa
scienza non esiste affatto, né ci sarà
in futuro; e se lo storico sente il bisogno di
una visione delle « forze » generali che agiscono nel campo di cui egli tratta, si rivolge alle scienze
particolari generalizzanti, cioè
all’antropologia, alla psicologia, alla sociologia e così via, che lo informeranno nel modo più
preciso. Non recheremmo un contributo
essenziale al chiarimento del principio
generale a cui dobbiamo qui limitarci se pretendessimo di approfondire nei
particolari i diversi gruppi di problemi considerati; si deve soltanto
sottolineare ancora che lo storico può
cercare insegnamento presso le scienze particolari generalizzanti solamente per quanto riguarda
i fattori più o meno costanti della vita
storica, mentre non deve attendersi
dalle scienze generalizzanti alcuna risposta per parecchie questioni che
si riferiscono all'essenza generale della vita storica — e in particolare per le questioni che
vengono qualificate come problemi di
filosofia della storia. Qui ci limitiamo a un
esempio sul quale le più diverse tendenze della scienza storica empirica e della filosofia della storia
cadono in errore. Si tratta della
questione concernente il ruolo che hanno nella storia gli individui abitualmente designati in modo
eminente come individuo, cioè le singole personalità. Qui proprio la concezione
che rifiuta sia la trattazione empirica
sia la trattazione filosofica della
storia in favore di una scienza di leggi ha interesse a sottolineare che questo problema non è
suscettibile di una soluzione generale in senso cosiddetto « individualistico
»; e ciò risulta ancora una volta da una prospettiva logica. Certamente è del tutto sbagliato dire che nella storia non
interessano affatto le singole
personalità, e che determinante è solamente la vita « generale » delle masse; ma altrettanto
falso è cercare sempre i fattori
decisivi nelle imprese di singole personalità e spiegare la storia — seguendo Carlyle — come una somma
di biografie. Purtroppo, l’alternativa
che qui viene in luce è molto spesso
posta in connessione con la questione dell’essenza logica della storia, cosicché i rappresentanti del punto
di vista secondo cui la storia procede
in modo individualizzante (nel senso da noi indicato) vengono al tempo stesso
ritenuti seguaci di una storia di
personalità; e invece il metodo individualizzante non ha il minimo rapporto con il culto degli eroi. Al
contrario, proprio perché la storia è la
scienza dell’individuale, la filosofia della
storia non può decidere in favore dei grandi uomini la questione del
significato che posseggono le singole personalità. Il motivo è lo stesso che
vieta di cadere nell’estremo opposto e di fare
dell’elaborazione di concetti collettivi un principio di metodo. L'affermazione che importano sempre le
personalità sarebbe anzi prodotto di
un’elaborazione concettuale generalizzante, ossia una legge storica. Per ogni
aspetto particolare dell’accadere
storico si deve indagare quali movimenti di massa e quali imprese
meramente personali abbiano avuto un’importanza decisiva per i valori culturali
dominanti: soltanto allora è possibile
rispondere alla questione del significato dei singoli uomini per tutti gli aspetti particolari della storia.
Di fatto, né le affermazioni generali sull’importanza decisiva delle masse, né
quelle sul ruolo delle singole
personalità devono la loro popolarità a
un'elaborazione concettuale generalizzante; esse devono venir ricondotte a un’arbitraria unilateralità nel
privilegiamento di questi o quei valori
culturali, e quindi a una scelta arbitraria
del materiale storicamente essenziale — come risulterà ancor più chiaramente rispondendo alla domanda sui
princìpi della vita storica. Per quanto riguarda la questione del
significato delle leggi storiche,
concludiamo accennando ancora a un punto che ha
dato parimenti occasione a dispute. Si tratta cioè ancora di mostrare che non soltanto certi problemi
largamente trattati di filosofia della
storia non ammettono nessuna decisione generale, ma che anche dove uno storico
afferma un principio valido per ogni
vita storica, non è affatto detto che si tratti sempre di un prodotto dell’apprendimento
generalizzante. Prendiamo come esempio una tesi di Ranke che ha avuto una parte
rilevante nella polemica sulle leggi storiche. Essa contiene — come dice von Below — una «verità universale: la
nozione che la vita interna degli stati
dipende in larga misura dai rapporti
reciproci tra gli stati, dai rapporti mondiali », e viene al tempo
stesso designata come una scoperta scientifica di prim’ordine. Ci si può
chiedere se questa verità universale non sia una legge storica, anche se
soltanto nel senso, logicamente privo di
contraddizione, di una legge valida per il materiale rappresentato in
modo individualizzante dalla storia. Chi conosce la concezione storica di
Ranke, risponderà negativamente a tale domanda. Per questo grande storico i «
rapporti mondiali » costituiscono un complesso determinato di stati civili in
connessione reciproca, e Ranke considera come facenti parte del suo « mondo
» storico soltanto gli stati che sono in
connessione con questi stati civili, e
che quindi ne sono anche influenzati. Nel principio sopra menzionato — se esso
deve valere in modo assolutamente generale ed essere quindi libero da ogni
contenuto propriamente storico — abbiamo di fronte non già un prodotto della scienza generalizzante e una «scoperta»
scientifica, ma soltanto la formulazione
di un presupposto metodologico con cui
Ranke si accosta, e deve accostarsi — se vuole trattare tutto in termini di storia universale, nel
senso da lui inteso — alla
rappresentazione individualizzante dei singoli stati. Lo stesso vale per altre
affermazioni generali, come per esempio quella che ogni individuo, per quanto
grande, è rinchiuso entro confini dati
dalla situazione culturale del suo popolo. Ciò è assolutamente evidente, poiché anche qui non
si afferma altro che la connessione
reale di ogni parte storica con la totalità
storica. Un sistema di princìpi generali siffatti non potrebbe mai servire come scienza ausiliaria
generalizzante della storia nella
ricerca di connessioni causali, ma può soltanto contenere i presupposti che dobbiamo assumere se
dev'essere in generale possibile la
storia in quanto rappresentazione scientifica di connessioni storiche. Così si
mostra nuovamente che non ha alcun senso
cercare nelle leggi i princìpi dell’accadere storico. Ma proprio perché il rifiuto di una
filosofia della storia come scienza di
leggi è risultato come conseguenza necessaria
della comprensione dell’essenza logica della storia, sembra con ciò di essere andati troppo in là nella
dimostrazione. Infatti, per quanto false
siano nel loro contenuto tutte le teorie sociologiche che pretendono di essere
filosofia della storia, esistono di
fatto dei tentativi di determinare leggi valide per la totalità singolare dello sviluppo storico, e questi
sarebbero senz’altro impossibili se il
concetto di una scienza di leggi come filosofia
della storia contenesse una contraddizione logica. Ciò è certamente
esatto, e pertanto occorre ancora mostrare che, laddove i princìpi dell’accadere storico sembrano
determinati in forma di leggi, essi non
sono mai enunciati, da un punto di vista
formale, come leggi nel senso delle leggi naturali. E dal fatto che intendiamo ciò che qui è realmente
presente deriva al tempo stesso una
risposta alla questione di ciò che può essere designato come principio della
vita storica. È caratteristico di quasi
tutti i tentativi di trovare la legge
naturale dell’universo storico il fatto che tale legge debba contenere
contemporaneamente la formula del progresso della storia: con ciò è subito
posto in chiaro l’elemento essenziale. Si
capisce quanto debba essere allettante abbracciare d’un solo colpo legge
naturale, legge di sviluppo e legge di progresso, come credeva di aver fatto Comte con la sua legge
dei tre stati — teologico, metafisico e
positivo — e quanta popolarità goda quindi ancor oggi questo tipo di
sociologia, che promette di rendere tanto. Ma si capisce anche, non appena si
sia ottenuta chiarezza sull’essenza logica della storia, che tali promesse
non potranno mai essere mantenute. In
primo luogo, progresso o regresso sono
concetti di valore, più esattamente concetti che esprimono un incremento o una diminuzione di
valore; e di progresso si può parlare
soltanto se si possiede un criterio di
valore. In secondo luogo, il progresso indica il sorgere di qualcosa di
nuovo, che non è mai esistito nella sua individualità. Ma il concetto di un criterio di valore, come
concetto di ciò che dev'essere, non può
mai coincidere con un concetto di legge,
che contiene sempre ciò che è o deve necessariamente essere, e che non ha quindi alcun senso
esigere. Dover essere ed essere
necessariamente si escludono l’un l’altro sotto il proftlo concettuale, e
solamente a causa della già menzionata equivocità del termine «legge » si può
parlare di una legge di progres Inoltre il sorgere di qualcosa di nuovo, di non
ancora esistito, non rientra in alcuna
legge, poiché una legge contiene
soltanto ciò che ricorre ripetutamente. Se per progresso si intende
quindi in primo luogo il sorgere di qualcosa di nuovo e in secondo luogo un incremento di valore, e per
legge una legge naturale, allora il
concetto di legge di progresso è due volte
logicamente assurdo. Quando l’universo storico è unificato in virtù di una «legge», articolato in
riferimento al sorgere di qualcosa di nuovo e designato come progresso, la
legge non può mai essere una legge
naturale. Perciò la «legge» di Comte è anche di fatto una formula valutativa.
Per lui il positivo vale come dover
essere, come ideale assoluto. In base a questo
egli considera lo sviluppo dell’umanità e stabilisce ciò che i suoi diversi stadi rappresentano di nuovo e
di valido per la realizzazione del suo
ideale. Una scienza di leggi, che deve
sciogliere i propri oggetti da ogni vincolo valutativo e considerarli
come esemplari indifferenti di un genere, non può fare nulla di simile. Qui non è possibile — e neppure necessario
per il chiarimento del principio — illustrare criticamente i vari tentativi
compiuti per porre in luce presunte leggi come princìpi dell’accadere storico e
per dimostrare che queste leggi contengono, più o meno celati, concetti di valore, e quindi non
sono leggi. Basti ricordare
esplicitamente quello che è legato al nome di Darwin e che può essere definito come il tentativo
di dare al concetto di sviluppo storico
un carattere puramente naturalistico in virtù della dimostrazione che proprio
la legge naturale dello sviluppo garantisce il suo necessario incremento di
valore. Ogni progresso da un livello
inferiore a uno superiore è condizionato
— così si sostiene — dalla legge universalmente valida della selezione, che sempre più elimina ciò che è
cattivo e aiuta ciò che è buono a
riportare la vittoria. Perciò tale legge deve nel medesimo tempo essere il principio dello
sviluppo storico e del progresso. A
parecchi ciò suona assai plausibile, ma non occorre pervenire a
un'illustrazione più ravvicinata delle idee sulla cui base si sono ottenuti i più diversi
concetti di progresso per mostrare che
siamo qui dinanzi a un fraintendimento totale
della biologia di Darwin. Se questa teoria deve fornire una spiegazione puramente naturalistica, essa
deve rinunciare a qualsiasi teleologia dei valori, e quindi anche evitare
completamente l'impiego di concetti
valutativi come «superiore » e « inferiore». La selezione naturale non elimina
affatto ciò che è cattivo conservando il
buono, ma aiuta semplicemente a far vincere il
più adatto alla vita in determinate condizioni; e questo processo può
essere chiamato progresso soltanto se si fa della vita in quanto tale, in qualsiasi forma si manifesti,
un valore assoluto. Ma ciò sarebbe del
tutto privo di senso, perché ogni vita ha dimostrato capacità vitale per il
fatto stesso di esistere, e quindi da
questo punto di vista cade ogni differenza di valore. Sulla base dei concetti darwiniani non si può
valutare la vita umana superiore a
quella animale, e quindi designare come un
progresso lo sviluppo che conduce all'uomo. Perciò è del tutto impossibile formulare u na qualsiasi
distinzione di valore all’interno della vita umana in base a punti di vista
propri della scienza naturale. Soltanto
quando si è già presupposta come fornita
di valore — sulla base di un criterio di valore — una determinata formazione, si può definire come
progresso lo sviluppo che conduce ad essa. Ma non sarà mai possibile
derivare dalle leggi naturali del
processo di sviluppo — che devono essere
le medesime per ogni stadio, se devono essere leggi generali — il principio del progresso. La
circostanza che certe formazioni
naturali, come per esempio gli uomini, vengono
valutate come «evidentemente » superiori rispetto ad altre forme ci
spiega sì la possibilità di una storia evolutiva individualizzante degli
organismi e conduce i rappresentanti di una filosofia naturalistica della
storia a ingannarsi sull’uso che continuamente fanno di princìpi di valore, ma
non cambia nulla al fatto che dai
concetti propri della scienza naturale non si può derivare alcun valore. Da
quest’illusione sono infine dominati anche
coloro che vogliono costruire una filosofia della storia sul concetto di
razza — per lo più ispirati dalla nozione darwiniana di «razze favorite nella lotta per l’esistenza
». Essi trascurano il fatto che, per
edificare una qualsiasi filosofia della storia, sono costretti a utilizzare questo concetto in
modo del tutto acritico e infondato,
come concetto di valore; e tale procedimento è
tanto più sospetto in quanto con ciò discreditiamo il concetto — estremamente importante per la filosofia
della storia — di nazione, che è un concetto culturale e designa
l’individualità di un popolo. Il
concetto di nazione civile non ha nulla in comune con il concetto naturalistico
di razza — tutt'altro che esente da
obiezioni, del resto, anche dal punto di vista della scienza naturale — di cui si fa oggi un abuso così
dilettantesco. La germanità non risiede
nel sangue ma nell'animo — ha detto
Lagarde”, un uomo non sospettabile di apprezzare poco l’ele 23. Paul Anton de Lagarde, orientalista c
filosofo tedesco, autore mento nazionale; e alla base di questa espressione sta
la stessa idea che proibisce di elevare
concetti naturali, come quello di razza,
a princìpi di filosofia della storia.
La dimostrazione che le presunte leggi storiche sono formule di valore
ci ha al tempo stesso indicato la strada attraverso cui devono essere effettivamente cercati i
princìpi dell’accadere storico: ancora
una volta è qui decisiva la comprensione dell’essenza logica della scienza
storica. L'universo storico non è nient'altro che la totalità storica più ampia
possibile, concepita in modo
individualizzante, e poiché la relazione di valore è la conditio sine qua non dell’apprendimento
individualizzante in genere, possono
essere solo concetti di valore quelli che costituiscono il concetto
dell’universo storico. Ma soltanto ciò che esegue questo lavoro e rende
possibile connettere in unità — come
elementi individuali — le diverse parti dell’universo storico, merita il nome di principio storico; perciò
la filosofia della storia in quanto
scienza dei princìpi è, se deve avere un compito, la dottrina dei valori da cui
dipende l’unità e l’articolazione dell’universo storico. In riferimento a
questi valori si può anche interpretare
il senso unitario dell’intero sviluppo.
L'’interpretazione di tale senso ha sempre rappresentato di fatto l'aspirazione della filosofia della storia,
anche quando si credeva di dover cercare leggi perché non si distingueva tra
legge e valore, tra essere
necessariamente e dover essere, tra essere e
senso, e non si era consapevoli che ciò che non si può riferire a valori è assolutamente privo di senso.
Neppure il naturalismo ha voluto
rinunciare a interpretare il senso della storia, né del resto sarebbe facile rinunciarvi. Tutta la
vita culturale è vita storica e gli
uomini civili — a cui appartengono anche i naturalisti — non possono in quanto
tali tralasciare di rendersi conto del
senso della cultura, e quindi del senso della storia. Sorge qui un compito che non può essere assolto né
dal naturalismo, che scioglie la realtà
da ogni relazione di valore, né dalla
scienza storica empirica, che rappresenta il corso storico in base di Uber das Verhdltnis des deutschen
Staates zu Theologie, Kirche und Religion
{1873), dei Politische Aufsitze (1874), di Uber die gegenwirtige Lage
des deutschen Reiches (1876) e di vari
altri scritti, cditore di Giordano Bruno, formulò una filosofia della storia di
ispirazione teologica. a una relazione di valore puramente teoretica; perciò ci
si attende dalla filosofia della storia,
come dottrina dei princìpi dell’accadere
storico, la soluzione di questo compito necessario e inevitabile . Meno semplice della questione dell'oggetto
di questa filosofia della storia è affrontare il problema del modo di
trattazione. Qui è possibile prospettare soltanto #2 compito, contro la cui possibilità di soluzione non vengono
avanzate obiezioni di rilievo. Esso si
riallaccia alle operazioni effettive degli storici e dei filosofi della storia, cercando di
mostrarvi la funzione dei valori
culturali come princìpi della rappresentazione. Per qualche lavoro questo
compito è, almeno in parte, di così facile
soluzione da non aver affatto bisogno di un’indagine particolare. In una
storia dell’arte o della religione devono in ogni caso esserci dei valori artistici e religiosi, ai
quali vengono riferiti gli oggetti da
rappresentare. Ma non sempre le cose vanno nel
senso che un determinato punto di vista valutativo emerge subito come
elemento dominante. Soprattutto nelle opere più comprensive, le quali hanno per
oggetto lo sviluppo di interi popoli o intere epoche, si incontrano i punti di
vista più diversi, ed è un’occupazione
assai attraente quella di chiarire perché lo storico tratti estesamente certi
avvenimenti e soltanto brevemente altri,
e non tratti per nulla di processi altrettanto reali. Gli storici stessi non sempre sono consapevoli
dei motivi di questo fatto. Non possono
esserlo perché spesso non sanno nulla della
struttura logica della loro attività e credono di non stabilire relazioni di valore in genere. Tanto più
importante è allora chiarire
esplicitamente i loro presupposti e mostrare da che cosa essi dipendano nell’elaborazione del
loro materiale. Occorre perciò mostrare che ogni storico, specialmente quando
non si limita a indagini particolari,
possiede una specie di filosofia della
storia che è decisiva per ciò che egli ritiene importante e non importante; ed è certamente un compito
che vale la pena affrontare quello di
porre in luce la filosofia della storia presente soprattutto nei grandi
storici. Anche in uno storico così
«oggettivo », com'è per esempio Ranke, agiscono presupposti filosofici ben determinati intorno al senso
della storia, e così dev'essere per il
fatto stesso che egli voleva trattare tutto dal punto di vista della storia
universale. Giustamente Dove ha
osservato che Ranke si è opposto alla partecipazione unilaterale non già
mediante la neutralità, ma mediante l'universalità del sentimento simpatetico, riconoscendo in
tal modo implicitamente la relazione ai valori. Ma se le cose stanno così, non ci si può limitare a questo. In che cosa
consiste l'universo dei sentimenti
simpatetici in questo grande storico? Un’indagine orientata in vista di tale scopo recherebbe
forse maggiore luce sulla questione
riguardante le tanto discusse «idee » di Ranke.
Si potrebbe mostrare che la filosofia della storia di Ranke è stata soggetta a trasformazioni, ma che tra i
fattori di cui si compongono queste idee
tutt'altro che semplici hanno sempre
avuto un ruolo essenziale i punti di vista valutativi dominanti della concezione della storia di Ranke. In
tali indagini, e in altre analoghe,
storia e filosofia devono avere uno stretto contatto. Ancor più importante tra i punti di vista
filosofici è però l’analisi dei
tentativi che procedono oltre la scienza storica empirica in quanto
stabiliscono esplicitamente princìpi della vita
storica, e cioè princìpi che servono alla comprensione dell’intero
sviluppo umano e all’interpretazione del suo senso. Qui occorre quindi non soltanto l’analisi, ma
anche la critica; occorre cioè — dopo aver determinato fino a qual punto i
principi della vita storica siano
valori, e in che cosa essi consistano —
indagare con quale diritto questi punti di vista valutativi vengano
considerati decisivi per il senso generale dello sviluppo universale.
Naturalmente anche qui possiamo di nuovo indicare soltanto qualche esempio. Si prenda, come
esempio particolarmente caratteristico, la cosiddetta concezione materialistica
della storia, proprio nella forma originaria del Manifesto comunista e nella
misura in cui si limita — del tutto indipendentemente dal materialismo
teoretico o metafisico — a un’interpretazione della vita storica empirica. Già
il fatto che essa sia sorta come
elemento di un programma politico indica dove devono 24. Alfred Dove (1844-1879), storico
tedesco, autore della Deutsche Geschichte
im Zeitalter Friedrichs des Grossen und Joseph l (1883), della Kaiser
Wilhelms geschichtliche Gestalt (1888),
di Grossherzog Friedrich von Baden als Landesherr und deutscher Fiirst (1902) e di varie altre
opere, editore delle opere complete di
Ranke. essere cercati i punti di vista valutativi che la ispirano. Essa può venir compresa soltanto se si considera
che gli interessi dei suoi fondatori si
rivolgevano alla lotta del proletariato contro la borghesia e che la vittoria del proletariato
ne costituiva il valore centrale, assoluto. Poiché la cosa essenziale in
riferimento a questo valore è oggi la
lotta tra le due classi, si cerca di
comprendere l’intera storia come storia di lotte di classe e di ricondurla in tal modo a unità. I nomi dei
partiti in lotta cambiano: liberi e
schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della
gleba, artigiani e garzoni si contrappongono tra loro. Ma ogni volta è essenziale, in riferimento al punto
di vista valutativo dominante, il fatto
che si tratta di oppressori e oppressi, di
sfruttatori e sfruttati i quali lottano tra loro ai diversi gradi dello sviluppo storico. Così si ottengono i
princìpi generali dell’accadere storico,
e anche la formazione futura viene parimenti determinata dal valore assoluto,
dall’auspicata vittoria del proletariato
sulla borghesia. Nella fase attuale di lotta la
cosa principale, l'elemento decisivo, è la lotta per i beni economici.
Perciò nella storia la vita economica dev'essere sempre la cosa principale, e le epoche della storia
devono articolarsi in base alle diverse
formazioni economiche: da ciò deriva la concezione « materialistica », cioè
economica. Quanto tutta questa
concezione dipenda da punti di vista valutativi, è cosa che non richiede un’ulteriore dimostrazione. Che poi
non si accontenti di considerare come
elemento essenziale ciò che è riferito al
suo valore assoluto, ma faccia coincidere l'essenziale — secondo un
realismo concettuale ingenuo a cui si aggiunge qui ancora il realismo concettuale nient’affatto
ingenuo degli hegeliani — con ciò che è « propriamente reale », e conceda a
tutta la restante vita culturale
soltanto un'esistenza di grado inferiore, non cambia in nulla il quadro che
abbiamo delineato. Questo errore è tipico delle costruzioni di filosofia della
storia che non sono consapevoli di
utilizzare come punti di vista dominanti dei valori, e al tempo stesso serve a
mantenere l'oscurità sul principio
direttivo perché, una volta compiuta la separazione tra due diversi tipi di reale e trovata nella
vita economica — in conseguenza di un
platonismo con segno rovesciato — la
«causa vera e propria» di tutti gli altri avvenimenti storici, deve poi necessariamente sorgere la parvenza
che la concezione materialistica della storia constati semplicemente dei
fatti, partendo sempre dalla vita
economica intesa come fondamento. Queste
ipostatizzazioni metafisiche dell’elemento economico sono però soltanto
esagerazioni, e possono essere eliminate senza
intaccare il nucleo filosofico del materialismo storico. In ogni caso,
uno sguardo ai princìpi di valore di questa filosofia della storia fornisce
anche il punto di vista da cui deve prendere le
mosse la critica. La questione decisiva consiste nel sapere se sia legittimo scorgere il valore assoluto nella
vittoria del proletariato in campo economico, e quindi in un bene economico.
Naturalmente la questione non dev'essere decisa in questa sede. Si potrà al massimo ritenere fin d’ora poco
probabile il fatto che princìpi di
valore ottenuti in base a punti di vista politici di partito siano adatti anche
all’interpretazione del senso della
storia universale. Infatti una quantità sterminata di aspirazioni e di imprese umane di tutti i secoli appare,
da questo punto di vista, del tutto
priva di senso. Non ci si può tuttavia
limitare a queste supposizioni. Proprio l’idea che la filosofia della storia
non soltanto deve chiarificare analiticamente i principi delle opere di storia
empirica e delle costruzioni di
filosofia della storia, ma deve anche assumere criticamente posizione nei loro
confronti non appena questi princìpi
avanzano una pretesa di validità universale, indica che il compito principale di una scienza dei
princìpi storici si colloca in una
direzione del tutto diversa. La critica è possibile sempre soltanto sulla base di un criterio di
valore; inoltre, per poter definire
unilaterale una concezione della storia, si deve in qualche modo disporre di una concezione
onnilaterale. La dottrina dei princìpi
dell’accadere storico si svilupperà quindi
in una scienza autonoma soltanto se nella determinazione dei princìpi storici aspira tanto alla
completezza sistematica quanto a. una
fondazione critica. Essa deve cioè porsi come fine la determinazione di un sistema di valori;
inoltre essa prende in considerazione
non soltanto la valutazione di fatto, ma anc he la questione della validità dei
valori culturali, e per questo ha
bisogno di un valore assoluto a cui poter commisurare le valutazioni effettive. Questo valore fornirà
al tempo stesso anche il punto di vista decisivo per la determinazione di
un sistema di valori, cosicché il
problema della sistematizzazione e quello della validità dei valori culturali
si connettono strettamente tra loro. Ma come la filosofia della storia deve
pervenire a un sistema di valori che
renda ad essa possibile interpretare il
senso dell'intero corso storico? Con questa domanda perveniamo
all'ultima e più importante questione della dottrina dei princìpi storici. Si affaccia qui l’idea di attribuire questo
compito a un tipo particolare di
indagine psicologica: certamente non alla psicologia «esplicativa» — sia che si
tratti di « psicologia individuale » della vita psichica in generale oppure di
psicologia della vita sociale, condotta
secondo un metodo naturalistico — ma soltanto
a una psicologia dei valori culturali. Tutta la storia non solo tratta essenzialmente di uomini civili, ma è
scritta esclusivamente da uomini civili. I valori generalmente riconosciuti
dall’uomo civile devono — a quanto sembra — essere nel medesimo tempo i princìpi di una storia universale
dell'umanità civile. È così possibile
concepire una psicologia della cultura che indaghi il complesso dei valori culturali universali
e li rappresenti sistematicamente, fornendo contemporaneamente un sistema
dei princìpi dell’accadere storico in
cui trovino il loro posto tutti i
sistemi di valore ottenuti analizzando le opere storiche e di filosofia della storia, e a cui essi debbano
essere commisurati. È questo in ogni caso
il senso più profondo, anzi l’unico, che si
può attribuire all’affermazione che la psicologia dev'essere la base della filosofia della storia: esso sta
anche alla radice dello sforzo di
Dilthey, totalmente incompreso dagli psicologi, per delineare il programma di una « psicologia
descrittiva e analitica» da affiancare alla psicologia esplicativa. Per quanto
suggestiva possa apparire l’idea di procurare in questo modo alla filosofia della storia un fondamento
puramente empirico, e quindi sicuro, la sua
realizzazione incontra una difficoltà insuperabile. Questa psicologia della
cultura non può limitarsi all’indagine « dell’uomo civile » nel senso di
accertare e sistematizzare le valutazioni comuni a tutti gli uomini civili,
poiché da questo procedimento
generalizzante deriverebbe un sistema di
valori estremamente povero, in cui potrebbero essere contenuti soltanto pochi
dei princìpi di una storia dell’universo storico. La psicologia della cultura
dovrebbe piuttosto rivolgersi alla vita
storica stessa in tutta la sua pienezza e molteplicità, per conoscere tutti i
valori culturali; e come potrebbe pervenire
in questo modo a punti di vista che rendano possibile un’articolazione e
un dominio di questo materiale? Per separare entro la molteplicità della valutazione
l’essenziale dall’inessenziale, essa
dovrebbe già possedere ciò che deve invece cercare: la conoscenza dei valori che sono princìpi di
una storia universale e princìpi dello
stesso universo storico. Così la psicologia della cultura come filosofia della storia entra in
un circolo da cui non può sfuggire. Non è possibile avvicinarsi al fine di una
rappresentazione e fondazione
sistematica dei princìpi storici per via puramente empirica, attraverso la mera analisi delle
valutazioni effettive. Occorre piuttosto
in primo luogo riflettere, prescindendo del
tutto dalla molteplicità del materiale storico, su ciò che vale assolutamente ed è presupposto di ogni
giudizio di valore, ossia che pretende a
una validità più che individuale. Soltanto quando si siano trovati valori
validi atemporalmente si può riferire ad
essi tutti quanti i valori culturali empiricamente constatabili, che si sono
sviluppati nel corso della storia, e tentare così una disposizione sistematica e al tempo
stesso una presa di posizione critica.
Solamente se è possibile ottenere valori soprastorici, si può allora realizzare
una filosofia della storia come scienza
particolare dei princìpi dell’universo storico e interpretare il senso della
storia dell’universo. Ma la riflessione sui valori sopra-storici non appartiene più al campo
della filosofia della storia come
disciplina filosofica particolare; essa può venir intrapresa soltanto in
connessione con la determinazione di un sistema filosofico in generale. La
filosofia della storia come dottrina dei
principi viene così a dipendere dal complesso delle indagini filosofiche, in
particolare dalla dottrina del senso del mondo
o — nel caso che tale questione non sia una questione scientifica —
dalla dottrina del senso della vita umana. I fondamenti della filosofia della storia coincidono
pertanto con i fondamenti di una filosofia come scienza dei valori in
generale. L'indagine volta a
determinare il concetto della filosofia
della storia come dottrina dei princìpi storici in generale può essere condotta soltanto fino a questo punto.
Non si può qui rispondere alla questione
se la determinazione di valori assoluti possa ancora rientrare nei compiti
della scienza, poiché essa è identica alla questione riguardante il concetto di
filosofia scientifica in generale. Qui
importava solamente mostrare che le
leggi non possono essere princìpi della storia, e quindi mostrare che, se
possono ancora esserci problemi di filosofia della storia al di fuori della logica della storia,
questi devono riassumersi nella questione del senso della storia, e inoltre che
l’interpretazione di questo senso richiede ancora un criterio di valore fornito di validità sopra-storica. Si deve
ancora aggiungere che la filosofia come
scienza critica e sistematica dei valori non ha
bisogno di presupporre come criterio nessun valore assoluto determinato
dal punto di vista del contenuto. Anche se si riesce soltanto a ottenere un valore incondizionato
puramente formale, si può tuttavia trarre l’intero contenuto del sistema
dei valori dalla vita storica, per
quanto questa sia asistematica per
definizione. Anzi, la filosofia della storia che ricerca il senso della storia dovrà servirsi di princìpi di
valore puramente formali, proprio perché questi devono essere tali da valere
per tutta la vita storica. Certamente,
in base a questo presupposto si può
concepire un sistema di valori che possegga completezza sistematica soltanto sotto il profilo
formale, mentre riguardo al contenuto
non può mai essere concluso perché la vita storica continua a svilupparsi e quindi sorgono
valori culturali sempre nuovi,
determinati nel contenuto, i quali devono trovare la loro collocazione nel sistema. Perciò il sistema
di valori può essere definito
sistematico in riferimento al suo contenuto soltanto nella misura in cui la conclusione
sistematica ci si presenta come un
compito altrettanto necessario quanto insolubile, e l'oggetto della filosofia come scienza dei
princìpi risulta pertanto un’« idea » nel senso kantiano — come sempre avviene
quando l'oggetto è l’incondizionato nella pienezza del suo contenuto. Alla
realizzazione dell'idea di un siffatto sistema di valori dovrebbero quindi contribuire tutte le
epoche, con la coscienza che esse non
potranno mai condurlo a termine. Ciò non cancella però il significato di questo
lavoro. Al contrario, chi si decide a
compierlo trarrà coraggio tanto da uno sguardo sul passato quanto da uno sguardo verso il
futuro. Se prescindiamo dai problemi che
nel corso dei secoli si sono svincolati dalla
filosofia e sono stati attribuiti alle scienze particolari, ne risulta che tutti i filosofi importanti hanno cercato
di lavorare in vista di un sistema di valori nel senso sopra indicato, poiché
tutti hanno indagato sul senso della
vita, e già questa domanda presuppone un
criterio assoluto di valore. Essi devono quindi
venir considerati tutti come precursori. Ma il fatto che a tale questione fondamentale per ogni filosofia non
soltanto non si è ancora risposto, ma
non si potrà neppure mai rispondere con
una completezza di contenuto, finché sorgerà nuova vita storica,
costituisce appunto soltanto un motivo che accresce l’importanza del lavoro
diretto a risolverlo: infatti la coscienza tanto della grande necessità quanto dell’insolubilità
di un compito ci dà la sicurezza della
sua «eternità », e quindi il conforto fichtiano che coloro i quali collaborano
alla soluzione della questione diventano, in virtù del loro lavoro, «eterni»
come lo è il compito stesso. Ora
possiamo finalmente rivolgerci ai problemi della terza disciplina che pretende il nome di filosofia
della storia. Essa vuol fornire, in
antitesi alle scienze storiche particolari, una
storia universale, cioè rappresentare il « mondo » storico o l’universo
storico. Come può conseguire il suo fine? Il suo compito consiste forse nell’abbracciare in una
totalità le rappresentazioni delle scienze particolari e — se per questa via
non è possibile ottenere una totalità
realmente conclusa — nel riempire con
costruzioni più o meno ipotetiche le lacune che la ricerca delle scienze particolari lascia ancora nella
storia universale? Un semplice riassunto non può avere valore come lavoro
scientifico autonomo, e il tentativo di
formulare supposizioni laddove lo
sguardo dello specialista non perviene a ipotesi realmente fondate
susciterebbe lo scherno di tutti gli storici. Una filosofia della storia del genere è superflua se non altro
per il fatto che la storia universale
viene scritta dagli storici stessi. Come la filosofia in generale non ha più,
in quanto scienza dell'essere, compiti autonomi che si riferiscano alla realtà
empirica da quando su ogni campo
specifico della realtà ha avanzato le sue pretese una scienza particolare, così una conoscenza
complessiva della totalità storica, la
quale si distingua dalle indagini scientifiche particolari soltanto per il
fatto di non limitarsi a una parte, non
può certamente essere più compito della filosofia della storia. Non soltanto la rappresentazione di
ambiti storici particolari, ma anche la storia universale dev'essere — come
scienza storica — lasciata
esclusivamente agli storici, che ne sono i
soli competenti, nello stesso modo in cui soltanto gli addetti alla ricerca empirica possono accertare
scientificamente qualcosa in merito all’essere della natura, in generale come
in particolare. La filosofia si renderebbe ridicola se credesse di poter
fare in questo campo più delle
scienze. Ma con ciò il problema di una
trattazione filosofica del materiale
rappresentato dal complesso delle scienze storiche empiriche è tutt'altro che
deciso. Anche se considera non soltanto
le forme ma altresì il contenuto della totalità storica, la filosofia ha
nei confronti di essa un compito che non può essere affrontato da nessuna scienza storica empirica;
e proprio la circostanza che la storia
universale viene scritta in modo puramente storico da storici può servire alla
determinazione di questo compito
filosofico. Cerchiamo quindi, in base alla comprensione dell'essenza logica
della scienza storica, di chiarire
anzitutto il concetto di una rappresentazione empirica della storia universale, e poi di vedere quali
questioni, a cui gli storici non possono
in quanto tali dare una risposta, rimangano
ancora alla filosofia. La «storia
universale » — così come l’ha scritta per esempio Ranke — non si distingue affatto nel modo
dalla rappresentazione di oggetti particolari; e così ha voluto, del resto, il
suo autore. Egli era anzi convinto —
come riferisce Dove? — che «in ultima
analisi non si può scrivere nient'altro che
storia universale »; e in ogni caso la «storia universale» è scaturita in Ranke dal lavoro scientifico
particolare, senza l’aggiunta di un principio nuovo. Per noi è qui soprattutto
importante considerare che cosa Ranke, come storico, intenda per «mondo » storico, cioè per la totalità di cui
egli tratta. In un passo egli dice che
l'impulso alla conoscenza viene trascinato
25. La frase citata da Rickert si trova negli Aufsétze und
Veròffentlichungen zur Kenntnis Ranke,
in Ausgewihlte Schriften vornelimlich historischen Inhalts, Leipzig. ad
abbracciare l’intero ambito dei secoli e degli imperi dalla convinzione che nulla di umano gli è distante
ed estraneo. Ma, di fatto, Ranke è ben
lungi dal trattare nella sua storia universale di tutti i secoli e di tutti gli
imperi, e non l’avrebbe fatto neppure se
gli fosse stato concesso di portare a termine la sua opera. Egli stesso lo osserva quando dice
che, se la vocazione di Alessandro non
fosse stata quella di attraversare l’India e di
scoprire la parte orientale dell'Asia, questa regione « per secoli ancora non sarebbe entrata a far parte
dell'ambito della storia universale ».
L’« universo» di Ranke può essere determinato
soltanto come una parte della storia dell'umanità a noi nota, e non come l’ultima più comprensiva totalità
storica in senso logico; anzi, la sua
esigenza di una trattazione storico-universale del materiale storico consiste
essenzialmente solo nel fatto che egli
non vuole limitarsi a un popolo singolo, ma seguire le connessioni che i diversi popoli appartenenti
a un determinato ambito culturale
stringono tra di loro. Non soltanto Ranke non
ha mai tentato di fatto di stabilire concettualmente l’universo storico, ma neppure poteva tentarlo, se
voleva restare uno storico. In primo luogo, un compito di questo genere può
essere risolto soltanto con l’ausilio di
un sistema di valori culturali nel senso
già indicato, dalla cui determinazione lo storico è quanto mai lontano; in secondo luogo il «senso
storico» deve fare resistenza non
soltanto alle leggi storiche, ma a ogni altra
specie di sistematica, poiché questa lo priverebbe della libertà e dell’ampiezza di considerazione di cui ha
bisogno per un apprendimento impregiudicato di ogni avvenimento storico nel suo carattere specifico. Perciò tutti gli
storici, anche quando scrivono di storia
universale rimanendo tuttavia storici, non
procederanno in linea di principio in maniera diversa da Ranke. Tale
supposto difetto è stato di recente sottolineato decisamente in una «storia
universale» su base «etno-geografica ».
Ma questo tentativo di trattare storicamente suite le parti della terra ha realmente cambiato qualcosa da un
punto di vista di principio? Esso non
può valere, in ogni caso, come delimitazione sistematica dell’universo storico.
Anzi, ciò che la storia guadagna in generalità esteriore e quantitativa, va
necessariamente perduto come unità
interna, perché il principio direttivo non è
un concetto culturale. L’inevitabile « difetto » di ogni
rappresentazione puramente storica della
storia universale ci indica al tempo stesso i compiti di una trattazione filosofica
dell’universo storico. In antitesi alla storia, la filosofia non rinuncerà mai
alla tendenza alla sistematizzazione.
Ovviamente, finché si tratta di fatti storici essa deve sempre appoggiarsi alla
scienza storica empirica e sottomettersi
senza condizioni alla sua autorità. Ma per il resto può vedere in tutte le rappresentazioni
puramente storiche, incluse le più
ampie, soltanto del materiale che essa elabora
sistematicamente a modo suo. Certamente, essa può farlo solo se ha risolto in misura maggiore o minore il
suo compito di scienza dei princìpi. Ma
se è pervenuta anche soltanto all’inizio di un sistema criticamente fondato dei
valori culturali, nel senso prima
indicato, la filosofia può apprendere anche il contenuto della storia in modo
tale che non ne derivi un sistema di
concetti generali come in una scienza generalizzante, ma una delimitazione e articolazione sistematica
dell’universo storico. Per quanto
riguarda la delimitazione, nel concetto di totalità storica ultima rientra così tutto ciò che è
essenziale, per la sua individualità, in
riferimento ai valori culturali universali
suscettibili di venir fondati criticamente, e quindi più che empirici.
Certamente, l’universo storico che sorge in questo modo può essere soltanto un’« idea » in senso
kantiano, cioè non può mai essere
definitivamente concluso — al pari del sistema dei valori culturali — dal punto di vista del
contenuto; esso appartiene quindi — per dirla con Medicus* — alla «
dialettica trascendentale » di una
critica della ragione storica. Ma questa
circostanza non esclude l’autonomia della sua trattazione sistematica,
in quanto filosofia della storia. Anzi, la relazione al sistema di valori permette al tempo stesso
un'articolazione della totalità storica: è cioè possibile delimitare
reciprocamente determinate parti come
suoi elementi più importanti, come le
26. Fritz Medicus (1876-1956), filosofo tedesco, autore di uno studio
sulla Kants Philosophie der Geschichte
(1902) e di importanti lavori sulla vita e sul pensiero di Fichte, nonché di
varie opere teoriche come le Grundfragen der Aestetik (1917), Die Freiheit des Willens und ihre
Grenzen (1826), Macht und GerechtigKeit, Vom Wahren, Guten und Schònen (1943),
nonché editore delle opere di Fichte.
Rickert sì riferisce al saggio Kant und Ranke, «Kantstudien. sue «epoche » o i
suoi « periodi », ordinandole in modo che il
senso della storia non si esprima soltanto in un’astratta formula di valore, ma anche nella rappresentazione
dello sviluppo stesso. In una filosofia della storia siffatta anche la
selezione di ciò che è essenziale deve
distinguersi da quella che compiono le
scienze empiriche: infatti non appena si considerano non già tutti i valori culturali forniti di
universalità empirica, ma soltanto quelli che hanno trovato la loro fondazione
nel sistema dei valori, la ricchezza dei
particolari storici retrocederà e si
parlerà soltanto delle « grandi» epoche o periodi. Dove si vogliano scorgere i rappresentanti
di queste epoche — se in singole
personalità o in movimenti di massa — può
naturalmente essere deciso, ancora una volta, soltanto caso per caso. Così pure non si può rispondere pregiudizialmente
rispetto all’ ‘indagine storica alla questione se gli elementi più comprensivi
del processo di sviluppo singolare siano le diverse epoche che si susseguono,
oppure le diverse individualità dei popoli che in parte cooperano nel medesimo
tempo. Qui importa soltanto chiarire il
carattere sistematico di una trattazione filosofica dello stesso oggetto che le
scienze storiche trattano storicamente, e distinguere in tal modo nettamente la
filosofia della storia dalle scienze
storiche empiriche. Anche con la storia la
filosofia, nel senso sopra indicato, deve procedere astoricamente.
Perciò Ranke aveva ragione quando si sentiva in opposizione alle costruzioni di
storia universale intraprese dai filosofi, e
temeva un’irruzione della filosofia nel campo dello storico. T'uttavia
egli non ha reso giustizia, nel suo giudizio, alla filosofia della storia, perché sentiva questa differenza
più che formularla concettualmente in
modo netto. Egli stesso ha cercato — se non
nella Weltgeschichte, almeno nelle conferenze Uber die Epochen der
neueren Geschichte — qualcosa che si accosta per un certo verso a una filosofia della storia. Ma
questa rappresentazione è impostata in modo troppo storico per essere una
filosofia e si presenta quindi come una forma di trapasso o una forma mista, che evidentemente non perde
affatto il valore come manifestazione di
una personalità geniale, ma che tuttavia, riguardo alla sua struttura logica,
dev'essere definita appunto come una forma di trapasso. Essa vuole cioè essere
per un certo verso sistematica, e nel
medesimo tempo non riconosce in parte i presupposti di cui nessuna sistematica
di filosofia della storia può fare a
meno. In tal modo essa dimostra quanto
sia necessario distinguere concettualmente in modo netto tra scienza storica empirica, non sistematica, e
filosofia della storia. Se ciò è avvenuto, e se il filosofo della storia
rinuncia a fare irruzione nelle scienze
storiche, la sua considerazione sistematica dello sviluppo storico complessivo
possiede un diritto incontestabile
4ccazzo alla rappresentazione storica e non sistematica della vista
storica. Ma affinché tale distinzione,
e al tempo stesso anche la necessità di
questo tipo di filosofia della storia risulti perfettamente chiara, bisogna
ancora prendere in considerazione un
secondo punto, che è connesso nel modo più stretto con l’aspirazione
alla sistematizzazione. All'essenza del senso storico non appartiene soltanto la mancanza di
sistematicità; l’apprendimento impregiudicato del corso storico presuppone
anche una fede nel « diritto » di ogni
realtà storica. Perciò lo storico deve
cercare, in quanto storico, di astenersi da un giudizio di valore diretto sui suoi oggetti, e la logica della
storia deve pertanto separare nettamente
la relazione teoretica di valore dalla valutazione pratica. Invece la
filosofia, che deve assumere criticamente posizione nei confronti dei valori
culturali, non sa nulla di un «diritto»
proprio dell'elemento storico in quanto tale; in modo altrettanto deciso di quello in cui
riconosce il procedimento puramente storico dell'indagine specifica, lo
storicismo come intuizione del mondo
appare ad essa un’assurdità. Questo storicismo, che si crede così positivo, si
manifesta come una forma di relativismo
e di scetticismo e, se pensato fino in
fondo in modo coerente, può condurre al nichilismo completo. Si sottrae a quest'apparenza soltanto perché
rimane aderente a una qualche struttura
della molteplicità storica, collegando ad
essa il « diritto di ciò che è storico» e traendone quindi una ricchezza di vita positiva. Ciò lo distingue
sì dal relativismo e dal nichilismo
formulati in modo astratto, ma in linea di principio non lo innalza affatto al
di sopra di questi. Se fosse coerente,
esso dovrebbe concedere a qualsiasi essere storico il diritto di ciò che è storico; ma non è in
grado di aderire a nulla, proprio perché
dovrebbe aderire a tutto. In quanto intuizione del mondo, esso assume come
principio la completa assenza di princìpi, e quindi dev'essere combattuto nel
modo più deciso dalla filosofia della
storia. Nella concezione dell’universo
storico l'opposizione allo storicismo si manifesta nel fatto che la filosofia
della storia abbandona la considerazione storica, riferita ai valori in modo
puramente teoretico, in favore della valutazione critica. Che cosa ciò significhi, risulta chiaro nel modo
migliore per il fatto che così
riacquista il suo diritto il concetto di progresso. Tale categoria non
appartiene certamente ai princìpi della scienza storica empirica. Al pari della
relazione a un sistema di valori, questa
categoria eliminerebbe la valutazione impregiudicata dei processi storici nel loro carattere specifico
e toglierebbe sovranità — come Ranke ha giustamente detto — al passato. La filosofia della storia, invece, non può fare
a meno di questa categoria se vuol
superare il nichilismo storicistico. Essa deve
giudicare, in connessione con l’articolazione dell’universo storico, i
diversi stadi del processo di sviluppo singolare con riguardo alla funzione che
essi hanno assolto per la realizzazione dei
valori criticamente fondati. A tale scopo la filosofia della storia deve non soltanto togliere sovranità al
passato — in consapevole antitesi rispetto alla considerazione puramente
storica — in vista del presente e del
futuro, ma deve pure giudicarlo, cioè
commisurare il suo valore a ciò che dev'essere. Ovviamente, alla questione se il corso della storia
rappresenti ovunque, o anche soltanto in
alcune parti, una serie progressiva continua o
un incremento di valore, può rispondere solo l’indagine stessa. All’inizio sussiste la possibilità sia di un
regresso continuo sia di un’oscillazione
in su e in giù, cioè di un'alternativa di
progresso e di irrigidimento. Si può anzi pensare che nella vita storica non sia possibile mostrare, in
riferimento ai valori, né un avanzamento
né una decadenza. Ma, quale che possa
essere la decisione in proposito, in ogni caso tutti i filosofi che si sono realmente occupati in modo
individualizzante di storia, cioè dello
sviluppo culturale umano, e non hanno soltanto cercato come sociologi le leggi
della vita sociale, si sono accinti alla
considerazione del corso storico impiegando un criterio di valore; e soltanto così hanno potuto
articolare e giudicare le epoche
dell’universo storico. Anche un filosofo come Schopenhauer, che non voleva
saperne di filosofia della storia perché lo sviluppo storico non mostrava ai
suoi occhi alcun progresso e gli pareva
quindi completamente privo di senso, ha contribuito a una filosofia della
storia nel senso sopra indicato; e soltanto per il suo risultato puramente
negativo — ma non riguardo alla
posizione del problema della filosofia della storia — è differente, in linea di principio, dagli
altri filosofi della storia. Il
carattere sistematico e al tempo stesso valutativo della trattazione filosofica
dell’universo storico può rimanere poco chiaro
soltanto dove, come spesso avviene, non si è in grado di distinguere tra
essere e dover essere, tra realtà e valore, oppure dove, a causa della diffidenza dominante
contro la fondazione scientifica dei
valori, ci si azzarda solo in modo celato a esprimere giudizi di valore, per
suscitare la parvenza di una trattazione puramente contemplativa. La ricerca
dei giudizi di valore e la dimostrazione
della loro sostanziale inevitabilità diventano, a causa dell’oscurità e
dell’indeterminatezza oggi molto diffuse
in questo campo, un compito tanto più urgente della filosofia.
Queste considerazioni hanno però soltanto lo scopo di mostrare quale
compito si pone alla filosofia accanto alle scienze storiche empiriche, non appena essa può
presupporre come idea un sistema di
valori culturali. Un’indicazione in proposito sarebbe possibile soltanto in
connessione da un lato con un sistema filosofico e dall'altro con i risultati
delle scienze storiche — cosa che non si
può dare in questa sede. Perché l’esposizione
non rimanga troppo schematica, gettiamo ora uno sguardo indietro sul
passato della filosofia della storia. Una comparazione dei concetti prima
enunciati di universo storico e di una
storia universale di carattere filosofico, che ne deriva, con la configurazione attuale — ancor oggi
sostenibile — di questa disciplina può
forse servire nel modo migliore a illuminare la
situazione odierna. Inoltre, collegarsi al passato è qui vantaggioso
anche perché ora abbiamo a che fare con /a forma dei problemi in cui la filosofia della storia ha
occupato inizialmente e prevalentemente gli uomini, e perché occorre nello
stesso tempo mostrare, mediante uno
sguardo retrospettivo, quanto poco
arbitrario sia il mostro modo di considerare la filosofia della storia, orientato in base alla logica.
Ne risulterà infatti che anche per
questa via arriviamo alla fine ai problemi che sono stati una volta i problemi
principali della filosofia della
storia. È stato sovente
sottolineato — e l’ha mostrato soprattutto
Dilthey — che, se non il concetto di storia in generale, almeno quello di universo storico era estraneo ai
Greci, e che soltanto il Cristianesimo ha
reso possibile l’idea di una « storia universale » nel senso rigoroso del
termine. Decisiva è qui la rappresentazione dell’unità del genere umano. Nel
suo aspetto principale, essa appare prodotta dalla relazione delle sue diverse
parti con Dio: infatti tutti i popoli
devono cercare Dio, e in tal modo il
genere umano nel suo sviluppo singolare assurge all’idea di una totalità
conclusa. Dio ha creato il mondo e gli
uomini, e tutti gli uomini discendono da una sola coppia. Così la storia universale ha inizio in un
determinato momento del tempo, e
terminerà col giudizio universale. Quest'ultimo decide in quale misura lo sviluppo abbia assolto il
suo compito di esprimere il suo
significato. Peccato originale e redenzione sono i due termini che articolano le epoche di
questo processo in modo tale che ne
scaturisce una serie di gradi di sviluppo. È
chiaro come su tale base sia possibile delineare una storia universale
in cui ogni avvenimento, che è significativo in riferimento al senso della storia, diventa elemento della
totalità, grado di sviluppo di una
connessione unitaria. Manca però, per
completare il quadro nei particolari, un
elemento essenziale. Per quanto all’inizio nella filosofia cristiana ci
si dia poca pena dei problemi del mondo esterno, le rappresentazioni religiose si legano
gradualmente nel modo più intimo con una
determinata immagine del cosmo, tratta essenzialmente dall’antichità. Il corso
del tutto è delimitato non solo
temporalmente dalla creazione e dal giudizio universale, ma anche trasferito su una scena che si può
abbracciare spazialmente. Si pensi per esempio al mondo di Dante — un
mondo che può essere disegnato nella sua
totalità. Esso forma un globo in sé
concluso, in mezzo al quale sta il teatro della storia universale, la terra.
Sopra questo globo, spazialmente
separato da esso, vi è la sede di Dio, a cui sulla terra fa riscontro Gerusalemme, e così via. Con questi
presupposti si può realmente parlare di
una «storia universale » nel senso
rigoroso del termine, e nell’ambito esattamente delimitato di tale
rappresentazione si può anche abbozzare un quadro efficace di tale storia
universale. Mentre lo sguardo dei pensatori
greci si posava sul ritmo eterno dell’accadere, oppure doveva rivolgersi all'immagine di un regno di forme
soprannaturali, ma in ogni caso del
tutto astoriche e atemporali, ora l’essenza
vera e propria del mondo è vista nello sviluppo singolare del mondo, riferito a Dio. La molteplicità dei
tentativi di filosofia della storia
intrapresi su questo terreno comune non ci riguarda in questa sede. È lampante
che il loro concetto e la loro
articolazione dell’universo storico mostrano logicamente la medesima
struttura del concetto prima esaminato e dell’articolazione della totalità
storica ultima; e che, in particolare, i loro
princìpi fondamentali siano concetti di valore risulta chiaro già considerando il loro carattere filosofico-religioso
— Dio è il valore assoluto. La storia
universale vuol essere una specie di «
giudizio universale », e proprio in un senso che questo termine non ha in
Schiller. Essa vuol fornire in maniera provvisoria un conto del valore del corso storico, che
deve poi essere saldato in modo definitivo da Dio nel giudizio universale. Qui ci interessa inoltre stabilire che cosa
ha tolto il terreno a tutti questi
tentativi di filosofia della storia. Si tratta in larga misura della trasformazione, avvenuta
all’inizio del mondo moderno, delle rappresentazioni del cosmo — di quella
trasformazione ancora oggi importante perché ha creato in linea di principio l’immagine del mondo che dobbiamo
ritenere definitiva, e in ogni caso l’unica finora scientificamente
sostenibile. Come ha mostrato
soprattutto Riehl ”’, qui non è decisiva tanto la sostituzione del punto di vista geocentrico
con quello eliocentrico, poiché mutando la posizione della terra entro
l'universo si sarebbe ben potuto
concludere un compromesso. Decisiva è piuttosto la distruzione dell’idea diun
cosmo chiuso, che si può abbracciare con
un solo sguardo. La dottrina dell’infinità del
mondo di Giordano Bruno fu lo scoglio su cui doveva naufragare ogni
filosofia della storia che voleva essere « storia universa- Richl, filosofo
austriaco, autore di Redlistische Grundziige
(1870), di Moral und Dogma (1871), di Uber Begriff und Form der
Philosophte (1872), di un'ampia opera su
Der philosophische Kritizismus und scine Bedeutung fiir die positive Wissenschaft, di Zur Einfàhrung in
die Philosophie der Gegenwart (1903),
nonché di vari volumi storici su Kane, Nietzsche, ecc. le » nel senso rigoroso
del termine. Di ciò che è temporalmente
e spazialmente illimitato vi è soltanto scienza di leggi; e la storia universale perde così per sempre il suo
significato vero e proprio. Nel medesimo
tempo diventa problematico anche il
concetto di una totalità storica in generale, e non sembrano esserci vie di soluzione. Anche la storia del
« mondo» umano non è più quell’unità
necessariamente riferita, nella sua individualità, al valore assoluto. Il suo
teatro, la terra, ha perduto il suo
significato nel cosmo infinito. Essa è diventata l’esemplare indifferente di un genere, e altrettanto
indifferente diventa, nella prospettiva
di una scienza di leggi, tutto quanto di singolare e di particolare avviene su
di essa. È importante sottolineare che tutte queste trasformazioni sono
avvenute, in linea di principio, per
opera delle dottrine di Copernico e di Giordano
Bruno e non già — come molti ritengono — per opera della biologia moderna. La teoria dell’evoluzione
ha certamente un valore straordinario
per la scienza. Abbiamo prima mostrato
che essa non è in grado di fornire princìpi filosofici positivi per una considerazione storica; dobbiamo ora
aggiungere che essa non trova più da
distruggere gli elementi essenziali della
vecchia filosofia della storia, almeno per chi abbia anche soltanto
pensato fino in fondo l’idea dell’illimitatezza temporale del mondo. Tra le scienze naturali è stata quindi
realmente importante per le questioni relative all’intuizione del mondo non
già la biologia ma l'astronomia, e anche
quest’ultima ha semplicemente avuto un significato negativo, almeno per i
problemi di filosofia della storia. Possiamo anzi dire che il passo decisivo per
la nuova svolta positiva nella
trattazione dei problemi di filosofia della storia era già stato compiuto prima che la biologia
evoluzionistica fosse giunta anche
soltanto ai suoi inizi: infatti questa trasformazione prendeva le mosse — come sempre accade quando
si tratta dei fondamenti ultimi del
nostro pensiero filosofico — da Kant,
che oggi si crede in modo alquanto sorprendente di poter confutare con
il darwinismo, cioè partendo dalla funzione del
tutto particolare presente nella connessione tra problemi gnoseologici e
problemi etici. Kant stesso ha paragonato la sua teoria della conoscenza all'impresa di Copernico, e
noi possiamo segu ire questo paragone anche in un’altra direzione. L'idealismo
trascendentale ha significato, proprio in virtù del « punto di vista copernicano », una conversione nella
via che la filosofia credeva di dover
imboccare sulla base della nuova immagine
del mondo fornita dall’astronomia: una conversione, però — e questo è l'elemento decisivo — la quale
lascia del tutto intatta la nuova
immagine del mondo e ciononostante rende possibile riprendere i vecchi problemi. Grazie a Kant
l’uomo viene posto di nuovo — con il pieno riconoscimento della moderna scienza della natura — al «centro» del mondo:
certamente non in senso spaziale, ma in
modo ancor più significativo per i
problemi della filosofia della storia. Ora tutto «gira» nuovamente intorno al
soggetto. La «natura» non è la realtà
assoluta, ma è determinata nella sua essenza universale da forme di apprendimento soggettive, e proprio
la totalità « infinita» del mondo non è che un’«idea » del soggetto,
l’idea di un compito a lui
necessariamente posto, ma nello stesso
tempo insolubile. In virtù di questo « soggettivismo » i fondamenti
della scienza empirica della natura risultano non soltanto intatti, ma
addirittura più saldi; completamente sepolti sono invece i fondamenti del
naturalismo come intuizione del mondo
che rifiuta ogni senso a ciò che è storico. Questo lavoro di distruzione, che sgombra anzitutto la via
dagli impedimenti che si frappongono a
concepire un essere come storia, è tanto
più importante in quanto, dato lo stretto legame della teoria della conoscenza con l’etica, comporta
immediatamente la fondazione di una costruzione positiva di filosofia della
storia. L'uomo non sta al centro della «
natura » solamente con la sua ragione
teoretica, ma si comprende al tempo stesso, con la sua ragione pratica, come ciò che dà un senso
oggettivo alla vita culturale, cioè come
personalità consapevole del dovere, autonoma, «libera»; e questa ragione
pratica possiede il primato. Che cosa
può ancora significare di fronte a questo il fatto che il teatro della storia rappresenta
spazialmente e temporalmente una piccola
particella destinata a scomparire, posta in un punto qualsiasi dell'universo? Per il soggetto
autonomo, teoricamente e praticamente «
legislatore », questi rapporti spaziali e temporali sono ora diventati del
tutto indifferenti nella trattazione
delle questioni di valore. Nell'indagine della « natura », inclusa la vita psichica, l’uomo autonomo lascia
piena libertà alla scienza che ha distrutto la vecchia immagine del mondo. Ma
egli non concederà mai che questa
scienza concernente l'essere delle cose
abbia qualcosa da dire sul valore o sul disvalore, sul senso o sulla mancanza di senso del corso del
mondo, poiché è assolutamente certo — in
quanto ragione pratica — della sua «
libertà », che costituisce il senso autentico del mondo e della sua storia.
Kant non ha creato egli stesso un sistema di filosofia della storia, ma sulla base del suo pensiero ne
sono sorti uno dopo l’altro, e in ciò
dobbiamo riconoscere certo un'influenza non
inessenziale. Il corso singolare dello sviluppo dell'umanità ha nuovamente potuto essere concepito — con l’aiuto
dei concetti assoluti di ragione e di
libertà — come unità, e venir articolato nei suoi diversi stadi in modo tale da
misurare ogni stadio in base al suo
contributo specifico alla realizzazione del senso del mondo. Questa possibilità di acquisire di
nuovo un rapporto positivo con la vita storica è ciò che conferisce alla
filosofia dell’idealismo tedesco il suo significato predominante e intramontabile per il futuro che possiamo
prevedere. Una filosofia che ne sia in
linea di principio incapace potrà sì
compiere qualcosa di significativo per problemi specifici, ma non produrrà mai un'intuizione del mondo
veramente comprensiva, soddisfacente per gli uomini civili, e tanto meno potrà
avanzare la pretesa di essere progredita al di là della filosofia
dell’idealismo tedesco. Dominato dall’idea che lo scopo della vita terrena
dell’umanità sia quello di orientare con la libertà tutti i suoi rapporti
secondo ragione, Fichte ha costruito
filosoficamente, per la prima volta dopo Kant, la «storia universale »
come totalità unitaria; e anche Hegel ha abbozzato in base al concetto di libertà il suo sistema
di filosofia della storia, che abbraccia
molto più delle postume Vorlesungen,
raggiungendo in tal modo il culmine — ancor oggi per molti versi incompreso — di questo tipo di
considerazione filosofica della storia.
Non possiamo addentrarci qui nel contenuto del
suo sistema; e neppure importa sottolineare le differenze che separano tra loro i concetti di libertà di
Kant, di Fichte e di Hegel. Qui importa
soltanto che la filosofia dell’idealismo tedesco ha trovato un concetto di
valore incondizionato che le ha permesso
di trattare filosoficamente, nel modo che si è detto, la totalità del corso
storico, che questo concetto di valore era al
tempo stesso abbastanza formale da servire come punto di riferimento per
la storia universale — come viene grandiosamente espresso soprattutto da Hegel — e infine che
non c’era più bisogno, almeno in linea
di principio, di presupposti del tipo di
quelli adoperati dalla filosofia della storia distrutta dalla moderna scienza della natura. Per la
filosofia della storia del nostro tempo
sorge così la questione se sia possibile, sul terreno dell’idealismo fondato da
Kant e nel pieno riconoscimento di tutti
i risultati della moderna scienza della natura, trovare anzitutto un punto di vista valutativo che
consenta di trattare filosoficamente la
storia universale, e quindi pervenire a una
filosofia della storia che in linea di principio mostri — con riferimento al sapere storico del nostro
tempo, e mantenendo intatta ogni diversità
di contenuto — la stessa struttura formale dei sistemi di filosofia della
storia di Fichte e di Hegel. Ma con
questo, e proprio richiamandoci a quei pensatori, il problema di una trattazione filosofica
dell’universo storico non sembra ancora
sufficientemente chiarito. La filosofia della storia dell’idealismo tedesco è
sì indipendente dalle dottrine della
scienza naturale, ma proprio per questo è tanto più dipendente da presupposti sull'essenza merafisica che
sta alla base del «mondo fenomenico »
della storia. Già la dottrina della libertà
di Kant è connessa con il suo concetto metafisico di un carattere
intelligibile, e in Hegel appare del tutto chiaro quanto la sua filosofia della storia sia fondata
metafisicamente. È possibile svincolare la filosofia della storia dalla
metafisica, oppure essa presuppone
sempre due specie di essere, cioè un mondo dei
fenomeni in cui si svolgono gli avvenimenti storici e un mondo della realtà vera, posta al di là dei
fenomeni, a cui gli avvenimenti storici devono essere riferiti se devono
raccogliersi in uno sviluppo unitario e
articolato? Soltanto ora siamo pervenuti al
punto decisivo, e in virtù della connessione che lega tra loro i diversi
problemi di filosofia della storia l’importanza di tale questione risale ancora
più indietro. Abbiamo scoperto che l’interpretazione del senso generale della
storia presuppone l’idea di un sistema
di valori incondizionati, a cui sia possibile commisurare i valori culturali forniti di generalità
empirica. Questo sistema non sarà forse
realmente fondato soltanto se lo si è ancorato — per così dire — metafisicamente e si può
quindi essere certi che l’essere
storico, nel suo fondamento metafisico, è anche disposto alla realizzazione di
ciò che dev'essere? Anche per la scienZa storica empirica i presupposti
metafisici sembrano indispensabili. Vi sono pensatori a cui la storia appare
come qualcosa di « spettrale » finché i
suoi oggetti, e in particolare le personalità
storiche, vengono considerati semplicemente come realtà immanenti.
Quelle che agiscono sul teatro della storia devono essere anime dotate di essenza, metafisiche, e noi
dobbiamo poterle pensare in certa misura
inserite in una grande connessione «
spirituale », che si innalza al di sopra delle anime singole e di cui nulla sa Ia semplice esperienza, ma
che costituisce il sostegno dei valori
incondizionati e senza la quale tutta la
storia sarebbe un disordine senza senso, che non avrebbe nessun significato indagare. È necessario almeno accennare a una presa di
posizione anche nei confronti di questi
problemi; e noi cominciamo con la
questione dei presupposti metafisici di cui neppure la scienza storica empirica
può fare a meno, perché soltanto così si
può rispondere alla domanda sulla necessità di assunzioni metafisiche
per la ricerca del senso della storia e per la trattazione filosofica della storia universale. Bisogna in primo luogo ammettere
incondizionatamente che molti storici
hanno una fede che, a volerla formulare concettualmente, assumerebbe un
carattere metafisico; altrettanto certo è che questa fede contribuisce a far
apparire loro veramente significativa
l'indagine della vita storica. Anche qui si può rinviare di nuovo a Ranke, il
quale designa le grandi tendenze della
storia come idee di Dio, attraverso cui si realizza il piano provvidenziale divino; e nel medesimo modo si
potrebbe mostrare che altri storici assumono presupposti sovra-empirici. Non ne sono certamente liberi soprattutto
coloro che ritengono di aver trovato le
«leggi di sviluppo» di ogni vita storica:
infatti presso di loro tale fede assume sì, sotto l'influenza della moda, un abito naturalistico, diventando la
fede in concetti di leggi intesi come
forze operanti, ma non per questo cessa di
essere metafisica. Né si può respingere il problema presente in una fede come quella manifestata da Ranke
spiegando che tutto ciò sta al di fuori
della scienza e non esercita la minima
HEINRICH RICKERT 417 influenza
su di essa, poiché quest'idea è giusta soltanto nel senso che la fede — come dice Ranke della sua
dottrina delle idee — non fa mai
violenza sulle particolarità della vita storica. Per il resto, anch'essa
appartiene ai presupposti della ricerca storica, nella misura in cui vi è
presente la convinzione che, quando
conferiamo alla vita storica in genere un significato «oggettivo », si tratta di qualcosa di più
che di un'assunzione arbitraria. Ma con questo non si è ancora detto, d'altra
parte, che proprio l'elemento metafisico
presente nella fede sia importante a tal fine. Lo storico in quanto storico
farà bene in ogni caso a considerare la
sua fede come semplice fede e a guardarsi
dal pericolo di immettere nelle sue indagini una qualsiasi metafisica
formulata scientificamente. Egli si porterebbe altrimenti sul terreno della teoria delle due specie di
essere, a cui abbiamo già accennato, e si imbatterebbe subito in grandi
difficoltà se dovesse fare dichiarazioni
sul rapporto degli avvenimenti storici,
che si svolgono soltanto nel mondo dell'esperienza, con la realtà trascendente. Anzi, già l’idea che
gli avvenimenti storici siano semplici «
fenomeni» di un essere metafisico ad
essi sottostante non è adatta a far apparire allo storico più significativa la sua ricerca, ma al contrario
gli guasta necessariamente ogni gioia nel suo lavoro. Allo studioso di
scienze naturali può forse essere
indifferente che i suoi oggetti siano fenomeni o realtà assolute. Egli li
considera soltanto come esemplari di un genere, e i concetti generali di cui va
in cerca mantengono in ogni caso la loro
validità. Invece gli avvenimenti che
sono essenziali nella loro individualità perdono il loro significato se non
possono venir considerati come realtà, e
se nell’essere immediatamente accessibile alla scienza non si realizzano anche i valori a cui lo
storico riferisce gli oggetti.
L'esigenza di una realtà autentica presente dietro di essi non deve quindi mai la propria origine a
un interesse della scienza storica. Essa
deve piuttosto venir ricondotta agli effetti
di quella strana « teoria della conoscenza » che riduce il mondo dell’esperienza a mera parvenza, a velo di
Maia, affermando che il suo
riconoscimento come realtà condurrebbe al sonnambulismo o — come si dice oggi —
all’illusionismo. Per il pensiero non
sfigurato in questa o in analoga maniera la vita data immediatamente non può
mai essere un sogno o un fantasma; e lo storico empirico deve in ogni caso
attenersi al mondo accessibile alla sua
esperienza. In esso egli deve vedere
l’unica realtà che gli importa come storico, accantonando la questione del suo « substrato »
metafisico. Ma possiamo arrestarci a un
sistema di valori inteso come definitivo
anche se cerchiamo i princìpi della storia e ne interpretiamo il senso? Oppure
l’assunzione di una validità incondizionata di questi valori include
l'assunzione di una realtà trascendente, e da ciò non deriva per la filosofia —
che non può lasciare in sospeso tali
questioni — il compito di determinare il rapporto dei valori con questo mondo
metafisico? Anche qui si deve ammettere
che il presupposto di una validità
incondizionata dei valori ci conduce fuori del mondo immanente, e quindi nel trascendente, e che
affinché nulla rimanga oscuro si deve
affermare — nei confronti di una filosofia puramente immanente — la validità di
valori trascendenti. Ma assai poco si è
fatto se si crede di dover andare oltre,
spiegando che questi valori indicano anche un qualche essere trascendente. In primo luogo non ci si può
spingere, con buona coscienza
scientifica, oltre questa indicazione del tutto indeterminata; inoltre ogni
tentativo di determinare più da vicino la
realtà trascendente deve trarre il proprio materiale dalla realtà immanente o arrestarsi a pure negazioni. Non
c’è bisogno di dimostrare che non si può
asserire nulla di scientificamente
attendibile in merito al rapporto di una realtà del tutto indeterminata,
o determinata in modo puramente negativo, con il mondo immanente. La realtà trascendente
rimane quindi un concetto completamente
vuoto e infecondo anche per la filosofia della storia come dottrina dei
princìpi. Questa disciplina ha perciò
fatto abbastanza chiarendo a se stessa questo punto e accontentandosi dell’aspirazione a
determinare un sistema di valori
incondizionati. Non si obietti che il concetto di un dover essere trascendente,
che è qui presupposto, potrebbe essere
dimostrato vuoto e infecondo con i medesimi argomenti impiegati per il
concetto di essere trascendente. Certamente non è possibile determinare che cosa significa un
essere trascendente se non dicendo che
qui si tratta di valori forniti di validità
sopra-storica, atemporale, incondizionata; anche qui il concetto viene
perciò acquisito per mezzo della negazione, in quanto partiamo dal valore condizionato e togliamo
ad esso la condizionatezza. Il concetto che ne deriva ha però un significato
del tutto differente da quello che sorge
quando, per ottenere il concetto di
essere trascendente, partiamo dal concetto dell’essere immanente e neghiamo la
sua immanenza. Con questa negazione togliamo all’essere ogni contenuto, mentre
al dover essere lasciamo il contenuto e
gli togliamo soltanto una limitazione, che gli impedisce il pieno dispiegarsi
di una tendenza in esso presente — la
tendenza a valere. Questa differenza tra
essere trascendente e dover essere trascendente può forse venir chiarita nel modo migliore richiamandoci al concetto
kantiano di idea. Kant trasforma appunto
il concetto di realtà trascendente nel concetto di dover essere trascendente,
stabilendo in tal modo sia il diritto
sia l'illegittimità di una scienza che
aspiri all’incondizionato. La stessa cosa avviene se ci arrestiamo al dover essere trascendente e rifiutiamo un
essere trascendente: proprio la filosofia della storia come scienza dei
princìpi non ha alcun motivo di seguire
l’indicazione dei valori trascendenti verso un essere trascendente. Sono,
appunto, soltanto valori quelli che essa trova come princìpi della vita
storica, e ad essa interessa solamente
la validità dei valori in quanto valori.
Inoltre, questa validità incondizionata deve già essere salda prima che
si possa anche soltanto parlare di un’indicazione verso una realtà trascendente; occorre cioè che
l’unico problema significativo per la dottrina dei princìpi storici sia già
risolto prima che si presenti il
problema di una realtà trascendente in generale. Perciò anche la filosofia
della storia, nella misura in cui ha a
che fare con i princìpi della vita storica, può lasciare in sospeso i problemi metafisici così come fa la
scienza storica empirica, perché in ogni
caso tali problemi non appartengono a
questa parte della filosofia. Ma che
cosa accade allora con la storia universale filosofica se siamo costretti ad arrestarci, dinanzi
alla questione della realtà trascendente
e del suo rapporto con l’essere immanente,
a un won liquet, o addirittura a respingere l’idea di una realtà metafisica in generale? Forse che la
rappresentazione filosofica sistematica
dell’universo storico, la quale non si limita ai valori ma li pone esplicitamente in
collegamento con il contenuto dell’essere storico, non perde ogni senso se in
certa misura avvicina soltanto
dall’esterno i suoi valori alla vita storica e
non può affatto presupporre se e come l’essere storico immanente è
connesso non soltanto mediante la relazione di valore, ma anche realmente, con il proprio fine della
realizzazione dei valori? Non c’è dubbio
che qui siamo di fronte a un problema
straordinariamente difficile, e che le aspirazioni metafisiche della
nostra epoca — così come si esprimono soprattutto nelle opere di Eucken® — acquistano, da questo
punto di vista, un significato da non
sottovalutare anche per la filosofia della storia. Neppure in questo contesto
si può certamente ammettere che il mondo
dell’esperienza abbia bisogno di una struttura
metafisica, perché altrimenti il mondo non sarebbe, per così dire, abbastanza reale e acquisterebbe
qualcosa di spettrale. Infatti, se non
possiamo abbracciare abbastanza realtà nell’esperienza immediata, nessun
pensiero che si muova in concetti
astratti potrà riempire questa lacuna. Ma — ci si può effettivamente
chiedere — la relazione necessaria della realtà storica con valori incondizionati non presuppone un
legame superiore tra essere e dover
essere, e nel medesimo tempo una specie di
realtà che non possiamo più concepire come immanente? Qui l’idea di una realtà metafisica sembra
inevitabile, e quindi la filosofia della
storia appare connessa alla metafisica nel modo
in cui avviene, per esempio, in Hegel.
Ma non dobbiamo forse anche qui dire che con la semplice idea di un'indicazione verso un legame
metafisico dei valori con la realtà
empirica si esaurisce pure tutto ciò che la scienza è in grado di pensare, e che è del tutto
sufficiente assumere una qualsiasi
relazione necessaria — non ulteriormente determinabile — della realtà con i
valori? Se consideriamo ancora, per
28. Rudolf Christoph Eucken (1846-1926), filosofo tedesco, autore dei
Prolegomena zu Forschungen tiber die Einhcit des Geisteslebens in Bewusstsein
und Tat der Menschhest (1885), del
fortunato volume Die Lebensanschauungen der grossen Denker (1890), di Der Kampf um einen
geistigen Lebensinhalt (1896), di Der Wakrheitsgchalt der Religion (1901),
delle Grundlinien einer neuen Lebensanschauung
(1907), di Der Sinn und der Wert des Lebens (1908), della Einfiihrung in
cine Philosophie des Geisteslebens (1908), di Mensch und Welt (1918) c di numerose
altre opere, anche di argomento storico,
cbbe larghissima notorietà per le sue doti di scrittore € per il carattere al tempo stesso
popolareggiante e retorico del suo idcalismo, Nel 1908 cbbe il premio Nobel per la
letteratura. esempio, la filosofia della
storia di Hegel, troveremo che la
metafisica ha un peso molto limitato nella descrizione di tutte le particolarità. Per delimitare e articolare
l’universo storico è importante
solamente il concetto di libertà come concetto di valore e la convinzione generalissima che lo
sviluppo verso la libertà è in qualche
modo inerente all’essenza stessa del mondo.
Qui sono però presenti solo i due presupposti già accennati di un valore assoluto e della sua necessaria
relazione con la realtà storica in
generale. Per il resto la filosofia della storia di Hegel si muove entro concetti che derivano dalla
vita storica immanente e che si riferiscono soltanto a questa vita
immanente. Non si procede così in tutti
i tentativi di filosofia della storia
che hanno la forma di una storia universale? non dobbiamo anzi dire che anche per il filosofo della
storia una maggiore quantità di
metafisica non soltanto non è richiesta, ma può
addirittura diventare dannosa? A lui, come allo storico empirico, ciò
che interessa è lo sviluppo della cultura nel mondo immanente, nel mondo spazio-temporale. Se
questo mondo immanente viene perciò ridotto da qualche metafisica a una realtà di secondo grado, se la vera realtà —
in cui i valori supremi coincidono con
l’essere supremo — viene concepita come
atemporale e aspaziale, lo sviluppo spazio-temporale, singolare e individuale,
perde allora subito ogni senso anche dal
punto di vista della filosofia della storia, così come dal punto di vista della storia empirica. A quale scopo
tutto quel processo di lotta dell'umanità, che nel corso dei millenni riesce
a realizzare solo approssimativamente e
imperfettamente ciò che è per sempre
reale nella più profonda essenza del mondo? Se
nel tempo possiamo scorgere soltanto un filo del tessuto del velo di Maia, allora non esiste più una
filosofia positiva della storia. In tal
caso il suo compito consiste solo nel comprendere la vanità di tutto ciò che è storico, in
quanto scorre necessariamente nel tempo, e nel negare con Schopenhauer ogni
senso alla storia. Se dev’esserci non
soltanto una scienza storica empirica, ma anche una filosofia della storia,
proprio l’elemento temporale presente
nel mondo dev'essere in ogni caso assolutamente reale. Ma — ci si potrebbe infine ancora domandare
— non si può forse attribuire anche a
ciò che è temporale una realtà metafisica, € l’essere trascendente deve proprio
venir concepito come necessariamente
atemporale, se si vuole pensarlo? Qui sembra
aprirsi ancora un’ultima strada per la quale unificare tra loro filosofia della storia e metafisica. Ma si
tratta di una semplice apparenza, perché
nella filosofia della storia il nervo del pensiero metafisico viene reciso
dall'assunzione di una realtà metafisica di ciò che è temporale. Quel che ci
dava soltanto un’indicazione sull’essenza trascendente del mondo era appunto la
convinzione della validità trascendente dei valori e l'esigenza del loro nesso reale con la realtà storica. Ma la
trascendenza del valore significa
proprio la sua validità atemporale, e soltanto
una realtà atemporale potrebbe essere il sostegno metafisico di valori atemporali; ma per instaurare un
legame necessario dello sviluppo storico
con valori atemporali non si può fondare la
validità dei valori su un essere metafisico che si esaurisce nel tempo. Una metafisica che voglia essere la
base della filosofia della storia si
imbatte quindi nelle maggiori difficoltà non appena aspira a una formulazione
concettuale dei suoi presupposti
trascendenti che sia in qualche modo diversa da quella contenuta nel
concetto di dover essere trascendente. Per trovare nel corso storico temporale
un senso oggettivo, abbiamo bisogno dell’atemporale. Ma non appena poniamo
questo elemento atemporale come realtà
metafisica e priviamo quindi della vera
realtà il corso storico, annulliamo ogni senso della storia e ogni possibilità di una sua trattazione filosofica.
C'è una via per sfuggire a questo
circolo, oppure ogni metafisica della storia deve naufragare in esso? Non siamo
costretti, anche in una trattazione
filosofica della storia universale, a scorgere nei valori atemporali e nella
loro relazione necessaria, ma scientificamente indeterminabile, con la realtà
temporale i presupposti ultimi a cui
dobbiamo arrestarci ? Se si dovesse
rispondere positivamente a questa domanda —
e almeno finora non vediamo alcuna via che ci permetta una risposta negativa — i compiti della filosofia
della storia, che all’inizio sembrava
scindersi in tre diverse discipline, si configurerebbero in modo del tutto
unitario. Dovendo lasciare all’indagine delle scienze particolari l’intero
campo dell’essere empirico e rinunciare a cogliere l’essenza metafisica del
mondo, alla filosofia rimane come campo
specifico il regno dei valori. Essa deve trattare questi valori come valori,
indagare sulla loro validità e penetrare le connessioni teleologiche di valore.
Uno di questi campi di valori è quello
della scienza, in quanto essa aspira
alla realizzazione dei valori di verità, e la filosofia della storia ha quindi a che fare anzitutto con
l’essenza della scienza storica. Essa la
concepisce come la rappresentazione individualizzante dello sviluppo singolare
della cultura, vale a dire dell’essere e dell’accadere fornito di significato,
nella sua individualità, in riferimento ai valori culturali. Da ciò deriva
allora che i princìpi della vita storica
sono essi stessi valori, e la trattazione di questi valori con riguardo alla
loro validità diventa perciò il secondo
compito della filosofia della storia, che però coincide in ultima analisi con il compito della
filosofia come scienza dei valori in
generale. In tal modo le due indagini che risultano necessarie stanno in una connessione
sistematica, e in questa connessione si
inserisce infine anche il terzo gruppo di questioni di filosofia della storia.
Esso costituirà la conclusione dell’intero sistema filosofico, poiché in esso
si cerca di mostrare quanto dei valori criticamente fondati si è realizzato nel
corso precedente della storia, e quali sono state le grandi epoche di
questa realizzazione dei valori, per
comprendere dove oggi stiamo in questo
processo di sviluppo e dove dobbiamo cercare il nostro compito per il futuro. La filosofia della
storia, partendo dalla logica della
storia, tratta perciò sempre di valori: in primo luogo dei valori da cui si possono derivare
le forme concettuali e le norme della
ricerca storico-empirica, quindi dei valori che
costituiscono — in quanto principi del materiale storicamente essenziale — la storia stessa, infine dei
valori la cui graduale realizzazione si
compie nel corso della storia. SIMMEL nasce a Berlino. Compe gli studi
universitari a Berlino, dove segue i corsi di storici come Mommsen e Treitschke, di psicologi come Lazarus e
Steinthal, di etnologi come Bastian, nonché dello storico della filosofia antica Zeller. Fin da questi
anni la personalità di Simmel rivela
interessi culturali molteplici, che caratterizzeranno anche in seguito la sua produzione filosofica. A
Berlino egli consegue il dottorato, con la dissertazione Das Wesen der Materie
nach Kants Physischer Monadologie. I
pregiudizi razziali ancora largamente diffusi negli ambienti universitari
tedeschi, uniti all’impressione di dilettantismo che il suo stile filosofico puo a prima vista suscitare,
rendeno lenta e difficile (nonostante
l’appoggio di amici influenti, come lo stesso Weber) la carriera accademica di Simmel, relegandolo
per molti anni nella posizione di libero docente; e soltanto egli ottenne la
nomina a professore straordinario. Ma le
sue lezioni berlinesi sono largamente
frequentate, e da esse trassero spunto allievi destinati a diventare
famosi, come per esempio il giovane Gyorgy Luk£4cs. Soltanto Simmel è chiamato
a coprire una cattedra di filosofia, a Strasburgo; e qui muore. Le prime opere di Simmel sono caratterizzate
da un prevalente interesse per le
scienze sociali, che si traduce — sul piano filosofico — nello sforzo di affrontare il problema
critico delle scienze sociali e, in
connessione con queste, della conoscenza storica. Dal saggio Uber soziale Differenzierung (Leipzig) alla Einleitung in
die Moralwissenschaft (Stuttgart-Berlin)
e alla Philosophie des Geldes (Leipzig),
la ricerca positiva sui fenomeni sociali si intreccia con il tentativo
di determinare l'ambito e l'orientamento
di indagine delle scienze sociali,
ponendo in luce la loro struttura logica e la loro relazione con
altre forme di conoscenza scientifica.
Su questo terreno Simmel prende posizione nei confronti della concezione
positivistica delle scienze sociali,
affermandone il compito descrittivo e respingendo il postulato
dell’esistenza di una struttura legale della realtà storico-sociale. Nello
stesso tempo egli si propone, richiamandosi a una prospettiva kantiana, di
determinare le categorie che stanno a base dell’elaborazione concettuale
delle scienze sociali. Ma queste
categorie vengono da lui interpretate non già
come princìpi 2 priori, bensì come punti di vista relativi sulla base
dei quali le singole discipline si
organizzano metodologicamente. Infatti
Simmel intende non tanto stabilire in linea generale il campo di
ricerca delle scienze sociali, quanto
analizzarle nei loro procedimenti specifici e
nei loro rapporti reciproci. Nell'Einleitung in die
Moralwissenschaft egli affronta il
problema dell’impostazione della scienza morale — considerata come una scienza
che si pone al confine tra psicologia, scienze
sociali e ricerca storica — nell’intento di svincolare l’etica dal
dominio di concetti generali per portarla sul terreno dell’osservazione
empirica e quindi della descrizione dei comportamenti umani. Nella Philosophie
des Geldes egli analizza il significato del concetto di denaro in relazione al concetto di valore, ponendo in
luce la sua trasformazione da valore
sostanziale in valore funzionale, cioè in designazione simbolica del diverso valore delle cose. Nell'ambito di
questa prospettiva di origine kantiana, anche se profondamente modificata,
Simmel si è pure proposto, in Die
Probleme der Geschichtsphilosophie (Leipzig), di determinare le condizioni di
validità della conoscenza storica,
considerata nelle sue basi psicologiche e nei suoi rapporti con le scienze sociali. Egli ha individuato il
fondamento della conoscenza storica nell'identità tra soggetto e oggetto —
identità che rende appunto possibile la
comprensione; cosicché le categorie storiografiche diventano presupposti psicologici, i quali assolvono la
funzione di organizzare concettualmente
il dato empirico. Perciò la loro validità risulta relativa, e parimenti relativi sono i risultati a cui
pervengono sia le scienze sociali sia la
conoscenza storica. Il culmine di
questa prima fase della produzione simmeliana è
rappresentato dalla Soziologie: Untersuchungen iiber die Formen der Vergesellschaftung (Leipzig), in cui Ja
distinzione della sociologia dalle altre
scienze sociali viene formulata su una base puramente formale, attribuendo a
queste il compito di studiare i fenomeni sociali nel loro diverso contenuto (morale, economico,
politico, e così via) e a quella
l’analisi delle forme di associazione che costituiscono la struttura propria della società in quanto tale. La
sociologia così intesa prescinde quindi
dallo studio del contenuto della società, per limitare la sua indagine ai modi di relazione tra gli
individui; essa ha per oggetto la
maniera in cui i rapporti tra gli individui si costituiscono come
fenomeni sociali. L'autonomia della sociologia dalle altre discipline
storico-sociali viene perciò ottenuta attraverso la rigorosa determinazione del
suo carattere « formale ». Già prima della Soziologie, attraverso la
critica della nozione kantiana di a priori e lo studio di Goethe, di
Schopenhauer e di Nietzsche — filosofi a
lui particolarmente congeniali — Simmel veniva enunciando i princìpi di quel relativismo destinato ben
presto a tradursi in una filosofa della vita. Dal volume su Kant (Leipzig,
1904; tr. it. Padova) a Schopenhauer und
Nietzsche (Leipzig, 1907; tr. it.
Torino, 1923), fino a Hauptprobleme der Philosophie (Leipzig, 1910;
tr. it. Firenze, 1920) e ai saggi raccolti
col titolo di Philosophische Kultur
(Potsdam, 1911), egli ha respinto il tentativo di cercare un
fondamento assoluto del conoscere, così
come delle altre manifestazioni della vita
umana, affermando la necessità di riconoscere il carattere relativo
dell’attività dell’uomo in ogni campo — e quindi anche il carattere
relativo della verità filosofica. Nel
periodo successivo, e soprattutto negli anni di
Strasburgo, questa prospettiva relativistica mette capo
all'affermazione dell’intrascendibilità
della vita. In Der
Konflikt der modernen Kultur
(Miinchen-Leipzig, 1918; tr. it. Torino, 1925) e in Lebensanschauung
(Miinchen-Leipzig, 1918; tr. it. Milano, 1938) la vita si configura come
il principio ultimo e incondizionato dal
quale traggono origine tutte le forme
della realtà, le quali sono poste in essere dalla vita e tuttavia si
contrappongono al suo fluire. La vita è infatti un processo infinito, creatore
di forme finite che si organizzano su un
piano trascendente rispetto alla vita, costituendo così i diversi mondi ideali
dello spirito: la vita cerca di travolgere
queste forme, mentre esse cercano di sfuggire a una distruzione
inevitabile. La vita può essere quindi definita al tempo stesso come « più-vita
» e « più-che-vita »: « più-vita » in
quanto processo temporale continuo che
cresce su se stessa, superando i limiti che essa si pone, e «
più-che-vita » in quanto produzione di
forme finite che emergono da tale processo.
Simmel ha applicato questa impostazione all'analisi dei più
svariati fenomeni culturali, in
particolare dei fenomeni artistici. Egli ha anche ripreso in esame — in alcuni saggi che vanno
da Das Problem der historischen Zeit
(1916) a Die historische Formung e a Vom
Wesen des historischen Verstehens (Berlin) — il problema della storicità, considerata dal punto di vista
della dialettica tra la vita e le sue
forme. Il rapporto tra la vita e la storia si presenta, in questi scritti, come il rapporto tra il processo temporale
della vita (che, in quanto tale, non è
ancora storico) e un mondo ideale che emerge da esso, contrapponendosi alla
vita e cercando di resistere alla sua opera distruttrice. L'elaborazione concettuale della conoscenza
storica coincide quindi con lo sforzo di
costituzione di questo mondo ideale, e il procedimento della comprensione sul quale la storiografia si
fonda appare qualificato non già come un
rapporto immediato, bensì come una relazione che presuppone il riferimento
all’alterità di un diverso individuo. Ricordiamo qui le altre opere di Simmel:
Philosophie der Mode, Berlin, 1905; Kan und Goethe, Berlin, 1906, e Leipzig,
1907 ?, 1916?, 19184; Die Religion,
Frankfurt a.M., 1906, 19122, 19225; Goethe, Leipzig, 1913; Rembrandt: cin Runstphilosophischer Versuch,
Leipzig, 1916; Grundfragen der Soziologie: Individuum und Gesellschaft,
Berlin-Leipzig, 1917; Der Krieg und die
geistigen Entscheidungen, Miinchen-Leipzig, 1917. Altre raccolte di saggi sono
le seguenti: Zur Philosophie der Kunst: Philosophische und kunstphilosophische
Aufsétze (a cura di Gertrud Simmel),
Potsdam, 1922; Schulpidagogik (lezioni a cura di K. Hauter), Osterwieck
/ Harz, 1922; Fragmente und Aufsitze aus
dem Nachlass und Veròffentlichungen der letzen Jahre (a cura di G.
Kantorowicz), Miinchen, 1923;
Rembrandtstudien, Basel, 1953; Bricke und Tiìr: Essays des
Philosophen zur Geschichte, Religion,
Kunst und Gesellschaft (a cura di M. Landmann,
in collaborazione con M. Susman), Stuttgart, 1957. Dei numerosi
articoli di Simmel ci limitiamo a
segnalare quelli non compresi nelle raccolte che abbiamo menzionato: Zur Metaphysik des Todes,
« Logos », I, I9I0, pp. 57-70; Das
individuelle Gesetz, « Logos », IV, 1913, pp. 117-60, poi anche in forma di volume (a cura di M. Landmann),
Frankfurt a.M., 1968; Der
Fragmentcharackter des Lebens, « Logos », VI, 1916-17, pp. 29-40;
Fragment iiber die Liebe, « Logos », X, 1921-22, pp. 1-54; tr. it. Milano,
1927. Le opere di Simmel sono state
largamente ripubblicate nel dopoguerra.
Tra le ristampe della Scientia Verlag citiamo quella della Einle:tung
in die Moralwissenschaft, Aalen, 1964‘,
quella della Philosophie des Geldes,
Aalen, 1958, e quella della Soziologie, Aalen, 19584; sono stati inoltre riediti Uber soziale Differenzierung,
Amsterdam, 1966 2, e Haupitprobleme der
Philosophie, Berlin, 19507, 1966. Un'importante raccolta di documenti è il Buch
des Dankes an Georg Simmel. Briefe, Erinnerungen, Bibliographie (a cura di K.
Gassen e M. Landmann), Berlin, 1958, apparso in
occasione del centenario della nascita.
Oltre alle traduzioni italiane già pubblicate sono in preparazione
quella della Philosophie des Geldes (per i « Classici della sociologia »
U.T.E.T.) e della Soziologie (per i «
Classici della sociologia » delle Edizioni di Comunità). Dell’ampia letteratura
critica concernente l’opera e il pensiero di Sim mel segnaliamo gli studi
seguenti: A. MAMELET, Le relativisme
philosophique chez Georg Simmel, Paris, 1914.
M. Apter, Georg Simmels Bedeutung fiir die Geistesgeschichte,
WienLeipzig, 1919. M.
FriscHersen-KonLER, Georg Simmel, « Kantstudien », XXIV, 1919, pp. 1-51.
W. Kwevets, Simmels Religionstheorie: ein Beitrag zum religibsen Problem
der Gegenwart, Leipzig, 1920. S.
Kragaver, Georg Simmel, « Logos », IX, 1920-21, pp. 307-38. W. Frost, Die Soziologie Simmels, « Acta Universitatis
Latviensis » (Riga), XII, 1925, pp. 219-313, e XIII, 1926, pp. 149-225. V. JANKÉLÉvITcH, Georg Simmel, philosophe de
la vie, « Revue de métaphysique et de morale », XXXII, 1925, pp. 213-57 e
373-86. N. J. Sevrman, The Social Theory of Georg
Simmel, Chicago, 1925, e New York,
19662. M. Srernuorr, Die Form als
soziologische Grundkategorie bei Georg Simmel, « Kélner Vierteljahrshefte fiir
Soziologie », IV, 1925, pp. 214-59. W.
Fagran, Kritik der Lebensphilosophie Georg Simmels, Breslau, 1926. G. Loose, Die Religionssoziologie Georg
Simmels, Dresden, 1933. H. MiLLEr,
Georg Simmel als Deuter und Fortbildner Kants, Dresden, 1935.
R. Heserte, The Sociology of Georg Simmel: The Forms of Social In teraction, nel volume An Introduction to the
History of Sociology (a cura di H. E.
Barnes), Chicago, 1948, pp. 249-73. « American Journal of Sociology », LXIII, 1958,
n. 2 (fascicolo commemorativo del centenario della nascita di Durkheim e di
Simmel), con articoli di K, D, Narcete, K. H. Wotrr, L. A. Coser, T. M.
Mis. Georg Simmel, 1858-1918 (a cura di K. H. Wolff),
Columbus (Ohio), 1959. M. Susman, Die geistige Gestalt Georg
Simmels, Tibingen, 1959. H. Miier, Lebdensphilosophie und Religion bei
Georg Simmel, BerlinMiinchen, 1960. A
Banri, Filosofi contemporanei (a cura di R. Cantoni), Milano-Firenze. Bauer, Die Tragik in der
Existenz des modernen Menschen bei G. Simmel, Berlin, 1962. R. H. WeincartNER, Experience and Nature:
the Philosophy of Georg Simmel,
Middletown (Conn.), 1962. P. Gorsen, Zur
Phinomenologie des Bewusstseinsstroms: Bergson, Dilthey, Husserl, Simmel und die lebensphilosophischen
Antinomien, Bonn, 1966. H. LiepescHùtz, Von Georg Simmel zu Franz
Rosenzweig: Studien zum jiidischen
Denken im deutschen Kulturbereich, Tiibingen, 1970. Un elenco completo degli scritti di Simmel
è dato da E. RosenTHAL e K. OsertaenDER,
Books, Papers and Essays by Georg Simmel, « American Journal of Sociology »,
LI, 1945, pp. 238-47. Ma la
bibliografia più completa degli scritti
di e su Simmel è quella di K. Gassen, in Buch des Dankes an Georg Simmel cit., pp. 309-65, la
cui ultima parte — concernente la letteratura critica — è riprodotta in Georg
Simmel. Se la teoria della conoscenza in generale muove dal fatto che il conoscere — considerato da un punto di
vista formale — è un mero rappresentare
e il suo soggetto è un’anima, la teoria
del conoscere storico è ulteriormente determinata dal fatto che la sua materia è il rappresentare, il volere
e il sentire di personalità, e che i suoi oggetti sono anime. Tutti i processi
esterni — politici e sociali, economici
e religiosi, giuridici e tecnici — non
sarebbero per noi né interessanti né comprensibili se non scaturissero da movimenti psichici, e non
suscitassero altri movimenti psichici. Se non vuol essere un gioco di
marionette, la storia dev'essere storia
di processi psichici, e tutti gli avvenimenti esterni che essa descrive non
sono che ponti gettati tra gli impulsi e
gli atti di volontà, da un lato, e i riflessi del sentimento suscitato da
quegli avvenimenti esterni, dall’altro. Questo
fatto non è cambiato neppure dalla concezione materialistica della storia, la quale vuol derivare i
movimenti storici dai bisogni
fisiologici degli uomini e dal loro ambiente geografico. Infatti non c'è fame che metta mai in
movimento la storia universale se non fa
male; e ogni lotta per i beni economici è
una lotta per le sensazioni di comodità e di godimento, dal cui carattere di scopo trae il suo significato
ogni possesso esteriore. Anche le
condizioni del terreno e del clima sarebbero indifferenti per il corso della
storia, tanto quanto il terreno e il clima
di Sirio, se non influenzassero direttamente e indirettamente la costituzione psicologica dei popoli. Se vi
fosse una psico * Die Probleme der
Geschichtsphilosophie, cap. I: Von den Psychologischen Vor aussetzungen in der Geschichesforschung,
Lcipizig, Verlag von Duncker und Humblot (traduzione di Barbera e R.). logia
come scienza di leggi, la scienza storica sarebbe psicologia applicata nello
stesso senso in cui l'astronomia è matematica applicata. Se il compito della
filologia è quello di conoscere ciò che
è conosciuto, la ricerca storica ne costituisce soltanto un ampliamento, in quanto accanto a ciò che è
conosciuto — ossia a ciò che è
teoreticamente rappresentato — deve conoscere anche ciò che è sentito. Questo
carattere di interiorità dei processi
storici, che fornisce il punto di partenza e il termine di ogni descrizione della loro esteriorità,
richiede una serie di presupposti
specifici che è compito della teoria della conoscenza storica porre in luce. Dietro l’4 priori assoluto dell’intelletto,
da cui prendiamo le mosse, c'è un
secondo « priori valido all’interno dell'intelletto e quindi relativo. Quando varie
rappresentazioni particolari vengono
raccolte in un concetto generale, quando un soggetto e un predicato vengono riuniti in un giudizio,
più giudizi in una massima, il materiale
è separabile dalla forma che lo contiene,
e ciascuno dei due elementi può essere rappresentato da solo. Per quanto in questo materiale possa già
essere presente molto o poco di
aprioristico e di spontaneo, nella relazione che qui consideriamo vi è un contenuto dato su cui
l’intelletto compie un'ulteriore
funzione, la quale è da parte sua 4 priori nei
confronti di quel materiale; essa non è presente nel contenuto, ma si aggiunge ad esso. Se però, secondo la
schematizzazione kantiana, esistono
soltanto tre specie di 4 priori — quello della
sensibilità, che ha per materiale le sensazioni, quello dell’intelletto,
che ha per materiale le intuizioni, e quello della ragione, che ha per materiale i giudizi — o
propriamente una sola specie, poiché le
altre devono essere ricondotte all’ priori
dell’intelletto, la considerazione empirica mostra facilmente
l’ingiustificata angustia di questa divisione. Vi sono chiaramente moltissimi gradi di 4 priori, così come vi
sono mescolanze molto diverse tra la
forma aggiunta e il contenuto preesistente.
In particolare, poi, non c'è alcun metodo che ci conduca a un sistema saldamente concluso — e garantito da
ogni spostamento di confine — delle funzioni con cui elaboriamo il
materiale conoscitivo dato di volta in
volta. Tra le forme più generali,
accessibili a ogni materiale e superiori all’esperienza individuale, e
le forme specifiche, acquisite empiricamente e applicabili come a priori
soltanto a certi contenuti, non vi sono distinzioni nette e sistematiche, ma
trapassi graduali: così per esempio tra
la legge causale o la connessione in un concetto di ciò che è identico in oggetti diversi, da un lato, e
i presupposti metodici (o di altro tipo) di un particolare settore della vita,
di una particolare scienza, dall’altro.
Ogni formazione giuridica presuppone l’aspirazione a un determinato stato. Che
i rapporti umani consentano il
conseguimento di uno stato del genere
solamente mediante norme stabilite e determinazioni di pene per la loro trasgressione è un 4 priori molto
generale che ha per conseguenza una
certa formazione, cioè un legame di rappresentazioni preesistenti. Ma per la
formazione di leggi questa forma di connessione non è tanto generale quanto
può esserlo la connessione causale tra
motivazione psichica e azione esteriore,
che — parimenti necessaria per l’elaborazione giuridica — può essere istituita
tra i fenomeni, ma non tratta immediatamente da essi. D'altra parte l’a priori
che costituisce la forma del diritto è,
a sua volta, un elemento generale rispetto
ai presupposti da cui scaturisce nel caso particolare la formulazione
giuridica. Così il principio che la prova spetta all’accusatore, o la diversa
validità del diritto consuetudinario, produce
un'elaborazione dei fatti in vista dello scopo di conoscere che cosa sia giusto — un’elaborazione che non è
presente nel materiale stesso, ma che solo in esso compie la sua funzione
interpretativa, Con pieno diritto Kant
ha rivolto il proprio senso critico
contro gli empiristi che volevano limitare le loro ricerche alla semplice recezione di impressioni sensibili,
alla registrazione di elementi di fatto
comprovabili immediatamente. Egli ha mostrato che, senza neppure avvedersene,
essi fanno continuamente uso di proposizioni metafisiche non dimostrate e che
soltanto in base a queste istituiscono quella connessione tra i dati sensibili che fa di quest'ultimi
un'esperienza intelligibile. Ma
l'influenza e la necessità dei presupposti inconsci e indimostrati si estende molto al di là di ciò che mostrano
le indagini di Kant. In ogni momento sia
la teoria che la prassi fanno uso di
forme di connessione del materiale empirico, cioè di quella facoltà plastica dello spirito in grado di
fondere ogni contenu b ce) to dato — attraverso il modo di ordinarlo, di
accordarlo e di sottolinearlo — nelle più diverse forme definitive. Queste
connessioni che — espresse in forma di principi — appaiono come presupposti 4 priori, rimangono inconscie
nella misura in cui la coscienza in
generale si dirige più al dato, a ciò che è
relativamente esterno, che non alla propria funzione interna. Infiniti contenuti di pensiero attraversano
lo spirito, prima che abbia coscienza
del fatto che pensa; esso osserva gli oggetti del mondo esterno molto prima dei processi che
avvengono al suo interno, e quanto più
il processo è interno, ossia quanto più è
— si potrebbe dire — psichico, tanto più tardi esso ne consegue la coscienza, che inerisce piuttosto ai suoi
stimoli esterni. E tanto più la
coscienza inerisce a questi ultimi quanto più essi, con la varietà del loro mutare e la nettezza
delle loro antitesi, stimolano
continuamente la sensibilità psichica alla distinzione, mentre le funzioni formali dell'anima sono di
numero più limitato e si offrono ai contenuti più diversi in modo sempre
eguale, producendo in virtù della loro esistenza permanente e della loro universalità endemica quella
consuetudine ad esse che fa scivolare la
coscienza al di sopra di loro come su qualcosa di assolutamente ovvio. Anche qui vale la
profonda osservazione di Aristotele che
ciò che viene per primo nell’ordine razionale
delle cose — la funzione conoscitiva dello spirito — viene per ultimo nella nostra considerazione e
osservazione. Ma in quale misura questo
dominio inconscio delle forme di connessione si
estenda sul materiale dei fatti, non è stato riconosciuto da Kant in tutta la sua ampiezza a causa della
netta separazione da lui operata tra l’a
priori e ogni elemento empirico. Poiché
oggi estendiamo l’esperienza molto più in alto di quanto non facesse Kant, per noi l’4 priori si estende
anche molto più in profondità. Nel
rapporto reciproco tra gli uomini ognuno deve
in ogni momento presupporre negli altri la presenza di processi spirituali che non può constatare
immediatamente, ma senza i quali le
azioni di questi altri apparirebbero una mescolanza di impulsi improvvisi, priva di senso e di
connessione: noi li completiamo così
come completiamo la macchia cieca che interrompe la nostra immagine, senza
avvertire l'interruzione, dato che tale
integrazione ci appare cosa ovvia. Come comprendiamo l’interno soltanto per
analogia con l’esterno — cosa che il
linguaggio già indica quando designa tutti i processi psichici con
termini tratti dal mondo dell’intuizione esterna — così d’altra parte intendiamo l’esteriorità degli
uomini soltanto in base all’interiorità
sottostante. Ma proprio per questo motivo
integriamo anche l’esterno così come lo richiede la connessione interna già postulata, cioè in quanto esiste
in generale una connessione interna. Si
può ben affermare che nessun cronista ci
racconta in modo preciso ciò che ha visto dello sviluppo di un avvenimento al quale ha assistito: lo
conferma ogni interrogatorio giudiziario di testimoni, ogni narrazione di un
tumulto. Pur con la migliore intenzione di attenersi alla verità, il narratore aggiunge a ciò che ha
immediatamente visto elementi che
completano l’avvenimento nel senso che egli ha tratto fuori dal dato: e anche l’ascoltatore deve sempre
vedere nel suo spirito, in base alle sue
esperienze e alla fantasia da esse determinate, più di quanto gli viene
effettivamente detto. La fisiologia dei sensi ci ha mostrato innumerevoli casi
in cui integriamo inconsciamente, in oggetti e movimenti particolari, le
impressioni frammentarie dei sensi così come lo richiedono le esperienze già fatte. Nel caso di avvenimenti
complessi avviene esattamente lo stesso;
nel caso degli avvenimenti storici l’integrazione esterna è essenzialmente
determinata da ipotesi psichiche, dalle esperienze relative alla continuità e
allo sviluppo della vita psichica, alla
correlazione esistente tra le sue energie, al corso dei processi teleologici.
Non soltanto tutto questo è presupposto
per impulso da parte dei rapporti esterni, ma,
una volta che ciò sia presupposto, gli avvenimenti esterni vengono
integrati nella misura in cui anch'essi — commisurati alle leggi dell’esperienza relative alla
connessione tra interno ed esterno —
forniscono ora ai processi interni una serie parallela ininterrotta. Proprio questa integrazione
spontanea di ciò che è esterno
costituisce una delle prove più forti del fatto che anche l'interno non è semplicemente derivato dai
fatti, ma viene aggiunto ad essi sulla base di presupposti generali. Partendo
dall'aspetto puramente esterno che uno offre all'altro si inferiscono, in base
a innumerevoli presupposti, le idee e i sentimenti dell’altro — che al massimo rappresenta
un’inferenza dall’ effetto alla causa.
Nelle faccende quotidiane troviamo sufficienti occasioni di comprovare la
correttezza di tale inferenza, poiché il
comportamento esterno dell’altro, previsto in anticipo, risponde
realmente senza eccezione al nostro agire che giunge fino a lui. Soltanto per processi psichici superiori e
più complicati queste inferenze
diventano incerte, inducono a innumerevoli errori e forniscono così la prova che anche nei casi
più sicuri si tratta solo di
presupposti, i quali vengono collocati dinanzi al dato e debbono la loro sicurezza all’utilità
pratica, ma non a un’interna necessità
che li fa scaturire in maniera razionale da
quel dato. Questi presupposti
della vita quotidiana si ripetono ora nella ricerca storica in modo più
compiuto e più ricco di influenza che in
qualsiasi altra scienza, compresa perfino la psicologia. Quest'ultima assume infatti i presupposti in
questione come oggetti d'indagine ®. La
ricerca storica assume invece i presupposti psicologici senza che siano
comprovati e in modo non metodico. Anche
se questi presupposti fossero così ovvi che
ogni fatto esterno potesse disporsi senza difficoltà e in modo del tutto univoco sotto il presupposto ad
esso adatto, la loro determinazione
costituirebbe già un compito considerevole. Questo diventa però estremamente
più sottile e più difficile in quanto talvolta vediamo connesse allo stesso
avvenimento interno conseguenze esterne
totalmente differenti. Ciò è per noi comprensibile soltanto in virtù di una
diversità degli elementi concomitanti o delle conseguenze psichiche di quel
primo avvenimento, che dev'essere quindi ricondotto ora sotto una norma psicologica, ora sotto un’altra del tutto
opposta. Per esempio Sybel® racconta, a
proposito del rapporto tra il Comitato di
salute pubblica e gli hebertisti nel 1793: «Essi {gli hebertisti] erano stati fin allora in rapporti eccellenti
con Robespierre, perché quest’ultimo si
era appoggiato sulle loro forze e aveva
perciò assecondato i loro desideri. Ciò che però li separava fin da allora in modo irrevocabile era la
semplice circostanza che Robespierre era
diventato la guida del supremo potere statale,
mentre gli hebertisti erano rimasti in una posizione subordina a. Certamente essa assume, anche da parte
sua, parecchi presupposti che rimangono
impliciti in tutte le conoscenze di altro genere da essa dipendenti.
b.
Cfr. H. von SyBet, Geschichte der Revolutionszeit von 1789 bis 1798, Diisseldorf. ta». I fatti esterni — Robespierre asseconda i desideri
degli hebertisti; essi si legano a lui;
egli ottiene una posizione dominante; essi si distaccano da lui —
costituiscono, in base ai presupposti
psicologici sottostanti, una serie ben comprensibile. E tuttavia tali presupposti non sono affatto
così cogenti e univoci come appaiono a prima vista. Abbastanza spesso accade
che, assecondando i desideri di
qualcuno, dimostrandogli favore con le
proprie azioni, se ne ottenga la simpatia e la dedizione pratica; ma accade anche il contrario. Così
si racconta, nelle sanguinose faide familiari del Trecento, di un nobile
ravennate che aveva riunito tutti i suoi
nemici in una casa e che avrebbe potuto
senz'altro sopprimerli; invece di farlo, li lasciò liberi e per di più fece loro ricchi doni: quelli
avrebbero allora agito contro di lui con
raddoppiata violenza e malizia e non avrebbero avuto pace fino al suo
annientamento — e ciò, aggiunge il
racconto, perché la vergogna per il beneficio ricevuto non li avrebbe lasciati in pace. Anche qui la serie
degli avvenimenti esterni ci è
pienamente comprensibile perché integriamo come
presupposto psicologico e come elemento di mediazione appunto quella
depressione del sentimento di personalità che spesso trasforma il beneficio ricevuto in un tarlo
roditore nel beneficato, rendendolo nemico del benefattore. Per il nostro scopo
è indifferente il fatto che nell'esempio
precedente siano tramandate testimonianze dirette di partecipanti, che ne
esprimano la costituzione psicologica,
di modo che lo storico aveva bisogno di addurle come presupposto: infatti non
soltanto egli deve accettare la
tradizione immediata in. innumerevoli casi
analoghi, in cui viene riferito qualcosa di puramente esterno, ma l’accetterebbe anche soltanto se riconosce
come possibile sia l’una sia l’altra
costituzione psicologica e può ricostruirla in
virtù della propria esperienza connessa. Inoltre noi comprendiamo che
l’assunzione di Robespierre a capo del governo comportava azioni ostili degli
hebertisti contro di lui, per il solo fatto
che ne suscitava l’odio e la gelosia. Accetteremmo però senz'altro come
probabile anche la narrazione del risultato opposto: che cioè il pieno dispiegarsi della potente
personalità di Robespierre, la posizione dominante a cui era pervenuto,
avesse spezzato anche interiormente ogni
opposizione di quel partito te) in quanto esso, sapendo di non poter far
nulla contro, avrebbe voluto almeno mantenere con la docilità e la subordinazione una qualche partecipazione al potere — un
comportamento che comprendiamo
benissimo, in base alle norme psicologiche presupposte se, per esempio, ci
viene raccontato a proposito del senato
romano nell’epoca della dittatura militare.
Nell’un caso ci soddisfa il fatto che il beneficio o il conseguimento
del potere abbia un effetto psichico di adesione, nell’altro che abbia un
effetto di distacco, senza però trovare in esso, come atto esterno, il fondamento di questa
diversità. Piuttosto, sulla costituzione
psicologica che ha deciso tra le due alternative ci informa soltanto
l'avvenimento successivo, che però è
comprensibile solo in virtù dell’ipotesi di quella precedente affezione
psichica. Facciamo ancora un secondo
esempio. Knapp* dice, a proposito della situazione agraria russa dopo
l’abolizione della servirtù della gleba: «I contadini si impegnarono a fornire
al signore fondiario determinate
prestazioni in cambio di un salario. I contadini lo fecero molto mal
volentieri, poiché il mutamento di base giuridica non consolava il contadino
della continuità del fatto di lavorare per il signore; e neppure al
signore la cosa era di grande aiuto
perché la prestazione dei contadini, ora
pattuita anziché obbligata, veniva effettuata malamente nonostante che fosse
pagata ». La prima motivazione presuppone
come ovvio, o almeno tale da non richiedere un’ulteriore discussione,
che la conseguenza di una determinata situazione sul modo di sentire non muta finché questa rimane
esteriormente la medesima, anche se è
mutato del tutto l'elemento interno che
produceva in origine quella conseguenza. La seconda motivazione presenta come
cosa chiarissima il fatto che il contadino su cui non si ha più un potere
assoluto, ma con cui bisogna scendere a
patti, lavori peggio di prima. Se i fatti
mostrassero che in Russia i redditi economici sono costantemente
aumentati dopo il 1864, motivi psicologici esattamente opposti avrebbero connesso causa ed effetto in modo
non meno plausibile; si sarebbe senz’altro considerato che non già l’agire
esterno, ma il fondamento etico e il motivo per cui ciò accade a. G. F. Knapp, Die Bauern-Befreiung und
der Ursprung der Landarbeiter in den dlteren Theilen Preussens, Leipzig. sono
decisivi riguardo al fatto di lavorare con piacere e amore oppure con sentimenti opposti. E riguardo
alla coercizione al lavoro contadino,
dalla Prussia ci giunge invece, prima dell’abolizione della servitù della
gleba, la lamentela costante che la
corvée è il lavoro peggiore, il più negligente e privo di
coscienziosità. Senza voler trarre da esempi di questo genere — che si trovano in ogni parte di qualsiasi opera
storica — uno scetticismo a basso prezzo
e ingiustificato nei confronti dell’interpretazione psicologica in generale, tali differenze di
interpretazione possibile devono renderci attenti al fatto che non si può
considerarle come un fattore sempre
eguale, e quindi trascurabile. Piuttosto,
la constatazione dell’una o dell’altra conseguenza, sulla base di un ulteriore avvenimento esterno, è decisiva
per stabilire la costituzione psichica
che dominava la situazione iniziale e pertanto — come la direzione di una retta
è determinata da due punti stabiliti —
il carattere complessivo dello sviluppo. Ma
questi presupposti, e il significato della scelta tra di essi, rivestono
una particolare importanza negli innumerevoli casi in cui le imprese esterne non sono tramandate in modo
scevro di dubbio e univoco, e in cui
l'accertamento e l'ordinamento dipendono
dalla loro probabilità psicologica. Anche nei casi più sicuri, però, non è il «semplice fatto» che decide
dell’intelligibilità della conseguenza,
ma sono i principi psicologici a cui il « semplice fatto » si subordina come
premessa minore, per far apparire l'avvenimento successivo come possibile e
intelligibile. Dietro le azioni visibili degli uomini si sottintendono scopi e
sentimenti invisibili, che sono necessari per connettere in modo intelligibile quelle azioni. Se non potessimo
procedere al di là del materiale storico
realmente constatabile, sarebbe in forse la
costruzione di un qualsiasi sviluppo, la possibilità di comprendere un
qualsiasi elemento singolo in base a un altro. Helmholtz ha detto una volta che
la dimostrazione della legge causale sarebbe assai debole se dovesse venir
derivata dall’esperienza; i casi della sua piena dimostrabilità sono rari in
rapporto al numero sterminato di quelli
che si sottraggono a una più completa
penetrazione causale. Se ciò vale già per i processi della natura sottostante la vita psichica, ancora
più rara deve diventare la dimostrazione
della causalità in base alla stretta
esperienza laddove il complicato e oscuro elemento dei processi
cerebrali si inserisce tra i processi visibili dei quali si indaga il legame causale. È chiaro che avremmo una
prospettiva completa se penetrassimo fino in fondo le influenze e le
trasposizoni esterne e corporee che
hanno luogo tra i singoli atti di una
personalità storica, e conoscessimo inoltre il valore psichico di ogni processo cerebrale presente in questa
serie. Questo è però un ideale
irraggiungibile; cosicché noi ci aiutiamo almeno inserendo dei processi
psichici dietro e tra i processi esterni. Qui
l'elemento ipotetico, che esige una particolare considerazione metodologica, non è tanto l’ipotesi di un
elemento psichico in generale, che
risieda inafferrabile dietro i fenomeni, quanto il contenuto specifico dei processi di coscienza
supposti. Certamente anche tale elemento — per quanto possa sembrare
straordinario considerarlo ancora come ipotesi — non è affatto un fondamento
così semplice e indiscutibile della narrazione storica; e non lo è perché il rapporto tra processi
coscienti e processi inconsci in noi è
assai incerto. In particolare, quando si tratta
di movimenti di interi gruppi che possiamo spiegare anche soltanto in base a posizioni di scopo e a
impulsi sentiti, sono spesso
determinanti processi organici che non hanno alcun aspetto di coscienza. Tanto qui quanto negli
individui singoli moltissimo di ciò che,
per la sua conformità formale a uno
scopo, viene ricondotto a cause interne alla coscienza accade per suggestione, o per un meccanismo motorio
ormai fissato da cui sono da lungo tempo
esclusi gli elementi coscienti, o per
uno stimolo inconsapevole. Come la formazione conforme a scopi dell'essere vivente induce gli spiriti
che riflettono ad ammetterne una causa intelligente, perché si è abituati a
considerare la conformità a scopi soltanto come conseguenza di una volontà cosciente e pensante, così noi ci
rappresentiamo — compiendo lo stesso errore — le più svariate azioni umane
come effetti di una posizione cosciente
di scopi, anche se procedono da tendenze
del tutto meccaniche e da necessità inconscie. Se i movimenti dei nostri organi interni, il
lavoro del cuore, i processi di digestione, avvengono nel modo più utile per il
conseguimento degli scopi vitali, e senza che ne abbiamo affatto coscienza, lo stesso sviluppo che ha regolato
questi processi poteva ben ordinare
anche i nostri processi cerebrali in modo
tale da promuovere la vita senza bisogno di una coscienza. GEORG SIMMEL 443 Anche se si affermasse che la scienza
storica deve descrivere soltanto la
storia dei processi coscienti, tuttavia i processi inconsci si inseriscono in
modo così vario tra quelli coscienti e ne
costituiscono così diffusamente il substrato che senza il ricorso ad essi non si può conseguire una spiegazione
sufficiente dell’elemento cosciente; e questa spiegazione fallisce
necessariamente se alla base di ogni azione visibile si vogliono porre
idee chiare e una cosciente conformità a
scopi. Stabilire se dietro l’azione stia
un processo psichico cosciente esprimibile con parole — e una risposta positiva
costituisce il presupposto di ogni
narrazione storica — è una questione particolarmente difficile nel caso di quei processi che devono
realmente a una coscienza la conformità
della loro forma a uno scopo e l’impulso alla
loro realizzazione in determinate situazioni, ma che in seguito l'hanno perduta poiché l’azione si è
gradualmente trasformata in un’azione
meramente riflessa e istintiva. Se per esempio la conformità a scopi e la necessità hanno
indotto un gruppo a guerre ripetute, da
ciò può svilupparsi una tendenza bellica, e
dinanzi alle sue successive manifestazioni sarebbe vano cercarne la ragion sufficiente nella coscienza di chi
agisce. Oppure, la sottomissione e la
servilità di un ceto rispetto a un altro possono essere sorte da cause del
tutto coscienti; se però queste sono
durate un lungo periodo, non si può più interrogare la coscienza degli
individui per averne informazioni sullo scopo del particolare comportamento in
questione: per quanto uno scopo possa essere ancora sempre presente, la
coscienza di esso è in ogni caso tramontata
e l’azione se ne presenta priva. È però evidente che l’azione comparirà facilmente anche
quando lo scopo non sussiste più, e un
qualsiasi impulso esterno o abitudine interna
produce uno stimolo formalmente affine a cui l’azione risponde in modo riflesso. È perciò ben chiaro a base
di quali errori stia il presupposto
ingenuo che cerca senz'altro in processi psichici coscienti la connessione significativa tra le
azioni dei singoli o dei gruppi,
facendole scaturire dal carattere teleologico di quei processi.
Del resto la scienza storica lavora di fatto anche in base al presupposto di un inconscio parziale o
totale. Sentiamo parlare dalla tendenza
di parecchie stirpi a impadronirsi irresistibilmente di ciò che sta intorno e a
spostare in avanti senza sosta, come spinte da un impulso di crescita fisica, i
loro confini; si parla dell’oscura
spinta dei popoli tedeschi verso l’Italia come
dell’istinto dell’uccello migratore, che impulsi del tutto inconsci spingono
a seguire determinate direttrici del cielo; d'altro lato si parla dell'immobilità e
dell’indolenza di alcune stirpi, le quali certamente spesso non pervengono alla
coscienza del singolo ma determinano il
suo comportamento come una forza
naturale, mentre egli crede di essere attivo e capace di reazione. Occorre infine ricordare quelle
formazioni oggettive che fondano
propriamente — come un possesso collettivo spirituale — la società: il diritto
e il costume, il linguaggio e il modo di
pensare, il culto e la forma di commercio. Certamente, tutto ciò non sarebbe
mai sorto senza l’attività cosciente
degli individui; ma questa non si è quasi mai orientata verso la formazione che alla fine ne risulta come se
costituisse il suo scopo. Ciascuno
lavora piuttosto alla propria parte, mentre la
totalità di cui è parte si sottrae al suo sguardo; il confluire dei contributi, il costituirsi della forma
sociale che questo materiale individuale
assume non rientra più nella coscienza del singolo lavoratore. Nella coesistenza con gli altri
egli cerca l’espressione più adeguata per la sua inclinazione e per il suo
ritegno, per la sua indifferenza e per
il suo interesse, scoprendo in tal modo
certe parti delle forme di rapporto speciale; il suo bisogno religioso lo spinge a parole e ad azioni in
cui crede di trovare i ponti più sicuri verso
il principio divino, e in questo modo
costruisce l’edificio del culto; mediante certe regole di prudenza cerca
di proteggersi dalle soperchierie nella conduzione degli affari, e così fonda
le usanze commerciali comuni. Di ogni
azione mossa dall’interesse particolare che non abbia carattere distruttivo, di qualsiasi relazione tra
uomini rimane — quasi come caput mortuum
— un contributo alla formazione dello
spirito pubblico, dopo che i suoi effetti sono stati distillati attraverso mille sottili canali sottratti
alla coscienza dell’individuo, Ciò vale particolarmente per il tessuto della
vita sociale: nessun tessitore sa che
cosa sta tessendo. Tuttavia le formaziono sociali superiori possono sorgere
soltanto tra esseri che posseggano una coscienza degli scopi; ma essc sorgono,
per così dire, accanto alla coscienza
degli scopi propria degli individui, in
virtù di un processo formativo che non ha luogo in essa — e ciò già per il
fatto che per ottenere quell’effetto sociale è richiesta la conformità e la
contemporaneità di innumerevoli azioni
di altri, che l'individuo può prevedere soltanto in casi rarissimi. In
breve, dietro le manifestazioni storiche visibili non si può ipotizzare come loro funzione costante
una piena coscienza, al fine di interpretarle e di collegarle; ma sebbene una
tale coscienza debba costituire nel
complesso il presupposto dello storico,
egli lo sospende abbastanza spesso. Una filosofia della storia dovrebbe stabilire in quali casi Io
storico — guidato dall’istinto o dalla riflessione — astrae dalla conformità
cosciente a scopi nelle azioni umane.
Essa dovrebbe cioè indagare quando
dobbiamo porre a base della spiegazione dell’accadere una volontà e un
pensiero cosciente, e quando siamo soliti rinunciare a tale ipotesi. Il compito specifico non
consisterà qui nel determinare per la storiografia leggi pratiche in merito
alla giustificazione di questa o quell’ipotesi. Ciò sarebbe possibile
soltanto alla psicologia. La teoria
della conoscenza dovrebbe piuttosto
soltanto stabilire in quali casi al nostro bisogno di spiegazione basta l’una e in quali l’altra ipotesi. Le
rappresentazioni storiche — non come devono essere, ma come esse sono
realmente — dovrebbero venir analizzate
in base ai princìpi secondo cui, anche
inconsciamente, decidono sull’ipotesi di una coscienza o di un’inconsapevolezza sottostante alle azioni
fisiche. Presupponendo questa coscienza,
passiamo ora a ipotizzare i suoi
contenuti. Anzitutto, anche a questo proposito si tratta di un presupposto molto generale. Che tali
elementi psicologici di connessione che
lo storico aggiunge agli avvenimenti siano veri
oggettivamente, cioè valgano a indicare realmente gli atti di coscienza delle persone che agiscono, non
avrebbe alcun interesse per noi se non comprendessimo questi processi in base
ai loro contenuti e al loro corso. Se
ciò non avvenisse, quella
interpretazione corretta potrebbe essere ottenuta con qualsiasi mezzo — come per esempio quando essa non ha
bisogno della ricostruzione psicologica
da parte dello storico, ma è in apparenza immediatamente data dalle
manifestazioni e dalle confessioni delle singole personalità; tuttavia non
potremmo concedere ad essa il carattere di verità. Che cosa significa
allora questo comprendere, e quali sono
le sue condizioni? La prima condizione
consiste chiaramente nel fatto che quegli atti di 446 GEORG SIMMEL coscienza vengono riprodotti in noi, cioè
che possiamo (come si dice) «
trasferirci nell'anima delle persone ». Comprendere una proposizione significa che i processi
psichici di colui che parla, consegnati
nelle parole, vengono da queste appunto stimolati nell’ascoltatore; non appena si ha una
differenza essenziale tra le
rappresentazioni di due persone, la parola che va dall’una all'altra viene fraintesa o non è compresa.
Una riproduzione diretta di questo
genere ha luogo ed è sufficiente soltanto dove
si tratti di contenuti teoretici di pensiero, per i quali non è essenziale che essi abbiano il loro punto di
partenza nelle rappresentazioni proprio di questo individuo. Nelle conoscenze
oggettive o logiche io mi rapporto all’oggetto del conoscere nell’identico modo
di colui di cui « comprendo » le rappresentazioni; egli me ne comunica soltanto
il contenuto e dopo di ciò viene di
nuovo, per così dire, escluso. Da allora il contenuto è presente parallelamente nel mio pensiero e
nel suo, senza dover subire trasposizioni
o modificazioni per il fatto di avere in
questo la propria origine.
Questo rapporto già si modifica in qualche maniera laddove si tratta non di un semplice processo
teoretico di idee, che ci si può
rappresentare come rispecchiamento del comportamento oggettivo dello cose (che
si offre a tutti nella stessa misura) nelle
forme logiche, ma è in questione la comprensione di processi soggettivi. Noi pretendiamo tuttavia di
comprendere ogni specie e ogni grado di amore e di odio, di coraggio e di
disperazione, di volontà e di sentire, senza che le manifestazioni in base a cui comprendiamo tali affetti ci pongano
nella stessa parzialità ad essi propria. Tuttavia quel processo psichico che
chiamiamo comprensione può consistere solamente in una trasformazione
psicologica, in una condensazione o anche in un rispecchiamento sbiadito di
quegli affetti: in tale processo deve in qualche modo-esserci il loro
contenuto. Se sopra abbiamo indicato
come compito della storia quello di conoscere non soltanto ciò che è conosciuto, ma anche ciò che è voluto e
sentito, questo compito può essere
risolto solamente in quanto esiste qualche
specie di trasposizione psichica per partecipare al voluto e al sentito. Infatti quell’essere sentito reale,
che ha avuto luogo in qualche momento
del passato, non costituirebbe altrimenti la
condizione sotto la quale avviene ciò che chiamiamo comprensione. Chi
non ha mai amato non comprenderà mai colui che
ama, il debole non comprenderà mai l’eroe, né il collerico comprenderà il flemmatico; e viceversa la
nostra comprensione dei movimenti, dei
tratti del volto e delle azioni altrui si
esprime tanto più facilmente quanto più sovente abbiamo noi stessi sentito gli affetti di cui
costituiscono il simbolo; si esprime anzi più o meno facilmente nella misura in
cui la nostra situazione interiore del
momento ci dispone a sensazioni analoghe o a sensazioni distanti, agevolando o
rendendo difficile la riproduzione
psicologica. La ripetizione degli atti di coscienza che si compiono nell’altro individuo è quindi
presente in qualche forma — della cui origine non possiamo ancora farci un quadro positivo — nella comprensione dei
propri, ed è indispensabile a questo scopo.
La trasformazione che diventa così necessaria mostra ora un approfondimento significativo se, più che al
contenuto della comprensione, si guarda
al fatto che si tratta del processo di
rappresentazione di un altro, di un non-io, che è appunto un non-io. Certamente, nel caso di oggetti
umani si pongono in dubbio le
conseguenze gnoseologiche della convinzione che
gli oggetti conoscitivi non ci sono dati nel loro in sé, ma soltanto come rappresentazione. La storia —
si potrebbe dire — ci è accessibile in
un modo completamente diverso dalla natura.
La distinzione tra io e non-io avrebbe un senso completamente diverso se entrambi i termini fossero anime;
infatti essi sarebbero differenti soltanto dal punto di vista numerico, e non
in linea generale, e se nessuno spirito
può penetrare all’interno della natura,
potrebbe però penetrare all’interno di un altro spirito che esso rispecchierebbe in sé in modo del
tutto adeguato. Con un pilastro così esile
non è quindi ancora possibile gettare un
ponte sull’abisso tra io e non-io. Anzitutto, la loro identità generale non elimina la necessità di
esteriorizzazioni, di trasposizioni e di simbolizzazioni di ogni sorta che
servano a mediarli. Un rispecchiamento immediato, una comprensione immediata
derivante dall’identità di natura sarebbe una lettura del pensiero e
telepatia,oppure presupporrebbe un'armonia prestabilita non meno mirabile di quella leibniziana.
Piuttosto, la stessa conoscenza di un processo spirituale costituisce, da parte
sua, un processo che può venire soltanto
stimolato e dev'essere compiuto dal soggetto. Ma ciò trasformerebbe alla fine
il parallelismo di fatto da un rapporto
diretto in un rapporto indiretto; in
definitiva, nonostante tutte le inevitabili complicazioni, un processo
psichico potrebbe rispecchiarsi in un’altra anima con la medesima precisione con cui le parole
affidate a un apparecchio telegrafico si
riproducono in quello della stazione ricevente,
anche se ciò che sta nel mezzo e che fa da tramite sono processi completamenti eterogenei. Ma la
difficoltà più profonda consiste nel fatto che i processi così prodotti in me,
nel medesimo tempo non sono i miei: io
li penso come storici, anche se li
rappresento ed essi sono quindi mie rappresentazioni come processi (e
rappresentazioni) di un altro. E
neppure basta, se vogliamo conoscere un altro, che riproduciamo in noi stessi i
suoi processi psichici e aggiungiamo:
non sono io, è lui a sentire così! In primo luogo, infatti, secondo questo presupposto io sento
effettivamente così, e quell'aggiunta non può essere i forma di supplemento al
contenuto, di modo che entrambi rimangano reciprocamente isolati, ma deve penetrare quel contenuto,
accompagnarlo immediatamente come suo esponente. Questo sentire ciò che
propriamente non sento, questo riprodurre una soggettività che è però possibile, ancora una volta, soltanto in una
soggettività che si contrappone
oggettivamente a quella — ecco l'enigma del conoscere storico, per la cui
comprensione le nostre categorie logiche e psicologiche sono chiaramente
strumenti ancora troppo grossolani. In
questo conoscere sono certamente presenti entrambi gli elementi — vale a dire
il compimento da parte propria dell’atto
in questione e la coscienza che è accaduto in
altri; ma questa è soltanto una scomposizione successiva in elementi di cui il processo della conoscenza
storica non mostra coscienza alcuna. Qui
non si tratta tanto di una scomposizione
successiva di elementi che preesistevano separati, così come
nell'intuizione del mondo esterno la sensazione e l'intuizione spaziale non
esistono separatamente per poi riunificarsi in quella. La proiezione di un rappresentare e di un
sentire sulla personalità storica è un atto unitario, la cui condizione
preliminare è che io abbia provato nella
mia vita soggettiva i processi psichici
in questione. Ma poiché vengono ora riprodotti come rappresentazioni di
un altro, essi subiscono una trasformazione psichica che li distacca
dall’esperienza soggettiva della personalità conoscente così come vengono
distaccati da quella della personalità
conosciuta. Anche se queste ultime due coincidono in linea generale, anche se amore e odio, pensiero e
volontà, piacere e dolore sono — come
avvenimenti personali nell'anima del soggetto conoscente — esattamente i
medesimi che hanno avuto luogo
nell’anima dell’oggetto conosciuto, non già la conoscenza storica, bensì quel
processo di rappresentazione trasformato dalla proiezione su un altro,
costituisce questa identità immediata.
Una cosa del tutto analoga avviene nel rapporto tra pensiero e materia: se il substrato
trascendente dell'anima e quello del
mondo esterno fossero realmente identici, ciò non comporterebbe ancora che le rappresentazioni
che l’anima si fa del mondo esterno
siano effettivamente identiche a quelle che
formerebbe l’in sé del mondo o un suo immediato rispecchiamento. La
conoscenza del mondo rimarrebbe sempre nelle forme di esperienza ad essa
proprie, indipendentemente dall’identità dei substrati che la delimitano da
entrambe le parti, anche se
quest’identità istituisce forse la possibilità del rappresentare in generale. In esatta analogia, l’identità
psicologica tra conoscente e conosciuto è sì il fondamento, nell’ambito
storico, della possibilità di conoscenza
in generale, ma di per sé non significa
ancora che la rappresentazione proiettata fuori del soggetto possegga
un'identità di contenuto con i processi soggettivi presenti nella personalità
storica. Non seguirò qui oltre questa metamorfosi,
la quale procede col contenuto psichico
primario in quanto questo è reso oggettivo
e con esso sì conosce un’altra personalità: piuttosto, assumendola come presupposto, metterò l’accento
sull'identità psicologica di contenuto
tra il soggetto e l'oggetto del conoscere storico che questo esige. Se si potessero comprendere i
processi storici semplicemente subordinando gli atti psichici i quali si
distanziano troppo da quelli che si
compiono nell'anima dell’osservatore, di
fatto non li si comprenderebbe e la loro descrizione susciterebbe nella nostra anima tanto poca reazione quanto
un discorso fatto in una lingua a noi
sconosciuta. In primo luogo, quindi, lo
storico presuppone che la sua anima possa istituire in sé gli stati psichici dei suoi personaggi, cioè che
una qualche analogia, per quanto remota, delle loro azioni accertate con le
proprie azioni permetta di concludere che lo sfondo di coscienza, che le stesse azioni hanno o avrebbero in lui, sia
presente anche in quelli. Quando Ranke
esprime il desiderio di dissolvere il proprio io per vedere le cose così come
sono state in sé, il compimento di tale desiderio eliminerebbe proprio il
risultato che ci si aspetta. Una volta
dissoltosi l’io, non rimarrebbe nulla con
cui cogliere il non-io. L’intromissione dell’io non è un’imperfezione
della quale un tipo ideale di conoscenza possa fare a meno; questa può eliminare soltanto certi
aspetti dell'io, ma voler dissolvere
l'io in generale è una contraddizione logica
non soltanto perché esso costituisce, alla fine, il sostegno di ogni rappresentare in generale — infatti
anche Ranke aveva limitato a questo la
sua manifestazione — ma anche perché i
suoi contenuti specifici sono punti di passaggio indispensabili di qualsiasi comprensione di altri individui.
Questa partecipazione simpatetica alle motivazioni delle persone, al complesso
e ai singoli aspetti del loro essere,
del quale vengono tramandate soltanto
espressioni frammentarie, questo processo di trasposizione in tutta la
molteplicità di un enorme sistema di forze,
ognuna delle quali viene compresa soltanto perché la si rispecchia in sé
— questo è il senso vero e proprio della pretesa che lo storico sia e debba essere artista. La
concezione comune secondo la quale
questa pretesa sarebbe giustificata solamente
una volta che si sia conclusa la ricerca dei fatti, e limitatamente all’esposizione
per il lettore, è del tutto errata; infatti
anche il fisico, il filologo, il giurista, in breve ogni studioso
che scriva per gli altri, in particolare
per cerchie più vaste, dev’essere artista nell'esposizione. Ma già per il fatto
che lo storico interpreta, elabora,
ordina i fatti in modo che producano l’immagine coerente di un processo
psicologico, la sua attività si avvicina
a quella poetica, e ne risulta distinta soltanto di grado, per la libertà che
quest’ultima possiede nell’organizzione
del suo materiale. Una volta che il poeta si è deciso per un determinato carattere, una volta che ha
spinto i rapporti tra i suoi personaggi
in una determinata direzione, anch'egli non è
più libero, e tutto ciò che fa accadere si discosta soltanto in misura limitata dall’esperienza psicologica
media su uomini e casi analoghi. Se il
processo poetico che, muovendo dalla libera invenzione, deve legarne la
successiva organizzazione nell’opera d’arte definitiva alle leggi conosciute
dell’accadere ha per motto «siamo liberi
al primo momento, nel secondo siamo
schiavi», la ricerca storica si limita a rovesciarlo. Nel primo momento, cioè rispetto al materiale di fatti
con cui ha inizio il suo lavoro, essa è
vincolata; invece è libera nell’elaborazione di
tale materiale in una totalità del corso storico, cioè è lasciata al funzionamento di categorie soggettive e al
processo formativo nell’anima dello storico. Ciò che Schopenhauer spiega a proposito dell’essenza dell’attività estetica
— che cioè l’intelletto si spoglia della preoccupazione del proprio io per
trasferirsi completamente nell’oggetto
da cui non lo separa più nessuna
duplicità di essenza, ma che anzi si rispecchia senza residuo in esso, cosicché in questo attimo non è affatto
altro da quest’oggetto — rappresenta di fatto, prescindendo dal
rivestimento metafisico, l'elemento
decisivo anche per lo storico, anzi per
chiunque acquista una qualsiasi conoscenza storica. Ogni riproduzione e
ogni comprensione di un oggetto psicologico significa che il soggetto
comprendente percorre in sé il processo psichico nella cui conoscenza si
immerge e che esso è realmente — nella
misura in cui l’io consiste nel suo processo di rappresentazione — in questo
attimo *. a. Per lo storico la
difficoltà particolare consiste nel fatto che egli può ricavare l'immagine complessiva di una
personalità soltanto dalle sue manifestazioni specifiche, ma d'altro lato può
interpretare e raggruppare correttamente questi elementi soltanto in base
all'immagine complessiva della
personalità che sta a loro fondamento. Questo circolo logico viene, al
pari di molti altri simili, risolto
nella prassi in quanto gli elementi che si presuppongono a vicenda si
sviluppano in un’azione reciproca e gradualmente. La conoscenza assolutamente
corretta del carattere e della tendenza complessiva di una persona potrebbe
naturalmente essere ottenuta soltanto sulla base di un’interpretazione
assolutamente corretta delle sue espressioni, e
viceversa; se quindi occorresse l’incondizionata correttezza e
completezza di entrambe le conoscenze,
non si potrebbe pervenire a nessuna delle due.
Soltanto perché sia l’una sia l’altra sono ottenute pezzo per pezzo, in
quanto in entrambe si ha un incremento graduale che dalla congettura e
dall'assunzione ipotetica conduce fino alla certezza, ognuna delle due parti
serve all’altra come punto saldamente
accertato per la determinazione di un analogo punto dall’altra parte, la cui
connessione con punti successivi conferma ulteriormente il primo. Da qualche
parte si deve cominciare in modo dogmatico o ipotetico, e soltanto
l'attendibilità delle indagini successive
che da esso procedono può decidere sulla verità del fondamento;
nell’ele- Per quanto riguarda la questione generale attinente alla teoria della
conoscenza, non è che lo storico colga le personalità storiche perché è identico ad esse — infatti
questo è appunto da stabilire — ma
presuppone la propria identità con esse perché vuole coglierle e non può farlo
altrimenti. Si ha qui lo stesso rapporto
che Kant aveva affermato a proposito della conoscenza della natura: noi non
conosciamo la realtà perché il pensiero
e l’essere coincidono, ma essi coincidono perché noi conosciamo la realtà, ossia perché il nostro
intelletto introduce la sue forme
conoscitive nell’essere, perché lo elabora come sua rappresentazione secondo le leggi di cui ha
bisogno in vista dell'esperienza. Lo
storico respinge come improbabili o non
vere le azioni tramandate quando esse fanno riferimento a una base psichica che gli sembra insostenibile
nel suo processo .di penetrazione dello
stato psicologico della persona altrimenti
presupposto, e che quindi urta contro la logica dei fatti psicologici.
Nel caso di un’improbabilità esteriore, fisica, la differenza rispetto al rifiuto della tradizione è
chiaramente soltanto graduale, ed esiste soltanto nella misura in cui le leggi
fisiche della natura sono da noi
conosciute in modo più certo delle leggi
psichiche. A proposito di questa
riproduzione degli avvenimenti psichici da parte dello storico occorre
considerare due aspetti: in primo luogo
le forze naturali e le categorie presenti nella sua mento spirituale non solo il fondamento
sorregge l'edificio, ma anche l’edificio sorregge il fondamento. Il rapporto
della totalità con il particolare, che
ovunque presenta alla metodica del conoscere gli enigmi più ardui, mostra le proprie difficoltà anche dove si
tratta della totalità e della singolarità di un individuo. La medesima
difficoltà conoscitiva si presenta in
riferimento all'essenza e alla tendenza di interi popoli e gruppi, di
interi periodi di tempo, oltre che di
avvenimenti particolari. Uno dei compiti più
sottili della-teoria della conoscenza sarebbe quello di elevare alla
coscienza, e di indicare nel caso singolo, il modo effettivo di questa
reciprocità — come la nostra
interpretazione storica consideri gli elementi particolari che sono ambigui, se non privi di senso senza
un’immagine del tutto; quali siano i
mutamenti tipici a cui la tendenza generale, assunta a titolo di prova, porta
nell’apprendimento degli elementi particolari; se le conoscenze orientate verso il particolare e verso la
totalità siano collocate in modo
stratificato l'una sull’altra; in quale rapporto questi strati si
estendano quanto più s'innalza l’edificio complessivo, e così via. anima, il
cui campo di validità delimita l'ambito di ciò che può in generale essere intelligibile e penetrato
simpateticamente mediante la sua
coscienza; in secondo luogo le esperienze di
fatto che dànno contenuto a queste facoltà e a queste forme, indicando alla coscienza quali, tra le
sensazioni e le idee che sono in
generale possibili alla sua anima, vengono realizzate nel mondo animato che lo circonda. La critica
della conoscenza deve distinguere per
bene i due momenti. Lo storico può infatti
respingere alcuni avvenimenti come impossibili e ordinarne altri
soltanto in un determinato modo, perché i processi psichici che dovrebbe altrimenti stabilire non gli
sono intelligibili, cioè non possono
essere compiuti da lui stesso. Qui come altrove non si tratterà ovviamente di
idee o di impulsi particolari dei
personaggi storici, bensì della connessione tra di loro, del comparire di un’idea o di un impulso a
condizione che ne siano già stati
accolti altri. D'altro lato egli potrà sì seguire interiormente tali avvenimenti psichici e
determinate combinazioni tra di essi, che la tradizione sembra offrire, ma
dovrà modificarli perché la sua
esperienza della vita gli mostra che è
possibile riprodurli nella fantasia, ma che non si presentano nella realtà. Qui Ia filosofia della ricerca
storica trova i suoi oggetti di ricerca
nelle influenze a cui sono sottoposte da entrambi i lati le immagini storiche,
e che vengono di solito osservate almeno
nei casi in cui superano troppo la misura
media della soggettività. Le differenze che devono essere istituite non
soltanto nella rappresentazione storica, ma anche nella determinazione, per esempio, del corso della
vita di Cesare o di Gregorio VII o di
Mirabeau, a seconda che la natura dello
storico sia grande o limitata, risultano evidenti; lo stesso vale per quelle che derivano dall'ambito di
esperienza dello storico — se cioè egli
ha formato la sua intuizione della vita in base a ristretti rapporti piccolo- borghesi o nel
grande commercio mondiale, se in una comunità politicamente sottomessa o in una comunità libera. In sostanza già lo sappiamo,
perché possiamo immaginarcelo anche
senza una particolare considerazione, e
perché vi sono alcuni esempi flagranti che impediscono di trascurare
questo fatto. Ma la conoscenza scientifica richiede indagini sul numero più
grande possibile di casi, anche proprio su
quelli in cui la soggettività sembra ritrarsi del tutto — indagini che
avrebbero bisogno di quella fine capacità investigativa che ha prodotto risultati così splendidi
soprattutto nella filologia classica.
Certamente, pregiudizi e toni soggettivi sono sempre correggibili nel
caso particolare. Nel momento stesso in cui si pongono in luce e se ne mostra
l’origine psicologica, si può anche
prescindere da essi. Ma con ciò si dimentica di solito che, anche dopo aver rifiutato questa scorza, non
rimane soltanto oro puro, che la nuova
conoscenza è sì libera da questo determinato presupposto soggettivo, ma non da
ogni presupposto in generale. Si
corregge una data concezione, ma la si corregge
solo introducendone un’altra. Non soltanto i presupposti del conoscere in generale, dell’intellectus ipse
nelle sue forme più generali, devono
essere accettati da ogni contenuto empirico
particolare, poiché a volerne prescindere nell'interesse di una verità puramente oggettiva non si potrebbe
più rappresentare nulla; ma queste forme
universalmente date esistono di nuovo
solo negli spiriti particolari, e quindi nella loro tonalità e
modificazione individuale, di modo che questo spirito individuale costituisce in certa misura, nella sua
tendenza complessiva e nella sua
disposizione caratteriologica, l’a priori per l’a priori generale nella sua momentanea realizzazione.
Comunque ci rappresentiamo
sistematicamente quelle forme universali, esse
hanno soltanto il significato di concetti generali che non si ritrovano tal quali nella realtà — e qui
nella realtà del conoscere — ma che compaiono sempre e solo con una
differenza specifica, che si può certo
mettere da parte, ma soltanto se se ne
pone al suo posto un’altra. Ciò che concepiamo come unità e sviluppo del carattere, come coerenza tra
scopo e mezzi, come causazione
psicologica, si presenta a ogni uomo che opera con il loro aiuto non in una forma astratta ma in
forma personale, esercitando i suoi
effetti sul materiale storico non come categoria logica — questo sarebbe
l’ideale irraggiungibile del conoscere — ma come forza psicologica, sostenuta
dalla personalità con il complesso delle
sue esperienze, dei suoi istinti, dei suoi
sentimenti. Come nessun uomo è uomo in generale, né consiste soltanto delle proprietà comuni a tutti gli
uomini, così il conoscere non è mai un conoscere in generale, né consiste
soltanto dell’esercizio delle forme @
priori universali del pensiero. Si può certo costruire l'uomo in generale in
modo astratto e sottraendo tutte le differenze specifiche, ma non appena si
vuol avere un uomo reale occorre
nuovamente aggiungere qualcosa di
specifico e di individuale — anzi, soltanto nell’ambito di questo lo si può rappresentare
intuitivamente; ed esattamente lo stesso
avviene con le forme 4 priori del pensiero e con la loro conferma pratica *. Nell’organizzazione del materiale storico in
base alle esperienze interne ed esterne dello storico agisce certamente
una grandezza incommensurabile che ne
rende assai difficile l’analisi gnoseologica. Noi possiamo, nonostante tutto,
ricostruire negli altri — e con la sicura sensazione della loro piena
esattezza — processi psichici che non
abbiamo provato né in noi né in altri. È
molto facile spiegare tutto questo come una semplice trasformazione di esperienze reali. In primo
luogo, infatti, il a. Qui si tratta di
un 2 priori singolare, e il cui carattere specifico non è di facile comprensione. Se ammettiamo l’a
priori nella teoria della conoscenza, pensiamo a rappresentazioni determinate
nel contenuto e da stabilire concettualmente, che si possano poi indicare in
modo sempre eguale nell'esperienza
conclusa; cosicché l'universalità e necessità dell’4 priori ne costituisce la caratteristica essenziale. Qui
si tratta però di un « priori il cui
contenuto non è universale ma individuale, e in cui non c’è nulla di universale e necessario se non il fatto che
questa posizione della conoscenza viene riempita e determinata da qualche 4
priori, mentre rimane completamente indeterminato e accidentale quale degli
infiniti compimenti possibili debba avere nel caso presente. La questione così
importante per la critica kantiana, se
cioè l’4 priori del conoscere possa esso stesso venir conosciuto 4 priori,
trova in questo caso una soluzione in quanto resta ferma la sua generale necessità 4 priori — cioè la
conoscenza che le categorie logiche agiscono soltanto nella tonalità di
un’intera individualità — ma il
contenuto specifico di questo 4 priori dell'a priori è del tutto
variabile e può essere costruito solo
caso per caso. Che la conoscenza storico-psicologica accordi all’4 priori dell’individualità
un'influenza molto maggiore della conoscenza della natura esterna, dipende dal
fatto che sulle categorie dell’ordine e della valutazione (su cui esso
manifesta la sua influenza) non si può
raggiungere, per motivi facilmente spiegabili, un accordo così largo come quello che si ha in riferimento alle categorie
relative al mondo esterno. Nel caso di quest'ultime l'individualità non si
rileva nella tonalità delle categorie logiche perché in tale direzione si hanno
soltanto differenze individuali
evanescenti, anche se ben nette per i grandi periodi culturali. L'elemento logico e l'elemento psicologico
possono qui concrescere in una unità che
non vi sarebbe ragione di scindere.
confine tra forma e materia potrebbe, in questa prospettiva, essere assai arbitrario e significare più una
denominazione aggiunta dall’esterno che non una distinzione oggettiva —
prescindendo del tutto dal fatto che la formazione spontanea della forma,
oppure della materia, non sostituirebbe per noi un enigma minore; inoltre rimarrebbe ancora da
spiegare perché una forma in cui
rechiamo dall’interno il contenuto empirico
dato per altra via possegga appunto quella sicurezza soggettiva della
sua possibilità e della sua realtà, mentre altre, che sono altrettanto possibili per la nostra
fantasia e che non mancano, al pari di quella, di una conferma empirica, non
comportano una tale sensazione. Il talento più appariscente e imprevedibile
sotto questo aspetto viene di solito designato come genialità: il genio sembra
creare da sé le conoscenze che l’uomo non
geniale può ricavare soltanto dall'esperienza. In base agli stimoli più
tenui si presenta nel genio un’immagine intimamente coerente e convincente di processi
spirituali, di connessioni di idee e di
passioni di personaggi storici, della cui mentalità non esistono più esempi da gran tempo; accostando
gli elementi più disparati e
interpretando quelli più straordinari, la sua fantasia domina un materiale che
non può avergli messo a disposizione la sua esperienza. Accontentarsi di una
completa inesplicabilità di questa genialità storico-psicologica è quindi
particolarmente pericoloso, perché la questione non riguarda soltanto pochi grandi geni, ma tra questi e l’uomo
comune vi sono innumerevoli
manifestazioni intermedie, anzi proprio quest’ultimi mostrano abbastanza spesso
le premesse occasionali della
riproduzione geniale, apparentemente sovra-empirica, di processi
psichici ad essi altrimenti estranei. Questo fatto ci tocca tanto più da vicino, in quanto il genio
storico può, a sua volta, soltanto
affidare le sue deduzioni a parole le quali possono stimolare e agevolare negli altri i processi
che rivestono interesse per lui, ma le quali devono in definitiva lasciarne a
loro il compimento. Per non dover
considerare del tutto come un miracolo questo grande campo della comprensione
di processi psichici che non sono
oggetto della propria esperienza, possiamo interpretarla come un processo in
cui diventano coscienti certe
disposizioni ereditarie latenti. Le generazioni precedenti hanno lasciato in eredità alle successive, in
una forma qualsiasi, le modificazioni organiche connesse in modo non ancora
spiegato ai loro processi psichici; la smisurata ricchezza, la piccolezza e la
reciprocità delle singole parti di questa eredità non pervengono però in
generale a una chiara coscienza. Ora,
noi chiamiamo genio un uomo in cui questo insieme dato è ordinato in modo così favorevole che la sua
riproduzione ha luogo facilmente, in
base a stimoli minimi, e perviene in misura
sufficiente a una chiara coscienza. In lui si compiono processi psichici quanto mai lontani dalla sua
esperienza individuale, perché essi sono
immagazzinati nel suo organismo come ricordi
della specie ed eccezionalmente in modo che le innumerevoli contro-tendenze e gli innumerevoli
offuscamenti che scaturiscono dalla stessa fonte non li escludono dalla
coscienza. In base a ciò comprendiamo anche gli occasionali lampi di genio di persone per altri versi non geniali, e la
generale possibilità di seguire la comprensione aperta dal genio, se alle
disposizioni ereditarie presenti anche in loro vengono assicurati, attraverso
la chiara espressione e stimolazione di gruppi affini, gli aiuti psicologici
necessari per arrivare alla coscienza. La dottrina mistica di Platone, secondo
cui ogni apprendere non è che un ricordare!, assumerebbe così un senso reale. Se riproduciamo in noi uomini da tempo
scomparsi con tutta la ricchezza dei
loro più intimi impulsi, se il loro carattere — formatosi in condizioni
completamente estranee, mai viste da noi — viene incontro al nostro sguardo
emergendo da una tradizione
frammentaria, è chiaramente vano voler spiegare questa capacità in base alle
esperienze della vita individuale nello
stesso modo in cui non si può derivare da questa fonte la conformità allo scopo di movimenti istintivi
o la direzione e la correttezza degli
impulsi etici. Come il nostro corpo racchiude
in sé le acquisizioni di uno sviluppo millenario e conserva ancora immediatamente in organi rudimentali
le tracce di epoche precedenti, così il nostro spirito contiene — come
mostra la più semplice riflessione — i
risultati e le tracce di processi
psichici trascorsi dei più diversi gradi di sviluppo della specie. L'intera misura della nostra comprensione,
anche per quegli esseri viventi che si
discostano molto dal nostro modo di senti
I. Simmel si riferisce qui alla teoria della reminiscenza, esposta nel
Fedone. re, può quindi venire dal fatto
che l'eredità della specie contiene però, oltre al nostro carattere essenziale,
tracce del carattere degli antenati e ci
rende così possibile il comprendere — vale a
dire il compimento dei loro medesimi processi psichici. Il conoscitore
geniale di uomini è soltanto l’erede prediletto (per questo aspetto) della
specie, e lo storico geniale rappresenta solo
un suo rafforzamento. Infatti la comprensione storica è distinta solo per grado dalla comprensione dei
personaggi e dei rapporti contemporanei. Anche questi ultimi ci offrono
fenomeni esteriori, non mai completi, e dal punto di vista dell’empiria
sensibile ogni altro uomo è per noi un automa, ogni sua parola è mero suono, in cui possiamo introdurre un’anima
soltanto in base al nostro proprio io.
Il processo del conoscere storico è solo
quantitativamente differente dal processo del comprendere che noi compiamo sull’esteriorità di tali
immagini: esso trova soltanto un
materiale molto più incompleto e incoerente, indicazioni ancora più insicure,
uno spazio ancora maggiore per le
congetture e una necessità più comprensiva. Ma se per tutto ciò dobbiamo rimandare alle oscure
disposizioni ereditarie che ci rendono
comprensibile anche ciò che non abbiamo vissuto di persona, la scissione tra i presupposti
universalmente validi, che applichiamo
agli avvenimenti per poterli comprendere, e le
interpretazioni soltanto personali, si aggrava straordinariamente. Se la
comprensione geniale — ma anche ogni altra forma di comprensione — dell’accadere storico
scaturisce da questa fonte, ai nostri strumenti conoscitivi è del tutto
precluso scomporre analiticamente quei presupposti fino ai loro elementi
ultimi e ricondurli alle loro fonti; per
questi casi dovrà bastare una
constatazione e una registrazione di fatto. Se la ricostruzione psicologica del consueto
contenuto storico procede con relativa sicurezza e in accordo generale, ciò deriva dal fatto che qui si tratta
essenzialmente di interessi c di
movimenti di interi gruppi, e che essi costituiscono il fondamento e il punto
di arrivo anche delle azioni dei singoli personaggi storici. Questi sono
straordinariamente più semplici e
univoci delle condizioni individuali. Nel caso di grandi masse si tratta
sempre delle basi primarie dell’esistenza, degli interessi generali, grandi e
grossi, in cui molti uomini possono
incontrarsi e al di sopra dei quali si sollevano solamente le
individualizzazioni più sottili e difficili dei moti psichici. Nello stesso modo in cui una collettività non
può dissimulare di proposito la sua
volontà e il suo pensiero — cosa che è
invece possibile all'individuo — essa non lo fa neppure
involontariamente, ma documenta invece le sue tendenze, le sue azioni e reazioni psichiche con la stessa chiarezza
delle manifestazioni degli impulsi semplici propri di una massa in quanto
tale, contrapposti agli impulsi
differenziati di una persona. Proprio
per questo motivo le basi psichiche dei movimenti storici diventano ora
più comprensibili a chiunque: quanto più è sicuro che in ogni individuo si trovano gli interessi
più bassi e primitivi, e quindi ereditati da più lungo tempo, tanto più
probabile gliene riuscirà la
riproduzione. Dove sono in gioco questioni
puramente individuali, la diversità delle individualità impedirà spesso
la riproduzione, cioè la comprensione; ma ciò che vogliono gruppi interi — e che l’individuo
vuole in relazione ad essi — è presente
con alto grado di sicurezza in ogni
individuo, e può quindi essere stimolato. Perciò anche nel conoscere
storico si cela la soggettività e la personalità della penetrazione
simpatetica, che attribuiamo più facilmente ai processi della personalità singola. Assumendo come
oggetto i processi psichico-sociali e
penetrandoli simpateticamente, noi non abbiamo l’idea di essere relegati nella
nostra soggettività e nell’accidentalità delle sue esperienze interne, ma
dobbiamo rappresentarci qualcosa di oggettivo. E tuttavia questo elemento
oggettivo è, qui come altrove, soltanto un elemento soggettivo molto generale, e contiene solo sensazioni che
sembrano rimosse dalla sfera personale perché nessuna personalità può sottrarsi
ad esse. Ma, alla base, anche le
sensazioni che portano in luce movimenti
sociali (la necessaria sovra- e subordinazione nei gruppi, l'unificazione per scopi generali o
la divisione in vista dell’utilità
individuale, l'elevazione e la trasformazione da parte di idee religiose e
politiche) possono essere valutate, anzi
constatate, soltanto in virtù di una penetrazione simpatetica di carattere personale. Anche quello che, in
movimenti del genere, pensiamo di poter cogliere con le mani, possiamo in
realtà coglierlo soltanto con
l’anima. La diversità dell’ priori con
cui interpretiamo e ordiniamo i fatti
storici trova quindi propriamente la sua manifestazione più appariscente in un
punto del tutto differente, cioè quando
la rappresentazione è diretta da un pregiudizio determinato nel contenuto. Il caso più decisivo è quello in
cui una tendenza preesistente assegna
alla ricerca il fine a cui deve pervenire,
considerandola e presentandola come corretta e compiuta soltanto nel
momento in cui vi perviene — proprio come si dichiara corretta una qualsiasi ricerca soltanto se
soddisfa la legge causale. Se qui prescindiamo dalle falsificazioni coscienti o
semi-consapevoli che avvengono per scopi pratici, personali o di partito, soprattutto la difficoltà trattata nella nota
di pp. 451-52 aprirà un vasto campo
all’a priori tendenzioso. Alcuni elementi particolari di una personalità o di
un periodo sono dati; in base ad essi si
forma un'immagine della loro totalità e del loro carattere interno; a questo punto nuovi elementi
particolari verranno molto facilmente
considerati apocrifi se non si adattano a questa immagine già fissata, oppure
saranno modificati fin quando non si
accordano con essa. La convinzione oggettiva orientata in questo senso riceverà facilmente appoggio
dagli interessi dell'animo: quando, per
esempio, in certi momenti sorge l’impressione di un carattere grandioso o di
elevata eticità, allora subentra un
interesse personale per esso che stabilirà in una direzione determinata i presupposti per
l’apprendimento di ogni fatto futuro.
Anche qui si fa valere il significato psicologico della prima impressione. Come
le prime convinzioni della vita trovano
ancora sgombro il campo dello spirito e possono
stabilirsi in vario modo con una forza che non incontra ostacoli, in
modo da decidere dell’accettazione o del rifiuto delle convinzioni future, così lo stesso processo
si ripete per il particolare campo e problema del conoscere. Il giudizio
ricavato in modo impregiudicato dal
primo fenomeno diventa pregiudizio
rispetto al secondo, e ogni fenomeno che si presenti successivamente
trova davanti a sé una direzione prestabilita dell’intuire e del giudicare, da cui viene abbastanza
sovente trascinato senZa opporre resistenza o almeno costretto a un
compromesso. È facile scorgere che qui
siamo davanti a un problema a due facce:
l’una rivolta verso l’aspetto soggettivo, alla forza di gravità del pensiero che tende a mantenerlo
nella direzione già presa, cioè nel
pregiudizio soggettivo che assume 4 priori il
vecchio a criterio del nuovo; l’altra rivolta verso l’aspetto oggettivo,
in quanto nelle persone e negli avvenimenti viene presupposta l’unità e la
continuità che quella tendenza psicologico-soggettiva sembra rendere possibile
e giustificare. La questione della parte
rispettiva dell’oggetto e del soggetto nella conoscenza, da Kant limitata in
modo inopportuno ai rapporti più
generali che sono immodificabilmente comuni a tutti i processi del pensiero, sorge anche di fronte a questi
processi specifici del conoscere,
diretti da princìpi già molto complessi. Quell’unità caratteriologica sia degli individui che dei
gruppi appartiene chiaramente ai
presupposti 4 priori di ogni ricerca storica*.
Ora, però, questa unità non è qualcosa di formale, non è uno schema generale in base a cui sia possibile
determinare in anticipo il rapporto dei suoi contenuti empirici. Un errore
profondo è insito nella fede che in base
all'unità della personalità umana si possa inferire il suo comportamento
necessario secondo a. Attraverso una
singolare svolta dell’unità così presupposta viene alla luce il quadro delle
manifestazioni di interi gruppi. Soltanto singole voci o singoli accidenti
diventano di solito consapevoli in modo esatto; soltanto quando si collocano in
un ambito tenuto insieme da interessi o da
legami noti per altra via, essi sono manifestazioni dell’insieme di tale
ambito. Come dell’individuo sono sempre note soltanto singole manifestazioni,
che tuttavia circoscrivono per noi l'insieme della sua personalità, così i sintomi particolari si estendono a partire
da un gruppo fino a un movimento psichico — caratterizzato in modo determinato
— del gruppo nella sua totalità. Cito a
caso dalla Romische Geschichte di THEoDoR MoMmMSsEN (Berlin, 1854-55): « un grido di sdegno
attraverso l’Italia intera » (vol. II,
p. 145); Mario si dimostrò «un condottiero che manteneva ? soldati
disciplinati e tuttavia di buon animo, guadagnandone al tempo stesso l’amore
con un rapporto cameratesco » (vol. II, p. 192); l'aristocrazia « non si dette la minima pena di nascondere la sua
rabbia e la sua apprensione » (vol. III,
p. 190); « i partiti respirarono » (vol. III, p. 193). E da Die Cultur der Renaissance in Italien di Jacos
BurcKHarDT (Basel, 1860): « con un’ingenuità terrificante Firenze confessa la
sua simpatia guelfa per i Francesi »
(vol. I, p. 89); « nei momenti cattivi sorge qua e là la vampa della
penitenza medievale, e il popolo impaurito vuole impietosire il cielo con
flagellazioni e alte invocazioni di misericordia » (vol. II, p. 232). Mentre
l’unità dello sviluppo caratteriologico
costruisce una successione completa in base a singoli elementi dati, qui si ha
la stessa cosa per la loro coesistenza
l'uno accanto all'altro. Come là viene presupposta l’anima individuale,
qui viene presupposta per così dire
l’anima sociale come talmente unitaria che
il dato immediato, rna solo frammentario, permette anche di inferire
un'eguale costituzione di ciò che non è dato. certe norme e certe conseguenze.
Al contrario, osserviamo piuttosto un certo ordine e una certa serie di
sviluppo dei fenomeni psichici che li percorre tutti, e l’unità della
personalità è solamente un nome che
designa la loro connessione di fatto —
non già una connessione da costruire in modo puramente logi Parlando di
questa unità in generale s'intende che le
azioni e le rappresentazioni di un uomo sono costituite in modo che noi
le comprendiamo come produzioni di un'anima
numericamente semplice e immutabile. Ma dal momento che si tratta di una semplice x di cui non
possiamo dire nulla di più, l’unità di
tale essere significa che possiamo ricondurre
l’una all’altra le rappresentazioni dell’uomo e spiegarle
reciprocamente. C’è però bisogno di certi princìpi il cui dominio ci rappresenta l’unità della personalità, la
quale non può essere percepita
immediatamente. Se individuiamo quindi l’unità della personalità nel fatto che
quest'uomo, la cui vita è amareggiata da una pesante sventura, vede anche nel
mondo che lo circonda soltanto dolore e
dissonanze, e se diciamo che si tratta
dello stesso elemento per il quale egli teme sempre nuova sventura per sé e rende difficile la
vita ai suoi simili, noi conosciamo
appunto delle regole psicologiche in base a cui
possiamo ricondurre geneticamente tali processi l’uno all’altro. Queste sintesi non sono intelligibili perché
siano unitarie, ma le chiamiamo unitarie
perché sono intelligibili; e ci appaiono
intelligibili perché siamo abituati a osservarle. Perciò non si reca alcun disturbo all'unità della
personalità se accanto al proprio dolore
si scorge l'aspirazione a rendere felici gli altri, o se accanto ad esso emerge, in certo senso
come surrogato, un ottimismo teoretico —
come spesso accade in uomini fisicamente disgraziati. In un avaro, l’unità della
sua personalità ci sembra garantita sia
ch’egli non ceda ciò che ha ottenuto in
vista di alcuna probabilità futura, sia che lo getti a piene mani non appena speri in un guadagno da usura. I
fenomeni considerati in sé e per sé, e in base al loro contenuto, non sono
ancora decisivi rispetto al fatto di
costituire un’unità, ma sono decisivi
soltanto rispetto alla possibilità di scoprire, in base a qualche regola nota, un legame causale tra di essi.
Così noi ipotizziamo da un lato
un’affinità di contenuto tra le azioni di un individuo, dall’altro una certa
dissomiglianza — quando cioè circostanze esterne mutate influenzano il suo
agire. E mentre ciò presuppone l’immutabilità del nucleo interno, proprio una
trasformazione di questo nucleo rientra nell'immagine di una personalità
unitaria quando si prendano in considerazione le diverse età della vita. La conclusione che si trae,
in base a certi modi di azione di una
persona, in merito alla possibilità o all'impossibilità di altri modi di azione
non è una conclusione logica immediata,
ma dipende da un'esperienza psicologica reale assunta come premessa maggiore.
C’è appena bisogno di accennare all'influenza che tutto questo — e la sua
estensione a periodi e a gruppi — esercita sulla costruzione del processo
storico, sull’interpretazione dei fatti particolari, sull’integrazione della tradizione e sulla sua critica. Il
compito più importante per la filosofia
della ricerca storica sarebbe ora quello di determinare le norme particolari
che assumiamo — sulla base dell’« unità » dei caratteri — come criteri delle
tradizioni e come veicoli di
rappresentazione; la latitudine entro la quale spieghiamo tuttavia come
possibili azioni divergenti; gli sviluppi e
le modificazioni che riteniamo ovvie seguendo il principio interno della
personalità, e quelle per cui dobbiamo invece cercare una spiegazione nelle circostanze esterne. Vi
sono indubbiamente procedure ben precise di questo genere, in base alle quali
si agisce, che vengono tacitamente
presupposte tra lo storico e il lettore,
ma alla cui consapevole constatazione non si è ancora pervenuti. Un problema ancora più profondo si
apre poi quando indaghiamo sulla duplicità di motivazione, sopra menzionata,
della presupposta unità dei soggetti storici: in quale misura l’esperienza
psicologica oggettiva e in quale misura la
tendenza soggettiva al rafforzamento della capacità di pensiero e alla semplificazione della conoscenza
cooperano nella formazione delle immagini storiche — vale a dire alla
formazione che in base ai fatti
originariamente dati abbozza uno schema
del processo successivo, limitando così la portata della divergenza
caratteriologica da ciò che si era stabilito all’inizio. Nel caso dei presupposti più generali con cui
elaboriamo il materiale della conoscenza — gli assiomi matematici, le
rappresentazioni primarie di sostanza e di forza, la legge causale, i princìpi logici e così via — tale questione può
trovare risposte più semplici.
L’idealismo deriverà senz'altro questi presupposti dal soggetto, negando
qualsiasi partecipazione dell’oggetto e dell’esperienza al loro sorgere. Il
realista empirico, al contrario,
affermerà proprio per queste rappresentazioni fondamentalissime
l’accordo incondizionato con l’oggetto, e la loro fondazione nell’esperienza
continua di esso. Una così chiara separazione di principio non è possibile
nella nostra questione. Già l’identità
generale tra l’anima che indaga e l’anima che è indagata rende probabile che le
tendenze più generali della prima
trovino un riflesso nella seconda, giustificando quindi la loro assunzione, e che il risultato della ricerca
sia determinato nello stesso senso da
entrambi i lati. Il realista deve concedere che
abbastanza spesso, e in modo abbastanza osservabile anche senza una
critica particolare, presupposti e massime soggettive che servono all’unità e alla semplicità del
pensiero sono decisivi per l'elaborazione storica. D'altra parte, anche
ammettendo le influenze psicologiche di più vasta portata su tale elaborazione,
non si potrà negare che, pur con la rinuncia a ogni convinzione monistica che ci si porta dietro,
la realtà offre prove sufficienti in
favore dell’interpretazione realistica; e in
generale, quanto più alti e complicati sono gli ambiti a cui ci solleviamo, tanto più è impossibile separare
di un tratto e con un'alternativa netta
i loro elementi costitutivi 4 priori e quelli
a posteriori. Uno dei compiti più alti della filosofia della storia potrebbe essere però la determinazione dei
loro limiti e in particolare della loro
azione reciproca, il vicendevole rafforzamento tra il fattore soggettivo e il
fattore empirico di quella rappresentazione di un'unità presente negli uomini,
negli avvenimenti, nei gruppi e nelle epoche.
Queste considerazioni possono essere riassunte nella proposizione: la
psicologia è l’4 priori della scienza storica. Il compito della teoria della conoscenza nei
suoi confronti è quello di determinare le regole mediante le quali si perviene,
in base ai documenti e alle tradizioni
esteriori, ai processi psichici, e le regole sufficienti a istituire una
connessione « intelligibile» tra questi ultimi.
Se è vero che il conoscere umano si è sviluppato partendo da necessità pratiche, perché la conoscenza
del vero è un’arma nella lotta per
l’esistenza tanto nei confronti dell’essere extraumano quanto nella concorrenza
degli uomini tra di loro, da lungo tempo
esso non è però più legato a questa origine, e da semplice mezzo per gli scopi dell'agire è
diventato esso stesso uno scopo
definitivo. Ciononostante il conoscere, perfino nella forma sovrana della scienza, non ha rotto
dappertutto le relazioni con gli interessi della prassi, anche se esse non si presentano
ora come meri effetti di quest'ultima, bensì come azioni reciproche dei due domini esistenti ciascuno
per diritto autonomo. Infatti non soltanto il conoscere scientifico si presta,
nella tecnica, alla realizzazione di
fini esteriori della volontà, ma,
d’altro lato, dalle situazioni pratiche, interne ed esterne, sorge il bisogno di comprensione teorica; talvolta
si manifestano nuove direzioni di pensiero, e con il loro carattere puramente
astratto gli interessi di un nuovo modo di sentire e di volere penetrano nella
problematica e nelle forme della vita intellettuale. Così le pretese che la scienza sociologica
ama far valere costitui scono la
prosecuzione e il rispecchiamento teorico della potenza pratica raggiunta nel secolo xtx dalle masse
rispetto agli interessi dell'individuo. Il fatto che il senso di importanza e
l’attenzione che i ceti inferiori pretendono da quelli superiori sia sostenuto proprio dal concetto di « società »
dipende però dalla * Soziologie:
Untersuchungen îiber die Formen der Vergesellschaftung, cap. 1: Das Problem der Soziologie, Leipzig, Verlag
von Duncker und Humblot, 1908, Pp. 1-46
(traduzione di Giorgio Giordano, per i «Classici della sociologia » delle Edizioni di Comunità). circostanza che, in
virtù della distanza sociale, i primi si presentano agli altri non nei loro
individui, ma soltanto come massa unitaria,
c che appunto questa distanza non permette agli uni e agli altri di essere uniti sotto alcun altro
aspetto di principio se non quello che
essi costituiscono insieme «una società ». Dal
momento che le classi, la cui efficacia risiede non già nell’importanza
percepibile dei singoli, bensì nel loro essere « società », attiravano su di sé
la coscienza teorica — in conseguenza
dei rapporti di forza pratici — il pensiero si accorse a un tratto che ogni fenomeno individuale è
determinato in genere da un'infinità di
influenze provenienti dalla sua cerchia ambientale umana. E quest’idea acquistò
per così dire forza retrospettiva: accanto a quella presente, anche la società
passata apparve come la sostanza che
costituiva l’esistenza individuale, così come il mare costituisce le onde. Qui
parve conquistato il terreno in base
alle cui forze diventavano suscettibili di spiegazione le forme particolari nelle quali esso formava
gli individui. Questo orientamento di
pensiero fu favorito dal relativismo moderno,
cioè dalla tendenza a risolvere il singolare e il sostanziale in azioni reciproche; l'individuo era solamente
il luogo în cui si collegano dei fili sociali,
la personalità era soltanto il modo
particolare in cui ciò accade. Una volta raggiunta la coscienza del fatto che ogni agire umano si svolge
nell’ambito della società e che nessun agire può sottrarsi alla sua influenza,
tutto ciò che non era scienza della
natura esterna doveva essere scienza
della società. Questa appariva come il territorio onnicomprensivo in cui
si trovavano insieme l’etica e la storia della cultura, l'economia politica e la scienza della
religione, l’estetica e la demografia,
la politica e l’etnologia, poiché gli ‘oggetti di queste scienze si
realizzavano nel quadro della società: la scienza dell’uomo si configurava come scienza della
società. A_ questa concezione della
sociologia come scienza di tutto ciò che è
umano in generale contribuì il fatto che essa era una scienza nuova e che di conseguenza verso di essa si
affollavano tutti i possibili problemi
che non trovavano altrove una sede precisa
— così come un territorio scoperto da poco diventa sempre, in principio, l’eldorado di esistenze senza
patria e sradicate: l’inevitabile indeterminatezza c mancanza di protezione dei
confini dànno a ognuno il diritto di
insediarvisi. Considerato però più da vicino, questo ammassamento di tutti i
precedenti campi del sapere non ne
produce affatto uno nuovo. Esso significa soltanto che tutte le scienze
storiche, psicologiche, normative vengono versate in un grande calderone al
quale viene attaccata l'etichetta di
sociologia. In tal modo si sarebbe dunque trovato soltanto un nuovo 707, mentre tutto ciò che
esso designa è ià stabilito nel suo
contenuto e nei suoi rapporti o viene prodotto nell’ambito dei settori di
ricerca precedenti. Il fatto che il pensiero
e l’agire umano si svolgano nella società e siano determinati da essa non fa della sociologia
la scienza onnicomprensiva di quello, così come non si possono trasformare
la chimica, la botanica e l’astronomia
in contenuti della psicologia per il fatto che i loro oggetti diventano in
definitiva reali soltanto nella coscienza
umana e sottostanno ai presupposti di
questa. Alla base di questo
errore sta un fatto certamente frainteso,
ma di per sé molto significativo. L’intuizione che l’uomo è, in tutta la sua essenza e in tutte le sue
manifestazioni, determinato dal fatto di vivere in azione reciproca con altri
uomini deve certo condurre a una nuova
forma di considerazione in tutte le
cosiddette scienze dello spirito.” Non è ora più possibile spiegare i fatti
storici, nel senso più ampio della parola, cioè i contenuti della cultura, i tipi di economia,
le norme della moralità partendo dall’uomo singolo, dal suo intelletto e dai
suoi interessi e, dove ciò non riesce,
ricorrere subito a cause metafisiche o magiche. Per esempio, a proposito del
linguaggio non si è più posti di fronte
all’alternativa se esso sia stato inventato da
individui geniali oppure dato da Dio agli uomini; nelle forme della religione non c’è più bisogno di
distinguere l’invenzione di astuti
sacerdoti e la rivelazione immediata, e così via. Piuttosto noi crediamo ora di
comprendere i fenomeni storici in base
all’agire reciproco e all’agire in comune degli individui, in base alla somma e alla sublimazione di
innumerevoli contributi individuali, in
base al concretarsi delle energie sociali in formazioni che stanno e si
sviluppano di là dell'individuo. La sociologia, nella sua relazione con le
scienze esistenti, è quindi un nuovo
metodo, uno strumento ausiliario della ricerca, per avvicinarsi ai fenomeni di
tutti quei campi in modo nuovo. Con ciò
essa non si comporta in maniera essenzialmente diversa da quella in cui si
comportava a suo tempo l'induzione, la quale
penetrava come nuovo principio di ricerca in tutte le scienze possibili, si acclimatava per così dire in
ognuna di esse e l’aiutava a trovare nuove soluzioni nell’ambito dei compiti
stabiliti. Ma come l’induzione non
costituisce per questo una scienza
particolare o addirittura una scienza onnicomprensiva, così non lo diventa, per gli stessi motivi, la
sociologia. Nella misura in cui si
appoggia alla considerazione che l’uomo dev’essere compreso come essere sociale
e che la società è la portatrice di ogni accadere storico, essa non contiene
alcun oggetto che non venisse già
trattato in una delle scienze esistenti, ma è
soltanto una nuova via per tutte queste, un metodo scientifico che non costituisce — proprio per la sua
applicabilità alla totalità dei problemi — una scienza a sé. Ma quale può essere l’ oggetto proprio e
nuovo, la cui indagine fa della sociologia una scienza autonoma e dai confini
determinati? È ovvio che per questa sua legittimazione quale scienza nuova non
occorre la scoperta di un oggetto la cui esistenza fosse prima ignota. Tutto ciò che indichiamo
in generale come oggetto è un complesso
di determinazioni e di relazioni di cui
ciascuna, proiettata su una pluralità di oggetti, può diventare oggetto di una scienza particolare. Ogni
scienza poggia su un’astrazione, in
quanto considera la totalità di una qualche
cosa, che non possiamo afferrare in modo unitario per mezzo di nessuna scienza, secondo uno dei suoi
aspetti, cioè dal punto di vista di un
determinato concetto. Di fronte alla totalità della cosa e delle cose ogni
scienza si sviluppa attraverso la loro
scomposizione — in base alla divisione del lavoro — in qualità e funzioni particolari, dopo che si è
trovato un concetto che permette di individuare quest'ultime e di
coglierle nel loro ricorrere nelle cose
reali secondo connessioni metodiche. Così, per esempio, i fatti linguistici che
vengono ora raggruppati a costituire il materiale della linguistica
comparativa esistevano già da lungo
tempo in fenomeni trattati scientifica
mente; ma quella scienza particolare sorse con la scoperta del concetto sotto il quale quei medesimi
fenomeni, prima separati nei diversi
complessi linguistici, si coordinano in maniera unitaria e vengono regolati da
leggi specifiche. Così anche la sociologia come scienza particolare potrebbe
trovare il suo oggetto particolare soltanto tracciando una nuova linea
attraverso certi fatti che, in quanto
tali, sono perfettamente noti; solo che fino
ad ora non era diventato operante appunto il concetto il quale consente di riconoscere l’aspetto di questi
fatti che cade su uella linea, come
l’aspetto comune ad essi tutti e costituente
un'unità metodico-scientifica. Di fronte ai fatti quanto mai complicati della società storica,
assolutamente non coordinabili sotto un
rico punto di vista scientifico, i concetti della politica, dell'economia,
della cultura ecc. producono tali serie conoscitive sia collegando certe parti
di quei fatti — ad esclusione o con il
concorso soltanto accidentale degli altri — in processi storici singolari, sia individuando i raggruppamenti
di elementi che, indipendentemente dal
singolo «qui » e «ora», comportano una connessione atemporalmente necessaria.
Se deve dunque esserci una sociologia
come scienza particolare, occorre pertanto che il concetto di società in quanto
tale sottoponga i dati storico-sociali —
al di là della raccolta estrinseca di quei fenomeni — a un nuovo processo di
astrazione e di coordinamento, in modo
che certe determinazioni degli stessi, prima considerate in altre e molteplici
relazioni, vengano riconosciute come
reciprocamente connesse e quindi come oggetti di un’uricascienza. Questo punto di vista risulta da un’analisi
del concetto di società, che si può
designare come distinzione tra forma e
contenuto della società — sottolineando che qui si tratta propriamente
soltanto di un paragone per dare approssimativamente un nome all’antitesi degli
elementi da distinguere: quest’antitesi dovrà essere colta direttamente nel suo
senso singolare, senza essere
pregiudicata da altri significati di questi nomi provvisori. In ciò prendo le mosse dalla
rappresentazione più ampia della
società, da quella che evita il più possibile la polemica sulla sua
definizione: che essa esiste là dove più individui entrano in azione reciproca. Quest’azione
reciproca sorge sempre da determinati impulsi o in vista di determinati
scopi. Impulsi erotici, religiosi o
semplicemente socievoli, scopi di difesa
e di attacco, di gioco e di acquisizione, di aiuto e di insegnamento, nonché innumerevoli altri,
fanno sì che l’uomo entri con altri in
una coesistenza, in un agire l'uno per l’altro,
con l’altro e contro l’altro, in una correlazione di situazioni, ossia che eserciti effetti sugli altri e ne
subisca dagli altri. Queste azioni
reciproche significano che dai portatori individuali di quegli impulsi e scopi
occasionali sorge un'unità, cioè appunto
una « società ». Infatti l’unità in senso empirico non è altro che azione reciproca di elementi: un
corpo organico è un'unità perché i suoi
organi stanno tra loro in uno scambio
reciproco di energie più stretto che con qualsiasi essere esterno; uno
stato è 470 perché tra i suoi cittadini sussiste il corrispondente rapporto di
influenze reciproche; e non potremmo
considerare come unitario neppure il mondo se ognuna delle sue parti non influenzasse in qualche modo
ogni altra parte, se la reciprocità,
comunque mediata, delle influenze fosse eliminata. Quella unità o associazione
può presentare gradi molto diversi,
secondo il modo e la prossimità dell’azione reciproca — dall’effimera riunione per una passeggiata
alla famiglia, da tutti i rapporti validi « fino alla disdetta »
all’appartenenza a uno stato, dal
fuggevole insieme di una compagnia di albergo all’intima unione di una gilda
medievale. Tutto ciò che negli individui, nei luoghi immediatamente concreti di
ogni realtà storica è presente come
impulso, interesse, scopo, inclinazione, situazione psichica e movimento, in
modo che da ciò o in ciò sorga l’azione
su altri o la recezione delle loro azioni — tutto ciò lo designa come il contenuto, quasi come la
materia dell’associazione. In sé e per sé questi materiali di cui è piena la
vita, queste motivazioni che la
sospingono, non sono ancora di carattere sociale. Né la fame o l’amore, né il
lavoro o la religiosità, né la tecnica o
le funzioni e i risultati dell’intelligenza costituiscono ancora — così come
sono dati immediatemente, e secondo il loro senso puro — un'associazione: la
costituiscono soltanto quando strutturano la coesistenza isolata degli
individui uno accanto all’altro in
determinate forme di coesistenza con e per
l’altro, le quali rientrano sotto il concetto generale dell’azione reciproca. L'associazione è dunque la forma,
realizzantesi in innumerevoli modi
diversi, in cui gli individui raggiungono
insieme un'unità sulla base di quegli interessi — sensibili o ideali, momentanei o durevoli, coscienti o
inconsci, che spingono in modo causale o che attirano teleologicamente — e
nell’ambito della quale questi interessi si realizzano. In ogni fenomeno sociale esistente il
contenuto e la forma sociale costituiscono una realtà unitaria; una forma
sociale non può acquistare un’esistenza
scissa da ogni contenuto, così come una
forma spaziale non può sussistere senza una materia di cui essa costituisca la forma. Questi sono
piuttosto gli elementi, inseparabili
nella realtà, di ogni essere e accadere sociale: un interesse, uno scopo, un motivo e una forma o
maniera di azione reciproca tra gli
individui, mediante la quale o nella cui
forma quel contenuto acquista realtà sociale.
Ciò che rende appunto tale la «società », in ogni senso della parola finora valido, sono
evidentemente i modi sopra indicati di
azione reciproca. Un dato numero di uomini non
diviene società per il fatto che in ognuno di essi sussiste un contenuto vitale determinato oggettivamente o
che lo muove individualmente; soltanto
quando la vitalità di questi contenuti acquista la forma dell’influenza
reciproca, quando ha luogo un’azione di un elemento sull’altro — immediatamente
o mediata da un terzo elemento — la pura
e semplice prossimità spaziale o anche
la successione temporale degli uomini si traduce in una società. Se deve quindi
esserci una scienza il cui oggetto è la
società e nient'altro, essa può voler indagare solamente queste azioni
reciproche, questi modi e forme di
associazione. Infatti tutto ciò che si trova ancora nell’ambito
della « società », tutto ciò che viene
realizzato per mezzo e nel quadro di essa, non è società, ma soltanto un
contenuto che assume o viene assunto da
questa forma di coesistenza e che soltanto
insieme ad essa dà luogo alla formazione reale, che si chiama «società » nel senso più vasto e usuale. Che
questi due elementi inseparabilmente uniti vengano separati nell’astrazione
scientifica, che le forme di azione reciproca o di associazione vengano
collegate tra loro, concettualmente isolate dai contenuti che soltanto mediante esse diventano sociali, e
metodicamente sottoposte a un punto di vista scientifico unitario — questo
mi sembra fondare l’unica e intera
possibilità di una scienza specifica della società in quanto tale. Soltanto con
essa i fatti che designamo come realtà
storico-sociale sarebbero realmente proiettati sul piano del puro e semplice
sociale. Ma per quanto siffatte
astrazioni, che dalla complessità o
anche dall’unità della realtà producono la scienza, possano essere
stimolate dagli intimi bisogni del conoscere, una qualsiasi 472 GEORG SIMMEL loro legittimazione deve tuttavia risiedere
nella struttura dell’oggettività stessa: infatti soltanto qualche relazione
funzionale con la realtà di fatto può mettere al riparo da impostazioni sterili, da un carattere occasionale
dell’elaborazione concettuale della scienza. Se un naturalismo ingenuo sbaglia
pensando che il dato contenga già le
disposizioni analitiche o sintetiche
mediante le quali esso diventa contenuto di una scienza, tuttavia le
determinazioni che esso effettivamente possiede sono più o meno adatte a quelle disposizioni —
all’incirca come un ritratto deforma
fondamentalmente la figura naturale, eppure
l'una si presta meglio dell’altra a questa forma ad essa radicalmente
estranea. A ciò si può poi commisurare il migliore o peggiore diritto di quei problemi e metodi
scientifici. Così il diritto di
sottoporre i fenomeni storico-sociali all’analisi secondo forme e contenuti e
di ricondurre i primi a una sintesi si fonderà su due condizioni, le quali
possono essere verificate soltanto in base ai fatti. Si deve da un lato
trovare che la medesima forma di
associazione ricorre con un contenuto del tutto diverso, per scopi
completamente differenti, e che, al
contrario, il medesimo interesse assume come sue portatrici 0 modi di realizzazione forme completamente
diverse di associazione — così come le medesime forme geometriche si
ritrovano nelle materie più diverse e la
medesima materia si configura nelle
forme spaziali più diverse, o come avviene tra le forme logiche e i contenuti materiali della
conoscenza. Entrambe le cose sono però
innegabili in quanto fatti. In gruppi
sociali i più diversi che si possano immaginare per i loro scopi e per il loro intero significato,
noi troviamo tuttavia i medesimi modi
formali di atteggiamento reciproco tra gli
individui. Sovra-ordinazione e subordinazione, concorrenza, imitazione, divisione del lavoro, formazione
di partiti, rappresentanza, contemporaneità del raggruppamento all’interno
e della chiusura verso l’esterno, nonché
innumerevoli aspetti simili, si ritrovano in una società statale e in una
comunità religiosa, in una banda di congiurati e in una consociazione
economica, in una scuola artistica e in una famiglia. Per quanto molteplici
possano essere gli interessi dai quali si perviene a queste associazioni, le forme in cui esse si attuano
possono tuttavia essere le medesime. E
d'altra parte lo stesso interesse può configurarsi in associazioni di forma
molto differente: per esempio,
l’interesse economico si realizza tanto mediante la concorrenza quanto mediante l’organizzazione pianificata
dei produttori, ora attraverso
l'esclusione di altri gruppi economici ora attraverso l'aggregazione ad essi; i
contenuti della vita religiosa stimolano, rimanendo identici nella sostanza,
una forma di comunità ora liberistica
ora centralistica; gli interessi che stanno a base delle relazioni tra i sessi si soddisfano
nella molteplicità quasi sterminata
delle forme di famiglia; l'interesse pedagogico conduce a una forma di rapporto
ora liberale ora dispotica tra maestro e
allievo, ora ad azioni reciproche individualistiche tra il maestro e il singolo allievo, ora a forme
più collettivistiche tra quello e il
complesso degli allievi. Come può restare identica la forma nella quale si
attuano i contenuti più divergenti, così
può rimanere costante la materia mentre la coesistenza degli individui, che ne è portatrice, si
muove in una molteplicità di forme. In tal modo i fatti, benché materia e forma
costituiscano nella loro concretezza un’unità inscindibile della vita sociale, offrono quella legittimazione del
problema sociologico che esige la
constatazione, l’ordinamento sistematico, la motivazione psicologica e lo
sviluppo storico delle forme pure di
associazione. Questo problema è
direttamente contrapposto al procedimento secondo il quale sono state finora
create le scienze sociali particolari.
Infatti la divisione del lavoro tra queste scienze è stata completamente determinata dalla
diversità dei contenuti. Economia
politica e sistematica delle organizzazioni ecclesiastiche, storia
dell’organizzazione scolastica e storia dei costumi, politica e teorie della vita sessuale ecc. si
sono divise il campo dei fenomeni
sociali in modo tale che una sociologia, la quale voleva comprendere la totalità di questi
fenomeni con la loro connessione di
forma e contenuto, non poteva risultare nient’altro che un riassunto di quelle
scienze. Finché le linee che .tracciamo
attraverso la realtà storica per suddividerla in campi di ricerca separati congiungono soltanto quei
punti che rivelano i medesimi contenuti di interessi, questa realtà non concede nessun posto a una sociologia particolare.
Occorre piuttosto una linea che,
attraversando tutte quelle finora tracciate, sciolga il puro fatto dell’associazione, considerato
nelle sue molteplici configurazioni, dal suo collegamento con i contenuti più
divergenti e lo costituisca come campo particolare. Essa diventa in tal modo una scienza specifica nello stesso
senso in cui lo è diventata — con tutte
le ovvie differenze di metodo e di risultati — la teoria della conoscenza,
astraendo le categorie o funzioni del conoscere in quanto tali dalla
molteplicità delle conoscenze delle cose singole. Essa appartiene al tipo di
scienza il cui carattere specialistico
non consiste nel fatto che il loro oggetto
venga compreso insieme ad altri sotto un concetto complessivo superiore (come la filologia classica e la
germanistica, oppure l’ottica e
l’acustica), bensì nel fatto di accostare un intero campo di oggetti da un
punto di vista particolare. Non il suo
oggetto, ma la sua forma di considerazione, la particolare astrazione da
essa compiuta, la differenzia dalle altre scienze storico-sociali. Il concetto di società copre due significati
che devono essere tenuti rigorosamente
distinti nella trattazione scientifica. Essa
è da un lato il complesso degli individui associati, il materiale umano formato socialmente, che costituisce
l’intera realtà storica. Ma d’altro lato la «società» è anche la somma di
quelle forme di relazione, in virtù
delle quali dagli individui sorge
appunto la società nel primo senso. Così si definisce « sfera » sia una materia formata in un determinato
modo, sia anche, in senso matematico, la
pura e semplice figura o forma in virtù
della quale dalla semplice materia sorge la sfera nel primo senso. Quando si parla di scienze della
società in quel primo significato, il
loro oggetto è tutto ciò che accade nella e con la società; mentre la scienza della società nel
secondo senso ha per oggetto le forze,
le relazioni e le forme mediante le quali gli
uomini si associano, e che costituiscono quindi, nella loro
configurazione autonoma, la «società » sensu strictissimo — il che evidentemente non viene alterato dal fatto
che il contenuto dell’associazione, le
modificazioni specifiche del suo scopo e
interesse materiale decidono spesso o sempre della sua formazione
specifica. Del tutto errata sarebbe qui l’obiezione che tutte queste forme — gerarchie e corporazioni,
forme di concorrenza e forme di
matrimonio, amicizie e costumi socievoli, forme di potere da parte di una persona o di più
persone — sono soltanto costellazioni di avvenimenti in società già esistenti:
se non esistesse già una società, mancherebbe il presupposto e l’occasione per
il sorgere di tali forme. Questa concezione nasce dal fatto che in ogni società a noi nota agisce
un gran numero di forme di connessione,
cioè di forme di associazione del genere.
Se anche una di esse venisse meno, rimarrebbe ancor sempre la «società », cosicché di ciascuna può certo
sembrare che si aggiunga a una società già compiuta o sorga nell’ambito di
essa. Ma se si immagina di eliminare
tutte queste forme, non rimane più nessuna società. La società sorge soltanto
quanto siffatte relazioni reciproche,
suscitate da certi motivi e interessi, diventano operanti. Se la storia e le
leggi della formazione complessiva che così si sviluppa sono quindi certamente
materia della scienza della società nel
senso più ampio, è pur vero che —
essendosi questa già suddivisa nelle scienze sociali particolari — a una sociologia nel senso più stretto,
cioè in quello che pone un compito
particolare, rimane soltanto più la considerazione delle forme astratte, le
quali non tanto producono l’associazione quanto piuttosto soro l’associazione.
La società, nel senso che può impiegare
la sociologia, è allora o l’astratto concetto generale che designa queste
forme, il genere di cui esse sono
specie, oppure la loro somma di volta in volta operante. Da questo concetto consegue inoltre che un
dato numero di individui può essere
società in grado maggiore o minore: a
ogni nuovo fiorire di formazioni sintetiche, a ogni costituzione di gruppi di partito, a ogni unificazione in
vista di un’opera comune o in comunione
di sentimento e di pensiero, a ogni
divisione più netta tra servi e padroni, a ogni pasto in comune, a ogni
adornarsi per gli altri, lo stesso gruppo diventa appunto più «società» di quanto lo fosse
prima. Non esiste mai società in
generale, nel senso che quei particolari fenomeni di connessione si siano formati soltanto
presupponendo la sua esistenza; infatti
non esiste alcuna azione reciproca in quanto
tale, ma particolari modi di essa, con il cui manifestarsi la società esiste e che non sono né la causa né
la conseguenza di questa, ma sono
immediatamente già essa stessa. Soltanto la
sterminata quantità e diversità con cui esse sono in ogni attimo
operanti ha conferito al concetto generale di società una realtà storica apparentemente autonoma. Forse
in questa ipostasi di una mera astrazione risiede la causa della peculiare
nebulosità e insicurezza che hanno circondato tale concetto e le precedenti
trattazioni della sociologia generale — così come non si è fatta molta strada con il concetto di vita,
finché la scienza non lo ha considerato
come un fenomeno unitario di realtà immediata. La scienza della vita ha
raggiunto un terreno solido soltanto
quando sono stati indagati i singoli processi all’interno degli organismi la
cui somma o il cui tessuto costituisce la
vita, soltanto quando si è riconosciuto che la vita consiste solo
in questi processi particolari dentro e
tra gli organi e le cellule. Soltanto
in questa maniera si può cogliere ciò che nella
società è veramente « società », così come soltanto la geometria determina che cosa negli oggetti spaziali
costituisce realmente la loro
spazialità. La sociologia come dottrina dell’essere-società dell’umanità — la quale
può ancora essere oggetto di scienza
sotto innumerevoli altri aspetti — sta dunque con le altre scienze
speciali nello stesso rapporto in cui la geometria sta con le scienze fisico-chimiche della materia: essa
considera la forma mediante la quale la
materia si traduce in corpi empirici — la
forma che certamente di per sé sola esiste soltanto nell’astrazione,
proprio come le forme di associazione. Tanto la geometria quanto la sociologia lasciano ad altre
scienze l'indagine dei contenuti che si
presentano nelle loro forme, o dei fenomeni
totali di cui esse considerano la pura e semplice forma. C'è appena bisogno di avvertire che
quest’analogia con la geometria non va
più in là della chiarificazione che abbiamo qui tentato del problema di principio della sociologia.
Soprattutto la geometria ha il vantaggio di trovare già pronte nel suo
campo forme estremamente semplici, nelle
quali possono essere risolte le figure
più complicate; perciò è possibile, partendo da relativamente poche
determinazioni fondamentali, costruire l’intero
ambito delle figure possibili. Per quanto riguarda le forme di associazione non c'è da aspettarsi, almeno
per lungo tempo ancora, una risoluzione
anche soltanto approssimativa in elementi semplici. La conseguenza di questo
fatto è che le forme sociologiche, se
devono avere qualche determinatezza, valgono
soltanto per una cerchia relativamente ristretta di fenomeni. Quando si dice per esempio che la
sovra-ordinazione e la subordinazione sono una forma presente in quasi ogni
associazione umana, con questa
conoscenza generale si è fatta poca strada. Occorre piuttosto scendere alle
specie particolari di sovra-ordinazione e di subordinazione, alle forme
specifiche della loro realizzazione, che
perdono allora naturalmente ambito di validità in rapporto alla loro
determinatezza. Se l’alternativa che si
usa proporre ora a ogni scienza — se
cioè essa proceda alla scoperta di leggi atemporalmente valide o alla rappresentazione e alla comprensione
di processi storicoreali singolari — non esclude comunque innumerevoli
forme intermedie nell’esercizio
effettivo della scienza, il concetto
problematico qui stabilito non viene toccato fin dall'inizio dalla necessità di questa scelta. Questo oggetto
astratto dalla realtà può essere da un
lato considerato sotto il profilo delle relazioni legali che, poste semplicemente nella
struttura oggettiva degli elementi,
rimangono indifferenti alla loro realizzazione spaziotemporale: esse sono
appunto valide, poco importa che le realtà storiche le mettano in azione una o
mille volte. D'altra parte quelle forme
di associazione possono anche essere considerate nel loro verificarsi in un
luogo e in un tempo, nel loro sviluppo
storico entro determinati gruppi. La loro determinazione sarebbe, in
quest’ultimo caso, uno scopo autonomo per così
dire storico, mentre nel primo sarebbe materiale induttivo per la scoperta di rapporti legali atemporali.
Sulla concorrenza, per esempio, siamo
edotti dai campi più diversi: la politica e
l'economia politica, la storia delle religioni e quella dell’arte
ce ne presentano innumerevoli esempi. In
base a questi fatti si tratta allora di
stabilire che cosa significhi la concorrenza come forma pura di atteggiamento umano, in quali
circostanze essa sorga, come si
sviluppi, quali modificazioni subisca per effetto della specie particolare del suo oggetto, da
quali contemporanee determinazioni formali e materiali di una società essa
venga potenziata o frenata, come la concorrenza tra gli individui si differenzia da quella tra i gruppi — in
breve, che cosa essa sia come forma di
relazione degli uomini tra loro, la quale può
accogliere in sé tutti i contenuti possibili ma, attraverso l’identità
del suo manifestarsi nella grande varietà di questi ultimi, dimostra di appartenere a un campo regolato
da leggi proprie e legittimato
all’astrazione. Nei fenomeni complessi ciò che è uniforme viene messo in evidenza con una
specie di sezione trasversale, mentre ciò che in essi è difforme — cioè in
questo caso gli interessi sostanziali —
viene d’altra parte paralizzato. In modo
corrispondente si deve dunque procedere con tutti i grandi rapporti e le azioni reciproche che
formano la società: con la formazione
dei partiti, con l'imitazione, con la formazione di classi, di cerchie e di
suddivisioni secondarie, con l’incorporarsi delle azioni sociali reciproche in
formazioni particolari di carattere
oggettivo, personale, ideale, con lo sviluppo e il ruolo delle gerarchie, con la «rappresentanza
» di collettività da parte di singoli,
con il significato di un antagonismo comune per la coesione interna del gruppo.
A tali problemi principali si aggiungono poi, sostenendo in modo uniforme la
determinatezza formale dei gruppi, dei fatti da una parte più specifici e dall’altra più complicati, come per esempio
il significato dell’«apartitico », quello del « povero » come elemento
organico delle società, quello della
determinatezza numerica degli elementi dei gruppi, del primus inter pares e del
tertius gaudens. Come procedimenti più
complicati si dovrebbero ricordare l’incrociarsi di cerchie molteplici nelle
singole personalità, la particolare importanza del «segreto» nella formazione
di cerchie, la modificazione dei
caratteri di gruppo a seconda che essi
comprendano individui che si trovano insieme localmente oppure individui
separati da elementi estranei, nonché innumerevoli altri fenomeni. Con ciò lascio impregiudicata — come già si
è accennato — la questione se nella
diversità dei contenuti si presenti un’eguaglianza assoluta delle forme.
L'eguaglianza approssimativa che esse
mostrano in circostanze materialmente molteplici — così come il fenomeno contrario — è sufficiente
per ritenerlo possibile in linea di principio; nel fatto che ciò non si
realizzi completamente si manifesta appunto la differenza tra l’accadere
psichico-storico, con le sue fluttuazioni e complicazioni mai interamente
razionalizzabili, e la capacità della geometria di separare con assoluta
purezza le forme sottoposte al’ suo concetto
dalla loro realizzazione nella materia. Si tenga pure presente che questa eguaglianza del modo di azione
reciproca in qualsiasi diversità del materiale umano e oggettivo, e viceversa,
è anzitutto soltanto uno strumento per
compiere e legittimare nei singoli
fenomeni complessivi la separazione scientifica di forma e contenuto.
Metodologicamente questa sarebbe stata richiesta anche nel caso che le costellazioni di fatto
non lasciassero pervenire a quel procedimento induttivo che fa cristallizzare
l’eguale rispetto al differente, proprio
come l’astrazione geometrica della forma spaziale di un corpo sarebbe
legittimata anche qualora questo corpo
così formato si presentasse di fatto una sola volta nel mondo. Che ciò implichi una difficoltà di
procedimento è innegabile. Si prenda per
esempio il fatto che, verso la fine del
Medioevo, certi maestri di corporazione erano spinti, a causa dell'estensione delle relazioni commerciali,
a un approvvigionamento di materiali, a un impiego di apprendisti, a nuovi mezzi per attrarre i clienti che non si
conciliavano più con i vecchi princìpi
corporativi secondo i quali ogni maestro doveva
avere lo stesso «nutrimento » dell’altro, e che cercavano per questo di porsi al di fuori della stretta
unione prima esistente. Considerato
sotto il profilo della forma puramente sociologica, che astrae dal contenuto specifico, ciò vuol
dire che l’ampliamento della cerchia con la quale l’individuo è legato in
virtù delle sue azioni procede di pari
passo con una maggiore configurazione della specificità individuale, con una
maggiore libertà e differenziazione reciproca dei singoli. Ma non esiste,
a quanto vedo, nessun metodo sicuramente
efficace per ricavare questo significato
sociologico da quel fatto complesso, realizzato in virtù del suo contenuto.
Quale configurazione meramente
sociologica, quale particolare rapporto reciproco di individui, facendo astrazione dagli interessi e dagli
impulsi che rimangono nell’individuo e dalle condizioni di carattere puramente
oggettivo, siano contenuti nel processo storico — ciò può essere spiegato rispetto a quest’ultimo in
molteplici direzioni; non soltanto, ma i
fatti storici che ricoprono la realtà di determinate forme sociologiche possono
essere indicati soltanto nella loro
totalità materiale, e manca un mezzo per rendere dimostrabile, e attuabile in tutte le circostanze, la loro
separazione in un momento materiale e in
un momento sociologico-formale. Ci si
comporta qui allo stesso modo che con la dimostrazione di una proposizione geometrica sulla base
dell’inevitabile accidentalità e
rozzezza di una figura disegnata. Ma il matematico può ora contare sul fatto che il concetto della
figura geometrica ideale è noto e
operante, e viene intimamente considerato come l’unico senso ora essenziale del
tratto di gesso o d’inchiostro. Ma qui non si può partire dal presupposto
corrispondente, in quanto non si può
ricavare logicamente dal fenomeno totale
complessivo ciò che è realmente la pura associazione. Occorre qui affrontare il rischio di parlare
di procedimento intuitivo — per quanto
distante esso sia dall’intuizione metafisico-speculativa — di una particolare
messa a fuoco con la quale si attua
quella separazione e che può essere insegnata soltanto adducendo degli esempi, finché essa non sarà
colta con metodi esprimibili
concettualmente e di sicuro affidamento. Questa
difficoltà è accresciuta dal fatto che non soltanto l’impiego del concetto sociologico fondamentale manca di un
appiglio indubitabile, ma che anche quando si opera efficacemente con
esso, per molti aspetti degli
avvenimenti l'inserimento sotto di esso o sotto il concetto della
determinatezza di contenuto rimane
sovente arbitrario. Si potrà per esempio avere opinioni opposte sulla questione se e fino a qual punto il
fenomeno del « povero» sia di natura sociologica, ossia un risultato dei
rapporti formali all’interno di un
gruppo, condizionato dalle correnti e
dagli spostamenti generali che si producono necessariamente nel confluire degli uomini, oppure se la
povertà sia da considerare come una determinazione soltanto materiale di certe
esistenze individuali, esclusivamente dall’angolo visuale del contenuto di
interesse economico. I fenomeni storici potranno essere considerati, nel loro complesso, da tre punti
di vista distinti in linea di principio:
da quello delle esistenze individuali che
costituiscono i portatori reali delle situazioni; da quello delle forme di azione reciproca formale, che
certamente si attuano anche soltanto in
esistenze individuali, ma che vengono ora
considerate non già sotto il profilo di queste, bensì sotto quello del loro insieme, del loro esistere l’una con
e per l’altra; da quello dei contenuti
concettualmente formulabili di situazioni e
avvenimenti, in presenza dei quali non si indaga in questo caso sui loro portatori o sui loro rapporti, bensì
sul loro significato puramente oggettivo
— l'economia e la tecnica, l’arte e la
scienza, le norme giuridiche e i prodotti della vita affettiva. Questi tre punti di vista si intrecciano
continuamente, e la necessità
metodologica di tenerli distinti si scontra a ogni passo con la difficoltà di
ordinare ogni elemento in una serie indipendente dall'altra, e con
l'aspirazione a un'immagine complessiva della realtà, comprendente tutte le
posizioni. Né si trà mai stabilire per
tutti i casi quanto profondamente un
elemento, fondante e fondato, penetri nell'altro, con la conseenza che —
nonostante tutta la chiarezza e precisione metodologica dell’impostazione di
principio — a stento si potrà evitare
l’equivocità: la trattazione del singolo problema sembra rientrare ora nell’una ora nell’altra
categoria, e anche nell’ambito di una categoria non sempre può essere
delimitata con sicurezza rispetto alla forma di trattazione dell’altra. Del
resto spero che la metodologia della
sociologia qui proposta risulterà più
sicura e forse addirittura più chiara attraverso le analisi dei suoi problemi singoli che non da questa
fondazione astratta. Nelle cose dello spirito non è fenomeno tanto raro — ma
è anzi presente in tutti i campi di
problemi più generali e più profondi —
che ciò che dobbiamo chiamare, con inevitabile
paragone, il fondamento non sia così solido come la costruzione eretta
al di sopra. Anche la pratica scientifica non potrà fare a meno, particolarmente in campi finora
inesplorati, di una certa misura di
procedimento istintivo, i cui motivi e le cui
norme acquistano soltanto in seguito una coscienza del tutto chiara e un'elaborazione concettuale. E se il
lavoro scientifico non può mai adagiarsi
completamente su quei modi di procedere ancora indistinti, istintivi, adottati
soltanto nella ricerca particolare, esso sarebbe d'altra parte condannato alla
sterilità se di fronte a compiti nuovi
si volesse porre come condizione già del
primo passo una metodologia compiutamente formulata. Nell'ambito del campo di problemi che viene
costituito separando le forme di azione reciproca associativa dal fenomeno totale della società alcune parti delle
indagini qui proposte si collocano
ormai, per così dire, quantitativamente al di là dei a. Considerando l’infinita complicazione
della vita sociale, nonché i concetti e
metodi — delineantisi appunto dalla prima sgrossatura — con i quali essa dev'essere padroneggiata
spiritualmente, sarebbe una pretesa immodesta voler già ora sperare in una
chiarezza di domande e in un’csattezza di risposte che arrivi fino in fondo. Mi
sembra più dignitoso fare fin
dall’inizio quest'ammissione, poiché in questo modo almeno il primo
passo è più netto, piuttosto che mettere
in questione, con l'affermazione della
conclusione, addirittura gweszo significato di tentativi del genere.
compiti altrove riconosciuti come sociologici. Appena si pone la questione delle influenze reciproche tra
gli individui, la cui somma produce
quella coesione nella società, si rivela immediatamente una serie — anzi, per
così dire, un mondo — di forme di
relazione che finora non venivano comprese affatto nella scienza della società, o lo erano senza
cogliere la loro importanza fondamentale e vitale. In complesso la sociologia
si è propriamente limitata a quei fenomeni sociali nei quali le forze in azione reciproca sono già cristallizzate in
base ai loro portatori immediati, per lo
meno a costituire unità ideali. Stati e unioni
sindacali, gruppi sacerdotali e forme di famiglia, costituzioni economiche ed eserciti, corporazioni e
comuni, formazione di classi e divisione
del lavoro industriale — questi e i grandi
organi e sistemi del genere sembrano costituire la società ed esaurire l’ambito della scienza che la
riguarda. È ovvio che, quanto più una
regione di interessi e una direzione di azione
sociale è grande, significativa e dominante, tanto più presto il vivere e l’agire immediato,
inter-individuale, si realizzerà in
formazioni oggettive, in un'esistenza astratta al di là dei processi
particolari e primari. Ma questa osservazione richiede un'integrazione
importante in due direzioni. Oltre a quei fenomeni macroscopici, che si impongono da tutte le
parti per la loro estensione e per la
loro importanza esterna, esiste un numero
sterminato di forme di relazione e di modi di azione reciproca tra gli uomini che sono di dimensioni minori
e meno appariscenti nei casi particolari, ma che vengono offerti da questi
casi particolari in una quantità
inestimabile e che, sia pure infiltrandosi tra le formazioni sociali più
comprensive, per così dire ufficiali,
sono quelli che soli dànno origine alla società quale noi la conosciamo. La limitazione ai primi
fenomeni ricorda la scienza primitiva
del corpo umano interno, che si limitava ai
grandi organi, nettamente delimitati, come il cuore, il fegato, i polmoni, lo stomaco ecc., e trascurava
invece gli innumerevoli tessuti, privi
di una denominazione popolare o non conosciuti,
senza i quali quegli organi più distinti non darebbero mai luogo a un corpo vivente. Con le formazioni
della specie sopra indicata, che
costituiscono gli oggetti tradizionali della scienza della società, non sarebbe assolutamente
possibile comporre la vita reale della
società così come si presenta nell’esperienza: GEORG SIMMEL 483 senza l’intervento di innumerevoli sintesi,
singolarmente meno comprensive — alle
quali devono essere in gran parte dedicate
queste indagini — la vita sociale si sfalderebbe in una molteplicità di
sistemi discontinui. Ciò che rende più difficile fissare scientificamente tali forme sociali poco
appariscenti, le rende al tempo stesso
infinitamente importanti per la più profonda comprensione della società: il
fatto cioè che in generale esse non sono
ancora consolidate in formazioni stabili, sovra-individuali, ma mostrano la società per così dire allo
status nascens — naturalmente non nel suo primo inizio assoluto, storicamente
imperscrutabile, bensì in quello che si ha ogni giorno e ogni ora. L'associazione tra gli uomini si allaccia, si
scioglie e si riallaccia continuamente, come un eterno fluire e pulsare che
incatena gli individui, anche quando non perviene a organizzazioni vere e proprie. Qui si tratta quasi di
processi microscopico-molecolari all’interno del materiale umano, i quali però
costituiscono l’accadere reale che si concatena o si ipostatizza in quelle unità e sistemi macroscopici e stabili. Il
fatto che gli uomini si guardano l’un
l’altro e che sono reciprocamente gelosi; il fatto che si scrivono lettere o pranzano insieme;
il fatto che riescono simpatici o
antipatici prescindendo completamente da tutti gli interessi tangibili; il fatto che la
gratitudine per la prestazione
altruistica produce nel tempo un vincolo indissolubile; il fatto che uno chiede la strada all’altro o si veste
e si adorna per l’altro — tutte le mille
relazioni che si riflettono da persona a
persona, momentanee o durevoli, coscienti o inconscie, superficiali o
ricche di effetti, da cui questi esempi sono scelti del tutto a caso, ci legano in modo
indissolubile. In ogni attimo questi
fili vengono filati, vengono lasciati cadere, ripresi di nuovo, sostituiti da altri, intessuti con
altri. Qui risiedono le azioni
reciproche — accessibili soltanto alla microscopia psicologica — tra gli atomi
della società, che sorreggono tutta la
tenacia ed elasticità, tutta la varietà e unitarietà di questa vita così chiara e così enigmatica della società.
Si tratta di applicare il principio
delle azioni infinitamente numerose e infinitamente piccole anche alla prossimità caratteristica
della società, così come si è dimostrato
efficace nelle scienze che studiano la successione — la geologia, la teoria
dello sviluppo biologico, la storia. I passi incommensurabilmente piccoli
producono la connessione dell’unità storica, e le azioni reciproche,
altrettanto impercettibili, tra persona e persona producono la connessione
dell’unità sociale. Soltanto ciò che accade nel dominio dei contatti fisici e spirituali, della causazione
reciproca di piacere e di sofferenza,
dei discorsi e dei silenzi, degli interessi comuni e antagonistici, soltanto questo costituisce la
meravigliosa indissolubilità della società, il fluttuare della sua vita con cui
i suoi elementi acquistano, perdono,
spostano incessantemente il loro
equilibrio. Forse con questo riconoscimento la scienza della società può raggiungere il punto che per la
scienza della vita organica ha
rappresentato l’inizio della microscopia. Se fino ad allora l'indagine era limitata ai grandi
organi corporei, nettamente divisi, le cui differenze di forma e di funzione si
presentavano evidenti, soltanto a questo punto il processo vitale si è mostrato nel suo legame con i suoi più
piccoli portatori — le cellule — e nella
sua identità con le innumerevoli e incessanti
azioni reciproche tra di esse. Soltanto osservando come le cellule si
uniscano o si distruggano tra loro, si assimilino o si influenzino chimicamente, è possibile
comprendere a poco a poco come il corpo
crei la sua forma, la mantenga o la cambi.
I grandi organi, nei quali questi fondamentali portatori della vita e le loro azioni reciproche si sono
riuniti in formazioni particolari e in
funzioni percepibili a livello macroscopico, non avrebbero mai permesso di comprendere la
connessione della vita se quegli
innumerevoli processi, che si svolgono tra i più piccoli elementi e sono per così dire
soltanto riassunti da quelli macroscopici, non si fossero svelati come la vita
vera e propria, la vita fondamentale. AI di là di ogni analogia
sociologica o metafisica tra le realtà
della società e dell'organismo si tratta
qui soltanto dell’analogia del metodo di trattazione e del suo sviluppo; della scoperta dei tenui fili,
delle relazioni minime tra gli uomini,
dalla cui ripetizione continuativa vengono fondate e sorrette tutte quelle
grandi formazioni che, diventate
oggettive, presentano una storia vera e propria. Questi processi primari, che creano la società dall’immediato
materiale individuale, sono quindi da sottoporre a una considerazione
formale accanto ai processi e alle
formazioni superiori e più complicate; e le particolari azioni reciproche che
si offrono in queste misure non del
tutto consuete all’analisi teorica devono essere esaminate come forme
costitutive della società, come parti dell'associazione in generale. Anzi, a
questi tipi di relazione apparentemente privi di importanza sarà opportuno
dedicare una considerazione tanto più
approfondita quanto più la sociologia è
solita trascurarli. Ma proprio con
questa svolta le indagini qui progettate
sembrano destinate a diventare nient'altro che capitoli della psicologia, in ogni caso della psicologia
sociale. Certamente non c’è nessun
dubbio che tutti i processi e gli istinti sociali hanno la loro sede nelle anime, che
l’associazione è un fenomeno psichico e che nel mondo della realtà corporea non
c'è nessuna analogia col suo fatto
fondamentale, che cioè una pluralità di elementi si traduce in unità, poiché in
esso tutto rimane confinato
all’insuperabile esteriorità dello spazio. Qualsiasi accadimento esterno che
possiamo indicare come sociale sarebbe un
gioco di marionette, non più comprensibile e non più significa tivo dell’ammassarsi delle nuvole o
dell’incrociarsi dei rami di un albero,
se non fossimo in grado di riconoscere in modo del tutto evidente motivazioni psichiche,
sentimenti, pensieri, bisogni non soltanto come portatori di quegli elementi
esteriori, ma anche come loro elemento
essenziale e come l’unico che
propriamente ci interessi. La comprensione causale di ogni accadere
sociale sarebbe quindi raggiunta di fatto quando le constatazioni psicologiche
e il loro sviluppo permettessero di dedurre completamente questi avvenimenti in
conformità a «leggi psicologiche » — per
quanto problematico ci appaia questo concetto. E non c'è neppure nessun dubbio
che gli aspetti dell’esistenza storico-sociale che noi possiamo cogliere non
sono altro che concatenazioni psichiche,
che ricostruiamo con una psicologia istintiva o con una psicologia metodica e
riduciamo a un’interna plausibilità, al senso di una necessità psichica degli
sviluppi in questione. In questo senso ogni storia, ogni analisi di una situazione sociale è un esercizio di sapere
psicologico. Tuttavia è della massima importanza
metodologica, e addirittura decisivo per i princìpi delle scienze dello spirito
in generale, riconoscere che la trattazione scientifica di fatti psichici non
ha affatto bisogno di essere psicologia; anche dove facciamo ininterrottamente
uso di regole e di conoscenze psicologiche, dove la spiegazione di ogni fatto singolo è possibile
soltanto per via 486 GEORG SIMMEL psicologica — come nell’ambito della
sociologia — il senso e l'intenzione di
questo procedimento non devono necessariamente sfociare nella psicologia, cioè
nella legge del processo psichico, che può portare soltanto un determinato
contenuto, ma deve pervenire proprio a
questo contenuto e alle sue configurazioni. Abbiamo qui una differenza soltanto
di grado rispetto alle scienze della
natura esterna che, in quanto fatti della vita
spirituale, si svolgono anch'esse — in ultima analisi — soltanto nell’ambito dello spirito: la scoperta di
ogni verità astronomica o chimica, così
come la riflessione su di essa, è un avvenimento della coscienza che una psicologia compiuta
potrebbe dedurre integralmente soltanto
da condizioni e sviluppi psichici. Ma
quelle scienze sorgono in quanto assumono come proprio oggetto, in luogo
dei processi psichici, i loro contenuti e le loro connessioni, all'incirca come noi
consideriamo un dipinto nel suo
significato estetico e storico-artistico e non lo deduciamo dalle oscillazioni fisiche che costituiscono
i suoi colori, e che naturalmente creano
e sorreggono l’intera esistenza reale del
dipinto. È sempre na realtà che non possiamo abbracciare scientificamente nella sua immediatezza e
totalità, ma che dobbiamo cogliere da una serie di punti di vista separati e
configurare quindi in una pluralità di oggetti di scienze tra loro
indipendenti. Ciò è necessario anche nei confronti di quegli avvenimenti
psichici i cui contenuti non si raccolgono in un mondo spaziale indipendente e non si contrappongono
visivamente alla loro realtà psichica.
Per esempio le forme e le leggi di una
lingua, che pure è certamente formata soltanto da forze dell’anima e per
scopi dell'anima, vengono tuttavia trattate da una scienza linguistica che
prescinde del tutto da quella realizzazione data del suo oggetto e che lo rappresenta, lo
analizza e lo costruisce soltanto nel
suo contenuto oggettivo, insieme alle formazioni esistenti soltanto in questo contenuto
stesso. Analogamente avviene con'i fatti dell’associazione. Che gli uomini si
influenzino l’un l’altro, che uno faccia o subisca qualcosa, che presenti un essere o un divenire, perché altri
esistono o si manifestano, agiscono o
sentono — tutto questo è naturalmente un fenomeno psichico, e la realizzazione
storica di ogni singolo caso può essere
compresa solamente attraverso una rielaborazione psicologica, attraverso la
plausibilità di serie psicologiche, attraverso GEORG SIMMEL 487 l’interpretazione di ciò che è constatabile
dall’esterno per mezzo di categorie psicologiche. Ma una particolare
intenzione scientifica può trascurare
del tutto questo accadere psichico in
quanto tale e seguirne, scomporne, metterne in relazione i contenuti così come si coordinano sotto il
concetto di associazione. Si osservi per esempio come il rapporto di un
individuo più potente con altri più
deboli, che ha la forma del primus inter pares, graviti in modo tipico nel
senso di tradursi in una posizione di
potere assoluto del primo e di escludere a poco a poco gli aspetti di eguaglianza. Benché nella realtà
storica questo sia un processo psichico,
a noi interessa ora soltanto dal punto di
vista sociologico — come si dispongano qui i diversi stadi di sovra-ordinazione e di subordinazione, fino a
qual punto in una determinata relazione
un rapporto di sovra-ordinazione sia
compatibile con un rapporto di equiparazione in altre relazioni, e a partire da
quale punto di preponderanza esso distrugga completamente quest’ultimo; se la
connessione, la possibilità di
cooperazione sia maggiore nel primo o nel successivo stadio di tale sviluppo, e così via. Oppure si
constata che gli antagonismi raggiungono il massimo accanimento quando sorgono
sulla base di una precedente comunanza o
appartenenza reciproca che sia ancora in
qualche modo sentita, per cui si indica come
uno degli odi più feroci quello tra consanguinei. Ciò potrà essere reso comprensibile, anzi descritto,
come avvenimento soltanto in termini psicologici. Ma, considerata come
formazione sociologica, non interessa la
serie psichica che si svolge in ciascuno dei due individui, bensì la sinossi di
entrambe sotto la categoria dell’unione
e della discordia. Anche se la descrizione
singolare o tipica del processo può sempre essere soltanto psicologica,
ciò che ora importa è stabilire fino a qual punto il rapporto tra due individui o partiti possa
implicare antagonismo e appartenenza reciproca, per lasciare ancora al tutto
la colorazione di quest’ultima o dargli
quella del primo; quali specie di
appartenenza reciproca, sotto forma di ricordo o di istinto insopprimibile, forniscano i mezzi
per danneggiare in modo più crudele e
più profondamente lesivo di quello possibile nel caso di una precedente
estraneità; in breve, come quell’osservazione debba essere presentata quale
realizzazione di forme di relazione tra
gli uomini, quale particolare combinazione di categorie sociologiche essa
rappresenti. Riprendendo un accenno precedente, si può paragonare questo
procedimento — pur con tutte le
differenze — alla deduzione geometrica che si
compie su una figura disegnata sulla lavagna. Tutto ciò che qui può essere dato e visto sono tratti di
gesso riportati fisicamente; ma ciò che noi intendiamo nella trattazione
geometrica non sono questi tratti, bensì
il loro significato dal punto di vista
del concetto geometrico, che è completamente eterogeneo rispetto a quella figura fisica come
disposizione di particelle di gesso —
mentre d'altra parte possono essere inquadrati in categorie scientifiche anche
sotto la specie di questa formazione
fisica, facendo oggetto di indagini particolari per esempio la loro origine fisiologica o la loro
composizione chimica o la loro
impressione ottica. I dati della sociologia sono dunque processi psichici, la cui realtà immediata si offre in
primo luogo alle categorie psicologiche.
Ma queste, pur essendo indispensabili
per la descrizione dei fatti, rimangono al di fuori dello scopo dell’osservazione sociologica, il quale
consiste piuttosto soltanto nella realtà oggettiva dell’associazione sorretta
dai processi psichici e spesso
descrivibile solamente per mezzo di questi —
così come, per esempio, una composizione teatrale contiene dall’inizio
alla fine processi psicologici, può essere compresa soltanto psicologicamente,
e tuttavia la sua intenzione non risiede in
conoscenze psicologiche, bensì nelle sintesi che i contenuti dei processi psichici costituiscono dal punto di
vista del tragico, della forma
artistica, dei simboli vitali ?. Se la dottrina
dell’associazione in quanto tale, distinta da
tutte le scienze sociali che sono determinate da un particolare contenuto della vita sociale, è apparsa come
l’unica scienza legittimata ad assumere
senz'altro il nome di scienza della società, l'importante non sta naturalmente
in questa denominazio a. L'introduzione
di una nuova forma di considerazione dei fatti deve sostenere i diversi aspetti del suo metodo
mediante analogie con campi
riconosciuti; ma soltanto il processo — forse senza fine — in cui il
principio determina le sue attuazioni nell’ambito della ricerca concreta, e
in cui queste attuazioni legittimano il
principio come fecondo, può ripulire
tali analogie dagli aspetti in cui la diversità di materia copre
l’eguaglianza formale che è ora decisiva. Ma questo processo le libera della
loro equivocità soltanto nella misura in
cui le rende superflue. ne, bensì nella scoperta di quel nuovo complesso di
problemi particolari. La polemica su ciò
che significhi propriamente sociologia mi sembra assolutamente priva di rilievo
finché verte soltanto sul riconoscimento
di questo titolo ad ambiti di problemi già esistenti e trattati. Se invece per
indicare questo insieme di compiti si sceglie il titolo di sociologia con la
pretesa di coprire completamente ed
esclusivamente il concetto di sociologia, ciò dev'essere ancora giustificato
nei riguardi di un altro gruppo di
problemi che, non meno degli altri, cercano innegabilmente — al di là delle
scienze della società determinate in
base al contenuto — di pervenire ad asserzioni sulla società in quanto tale e considerata nel suo
complesso. AI pari di ogni altra
scienza esatta, rivolta alla comprensione
immediata del dato, anche la scienza sociale è delimitata da due campi filosofici. Il primo comprende le
condizioni, i concetti fondamentali, i presupposti della ricerca particolare,
che non possono trovare sistemazione in
questa perché stanno piuttosto già a base di essa; nel secondo questa ricerca
particolare viene recata a completamenti
e a connessioni e messa in relazione con domande e concetti, che non trovano
posto nell’ambito dell'esperienza e del
sapere immediatamente oggettivo. Quello
è la teoria della conoscenza, questo la metafisica dei campi particolari in questione. La seconda implica
propriamente due problemi, che però
nell’effettiva trattazione concettuale restano
di solito giustamente indivisi: l’insoddisfazione per il carattere frammentario delle conoscenze particolari,
per la rapida fine delle constatazioni
oggettive e delle serie dimostrative conduce
all'integrazione di queste lacune con i mezzi della speculazione; e
appunto questi mezzi servono all'esigenza parallela di integrare la mancanza di
connessione e la reciproca estraneità di quei frammenti nell'unità di un quadro
complessivo. Accanto a questa funzione
metafisica, orientata verso il grado del
conoscere, un’altra procede verso una diversa dimensione dell’esistenza, nella quale risiede il
significato metafisico dei suoi
contenuti: noi la esprimiamo come il senso o lo scopo, come la sostanza assoluta tra i fenomeni
relativi, o anche come il valore o il
significato religioso. Di fronte alla società questa attitudine spirituale suscita domande come
questa: la società è lo scopo
dell’esistenza umana o un mezzo per l'individuo? non 490 GEORG SIMMEL è essa per l’individuo un mezzo, ma al
contrario un ostacolo? il suo valore
consiste nella sua vita funzionale o nella produzione di uno spirito oggettivo
o nelle qualità etiche che essa desta
nei singoli? nei tipici stadi di sviluppo delle società si manifesta un
“analogia cosmica, in modo tale che le relazioni sociali degli uomini debbano essere inserite in una forma
o in un ritmo generale, che di per sé
non compare nel fenomeno ma che fonda
tutti i fenomeni, e che guida anche le forze dei fatti materiali? può esserci in generale un
significato metafisico-religioso di collettività, oppure questo significato è
riservato alle anime individuali? Ma queste e innumerevoli domande analoghe
non mi sembrano possedere quell’autonomia categoriale, quel caratteristico rapporto tra oggetto e metodo che le
legittimerebbe a fondare la sociologia
come una scienza nuova, coordinata con quelle
esistenti. Tutte queste sono infatti senz'altro domande filosofi che, e il fatto che esse abbiano assunto come
loro oggetto la società significa
soltanto l’estensione a un campo più vasto di
un modo di conoscenza già dato nella sua struttura. Che si riconosca oppure no la filosofia come
scienza, la filosofia della società non
ha alcun diritto di sottrarsi ai vantaggi o agli svantaggi della sua appartenenza alla
filosofia in generale attraverso la costituzione in una particolare scienza
sociologica. Non diversamente stanno le
cose con i problemi filosofici che non
hanno la società come loro presupposto (come nel caso dei precedenti), ma che ricercano invece
essi stessi i presupposti della società — non già in senso storico, come se
si dovesse descrivere il sorgere di una
qualche società particolare o le
condizioni fisiche e antropologiche sulla cui base può sorgere una società. Né
si tratta qui degli stimoli particolari che
muovono il loro soggetto quando incontra altri soggetti e i cui modi sono descritti dalla sociologia. Si
tratta invece di questo: quando un
soggetto siffatto sussiste, quali sono i presupposti della sua coscienza di costituire un essere
sociale? In quelle parti considerate di
per sé non si ha ancora una società; ma
essa è già reale nelle forme di azione reciproca: quali sono dunque le condizioni interne e di principio
in base alle quali gli individui forniti
di tali stimoli dànno origine alla società in
generale, l’a priori che rende possibile e forma la struttura empirica
dell'individuo in quanto essere sociale? Come sono possibili non soltanto le formazioni
particolari che sorgono empiricamente, e che rientrano nel concetto generale di
società, ma la società in generale come
forma oggettiva di anime soggettive ? COME È POSSIBILE LA SOCIETÀ? Kant poteva
porre e dare una risposta alla questione fondamentale della sua filosofia —
come è possibile la natura? — soltanto
perché per lui la natura non era altro che la rappresentazione della natura.
Ciò non significa soltanto che «il mondo
è la mia rappresentazione », e che noi possiamo quindi parlare anche della natura solamente in quanto essa è
un contenuto della nostra coscienza; ma
significa che ciò che chiamiamo natura è
un modo particolare in cui il nostro intelletto raccoglie, ordina, dà forma
alle sensazioni. Queste sensazioni « date » — del colorato e del gustabile, dei
suoni e delle temperature, delle resistenze e degli odori — che attraversano la
nostra coscienza nella successione
accidentale di un'esperienza vissuta
soggettiva, non sono di per sé ancora « natura », ma lo diventano
attraverso l’attività dello spirito che le compone in oggetti e in serie di
oggetti, in sostanze e in proprietà, in collegamenti causali. Così come ci sono
dati immediatamente, gli elementi del
mondo non posseggono per Kant quella conmessione che sola costituisce l'unità comprensibile, e
conforme a leggi della natura, o meglio
che significa appunto l’essere-natura di quei
frammenti di mondo in sé incoerenti e manifestantisi senza regola. Così l’immagine kantiana del mondo si
delinea in un contrappunto quanto mai
caratteristico: le nostre impressioni
sensibili sono per lui puramente soggettive, poiché dipendono dall’organizzazione fisico-psichica — che in
altri esseri potrebbe essere diversa — e dall’accidentalità dei suoi stimoli, e
esse diventano «oggetti» quando vengono
accolte dalle forme del nostro
intelletto, configurate da queste in regolarità stabili e in un'immagine coerente della « natura »j ma d'altra
parte quelle sensazioni sono pur sempre
il dato reale, il contenuto del mondo da assumere nella sua invariabilità e la
garanzia di un 492 GEORG SIMMEL essere indipendente da noi, cosicché ora
proprio quelle elaborazioni intellettuali delle sensazioni in forma di oggetti,
di connessioni, di regolarità causali appaiono come soggettive, come qualcosa di aggiunto da noi in antitesi a ciò
che riceviamo dall’esistenza, come le
funzioni dell’intelletto stesso che — esse
pure immutabili — avrebbero con un altro materiale sensibile formato una natura diversa per contenuto. La
natura è per Kant un determinato modo di
conoscere, un’immagine che si sviluppa
attraverso le nostre categorie conoscitive e in esse. La questione: come è possibile la natura? —
ossia quali sono le condizioni che
devono sussistere perché vi sia una natura — si
risolve quindi per lui mediante la ricerca delle forme che costituiscono
l’essenza del nostro intelletto e che in tal modo producono la natura in quanto
tale. Si sarebbe tentati di trattare in
modo analogo la questione delle
condizioni 4 priori in base alle quali è possibile la società. Infatti anche qui sono dati elementi
individuali che in certo senso
sussistono anch'essi nella loro esteriorità reciproca, al pari delle sensazioni, e raggiungono la
loro sintesi nell’unità di una società
soltanto attraverso un processo di coscienza che pone l'essere individuale del singolo
elemento in relazione con quello
dell’altro in determinate forme e secondo determinate regole. Ma la differenza decisiva tra l’unità
di una società e l’unità della natura
consiste in questo: che la seconda — dal
punto di vista kantiano qui presupposto — sussiste esclusivamente nel
soggetto conoscente e viene prodotta esclusivamente da lui sulla base degli elementi sensibili di
per sé privi di legame, mentre l’unità
sociale viene realizzata senz'altro dai
suoi elementi, poiché essi sono coscienti e sinteticamente attivi, e non ha bisogno di alcun osservatore. Il
principio kantiano secondo il quale la
connessione non può mai risiedere nelle
cose, poiché viene posta in essere soltanto dal soggetto, non vale per ia connessione sociale, che di fatto
si compie piuttosto immediatamente nelle
« cose » — che qui sono le anime individuali. Anch’essa rimane naturalmente,
come sintesi, qualcosa di puramente
psichico e senza parallelo con le formazioni spaziali e con le loro azioni
reciproche. Ma l’unificazione non ha qui
bisogno di nessun fattore al di fuori dei suoi elementi, perché ciascuno di questi esercita la
funzione che nei confronti del mondo esterno compie l’energia psichica
dell'osservatore: la coscienza di
costituire con gli altri un’unità è qui effettivamente tutta l’unità in
questione. Naturalmente ciò non designa
la coscienza astratta del concetto di unità, bensì le innumerevoli
relazioni singolari, il sentimento e il sapere di questo determinare e venir
determinato nei confronti degli altri, e d’altra parte non esclude affatto che un terzo
osservatore compia ancora tra le persone una sintesi fondata soltanto su di
lui, al pari che tra gli elementi
spaziali. Quale settore dell’essere dato all'intuizione esterna debba essere
raccolto in un’unità non risulta dal suo contenuto immediato e semplicemente
oggettivo, ma viene determinato dalle
categorie del soggetto e in base ai suoi
bisogni conoscitivi. La società è invece l’unità oggettiva che non ha bisogno dell'osservatore non compreso
in essa. Le cose della natura sono da
una parte assai più distanti tra loro
che non le anime: l’unità di un uomo con l’altro — che è implicita nel comprendere, nell'amore,
nell'opera comune — non trova alcuna
analogia nel mondo spaziale, in cui ogni
essere occupa il suo posto che non può dividere con nessun altro. Ma d’altra parte i frammenti
dell’essere spaziale si compongono, nella coscienza dell’osservatore, in
un’unità che di nuovo non viene raggiunta dall’insieme degli individui.
Infatti, dal momento che gli oggetti
della sintesi sono qui esseri indipendenti, centri psichici, unità personali,
essi si ribellano contro quell’assoluto comporsi nell'anima di un altro
soggetto, al quale deve adattarsi il «
disinteresse » delle cose inanimate. Così un gruppo di uomini è un’unità in
misura molto superiore realiter, ma
idealiter in misura molto inferiore di quanto un tavolo, sedie, un divano, un tappeto e uno
specchio non costituiscano l’«ammobiliamento di una stanza » o di quanto un
fiume, un prato, alberi, una casa non costituiscano «un paesaggio », o, su un
dipinto, « un quadro ». — La società è « la mia
rappresentazione », ossia poggia sull’attività della coscienza, in un senso del tutto diverso dal mondo esterno.
Infatti l’altra anima ha per me appunto
la stessa realtà che possiedo io, cioè
una realtà che si differenzia molto da quella di una cosa materiale. Per
quanto Kant garantisca che gli oggetti spaziali hanno esattamente la medesima
sicurezza della mia propria esistenza, con quest’ultima possono essere intesi
soltanto i singoli contenuti della mia vita soggettiva: infatti il fondamento
del rappresentare in generale, il
sentimento dell'io, possiede una
incondizionatezza e una incrollabilità che non viene conseguita da nessuna particolare rappresentazione di un
oggetto esterno materiale. Ma anche il
fatto del tu possiede per noi — si possa
o no giustificarla — questa stessa sicurezza; € come causa o come effetto di questa sicurezza noi sentiamo
il tu come qualcosa di indipendente dalla nostra rappresentazione di esso,
qualcosa che esiste di per sé esattamente come la nostra propria esistenza. Che questo per-sé dell’altro non ci
impedisca tuttavia di farne una nostra
rappresentazione, che qualcosa che non si
può risolvere affatto nel nostro rappresentare divenga ciononostante
contenuto, e quindi anche prodotto di questo rappresentare — questo è lo schema
e il problema psicologico-gnoseologico più profondo dell’associazione. Entro la
nostra coscienza noi distinguiamo molto
esattamente tra la fondamentalità dell'io, presupposto di ogni rappresentare,
la quale non partecipa alla problematica
dei suoi contenuti che non si può mai mettere completamente da parte, e questi
contenuti che, col loro andare e venire,
con la loro dubitabilità e correggibilità, si
presentano come semplici prodotti di quella forza ed esistenza assoluta e ultima del nostro essere psichico.
Ma noi dobbiamo trasporre nell’altra
anima, anche se in ultima analisi la rappresentiamo pure, appunto queste
condizioni, (e) piuttosto questi aspetti
incondizionati del nostro io; essa possiede per noi quella misura estrema di
realtà che il nostro io possiede di fronte
ai suoi contenuti e che siamo sicuri debba spettare anche a quell’altra anima nei confronti dei suoi
contenuti. In queste circostanze la
questione come sia possibile la società riveste un senso metodologico completamente diverso
dalla questione come sia possibile la natura. Infatti alla seconda rispondono
le forme conoscitive mediante le quali
il soggetto compie la sintesi di elementi dati nella « natura », mentre alla
prima rispondono invece le condizioni poste 4 priori negli elementi stessi,
in virtù delle quali essi si associano
realmente nella sintesi « società ». In certo senso l’intero contenuto di
quest'opera, così come si sviluppa in
base al principio che abbiamo stabilito, è un
inizio di risposta a tale questione. Infatti essa indaga i processi che si compiono in ultima analisi negli
individui e che condizionano il loro essere-società — non già come cause
antecedenti rispetto a questo risultato,
bensì come processi parziali della
sintesi che noi chiamiamo riassuntivamente società. Ma la questione
dev'essere intesa anche in un senso più fondamentale. Ho detto che la funzione di attuare l’unità
sintetica, che nei confronti della
natura riposa sul soggetto osservatore, nei confronti della società sarebbe
passata appunto agli elementi di questa.
La coscienza di costituire una società non è presente all'individuo in maniera astratta, ma ognuno
sa pur sempre che l’altro è legato a
lui, per quanto questo sapere dell’altro
come associato, questo conoscere tutto il complesso come società si
attui di solito soltanto in particolari contenuti concreti. Ma forse le cose qui non stanno diversamente
che nel caso dell’« unità del conoscere
», secondo la quale noi procediamo nei
processi della coscienza coordinando un contenuto concreto con l’altro, senza tuttavia averne una
coscienza distinta se non in rare e
tardive astrazioni. La questione è dunque la seguente: qual è in linea del tutto generale e 4 priori
il fondamento, quali presupposti devono
agire affinché i particolari processi
concreti della coscienza individuale siano realmente processi di socializzazione, quali elementi in essi
contenuti permettono che la loro
funzione sia, in termini astratti, quella di costruire un’unità sociale in base agli individui? Le
apriorità sociologiche avranno lo stesso doppio significato di quelle che «
rendono possibile» la matura: da una
parte esse determineranno, in maniera
più compiuta o più difettosa, i processi reali di associazione; d’altra parte
esse costituiscono i presupposti ideali e
logici della società perfetta, anche se forse mai realizzata in questa perfezione — così come la legge
causale da un lato vive e opera negli
effettivi processi della conoscenza e dall'altro costituisce la forma della
verità in quanto sistema ideale di conoscenze compiute, indipendentemente dal
fatto che questa venga realizzata
attraverso tale dinamica psichica temporale e relativamente accidentale oppure
no, e indipendentemente dalla maggiore o minore approssimazione della verità
realmente presente nella coscienza alla verità idealmente valida. È una pura questione di titolo se l'indagine
di queste condizioni del processo di socializzazione debba essere definita gnoseologica oppure no, poiché la formazione
che ne deriva, e che è regolata dalle sue forme, non consiste in
conoscenze, bensì in processi e stati
esistenziali pratici. Ma ciò che qui
intendo, e che dev'essere esaminato dal punto di vista delle sue condizioni come il concetto generale di
associazione, è qualcosa di conoscitivo:
la coscienza di associarsi o di essere associati. Forse lo si definirebbe meglio un sapere che
non un conoscere. Infatti il soggetto
non sta qui di fronte a un oggetto di cui
esso acquisti gradualmente un'immagine teorica, ma la coscienza
dell’associazione è immediatamente il suo sostegno o il suo intimo significato. Si tratta dei processi
dell’azione reciproca, i quali per
l'individuo significano il fatto — non astratto, ma tuttavia suscettibile di espressione astratta
— di essere associato. Quali forme debbano stare a base di essi, ossia
quali categorie specifiche l’uomo debba
per così dire recare con sé affinché
sorga questa coscienza, quali siano perciò le forme che la coscienza così sorta — la società come un
fatto di sapere — deve sorreggere, tutto
ciò può ben essere chiamato la teoria
della conoscenza della società. Cercherò qui di delineare come esempio di una tale indagine alcune di queste
condizioni o forme 2 priori
dell’associazione, le quali non possono certamente essere designate con ur4
sola parola come le categorie kantiane.
I. L'immagine che un uomo si fa di un altro in base al contatto personale è condizionata da certi
spostamenti che non sono semplici
illusioni dovute a un'esperienza incompiuta, a
deficiente acutezza della vista, a pregiudizi simpatici o antipatici, ma
sono modificazioni di principio della costituzione dell’oggetto reale. E queste
si muovono anzitutto in due dimensioni.
Noi vediamo l’altro in qualche misura generalizzato, forse perché non ci
è dato di rappresentare pienamente in noi un’individualità divergente dalla
nostra. Ogni riproduzione di un'anima è
condizionata dalla somiglianza con essa, e sebbene questa non sia assolutamente l’unica condizione del
conoscere psichico — poiché appare necessaria da un lato una contemporanea diseguaglianza, per poter acquistare distanza
e oggettività, dall’altro una capacità intellettuale che rimane al di là
dell’eguaglianza o diseguaglianza dell'essere — tuttavia il conoscere perfetto
presupporrebbe un’eguaglianza perfetta. Sembra che ogni uomo abbia in sé un
punto di individualità più profondo che
non può essere internamente riprodotto da nessun altro uomo nel quale questo punto sia qualitativamente
divergente. E il fatto che questa
esigenza non sia conciliabile, già sotto il profilo logico, con quella distanza
e valutazione oggettiva sulle quali poggia inoltre la rappresentazione
dell’altro, dimostra soltanto che ci è negato il sapere perfetto intorno
all’individualità dell’altro; e tutti i
rapporti degli uomini tra loro sono condizionati dal diverso grado di questo
difetto. Quale che sia la sua causa, la
conseguenza è però in ogni caso una generalizzazione dell'immagine psichica dell’altro, uno
sfumare dei contorni che aggiunge
all’unicità di questa immagine una relazione con altre. Noi rappresentiamo ogni
uomo — con particolari conseguenze per il nostro rapporto pratico con lui —
come il tipo di uomo al quale la sua
individualità lo fa appartenere; lo
pensiamo, insieme a tutta la sua singolarità, sotto una categoria
generale che certamente non lo ricopre del tutto e che egli non ricopre del tutto, e in virtù di tale
determinazione questo rapporto si differenzia
dal rapporto tra il concetto generale e il
particolare che in esso rientra. Per conoscere l’uomo noi non lo vediamo nella sua pura individualità, ma lo
vediamo sorretto, elevato o anche
abbassato dal tipo generale al quale lo assegniamo. Anche quando questa
trasformazione è così impercettibile che
non possiamo più riconoscerla immediatamente, anche quando vengono meno tutti i
consueti concetti caratterologici — morale o immorale, libero o vincolato,
signorile o servile ecc. — noi
denominiamo internamente l’uomo secondo un tipo tacito col quale il suo puro essere per sé non
coincide. E ciò conduce ancora un
gradino più in giù. Proprio in base alla
piena unicità di una personalità noi ci formiamo un'immagine di essa che non è identica alla
sua realtà, ma che tuttavia non è un
tipo generale, ma è piuttosto l’immagine che
egli mostrerebbe se fosse per così dire interamente se stesso, se realizzasse, in senso buono o cattivo, la
possibilità ideale insita in ogni uomo.
Noi siamo tutti frammenti non soltanto dell’uomo in generale, ma anche di noi
stessi. Noi siamo tutti abbozzi non soltanto del tipo uomo in generale, non
soltanto del tipo del buono e del cattivo
e simili, ma siamo abbozzi anche di
quella individualità e unicità di noi stessi — non più denominabile in linea di
principio — la quale circonda, quasi disegnata con linee ideali, la nostra
realtà percepibile. Lo sguardo
dell’altro integra però questo materiale frammentario in quel che noi non siamo mai puramente e
interamente. Egli non può vedere
soltanto uno accanto all’altro i frammenti che sono realmente dati, ma come noi
completiamo la macchia cieca nel nostro
campo visivo in modo tale che non si è coscienti di essa, così da questo materiale frammentario
perveniamo alla compiutezza della sua
individualità. La prassi della vita ci
spinge a formare l’immagine dell’uomo soltanto in base ai frammenti reali che conosciamo empiricamente
di lui; ma essa poggia appunto su quelle
modificazioni e integrazioni, sulla
trasformazione di quei frammenti dati nella generalità di un tipo e nella compiutezza della personalità
ideale. Questo procedimento di principio,
anche se in realtà raramente attuato fino alla perfezione, opera nell’ambito
della società già esistente come l’a priori delle ulteriori azioni
reciproche che si sviluppano tra gli
individui. Entro una cerhia legata da
una qualche comunanza di professione o di interessi ogni membro vede
l’altro non già in modo puramente empirico, ma in base a un 4 priori che questa cerchia impone
a ogni coscienza che ne faccia parte.
Nelle cerchie degli ufficiali, dei fedeli di
una chiesa, dei funzionari, dei dotti, dei familiari ognuno vede l’altro
partendo dall’ovvio presupposto che egli è un membro della sua cerchia. Dalla
base di vita comune scaturiscono certe
supposizioni attraverso le quali ci si guarda reciprocamente come attraverso un
velo. Certamente questo non soltanto
nasconde il carattere specifico della personalità, ma le conferisce una
nuova forma, fondendosi con la sua consistenza individuale-reale in una formazione
unitaria. Noi vediamo l’altro non già
semplicemente come individuo, bensì come collega o camerata o compagno di partito, in breve come
coabitatore del medesimo mondo
particolare; e questo presupposto inevitabile,
che opera in modo del tutto automatico, è uno dei mezzi per portare la sua personalità e la sua realtà
nella rappresentazione dell’altro alla
qualità e alla forma richiesta dalla sua sociabilità. Ciò vale evidentemente per il rapporto tra
appartenenti a cerchie diverse. Il
borghese che fa la conoscenza di un ufficiale
non può affatto liberarsi dal pensiero che questo individuo è un
ufficiale; e per quanto l’essere ufficiale possa far parte di questa individualità, non ne fa però parte
nell’identica forma schematica in cui, nella rappresentazione dell’altro, ne
pregiudica l’immagine. E così accade al Protestante di fronte al Cattolico,
al commerciante di fronte al
funzionario, al laico di fronte al
sacerdote, e così via. Ovunque abbiamo qui offuscamenti del profilo della realtà ad opera della
generalizzazione sociale, i quali ne
precludono in linea di principio la scoperta nell’ambito di una società
socialmente assai differenziata. Così l’uomo
incontra nella rappresentazione dell’uomo spostamenti, sottrazioni e
integrazioni — poiché la generalizzazione è sempre, nel medesimo tempo, più o meno dell’individualità
— rispetto a tutte queste categorie
operanti 4 priori: rispetto al suo tipo
come uomo, all’idea del suo proprio compimento, alla collettività
sociale a cui egli appartiene. Su tutto ciò aleggia — come principio euristico del conoscere — l’idea
della sua determinatezza reale, assolutamente individuale. Ma mentre sembra che l'acquisizione di questa determinatezza
conduca a una relazione correttamente fondata con lui, di fatto quelle
modificazioni e formazioni nuove che
ostacolano la sua conoscenza ideale sono
proprio le condizioni in virtù delle quali diventano possibili le relazioni,
che sole conosciamo come sociali, all’incirca come in Kant le categorie
dell'intelletto, che formano i dati
immediati in oggetti del tutto nuovi, rendono esse soltanto conoscibile il mondo dato. II. Un’altra categoria sotto la quale i
soggetti guardano se stessi e si
guardano reciprocamente, in modo da poter produrre — così formati — la società empirica, può
venir formulata con la proposizione
apparentemente banale che ogni elemento di
un gruppo non è soltanto parte di una società, ma è inoltre ancora qualcosa. Ciò opera come 4 priori
sociale nella misura in cui la parte
dell’individuo che non è rivolta alla società o
non si risolve in essa mon se ne sta semplicemente priva di relazione accanto alla sua parte socialmente
significativa, cioè non è soltanto un
corpo estraneo alla società a cui questa,
volente o nolente, fa posto. Il fatto che l’individuo non sia per certi aspetti elemento della società
costituisce la condizione positiva della possibilità di esserlo con altri
aspetti del suo essere: il modo del suo essere-associato è determinato o
condeterminato dal modo del suo
non-essere-associato. Dalle indagini seguenti
risulteranno alcuni tipi il cui significato sociologico è fissato, addirittura nel suo nucleo e nella sua
essenza, dal fatto che essi sono in
qualche modo esclusi dalla società per la quale la loro esistenza è significativa: così avviene nel
caso dello straniero, del nemico, del
criminale, perfino del povero. Ma ciò non vale
soltanto per questi caratteri generali, ma anche, in innumerevoli
modificazioni, per qualsiasi fenomeno individuale. Il fatto che ogni momento ci trovi circondati da
relazioni con uomini e che il suo
contenuto ne sia determinato direttamente o indirettamente non parla affatto in
senso contrario; l’inserimento sociale in quanto tale riguarda appunto esseri
che non sono completamente abbracciati da esso. Del funzionario sappiamo che
non è soltanto funzionario, del
commerciante che non è soltanto
commerciante, dell’ufficiale che non è soltanto ufficiale; e questo
essere extra-sociale, il suo temperamento e il precipitato dei suoi destini, i suoi interessi e il valore
della sua personalità, per quanto poco
possano modificare la sostanza delle attività compiute quale funzionario,
commerciante, militare, gli conferiscono tuttavia ogni volta — per chiunque gli
stia di fronte — una determinata zuance
e intrecciano nella sua immagine sociale
imponderabili elementi extra-sociali. L'intero sistema di rapporti degli
uomini nell’ambito delle categorie sociali sarebbe diverso se ognuno si
presentasse all’altro soltanto come quel che è
nella sua categoria, come portatore del ruolo sociale che proprio ora
gli spetta. Certamente gli individui, al pari delle professioni e delle
situazioni sociali, si differenziano secondo la
misura di quell’«inoltre» che essi possiedono o ammettono insieme con il loro contenuto sociale. Un
polo di questa serie è costituito per
esempio dall'uomo nei rapporti di amore o di
amicizia. Qui ciò che l’individuo riserva per sé, al di là degli sviluppi e delle attività rivolte all’altro,
può avvicinarsi quantitativamente al valore-limite zero; siamo in presenza di
un’unica vita, che può essere considerata o viene vissuta per così dire da due lati — per un verso dal lato interno,
dal terminus a quo del soggetto, e poi
anche, come vita del tutto immutata, nella
direzione dell’individuo amato, sotto la categoria del suo termi nus ad quem, che essa accoglie senza residuo.
Sotto una tendenza del tutto diversa il sacerdote cattolico presenta un
fenomeno formalmente identico, nel senso che la sua funzione ecclesiastica
ricopre e ingloba completamente il suo essere-per-sé individuale. Nel primo di
questi casi estremi l’« inoltre » dell’attività sociologica scompare, perché il
suo contenuto si è risolto completamente
nel rivolgersi all'individuo che gli sta di fronte, nel secondo perché il tipo
corrispondente di contenuti è scomparso
in linea di principio. Il polo opposto è offerto per esempio dai fenomeni della cultura moderna
determinata dall’economia monetaria, nella quale l'uomo come produttore,
compratore o venditore, e in generale come soggetto di una prestazione, si
avvicina all’ideale dell’oggettività assoluta. Prescindendo dalle posizioni
elevate, di carattere direttivo, la vita individuale e cioè il tono della
personalità complessiva è scomparso
dalla prestazione; gli uomini sono soltanto i portatori di un equilibrio di prestazione e contro-prestazione
regolato secondo norme oggettive, e
tutto ciò che non fa parte di questa pura
oggettività è anche di fatto sparito da essa. L’«inoltre» ha assorbito completamente in sé la personalità
con la sua colorazione particolare, la sua irrazionalità, la sua vita
interiore, lasciando a quelle attività
sociali — nettamente separate — soltanto le energie ad esse specifiche. Gli individui sociali si muovono sempre tra
questi estremi, in modo tale che le
energie e le determinatezze rivolte al
centro interno mostrano un qualche significato per le attività e il modo di sentire validi per l’altro.
Infatti — nel caso-limite — perfino la
coscienza che quest'attività o questo stato d’animo sociale sia qualcosa di separato dal resto
dell’uomo e 707 entri, con ciò che egli
è e significa altrimenti, nella relazione sociologica, ha un'influenza del
tutto positiva sull’atteggiamento che il
soggetto assume di fronte agli altri e che gli altri assumono di fronte ad esso. L’a priori della vita
sociale empirica è il fatto che la vita
non è del tutto sociale; noi formiamo le nostre
relazioni reciproche non soltanto con la riserva negativa di una parte della nostra personalità che non entra
in esse, e questa parte influisce sui
processi sociali nell'anima non soltanto mediante connessioni psicologiche
generali, ma proprio il fatto formale
che essa sta al di fuori di tali processi determina il modo di questa influenza. — Il fatto che le
società siano forma 502 GEORG
SIMMEL zioni derivanti da esseri che stanno allo
stesso tempo dentro e fuori di esse è
anche alla base di una delle più importanti
formazioni sociologiche: quella, cioè, per cui tra una società e i suoi individui può sussistere — anzi forse,
in modo più aperto o più latente,
sussiste sempre — un rapporto simile a quello tra due partiti. In tal modo la società produce
forse la più cosciente, almeno la più generale configurazione di una forma
fondamentale della vita in genere: il fatto che l’anima individuale non può mai stare in una connessione senza
stare contemporaneamente al di fuori di essa, che non è mai inserita in un ordinamento senza trovarsi nel medesimo tempo
contrapposta ad esso. Ciò va dalle
connessioni trascendenti e generalissime
fino alle più singolari e accidentali. L'uomo religioso si sente completamente circondato dall’essere divino,
come se fosse soltanto un battito della vita divina, e la sua propria sostanza
è data senza riserve, anzi in una
mistica indistinzione con quella
dell’assoluto. Eppure, per dare anche soltanto un senso a questa fusione, egli deve conservare un qualche
essere autonomo, un termine personale a
lui contrapposto, un io separato per il
quale la risoluzione in questo essere divino onnicomprensivo rappresenta un compito infinito, un processo
che non sarebbe né metafisicamente
possibile né religiosamente percepibile se
non partisse da un essere per sé del soggetto: l’essere-uno con Dio è condizionato nel suo significato
dall’essere-altro rispetto a Dio. AI di
là di questo innalzamento nel trascendente la
relazione che lo spirito umano rivendica, attraverso tutta la sua storia, con la natura come un tutto
rivela la medesima forma. Noi ci
sappiamo da un lato inseriti nella natura, come
uno dei suoi prodotti che sta da eguale tra eguali accanto a qualsiasi altro, come un punto che le sue
materie ed energie raggiungono e
abbandonano, nello stesso modo in cui circolano
attraverso l’acqua corrente e la pianta in fiore. E tuttavia l’anima ha
il sentimento di un essere-per-sé indipendente da tutti questi intrecci e da queste relazioni, che si
designa col concetto — così malsicuro sotto il profilo logico — di libertà,
il quale offre a tutto questo
meccanismo, di cui noi siamo pur
tuttavia un elemento, un termine contrapposto e un ripagamento che
culmina nel radicalismo per il quale la natura viene considerata soltanto una rappresentazione
presente nelle anime umane. Come però qui la natura, con tutta la sua
propria innegabile legalità e con la sua
dura realtà, è pur sempre inclusa nell’io, così d’altra parte questo io, con
tutta la sua libertà e il suo essere per
sé, con la sua antitesi nei confronti della
mera natura, è pur sempre un elemento di essa. La connessione usurpatrice della natura è appunto tale che
essa comprende questo essere autonomo,
anzi spesso ostile ad essa, e che ciò
che nel suo più profondo sentimento vitale sta al di fuori dev'essere invece un suo elemento. Questa
formula vale egualmente per il rapporto tra gli individui e le singole cerchie
dei loro legami sociali, oppure — se
questi vengono riassunti nel concetto o
nel sentimento di essere associati in generale — per il rapporto tra gli individui in quanto tale.
Noi ci sappiamo da una parte prodotti
della società: la serie fisiologica degli antenati, i loro adattamenti e le
loro fissazioni, le tradizioni del loro
lavoro, del loro sapere e delle loro credenze, l’intero spirito del passato cristallizzato in forme oggettive
determinano le disposizioni e i contenuti della nostra vita, cosicché può
sorgere la questione se l'individuo sia
qualcosa di diverso da un recipiente nel
quale si mescolano in misura variabile elementi preesistenti. Infatti, anche se questi elementi fossero in
ultima analisi prodotti dagli individui, il contributo di ognuno sarebbe una
grandezza infinitesimale, e soltanto mediante il loro riunirsi in specie e in
società si produrrebbero i fattori nella cui sintesi consisterebbe poi di nuovo
l’individualità che si può specificare.
D'altra parte noi ci sappiamo membri della società, intessuti con il nostro processo vitale, con il suo
senso e il suo scopo in modo tanto poco
indipendente nella sua prossimità come nella
sua successione. Come non possediamo un essere per noi in quanto esseri naturali, perché la
circolazione degli elementi naturali
pervade tanto noi quanto formazioni completamente prive di un io, e l'eguaglianza di fronte
alle leggi naturali risolve senza
residui la nostra esistenza in un mero esempio della loro necessità, così in
quanto esseri sociali non viviamo intorno a un centro autonomo, ma siamo in
ogni attimo composti dalle relazioni
reciproche con gli altri; e in tal modo siamo
comparabili con la sostanza corporea, che per noi sussiste soltanto più
come somma di molteplici impressioni sensibili, ma non come esistenza di per sé. Noi sentiamo però
che questa diffusione sociale non risolve completamente la nostra personalità. Non si tratta soltanto delle riserve già
avanzate, di particolari contenuti il
cui senso e il cui sviluppo risiedono 4 priori solamente nell'anima individuale
e non trovano assolutamente posto nella
connessione sociale; non si tratta soltanto della formazione dei contenuti sociali, la cui unità come
anima individuale non ha essa stessa
carattere sociale, così come la forma artistica nella quale confluiscono le macchie di colore sulla
tela non è derivabile dall’essenza chimica dei colori. Si tratta, in primo
luogo, del fatto che l’intero contenuto
della vita, per quanto possa essere
completamente spiegato in base agli antecedenti sociali e alle relazioni reciproche, dev'essere
contemporaneamente considerato sotto la categoria della vita individuale, come
esperienza vissuta dell’individuo e interamente orientata verso di esso. L'uno e l’altro elemento non sono che
categorie diverse sotto le quali ricade
lo stesso contenuto, proprio come la medesima pianta può essere vista ora nelle
condizioni biologiche del suo sviluppo,
ora nella sua utilizzabilità pratica, o ancora sotto il profilo del suo significato estetico. Il
punto di vista dal quale l’esistenza
dell’individuo viene ordinata e compresa può essere scelto tanto all’interno
quanto all’esterno di esso; la totalità della vita, con tutti i suoi contenuti
socialmente derivabili, può essere tanto
concepita come il destino centripeto del suo
portatore, quanto valere — con tutte le sue parti riservate
all’individuo — come prodotto ed elemento della vita sociale. Il fatto dell’associazione colloca dunque
l’individuo nella duplice posizione dalla quale sono partito: egli è compreso
in essa e contemporaneamente si
contrappone ad essa, è un elemento del suo organismo e al tempo stesso è un
tutto organico concluso, è un essere per
essa e un essere per sé. Ma l’aspetto
essenziale e il senso del particolare 4 priori sociologico che si fonda su tale fatto è che tra individuo e
società l’interno e l'esterno non
costituiscono due determinazioni sussistenti l’una accanto all’altra — benché si possano
occasionalmente sviluppare anche in questo modo, fino all’ostilità reciproca —
ma definiscono la posizione del tutto unitaria dell’uomo che vive socialmente.
La sua esistenza non è soltanto parzialmente sociale e parzialmente individuale in una divisione di
contenuti; ma si colloca sotto la
categoria fondamentale, formativa, non ulteriormente riducibile di una unità
che non possiamo esprimere altrimenti che mediante la sintesi o la
contemporaneità delle due determinazioni
logicamente contrapposte dell'essere membro
della società e dell’essere per sé, dell’essere prodotto e compreso dalla società e del vivere in base
al proprio centro e per il proprio
centro. La società non consiste soltanto — come
è risultato sopra — di esseri che in parte non sono associati, ma anche di esseri che si sentono da una
parte esistenze completamente sociali, e dall’altra, conservando lo stesso
contenuto, completamente personali. E
questi non sono due punti di vista che
coesistano privi di relazione, come quando si considera per esempio lo stesso corpo sotto il profilo ora
del suo peso, ora del suo colore, ma
costituiscono insieme l’unità che chiamiamo
essere sociale, la categoria sintetica — nello stesso modo in cui il concetto di causazione è un'unità 4
priori, anche se include entrambi gli
elementi, del tutto differenti per il loro contenuto, del causante e del causato. Il fatto che
abbiamo a disposizione questa
formazione, questa capacità di produrre — sulla base di esseri ognuno dei quali può sentirsi come
ferminus a quo e terminus ad quem dei
suoi sviluppi, dei suoi destini e delle sue
qualità — un concetto di società che fa leva proprio su tali elementi, e
di concepire quest’ultimo come terminus a quo e
terminus ad quem di quelle vitalità e determinatezze esistenziali,
costituisce un 4 priori della società empirica, e rende possibile la sua forma
quale la conosciamo. III. La società è
una formazione composta da elementi diseguali. Infatti anche dove tendenze
democratiche o socialistiche programmano
o parzialmente raggiungono un’« eguaglianza »,
si tratta sempre soltanto di un’eguaglianza di valore delle persone,
delle prestazioni, delle posizioni, mentre un’eguaglianza di qualità, di contenuti vitali e di destini tra
gli uomini non può neppure venir presa
in considerazione. E dove d'altra parte una
popolazione ridotta in schiavitù costituisce soltanto una massa — come nei grandi regimi dispotici orientali
— quest’eguaglianza riguarda sempre solamente certi aspetti
dell’esistenza, per esempio quelli
politici o economici, ma mai la sua totalità,
in quanto le sue qualità congenite, le sue relazioni personali, i suoi destini vissuti avranno inevitabilmente
una specie di unicità e di insostituibilità non soltanto per il lato interno
della vita, ma anche per le sue
relazioni reciproche con altre esistenze. Se ci
si rappresenta la società come uno schema puramente oggettivo, essa sì rivela quale ordinamento di contenuti
e di prestazioni che stanno in una
relazione reciproca per spazio, tempo, concetti, valori, permettendo così di
prescindere dalla personalità, dalla forma
dell'io che sostiene la loro dinamica. Se quella diseguaglianza di elementi fa apparire ogni
prestazione o qualità nell’ambito di questo ordine come caratterizzata
individualmente, come inequivocabilmente fissata al suo posto, la società si configura come un cosmo la cui
molteplicità è sì sterminata nel suo
essere e nel suo movimento, ma in cui ogni punto può essere costituito e svilupparsi soltanto in
quel determinato modo, se la struttura del tutto non dev'essere mutata. Ciò che
è stato detto della costruzione del
mondo in generale — che nessun granello
di sabbia potrebbe essere formato e collocato
diversamente da com'è, senza che questo abbia come presupposto e come
conseguenza una modificazione dell'intera esistenza — vale anche per la costruzione della
società, considerata come un intreccio di fenomeni qualitativamente
determinati. Quest'immagine della società in generale trova un’analogia
(come in una miniatura, infinitamente
semplificata e per così dire stilizzata)
in una struttura di funzionari che consiste, in quanto tale, in un determinato
ordine di « posizioni », in una predeterminatezza di funzioni che, staccate dai
loro portatori, dànno luogo a una
connessione ideale; nell’ambito di questa ogni
nuovo individuo che entra a farne parte trova un posto
inequivocabilmente determinato, che lo ha per così dire aspettato e al quale le sue energie devono adattarsi
armonicamente. Naturalmente ciò che qui è fissazione consapevole e sistematica
di contenuti di prestazioni è, nella
totalità della società, un inestricabile intreccio di funzioni; le posizioni al
suo interno non sono date da una volontà
costruttiva, ma si possono cogliere
soltanto attraverso l’attività creativa e l’esperienza vissuta
degli individui. E nonostante questa
enorme differenza, nonostante tutto ciò
che di irrazionale, di imperfetto, di riprovevole dal punto di vista del valore la società storica
presenta, la sua struttura
fenomenologica — vale a dire la somma e il rapporto del modo di esistenza e delle prestazioni
offerte da ogni elemento sotto il profilo oggettivo-sociale — rimane un ordine
fatto di elementi ciascuno dei quali
occupa un posto individualmente
determinato, una coordinazione di funzioni e di centri di funzioni
dotate di senso, anche se non sempre di valore, oggettivamente e nel loro
significato sociale; mentre l’elemento puramente personale, l'elemento
internamente produttivo, gli impulsi e i riflessi dell’io vero e proprio
restano completamente fuori
considerazione. Ossia, in altri termini, la vita della società scorre — non già psicologicamente,
bensì fenomenologicamente, considerata puramente sotto il profilo dei suoi
contenuti «sociali in quanto tali — come se ogni elemento fosse predestinato alla sua posizione in questa
totalità; con tutta la disarmonia
rispetto alle istanze ideali essa scorre come se tutti i suoi elementi stessero in un rapporto
unitario che fa dipendere ciascuno, proprio perché esso è questo particolare
elemento, da tutti gli altri e tutti gli
altri da questo. Ciò permette di
scorgere l’a priori del quale dobbiamo ora
parlare, e che per l’individuo significa un fondamento e la « possibilità » di appartenere a una società.
Che ogni individuo sia di per sé
orientato dalla sua qualità verso una determinata posizione nell’ambito del suo miliew sociale;
che questa posizione che idealmente gli appartiene sia anche realmente
presente nel complesso sociale — questo
è il presupposto in base al quale
l'individuo vive la sua vita sociale e che si può definire come il valore di universalità inerente
all’individualità. Esso è indipendente
dalla sua elaborazione in una chiara coscienza
concettuale, ma anche dalla sua realizzazione nel corso della vita reale — così come l’apriorità della
legge causale quale presupposto
formativo del conoscere è indipendente dal fatto che la coscienza la formuli in concetti
distinti e che la realtà psicologica
proceda sempre in conformità ad essa oppure no.
La nostra vita conoscitiva poggia sul presupposto di un’armonia prestabilita
tra le nostre energie spirituali, anche se ancora individuali, e l’esistenza esteriore,
oggettiva: infatti questa rimane sempre l’espressione di un fenomeno immediato,
non importa se si possa poi ricondurla metafisicamente o psicologicamente alla
produzione dell’esistenza ad opera dell'intelletto stesso. Parimenti la vita
sociale in quanto tale poggia sul presupposto di una fondamentale armonia tra
l’individuo e il complesso sociale, anche se ciò non impedisce le crasse dissonanze
tra la vita etica e la vita eudemonistica.
Se la realtà sociale fosse conformata
senza ostacoli e senza difetti in base a questo presupposto di principio, noi
avremmo la società perfetta — di nuovo
non nel senso di una perfezione etica o eudemonistica, ma nel senso di una perfezione concettuale:
per così dire non la società perfetta,
ma la perfetta società. Finché l’individuo
non realizza o non trova realizzato questo 4 priori della sua esistenza sociale — vale a dire la penetrante
correlazione del suo essere individuale
con le cerchie circostanti, la necessità
integrante per la vita del tutto della sua particolarità determinata
dalla vita personale interiore — fino ad allora egli non è associato, e la società non è quell’attività
reciproca priva di lacune che il suo
concetto enuncia. Questo comportamento
acquista una consapevole accentuazione con la categoria della professione.
L’antichità non ha conosciuto questo
concetto nel senso di una differenziazione
personale e di una società articolata in base alla divisione del lavoro. Ma anche nell’antichità sussisteva il
fenomeno che ne costituisce il
fondamento: che l’agire socialmente efficace è l’espressione unitaria della
qualificazione interiore, che l’aspetto
totale e permanente della soggettività si oggettiva praticamente in virtù delle sue funzioni nella società.
Soltanto che questa relazione si attuava
in un contenuto generalmente più uniforme; il suo principio emerge
nell’osservazione aristotelica che
alcuni sono destinati per la loro natura al SovAzbew, altri al Seorétew. A un grado più elevato di
elaborazione il concetto presenta la struttura caratteristica per cui da una
parte la società produce e offre in sé una « posizione » che è si differenziata
da altre per contenuto e contorni, ma
che può in linea di principio essere
occupata da molti ed è quindi per così dire qualcosa di anonimo; e
dall’altra parte questa posizione, nonostante il suo carattere di generalità,
viene assunta dall’individuo in base a una
«chiamata » interiore, a una qualificazione sentita come del tutto personale. Affinché esista in generale
una « professione » deve sussistere
quell’armonia — comunque essa sia sorta — tra
la costruzione e il processo vitale della società, da un lato, e le qualità e gli impulsi individuali,
dall'altro. Su questo presupposto generale si fonda in ultima analisi l’idea
che per ogni personalità vi sia, nell’ambito della società, una posizione
e funzione alla quale essa è « chiamata
», e l'imperativo di cercare finché la si trova. La società empirica diventa « possibile »
soltanto mediante questo 4 priori che
culmina nel concetto di professione, e che
certamente — al pari di quelli finora trattati — non può essere designato con una semplice parola d’ordine,
come consentono di fare le categorie
kantiane. I processi di coscienza con i
quali l’associazione si compie — l’unità a partire dai molti, la determinazione reciproca degli individui, il
significato reciproco degli individui per la totalità degli altri e di questa
totalità per l’individuo — hanno luogo
in base a questo presupposto di
principio, non già astrattamente consapevole ma che si esprime nella realtà della prassi: il presupposto
secondo cui l’individualità del singolo trova un posto nella struttura
dell’universalità, anzi che questa
struttura, nonostante l’aspetto imprevedibile
dell’individualità, è rivolta in certa misura a questa e alla sua funzione. La connessione causale che intesse
ciascun elemento sociale nell’essere e
nell’agire di ogni altro, dando così luogo
alla rete esteriore della società, si trasforma in una connessione teleologica non appena la si considera dal
punto di vista dei portatori
individuali, di coloro che la producono, i quali si sentono come io e il cui atteggiamento cresce
sul terreno della personalità che è per
sé e si determina da sé. Il fatto che
quella totalità fenomenica si adatta allo scopo di queste individualità
che quasi le si fanno incontro dall’esterno, che offre al processo vitale di queste, determinato
dall’interno, il luogo in cui la sua
particolarità diventa un elemento necessario nella vita del tutto — tutto ciò, assunto come
categoria fondamentale, conferisce alla coscienza dell’individuo la forma che
lo designa come elemento sociale. È
una questione abbastanza oziosa se le indagini sulla teoria della conoscenza della società, che dovevano
essere esemplifica te da questi abbozzi,
rientrino nella filosofia sociale o non già
addirittura nella sociologia. Ammettendo pure che esse costituiscano una
zona di confine tra i due metodi, la sicurezza del DI problema sociologico — quale è stato
tratteggiato avanti — e la delimitazione nei confronti della problematica
filosofica non ne soffrono più di quanto
la determinatezza dei concetti di giorno
e di notte non soffra del fatto che esiste un crepuscolo, o quella dei concetti
di uomo e di animale non soffra del
fatto che forse si possono trovare gradi intermedi che riuniscono le
caratteristiche di entrambi in maniera per noi concettualmente non separabile.
Quando il problema sociologico si rivolge all’astrazione di ciò che nel
complesso fenomeno che chiamiamo vita sociale è realmente soltanto società,
vale a dire associazione; quando esso
elimina dalla purezza di questo concetto tutto ciò che viene sì realizzato
storicamente soltanto entro la società, ma non costituisce la società come
tale, come forma singolare e autonoma di
esistenza — allora viene individuato un nucleo di compiti assolutamente
inequivocabile; e pur potendo accadere
che la periferia di questa cerchia di problemi
entri, temporaneamente o durevolmente, in contatto con altre cerchie, che la delimitazione dei confini
diventi dubbia, non per questo il centro
rimane meno saldo al suo posto. Passo
ora a mostrare la fecondità di questo concetto e problema centrale in indagini
particolari. Lungi dalla pretesa di esaurire il numero delle forme di azione
reciproca che costituiscono la società,
esse mostrano soltanto la via che potrebbe condurre all’isolamento scientifico dell’intero ambito
della « società » dalla totalità della vita; cioè si propongono di mostrarla
compiendo i primi passi su tale cammino. La relazione di uno spirito con un
altro, che noi definiamo comprendere,
costituisce un avvenimento fondamentale della
vita umana, la cui recettività e attività propria è unificante in un modo non più scomponibile, ma che è
soltanto oggetto di esperienza vissuta.
Nell’esame del comprendere in generale è
incluso l'esame del comprendere propriamente storico. Infatti, nello stesso modo in cui tutte le nostre
produzioni ideali, puramente spirituali, trovano i loro abbozzi frammentari in
quelle forme e in quei modi di procedere
che lo spirito ha sviluppato per
esigenze pratiche e per i progressi della vita, così anche la storia scientifica si è preformata in maniera
indicativa nelle formazioni e nei metodi
con cui la prassi si costruisce le immagini del passato come condizioni della
vita che avanza. Ma dal momento che
senza di ciò è del tutto impensabile ogni passo
della vita, sorretto dalla coscienza del passato, qui non si tratta del caos sterminato e senza forma dell’intera
materia ricordata o tramandata della
vita; al contrario, già la sua valutazione
pratica è condizionata dalla sua scomposizione e dalla sua sintesi,
dall'ordinamento in concetti e in serie, dall’attribuzione e dallo spostamento di accento, da
interpretazioni e da integrazioni. Così diverse categorie teoretiche funzionano
qui in vista di un interesse non
teoretico, continuamente incorporate nelle con
* Vom WWesen des historischen Verstehens, « Geschichtliche Abende in
Zentralinstitut fur Erziehung und Unterricht », 5, Berlin, E. S. Mittler und
Sohn, 1918, poi raccolto in Briicke und
Tiir: Essays der Philosophen zur Geschichte, Religion, Kunst und Gesellschaft (a cura di M.
Landmann, in collaborazione con M. Susman),
Stuttgart, Kochler Verlag, 1957, pp. 59-85 (traduzione di Sandro Barbera
e Pietro Rossi). nessioni della vita al
pari di qualsiasi coordinamento di movimenti, di qualsiasi impulso o riflesso.
La storia come scienza sorge non appena
quelle categorie che elaborano il materiale
della vita in un'immagine spiritualmente intuibile, logicamente fornita di senso e quindi in primo luogo
suscettibile di applica zione pratica,
si svincolano da questa subordinazione a uno
scopo € costituiscono autonomamente, in base a un interesse teoretico libero da legami, in una nuova
completezza e con un nuovo valore
specifico, le immagini della vita passata. Come
noi siamo sempre, per così dire, storici embrionali di noi stessi, così d'altra parte noi completiamo e
assolutizziamo — in quanto storici
scientifici — gli orientamenti e le elaborazioni della vita pre-scientifica.
Sulla base di questo rapporto reciproco
del tutto generale l’analisi della comprensione storica appare condizionata dall’esame del modo in
cui può accadere che un uomo ne
comprenda un altro. Infatti, per quanto differenti possano essere i punti di
partenza e le vie, l’interesse e il
materiale, la comprensione di Paolo e di Luigi XIV è alla fine essenzialmente identica a quella di un uomo
che conosciamo personalmente. La struttura di ogni comprendere è una
sintesi intima di due elementi
inizialmente separati. Ciò che è dato è un fenomeno fattuale, che in quanto
tale non è ancora compreso. Da parte del
soggetto a cui questo fenomeno è dato si aggiunge un secondo elemento, emergente in modo
immediato da questo soggetto, oppure da
esso assunto ed elaborato — il pensiero
comprendente, che penetra per così dire il fenomeno dato e ne fa qualcosa di compreso. Questo secondo
elemento psichico è talvolta cosciente
di per sé, talvolta rintracciabile soltanto nel
suo effetto, vale a dire, appunto, in ciò che ora viene compreso. Tale rapporto fondamentale trova tre
configurazioni tipiche, che trapassano
tutte dalla loro più o meno grande realizzazione in forma pre-scientifica alla
metodica della storia scientifica. In
primo luogo si tratta di comprendere i fenomeni e le azioni di un individuo che sono dati ai sensi
esterni in modo tale che essi siano
motivati psichicamente, cioè in questo caso
di comprendere gli avvenimenti psichici attraverso queste manifestazioni
sensibili che li accompagnano. A prima vista l’altro uomo è per noi una somma di impressioni
esterne. Noi lo vediamo, lo tocchiamo, lo udiamo; ma che « dietro » tutto
ciò viva un’anima, che tutti questi
elementi esterni abbiano un significato
psichico, un aspetto interno che non si esaurisce nella loro immagine sensibile — in breve, che
l’altro non sia una marionetta, ma
qualcosa di comprensibile interiormente —
ciò non è dato in eguale misura, ma rimane sempre una congettura non
suscettibile di essere provata in modo assoluto. E come l’individuo deve
comunicare l’essere animato all’altro, anziché sentirlo come una concretezza
cogente, ossia come un’impressione sensibile, la stessa cosa avviene
naturalmente anche in relazione ai contenuti psichici particolari. Ciò che quello vuole e pensa e sente, noi non
possiamo vederlo: tutto quanto si vede è
solamente un ponte e un simbolo per stimolare e guidare il soggetto alla
creazione costruttiva di ciò che può
accadere nell’anima dell’altro. Ulteriore conseguenza di ciò è il fatto che ogni sapere relativo a
questi processi dell’altro, ogni loro
comprensione, rappresenta una trasposizione di avvenimenti interni vissuti dal
soggetto stesso: ogni sentimento, il sorgere di rappresentazioni sulla base di
rappresentazioni passate, il dominio degli impulsi da parte dell’intero ambito
di idee — tutto ciò deve prima avvenire in me per poter essere imputato all’altro. Da dove, se non
dalla mia anima, dovrei infatti prendere
il materiale per la conoscenza e la comprensione degli altri, che non si
presentano davanti a me in modo leggibile? E in ciò sta manifestamente anche il
problema fondamentale del comprendere propriamente storico. Se già posso comprendere l’uomo che si offre ai miei occhi
e alle mie orecchie solamente in quanto
lo fornisco, al di là di tutto ciò che
ho visto e udito, dei contenuti della mia anima, un uomo da lungo tempo passato — del quale ci sono
tramandate soltanto azioni oggettive, manifestazioni frammentarie, tracce
oggettive della sua esistenza — sarebbe per me un semplice complesso di elementi esterni non compresi qualora non
collocassi dietro tutto ciò situazioni e
movimenti psichici, il cui senso e la cui
connessione non possono venirmi se non dalle esperienze della mia propria interiorità. La comprensione
della persona storica presupporrebbe
quindi, per quanto essa sia per altri versi diversa da me, un'identità
essenziale tra noi due rispetto ai punti
da comprendere. Mi richiamo a quest’apparente inevitabilità, per la
quale si offrono come prove alcune
osservazioni. L'esperienza sembra
indicare che chi non ha mai amato o odiato non comprende chi ama o chi odia, che la sobrietà dell’uomo
pratico non comprende il comportamento
dell’idealista sognatore e viceversa, che il flemmatico non comprende le
connessioni di idee del sanguigno e
viceversa. Così lo storico pedantesco, adatto ai rapporti piccolo-borghesi, non comprenderà mai
le manifestazioni della vita di Mirabeau o di Napoleone, di Goethe o di Nietzsche, per quanto visibili e chiare esse
siano. L’assenza di speranza con cui la
comprensione dell'Europa si pone dinanzi
all'anima orientale viene comprovata dai conoscitori di cose orientali in modo tanto più netto quanto più
profonde e ampie sono le loro
esperienze. Meno imperativo ma — ritengo — non
meno fondato è il dubbio se l’uomo moderno comprenda nella loro reale interiorità l’Ateniese delle
guerre persiane, il monaco medievale o
anche solamente la società di corte dipinta da Watteau. Non parlo qui della
mancanza o dell’equivocità delle fonti, ma di un’impossibilità di comprensione
a cui non può essere di aiuto la
quantità e il contenuto dei documenti, poiché la costituzione del soggetto non
fornisce quella reazione all’oggetto che costituisce il comprendere. Sarebbe tuttavia avventata la conclusione
che alla base della comprensione sta
l’identità tra soggetto e oggetto. Se si osservano un po’ più da vicino quei
fatti, risulterà che essi sono
esclusivamente di carattere negativo, ossia che una certa misura di diseguaglianza sostanziale impedisce certo
la comprensione; ma da ciò non discende
affatto che l’identità la produca positivamente. Sarebbe un errore eguale al
voler concludere, sulla base di un
disturbo psichico provocato da determinate lesioni cerebrali, che questo punto della corteccia
cerebrale abbia prodotto il processo di coscienza in questione nella sua
normalità. Il mutamento o l’assenza di
una tra le varie complicate condizioni, più o meno prossime, dei processi
organici e in particolare di quelli psichici basta spesso a determinare una
completa deviazione, senza che per
questo essa possa valere come loro causa
positiva. Si potrà soltanto dire che una certa misura di diversità psichica è di ostacolo alla
comprensione di date manifestazioni. Che però questa sia prodotta dall’identità
di essenza è tanto meno dimostrato quanto più vediamo infinite volte che i fraintendimenti peggiori sorgono proprio
tra uomini maggiormente simili per disposizione naturale. Il presupposto logico del presunto
condizionamento del comprendere da parte dell’identità di essenza è che le
qualità psichiche presenti nell'altro debbano essere inferite soltanto in base
a certi simboli e indizi esterni. Anche
questo è a prima vista plausibile.
Quando il bambino ha un dolore, sente se stesso gridare; in base a questo, e soltanto
in base a questo, può inferire che un
altro, che egli sente gridare, prova dolore come lui, e così via. Contro la generalizzazione di questa
ipotesi voglio addurre però una sola
obiezione, puramente empirica. Una delle percezioni che ci rivelano nel modo
più univoco e impressionante la
costituzione psichica di un altro è Io sguardo del suo occhio; ma proprio per questo ci manca ogni analogia
tratta dalla percezione di noi stessi.
Chi non è attore e non ha studiato
davanti allo specchio l’espressione degli occhi — di collera e di tenerezza, di languore e di estasi, di
spavento e di desiderio — non ha quasi mai
occasione di osservarla in se stesso. Qui
non può quindi sussistere nessuna associazione tra la propria esperienza interna e la propria percezione
esterna, tale che l'inferenza dalla
percezione esterna di un altro all’interpretazione dell’interiorità altrui
possa configurarsi come un richiamo a
tale associazione. Quest’unico fatto mi sembra costituire una prova sufficiente che la propria esperienza
interna-esterna non può fornire la
chiave per penetrare l’esperienza esterna-interna di altri. Di un'esperienza del genere c’è
però bisogno se non altro per l’infelice
separazione dell’uomo in corpo e anima, la
quale riserva al corpo di per sé preso una percezione concreta che si presuppone soltanto fisico-esteriore,
mentre per la constatazione dell'elemento psichico ha bisogno di quella
trasposizione — mediata da rapporti di associazione — dell’esperienza soggettiva interna negli altri, cioè di un
atto che è tanto complicato (anzi mistico) quanto insufficiente per la funzione
che da esso si pretende. Piuttosto, io
sono convinto che noi percepiamo l'uomo intero e che soltanto in virtù di
un’astrazione successiva ne percepiamo la corporeità isolata — proprio come
anche nel soggetto percipiente non è
l’occhio anatomicamente isolato che
vede, ma è l’uomo intero, la cui vita complessiva è come canalizzata dal
singolo organo di senso. Questa percezione dell'esistenza totale può essere
oscura e frammentaria, suscettibile di
perfezionamento mediante la riflessione e l’esperienza personale e stimolata
dai particolari, sfumata secondo il grado di
capacità e finora non localizzabile in un organo determinato — essa è il modo fondamentalmente unitario in
cui l’uomo agisce sull’uomo, è
l'impressione complessiva non ben analizzabile intellettualmente, la conoscenza
prima e per lo più decisiva degli altri, anche se ancora aperta a molti
completamenti. E come la comprensione
storica in generale è soltanto un modo del
comprendere identico nel tempo, e del tutto attuale, così la creazione o il discorso, l’azione o
l'influenza a noi tramandati dall'uomo
del passato lo contengono realmente, in linea di principio, e lo presentano alla nostra —
altrettanto indivisa — facoltà
recettiva; ogni elemento particolare che l’uomo offre è una pars pro toto. Certamente nella realtà
storica gli stimoli sono più scarsi, la
via per ottenere l’immagine compiuta è più
lunga e tortuosa, il risultato è più incompleto e problematico. In definitiva, però, nella misura in cui
viene raggiunta, l’immagine della personalità storica e del suo comportamento
sta dinanzi a noi come quella di un uomo conosciuto di persona, accessibile e còlto nelle sue determinazioni
particolari e nel loro legame causale,
senza essere in alcun modo un calco delle
nostre proprie qualità o delle nostre esperienze vissute. E se, anche soltanto per giungere alla sua
constatazione, vi fosse bisogno di una
trasposizione dei fatti psichici dalla loro sede propria, non per questo sarebbe in alcun modo
data la comprensione di questi fatti. Quantosovente ci troviamo infatti del
tutto incapaci di comprendere di fronte al nostro proprio passato, quanto
sovente l’uomo maturo non capisce più
azioni e sentimenti della sua gioventù, quanto di appena sentito e
voluto dobbiamo accettare come fatto muto della nostra esistenza senza comprendere come abbia potuto
sorgere dalle sue condizioni e dal
nostro carattere, anzi senza comprendere
che cosa sig nifica nel suo senso autentico! Qui l'oggetto della volontà di comprensione è certamente dato
nella propria esperienza, e niente può dimostrare in modo più decisivo che
la presunta trasposizione della propria
esperienza interna non rappresenta la via alla comprensione della personalità
storica. Può darsi che si colga soltanto lo spirito al quale in qualche
modo si somiglia: può darsi che le
azioni di un essere vivente su Sirio ci
risultino magari intelligibili — ma per il fatto di assomigliare in modo essenziale a uno
spirito, non lo si coglie ancora. Al modo di pensare greco con il suo solido
sostanzialismo, con la sua aderenza alla
sicurezza plastica della forma e la sua
immediata forza di convinzione, corrispondeva il principio che si può conoscere soltanto «il simile con il
simile ». Ciò appare però un dogma
ingenuamente meccanicistico — come se la rappresentazione del comprendere e il
suo oggetto fossero due grandezze da far
coincidere, mentre in questo modo si fa
straordinariamente violenza ai fatti. Nessuno potrà infatti negare di
saper cogliere in altri dei sentimenti che non ha provato egli stesso, di comprendere nodi del destino
interiore che non ha mai vissuto, di
rappresentarsi impulsi della volontà che siano completamente estranei alla sua
volontà. Non si può mettere in disparte questa difficoltà, a cui va incontro la
concezione della propria esperienza come
presunta condizione del comprendere, concedendo che naturalmente il processo
psichico vissuto in sé non coincide
precisamente con quello vissuto da un altro,
e che si devono apportare in esso alcune trasformazioni, diversità di
tono, certi mutamenti quantitativi e qualitativi. Infatti, se si concepisce la differenza tra i due
processi come una differenza poco importante o solo formale, essa non risulta
più facile da superare; e dove starebbe
poi il criterio che consente di
giudicarla oggettivamente più grande o più piccola? Il principio per cui noi
comprendiamo negli altri solo ciò che abbiamo esperito in noi stessi può
solamente valere o non valere; ed esso
viene infranto dal più insignificante contenuto psichico, che sappiamo presente
nell'anima altrui senza che si sia
presentato nella nostra, così come dal più esteso. Ciò che trascina in
queste difficoltà l’intera teoria è il realismo, che pretende di assumere nel conoscere le cose « come esse
sono realmente ». La propria esperienza
vissuta è — in base al suo stesso concetto — realtà immediata, e solamente
quando l’esperienza vissuta dell’altra
anima può essere rappresentata in identità con essa questo ingenuo modo di pensare crede di
essere certo — in virtù dell'identità
dei fenomeni esterni — anche del processo veramente avvenuto nell’altro. Dal
fatto che posso certo rappresentare l’esperienza vissuta altrui si inferisce,
del tutto erroneamente, che io devo rappresentarmela come rappresento la
mia — nello stesso modo in cui i teorici
dell'etica dell’egoismo inferiscono, in
base al fatto che sono il soggetto della mia
volontà, che devo esserne anche l'oggetto; e si giunge a questa conclusione perché soltanto la propria
esperienza vissuta si presenta come realtà piena, mentre non si può essere
certi di quella altrui, se non in virtù
di una possibile trasposizione da quella
a questa o considerandola come questa. Anche nella teoria della « penetrazione simpatetica » dei
miei processi interiori negli altri dovrei sapere in anticipo quale parte delle
mie esperienze vissute devo delegare a
tale missione; ma così viene già
presupposta l’intuizione del processo esterno che dovevo invece ottenere per questa via. Ritengo piuttosto che l’incorporazione della
propria anima nell’altro, per percepirlo
come animato, costituisca una trasposizione — del tutto indimostrata — da
esperienze di altra specie a questo
fenomeno non comparabile; ritengo cioè che il tu sia piuttosto un fenomeno originario allo stesso
titolo dell’io, e che la teoria della
proiezione valga per il tu tanto poco quanto vale per le cose date nello
spazio. Le cose non sono compiute una volta per tutte nella nostra testa, e poi
proiettate con un procedimento
misterioso in un spazio pronto a riceverle
— come si trasloca con i propri mobili in un appartamento vuoto; riconoscere questo spazio
costituirebbe pur sempre un problema non
minore del riconoscere in anticipo tale oggetto
come oggetto spaziale. Piuttosto, se per una volta poniamo la questione partendo dal soggetto, la
spazialità dell’oggetto è un modo o forma
originaria dell’intuire. In questo caso, intuire non significa altro che intuire spazialmente
e la duplicazione della cosa — come se
essa fosse dapprima in noi e poi fuori di
noi — è del tutto superflua. Così l’anima non è dapprima qualcosa che sappiamo presente in noi e che
poi proiettiamo in un corpo appropriato
a tale scopo, in modo da pervenire a un
tu soltanto attraverso questo strano processo; in noi sorgono piuttosto — anche qui ci atteniamo al punto
di vista dell’idealismo — certe rappresentazioni che fin dall’inizio costituiscono un tu e vengono percepite come suoi contenuti
psichici. L’espressione linguistica in base a cui si colloca l’essere
animato dell’uomo «dietro » il suo
aspetto visibile e palpabile, questa
simbolizzazione spaziale del tutto superficiale, contribuisce molto a
separare gnoseologicamente tale essere animato, inteso come l’aldilà
misteriosamente inattingibile, dall’« esterno » che è invece immediatamente accessibile. Soltanto
se abbiamo prima scisso il fenomeno
dell’altro uomo in un’anima e in un corpo,
dobbiamo allora costruire un ponte tra di essi, per ricucire l’unità che era invece data fin dall’inizio:
noi abbandoniamo il corpo esclusivamente
alla sensibilità ottica, e altrettanto esclusivamente consegnamo l’anima alla
nostra anima, lasciando poi trasmigrare
quest’anima inquel corpo mediante un processo di introduzione, di trasposizione, di proiezione
o comunque si voglia chiamare quest’atto
mai dimostrabile. Ma tale scomposizione è l’atto di violenza di un pensiero
atomizzante. Certamente, anche la prassi
quotidiana, al pari della formazione dell’immagine storica, sembra legalizzare
— partendo da un materiale sempre
accidentale e lacunoso, spesso soltanto superficialissimo — questa
scomponibilità e la distanza, che il
pensiero deve quindi superare, tra esterno e psichico. Ma tale separazione, prodotta dalla precarietà e
dalla discontinuità materiale della vita, ha tuttavia come punto di partenza e
come punto di arrivo il fondamentale
fatto unitario che si può chiamare il tu — l’altro immediatamente compreso come
animato. Anche quando la considerazione
del sintomo più esterno conduce per la via più lunga e tormentosa alla sua
comprensione psichica, questa categoria
sta a base di essa, e si trova di nuovo,
pienamente realizzata, al termine della via. La categoria del tu — che è
decisiva per la costruzione del mondo
pratico e del mondo storico, quasi come quelle di sostanza o di causalità lo sono per il mondo della scienza
naturale — non può essere paragonata a
nessun'altra. Non posso designare il tu
come mia rappresentazione nel medesimo senso in cui designo ogni altro oggetto:
debbo attribuirgli un essere per sé,
così come lo percepisco, distinto da tutti gli altri oggetti, soltanto
nel mio proprio io. Perciò si spiega il fatto che noi percepiamo l’altro uomo,
il tu, al tempo stesso come l'immagine più
distante e impenetrabile e come quella più prossima e familiare. Il tu
animato è da una parte l’unico nostro pari nel cosmo, l’unico essere con cui
possiamo comprenderci reciprocamente e
sentirci come «uno» come con nient'altro, cosicché collochiamo nella
categoria del tu ciò che per altri versi è natura, dove riteniamo di sentirci in unità con essa: così
Francesco poteva parlare agli animali e
agli esseri inanimati come a fratelli. D'altra parte, però, il tu possiede una
propria autonomia e sovrani tà accanto a
noi che nient'altro possiede, una resistenza contro la dissoluzione nel processo di
rappresentazione soggettivo dell’io, quell’assolutezza della realtà che l'io
sente in se stesso. Il tu e il
comprendere sono la stessa cosa, espressa una volta come sostanza e una volta come funzione — un
fenomeno originario dello spirito umano
come il vedere e l’udire, il pensare e il sentire, oppure come l’oggettività in
generale, come lo spazio e il tempo,
come l’io; è il fondamento trascendentale
del fatto che l’uomo sia uno %éov roArrwxév. Certamente, si tratta di un grado successivo del nostro
sviluppo; certamente, di rado esso
possiede la medesima univocità del suo contenuto; certamente, esso compare soltanto sulla base
di condizioni psicologiche più complicate. Ma anche gli atti della coscienza
che si presentano come primari sono
condizionati da ciò che è trascorso; anch'essi hanno bisogno di uno sviluppo.
Qui c’è soltanto una differenza di
grado: è perciò erronea l’opinione che tali
fenomeni psichici non possano essere in sé nulla di semplice e di primario per il fatto che compaiono
soltanto tardi, incompleti e in situazioni variamente condizionate. Che
l'insufficienza delle condizioni in cui si
leva l’immagine o la comprensione le
mantenga incomplete, non prova affatto che esse vengano prodotte per
associazione mettendo semplicemente insieme quelle condizioni. Le differenze all’interno di
questo fenomeno originario sono innegabili, soprattutto tra la comprensione di
un avvenimento attuale o di una persona
convivente e la comprensione di oggetti divenuti storici. Che i dati siano qui
di solito numericamente più scarsi e
accidentali, che siano affidati alla
mediazione intellettuale piuttosto che all’immediatezza sensibile, che
nessuna atmosfera temporale comune unisca il soggetto comprendente e il suo oggetto — tutto ciò
può, nel caso particolare, escludere in parte o del tutto la comprensione, ma
sotto questo rispetto non esiste una
differenza necessaria di principio tra
il presente e il passato. Certamente, noi possiamo avere un'esperienza vissuta
soltanto di ciò che è presente; ma anche
nei confronti di questo possiamo avere il rapporto di comprensione
storica, che ognuno ha verso il proprio passato. Per lo sguardo che scruta le distanze storiche
l’avvenimento esterno e l'avvenimento
psichico sono spesso molto più separati l’uno dall’altro di quanto non siano
per l’intuizione immediata, ed esso ha
più sovente bisogno di compiere inferenze dall’uno all’altro; ma tutte queste sono soltanto strade di
accesso allungate, le quali in
definitiva conducono a quel comprendere che assume unità attraverso l’unità; oppure
costituiscono le sue frammentarie realizzazioni. Per questo comprendere, che
spesso viene scisso nelle sue condizioni a causa di insufficienze pratiche e
accidentali, e perciò appare all’analisi intellettuale come un’interpretazione
di sintomi esterni autonomi sulla base di un elemento psichico che sta dietro
di essi, è adeguato il concetto di
intuizione, che pure di per sé è poco attraente. Ma ciò che suscita sospetto, l'elemento mistico
abusivamente presente in esso, scompare
proprio se noi abbiamo chiaro il fatto che l’applicazione dell’intuizione al
comprendere storico è circondata
dall’uso, del tutto inevitabile, che se ne fa in ogni momento della vita
pratica. Una struttura più complicata
mostra il secondo tipo di comprendere, con cui un atto già conosciuto come
psichico dev’essere compreso mediante un altro atto appartenente alla
stessa sfera psichica. Se di un
legittimista dello Hannover degli anni
successivi al 1866 sentiamo dire che ha odiato Bismarck, noi comprendiamo anzitutto questo sentimento in
modo immediato, così com’esso è. L’odio è un affetto a noi immediatamente noto. Noi conosciamo interiormente il
significato soggettivo — che non
richiede un’ulteriore analisi — di questo affetto, poco importa in quali circostanze e attraverso
quale portatore esso ci viene incontro.
Questa comprensione di un contenuto psichico particolare è trans-storica e, per
così dire, oggettiva: infatti si tratta
sempre del medesimo processo psicologico fondamentale, sia che lo applichi a
Brunilde contro Crimilde', allo hannoveriano contro Bismarck, all’inquilino
contro il padrone di casa che lo
angaria. La duplicità di elementi che ogni comprendere I. Noti personaggi femminili della leggenda
dei Nibelunghi. presuppone consiste, in questa comprensione immediata
dell’elemento psichico, nel fatto che un caso individuale viene compreso in
virtù di un contenuto generale preesistente nel soggetto. Però comprendo storicamente l’odio dello hannoveriano
se conosco la guerra del ’66 e l'annessione prussiana, ossia se lo riconosco in generale come elemento di una
connessione temporale complessiva. Ma, a questo punto, ogni momento di tali connessioni dev'essere di nuovo compreso, a
sua volta, in quel primo senso. Come
comprendo l’odio, devo ora comprendere
che cos’è l'attaccamento a una casa regnante o il valore attribuito
all'indipendenza politica. Mentre quel primo comprendere sembrava riguardare un contenuto atemporale o
sovra-individuale e l’altro la connessione reale di un divenire molto
articolato, di fatto anche quest’ultimo si scinde in una successione di singoli punti di comprensione, ognuno dei
quali dev'essere di nuovo compreso in
modo sopra-storico e psicologico. Pertanto
il comprendere storico in quanto tale viene alla luce in modo manifesto quando questi momenti discontinui,
e compresi per così dire atemporalmente
in modo discontinuo, vengono riempiti da parte dell’osservatore di una corrente
vitale continua che li lega insieme, che
apre la porta di uno agli altri, che permette
di sentirli come pulsazioni del corso temporale della vita. Il comprendere isolato di prima si mostra ora
fondato su una certa astrazione, in
quanto dalla vita che sale e si abbassa
senza posa esso trae fuori la cresta di un’onda come un oggetto
circoscritto del comprendere, mentre nella realtà questa è legata in modo continuo con la precedente e
con la successiva, con tutte le onde
della medesima vita. L'istituzione di questa
connessione continua è ciò che imprime alla tradizione di quanto è
meramente accaduto la forma della storia. Stabilire che un determinato avvenimento ha avuto luogo in
un certo anno non lo trasformerebbe
ancora in un avvenimento storico, se
l’anno si collocasse isolatamente in uno schema temporale per altri versi vuoto. Infatti sarebbe ancor
sempre possibile com‘prendere l'avvenimento in base al suo significato interno,
alla sua specificità indipendente dal
tempo. Certo questo deve avvenire in ogni caso; con ciò è però soltanto dato il
materiale in cui il divenire della
storia si compie come una formazione
determinata. La storia non è il passato che ci è dato immediatamente €,
più precisamente, in veste di frammenti sempre discontinui, ma è invece una
determinata forma o somma di forme con
cui lo spirito sintetico che osserva penetra e domina il materiale accertato in precedenza, ossia
la tradizione di ciò che è accaduto. Per
il fatto che comprendo una serie come
storica non si aggiunge ad essa niente di nuovo per quanto riguarda il suo contenuto; si è soltanto
conseguita o istituita una specie di
connessione funzionale da parte dell’intuizione
interna. Come la considerazione storica in genere sottrae il particolare contenuto di realtà alla
rappresentazione limitata a quest’ultimo
e lo colloca — come elemento prodotto e produttivo — in connessioni senza fine,
così procede ora anche la funzione del
comprendere quando coglie come storiche le realtà psichiche date. Questi dati
devono anzitutto venir compresi di per
sé come unità psichiche in qualche modo chiuse: senza tale presupposto non possono essere
storicizzate. Esse però lo diventano soltanto
se si fluidificano in qualche misura, se si
mostrano come le formazioni particolari, di volta in volta determinate,
di una dinamica della vita che le collega tutte tra loro. È quindi’ possibile determinare con
maggiore profondità e precisione il
concetto della comprensione storica di una qualsiasi realtà psichica
particolare dicendo che esso significa la comprensione di questo elemento
singolo in base alla totalità vivente del suo portatore. È un errore assai diffuso ritenere che la
successione di certi dati psichici,
ognuno dei quali presenta soltanto il suo contenuto circoscritto,
concettualmente determinabile, fornisca anche la comprensione del dato successivo. Ciò
corrisponde al principio atomistico e
meccanicistico che fa coagulare la vita psichica, intorno ai suoi contenuti
esprimibili logicamente, in singole « rappresentazioni », e che vorrebbe
coglierla come la somma dei movimenti delle parti così separate l’una
dall'altra. In tal modo la comprensione
dovrebbe procedere immediatamente — di contenuto in contenuto — sulla base di
quella che si potrebbe chiamare la logica della psicologia, ma che in realtà è
soltanto una mescolanza indistinta di
logica e di psicologia. Ma in questo
modo viene meno la connessione dinamica, la compenetrazione,
l’unificazione del molteplice, e quindi proprio la comprensione di un elemento
mediante l’altro. Quest'ultima esige infatti la visione interiore di un
movimento continuo della vita, le cui
tappe sono soltanto quei momenti particolari indicabili in base al contenuto. Soltanto se in ognuno di
essi si percepisce l’uomo intero, che
non è una sostanza rigida ma uno sviluppo
vivente, noi comprendiamo il momento successivo, poiché la direzione della corrente che conduce fino ad
esso è indicata da quello precedente.
Però, come si è già detto, questo sviluppo
non è comprensibile come un saltare di contenuto in contenuto, ma soltanto in virtù del processo di
attualizzazione della vita che rende ora
intelligibili come proprie fulgurazioni quei contenuti particolari suscettibili
di essere denominati — sia che questa vita sia attuale o trascorsa. Ciò può
estendersi, senza alcun mutamento di
principio, al di là dell’individuo, poiché nella medesima corrente della vita, che produce
onde su onde, noi scorgiamo una
moltitudine di individui. Il fenomeno originario del comprendere si realizza allora in quella
successione — che si estende in modo del
tutto sovra-individuale — della vita che
continuamente spinge contro tale singolarità. Sono qui dunque presenti due modi di
comprendere, sulla cui distinzione e sul
cui intreccio si esige tanta maggior chiarezza quanto più lo storicismo ha
commesso, con la sua superficiale concezione,
i peggiori fraintendimenti. Quando comprendo la
poesia Warum gabst du uns die tiefen Blicke® nel suo contenuto e nel suo
significato poetico, ciò avviene in modo del tutto astorico. Quando però
comprendo il contenuto e il tono della poesia in base al rapporto di Goethe con
la signora von Stein, e comprendo che essa designa — nello sviluppo di questo
rap- porto — un'epoca ben determinata, tale comprensione è ora comprensione
storica. Ciò può essere illustrato in modo partico- larmente chiaro nella
storia dell’arte. Con l’ultima pennellata del pittore al proprio dipinto, il
suo significato si pone al di là della storia. Ma il dipinto può a sua volta
diventare un fattore storico in virtù dei suoi destini esteriori, in virtù del
mutamen- ‘to di interpretazione e di valutazione, in virtù della sua influenza
sull'arte posteriore. Ma quell’altro significato — vale a dire le leggi della sua formazione e del suo
complesso cromatico, il 2. È il verso
iniziale di una poesia di Gocthe della primavera del 1776, dedicata all'amico
Charlotte von Stein. rapporto del suo oggetto con il suo stile particolare, la
passionalità o la calma dell’esecuzione, l’accentuazione del disegno o dell'elemento specificamente pittorico, in
breve la specificità del suo essere —
non ne viene toccato; esso ha consumato in sé i
movimenti del suo divenire e, inteso in quelle determinazioni puramente immanenti, è diventato indifferente
nei loro confronti. La linca di
demarcazione così tracciata tra comprensione
oggettiva e comprensione storica di un elemento spirituale ha il suo punto di appoggio in una problematica
assai profonda del nostro conoscere
relativamente alla sua sicurezza e univocità. Una creazione dello spirito che
dev'essere compresa deve venir
paragonata a un enigma che il suo creatore ha costruito su una determinata parola risolutiva. Se chi
indovina trova ora un’altra parola
altrettanto adeguata, con cui l’enigma — preso
in senso oggettivo — perviene al medesimo risultato logico e poetico, questa costituisce una soluzione
completamente « corretta » al pari di quella che si era proposta il poeta, e
che non ha così il minimo vantaggio
rispetto alla prima o rispetto a tutte
le altre parole risolutive che si possono ancora escogitare — e, in linea di principio, in numero
illimitato. Se un processo creativo è
riuscito a trovare la forma dello spirito oggettivato, tutti i più diversi tipi di comprensione sono
parimenti giustificati nella misura in cui ognuno di essi è in sé
conclusivo, esatto, oggettivamente soddisfacente.
Non hanno alcun bisogno di riandare alla
realtà psichica individuale di quel processo
creativo, assumendolo a criterio di questa coscienza. La comprensione
immanente di un’opera d’arte, per esempio, è infinitamente variabile così come
lo sono i sentimenti che essa suscita e che non sono affatto vincolati a quelli
che il creatore vi ha investito: i
complessi affettivi e valutativi dell’uomo moderno dinanzi al duomo di
Strasburgo o alla sonata Chiaro di luna,
i supporti profondi della sua comprensione non possono essere ritenuti infondati o falsi soltanto
perché non coincidono con quelli di
Erwin von Steinbach* o di Beethoven. E ciò vale
non solo per domini ideali secondo il loro contenuto. Il tecni3.
Architetto della seconda metà del secolo XII, ebbe gran parte nella costruzione
della facciata del duomo di Strasburgo. co empirico può inventare un
dispositivo meccanico che gli risulta
pienamente intelligibile in base al rapporto tra i congegni da lui combinati e
l’effetto che si propone; un ricercatore
più profondo, riandando alle leggi generali di natura che agiscono in
quei congegni, può scoprire che lo stesso apparecchio può venir impiegato per scopi a cui l'inventore
non ha pensato. Soltanto se si fossero
esaurite senza residui le possibilità in essa
racchiuse, l’invenzione sarebbe realmente compresa così com'è, cioè sarebbero realizzate le possibilità di
comprensione virtualmente presenti nella sua oggettività. Non diversamente
stanno le cose con le costituzioni
politiche o con singole leggi. Ciò che
esse propriamente significano dal punto di vista logico o pratico, i loro creatori lo sanno spesso in
modo assai incompleto, o non lo sanno affatto; altre personalità, la casistica,
lo sviluppo reale mostrano sovente gli
effetti in esse riposti, che non si
possono però definire come errori o storture per il fatto che la genesi soggettiva non li conteneva.
Ovunque tra creatore e opera c’è questo
rapporto, in qualche modo inquietante: l’opera pervenuta alla sua autonomia
contiene qualcos'altro (in più o in
meno, qualcosa che è dotato di maggiore o minor
valore) rispetto all’intenzione del creatore. In questo senso il processo di creazione è sempre soltanto
un'espressione 4 potiori; ciò che il creatore ha voluto e, più esattamente, ha
potuto è sempre soltanto un elemento di
ciò che è stato effettivamente creato, e
solo cogliendo le sterminate possibilità in cui esso si dispiega, al di là di questo elemento, il suo
contenuto oggettivo sarebbe realmente
compreso. In tutto ciò ch e creiamo esiste,
oltre a quello che z0i creiamo realmente, ancora un significato, una
legalità, una fecondità che oltrepassano la nostra forza e la nostra intenzione. Tuttavia noi abbiamo
senza dubbio creato il tutto, e non si tratta affatto di elementi raccolti
che dispiegavano la loro peculiarità e
le loro potenzialità entro la nostra
creazione; il problema consiste proprio nel senso e nella capacità della nostra creazione, i quali
diventano incondizionatamente possibili e reali solo con il fatto di essere
stati creati da noi. Da questo sentimento nascono le rappresentazioni che
sempre ricorrono con una certa tonalità mistica — come se tutto ciò che creiamo
fosse già idealmente preformato e noi fossimo in certa misura soltanto le
levatrici che aiutano un ente metafisico a nascere nella realtà. Inteso come un
dato di fatto interno, ciò spiegherebbe in ogni caso come mai quello che
apparentemente è creato solo da un soggetto possiede signi- ficati innumerevoli
di ogni specie, i quali oltrepassano tutte le intenzioni creative e le forze di
questo soggetto; come mai, quindi, anche la comprensione spirituale di una
creazione del genere non costituisca, in linea di principio, un problema con
un’unica soluzione possibile. Con ciò quell’antitesi tra i due significati del
comprendere si sviluppa ulteriormente. In base a quanto si è detto finora, nel comprendere dal punto di vista teorico ed
estetico il Faust, per esempio, si
prescinde del tutto dalla sua origine psichica.
Se i diversi tipi del comprendere soddisfano in eguale misura le esigenze di connessione logica e artistica,
di esplicazione unitaria delle oscurità, di sviluppo reciproco delle parti,
allora sono tutti corretti in eguale
misura. Se devo invece comprendere il
Faust storicamente e psicologicamente, cioè comprendere tale formazione sulla base degli atti e degli
sviluppi psichici che si sono
determinati, momento per momento, nella coscienza di Goethe, è esclusa in linea di principio una
corrispondente pluralità di significati: questo processo di creazione si è
infatti rispecchiato in un determinato
modo che la nostra conoscenza può
cogliere o non cogliere, ma che essa non può rappresentare in diversi modi tra
loro equivalenti. Una pluralità di forme
storiche di comprensione dell’origine del Faust, create dal processo
psichico, che siano tutte parimenti corrette — nello stesso modo in cui può esserlo una pluralità di
forme di comprensione oggettiva — è un’assurdità. Anche a proposito della
comprensione storica può esserci, naturalmente, una pluralità di ipotesi; di esse, però, una è vera e l’altra
è falsa — alternati va di fronte a cui
non si trova la comprensione in base al
contenuto oggettivo, la quale la sostituisce piuttosto con altri criteri di valore. Nei confronti di uno
stesso contenuto oggettivo si può così soddisfare in modo compiuto l'esigenza
di comprenderlo storicamente; ma non si può invece mai soddisfare in maniera compiuta l’altra esigenza di
comprenderlo oggettivamente, in base a tutti i significati che racchiude in sé.
In ciò consiste il profondo paradosso
che, dove il comprendere storico è
comprendere psichico, esso non può mai pervenire a una completa univocità, non
può mai decidere in assoluto tra una
pluralità, anzi tra una contrapposizione di princìpi esplicativi. La ricchezza e la mobilità delle connessioni
psichiche sono così grandi che nessuna
«legge psicologica » è in grado di determinare in modo vincolante gli sviluppi
successivi di una determinata costellazione psichica; spesso tale sviluppo,
procedendo per una certa direzione, ci
appare altrettanto plausibile di quello che procede in direzione precisamente
opposta. Che il beneftcio ricevuto produca riconoscenza, lo comprendiamo tanto
quanto il fatto che esso lasci dietro di sé umiliazione e risentimento; che
l’amore dichiarato risvegli un amore corrispondente, lo riteniamo altrettanto
comprensibile del fatto che provochi assenza di attrazione e indifferenza, e
via dicendo. Quando serie genetiche
vengono alla luce mediante un’interpolazione
psicologica — cosa che accade sempre, più o meno consapevolmente — non
si tratta di una necessità accertata, quale la
richiede, in modo univoco, la comprensione scientifica. In ogni caso, l'ipotesi di una data via psicologica è
quella corretta secondo la realtà; qualunque altra è erronea — poco importa se
poi questa correttezza o questa
erroneità può essere da noi stabilita
incondizionatamente. In tal modo viene stabilita la differenza fondamentale della comprensione storica
rispetto alla comprensione del contenuto oggettivo in quanto tale. Lo storicismo radicale vuol esaurire l’intera
problematica di una formazione così
creata tracciando le condizioni e i gradi
del suo sorgere nel tempo. Le qualità oggettive dell’essere, sottratte alla temporalità, si risolvono —
come compiti conoscitivi — nel loro divenire; adesso la questione riguarda le
premesse e i momenti preparatori, gli sviluppi e le condizioni favorevoli o gli
impedimenti che hanno suscitato tale formazione, e una comprensione sufficiente del contenuto oggettivo
dev'essere identica alla risposta a
questo problema. S’intende che
sostituire la comprensione di un oggetto nella
sua atemporalità con la comprensione del modo in cui si è pervenuti all’oggetto reale nel tempo non ha
più senso che equiparare la vista dalla
vetta di un monte col percorrere la via
che ha condotto passo passo il viandante fino a questa vetta: ciò vorrebbe dire infatti tagliar via
arbitrariamente tutta una dimensione del
problema del comprendere. Ma il problema apparentemente eliminato ha la sua
legittimità non sol- tanto al di fuori della realtà storica, ma anche proprio
all’inter- no di essa. La comprensione in apparenza puramente storica fa
infatti continuo uso della comprensione oggettiva sopra-storica, senza
peròrendersene conto metodologicamente. Non capirem- mo mai la natura della
cosa in base al suo sviluppo storico se non la comprendessimo in qualche modo
in se stessa; altrimen- ti quell’impresa sarebbe chiaramente del tutto priva di
senso. Con ciò si apre un terzo tipo di processi di comprensione, la cui
fondamentale duplicità di elementi non è quella tra es terno e interno, né
quella tra fisico e psichico, bensì la duplicità tra contenuto psichico e contenuto atemporale.
Tra questi si presentano ora nessi di reciprocità assai singolari, dal momento
che la comprensione oggettiva
trans-storica non riguarda soltanto i
contenuti particolari, che pervenivano a un contatto reciproco e a un ordinamento unitario solo in quanto
eranoassunti nella corrente dello
sviluppo storico. Quei contenuti mostrano però
già nel loro stato ideale delle relazioni e delle disposizioni, e costituiscono per così dire simboli
atemporali della loro realizzazione psichica temporale — sempre in una
dipendenza reciproca fondata nel profondo. Se uno storico della filosofia
afferma che comprendere Kant significa
spiegarlo storicamente, le dottrine pre-kantiane gli appariranno come gradini
che conducono in direzione della
dottrina kantiana, stabilendo quindi in modo
intelligibile il suo contenuto e il suo momento temporale. Ma ciò non avrebbe successo se tutte queste dottrine
— e qui sta il punto decisivo — non
costituissero nel loro contenuto logico oggettivo, e senza riferimento alla
loro comparsa storica, una serie
intelligibile. Le cose non stanno diversamente che per qualsiasi inferenza realizzata sul piano psichico. Noi
comprendiamo del tutto il movimento
psichico che, aggiungendo alla convinzione
che tutti gli uomini sono mortali, l’altra che Caio è un uomo, porta per così dire organicamente la
coscienza fino al contenuto: Caio è mortale. Tuttavia lo comprendiamo soltanto
perché tutte queste idee erano valide
nel loro contenuto oggettivo, e quindi
sono del tutto atemporali e indifferenti rispetto al fatto che possiamo rappresentarle soltanto in una
serie temporale. Noi percepiamo il
carattere di verità — indipendente dalla
nostra rappresentazione — della proposizione «tutti gli uomini sono
mortali», che non esiste prima o dopo il carattere di verità delle proposizioni « Caio è un uomo »
e « Caio è mortale »; tutte e tre le idee valgono in una coordinazione
assolutamente atemporale: la morte di Caio non risulta quindi come conseguenza temporale dopo gli altri due
fatti; l'ordine che in base alle prime
due conduce a quest’ultima non costituisce una
successione, come lo è il fatto di rappresentarla e di esprimerla, ma è
un ordine oggettivo puramente interno, che ha luogo in una ideale contemporaneità. Se esso non
esistesse, non riconosceremmo neppure la direzione e la legittimità dello
sviluppo psichico che essa realizza in
una determinata successione. La stessa
cosa avviene nel caso della comprensione storica di Kant. Il razionalismo, che declassa ogni esperienza
sensibile e colloca la verità
incondizionata soltanto nellaragione @ priori; il sensismo, che rifiuta
quest’ultima e scorge soltanto nell’esperienza
la fonte di una conoscenza valida; la soluzione kantiana secondo cui
soltanto l’esperienza ci dà una conoscenza oggettiva — come vuole l’empirismo — soltanto che essa è
già formata da quei principi della
ragione, e di conseguenza questi valgono
incondizionatamente, ma solo per gli oggetti dell’esperienza e mai di per sé, al di là di essa — queste
impostazioni hanno un ordine ideale,
determinato soltanto dal loro senso oggettivo
atemporale. Se non comprendessimo il senso di tale ordine soltanto di per sé, indipendentemente dalle
sue realizzazioni psichiche in forma
storica, non comprenderemmo mai neppure
l'ordinamento temporale di queste ultime, che ci apparirebbero piuttosto come una semplice successione
discontinua. La razionalità della loro successione, mediante la quale cogliamo
la direzione della corrente della vita
nei soggetti che la sorreggono e che la realizzano in sé, è possibile soltanto
come rispecchiamento temporale di quell’ordine puramente oggettivo.
Accanto al principio che la comprensione
di Kant è condizionata dalla sua
spiegazione storica, si può porre l’altro principio che la spiegazione storica di Kant è condizionata
dalla sua comprensione. Se noi penetriamo attraverso gli avvenimenti l’unità
di una corrente vitale e la vediamo
determinata dai momenti precedenti e
orientata verso i successivi, e se quindi — in altri termini — comprendiamo ogni momento
successivo in base al precedente, tale
processo acquista legittimità e impulso soltanto in base a quella comprensione
oggettiva dei suoi contenuti, cioè in base al loro reciproco rapporto logico,
non già al loro rapporto vitale e
temporale. Qui si fa però valere un
presupposto metodologico che mostra una connessione molto più stretta, e per
così dire incondizionata, tra comprensione storica e comprensione
oggettiva. Prenderò le mosse
dall’esempio (non importa se effettivamente
vero o da correggere) dello sviluppo del punto di vista kantiano dal
dogmatismo, attraverso lo scetticismo sensistico, fino al criticismo. Su quale base possiamo dire che
uno di questi punti di vis ta o di
questi concetti si «sviluppa» fino all’altro in modo intelligibile? Ognuno di
essi esprime esattamente soltan- to il suo proprio contenuto, è totalmente
concluso in sé, e dire che « procede oltre se stesso» è un'espressione
simbolica che lascia impregiudicato ciò di cui si discute qui Ja possibilità: è
un tentativo del tutto disperato voler spremere da questi concet- ti disposti
l’uno accanto all’altro uno sviluppo che renda l’uno comprensibile in base alla
comprensione dell’altro. Che tuttavia noi scorgiamo qui di fatto uno sviluppo
del genere, ciò può avvenire soltanto perché poniamo a base di questa serie
pura- mente oggettiva di punti di vista, e che nessuna vita individua- le
concreta può abbracciare, un soggetto ideale — prodotto per così dire di
finzione — la cui vivente continuità spirituale percorre questi stadi e li
connette in modo tale da scioglierli dalla chiusura di un senso di volta in
volta limitato a se stes- so e da trasformarli quindi in momenti di uno
sviluppo. Que- sto è lo strumento applicato continuamente e senza
particolare coscienza, lo strumento per
così dire tecnico, con cui uno stadio c i diventa intelligibile sulla base
dell’altro, che è ad esso collegato ora
in un tempo quasi atemporale, mediante una vita
atemporale. La stessa cosa avviene quando si concepiscono le opere di un periodo più lungo della storia
dell’arte come uno sviluppo. Per
esempio, i dipinti si dispongono l’uno dopo l’altro in modo discontinuo, e
ognuno costituisce un’unità isolata —
ognuno entro il proprio ambito in cui nessuno sa nulla dell’altro. Lo storico dell’arte costruisce
tra di essi uno sviluppo graduale dalla
rigidità alla mobilità, dalla povertà alla
pienezza, dall’insicurezza al padroneggiamento sovrano dei mezzi,
dall’accidentalità della composizione a un equilibrio armo532 GEORG SIMMEL nico che abbraccia ogni elemento in modo
dotato di senso, e così via. Non si può
quindi assolutamente dire che il creatore
dell’opera collocata al punto più alto abbia percorso, nel suo sviluppo personale, tutti gli stadi
precedenti. E non è neppure in questione
questo, bensì la possibilità di costruire tale serie « evolutiva » in base a criteri oggettivi
tratti dal complesso delle opere, come
se ognuna di esse fosse caduta dal cielo. Ma proprio questa possibilità risiede
in ciò che si potrebbe chiamare il
soggetto metodologico, cioè in una formazione ideale che percorre queste
creazioni in un’evoluzione che si può cogliere psichicamente, nei suoi momenti
preparatori, nel suo crescere e nel suo
decadere, unificando l’ordine oggettivo della loro coesistenza in un processo
vitale concepito come temporale, la cui
continuità non si rinserra nell’ambito della singola opera. Anche l’uso linguistico sembra legittimare
quest’interpretazione. Noi diciamo che
l’arte, il diritto, la chimica si sviluppano. È però chiaro che l’arte, il diritto, la chimica
ecc., in quanto tali, non sono realtà,
ma formulazioni riassuntive di fenomeni particolari separati tra loro, anche se
collegati da molteplici relazioni, sotto
concetti astratti. Se l’arte, nel senso storico qui in questione, consiste
della somma delle opere d’arte, il termine « arte » non designa un'unità concreta e neppure,
quand’anche essa lo fosse, un’unità
vivente, in grado di sviluppar« si »; in tal caso dovrebbe essere « l’arte » a produrre i
quadri, mentre sono gli artisti a farlo.
Se però applichiamo quest’espressione, abbiamo
creato l’ipostatizzazione di un concetto strumentale e un soggetto del
tutto nuovo, che ha quella capacità di auto-sviluppo riservata esclusivamente al vivente e le cui
espressioni o tappe sono le singole
opere d’arte. Questo soggetto viene percepito in uno sviluppo temporale, e ciò ancora per il
fatto che i momenti di tale sviluppo
posseggono quel rapporto di sviluppo sopratemporale, puramente oggettivo. Noi ne
abbiamo bisogno già per casi isolati:
quando comprendiamo l’amore o l’odio in generale, senza rapporto con la realtà
di un individuo, attribuiamo loro per così dire un portatore ideale, una vita
in generale che nel suo complesso
risponde con essi a qualsiasi stimolo e
che è, per così dire, versata in queste forme momentanee. Come concetti rigidamente conclusi, strappati
dalla connessione della vita, essi sarebbero per noi poco più che parole, e
in ogni caso attendevano soltanto di
essere compresi in modo appropriato. Ciò diventa ancora più chiaro laddove un
avvenimento particolare media la comprensione di un altro avvenimento particolare. Il fatto che noi «comprendiamo»
un sentimento di vendetta — poco importa
se rappresentato storicamente o in
astratto — in base a un'ingiustizia subìta in precedenza, non avviene in virtù di uno strettissimo
accostamento tra i due processi, ma in
quanto possiamo rappresentare un fluire unitario della vita, del quale
costituiscono due onde legate dalla
corrente stessa. Così risulta
pure che il ritmo, la continua mobilità della
vita è il sostegno formale della comprensione, anche in quelle connessioni logiche di contenuti oggettivi
che, da parte loro, rendono
intelligibile il concreto accadere vivente di questi contenuti oggettivi. Ma la vitalità specifica
e operante di quel soggetto ideale è una
trasformazione o un’oggettivazione di
quella che noi rintracciamo in noi stessi — ma come vitalità sovra-individuale, di cui noi siamo per così
dire solo un esempio. All’interno dell’accadere e dell’ondeggiare incessante
percepiamo tuttavia in noi, più o meno sicura, una finalità almeno formale, una
realizzazione di disposizioni, un dispiegarsi di germi che noi abbiamo o,
piuttosto, che noi siamo. Tale sensa- zione trova una manifestazione parziale o
una concentrazione quando i contenuti psichici si ordinano in una serie, di cui
ogni momento successivo ci diventa consapevole, rispetto al precedente, come
arricchimento, come promessa mantenuta, co- me incremento ed estensione della
nostra situazione. In quanto, dopo aver posto le premesse, pervengo alla
conclusio- ne; in quanto percorro le teorie filosofiche del secolo xviI finché
compare il criticismo; in quanto, considerando l’arte italiana, giungo dalla
rigidità bizantina e dalla scarsa articolazione delle figure del Trecento fino
al rilassarsi individualizzante del
Quattrocento e quindi all'unità armoniosamente raccolta della composizione del
primo Rinascimento, sento il mio spirito
— nella misura in cui vive in queste sue espressioni — ampliarsi
gradualmente, sempre più attualizzato nelle sue forze intuitive. Mentre vive in
questa successione di contenuti e passa attraverso di essi, lo spirito si sente
non soltanto mosso, ma anche dotato dello specifico valore dello « sviluppo ».
Così considerato, questo è forse qualcosa di originario e di non
ulteriormente risolvibile, e neppure
dipendente da un fine posto in precedenza, ma costituisce soltanto una ritmica
imposta dallo stesso movimento
spirituale, una particolare specie di crescita interna. Che poi io designi
l'ordinamento storico o ideale delle cose
come il loro sviluppo, non sarebbe chiaramente un arbitrio; anzi, esse devono, nel senso più preciso,
questo tono valutativo al processo di
auto-dispiegamento dello spirito, che le rivive
nella loro successione non appena sono diventate suoi contenuti. Se si
considerano quindi i contenuti svincolati dall’anima che se li rappresenta, sotto la categoria di
un’oggettività esprimibile concettualmente, allora essi formano una serie
evolutiva oggettiva; essi sono
attraversati dalla corrente del sentimento
vivente di aspirazione e di sviluppo del soggetto rappresentante, dal
quale però si è ora astratto, che ha lasciato loro soltanto la connessione interna e la costruzione
mediante cui l'elemento successivo è
condizionato dal precedente, e quindi risulta intelligibile proprio nella sua
posizione. Se « comprendere » un contenuto particolare non è in linea di
principio (secondo l’opinione che
abbiamo qui esposto) nulla di diverso dalla sua comprensione come
manifestazione della totalità della vita — di modo che il «comprendere » ne è soltanto l’espressione
abbreviata — ciò risulta ora valido,
attraverso il soggetto ideale che ha esperienza vissuta o il soggetto reale
che'osserva, anche per quei contenuti che si offrono come puramente oggettivi o
come realizzati da portatori
diversi. Così si presenta dunque
l’unione dei motivi storico-psichici e
dei motivi oggettivi all’interno del fenomeno complessivo del comprendere. Noi comprendiamo lo sviluppo
psichico reale di una serie, i cui
elementi si fondano in una successione temporale, soltanto sulla base della
relazione oggettiva, trans-vitale, dei
suoi contenuti. Senza un incremento o una diminuzione visibile in questa relazione, senza la
nozione del fatto che i contenuti
oggettivi in quanto tali si richiamano a vicenda e che l'uno fonda o condiziona l’altro prescindendo
dalla realizzazione temporale, essi non possono neppure venir compresi
come successione psichica, come
successione temporale-reale. E d’altra parte questo ordinamento ideale in forma
di sviluppo è tra di essi possibile in quanto ne viene percorsa la continuità
del movimento psichico. Lo sviluppo
oggettivo dei contenuti richiede, come 4 priori che dà loro forma, quel
progredire della coscienza, non
ulteriormente definibile, che si annuncia come
sentimento specifico: esso soltanto può allentare la chiusura senza ponti di ogni contenuto, e la trasporta
in quella continuità che solo si può chiamare sviluppo. Così lo sviluppo
psichico è condizionato ed è
comprensibile in base a quello oggettivo, e
questo è condizionato e comprensibile in base a quello. Ciò significa che entrambi sono soltanto i due
aspetti, resi metodologicamente autonomi, di un’unità: l’unità dell’accadere
compreso storicamente. E poiché il comprendere è un fenomeno originario nel
quale si esprime un rapporto universale dell’uomo, gli elementi in cui esso si realizza o gli
aspetti unilaterali tra cui si muove la
riflessione si compenetrano, cioè — rappresentati come autonomi — si
costruiscono in correlazione tra di loro.
Considerato dall’altra parte, questo circolo è inevitabile perché la vita è istanza determinante dello spirito,
cosicché la sua forma determina infine
anche le formazioni mediante cui deve
diventare comprensibile a se stessa. La vita può essere appunto compresa soltanto dalla vita, e a tal fine si
dispone in strati di cui l'uno media la
comprensione dell'altro, e che nella loro
dipendenza reciproca annunciano la sua unità. A questo punto appare chiaro che il motivo
vitalistico per la soluzione del
problema del comprendere era già prefigurato
nelle considerazioni con cui ho cercato di chiarirlo respingendo le
interpretazioni che di esso si offrono a prima vista. Infatti queste interpretazioni, considerate
in modo preciso, risultano in linea generale discendenti da una fondamentale
intuizione meccanicistica. Ad essa risponde il fatto che l’uomo offre all'uomo solo il suo aspetto fisico
esterno, dietro il quale soltanto un
atto intellettuale, mediato da associazioni, colloca un'anima e determinati processi psichici.
L'unità e la totalità del vivente si sottrae infatti al meccanicismo; esso può
incollar- lo insieme soltanto in base ai singoli frammenti che, per una
concezione organica, sono il risultato di scomposizioni successi- ve della sua
unità. Perciò esso non può concepire il comprende- re come fenomeno originario
che si manifesta tra un uomo nella sua totalità e un altro uomo anch'esso nella
sua totalità, ma lo concepisce come sintesi secondaria di fattori separati. In
base alla medesima mentalità gli sfugge l'elemento creativo — si può ben dire
così — del processo del comprendere, che permette al soggetto di produrre in sé
ciò che gli è estraneo e distante, ciò
che non ha vissuto personalmente, come immagine
di un’altra anima. La sua aspirazione finale di risolvere ogni relazione in equivalenze lo conduce a fondare
o a ridurre anche il comprendere
esclusivamente all’identità tra soggetto e oggetto. Esso può concepire il
compreso soltanto come ripetizione
meccanica di ciò che già preesiste nel comprendente; e doveva quindi — dato che evidentemente ciò non è
conciliabile con i fatti — attaccarsi al
mezzo disperato di costruire gli avvenimenti psichici nella personalità storica
partendo da singoli frammenti, che si possono raccogliere insieme sulla base
delle esperienze interne del soggetto della conoscenza storica: un tentativo
che non è possibile discutere seriamente, e del tutto privo di valore già per il fatto che la
comprensione della vita interiore corre appunto lungo le continue comnessioni e
unificazioni dei contenuti che si
possono designare singolarmente. Ciò che è
decisivo per la vita e per l’individualità, ossia l’unificazione, non si potrebbe quindi raggiungere con la
semplice trasposizione dei frammenti messi insieme. Rientra in tutto
nell’essenza dell’intuizione
meccanicistica voler rappresentare anche il comprendere storico come una mera
copia dell'accaduto «come esso era
realmente », anziché scorgere che anche questa è un’attività del soggetto
dipendente dalle categorie e dalle forme in
cui assume il suo oggetto (alle quali, per esempio, quel soggetto
metodologico appartiene come una necessità 4 priori), una formazione spirituale specifica; e che anche
qui la sua verità relativa a un oggetto
è qualcosa di vivente, di funzionale e di
elaborato, non già la riproduzione meccanica di una lastra fotografica.
Forse con ciò il problema del comprendere storico diventa qualcosa di molto più
difficile e profondo che nell’intuizione semplice, e tuttavia assai più strana,
secondo cui la comprensione di un’altra
anima si compie come ripetizione
dell’esatto contenuto di quest’anima nello spirito che l’accoglie — e ha luogo solamente in quanto l’esperienza
vissuta propria di questo spirito viene
trasposta in quella. In queste diverse interpretazioni della comprensione
psichica si fa valere l’antitesi tra un punto di vista meccanicistico e un punto di vista organicistico e
vitalistico. E come avviene in ogni
conflitto spirituale, spinto fino alla sua istanza suprema, ogni decisione tra i due punti di vista
risulta dipendente da quella che l’uomo
ha preso in merito alla totalità e alla profondità della propria intuizione del
mondo. WEBER nasce a Erfurt, figlio di un avvocato impegnato nella politica attiva e di una
donna di forti interessi morali e religiosi, alla quale egli rimane sempre
profondamente attaccato. Condotto a Berlino, dove il padre — divenuto
deputato del partito liberale-nazionale
— accoglie in casa alcuni dei maggiori esponenti della vita politica e della
cultura tedesca dell’età bismarckiana, Weber compe gli studi liceali nella
capitale. In questo ambiente Weber rivela ben presto la sua acuta intelligenza
e una straordinaria capacità di applicazione nello studio filosofico. Frequenta
successivamente le università di Heidelberg, Berlino, Gòttingen e poi di nuovo
Berlino. A Berlino consegue il dottorato con
una dissertazione sulle società commerciali nel medio evo, Zur
Geschichte der Handelsgesellschaften im
Mittelalter (Stuttgart). In seguito gli
interessi di Weber si sviluppano in due direzioni principali. Da una parte, soprattutto sotto l'ispirazione e la
guida di Mommsen, egli si dedica allo
studio della STORIA ECONOMICO-SOCIALE DELLA ANTICA ROMA, scrivendo un saggio
ancor oggi fondamentale sul diritto agrario
romano, Die ròmische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung fiir das
Staatund Privatrecht (Stuttgart; tr. it. Milano) — con la quale ottiene l’abilitazione — e soffermandosi in
particolare sui rapporti tra la crisi
sociale del tardo impero e il tramonto della
civiltà antica. Dall'altra parte, sotto l'influenza dei cosiddetti
socialisti della cattedra (Schmoller,
Wagner, Brentano ecc.) e attraverso la
partecipazione all'attività del « Verein fir Sozialpolitik », Weber si accosta alla ricerca sociologica
empirica e collabora a un progetto di
studio delle condizioni del lavoro agricolo in Germania con un'inchiesta sulla situazione delle regioni
orientali. Nel volume Die Verhiltnisse
der Landarbeiter im ostelbischen Deutschland (Leipzig, 1892), nonché in vari saggi che ne sviluppano
le implicazioni più propriamente politiche, egli pone in luce il trapasso dalla
tradizionale proprietà di tipo signorile alla proprietà capitalistica, cercando
di determi nare le conseguenze che ne risultano sul piano politico-sociale: la
forma- zione di una classe di imprenditori fondiari e la proletarizzazione
della manodopera agricola, con la necessità che da essa deriva di ricorrere
alla im- migrazione polacca per colmare il vuoto prodottosi tra i contadini
tedeschi. Attraverso questa inchiesta comincia a delinearsi quello che sarà il
problema centrale dell’opera di Weber, cioè il problema del capitalismo moderno
e della sua individualità storica. E difatti, in una serie di saggi di poco posteriori la sua attenzione si
concentra sui vari aspetti
dell'organizzazione capitalistica dell'economia e sulle condizioni del
lavoro industriale. Conseguita
l'abilitazione, Weber sposa nel 1893 Marianne Schnitger (che alla sua figura intellettuale dedicherà,
dopo la morte, una celebre biografia).
L’anno seguente egli intraprende la sua carriera accademica quale professore di economia politica a
Friburgo e, dal 1896, a Heidelberg. Ma nel 1897 una gravissima crisi nervosa lo
costringe a sospendere l'insegnamento e
a interrompere il lavoro scientifico. Questa crisi durerà parecchi anni: soltanto dopo un lungo periodo
di riposo, di cure e di viaggi, con
l’amorevole assistenza della moglie, Weber potrà far ritorno al lavoro nel 1901, abbandonando però al
tempo stesso la cattedra universitaria.
Egli rimane a Heidelberg come studioso privato, ma nel 1903 assume — insieme a Edgard Jaffé e a
Werner Sombart — la direzione dell’«
Archiv fir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik »; e questa rivista, sulla
quale compariranno molti dei suoi saggi più importanti, diventa per opera sua un centro di attività a
cui collaborano i più insigni studiosi
tedeschi di scienze sociali. In questi
stessi anni, a contatto con l’ambiente filosofico di Heidelberg, si vengono
precisando le lince della riflessione metodologica weberiana. In un primo
saggio, Roscher und Knies und die logischen Probleme der historischen
Nationalòkonomie (pubblicato nello « Schmollers
Jahrbuch » del 1903-1906), Weber rivolge la sua critica ai
presupposti organicistici della scuola
storica di economia, respingendo la pretesa di
assegnare alla scienza economica il compito di scoprire tendenze
evolutive fornite di valore legale. Ma la critica della scuola storica (a cui fa riscontro l'accettazione dei princìpi della
teoria marginalistica, soprattutto nella formulazione datane da Carl Menger) si
allarga in una presa di posizione
polemica nei confronti dell’eredità metodologica romantica, e in particolare dell'interpretazione della
conoscenza storica come un procedimento di comprensione immediata, diretto a
cogliere intuitivamente i fenomeni
storici nella loro individualità. La piattaforma di questa polemica è offerta a
Weber dal richiamo all'impostazione metodologica rickertiana. Dinanzi all’alternativa tra la
definizione della conoscenza storica
come complesso delle scienze dello spirito, formulata da Dilthey, e la sua qualificazione come sapere
idiografico, proposta da Windelband e da
Rickert, egli sceglie infatti la seconda soluzione. Né la specificità dell'oggetto né la specificità del
procedimento di ricerca, di per sé prese, sono in grado di garantire
l'autonomia della conoscenza storica: la
contrapposizione tra natura e spirito è un'antitesi di carattere metafisico,
mentre la distinzione tra spiegazione e comprensione rischia di ridurre la conoscenza storica a una specie di
penetrazione immediata, a una forma di
intuizione. L'oggetto delle scienze storico-sociali deve perciò essere definito in correlazione al
loro metodo, cioè in base all’orientamento verso l’individualità; mentre
l’intendere dev’essere concepito come
una comprensione capace di trovare una verifica empirica e di tradursi in spiegazione causale. Per questa via si è venuto delineando il
problema centrale della metodologia di
Weber, vale a dire il problema dell'oggettività delle scienze storico-sociali. Nel saggio Die «
Objektivitàt » sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnis, che
inaugura la nuova serie dell'« Archiv »
(1904; tr. it. Torino, 1958) e in alcuni saggi successivi, in particolare nelle Kritische Studien auf
dem Gebiet der kulturwissenschaftlichen Logik (1906; tr. it. Torino, 1958),
Weber ha enunciato le due condizioni
fondamentali di oggettività delle scienze storico-sociali, indicandole da un
lato nell’esclusione dei giudizi di valore e dall'altro nel ricorso alla spiegazione causale. La prima
condizione stabilisce la differenza di principio tra il compito delle scienze
storico-sociali in quanto scienze e il
compito dell’attività politica, e più in generale di qualsiasi presa di posizione valutativa; la seconda
stabilisce invece la funzione
esplicativa delle scienze storico-sociali e l’applicabilità al loro
dominio della categoria di causalità. Su
questa base Weber si richiama alla
distinzione rickertiana tra giudizio di valore e relazione ai valori. Se
il giudizio di valore è estraneo alle
scienze storico-sociali come a ogni altra
disciplina scientifica, ciò che distingue la loro struttura da quella
delle scienze naturali è proprio il
riferimento a certi valori in virtù dei quali
avviene la selezione del dato empirico. Weber lascia però cadere il presupposto della validità incondizionata dei
valori, a cui Rickert faceva appello: i
valori sono sì criteri di scelta che permettono la selezione del dato empirico e la costruzione dell'oggetto
storico, ma sono essi stessi assunti in
rapporto allo specifico punto di vista da cui si pone l’indagine. I valori non
sono quindi forniti di un'esistenza metastorica; essi sono sempre i valori di una certa cultura, a
cui appartiene il soggetto della
ricerca, La relazione ai valori designa pertanto il condizionamento culturale delle scienze storico-sociali, il
punto di partenza « soggettivo » che
stabilisce la direzione dell'indagine. Entro questa direzione è possibile una
determinazione oggettiva di rapporti, che può essere conseguita mediante il
ricorso alla spiegazione causale. Ma in tale maniera la stessa spiegazione
causale di un oggetto storico risulta inevitabilmente parzia- le, anzi
unilaterale. Essa non mette capo alla scoperta di rapporti necessari, ma
procede alla formulazione di giudizi di possibilità oggettiva che si collocano
entro i due casi-limite della causazione adeguata e della causazione
accidentale. Le scienze storico-sociali individuano quin- di, di volta in
volta, una serie di condizioni che — accanto ad altre, parimenti importanti —
rendono possibile il verificarsi di un determina- to avvenimento. In
quest'opera esse si avvalgono pure di concetti generali e di regole generali che
hanno il carattere di «tipi ideali» e che
possono organizzarsi, con una relativa autonomia, in discipline
teoriche come la scienza economica o la
sociologia. Questi concetti e queste
regole assolvono una funzione strumentale rispetto allo scopo
primario delle scienze storico-sociali,
che è la spiegazione degli avvenimenti nella
loro individualità, ma sono nondimeno indispensabili. La via verso
l’individuale passa sempre attraverso il sapere nomologico. Perciò
l’edificio del sapere storico comprende
non soltanto la ricerca storiografica, ma
anche le scienze sociali astratte, costituite mediante
l’organizzazione sistematica di concetti
tipico-ideali e dirette alla determinazione delle uniformità di comportamento dei fenomeni
sociali. Negli stessi anni Weber ha
affrontato il problema dell’individualità
storica del capitalismo moderno, con i due saggi Die
protestantische Ethik und der Geist des
Kapitalismus (1904-1905; tr. it. Roma, 1945) e Die protestantischen Sekten und der Geist des Kapitalismus
(1906). Weber definisce il capitalismo
moderno come una struttura economica a orientamento razionale, che si colloca
nel quadro del processo di razionalizzazione della vita che è caratteristico
della civiltà moderna; per cui esso si
differenzia anche da quelle forme di economia che — come il
capitali smo antico — possono presentare
tratti simili. Alla ricerca storica si
pone pertanto il compito di spiegare per quali motivi, cioè in rapporto a quali
condizioni, questa struttura sia sorta soltanto in Occidente e nell'età
moderna, e di determinare le linee del processo attraverso cui essa si è
formata. Weber sostiene, in polemica con la concezione materialistica della storia, l'impossibilità
di fornire una spiegazione della genesi
del capitalismo moderno che faccia appello soltanto a condizioni economiche; e
si propone di mostrare che ad esso ha contribuito in modo decisivo, accanto a un certo tipo di
organizzazione dell'impresa e a una
certa configurazione dei rapporti « materiali », anche una particolare mentalità
— lo spirito capitalistico — la quale è il risultato di una trasformazione dell’etica calvinistica e
della sua specifica forma di ascesi
mondana, diretta a comprovare la grazia divina mediante il lavoro e
il successo negli affari. Questa tesi
costituisce il presupposto anche dell’analisi che Weber ha successivamente
dedicato alla religione cinese, all’Induismo e al Buddismo, alla religione
ebraica, negli studi raccolti sotto il
titolo complessivo Die Wirtschafesethik der Weltreligionen. Attraverso lo studio comparativo delle varie
etiche economiche a cui le religioni
universali hanno dato origine, cercando di regolare con esse la vita economica,
egli si propone infatti di mostrare — per via negativa — che soltanto nel capitalismo moderno è
presente quella particolare mentalità che costituisce lo spirito capitalistico,
e che soltanto l’ascesi di tipo
calvinistico poteva offrire le condizioni adatte per la sua
formazione. L'analisi weberiana si
rivolge così a determinare la diversità dell'etica economica del Protestantesimo da quella delle
altre religioni, cioè — in ultima
analisi — a spiegare i caratteri peculiari del capitalismo moderno. Pertanto la
« sociologia della religione » di Weber appare, in fondo, una ricerca storica che si avvale
strumentalmente di concetti tipico-ideali, subordinando l’analisi tipologica a
un preciso scopo di individuazione.
Soltanto nel saggio Uber einige Kategorien der verstehenden Soziologie
(1913; tr. it. Torino, 1958), e più esplicitamente nella trattazione sistematica di Wirtschaft und Gesellschaft
(edita postuma nel 1922 a Tiibingen; tr.
it. Milano, 1961), la sociologia cessa di costituire un momento astratto nell’ambito di un'indagine
orientata in senso storiografico, per configurarsi come una disciplina autonoma
che si pone in antitesi rispetto alla
ricerca storica, delimitando un proprio campo di ricerca. La sociologia assume a oggetto le
uniformità dell’atteggiamento umano in
quanto fornite di senso, e le forme di relazione che sorgono sulla base dei diversi tipi di atteggiamento
— l’atteggiamento razionale rispetto
allo scopo, l'atteggiamento razionale rispetto al valore, l’atteggiamento
affettivo, l'atteggiamento tradizionale. In questa prospettiva Weber ha
condotto, in Wirtschaft und Gesellschaft, un'analisi sistematica dei rapporti tra i vari settori della vita
sociale e le forme di economia; cosicché
il problema dell’individualità storica del capitalismo moderno risulta trasposto sul piano di una tipologia
delle strutture economiche, considerate
nel loro rapporto reciproco con gli altri campi della vita di una società.
Negli anni successivi al 1903 lo sviluppo della riflessione metodologica
e della ricerca storico-sociologica si intreccia, in Weber, con il rinnovato
interesse per le vicende politiche tedesche e per la situazione europea. Comincia a delinearsi, in questo periodo, la
posizione sempre più critica di Weber
nei confronti dell’eredità bismarckiana, che lo condurrà a formulare un severo giudizio sulla struttura
politica della Germania, incapace di
favorire la formazione di una classe dirigente preparata e responsabile. Questa critica, che Weber ha
sviluppato durante la prima guerra
mondiale dalle colonne della «Frankfurter Zeitung», viene espressa in modo compiuto — poco prima della
fine del conflitto — in Parlament und
Regierung im neugeordneten Deutschland (Munchen, 1918; tr. it. Bari, 1919), in cui egli
affronta il problema dell'imminente
ricostruzione politica della Germania. Successivamente Weber
partecipa in maniera diretta alla vita
politica, prima come consulente della Commissione di armistizio a Versailles e
poi collaborando alla redazione del
progetto di costituzione della repubblica di Weimar. Nel 1918 ritorna all'insegnamento, accettando una chiamata
all’Università di Monaco, dove tiene due celebri conferenze sul senso della
scienza e sul senso della politica
(Wissenschaft als Berut e Politik als Beruf, 1919; tr. it. Torino, 1948) e il suo ultimo corso di lezioni,
dedicato a un'analisi delle categorie sociologiche.
Risale a questi anni anche la Wirtschaftsgeschichte, pubblicata postuma (Berlin, 1923). La morte
lo coglie a Monaco il 14 giugno 1920, in
pieno fervore di attività. L'ultimo
periodo della vita di Weber è caratterizzato anche dallo sforzo di sviluppare le implicazioni
filosofiche della propria analisi. Non a
caso il problema che viene in primo piano, durante questi anni, è il problema dei valori, che gli veniva
riproposto con urgenza dal conflitto
mondiale e dalle questioni etico-politiche che esso aveva sollevato.
Riprendendo, nel saggio Der Sinn der « Wertfreiheit» der soziologischen und
dkonomischen Wissenschaften (1917; tr. it. Torino, 1958), la tesi dell’avalutatività delle scienze
storico-sociali, Weber ha dato una
formulazione esplicita della propria concezione dei valori. I valori
non posseggono una validità
incondizionata, e tanto meno sono entità trascendenti; la loro validità
coincide con la possibilità di trovare una realizzazione nell’agire umano.
D’altra parte i valori non possono essere riportati a un'unità sistematica: la
loro molteplicità è irriducibile, e sia tra le
diverse sfere di valori sia all’interno di ogni sfera si verificano
sempre conflitti di valori. Ciò vale nei
rapporti tra etica e politica, tra scienza e
religione, e via dicendo; ma vale perfino all’interno della sfera etica,
che è dominata dall’antitesi tra etica
dell’intenzione ed etica della responsabilità. L’agire dell’uomo è la sede in
cui si manifesta il contrasto reciproco
dei valori, in quanto l'accettazione di certi valori comporta
inevitabilmente il rifiuto di altri, e il primato accordato a una certa sfera
implica la subordinazione o la negazione
di altre sfere. Il rapporto dell’agire
umano con i valori si presenta quindi come una relazione
problematica definita mediante una
scelta — la scelta che l’uomo compie dei valori
che devono servire come criterio di orientamento per la propria
condotta. Su questa base Weber ha affrontato, in Wissenschaft als Beruf,
il problema del senso della scienza,
cioè il problema del significato che la
scienza riveste in relazione al posto dell’uomo nel mondo. Egli ha indicato tale significato nella chiarezza,
cioè nella presa di coscienza del
rapporto tra gli scopi dell’agire e i mezzi necessari alla loro
realizzazione, a cui l’uomo perviene in virtù della conoscenza scientifica.
La scienza mette in questione la
possibilità di realizzare i valori, determinando le condizioni dalle quali essa
dipende; la sua è quindi una funzione
problematizzante e critica. In maniera analoga Weber ha impostato, in Politik
als Beruf, il problema del senso della politica. Se è vero che la politica
implica sempre rapporti di forza e mira a conseguire o a mantenere un certo potere, è altrettanto vero
che essa è dedizione a un compito, a una
causa. In quanto tale, la politica presuppone una scelta in favore di certi valori, a cui si
accompagna il rifiuto di altri; cosicché
nel conflitto tra le varie forze si riflette una lotta tra valori
diversi e inconciliabili. Il senso della
politica è perciò differente dal senso della
scienza — il che consente a Weber di ribadire la tesi
dell’indipendenza reciproca di
conoscenza scientifica e di attività politica. Ma la base sulla quale essi vengono determinati è la medesima:
un’interpretazione del posto dell’uomo
nel mondo che risulta fondata sul rapporto di scelta che intercorre tra l'uomo e i valori. I saggi
metodologici di Weber sono raccolti nei Gesammelte Aufsitze zur Wissenschaftslehre, Tùbingen, 1922, 1951
? (a cura di J. Winckelmann), 1968?,
19734. Il volume comprende i seguenti saggi: Roscher und Knies und die logischen Probleme der historischen
Nationalòkonomie (1903-1906), Die «
Objektivitit » sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnis
(1904), Kritische Studien auf dem Gebiet der kulturwissenschaftlichen Logik
(1906), R. Stammlers « Ùberwindung » der materialistischen Geschichtsauffassung (1907) con il relativo
Nachtrag, Die Grenznutzlehre und das « psychophysische Grundgesetz » (1908),
Uber einige Kategorien der verstehenden Soziologie (1913), Die drei Typen der
legitimen Herr- schaft (apparso postumo nel 1922), Der Sinn der « Wertfreiheit
» der so- ziologischen und Gkonomischen Wissenschaften (1918), Wissenschaft als
Beruf (1919) — nonché il primo capitolo di Wirtschaft und Gesellschaft. Di
questi saggi il secondo, il terzo, il sesto e l’ottavo sono tradotti nel vo-
lume 7 metodo delle scienze storico-sociali (a cura di P. Rossi), Torino, 1958;
Wissenschaft als Beruf è invece tradotto — insieme a Politik als Beruf — nel
volume Il lavoro intellettuale come professione (tr. it. di A. Giolitti, intr.
di D. Cantimori), Torino, 1948, 1966 2. Gli altri scritti di Weber sono
raccolti per buona parte nei seguenti volumi: Gesammelte Aufsitze zur
Religionssoziologie, Tiùbingen, 1920-21, con va- rie riedizioni fototipiche
(una traduzione italiana completa è in corso di preparazione per i « Classici
della sociologia » delle Edizioni di Co- munità): il primo volume comprende i
due saggi Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus e Die
protestantischen Sekten und der Geist des Kapitalismus, nonché l'introduzione e
la prima par- te di Die Wirtschaftsethik der Weltreligionen, dedicata a
Konfuzia- nismus und Taoismus; il secondo comprende la seconda parte, dedi-
cata a Hinduismus und Buddismus; il terzo comprende la terza par- te, dedicata
a Das antike Judentum. Una nuova edizione dei saggi sul- l'etica protestante,
corredata della relativa discussione, è stata fornita da J. Winckelmann, col
titolo Die protestantische Ethik: cine Aufsatz- sammlung, Miinchen, 1968, e
Hamburg. Gesammelte politische Schriften, Miinchen, 1921, e Tiibingen, 1958? (a
cura di J. Winckelmann), 19713; tr. it. (parziale) Catania, 1970: di questa
traduzione non fanno parte né Parlament und Regierung im neugeordneten
Deutschland, già tradotto fin dal 1919, né il saggio Politik als Beruf,
tradotto invece nel volume // Zavoro intellettuale co- me professione cit.
Gesammelte Aufsitze zur Sozial- und Wirtschaftsgeschichte, Tiubingen, 1924: il
volume comprende Agrarverhaltnisse im Altertum (1909) e una serie di altri
saggi di storia economico-sociale del mondo antico e del Medioevo, nonché Die
lindliche Arbeitsverfassung (1893), Ent- wickelungstendenzen in der Lage der
ostelbischen Landarbeiter e Der Streit um den Charakter der altgermanischen
Sozialverfassung in der deutschen Literatur des letzten Jahrzehnts (1905).
Gesammelte Aufsitze zur Soziologie und Sozialpolitik, Tùbingen, 1924: il volume
comprende diversi saggi di sociologia empirica, tra cui so- prattutto Zur
Psychophysik der industriellen Arbeit (1908-1909), e gli interventi alle
riunioni del « Verein fir Sozialpolitik ». Rimangono al di fuori di queste
raccolte: i due volumi Die ròmische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung fiir das
Staat- und Privatrecht e Die Verhdltnisse der Landarbeiter im ostelbischen
Deutschland, già menzio- nati; l’opera sociologica fondamentale Wirtschaft und
Gesellschaft, Tù- bingen, 1922, 19257, 19473, 19564 (a cura di J. Winckelmann),
19725, tr. it. Milano, 1961, 1968, 1974?; le lezioni sulla
Wirtschaftsgeschichte: Abriss der universalen Sozial- und Wirtschaftsgeschichte
(a cura di S. Hellmann e M. Palyi), Miinchen-Leipzig, 1923 (una traduzione
italiana è in preparazione presso Einaudi). Rimangono inoltre al di fuori delle
varie raccolte e dei volumi qui elencati numerosi scritti, discorsi, interventi
con- gressuali, nonché gli Jugendbriefe, Tiibingen, s.d. (ma 1936). Di grande
importanza per la comprensione della personalità di Weber è la biografia
scritta dalla moglie Marianne Weser, Max Weber, cin Le bensbild, Tiibingen,
1921, e Heidelberg, 19507. Due importanti raccolte di documenti sono state
pubblicate rispettivamente da E. BAuMGARTEN, col titolo Max Weber: Werk und
Person, Tiibingen, 1964, e da R. KénIG e J. WincKELMANN, col titolo Max Weber
zum Gedichinis (fascicolo spe- ciale della « Kòlner Zeitschrift fir Soziologie
und Sozialpsychologie », XVI, 1964). La letteratura critica sull'opera e sul
pensiero di Weber ha acquistato, particolarmente negli ultimi due decenni,
dimensioni sempre più cospicue. Tra di essa ci limitiamo a segnalare gli studi
seguenti: 550 MAX WEBER A. von ScHELTING, Die logische Theorie der historischen
Kulturwissen- schaft von Max Weber und im besonderen sein Begriff des
Idealtypus, «Archiv fiir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik », XLIX, 1920,
pp. 623-752. H.
OrrenHEMER, Die Logik der soziologischen Begriffsbildung (mit be- sonderer
Beriicksichtigung von Max Weber), Tiibingen, 1925. A. Warter, Max Weber als
Soziologe, « Jahrbuch fir Soziologie », II, 1926, pp. 1-65. H. J. Graz, Der
Begriff des Rationalen in der Soziologie Max Webers, Karlsruhe, 1927. B.
Prisrer, Die Entwicklung zum Idealtypus (Eine methodologische Un- tersuchung
iiber das Verhaltnis von Theorie und Geschichte bei Men- ger, Schmoller und Max
Weber), Tibingen, 1928, parte III. S. LanpsHut, Kriti der Soziologie,
Minchen-Leipzig, 1929, e Neuwied- Berlin, 1968 ?, parte II. W. Bienrair, Max
Webers Lehre vom geschichilichen Erkennen, Berlin, 1930. E. Wotr, Max Webers
ethischer Kritizismus und das Problem der Me- taphysik, « Logos», XIX, 1930,
pp. 359-70. W. StrzeLEWIcz, Die Grenzen der Wissenschaft bei Max Weber, Frank-
furt a.M., 1931. K. Jasrers, Max Weber: Deutsches Wesen im politischen Denken,
im Forschen und Philosophieren, Oldenburg, 1932; nuova edizione col ti- tolo
Max Weber: Politiker, Forscher, Philosoph, Bremen, 1946, e Miin- chen, 19582;
tr. it. Napoli, 1969. K. LéwrrH, Max Weber und Karl Marx, « Archiv fiir
Sozialwissenschaft und Sozialpolitik », LXVII, 1932, pp. 53-99 € 175-214, poi
raccolto nel- le Gesammelte Abhandlungen zur Kritik der geschichilichen
Existenz, Stuttgart, 1960, pp. 1-67; tr. it. Napoli, 1967, pp. g-110. A.
Scnurz, Der sinnhafte Aufbau der sozialen Welt (Eine Einleitung in die
verstehende Soziologie), Wien, 1932. C. Stepine, Politit und Wissensschaft bei
Max Weber, Breslau, 1932. A. MertLer, Max Weber und die philosophische
Problematik in unserer Zeit, Leipzig. A. SaLomon, Max Webers Methodology, «
Social Research », I, 1934, pp. 147-68. A. von ScuettIno, Max Webers
Wissenschafeslehre, Tiibingen, 1934. R. Lennert, Die Religionstheorie Max
Webers, Stuttgart, 1935. A. Saromon, Max Weber's Sociology, « Social Research
», II, 1935, pp. 60-73. A. Saromon, Max Weber's Political Ideas, « Social
Research », II, 1935, pp. 368-84. T. Parsons, The Structure of Social Action,
New York-London, 1937, e Glencoe {Ill.), 19492, parte III; tr. it. Bologna, 1962. M.
WernreicH, Max Weber, l'homme et le savant, Paris, 1938. J. P. Maver, Max Weber
in German Politics, London, 1944, 19562. J.J. ScHaar, Geschichte und Begriff
(Eine kritische Studie zur Geschichts- methodologie von Ernst Troeltsch und Max
Weber), Tiibingen, 1946. D. HenricH, Die Einheit der Wissenschaftslehre Max
Webers, Tiibingen, 1952. J. WincKeLManN, Legitimitit und Legalitàt in Max
Webers Herrschafts- soziologie, Tubingen, 1952. P. Rossi, La sociologia di Max Weber, « Quaderni di
sociologia », 1954, N. 12, pp. 70-90, € n. 13, pp. 114-490. M. Mertrau-Ponty, Les
aventures de la dialectique, Paris, 1955, pp. 15-42. J. WincKeLMAnN, Gesellschaft
und Staat in der verstehenden Soziologie Max Webers, Berlin, 1957. W. Momxsen,
Mar Weber und die deutsche Politik (1890-1920), Ti- bingen, 1959, 1974”. F. H.
TensrucK, Die Genesis der Methodologie Max Webers, « Kélner Zeitschrift fir
Soziologie und Sozialpsychologie », XI, 1959, pp. 573- 630. R. Benpix, Max
Weber: an Intellectual Portrait, Garden City (N.Y.), 1960. A. Karsren, Das
Problem der Legitimitàt im Max Webers Idealtypus der rationalen Herrschaft,
Hamburg, 1960. A. Scuwerrzer, The Method of Social Economics: a Study of Max
We- ber, Bloomington (Indiana), 1961. 552 MAX WEBER W. Wecener, Die Quellen der
Wissenschaftsauffassung Max Webers und die Problematik der Werturteilsfreiheit
der NationalòkRonomie, Berlin, 1962. E. FLEIscHMann, De Weber à Nietzsche, «
Archives européennes de socio- logie », V, 1964, pp. 190-238. Max Weber und die
Soziologie heute (a cura di O. Srammer), Tibingen, 1965; tr. it. Milano, 1968.
« Revue internationale des sciences sociales », XVII, 1965, n. 1 (fascicolo
speciale dedicato a Max Weber, con contributi di R. Benpix, W. Momxsen, T.
Parsons, P. Rossi). F. FerrarOTTI,
Max Weber e il destino della ragione, Bari, 1965. J. Janoska-Benpi,
Methodologische Aspekte des Idealtypus: Max Weber und die Soziologie der
Geschichte, Berlin, 1965. P. LazarseeLD e A. OserscHaLL, Max Weber and
Empirical Social Re- search, « American Sociological Review », XXX, 1965, pp.
185-99. K.
LoewensteIn, Max Webers staatspolitische Auffassungen in der Sicht unserer
Zeit, Frankfurt a.M.-Bonn, 1965. J. SancHez Azcona, Introduccibn a la
sociologia segin Max Weber, Mexi- co, 1965. J. StreisanD, Max Weber:
Soziologie, Politik und Geschichtsschreibung von der Reichseinigung von oben
bis zur Befreiung Deutschlands vom Fascismus, Berlin, 1965. Max Weber:
Gedichtnisschrift der Ludwie-Maximilian-Universitàt Miin- chen zur 100.
Wiederkehr seines Geburtstages (a cura di K. EncIScH, B. Prister e J.
WincxeLMann), Berlin, 1966. G. Asramowskt, Das Geschichtsbild Max Webers:
Universalgeschichte am Leitfaden des okzidentalen Rationalisierungsprozesses,
Stuttgart, 1966. J. FreunD, Sociologie de Max Weber, Paris, 1966; tr. it. Milano, 1968. W.
E. MunHLmann, Max Weber und die rationale Soziologie, Tiibingen, 1966." }.
A. Prapes, La sociologie de la religion chez Max Weber, Louvain-Pa- ris, 1966,
1969?. H. ALsert, Theorie und Praxis: Max Weber und das Problem der Wert-
freiheit und der Rationalitàr, nel volume Die Philosophie und die Wissenschaft
(a cura di E. Oldenmeyer), Meisenheim am Glan, R. Aron, Les étapes de la pensée
sociologique, Paris, 1967, parte II, cap. 1; tr. it. Milano, 1972. L. Cavarti,
Max Weber: religione e società, Bologna, 1968. H. Herrino, Max Weber und Ernst
Troeltsch als Geschichtsdenker, « Kantstudien », LIX, 1968, pp. 410-34. S. M. Mitter, Max Weber, New
York, 1968. E. Terecen, De sociologie in het werk van Max Weber, Meppel, 1968.
The Protestant Ethic and Modernization: a Comparative View (a cura di S. N.
ErsenstaDT), New York-London, 1968. A.
Cavatti, La fondazione del metodo sociologico in Max Weber e Werner Sombart,
Pavia, 1969. R. E.
Rogers, Max Weber's Ideal Type Theory, New York, 1969. L. M. LacHmann, The
Legacy of Max Weber: Three Essays, London, 1970. A. Mirzman, The Iron Cage: an
Historical Interpretation of Max Weber, New York, 1970. Max Weber and Modern
Sociology (a cura di A. SaWav), London, 1971. R. Benpix e G. RotH, Scholarship
and Partisanship: Essays on Max We- ber, Berkeley-Los Angeles, 1971. I.
Dronsercer, The Political Thought of Max Weber, New York, 1971. A. Gippens,
Capitalism and Modern Social Theory: an Analysis of the Writings of Marx,
Durkheim and Max Weber, London-New York, 1971, parte III. G. Hurnacet, Kritik
als Beruf. Der Kritische Gehalt im Werk Max We- bers, Frankfurt a.M., 1971. K.
Huncar, Empirie und Praxis: Ertrag und Grenzen der Forschungen Max Webers im
Licht neuerer Konzeptionen, Meisenheim am Glan, 1971. W. Lerèvre, Zum
historischen Charakter und zur historischen Funktion der Methode biirgerlicher
Soziologie: Untersuchungen am Werk Max Webers, Frankfurt a.M., 1971. W.
ScHLucHTER, Wertfreiheit und Verantwortungsethik: zum Verhdltnis von
Wissenschaft und Politik bei Max Weber, Tiibingen, 1971. 554 MAX WEBER Max
Weber, sein Werk und seine Wirkung (a cura di D. Kaester), Miin- chen, 1972. H.
H. Bruun, Science, Values and Politics in Max Weber's Methodology, Copenhagen,
1972. W. G. Runciman, A Critique of Max Weber's Philosophy of Social Scien- ce,
London-New York, 1972. M. WeremBercH, Le volontarisme rationnel de Max Weber,
Bruxelles, 1972. D. BeetHaMm, Mar Weber and the Theory of Modern Politics,
London, 1974. W. Mommsen, The Age of Bureaucracy: Perspectives on the Political
So- ciology of Max Weber, Oxford, 1974. Un elenco degli scritti di Weber (compresi gli articoli di giornale) è
stato fornito per la prima volta da Marianne Weser, Max Weber, ein Lebensbild
cit., pp. 755-60; esso è stato completato da J. WINcKELMANN nell’antologia di testi weberiani Soziologie,
Weltgeschichtliche Analysen, Politik,
Stuttgart, 1956, pp. 490-503. Per una bibliografia degli studi su Weber si veda l’articolo di H. H. GertH e H.
I. GertH, Bibliography on Max Weber, «
Social Research », XVI, 1949, pp. 70-89, nonché le importanti integrazioni fornite
da W. Mommsen, Max Weber und die deutsche
Politik. La prima questione *, che di solito si pone presso di noi
a una rivista di scienza sociale che sia
al tempo stesso una rivista di politica
sociale, nel momento del suo apparire oppure del a. Ogni qual volta, nella prima parte delle
seguenti considerazioni, si parlerà
esplicitamente in nome degli editori, 0 si determineranno i compiti dell’«
Archivio », non si tratterà naturalmente di opinioni private dell’autore, bensì
di formulazioni che hanno avuto l’espressa approvazione dei coeditori. Per la seconda parte la
responsabilità, tanto per la forma
quanto per il contenuto, spetta soltanto all'autore. Che l’« Archivio » non cadrà mai nella
proclamazione settaria di una
determinata posizione scolastica, è garantito dalla circostanza che il
punto di vista non solo dei suoi collaboratori,
ma anche dei suoi editori, è tutt'altro
che identica, perfino sotto il profilo metodologico. D'altra parte una convergenza su certe concezioni
fondamentali ha costituito naturalmente il presupposto dell'assunzione
collettiva della redazione. Questa
convergenza si riferisce in particolare alla considerazione del valore
della conoscenza seorica da punti di
vista « unilaterali », nonché all'esigenza
dell’elaborazione di concetti precisi e della rigorosa distinzione tra
sapere empirico e giudizio di valore,
nel senso in cui essa verrà qui presentata
— naturalmente senza la pretesa di chiedere qualcosa di « nuovo ». L'ampiezza della discussione (nella seconda
parte) e la frequente ripetizione dello stesso pensiero servono allo scopo
esclusivo di pervenire al massimo
possibile di comune intelligibilità in tali considerazioni. Per que* Die «
Objektivitit » sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnis, « Archiv fiir Sozialwissenschaft und
Sozialpolitik », XIX, 1904, pp. 22-87, raccolto
nel volume Gesammelte Aufsitze zur Wissenschaftslehre, Tubingen, ]. C.
B. Mohr, 1922, 4° cd. (a cura di
Johannes Winckelmann) 1973, pp. 146-214 (L’« oggettività » conoscitiva della scienza sociale e della
politica sociale, tr. it. di Pietro Rossi, in Il metodo delle scienze
storico-sociali, Torino, Einaudi. passaggio sotto una nuova redazione, è quella
concernente la sua « tendenza ». Anche
noi non possiamo sottrarci a tale questione, e dobbiamo a questo punto — in
riferimento alle osservazioni formulate nella nostra Nota introduttiva! —
addentrarci in un'impostazione problematica più fondamentale. Si offre in questa maniera l’opportunità di illustrare
lungo varie direzioni il carattere specifico del lavoro della «scienza sociale»
in genere, quale noi lo intendiamo, di
modo che ciò possa essere utile — per
quanto, o piuttosto proprio in quanto si tratta di «nozioni di per sé evidenti» — se non per lo
specialista, almeno per il lettore che è
più lontano dalla prassi del lavoro
scientifico. Scopo esplicito
dell’« Archivio » è stato, fin dall’inizio, quello di promuovere, accanto
all'estensione della nostra conoscenza intorno alle «situazioni sociali di
tutti i paesi», e quindi intorno ai
fazti della vita sociale, anche l'educazione del giudizio sui suoi problemi
pratici e pertanto — in quella maniera,
certo assai modesta, in cui un fine siffatto può venir perseguito da studiosi privati — la critica del lavoro
pratico di politica sociale, fino ai
fattori legislativi. E tuttavia l’« Archivio » si è proposto sempre di essere una rivista
esclusivamente scientifica, e di
lavorare soltanto con i mezzi della ricerca scientifica — cosicché si presenta subito il problema del
modo in cui quello sto interesse molto —
c'è da sperare non troppo — si è sacrificato di
precisione dell’espressione, ed è stato pure del tutto tralasciato il
tentativo di presentare, in luogo di
un’'elencazione di alcuni punti di vista metodologici, un'indagine sistematica.
Ciò avrebbe richiesto l'inserimento di
una quantità di problemi di teoria della conoscenza, che in parte si
situano a un livello ancora maggiore di profondità. Qui ci si propone non
già di fare della logica, bensì di
rendere utili per noi dei risultati noti della
logica moderna; e quindi non di risolvere dei problemi, ma di
illustrarne il significato ai non
specialisti. Chi conosca i lavori dei logici moderni — io cito solo Windelband, Simmel e, per i
nostri scopi, specialmente Heinrich Rickert — osserverà subito come ogni cosa
essenziale sia qui legata ad essi, 1, Si tratta della Nota introduttiva alla
nuova serie dell’« Archiv fir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik », che
enunciava il programma della nuova redazione,
costituita — oltre che da Weber — da Edgard Jaffé e da Werner Sombart.
Cfr. « Archiv », XXI, 1904, pp. ivi scopo possa conciliarsi, in linea di
principio, con la limitazione a questi
mezzi. Allorché l’« Archivio » procede nelle sue pagine a valutare le misure
legislative o amministrative, oppure le
proposte per tali misure, che cosa significa questo? Quali sono le zorme per questi giudizi? Quale è la
validità dei giudizi di valore che
talvolta esprime da parte sua colui che giudica, o che un autore, nell’avanzare proposte
pratiche, pone a fondamento di queste? E in quale senso egli si mantiene allora
sul terreno della discussione
scientifica, dal momento che la caratteristica della conoscenza scientifica
deve essere rintracciata nella validità
« oggettiva » dei suoi risultati — cioè nella sua verità? Noi intendiamo illustrare dapprima il nostro
punto di vista di fronte a questa
questione, per trattarne in seguito un’altra più ampia: in qual senso vi soro in generale «
verità oggettivamente valide » sul terreno delle scienze che studiano la vita
culturale? È una questione che, in considerazione del continuo mutare e della
lotta accanita che investe anche i problemi apparentemente più elementari della
nostra disciplina, il metodo del suo
lavoro, il modo di formazione dei suoi concetti e la loro validità, non
può essere evitata. Noi vogliamo quindi non già offrire delle soluzioni, ma piuttosto porre in luce
dei problemi — quei problemi a cui la
nostra rivista, per essere giustificata nel suo
lavoro passato e futuro, dovrà dedicare la propria attenzione. Noi tutti sappiamo che la nostra scienza,
anzi — con l’eccezione forse della storia politica — ogni disciplina che abbia
per oggetto le istituzioni e i processi culturali della vita umana, è
storicamente sorta in relazione a punti di vista prati- ci. Il suo scopo
prossimo, e all’inizio anche esclusivo, era quel- lo di produrre giudizi di
valore su determinati provvedimenti politico-economici dello stato. Essa
costituiva una « tecnica » all'incirca nello stesso senso in cui lo sono anche
le discipline cliniche nell’ambito delle scienze mediche. È noto pure come
questa posizione sia venuta gradualmente
mutando, senza che tuttavia fosse
realizzata una distinzione di principio tra la conoscenza di «ciò che è» e la conoscenza di «ciò che
deve essere ». Contro questa distinzione
operava dapprima la convinzione che i
processi economici siano regolati da leggi di natura immutabilmente eguali, e
in seguito l’altra convinzione che essi dipendano da un principio di sviluppo
univoco; e pertanto si riteneva che ciò
che deve essere coincidesse 0 con ciò che è immutabilmente, nel primo caso,
oppure con ciò che diviene immancabilmente, nel secondo caso. Con il risveglio
del senso storico la nostra scienza fu
dominata da una combinazione di evoluzionismo etico e di relativismo storico,
la quale tentava di spogliare le norme
etiche del loro carattere formale, di determinarle nel contenuto mediante l’incorporazione
dell'insieme dei valori culturali nell’ambito della sfera «etica», e di elevare
perciò l’economia politica alla dignità di una « scienza etica » su fondamento
empirico. Dal momento in cui si contrassegnava l’insieme di tutti gli ideali culturali possibili con
l'impronta della sfera «etica», svaniva però la dignità specifica degli
imperativi etici, senza acquisire
d’altra parte nulla per l’«oggettività» di quegli ideali. Per il momento noi
possiamo e dobbiamo lasciar qui da parte
una confutazione di principio di tale posizione; e ci soffermeremo semplicemente a osservare che
anche oggi non è scomparsa l'opinione
inesatta — comune ovviamente soprattutto ai pratici — che l'economia politica
produca e debba produrre giudizi di valore, derivandoli da una specifica « intuizione economica del mondo ». La nostra rivista, in quanto rappresentante
di una disciplina empirica, deve respingere
in maniera fondamentale questa posizione — come vogliamo mostrare fin
dall’inizio — poiché siamo convinti che non può mai essere compito di una
scienza empirica quello di formulare
norme vincolanti e ideali, per derivarne
direttive per la prassi. Che cosa
discende però da questa proposizione? Non ne
discende in nessun modo che i giudizi di valore, in quanto essi si basano in ultima istanza su determinati
ideali e sono perciò di origine «
soggettiva », siano sottratti alla discussione scientifica in genere. La prassi
e lo scopo della nostra rivista avrebbe
sempre smentito un principio siffatto. La critica non si arresta di fronte ai giudizi di valore. La questione
è piuttosto la seguente: che cosa significa e a che cosa tende una critica
scientifica di ideali e di giudizi di valore? Essa richiede una considerazione
alquanto approfondita. Ogni riflessione
pensante sugli elementi ultimi di un agire
umano fornito di senso è vincolata anzitutto alle categorie di « scopo » e di « mezzo ». Noi vogliamo
qualcosa, in concreto, o « per il suo
proprio valore» oppure come mezzo al servizio di ciò che si vuole in ultima analisi. Alla
considerazione scientifica è quindi accessibile in primo luogo,
incondizionatamente, la questione
dell’appropriatezza dei mezzi in vista di un dato scopo. In quanto noi (entro i limiti del
nostro sapere) possiamo validamente stabilire quali mezzi sono appropriati o
non appropriati per raggiungere uno
scopo prospettato, possiamo per questa
strada misurare le possibilità di conseguire con determinati mezzi a
disposizione uno scopo determinato, e quindi
criticare indirettamente la stessa determinazione di tale scopo, in base alla situazione storica presente,
come praticamente fornita di senso oppure come priva di senso in base alla
configurazione dei rapporti esistenti. Noi possiamo inoltre, se sembra data la possibilità di raggiungere uno scopo
prospettato, stabilire — naturalmente sempre entro i limiti del nostro sapere —
le conseguenze che avrebbe l’impiego dei
mezzi richiesti accanto all'eventuale
conseguimento dello scopo prefisso, sulla base della connessione complessiva di
ogni accadere. Noi offriamo in tale
maniera a colui che agisce la possibilità di misurare tra loro le conseguenze non volute e quelle
volute del suo agire, e perciò la
risposta alla questione: che cosa « costa » il conseguimento dello scopo voluto,
in forma di pregiudizio prevedibilmente recato ad altri valori? Dal momento
che, nella grande maggioranza dei casi,
ogni scopo al quale si tende «costa »
oppure può costare qualcosa, l’auto-riflessione di uomini che agiscano in modo responsabile non può
prescindere dalla reciproca misurazione dello scopo e delle conseguenze dell’agire; e renderla possibile è infatti una delle
funzioni essenziali della critica
tecnica, quale noi l'abbiamo finora considerata. Tradurre quella misurazione in
una decisione nor è certo più un
possibile compito della scienza, ma è compito dell’uomo che vuole: egli misura e sceglie tra i valori in
questione secondo la propria coscienza e
secondo la sua personale concezione del
mondo. La scienza può condurlo alla coscienza che ogri agire, e
naturalmente anche (secondo le circostanze) il zon-agire, significa nelle suc
conseguenze una presa di posizione in favore
di determinati valori, e perciò — cosa che oggi viene così volentieri dimenticata — di regola contro
altri. Compiere la scelta è però cosa
sua. Ciò che noi possiamo ancora
offrirgli per questa decisione è la
conoscenza del significato di ciò che viene voluto. Noi possiamo insegnargli a
conoscere nella loro connessione e nel loro
significato gli scopi che egli vuole, e tra cui sceglie, rendendo esplicite e sviluppando in maniera logicamente
coerente le «idee » che stanno, o che possono stare, a base dello scopo
concreto. Infatti è evidentemente uno dei compiti essenziali di ogni scienza della vita culturale dell’uomo quello
di schiudere alla comprensione
spirituale queste «idee », per le quali si è lottato e si lotta, in parte realmente e in parte
apparentemente. Ciò non va oltre i
limiti di una scienza che tende a un « ordinamento concettuale della realtà
empirica», sebbene i mezzi necessari per questa interpretazione dei valori
spirituali non costituiscano « induzioni » nel senso comune del termine.
Tuttavia questo compito cade, almeno
parzialmente, al di fuori dell'ambito della disciplina economica nella sua
specializzazione, quale è definita in base alla consueta divisione del lavoro
scientifico; si tratta piuttosto di un
compito della filosofia sociale. Solo che la forza storica delle idee è stata
così predominante per lo svilup- po della vita sociale, e lo è tuttora, che la
nostra rivista non può sottrarsi a tale compito, e deve piuttosto considerarlo
nel- l'ambito dei suoi doveri più importanti. Ma la trattazione scientifica dei
giudizi di valore può non soltanto farci comprendere e rivivere gli scopi che
ci prefiggia- mo e gli ideali che stanno alla loro base, ma soprattutto può
insegnarci anche a «valutarli» criticamente. Questa critica può certo avere
soltanto un carattere dialettico, cioè può soltan- to essere una valutazione
logico-formale del materiale che ci è offerto dai giudizi di valore e dalle
idee storicamente date, e quindi un
esame degli ideali in base al postulato della n0n contraddittorietà interna di
ciò che viene voluto. Essa può, proponendosi questo scopo, condurre colui che
agisce volontariamente a un’auto-riflessione su quegli assiomi ultimi che
stanno a base del contenuto del suo
volere, vale a dire a quei criteri di
Max Weber intorno al 1916. valore ultimi da cui egli inconsapevolmente
muove o da cui — per essere coerente —
dovrebbe muovere. Recare alla coscienza
questi criteri ultimi, che si manifestano nei giudizi concreti di valore, è in ogni caso l’ultima cosa che essa
può compiere, senza penetrare nel campo
della speculazione. Che il soggetto che
giudica debba conformarsi a questi criteri ultimi è un suo affare personale, e riguarda il suo volere e
la sua coscienza, non già il sapere
empirico. Una scienza empirica non può
mai insegnare a nessuno ciò che egli
deve, ma può insegnargli soltanto ciò che egli può e — in determinate circostanze — ciò che egli
vuole. È vero che, entro il campo delle
nostre scienze, i vari modi personali di
concepire il mondo penetrano di continuo anche
nell’argomentazione scientifica, intorbidandola sempre e conducendola a
considerare in maniera diversa il peso di argomenti scientifici, pur sul terreno della
determinazione di semplici connessioni
causali tra i fatti; e che di conseguenza risultano diminuite o aumentate, a seconda dei casi, le
possibilità degli ideali personali, cioè
la possibilità di volere qualcosa di determinato. Anche gli editori e i collaboratori
della nostra rivista ritengono sotto
questo rispetto che in verità « nulla di umano
sia loro alieno ». Ma molto intercorre tra questa confessione di debolezza umana e la fede in una scienza
«etica » dell’economia politica, che dovrebbe dalla propria materia produrre
degli ideali, oppure dar luogo a norme
concrete mediante l’applicazione di imperativi etici universali a tale materia.
— Ed è anche vero che proprio quegli
elementi intimi della personalità, i
supremi e ultimi giudizi di valore che determinano il nostro agire e che dànno senso e significato alla
nostra vita, sono da noi avvertiti come
qualcosa di « oggeztivamente » valido. Noi
possiamo rappresentarceli soltanto se essi si presentano a noi come validi, come derivanti dai nostri
supremi valori, e se quindi essi sono
così sviluppati, nella lotta contro le resistenze della vita. E certamente la dignità della «
personalità » consiste tutta nel fatto
che per essa vi sono valori a cui riferisce la
propria vita: anche se nel caso singolo questi valori sussistono esclusivamente entro la sfera della propria
individualità, tuttavia l’«estrinsecarsi» in quelli dei suoi interessi, per i
quali reclama la validità dei valori,
diventa l’idea alla quale essa si riferisce. Soltanto in base al presupposto
della fede nei valori ha senso, in ogni
caso, il tentativo di formulare giudizi di
valore. Giudicare la validità di tali valori è però una questione di fede, ed è inoltre forse un compito della
considerazione speculativa e
dell’interpretazione della vita e del mondo nel
loro senso, ma non è sicuramente oggetto di una scienza empirica nel
significato adottato in queste pagine. Per questa distinzione non ha rilievo
decisivo — come spesso si ritiene — il
fatto empiricamente determinabile che quei fini ultimi sono storicamente mutevoli e contestati. Infatti
anche la conoscenza dei princìpi più
sicuri del nostro sapere teorico — anche del
sapere delle scienze naturali esatte o della matematica — è in primo luogo prodotto della cultura, nello
stesso modo in cui lo sono la
sensibilità e il raffinamento della coscienza. Soltanto quando riflettiamo in maniera specifica sui
problemi pratici della politica
economica e sociale (nel senso consueto del termine), risulta chiaro che vi sono numerose, anzi
innumerevoli questio ni particolari di
carattere pratico, per la cui discussione si
muove, in generale accordo, da certi scopi assunti come di per sé evidenti — sì pensi per esempio ai crediti
in caso di necessità, ai compiti concreti dell’igiene sociale, all’assistenza
dei poveri, a provvedimenti come le ispezioni di fabbriche, i tribunali del lavoro, gli uffici di collocamento, cioè
a gran parte della legislazione protettiva
dei lavoratori — e che di questi scopi si
discute, almeno in apparenza, solo in riferimento ai mezzi adatti per conseguirli. Ma anche se si scambiasse
qui l’apparenza dell’auto-evidenza con la verità — ciò che la scienza non potrebbe mai fare impunemente — e se si
volessero considerare i conflitti, entro i quali subito conduce il tentativo
della realizzazione pratica, come
questioni puramente pratiche di
opportunità — il che sarebbe molto spesso erroneo — dovremmo tuttavia
osservare che anche questa apparenza di auto-evidenza dei criteri regolativi di
valore svanisce appena procediamo dai problemi concreti dei servizi
assistenziali alle questioni della
politica economica e sociale. Il contrassegno del carattere politico-sociale di un problema consiste
precisamente nel fatto che esso non può
venir sbrigato sulla base di considerazioni
meramente tecniche che facciano riferimento a scopi stabiliti, e che si può, anzi si è costretti a disputare
intorno agli stessi criteri regolativi di valore, dal momento che il problema
rientra nella regione delle questioni culturali di portata generale. E la
disputa si svolge non soltanto, come oggi così volentieri si crede, tra
«interessi di classe», ma anche tra intuizioni
del mondo — e con ciò tuttavia rimane naturalmente vero che l'adesione dell'individuo a una certa
intuizione del mondo è decisa anche,
oltre che da vari altri elementi, e di sicuro in misura molto elevata, dal grado di affinità
che la unisce al suo « interesse di
classe » (se vogliamo qui accogliere in via provvisoria questo concetto solo
apparentemente univoco). Di certo c'è,
in ogni circostanza, soltanto una cosa, che quanto più « generale » è il
problema del quale si tratta, vale a dire quanto più esteso è il suo significato culturale,
tanto meno esso può trovare una risposta
univocamente determinata in base al materiale del sapere empirico, e di
conseguenza tanto maggiore rilievo hanno
gli ultimi assiomi, così personali, della fede e delle idee di valore. È semplicemente una ingenuità
— sebbene essa sia tuttora condivisa
talvolta da specialisti — ritenere possibile di stabilire in primo luogo per la
scienza sociale pratica «un principio »
e di trovare una conferma scientifica della sua
validità, per dedurne quindi in maniera univoca le norme per la soluzione dei problemi pratici
particolari. Per quanto le discussioni « di principio » di problemi pratici,
condotte per riportare i giudizi di valore che si impongono in maniera
irriflessa al loro contenuto di idee, siano indispensabili nella scienza
sociale, e per quanto la nostra rivista intenda dedicarsi in ma- niera
particolare anche ad esse, non può tuttavia essere suo compito — come non può
essere il compito di nessuna scienza empirica in genere — la creazione di un
denominatore comune di portata pratica
per i nostri problemi, in forma di ideali
ultimi universalmente validi; esso sarebbe non soltanto di fatto insolubile, ma anche in sé privo di senso. E
quale che sia l’interpretazione del fondamento e del modo di obbligatorietà
degli imperativi etici, è però certo che
da essi, in quanto costituiscono norme per l’agire concretamente condizionato
dell’;dividuo, non si possono dedurre in maniera univoca dei contenuti di cultura che debbano essere accolti, e che
anzi ciò è tanto meno possibile quanto
più comprensivi sono i contenuti in questione. Soltanto le religioni positive —
o più precisamente le sette legate da un vincolo dogmatico — possono attribuire
al contenuto dei valori culturali la
dignità di comandi etici incondizionatamente validi. Al di fuori di esse gli
ideali culturali, che l’individuo rsole
realizzare, e i doveri etici, che egli deve
compiere, sono di dignità fondamentalmente differente. Il destino di
un’epoca di cultura che ha mangiato dall’albero della conoscenza è quello di sapere che noi non
possiamo cogliere il senso dell’accadere
cosmico in base al risultato della sua investigazione, per quanto perfettamente
accertato esso sia, ma che dobbiamo
essere in grado di crearlo, e che di conseguenza le «intuizioni del mondo » non possono mai
essere prodotto del sapere empirico nel
suo progredire, mentre gli ideali supremi,
che ci muovono nella maniera più potente, agiscono in tutte le età solo nella lotta con altri ideali, che ad
altri sono sacri come a noi i
nostri. Soltanto un sincretismo ottimistico,
quale risulta talvolta prodotto dal
relativismo storico-evolutivo, può illudersi teoricamente sull’estrema gravità
di questo stato di cose oppure sottrarsi praticamente alle sue conseguenze. È
ovvio che nel caso singolo può essere
soggettivamente doveroso per il politico pratico cercare una mediazione tra le
antitesi di opinioni esistenti, proprio
come può esserlo prendere partito per una di esse. Ma ciò non ha proprio nulla a che fare con l’«
oggettività » scientifica. La «linea di mezzo» non è verità scientifica in
nessun modo più di quanto lo siano gli
estremi ideali di parte, di destra
oppure di sinistra. Mai l’interesse della scienza è alla lunga così mal garantito come le volte in cui
non si vuole guardare in faccia i fatti
scomodi e le realtà della vita nella
loro durezza. L°« Archivio» combatterà senza sosta la grave auto-illusione che si possano ottenere norme
pratiche di validità scientifica attraverso la sintesi di diversi punti di
vista, oppure in base a una diagonale
tracciata tra di loro, in quanto essa —
amando rivestire relativisticamente i propri criteri di valore — è molto più pericolosa per una
ricerca impregiudicata di quanto non lo
sia la vecchia ingenua fede dei diversi partiti
nella « dimostrabilità » scientifica dei propri dogmi. La capacità di
realizzare la distinzione tra il conoscere e il valutare, cioè tra l'adempimento del dovere scientifico di
vedere la realtà dei fatti e
l'adempimento del dovere pratico di difendere i propri ideali — questo è il
principio al quale dobbiamo attenerci più
saldamente. In ogni epoca c’è e
rimarrà sempre — questo è ciò che ci
interessa — una differenza insormontabile tra un’argomentazione la quale
si diriga al nostro sentimento e alla nostra capacità di entusiasmarci per fini pratici concreti o
per forme e contenuti culturali, oppure anche alla nostra coscienza — nel caso
in cui sia in questione la validità di
norme etiche — e un’argomentazione la quale si rivolga invece alla nostra
capacità e al nostro bisogno di ordinare
concettualmente la realtà empirica, in
maniera da pretendere una validità di verità empirica. E questa proposizione rimane corretta
nonostante che quei « valori» supremi che stanno a base dell’interesse pratico
siano e restino sempre di decisiva
importanza, come si porrà ancora in
luce, per la direzione che l’attività ordinatrice del pensiero assume ogni volta nel campo delle scienze
della cultura. È e resta vero,
infatti,che una dimostrazione scientifica metodicamente corretta nel campo
delle scienze sociali deve essere riconosciuta come giusta, allorché essa abbia
realmente conseguito il proprio scopo,
anche da un Cinese. Il che vuol dire, più
precisamente, che essa deve in ogni caso aspirare a questo fine, benché forse non pienamente attuabile per
l’insufficienza del materiale, e che
l’analisi logica di un ideale, considerato nel
suo contenuto e nei suoi assiomi ultimi, nonché l’indicazione delle conseguenze che logicamente e
praticamente derivano dalla sua realizzazione, deve essere valida per chiunque,
anche per un Cinese, una volta posto che
sia riuscita. E ciò mentre a lui può
mancare la « sensibilità » per i nostri imperativi etici, e mentre egli può respingere e certo
respingerà spesso quell’ideale e le valutazioni concrete che ne discendono,
senza tere in tal modo il valore
scientifico dell’analisi concettuale.
sicuro la nostra rivista non ignorerà i tentativi, che i. e inevitabilmente si ripetono, di determinare
in maniera univoca il sezso della vita
culturale. Al contrario, essi appartengono ai
prodotti più importanti di questa vita culturale, e in determinate
circostanze anche alle sue più potenti forze direttive. Perciò noi seguiremo sempre con cura il corso delle discussioni
di « filosofia sociale» in questo senso.
Anzi, noi siamo quanto mai alieni dal
pregiudizio che le considerazioni della vita culturale, le quali tentano di
pervenire a interpretare metafisicamente il mondo, procedendo oltre
l’ordinamento concettuale del dato
empirico, non possano per questo loro carattere adempiere alcun compito in
servizio della conoscenza. In che cosa
consista questo compito è certo un problema in primo luogo di teoria della conoscenza, la cui soluzione
deve, e può anche, essere qui messa in
disparte per ciò che concerne i nostri scopi.
Poiché una cosa dobbiamo stabilire per il nostro lavoro: che una rivista di scienza sociale nel senso da noi
illustrato, in quanto essa aspira al
carattere di scienza, deve essere una sede
nella quale si cerca la verità, e una verità tale — per rimanere all'esempio — che esiga anche per il Cinese
la validità propria di un ordinamento
concettuale della realtà empirica.
Certamente gli editori non possono proibire una volta per sempre, a se stessi e ai collaboratori, di
esprimere i propri ideali anche in forma
di giudizi di valore. Solo che da ciò
scaturiscono due importanti doveri. In primo luogo, viene il dovere di rendere ben consapevole in ogni
momento il lettore e se stesso dei
criteri a cui viene commisurata la realtà e da cui è derivato il giudizio di valore, invece di
illudersi, come troppo spesso accade,
intorno ai conflitti tra gli ideali, mediante un’imprecisa congiunzione di
valori di diverso tipo, e di volere « offrire qualcosa a ognuno ». Se questo
dovere viene rigorosamente osservato, la presa di posizione valutativa di
carattere pratico può risultare non
soltanto innocua, ma anche direttamente utile nel puro interesse scientifico;
poiché nella critica scientifica delle
proposte legislative, nonché di altre proposte pratiche, la chiarificazione dei motivi del legislatore e
degli ideali dell’autore criticato non può venir compiuta in tutta la sua
portata, in forma intelligibile, se non mediante il confronto dei criteri di
valore che sono alla loro base con altri, e naturalmente anche, in primo luogo,
con i propri. Ogni valutazione fornita di senso del volere di un altro può
essere soltanto una critica condotta in base alla propria intuizione del mondo,
cioè una lotta contro l'ideale altrui sulla base di un proprio ideale. Se nel
caso parti- colare l’assioma valutativo ultimo, che sta a fondamento di un
volere pratico, deve essere non soltanto determinato e analizza- to
scientificamente, ma anche illustrato nelle sue relazioni con altri assiomi
valutativi, rimane inevitabile una critica « positiva» per mezzo di un
“esposizione sistematica di questi ultimi.
Nelle pagine di questa rivista, specialmente in occasione della discussione di leggi, si tratte rà
inevitabilmente, oltre che di scienza
sociale — e cioè dell’ordinamento concettuale dei fatti — anche di politica sociale — e cioè
della rappresentazione di ideali. Ma noi non pensiamo di presentare siffatte
discussioni polemiche come « scienza », € ci guarderemo con tutte le nostre forze dal mescolare e scambiare le due
cose. Non è più allora la scienza che
parla; e infatti la seconda fondamentale
prescrizione di un discorso scientifico impregiudicato è di illustrare
con chiarezza in tali casi al lettore (e, lo ripetiamo, in primo luogo di chiarire a se stesso) che, e
dove, finisce il ricercatore con la sua
opera di pensiero e dove comincia a
parlare l’uomo che vuole, dove gli argomenti concernono l’intelletto e
dove si dirigono invece al sentimento. La continua mescolanza della discussione scientifica dei
fatti e del ragionamento valutativo è una delle caratteristiche ancora più
diffuse, ma anche più dannose, dei
lavori della nostra disciplina. E le
considerazioni precedenti si dirigono appunto contro questa mescolanza,
non già contro l'enunciazione dei propri ideali. L’indifferenza e l’«
oggettività » scientifica non posseggono nessuna affinità interna. L’« Archivio » non è mai
stato, e non deve neppur diventare —
almeno secondo la sua intenzione — un
luogo nel quale si conduca una polemica contro determinati partiti politici o politico-sociali, e tanto
meno una sede in cui si faccia opera di
proselitismo a favore di, oppure in opposizione a ideali politici o politico-
sociali; per tale scopo sussistono altri
organi. Il carattere proprio della rivista è stato fin dall’inizio, e dovrà
essere anche in futuro, per quanto dipende dagli editori, quello di riunire
insieme nel lavoro scientifico i più aspri avversari politici. Essa non è stata
finora un organo « socialista » e non
diventerà in avvenire un organo «borghese». Essa non esclude dalla propria cerchia di
collaboratori nessuna persona che voglia
porsi sul terreno della discussione scientifica. Essa non può costituire un’arena di « risposte »,
repliche e contro-repliche, ma d’altra parte non può evitare a chiunque,
neppure ai suoi collaboratori e tanto
meno ai suoi editori, di essere soggetti nelle proprie pagine alla più severa
critica scientifica. Chiun568 MAX WEBER
que non possa sopportare ciò, o che ritenga di non poter collaborare,
neppure al servizio della conoscenza scientifica, con gente che lavora per
ideali diversi dai suoi, può rimanere lontano
dalla rivista. Certo con questa
ultima proposizione — non vogliamo illuderci in proposito — si è però detto
praticamente molto di più di quanto non
appaia ad un primo sguardo. In primo luogo,
come si è già accennato, la possibilità di incontrarsi con avversari
politici su un terreno neutrale — sociale o ideale — ha purtroppo, in base a ciò che risulta
empiricamente, i suoi limiti psicologici dovunque, e in particolare nella
situazione tedesca. Degno di essere combattuto senz’altro di per sé come
segno di una ristrettezza mentale basata
sul fanatismo e di una cultura politica arretrata, questo ostacolo viene
accresciuto in misura considerevole, nel caso di una rivista come la nostra,
dalla circostanza che nel campo delle
scienze sociali l'impulso a considerare i problemi scientifici è dato di regola
da « questioni » pratiche, di modo che
il puro riconoscimento della sussistenza
di un problema scientifico sta in unione personale con il volere di uomini viventi, diretto a un determinato
scopo. Nelle colonne di una rivista, la quale viene in vita sotto l'influenza
dell’interesse generale per un problema concreto, si troveranno perciò di regola insieme, come collaboratori, uomini
che dedicano a tale problema il loro
interesse personale, in quanto ad essi
sembra che determinate situazioni concrete siano in contraddizione con
valori ideali a cui credono, e che quei valori siano in pericolo. E quindi un’affinità elettiva di
ideali siffatti unirà la cerchia dei collaboratori e consentirà di reclutarne
degli altri, di modo che essa acquisterà almeno nella trattazione dei problemi
politico-sociali di portata pratica un determinato carattere, quale
inevitabilmente si accompagna a ogni cooperazione di uomini forniti di una viva
sensibilità, la cui presa di posizione valutativa di fronte ai problemi non è sempre del tutto
repressa anche nel puro lavoro
teoretico, e si esprime pure in maniera del tutto legittima — entro l’ambito dei presupposti prima
discussi — attraverso la critica di
proposte e di misure pratiche. L’« Archivio » apparve in un periodo nel quale stavano in primo piano,
nelle discussioni della scienza sociale,
determinati problemi pratici costituenti la
«questione dei lavoratori» nel senso tradizionale della parola. Quelle personalità per cui i supremi e
decisivi ideali valutativi si
congiungevano ai problemi che esso intendeva trattare, e che pertanto
divennero i suoi più consueti collaboratori, furono proprio per questo anche
rappresentanti di una concezione culturale atteggiata in maniera identica o
simile in base a quelle idee di valore.
Ognuno sa pertanto che, sebbene la rivista abbia decisamente rifiutato di seguire una «
tendenza » mediante l’esplicita limitazione alle discussioni «scientifiche » e
mediante l’esplicito invito agli
«appartenenti a ogni settore politico »,
essa tuttavia ha posseduto sicuramente un «carattere » nel senso che si
è detto. Esso fu creato in base alla cerchia dei suoi collaboratori regolari. Furono in generale
uomini che, nonostante ogni altra divergenza di opinioni, ritenevano
proprio fine quello di proteggere la
salute fisica delle masse dei lavoratori e di rendere loro possibile una
crescente partecipazione ai beni
materiali e spirituali della nostra cultura; uomini che consideravano come
mezzo in vista di tale fine la connessione
dell'intervento statale nella sfera degli interessi materiali con
il libero sviluppo ulteriore
dell'ordinamento esistente dello stato e
del diritto, e che — quale potesse essere la loro opinione sulla formazione dell'ordinamento della società nel
remoto futuro — sostenevano per il
presente lo sviluppo capitalistico, non già
perché questo sembrasse loro la migliore nei confronti delle più vecchie forme di organizzazione sociale, ma
perché esso pareva praticamente
inevitabile, e d’altra parte il tentativo di una lotta a fondo contro di esso risultava non tanto un
vantaggio quanto un ostacolo per il
progredire della classe operaia verso la luce
della cultura. Nelle condizioni oggi esistenti in Germania — che non hanno qui bisogno di un'ulteriore
chiarificazione — questo non era, e non
sarebbe neppure oggi, da evitare. Anzi,
ciò giovò senz'altro alla partecipazione di tutte le parti alla discussione scientifica, e costituì per la
rivista un elemento di forza, e forse
anche — data la situazione — uno dei titoli che
ne giustificavano l’esistenza. È fuor di dubbio che lo sviluppo di un
«carattere» in questo senso può, e anzi dovrebbe per forza significare, in una
rivista scientifica, un pericolo per un lavoro scientifico im- pregiudicato,
nel caso in cui la scelta dei collaboratori sia stata di proposito unilaterale:
in questo caso l'adozione di quel « ca- 570 MAX WEBER rattere » varrebbe
praticamente come la presenza di una « ten- denza ». Gli editori sono
pienamente consapevoli della responsa- bilità che questa situazione impone
loro. Essi non si propongo- no né di mutare di proposito il carattere dell’«
Archivio », né di conservarlo artificiosamente mediante un’accurata limitazio-
ne della cerchia dei collaboratori agli studiosi che abbiano determinate
convinzioni politiche. Essi lo accettano come dato, e confidano nel suo ulteriore « sviluppo ».
Come esso si configurerà in futuro, e come forse si trasformerà per
l'inevitabile ampliamento della nostra cerchia di collaboratori, dipenderà in
primo luogo dal carattere di quelle
personalità che entreranno in tale
ambito con l’intenzione di servire il lavoro scientifico, e che diverranno o rimarranno di casa sulle colonne
della rivista. E ciò sarà ulteriormente
condizionato dall’estensione dei problemi, al cui avanzamento la rivista si
propone di tendere. Con questa
osservazione noi perveniamo alla questione, finora non ancora discussa, della
delimitazione di contenuto del nostro
campo di lavoro. Ma ad essa non si può fornire una risposta senza prendere in esame anche la
questione della natura del fine conoscitivo della scienza sociale in genere.
Noi abbiamo presupposto, distinguendo in
linea di principio « giudizi di valore» e « sapere empirico », che vi sia di
fatto un tipo incondizionatamente valido
di conoscenza, cioè di ordinamento
concettuale della realtà empirica, nel campo delle scienze sociali.
Questa assunzione diventa però ora un problema, dal momento che noi dobbiamo
discutere che cosa può significare nel
nostro campo la «validità» oggettiva della verità alla quale tendiamo. Che il problema sussista come tale,
e che non venga qui creato in maniera
sofisticata, non può sfuggire a nessuno
che assista alla lotta di metodi, « concetti fondamentali » e
presupposti, al continuo mutamento dei « punti di vista» e alla continua rielaborazione dei concetti che
vengono impiegati, e che constati come
la considerazione teorica e la considerazione
storica siano ancor sempre divise da un abisso apparentemente insuperabile — quasi a costituire, come si
lagnava a suo tempo con tono lamentoso
un disperato esaminando viennese, « due
economie politiche ». Che cosa vuol qui dire oggettività? Semplicemente
questa questione vogliono affrontare le considerazioni seguenti Fin dall’inizio
questa rivista ha considerato gli oggetti dei
quali si occupava come oggetti ecozomico-sociali. Per quanto abbia poco senso anticipare qui
determinazioni concettuali e
delimitazioni di discipline scientifiche, dobbiamo tuttavia porre
brevemente in chiaro che cosa ciò significhi.
Che la nostra esistenza fisica, al pari del soddisfacimento dei nostri più alti bisogni ideali, urti
sempre contro la limitazione quantitativa e l’insufficienza qualitativa dei
mezzi esterni che occorrono a tale
scopo, e che per tale soddisfacimento vi
sia appunto bisogno di una previdenza organizzata e del lavoro, della
lotta contro la natura e dell’associazione con gli uomini, questo è — espresso
in forma molto imprecisa — il fatto
fondamentale al quale si riferiscono tutti quei fenomeni che noi indichiamo nel senso più ampio come «
economico-sociali ». La qualità di un
processo, che lo rende un fenomeno « economico-sociale », non è qualcosa che
inerisca ad esso in quanto tale, «
oggettivamente ». Essa è piuttosto condizionata dalla direzione del nostro
interesse conoscitivo, quale risulta dallo specifico significato culturale che attribuiamo nel
caso singolo al processo in questione. Ogni qual volta un processo della vita
culturale, considerato in quegli aspetti della sua particolarità in cui risiede il suo significato specifico per noi,
è ancorato in maniera diretta — o anche in maniera mediata — a tale situazione,
esso contiene, oppure può per lo meno contenere, nella misura in cui ciò ha luogo, un problema di
scienza sociale, vale a dire un compito
per una disciplina che si propone per
oggetto la chiarificazione della portata di quella situazione
fondamentale. Noi possiamo, entro
l'ambito dei problemi economico-sociali, distinguere processi e complessi di
norme, istituzioni ecc., il cui
significato culturale consiste per noi essenzialmente nel loro aspetto economico, e che ci interessano in
primo luogo — come per esempio i
processi della vita delle borse e delle banche — soltanto da questo punto di vista. Ciò avverrà
di regola (anche se non esclusivamente)
quando si venga a trattare di istituzioni
le quali siano state create o siano utilizzate consapevolmente per scopi
economici. Noi possiamo chiamare questi oggetti del nostro conoscere con il nome di processi
oppure di istituzioni « economiche ». Ad
essi se ne aggiungono altri — come per
esempio i processi della vita religiosa — che non ci interessano, oppure
sicuramente non ci interessano in primo luogo, dal punto di vista del loro
significato economico e in virtù di
questo, ma che tuttavia in certe circostanze acquistano significato da questo
punto di vista, poiché ne derivano effetti che ci interessano sotto il punto di vista economico:
essi sono fenomeni «economicamente rilevanti». Infine, tra i fenomeni che non sono economici nel nostro senso, ve ne
sono alcuni i cui effetti economici non
presentano per noi nessun interesse, o
almeno non un interesse considerevole — come per esempio l'orientamento del gusto artistico di
un'epoca — ma che sono da parte loro
inffuenzati in misura più o meno forte, nel caso specifico, in certi aspetti importanti della
loro fisionomia, da motivi economici,
per esempio dal tipo di organizzazione sociale del pubblico che si interessa
all’arte: essi sono fenomeni
condizionati economicamente. Quel complesso di relazioni umane, di norme
e di rapporti determinati normativamente, che
noi chiamiamo lo « stato », è per esempio un fenomeno « economico » per
ciò che riguarda la sua economia finanziaria; è un fenomeno «economicamente rilevante » in
quanto agisce, per via legislativa o
altrimenti, sulla vita economica (anche quando punti di vista assai diversi da
quelli economici determinano consapevolmente il suo atteggiamento); ed è infine
un fenomeno «condizionato economicamente
» in quanto il suo atteggiamento e il
suo carattere sono condeterminati, anche in
relazioni che non siano « economiche », da motivi economici. È implicito in ciò che si è detto che da una
parte l’ambito dei fenomeni « economici » è fluido, e non delimitabile in
maniera precisa, e che d’altra parte naturalmente gli aspetti « economi- ci» di
un fenomeno non sono mai soltanto «condizionati eco- nomicamente » oppure
soltanto « economicamente operanti », € che in genere un fenomeno mantiene la
qualità di fenome- no «economico» in quanto, e solamente per il periodo in cui
il nostro interesse si dirige esclusivamente al significato che esso possiede
per la lotta materiale per l’esistenza. La nostra rivista — come del resto
anche la scienza economico-sociale a partire da Marx e da Roscher? — si è
occupata non soltanto di fenomeni «economici », ma anche di fenomeni «economicamente rilevanti » e di fenomeni «
condizionati economicamente ». L'ambito di siffatti oggetti si estende
naturalmente — in maniera fluida, in quanto è legato al diverso orientamento del nostro interesse —
attraverso l’insieme di tutti i processi
culturali. Motivi specificamente economici —
cioè motivi che sono ancorati, nella loro fisionomia per noi significativa, a quel fatto fondamentale —
operano sempre là dove il
soddisfacimento di un bisogno, per quanto immateriale esso sia, è legato all'impiego di mezzi
esterni limitati. Il loro peso ha
pertanto condeterminato e trasformato ovunque non soltanto la forma del soddisfacimento, ma
anche il contenuto dei bisogni culturali
perfino di tipo interiore. L’influenza indiretta di relazioni sociali, di
istituzioni, di raggruppamenti umani che
stanno sotto la pressione di interessi « materiali» si estende (spesso inconsapevolmente) a tutti i
campi della cultura senza eccezione,
raggiungendo perfino le più sottili sfumature
del sentimento estetico e religioso. I processi della vita quotidiana
non meno degli avvenimenti «storici » dell’alta politica, i fenomeni collettivi e di massa al pari delle
azioni « singolari » di uomini di stato
o dei prodotti letterari e artistici di origine
individuale subiscono questa influenza — e sono così « condizionati
economicamente ». D'altra parte l’insieme di tutti i fenomeni e di tutte le
condizioni di vita di una cultura storicamente data opera sulla formazione dei
bisogni materiali, sul modo del loro
soddisfacimento, sulla formazione dei gruppi di interessi e sul tipo dei loro
strumenti di potere, e perciò sul modo in
cui si svolge lo «sviluppo economico» — esso diventa cioè « economicamente rilevante ». In quanto la
nostra scienza imputa, nel regresso causale, i fenomeni economici a cause
individua2. Wilhelm Gcorg Friedrich Roscher (1817-1894), economista tedesco,
autore del Grundriss zu Vorlesungen
tiber die Staatswissenschaft nach geschichtlicher Methode (1843), del Systeni
der Volkswirtschafislehre (1854-94), delle Ansichten der Volkswirtschaft (1861)
e di varie altre opere, fu il fondatore della scuola storica di economia. Alla
critica della sua impostazione è dedicato il primo saggio metodologico di Weber, Roscher und Knîes und die logischen
Probleme der historischen Nationalokonomie, «Schmollers Jahrbuch fir
Gesetzgebung, Verwaltung und Volkswirtschaft », XXVII, 1903, pp. 1181-1221;
XXIX, 1905, pp. 1323-84; XXX, 1906, Pp.
81-120 (ora in Gesammelte Aufsitze zur Wissenschaftslehre, pp. 1-145). 574 MAX WEBER
li — di carattere economico e non economico — essa mira a conseguire una conoscenza « storica ». E in
quanto segue ur elemento specifico dei
fenomeni culturali, quello economico,
determinandolo nel suo significato culturale attraverso le più diverse connessioni di cultura, essa mira a
conseguire una inzerpretazione della storia da uno specifico punto di vista,
offrendo un’immagine parziale, un lavoro
preliminare per la piena conoscenza storica della cultura. Sebbene un problema economico-sociale non
sussista ovunque ha luogo una connessione di elementi economici in quanto conseguenza o in quanto causa — poiché esso
sorge soltanto dove il significato di
quei fattori è problematico, e può venir
determinato con sicurezza solo mediante l’impiego dei metodi della scienza economico-sociale — da ciò che
si è detto finora risulta stabilito
l'ambito quasi sconfinato del campo di lavoro
della considerazione economico-sociale.
La nostra rivista ha finora di solito rinunciato, in base a una ponderata auto-limitazione, alla
considerazione di un’intera serie di campi particolari molto importanti della
disciplina, e in modo speciale alla
considerazione dell'economia descritti
va, della storia economica in senso stretto e della statistica. Allo stesso modo essa ha lasciato ad altri
organi la discussione delle questioni
tecnico-finanziarie e dei problemi economico-tecnici della formazione del mercato
e dei prezzi della moderna economia di
scambio. Il suo campo di lavoro è costituito dalla considerazione del significato odierno e del
processo storico di certe costellazioni
di interessi e di certi conflitti che sono sorti in virtù della funzione preminente
dell’impiego di un capitale in cerca di
investimento nell’economia dei paesi moderni. Essa non si è quindi limitata ai problemi pratici
e storico-evolutivi che definiscono la
«questione sociale » in senso stretto, cioè
alle relazioni della moderna classe di lavoratori salariati con l'ordinamento sociale esistente. È certo che
l’approfondimento scientifico
dell'interesse che, negli anni dopo l’'80, veniva estendendosi presso di noi
per questa speciale questione, ha rappresentato dapprima uno dei suoi compiti
essenziali. Quanto più la considerazione
pratica della condizione operaia è diventata
anche presso di noi oggetto permanente dell’attività legislativa e della discussione pubblica, tanto più il
centro di gravità del lavoro scientifico ha dovuto spostarsi verso la
determinazione delle connessioni di
carattere più universale in cui questi problemi trovavano il proprio posto,
sfociando in un'analisi di tuzti i
problemi culturali creati dalla fisionomia particolare dei fondamenti
economici della nostra cultura, e in quanto tali specificamente moderni. La
rivista ha perciò cominciato assai presto a
trattare storicamente, statisticamente e teoricamente i più diversi
rapporti, in parte « condizionati economicamente » e in parte « economicamente rilevanti », che si
presentano anche nelle altre grandi classi delle nazioni moderne nelle loro
relazioni reciproche. Noi traiamo
soltanto le conseguenze di questo atteggiamento allorché indichiamo ora come campo
di lavoro più particolarmente proprio
della mostra rivista la ricerca
scientifica del gezerale significato culturale della struttura
economico-sociale della vita della comunità umana e delle sue forme storiche di organizzazione. — Questo e
non altro abbiamo inteso, chiamando la nostra rivista « Archivio per la scienza sociale ». La parola deve comprendere
qui la trattazione storica e teorica degli stessi problemi la cui soluzione
pratica è oggetto della « politica sociale » nel senso più ampio del termine. Noi facciamo perciò uso del diritto
di impiegare l’espressione « sociale » nel suo significato determinato in base
ai problemi concreti del presente. Se si
vuol chiamare « scienze della cultura »
quelle discipline che considerano i processi della vita umana dal punto di
vista del loro significato culturale, la
scienza sociale nel nostro senso appartiene a questa categoria. Vedremo ora quali conseguenze di principio ne
derivano. Senza dubbio isolare l’aspetto
economico-sociale della vita culturale
rappresenta una delimitazione assai sensibile del nostro tema. Si dirà che il
punto di vista economico o — come lo si è imprecisamente definito — «
materialistico », in base a cui è qui considerata la vita della cultura, è «
unilaterale ». Certa- mente, e questa unilateralità è intenzionale. La fede che
sia compito del lavoro scientifico nel suo progredire quello di gua- rire la
considerazione economica dalla sua « unilateralità », in maniera da ampliarla
in una scienza sociale generale, è inficia- ta anzitutto dal fatto che il punto
di vista del « sociale », cioè della relazione tra gli uomini, possiede una
determinatezza sufficiente per la delimitazione dei problemi scientifici solo
quando è accompagnato da qualche predicato specifico che lo qualifica nel suo contenuto. Altrimenti esso,
in quanto oggetto di una scienza,
comprenderebbe naturalmente la filologia al
pari della storia della chiesa, e in modo particolare tutte quelle discipline che si occupano del più importante
elemento costitutivo di ogni vita culturale, cioè dello stato, e della più
importante forma della sua regolamentazione normativa, cioè del diritto. Che
l’economia sociale prenda in esame delle relazioni « sociali » non è un buon
motivo per pensare che essa precorra una
« scienza sociale generale », allo stesso modo in cui la circostanza che
essa si riferisca a fenomeni della vita o che abbia a che fare con processi di un corpo celeste non
autorizza a considerarla rispettivamente parte della biologia oppure parte di
un’astronomia artificialmente accresciuta e migliorata. Non già le connessioni
« di fatto » delle « cose », bensì le connessioni concettuali dei problemi stanno a base dei campi di
lavoro delle scienze: dove si procede ad
affrontare con un nuovo metodo un nuovo
problema, e si scoprono in tale maniera verità le quali aprano nuovi importanti punti di vista, là sorge una
nuova « scienza ». Non è un caso che il
concetto di « sociale », il quale sembra
avere un senso così generale, rechi con sé, ogni qual volta lo si controlla nel suo impiego, un significato
particolare, specificamente atteggiato, quand’anche di solito indeterminato;
l’elemento «generale» sussiste in esso di fatto soltanto nella sua indeterminatezza. Qualora lo si assuma nel
suo significato « generale », esso non offre nessun punto di vista specifico
dal quale illustrare il significato di
certi elementi della cultura. Liberi
ormai dalla fiducia antiquata nella possibilità di dedurre la totalità dei
fenomeni culturali come prodotto oppure
come funzione di costellazioni di interessi « materiali », noi riteniamo però d'altra parte che l’analisi
dei fenomeni sociali e dei processi
culturali dal punto di vista specifico del loro condizionamento economico e
della loro portata economica sia stata,
€ possa ancora rimanere in ogni tempo prevedibile, con un’applicazione
oculata e con libertà da ogni restrizione dogmatica, un principio scientifico
fornito di fecondità creativa. La
cosiddetta « concezione materialistica della storia » come « intuizione
del mondo » 0 come denominatore comune di spiegazioMAX WEBER 577 ne causale della realtà storica deve essere
rifiutata nel modo più deciso; invece
l’accurato impiego dell’interpretazione economica della storia è uno degli
scopi essenziali della nostra rivista. Ma ciò richiede una più precisa illustrazione. La cosiddetta « concezione materialistica
della storia », nel vecchio senso,
genialmente primitivo, che compare per esempio
nel Manifesto comunista, sopravvive oggi soltanto nella testa di persone prive di competenza specifica e di
dilettanti. Presso questa gente è
tuttora diffusa la circostanza che il loro bisogno causale di spiegazione di un fenomeno storico
non è soddisfatto finché non si mostrano
(oppure non sembrano essere) in gioco,
in qualche modo o in qualche luogo, delle cause economiche: ma proprio in questo caso essi si
accontentano delle ipotesi a maglie più
larghe e delle formulazioni più generali, in quanto il loro bisogno dogmatico è soddisfatto nel
ritenere che le « forze istintive » economiche siano quelle « proprie », le
sole « vere», e anzi «in ultima istanza sempre decisive ». Il fenomeno non è però affatto singolare. Quasi tutte le
scienze, dalla filologia alla biologia, hanno talvolta avanzato la pretesa di
dare origine non soltanto a un sapere
specializzato, ma anche a «intuizioni
del mondo ». E sotto l'impressione del profondo
significato culturale delle moderne trasformazioni economiche, in particolare della portata predominante
della « questione operaia », l'ineliminabile carattere monistico di ogni forma
di conoscere priva di consapevolezza critica nei confronti del proprio lavoro condusse naturalmente per questa
strada. Lo stesso carattere viene ora in luce nell’antropologia, mentre si
viene sviluppando con crescente asprezza la lotta politica e politico-commerciale
tra le nazioni per il dominio del mondo: è diffusa la fede che «in ultima analisi » ogni accadere
storico sia una derivazione del gioco reciproco di «qualità razziali» innate.
In luogo di una mera descrizione
acritica dei «caratteri dei popoli» è
subentrata la costruzione ancor più acritica delle proprie « teorie
della società » su fondamento « naturalistico ». Noi seguiremo con cura nella
nostra rivista lo sviluppo della ricerca antropologica, in quanto essa abbia
significato per i nostri punti di vista.
C'è però da sperare che venga gradualmente superata, mediante un lavoro metodicamente
disciplinato, la situazione in cui il
ricondurre causalmente i processi culturali alla « razza» documenta soltanto il
nostro 0n-sapere — proprio come avviene
nel caso del riferimento ali’« ambiente » 0, prima ancora, alle « condizioni
dell’epoca ». Se qualcosa ha finora danneggiato questa ricerca, è certo la
presunzione di alcuni fervidi dilettanti
di poter fornire per la conoscenza della cultura un orientamento specificamente diverso, e
superiore, rispetto all’estensione della possibilità di una sicura imputazione
di singoli concreti processi culturali
della realtà storica a concrete cause
storicamente date, conseguita mediante un esatto materiale di osservazione determinato in base a specifici
punti di vista. Esclusivamente nella
misura in cui possono fornirci questo, i
loro risultati hanno interesse per noi e qualificano la « biologia razziale » come qualcosa di più di un
prodotto della moderna febbre di
fondazione scientifica. Non
diversamente stanno le cose per quanto riguarda il significato dell’interpretazione economica
del corso storico. Se oggi, dopo un
periodo di illimitata sopravvalutazione, incombe su di essa il pericolo di essere
sottovalutata nella sua capacità orientativa
per il lavoro scientifico, ciò è Ja conseguenza dell’acriticità senza pari con
cui l’interpretazione economica della
realtà fu impiegata come metodo «universale », nel senso di una deduzione di tutti i fenomeni culturali —
vale a dire di tutto ciò che in essi
risulta per noi essenziale — come in ultima istanza economicamente
condizionati. Oggi la forma logi- ca, nella quale essa si presenta, non è del
tutto unitaria. Là dove si presentano difficoltà per una spiegazione puramente
economica, vi sono a disposizione diversi mezzi per mantenere in piedi la sua
validità universale come elemento causale decisi- vo. Talvolta si considera
tutto ciò che nella realtà storica 707 è deducibile da motivi economici come
qualcosa che proprio per- ciò risulta scientificamente privo di significato, e
quindi come qualcosa di « accidentale ». Oppure si estende il concetto di ciò
che è economico fino a renderlo irriconoscibile, in maniera da inserire
nell'ambito di quel concetto tutti gli interessi umani che siano in qualche maniera legati a mezzi
esterni. Se è storicamente stabilito che in due situazioni eguali sotto il
profilo economico si è tuttavia reagito
in maniera diversa — per le differenze
di determinanti politiche e religiose, o climatiche, o di innumerevoli altre non economiche — allora
si procede a degradare tutti questi
elementi, allo scopo di conservare la supremazia dell'elemento economico, a
«condizioni » storiche accidentali, dietro Ie quali i motivi economici operano
in qualità di « cause ». S’intende però
che tutti quegli elementi che risultano «accidentali» per la considerazione
economica seguono le loro proprie leggi,
proprio al pari degli elementi economici, e
che per una considerazione la quale vada dietro al loro significato
specifico le « condizioni » economiche sono « storicamente accidentali » nel medesimo senso del rapporto
inverso. Un tentativo prediletto di giustificare, ciò nonostante, l’importanza predominante dell'elemento economico,
consiste infine nell’interpretare la costante correlazione e successione dei
singoli elementi della vita culturale nel senso di una dipendenza causale o funzionale dell’uno dall’altro, o piuttosto
di tutti i rimanenti da uno solo, e cioè
da quello economico. Dove una determinata
istituzione 202 economica ha storicamente compiuto anche una determinata « funzione» al servizio di
interessi economici di classe, dove, per
esempio, determinate istituzioni religiose si
lasciano impiegare, e sono impiegate, come « polizia nera », l’intera istituzione viene allora presentata
o come creata appunto per questa funzione o — in maniera assolutamente
metafisica — come orientata in base a una «tendenza di sviluppo » che muove dall’elemento economico. Non c'è più bisogno oggi di illustrare a
nessun specialista che questa
interpretazione dello scopo dell'analisi economica è espressione in parte di una determinata
costellazione storica, la quale
indirizzava il proprio interesse scientifico verso determinati problemi
culturali condizionati economicamente, e in parte di un rabbioso patriottismo scientifico, e
che essa risulta ormai per lo meno
invecchiata. La riduzione esclusiva a cause economiche non è in qualsiasi senso
esauriente in nessun campo dei fenomeni
culturali, e neppure in quello dei processi « economici». In linea di principio
una storia della banca di qualsiasi
popolo, che volesse per la spiegazione avvalersi soltanto di motivi economici, sarebbe naturalmente
impossibile nello stesso modo in cui lo
sarebbe una « spiegazione » della Madonna Sistina in base ai fondamenti
economico-sociali della vita culturale
dell’epoca in cui è sorta — e non sarebbe, sempre in linea di principio, più esaustiva di quanto non
potrebbe esserlo per esempio la
derivazione del capitalismo da certe trasformazioni di contenuti della coscienza religiosa che
hanno cooperato alla genesi dello
spirito capitalistico, o la derivazione di qualsiasi altra formazione politica da condizioni
geografiche. In tutti questi casi è
decisiva, per misurare l’importanza che dobbiamo assegnare alle condizioni economiche, la
classe di cause alla quale devono essere
imputati quegli elementi specifici del fenomeno in questione, a cui nel caso
singolo attribuiamo un sigrificato in virtù del quale esso ci interessa. Il
diritto dell’analisi unilaterale della
realtà culturale da «punti di vista» specifici
— nel nostro caso dal punto di vista del suo condizionamento economico — deriva però anzitutto, in linea
puramente metodica, dalla circostanza che l’educazione della vista a
osservare l’azione di categorie causali
qualitativamente omogenee, e il continuo
impiego del medesimo apparato metodico-concettuale, offrono tutti i vantaggi della divisione del
lavoro. Che essa non sia troppo
arbitraria è provato dal suo risultato, cioè dal fatto che fornisce la conoscenza di connessioni le
quali si rivelano fornite di valore per
l'imputazione causale di processi storici
concreti. Ma l’« unilateralità » e la irrealtà dell’interpretazione puramente economica del corso storico è
soltanto un caso specifico di un principo generale che vale per la conoscenza
scientifica della realtà culturale. Illustrarlo nei suoi fondamenti logici e
nelle sue conseguenze metodiche generali è lo scopo essenziale delle
discussioni che seguono. Non c’è nessuna
analisi scientifica puramente « oggettiva »
della vita culturale o — ciò che forse è più ristretto, ma che non significa certo nulla di essenzialmente
diverso per il nostro scopo — dei «
fenomeni sociali », indipendentemente da punti
di vista specifici e « unilaterali», in base a cui essi sono — espressamente o tacitamente, consapevolmente
o inconsapevolmente —.scelti come oggetto di ricerca, analizzati e organizzati
nell'esposizione. Il fondamento di ciò sta nel carattere specifico del fine
conoscitivo di ogni lavoro di scienza sociale, che voglia procedere oltre una considerazione
puramente formale delle norme —
giuridiche o convenzionali — della coesistenza
sociale. La scienza sociale,
quale noi vogliamo promuoverla, è una
scienza di realtà. Noi vogliamo intendere la realtà della vita che ci
circonda, e in cui noi siamo collocati, nel suo carattere proprio — noi vogliamo cioè intendere da un
lato la connessione e il significato culturale dei suoi fenomeni particolari
nella loro configurazione presente e
dall’altro i motivi del suo essere
storicamente divenuto così-e-non-altrimenti. Allorché cerchiamo di riflettere sul modo in cui essa si
presenta immediatamente a noi, la vita
ci offre una molteplicità, senz’altro infinita, di processi che sorgono e scompaiono in un rapporto
reciproco di successione e di
contemporaneità, «in» noi e «al di fuori di»
noi. E l'assoluta infinità di questa vita molteplice non diminuisce
anche quando prendiamo in considerazione un singolo « oggetto » isolatamente —
per esempio un atto concreto di scambio — e vogliamo studiarlo con serietà allo
scopo di descrivere questo oggetto
«singolo» esaurientemente in tutti i suoi elementi individuali, per non parlare
poi di coglierlo nel suo condizionamento
causale. Ogni conoscenza concettuale della
realtà infinita da parte dello spirito umano finito poggia infatti sul
tacito presupposto che soltanto una parte finita di essa debba formare l’oggetto della considerazione
scientifica, e perciò risultare «essenziale » nel senso di essere « degna di
venir conosciuta ». Ma in conformità a
quali princìpi si procede a isolare
questa parte? Si è ripetutamente creduto di poter trovare anche nelle scienze
della cultura il criterio decisivo nel ricorrere « conforme a leggi» di
determinate connessioni causali. Il
contenuto delle «leggi» che noi riusciamo a conoscere nel corso sempre molteplice dei fenomeni deve
costituire — secon- do questa concezione — il solo aspetto scientificamente «
essen- Ziale » in essi presente: quando abbiamo dimostrata valida sen- za
eccezione, con i mezzi di una induzione storica complessiva, la «legalità » di
una connessione causale, oppure quando l’ab- biamo recata a un’evidenza
intuitiva immediata per l’esperienza interna, allora ogni formula così
ritrovata subordina a sé qualsiasi
numero, per quanto grande si possa pensarlo, di casi omogenei. Ciò che della realtà individuale
rimane al di fuori di questa
determinazione dell’aspetto « conforme a leggi» o vale come un residuo ancora privo di elaborazione
scientifica, che dev'essere sottoposto
ad analisi attraverso il completamento progressivo del sistema «di leggi»,
oppure rimane da parte come qualcosa di
« accidentale » e proprio perciò di scientificamente inessenziale, in quanto
esso non è « comprensibile legalmente», e quindi non appartiene neppure al «
tipo » del processo e può essere
soltanto oggetto di «oziosa curiosità ». Sempre ricompare di conseguenza —
anche presso i rappresentanti della
scuola storica — la convinzione che l’ideale a cui ogni conoscenza, e
quindi pure la conoscenza della cultura, tende e può tendere, anche se in un lontano futuro, sia
un sistema di proposizioni teoriche, da
cui possa venir « dedotta» la realtà. Un
rappresentante eminente della scienza naturale ha ritenuto, com’è noto, di poter indicare come fine
ideale (di fatto non attuabile) di una
siffatta elaborazione della realtà culturale una conoscenza « astronomica» dei processi della
vita. Ci sia consentito qui di prendere in esame più da vicino tale tesi,
per quanto queste cose siano già state
discusse. In primo luogo risulta ovvio
che quella conoscenza « astronomica », a cui si è pensato, non è una conoscenza di leggi, ma
assume piuttosto le «leggi» di cui si
serve come presupposti del suo lavoro da
altre discipline, quale la meccanica. Essa stessa si interessa però di
un’altra questione, e cioè di stabilire il risultato individuale che è prodotto
dall’azione di quelle leggi su una costellazione individuale, poiché queste
costellazioni individuali hanno per noi
significato. Ogni costellazione individuale, che essa ci « spiega» o predice, può certo venir spiegata
causalmente solo come conseguenza di
un’altra costellazione del pari individuale
che l’abbia preceduta; e per quanto si possa risalire indietro nella nebbia grigia del più remoto passato,
la realtà per la quale Je leggi valgono
rimane sempre individuale, e quindi non
deducibile da leggi. Uno «stato originario » del cosmo, che non rechi in sé un carattere individuale,
o che lo rechi in misura minore della
realtà cosmica presente, sarebbe naturalmente un'idea priva di senso. E
tuttavia un resto di simili
rappresentazioni non viene fuori nel nostro campo in quelle assunzioni, ora intese giusnaturalisticamente
ora invece verificate in base all'osservazione dei « popoli primitivi», di
«stati originari » economico-sociali che
sono privi di « accidentalità » storiche
— come nel caso del « comunismo agrario primitivo », della « promiscuità » sessuale ecc., da cui
lo sviluppo storico individuale
scaturisce poi attraverso una specie di caduta nel concreto? Punto di partenza dell'interesse
della scienza sociale è senza dubbio la
configurazione reale, e quindi individuale, della vita culturale che ci circonda, considerata nella
sua connessione che è sì universale, ma
non per questo meno individualmente atteggiata, e nel suo procedere da altri
stati sociali di cultura, a loro volta
evidentemente atteggiati in forma individuale. Senza dubbio la situazione che
abbiamo illustrato a proposito dell’astronomia come un caso-limite (che è
regolarmente considerato anche dai logici allo stesso scopo), si presenta qui
in una misura assai più ragguardevole.
Mentre per l’astronomia i corpi cosmici
hanno interesse soltanto nelle loro relazioni quantitative, accessibili a
un’esatta misurazione, nella scienza sociale ciò che ci interessa è invece la configurazione qualitativa
dei processi. A ciò si aggiunga che nelle scienze sociali siamo di fronte
a una cooperazione di processi spirituali,
e che « intendere » questi processi rivivendoli costituisce naturalmente un
compito di tipo specificamente diverso
da quello che le formule della conoscenza esatta della natura in genere possono
o vogliono risolvere. E tuttavia queste differenze non sono in sé così
fondamentali come può sembrare a un primo sguardo. Senza la considerazione
delle qualità non procedono — prescindendo dalla meccanica pura — neppure le
scienze esatte della natura; inoltre nel
nostro campo specifico incontriamo l'opinione — certo distorta — che il fenomeno della circolazione
monetaria, fondamentale almeno per la
nostra cultura, possa venir espresso quantitativamente e proprio per ciò sia
comprensibile «legalmente»; e infine
dipende da un’accezione più stretta o più larga del concetto di «legge» se si
comprendono nel suo ambito anche
regolarità che, in quanto non esprimibili quantitativamente, non sono neppur accessibili a nessuna
considerazione di carattere numerico. Per ciò che riguarda in particolare la
cooperazione di motivi « spirituali », essa non esclude in nessun caso la determinazione di regole dell'agire
razionale; e soprattutto non è ancora
scomparsa oggi la convinzione che sia compito
della psicologia quello di adempiere, nei confronti delle singole « scienze dello spirito », a una funzione
analoga a quella della matematica,
analizzando i fenomeni più complicati della vita sociale nelle loro condizioni
e nei loro effetti psichici, riportandoli
a fattori psichici il più possibile semplici, classificando quindi
questi ultimi nelle loro varie specie e infine studiandoli nelle loro connessioni funzionali. In tale maniera si
darebbe vita, se non a una « meccanica
», almeno a una specie di « chimica » della vita sociale, considerata nei suoi fondamenti
psichici. Se indagini di questo genere
possono mai essere valide e — il che è cosa diversa — fornire risultati particolari utilizzabili
per le scienze della cultura, non possiamo qui deciderlo. Ciò non avrebbe però
alcuna importanza per la questione di cui
ci occupiamo, cioè se il fine della
conoscenza economico-sociale nel nostro senso, costituito dalla conoscenza della realtà nel suo
significato culturale e nella sua
connessione causale, possa venir raggiunto mediante l’investigazione di ciò che ricorre in
conformità a leggi. Posto il caso che si
pervenga un giorno, sia per mezzo della psicologia sia per altre vie, ad
analizzare in base ad alcuni semplici «
fattori » ultimi tutte le connessioni causali dei processi della convivenza umana finora osservate, e inoltre
anche quelle concepibili in qualsiasi tempo futuro, e che si possa quindi
abbracciarle in maniera esauriente in un'immensa casistica di concetti e di regole che valgono come leggi rigorose —
quale rilievo avrebbe il risultato di
tutto questo per la conoscenza del mondo culturale storicamente dato, o anche
soltanto di qualche suo particolare
fenomeno, come per esempio del capitalismo
nel suo divenire e nel suo significato culturale? Esso varrebbe come mezzo conoscitivo né più né meno di un
lessico delle combinazioni
chimico-organiche per la conoscenza bio-genetica del mondo animale e vegetale. Nell’uno come
nell’altro caso si sarebbe compiuto un
lavoro preliminare sicuramente importan- te e utile. Nell’uno come
nell’altrocaso la realtà della vita non si lascerebbe però dedurre da quelle
«leggi» e da quei « fatto- ri»; e ciò non già perché nei fenomeni della vita
debbano risiedere altre superiori e misteriose « forze » (« potenze », «en
telechie » o come altrimenti le si è chiamate) — questa è una questione del
tutto a sé — ma semplicemente perché per la conoscenza della realtà ha per noi
importanza la costellazione in cui si trovano quei « fattori » (ipotetici!),
raggruppati in un fenomeno culturale che sia storicamente per noi significativo,
e perché, se vogliamo « spiegare causalmente » questo raggruppamento
individuale, noi dovremmo sempre rifarci ad altri raggruppamenti, del pari
individuali, in base ai quali « spiegarli », naturalmente attraverso l’impiego
di quei concetti (ipoteticil) di «legge». Determinare quelle «leggi» e quei «
fattori » (ipotetici) sarebbe per noi in
ogni caso solo il primo dei diversi
lavori che dovrebbero condurre alla conoscenza a cui aspiriamo.
L’analisi e Ja coordinazione del raggruppamento individuale storicamente dato
di quei « fattori » e della loro cooperazione concreta, condizionata in tale
maniera, che risulta sigrificativa nel suo modo specifico, e soprattutto la
chiarificazione del fondamento e del
tipo di questa significatività — questo sarebbe il suo compito successivo, da
risolvere certo con il ricorso a quel
lavoro preliminare, ma tuttavia pienamente nuovo e a4t0nomo nei suoi confronti.
Seguire nel loro divenire le specifiche
caratteristiche individuali, significative per il presenze, di tali raggruppamenti, risalendo il più possibile
nel passato, e spiegarle storicamente in base alle costellazioni precedenti,
che sono a loro volta individuali,
costituirebbero un terzo compito che si
può concepire — e la predizione di possibili costellazioni nel futuro, infine, sarebbe il quarto. Per tutti questi scopi sarebbe chiaramente di
grande importanza come mezzo conoscitivo — ma anche soltanto in quanto tale — e anzi sarebbe senz'altro
indispensabile in vista di essi, la
presenza di concetti chiari e la conoscenza di quelle « leggi » (ipotetiche).
Ma anche in questa funzione si mostra subito,
in #2 punto decisivo, il limite della loro portata, e mediante la loro determinazione perveniamo a cogliere il
carattere specifico decisivo della
considerazione propria delle scienze della cultura. Noi abbiamo designato come «scienze della
cultura» quelle discipline che aspirano
a conoscere i fenomeni della vita nel
loro significato culturale. Il significato della configurazione di un fenomeno culturale, nonché il suo
fondamento, non può però essere derivato,
motivato e reso intelligibile in base a
nessun sistema di concetti di leggi, per quanto completo esso sia, poiché esso presuppone la relazione dei
fenomeni culturali con idee di valore.
Il concetto di cultura è un concetto di
valore. La realtà empirica è per noi «cultura» in quanto la poniamo in relazione con idee di valore; essa
abbraccia quegli elementi della realtà
che diventano per noi significativi in base
a quella relazione, e soltanto questi elementi. Una minima parte della realtà individuale di volta in
volta considerata è investita dal nostro interesse, condizionato da quelle idee
di valore; essa soltanto ha significato
per noi, e lo ha in quanto rivela
relazioni che sono per noi importanti a causa della loro connessione con idee di valore.
Esclusivamente in questo caso, infatti,
essa è per noi degna di venir conosciuta nel suo carattere individuale. Ciò che
per noi riveste significato non può
naturalmente essere determinato attraverso nessuna indagine del dato empirico, che sia condotta «senza
presupposti»; al contrario, la sua
determinazione è il presupposto per stabilire
che qualcosa diviene oggetto dell'indagine. Ciò che è significativo non
coincide naturalmente, in quanto tale, con l'ambito di nessuna legge, e tanto meno vi coincide
quanto più universalmente valida è quella legge. Infatti il significato
specifico che ha per noi un elemento della
realtà 207 si trova naturalmente in
quelle tra le sue relazioni che esso ha in comune con molti altri. La relazione della realtà con idee di
valore, che dànno ad essa significato,
nonché l’isolamento e l’ordinamento degli elementi del reale così individuati
sotto il profilo del loro significa to
culturale, rappresenta un punto di vista del tutto eterogeneo e disparato rispetto all’analisi della realtà
in base a leggi, e al suo ordinamento in
concetti generali. I due tipi di ordinamento
concettuale del reale non hanno tra di loro relazioni logiche necessarie di nessuna specie. Essi possono
eventualmente coincidere in un caso singolo, ma sarebbe molto pericoloso che
questa congiunzione accidentale ingannasse sulla loro eterogeneità di principio. Il significato culturale di un
fenomeno, per esempio quello dello scambio in un'economia monetaria, può
consistere nel fatto che esso si presenta come fenomeno di massa, in quanto costituisce una componente
fondamentale della vita culturale odierna. E tuttavia è proprio il fatto
storico che esso assolve questa funzione
ciò che dev'essere reso comprensibile
nel suo significato culturale, e spiegato causalmente nella sua origine storica. L'indagine dell’essenza
dello scambio în generale e della tecnica della circolazione di mercato è un
lavoro preliminare — invero molto
importante e indispensabile! Non
soltanto non si è risposto così alla questione concernente il modo in cui storicamente lo scambio è
pervenuto al suo fondamentale significato odierno; ma soprattutto — ciò che in
ultima analis i ci interessa — il significato culturale dell'economia
monetaria, in virtù del quale soltanto ci interessiamo di quella descrizione della tecnica della circolazione
monetaria, e in virtù del quale soltanto c’è oggi una scienza che studia tale
tecnica, risulta inderivabile da qualsiasi di quelle «leggi ». Le carat teristiche di conformità a un genere dello
scambio, del negozio ecc. interessano i
giuristi — mentre ciò che ci concerne è il
compito di analizzare proprio quel significato culturale del fatto storico che oggi lo scambio è fenomeno
di massa. Allorché esso deve venir spiegato, allorché vogliamo intendere
che cosa distingue la nostra cultura
economico-sociale da quella, per
esempio, dell’antichità, in cui lo scambio mostrava le medesime qualità
generiche di oggi, e quando si deve spiegare in
che cosa consista il significato dell’« economia monetaria »,
intervengono nell’indagine princìpi logici di origine del tutto eterogenea. Noi
impieghiamo infatti quei concetti, che ci offre la ricerca degli elementi generici dei fenomeni
economici di massa, come mezzo di rappresentazione, e ciò nella misura in
cui vi sono contenuti elementi della
nostra cultura forniti di significato; ma il fire del nostro lavoro non è
conseguito mediante una
rappresentazione, per quanto precisa, di quei concetti e di quelle leggi, poiché al contrario la
questione di che cosa dev’essere fatto oggetto di un’elaborazione di concetti
di genere non è «senza presupposti »,
bensì è stata decisa proprio in riferimento al significato che posseggono per
la cultura determinati elementi di
quella molteplicità infinita, che noi diciamo « circolazione ». Noi aspiriamo
alla conoscenza di un fenomeno storico, cioè di un fenomeno fornito di
significato nel suo carattere specifico.
E la cosa decisiva è questa: soltanto in base al presupposto che esclusivamente
una parte fizita dell’infinito numero
dei fenomeni risulta fornita di significato, acquista un senso logico il principio di una conoscenza dei
fenomeni individuali in genere. Noi ci
troveremmo perplessi, anche se fossimo prov- visti della più completa
conoscenza possibile di tutte le « leg- gi» dell’accadere, di fronte a questa
questione: come è possibi- le in genere la spiegazione causale di un fatto
individuale — dal momento che già una descrizione anche della più piccola
sezione di realtà non può mai essere concepita come esaustiva? Il numero e il
tipo delle cause, che hanno determinato un qualsiasi avvenimento individuale, è
infatti sempre infinito, e non c’è una caratteristica inerente alle cose stesse
la quale con- senta di isolarne una parte, che venga essa soltanto presa
in considerazione. Un caos di « giudizi
esistenziali » sopra infinite
osservazioni particolari sarebbe il solo esito a cui potrebbe recare il
tentativo di una conoscenza della realtà che fosse seriamente « priva di
presupposti». E anche questo risultato sarebbe
possibile solo in apparenza, poiché la realtà di ogni osservazione
singola mostra, a uno sguardo più prossimo, infiniti elementi particolari, che
non possono mai venire espressi in maniera esaustiva in giudizi di
osservazione. In questo caos reca ordine
soltanto la circostanza che in ogni caso ha per noi interesse e significato solo una parte della
realtà individuale, in quanto essa sta
in relazione con idee di valori culturali con
le quali ci accostiamo alla realtà. Soltanto determinati aspetti dei fenomeni particolari, sempre
infinitamente molteplici, cioè quelli ai
quali attribuiamo un significato culturale universale, sono quindi degni di essere conosciuti, ed
essi solamente sono oggetto della
spiegazione causale. Anche questa spiegazione
causale pone però a sua volta in luce lo stesso fatto, che cioè un regresso causale esaustivo da
qualsiasi fenomeno concreto nella sua piera realtà non soltanto risulta
praticamente impossibile, ma è semplicemente un’assurdità. Noi mettiamo in luce soltanto quelle cause a cui devono
essere imputati gli elementi di un
accadere che risultano « essezzziali » nel caso particolare: la questione
causale, quando si tratta dell’individualità di un fenomeno, non è una
questione di leggi bensì una questione
di connessioni causali concrete; non è una questione relativa alla formula alla
quale si deve subordinare come esempio
specifico tale fenomeno, ma è una questione relativa alla costellazione
individuale a cui esso deve venir imputato come suo risultato — è cioè una questione di
imputazione. Ogni qual volta sia in
questione la spiegazione causale di un « fenomeno culturale » — cioè di un « individuo storico
», come noi lo intendiamo in base a un’espressione già usata talvolta nella
metodologia della nostra disciplina, e ora divenuta consueta nella logica in una più precisa formulazione — la conoscenza
delle leggi della causalità può essere
non già scopo, ma soltanto mezzo dell’indagine. Essa ci rende più agevole
l'imputazione causale degli elementi dei
fenomeni, culturalmente significativi nella loro individualità, alle loro cause
concrete. In quanto, e solo in quanto essa serve a questo fine, ha valore per
la conoscenza di connessioni
individuali. Quanto più le leggi sono « generali », cioè astratte, tanto meno esse servono per i
bisogni dell’imputazione causale di fenomeni individuali, e quindi
indirettamente r la comprensione del
significato dei processi culturali. Che
cosa deriva da tutto ciò? Naturalmente
non ne deriva che la conoscenza del genera
le, la formazione di concetti astratti di genere, la conoscenza di
regolarità e il tentativo di formulazione di connessioni «legali » non abbiano nel campo delle scienze
della cultura alcuna giustificazione
scientifica. Al contrario, se la conoscenza
causale dello storico è un’imputazione di effetti concreti a cause
concrete, l'imputazione valida di qualsiasi effetto individuale non è possibile
in genere senza l’impiego della conoscenza
«nomologica» — cioè della conoscenza delle regolarità delle connessioni causali. Se si deve attribuire in
concreto nella realtà a un singolo
elemento individuale di una connessione un
significato causale nei riguardi dell’effetto che intendiamo spiegare,
questo può essere stabilito, in caso di dubbio, soltanto attraverso la valutazione degli effetti che
di solito ci aspettiamo in generale da
esso e dagli altri elementi del medesimo complesso, che consideriamo ai fini
della spiegazione — vale a dire attraverso
la determinazione di quelli che sono gli effetti « adeguati» degli elementi
causali in questione. In quale misura lo
storico (nel senso più ampio del termine) possa compiere con sicurezza questa imputazione con la sua
fantasia nutrita di esperienza personale
della vita e metodicamente disciplinata, e
in quale misura egli si rifaccia invece all’aiuto di discipline speciali che gliela rendono possibile, è cosa
che dipende dal caso singolo. Ma
ovunque, e così pure nel campo di complicati
processi economici, la sicurezza dell’imputazione è tanto maggiore
quanto più assodata e comprensiva è la nostra conoscenza generale. Che si tratti sempre, anche per
tutte le cosiddette «leggi economiche »
senza eccezione, non già di connessioni
«legali » nel senso ristretto valido nel caso delle scienze esatte della natura, ma di connessioni causali adeguate
espresse in forma di regole, cioè di un
‘applicazione della categoria di « ( possibilità oggettiva» che qui non può
venir analizzata più da vicino, non fa la minima differenza per tale
proposizione. Solo che la determinazione
di tali regolarità non è già fine, bensì
mezzo di conoscenza; ed è in ogni caso una questione di opportunità se si debba o meno esprimere in
una formula, sotto forma di «legge», una
regolarità di connessione causale nota
in base all’esperienza quotidiana. Per la scienza esatta della natura le « leggi » sono tanto più importanti
e fornite di valore quanto più esse sono
universalmente valide; per la conoscenza
dei fenomeni storici nel loro fondamento concreto le leggi pià generali, in quanto sono le più vuote di
contenuto, sono invece di regola anche
le più prive di valore. Infatti quanto più estesa è la validità di un concetto di specie, cioè
il suo ambito, tanto più esso ci
distoglie dalla realtà concreta; per racchiudere l’elemento comune di quanti
più fenomeni, esso deve essere infatti
il più possibile astratto, e perciò povero di contenuto. La conoscenza
del generale non è mai per noi, nelle scienze della cultura, fornita di valore di per sé. Da quanto si è detto finora risulta dunque
che è priva di senso una trattazione «
oggettiva » dei processi culturali, per la
quale debba valere come scopo ideale del lavoro scientifico la riduzione di ciò che è empirico a «leggi ».
Essa non è priva di senso, come sovente
si è ritenuto, perché i processi culturali o
anche i processi spirituali si comportino « oggettivamente » in maniera meno legale, bensì per i motivi
seguenti: 1) perché la conoscenza di
leggi sociali non è conoscenza della realtà sociale, ma è soltanto uno dei
diversi strumenti di cui il nostro
pensiero si avvale a tale scopo; 2) perché non si può concepire una conoscenza di processi culturali se non
sul fondamento del significato che ha
per noi la realtà della vita, sempre individual- mente atteggiata, in
determinate relazioni particolari. In quale senso e in quali relazioni ciò
avvenga non ci è svelato da nessuna legge, perché è deciso dalle idee di valore
in base alle quali consideriamo nel caso singolo la «cultura». La «cultu ra» è
una sezione finita dell’infinità priva di senso dell’accade- re del mondo, alla
quale è attribuito senso e significato dal punto di vista dell’uomo. Essa è
tale anche per gli uomini che si contrappongono a una cultura concreta come a
un mortale nemico, e che aspirano a un «ritorno alla natura ». Infatti essi
possono pervenire a questa presa di posizione solo in quanto riferiscono la
cultura concreta alle loro idee di valore, e la
trovano « troppo leggera ». È questo fatto puramente logico-formale che
si tiene presente allorché qui si parla della connessione logicamente
necessaria di tutti gli individui storici con «idee di valore ». Presupposto
trascendentale di ogni scienza della cultura non è già che noi riteniamo
forzita di valore una determinata, o
anche in genere una qualsiasi « cultura », bensì è il fatto che noi siamo esseri culturali,
dotati della capacità e della volontà di
assumere consapevolmente posizione nei confronti del mondo e di attribuirgli un
serso. Qualunque possa essere questo
senso, esso ci condurrà a valutare nella vita determinati fenomeni della
coesistenza umana in base ad esso, e ad
assumere nei loro confronti una posizione (positiva o negativa) in quanto fornita di significato. Quale che
sia il contenuto di tale presa di
posizione, questi fenomeni hanno per noi un sign: ficato culturale, e su questo significato
soltanto poggia il loro interesse
scientifico. Quando qui si parla, in riferimento all’uso linguistico dei logici moderni, del condizionamento
della conoscenza della cultura da parte di idee di valore, si spera di non essere esposti a fraintendimenti di specie
così rozza come l’opinione che si debba attribuire un significato culturale
soltanto ai fenomeni forniti di valore.
La prostituzione è un fenomeno culturale
al pari della religione o del denaro; e tutti e tre lo sono in quanto e solamente in quanto, e nella
misura in cui, la loro esistenza e la
forma che storicamente assumono tocchino,
direttamente o indirettamente, i nostri interessi culturali, e in quanto essi suscitano il nostro impulso
conoscitivo sotto punti di vista
orientati in base a idee di valore, le quali rendono per noi significativo il settore di realtà che è
pensato in quei concetti. Ogni conoscenza della realtà culturale è
sempre, come risulta da tutto questo, una conoscenza da particolari punti
di vista. Quando noi richiediamo allo
storico e allo studioso di scienze
sociali, come presupposto elementare, che egli sappia distinguere ciò che è importante da ciò che
non lo è, e che egli disponga dei «
punti di vista » indispensabili per questa distinzione, ciò vuol semplicemente
dire che egli deve imparare a riferire i
processi della realtà — consapevolmente o inconsapevolmente — a «valori
culturali » universali, e quindi a porre in luce le connessioni che sono per
noi significative. Sebbene si ripresenti
sempre l’opinione che sia possibile « assumere dalla materia stessa» quei punti di vista, ciò
deriva dall’illusione ingenua dello
specialista il quale non riflette che egli ha dapprima isolato, in virtù delle
idee di valore con cui si è inconsapevolmente accostato alla materia, un
ristretto elemento da un’assoluta infinità come quello che solo lo interessa
per la sua trattazione. In questa scelta
di singole « parti» dell’accadere, che
ha luogo sempre e ovunque in forma sia consapevole che inconsapevole, viene in luce anche
quell’elemento del lavoro delle scienze
della cultura che sta a base di un’affermazione
così sovente udita — che l’aspetto « personale» di un’opera scientifica costituisca ciò che propriamente
vale in essa, e che in ogni opera,
affinché sia degna di esistere, debba esprimersi «una personalità ». Certo senza le idee di
valore del ricercatore non vi sarebbe nessun principio per la scelta della
materia, € nessuna conoscenza fornita di senso del reale nella sua individualità; e come senza la fede del
ricercatore nel significa to di qualche
contenuto culturale risulta senz'altro privo di
senso ogni lavoro diretto alla conoscenza della realtà individua le, così l'orientamento della sua fede
personale, cioè la rifrazione dei valori nello specchio della sua anima,
indicherà la direzione anche al suo lavoro. E i valori a cui il genio
scientifico riferisce gli oggetti della
sua ricerca potranno determinare la
«concezione » di un'intera epoca, potranno cioè essere decisivi non solo per stabilire ciò che nei fenomeni è
« fornito di valore», ma anche per stabilire ciò che è significativo o privo
di significato, ciò che è «importante »
e ciò che è « senza importanza ». La
conoscenza delle scienze della cultura, nel senso che abbiamo definito, è vincolata a presupposti
«soggettivi» in quanto essa si occupa
soltanto di quegli elementi della realtà
che hanno una relazione — per quanto indiretta — con i processi ai quali attribuiamo un significato
culturale. Essa è tuttavia naturalmente
una pura conoscenza causale nel medesimo senso in cui può esserlo la conoscenza
di processi naturali individuali forniti
di significato, i quali rivestano un carattere
qualitativo. Accanto alle varie confusioni prodotte dall’invasione del
pensiero giuridico-formale nella sfera delle scienze della cultura, è stato di
recente compiuto il tentativo di « confutare »
in linea di principio la «concezione materialistica della storia»
mediante una serie di spiritosi sofismi, sostenendo che, in quanto tutta la vita economica deve svolgersi
in forme regolate giuridicamente o
convenzionalmente, qualsiasi « sviluppo » economico deve assumere la forma di
tendenze alla creazione di nuove forme
giuridiche, e che esso è quindi comprensibile soltanto in base a massime
etiche, e risulta su questa base diverso
nella propria essenza da ogni sviluppo « naturale ». La conoscenza dello
sviluppo economico avrebbe pertanto un carattere «teleologico »Î. Senza voler qui discutere il
significato che per la scienza sociale
può avere l'equivoco concetto di « sviluppo »; 0 il concetto logicamente non
meno equivoco di « teleologico», si deve tuttavia constatare che una conoscenza
siffatta non potrebbe mai essere «
teleologica » ze/ senso presupposto da
questa prospettiva. Nonostante la più completa identità formale delle norme giuridiche in vigore, il
significato culturale dei rapporti
giuridici a cui le norme si riferiscono, e perciò anche delle norme medesime, può mutare in maniera
radicale. Certo, se ci si vuole
inoltrare per un momento almanaccando nelle
fantasie di un tempo futuro, si può per esempio concepire teoricamente compiuta una «socializzazione
dei mezzi di produzione » senza che sia sorta alcuna « tendenza » mirante
consapevolmente a questa conseguenza e senza che venga eliminato o aggiunto nessun paragrafo della nostra
legislazione: la frequenza statistica di particolari relazioni giuridicamente
regolate sarebbe cambiata certo alla base, e in molti casi ridotta a zero, una gran parte delle norme giuridiche
diventerebbe praticamente priva di significato, e il loro intero significato
culturale sarebbe mutato in maniera da risultare irriconoscibile. La 3. Weber si riferisce qui al volume di
Rudolf Stammler, Wirtschaft und Recht nach der materialistichen
Geschichtsauffassung, Leipzig, 1896. Alla critica della seconda edizione di
quest'opera (1906) sarà dedicato il saggio di Weber R. Stammlers « Uberwindung
» der materialistischen
Geschichtsauffassung, « Archiv. fùr Sozial- wissenschaft und
Sozialpolitik », XXIV, 1907, pp. 94-151 (ora in Gesammelte Aufsatze zur Wissenschaftslehre, pp. 291-359). —
Rudolf Stammler, filosofo del diritto
tedesco di orientamento neo-kantiano, scrisse inoltre Die Lehre voni richtigen Recht (1902), la Theorie der
Rechtsivissenschaft (1911), Die Gerechtigheit
in der Geschichte (1915), un Lelrbuch der Rechtsphilosophie (1922) e
varie altre opere. teoria « materialistica » della storia poteva
quindi con diritto mettere da parte le
discussioni de lege ferenda, poiché il suo
punto di vista centrale consisteva appunto nell’inevitabile mutamento di
significato delle istituzioni giuridiche. Colui al quale il semplice lavoro di comprensione causale
della realtà storica appare subalterno,
può sì evitarlo — ma è impossibile sostituirlo con qualsiasi « teleologia ». «
Scopo » è, per la rostra trattazione, la rappresentazione di un effetto, che
diviene causa di un'azione; e noi
consideriamo anche questa al pari di ogni
causa che contribuisca o possa contribuire a un effetto fornito di significato. Il suo significato specifico
poggia soltanto sul fatto che noi
possiamo e vogliamo anche irztendere, oltre che constatare, l'agire umano. Quelle idee di valore sono, fuor di ogni
questione, « soggettive». Tra l’interesse «storico» per una cronaca di famiglia
e quello per lo sviluppo dei più grandi
fenomeni di cultura, che furono e sono
comuni a una nazione o all'umanità per lunghe
epoche, c'è un'infinita gradazione di «significati », i cui momenti
avranno per ognuno di noi un ordine differente. E così pure esse mutano storicamente con il
carattere della cultura e delle idee che
guidano gli uomini. Da ciò 207 consegue ovviamente che la ricerca delle scienze
della cultura possa dar luogo soltanto a
risultati i quali siano «soggettivi» nel senso che valgono per l’uno e non per l’altro. Ciò che
cambia è piuttosto il grado in cui essi
interessano l’uno e non l’altro. In altri
termini, ciò che diventa oggetto dell’indagine, e in quale misura questa
si estenda nell’infinità delle connessioni causali, è determinato soltanto dalle idee di valore che
dominano il ricercatore e la sua epoca; nel «come? », vale a dire nel
metodo della ricerca — come ancora vedremo
— il « punto di vista» a cui si ispira è
determinante per l’elaborazione degli strumenti
concettuali che egli impiega — mentre nel modo della loro applicazione il ricercatore è di certo, qui
come ovunque, vincolato alle norme del nostro pensiero. Poiché verità
scientifica è soltanto ciò che esige di
valere per tutti coloro che vogliono la
verità. Da ciò risulta in ogni
caso l’assurdità dell’idea — la quale
talvolta prevale anche presso gli storici della nostra disciplina — che possa essere fine, per quanto remoto,
delle scienze della cultura quello di costruire un sistema chiuso di concetti,
nel cui ambito la realtà possa venir
compresa in un'articolazione in
qualsiasi senso definitiva, e da cui essa venga quindi di nuovo dedotta. La corrente dell’accadere
sconfinato procede senza fine verso l’eternità. E sempre nuovi e diversamente
atteggiati si presentano i problemi culturali che muovono gli uomini, cosicché
rimane fluido anche l’ambito di ciò che acquista per noi senso e significato da quella
infinita, e sempre eguale, corrente
dell’accadere, configurandosi come «individuo storico ». Mutano le connessioni
concettuali in base a cui l’accadere è
considerato e colto scientificamente. I punti di partenza delle scienze della cultura si protendono quindi
mutevoli nel più lontano futuro, finché
qualche definitivo irrigidimento della
vita spirituale non farà desistere l’umanità dal porre nuove questioni alla vita sempre inesauribile. Un
sistema delle scienze della cultura, anche soltanto in forma di una
fissazione definitiva, oggettivamente
valida, sistematizzante delle questioni e dei campi di cui esse dovrebbero
trattare, sarebbe di per sé
un’assurdità: da un tentativo del genere potrebbe derivare sempre solo
una collezione di punti di vista, specificamente diversi e tra loro in vario modo eterogenei e
disparati, in base ai quali la realtà è
risultata o risulta per noi « cultura », cioè fornita di significato nella sua specificità. Dopo queste lunghe discussioni, possiamo
finalmente affrontare la questione che ci interessa metodicamente in vista di una trattazione dell’« oggettività» della
conoscenza della cultura: quale è la funzione e la struttura logica dei
concetti con cui la nostra scienza, al
pari di ogni altra, lavora, e cioè — per
formulare la domanda con particolare riguardo al problema decisivo — qual è il significato della teoria
e dell’elaborazione concettuale teorica
per la conoscenza della realtà culturale?
L'economia politica è stata almeno originariamente — lo abbiamo già detto — una «tecnica», per ciò
che concerne il centro di gravità delle
sue discussioni: essa considerava i fenomeni della realtà da un punto di vista
valutativo che, almeno in apparenza, era
univoco, stabile e pratico, vale a dire dal
punto di vista dell’accrescimento della « ricchezza » della popolazione.
Ma d’altra parte, fin dall’inizio, essa non è stata soltanto una «tecnica », in
quanto era inserita nella possente unità
dell’intuizione giusnaturalistica e razionalistica del mondo, formulata
dal secolo xvi. Il carattere specifico di quell’intuizione del mondo, con la sua fede ottimistica nella
possibilità di una razionalizzazione
teoretica e pratica del reale, operava essenzialmente in maniera da ostacolare
la scoperta del carattere problematico di tale punto di vista, assunto come di
per sé evidente. Sorta in stretta
connessione con il moderno sviluppo della scienza naturale, la considerazione
razionale della realtà sociale è rimasta
ad essa affine in tutto il suo modo di analisi. Nelle discipline naturali il punto di vista
pratico-valutativo, fondato sulla determinazione
di ciò che è immediatamente utile in senso tecnico, era strettamente legata
alla speranza — ereditata dall’antichità
e in seguito ancora sviluppata — di pervenire
sulla via dell’astrazione generalizzante e dell’analisi del dato empirico nelle sue connessioni legali a una
conoscenza di tipo monistico dell’intera
realtà che fosse puramente « oggettiva »,
cioè svincolata da tutti i valori, e al tempo stesso razionale, cioè liberata da ogni « accidentalità »
individuale, e assumesse la fisionomia
di un sistema concettuale di validità metafisica e di forma matematica. Le discipline naturali
legate a punti di vista valutativi, come
la medicina clinica e ancor più quella che
abitualmente è detta « tecnologia », diventavano pure « dottri- ne»
pratiche. I valori a cui esse dovevano servire, vale a dire la salute del
paziente, il perfezionamento tecnico di un concre- to processo produttivo ecc.,
erano di volta in volta stabiliti per ognuna di esse. I mezzi impiegati erano,
e potevano essere soltanto forniti dall'impiego dei concetti legali scoperti
dalle discipline teoriche. Ogni progresso di principio nella formazione di tali
concetti era, o poteva essere, anche un progresso della corrispondente
disciplina pratica. Dato un certo scopo, la pro- gressiva riduzione delle
particolari questioni pratiche (di un caso di malattia, di un problema tecnico)
a leggi generalmente valide di cui esse
costituiscono un caso specifico, e quindi l’estensione del sapere teorico, era
immediatamente connessa, ed anzi
coincidente, con l’allargarsi delle possibilità pratico-tecniche. Allorché la
biologia moderna ha sottoposto anche quegli
elementi della realtà che ci interessano storicamente, cioè nel modo in cui essi sono divenuti
così-e-non-altrimenti, al concetto di un principio evolutivo universalmente
valido, che almeno apparentemente — ma
non certo in verità — ha consentito di
subordinare tutto ciò che è essenziale in tali oggetti a uno schema di leggi valide in generale, sembrò
che si avvicinasse in qualsiasi scienza
il momento della fine per tutti i punti di vista valutativi. Poiché il cosiddetto accadere
storico era una parte dell’intera
realtà, e il principio causale, che costituisce il presupposto di ogni lavoro
scientifico, sembrava esigere la riduzione
di ogni accadere a « leggi» generalmente valide, e poiché infine era
evidente l’immenso successo delle scienze della natura le quali avevano proceduto in base a questo
principio, sembrò allora inconcepibile
un senso della ricerca scientifica diverso da
quello della scoperta delle leggi dell’accadere. Soltanto ciò che è « conforme alle leggi » poteva essere
scientificamente essenziale nei fenomeni, e i processi «individuali » venivano
presi in considerazione solamente in
quanto «tipi », cioè in quanto rappresentanti illustrativi delle leggi; un
interesse diretto ad essi sembrava
costituire un interesse « non scientifico ».
È impossibile seguire qui le forti conseguenze di questa fiduciosa disposizione del monismo
naturalistico sulle discipline economiche. Allorché la critica socialistica e
il lavoro degli storici cominciavano a
tradurre in problemi gli originari punti
di vista valutativi, il potente sviluppo della ricerca biologica da un lato e l'influenza del panlogismo
hegeliano dall’altro impedirono all’economia politica di determinare in maniera
distinta, nella sua piena portata, il rapporto tra concetto e realtà. Da ciò è risultato,
per quanto ci interessa, che nonostante il
poderoso argine opposto alla penetrazione dei dogmi naturalistici dalla
filosofia idealistica tedesca successiva a Fichte, dalle indagini della scuola giuridica tedesca e dal
lavoro della scuola storica di economia
politica tedesca, e in parte proprio în conseguenza di questo lavoro, i punti
di vista del naturalismo rimangono ancora da superare in alcuni punti decisivi.
Tra questi c’è in particolare il
rapporto, che rimane ancor sempre problematico, tra lavoro «teorico» e lavoro
«storico » nell’ambito della nostra
disciplina. Il metodo teorico « astratto
» si contrappone ancora og con
un’asprezza priva di mediazione e apparentemente insormontabile, alla ricerca
storico-empirica. Esso riconosce del tutto correttamente l'impossibilità metodica
di sostituire la conoscenza storica della realtà con la formulazione di «leggi»
o di pervenire viceversa a « leggi» in
senso stretto attraverso il mero accostamento di osservazioni storiche. Per
ottenere tali leggi — dal momento che
per esso è certo che la scienza debba
aspirare a questo fine supremo — si procede dal fatto che noi abbiamo un’esperienza immediata delle
connessioni dell’agire umano proprio
nella Joro realtà, e quindi — così esso suppone
— possiamo rendere il suo corso immediatamente intelligibile con evidenza assiomatica, e penetrarlo nelle
sue «leggi». La sola forma esatta di
conoscenza, cioè la formulazione di leggi
evidenti che si possano immediatamente intuire, sarebbe al tempo stesso
la sola che consente l’accesso ai processi non immediatamente osservati; e
quindi, almeno per i fenomeni fondamentali della vita economica, la
determinazione di un sistema di princìpi
astratti e — di conseguenza — puramente formali, in analogia a quello delle scienze esatte della
natura, sarebbe il solo mezzo per
dominare spiritualmente la molteplicità della
vita sociale. Nonostante la distinzione metodica di principio tra conoscenza legale e conoscenza storica,
che il creatore della teoria aveva
compiuto come primo e unico, alle proposizioni
della teoria astratta è stata però da lui attribuita una validità empirica, nel senso di una deducibilità della
realtà dalle « leggi». E ciò certo non nel senso di una validità empirica
dei princìpi economici astratti presi di
per sé, bensì in maniera che, quando si
fossero elaborate corrispondenti teorie « esatte » di tutti gli altri fattori che si possono
considerare, tutte queste teorie
astratte prese insieme dovrebbero contenere in sé la vera realtà delle cose — vale a dire ciò che della
realtà è degno di essere conosciuto. La
teoria economica esatta determinava l’effetto di ur motivo psichico, mentre le
altre teorie avrebbero il compito di
sviluppare in forma simile tutti i rimanenti motivi in princìpi di validità ipotetica. Pertanto
al lavoro teorico, cioè alle teorie
astratte della formazione del prezzo, dell’interesse, delle rendite ecc., è stata talvolta
attribuita la pretesa fantastica di servire, secondo la — pretesa — analogia
dei princìpi fisici, per dedurre da date
premesse reali risultati quantitativa
mente determinati, e cioè leggi in senso rigoroso, valide per la realtà della vita, in quanto l'economia
dell’uomo sarebbe MAX WEBER 599 univocamente « determinata », dato un certo
scopo, in rapporto ai mezzi. E non si è
tenuto presente che, per poter aspirare a
questo risultato anche nei casi più semplici, si dovrebbe assumere come
« data » € presupporre come nota la totalità della realtà storica attuale,
insieme a tutte le sue connessioni causali, e
che, quando questa conoscenza fosse accessibile allo spirito finito, non
si potrebbe attribuire nessun valore conoscitivo a una teoria astratta. Il pregiudizio naturalistico,
secondo il quale si dovrebbe creare, con
quei concetti, qualcosa di affine a ciò che
producono le scienze esatte della natura, aveva condotto appunto a
un’errata comprensione del senso di queste formazioni teoriche. Si è creduto che si trattasse
dell'isolamento psicologico di uno
specifico «impulso » dell’uomo, dell'impulso al guadagno, oppure
dell’osservazione isolata di una specifica massima dell'agire umano, cioè del cosiddetto
principio economico. La teoria astratta riteneva di potersi reggere su assiomi
psicologici; e la conseguenza era che
gli storici invocavano una psicologia empirica, allo scopo di poter mostrare la
non-validità di quegli assiomi e
derivare psicologicamente il corso dei processi economici. Noi non intendiamo
criticare a fondo, in queste pagine, la
fede nell’importanza di una scienza sistematica della « psicologia sociale» —
che del resto è ancor da creare — come
fondamento futuro delle scienze della cultura, e in particolare dell'economia sociale. Proprio gli abbozzi
finora compiuti, in parte brillanti, di
un’interpretazione psicologica dei fenomeni
economici mostrano in ogni caso che 707 si procede dall’analisi delle
qualità psicologiche dell’uomo all’analisi delle istituzioni sociali, ma che
viceversa il chiarimento dei presupposti e degli effetti psicologici delle
istituzioni presuppone la precisa cono- scenza di queste ultime, nonché
l’analisi scientifica delle loro connessioni. L'analisi psicologica significa
allora semplicemente un approfondimento,
molto importante nel caso specifico, della
conoscenza del loro condizionamento storico-culturale e del loro
significato culturale. Ciò che ci interessa nell’atteggiamento psichico dell’uomo nelle sue relazioni
sociali è appunto determinato in ogni caso specificamente, secondo il
particolare significato culturale della relazione in esame. Si tratta infatti
di motivi e di influssi psichici tra
loro molto eterogenei, cd estremamente compositi nel caso concreto. La ricerca
psicologico-sociale costituisce un attento esame di diversi generi particolari, e tra loro assai disparati, di elementi della
cultura, considerati in rapporto alla
possibilità di interpretarli mediante la nostra
comprensione. Noi dobbiamo imparare mediante essi a intendere
spiritualmente in misura crescente — partendo dalla conoscenza delle
istituzioni particolari — il loro condizionamento e il loro significato culturale, senza voler
dedurre le istituzioni da leggi
psicologiche o volerle spiegare in base a fenomeni psicologici elementari. Anche la polemica così complessa che si è
svolta intorno alla giustificazione
psicologica delle enunciazioni teoriche astratte, intorno all'importanza dell’« impulso al
guadagno » e del « principio economico » ecc., ha dato un frutto assai
scarso. Nel caso delle enunciazioni
della teoria astratta, solo in apparenza ci troviamo di fronte a « deduzioni »
da motivi. psicologici fondamentali; in verità si tratta piuttosto di un caso
specifico di una forma di elaborazione concettuale che è propria, e in certa misura indispensabile, delle scienze
della cultura umana. Vale qui la pena
caratterizzare tale forma in maniera un po’
più approfondita, per accostarci così alla questione fondamentale del
significato della teoria per la conoscenza fornita dalla scienza sociale. E a tale fine noi lasceremo
una volta per sempre fuori discussione
se le formazioni teoriche che rechiamo come
esempio, o alle quali accenniamo, corrispondano, così come esse sono, allo scopo a cui vogliono servire,
se cioè esse siano di fatto elaborate in maniera conforme allo scopo. In
quale misura l’odierna « teoria astratta
» debba ancora essere sviluppata è, alla
fine, anche un problema di economia del lavoro scientifico, a cui si
riferiscono altri problemi. Anche la «teoria dell'utilità marginale » sottostà
alla « legge dell'utilità marginale ».
Noi abbiamo dinanzi a noi, nella teoria economica astratta, un esempio di quelle sintesi che si designano
di solito come «idee » di fenomeni
storici. Essa ci offre un quadro ideale dei
processi che avvengono in un mercato di beni, sulla base di un'organizzazione sociale fondata
sull'economia di scambio, di una libera
concorrenza e di un agire rigorosamente razionale. Questo quadro concettuale unisce determinate
relazioni e determinati processi della vita storica in un cosmo, in sé privo
di contraddizioni, di connessioni
concettuali. Per il suo contenuto questa
costruzione riveste il carattere di un’ufopia, ottenuta attraverso l’accentuazione concettuale di
determinati elementi della realtà. Il
suo rapporto con i fatti empiricamente dati della vita consiste solo in questo, che laddove
vengono determinati o supposti operanti,
in qualsiasi grado, nella realtà connessioni
del tipo astrattamente rappresentato in quella costruzione, cioè processi dipendenti dal « mercato », noi
possiamo illustrare pragmaticamente e rendere intelligibile il carazzere
specifico di questa connessione in un tipo ideale. Tale possibilità è
indispensabile sia a scopo euristico sia a scopo espositivo. Il concetto tipicoideale
serve a orientare il giudizio di imputazione nel corso della ricerca: esso non è un’« ipotesi », ma
intende orientare la costruzione di
ipotesi. Esso zon è una rappresentazione del
reale, ma intende fornire alla rappresentazione un mezzo di espressione univoco. Esso è quindi « l’idea »
di un’organizzazione moderna della società, fondata sull'economia di
scambio, che è storicamente data; esso è
stato elaborato in base ai medesimi principi logici con cui si è proceduto a
costruire l’idea dell’«economia
cittadina» medievale come concetto « genetico». Quando si fa così, si perviene
a formare il concetto di «economia
cittadina » non già come una media dei princìpi
economici operanti di fatto nell’insieme delle città osservate, ma appunto come un zipo ideale. Esso è
ottenuto attraverso l’accentuazione
unilaterale di uno o di alcuni punti di vista, e attraverso la connessione di una quantità di
fenomeni particolari diffusi e discreti, esistenti qui in maggiore e là in
minore misura, e talvolta anche assenti
— che corrispondono a quei punti di
vista unilateralmente sottolineati — in un quadro corcettuale in sé unitario.
Considerato nella sua purezza concettuale, questo quadro non può mai essere
rintracciato empiricamente nella realtà; esso è un’utopia, e al lavoro storico
si presenta il compito di determinare in
ogni caso singolo la maggiore o minore
distanza della realtà da quel quadro ideale, stabilendo per esempio in quale misura il carattere
economico della situazione di una determinata città possa venir qualificato
concettualmente come proprio dell’« economia cittadina ». Oculatamente impiegato, quel concetto rende i suoi
specifici servizi a sco602 MAX WEBER po
di indagine e di illustrazione. Proprio nello stesso modo si può, per analizzare ancora un altro esempio,
indicare l’« idea » dell’« artigianato »
in un’utopia, congiungendo determinati tratti che si possono rintracciare
diffusamente presso gli artigiani dei
più diversi tempi e paesi — accentuati unilateralmente nelle loro conseguenze — in un quadro ideale
in sé privo di contraddizione, e
riferendoli a un'espressione concettuale, che
si trova manifestata nel loro ambito. Si può inoltre compiere il tentativo di individuare una società nella
quale tutti i rami di attività
economica, e anche spirituale, siano regolati da massime che ci appaiono come
l’applicazione del medesimo principio caratteristico dell’« artigianato »,
elevato a tipo ideale. Si può poi ancora
contrapporre quel tipo ideale dell’artigianato a un corrispondente tipo ideale di
organizzazione industriale capitalistica, astratta da certe caratteristiche
della grande industria moderna, e quindi compiere infine il tentativo di
elaborare l’utopia di una cultura «capitalistica », dominata esclusivamente
dall’interesse all'impiego di capitali privati. Essa dovrebbe congiungere,
accentuandoli in un quadro concettuale non
contraddittorio per la nostra considerazione, determinati tratti esistenti in maniera diffusa della moderna
vita materiale e spirituale, considerati
nel loro carattere specifico. Ciò sarebbe
un tentativo di indicare l’«idea » della cultura capitalistica — se e come a ciò si possa pervenire, non è
ancora dato di saperlo. È però
possibile, o piuttosto dev’essere considerato come sicuro, che si pervenga ad abbozzare più utopie di
questo tipo, e certamente in misura assai numerosa, di cui nessuna è eguale
alle altre, e di cui nessuna può venir osservata nella realtà empirica come
ordinamento di fatto valido della situazione so- ciale; ognuna comporta però la
pretesa di costituire una rappre- sentazione dell'«idea» della cultura
capitalistica, e ognuna può anche far
valere questa pretesa in quanto ha assunto dalla realtà, congiungendoli in un quadro ideale
unitario, certi tratti della nostra
cultura forniti di significato nel loro specifico carattere. Infatti quei
fenomeni che ci interessano come fenomeni
culturali derivano di regola questo interesse per noi — cioè il loro « significato culturale » — da idee di
valore assai differenti con le quali possiamo porli in relazione. Come vi sono
perciò « punti di vista » estremamente
diversi dai quali possiamo considerarli per noi significativi, così si possono
impiegare anche i più diversi princìpi
di scelta delle connessioni da assumere in
un tipo ideale di una determinata cultura. Quale è però il significato di questi
concetti tipico-ideali per una scienza
di esperienza, quale noi intendiamo promuoverla? Si deve anzitutto porre in luce che la
nozione di « ciò che deve essere », vale
a dire di un «modello normativo », deve essere
accuratamente distinto qui da questo quadro concettuale a cui ci riferiamo, e che è «ideale» in senso
puramente logico. Si tratta della
costruzione di connessioni che appaiono motivate in maniera plausibile alla nostra faztasia, e
quindi « oggettivamente possibili », cioè adeguate nei confronti del nostro
sapere nomologico. Chi ritenga che la
conoscenza della realtà storica debba o
possa essere una riproduzione « priva di presupposti» di fatti «oggettivi », rifiuterà ad essi qualsiasi
valore. E anche chi ha riconosciuto che
non c'è un’« assenza di presupposti » in senso
logico sul terreno della realtà, e che pure il più semplice riassunto di
documenti o la più semplice registrazione delle fonti può avere qualche senso scientifico solo in
base a un riferimento a « significati », e quindi in ultima istanza a idee di
valore, considererà tuttavia la
costruzione di qualsiasi « utopia » storica
come un mezzo di illustrazione pericoloso per un lavoro storico impregiudicato, e più spesso semplicemente
come un gioco. E infatti non si può mai
decidere @ priori se si tratti con questo
di un puro gioco concettuale, oppure di un’elaborazione concettuale
scientificamente feconda; anche qui esiste un solo criterio, quello dell’efficacia per la conoscenza di
fenomeni culturali concreti nella loro
connessione, nel loro condizionamento causale e nel loro significato. Non come
fine, bensì come mezzo ha dunque
importanza la formazione di tipi ideali astratti. Ogni attenta osservazione degli elementi
concettuali della rappresentazione storica mostra però che lo storico,
nell’intraprendere il tentativo di
determinare, al di là della mera constatazione di connessioni concrete, il significato
culturale di un processo individuale per quanto semplice possa essere, e quindi
di « caratterizzarlo », lavora e deve lavorare con concetti che possono venir
definiti in maniera precisa e univoca soltanto sotto forma di tipi ideali. Oppure concetti come «
individualismo », « imperialismo », « feudalesimo », « mercantilismo » ecc.
sono «convenzionali », e le numerose formazioni concettuali del medesimo tipo, con le quali cerchiamo di concepire e
di intendere la realtà, possono venir
determinate nel loro contenuto mediante
una descrizione « priva di presupposti» di qualsiasi concreto fenomeno, oppure mediante la congiunzione in
forma astratta di ciò che è comune a più
fenomeni concreti? La lingua che lo
storico parla contiene in centinaia di parole questi quadri concettuali indeterminati, elaborati per un
bisogno di espressione che inconsapevolmente si fa valere, e il cui significato
può dapprima soltanto essere avvertito
intuitivamente, non già concepito con chiarezza. In infiniti casi,
particolarmente nel campo della storia politica descrittiva, l’indeterminatezza
del loro contenuto non è certo di alcun
pregiudizio alla chiarezza della
rappresentazione. Basta infatti che nel caso singolo sia sentito ciò che è in mente allo storico, oppure ci si
può accontentare che una particolare
accezione del contenuto concettuale sia presupposta con un relativo significato
per il caso singolo. Ma” quanto più precisamente
si deve recare alla coscienza la significatività di un fenomeno culturale,
tanto più inevitabile diventa il bisogno
di lavorare con concetti chiari, determinati non solo in maniera particolare ma anche in tutti i
loro aspetti. Una « definizione » di
quelle sintesi formulate dal pensiero storico,
secondo lo schema gezus proximum-differentia specifica, è naturalmente
un’assurdità; se ne faccia pure la prova. Una forma siffatta di determinazione del significato
verbale è possibile solo sul terreno di discipline dogmatiche, che lavorano con
sillogismi. Non può esservi — o può esservi soltanto in apparenza — una semplice «risoluzione descrittiva» di
quei concetti nei loro elementi, poiché
ciò dipende proprio dalla determinazione di quali elementi debbano essere
considerati come essenziali. Se si deve tentare una definizione genetica del
contenuto concettuale, rimane soltanto
la forma del tipo ideale nel senso sopra
fissato. Esso costituisce un quadro concettuale, il quale non è la realtà storica, e neppure l’«
autentica » realtà, e tanto meno può
servire come uno schema nel quale la realtà debba essere inserita come esempio; esso ha il
significato di un puro concetto-limite
ideale, a cui la realtà deve essere misurata e
comparata, al fine di illustrare determinati elementi significati MAX WEBER 605
vi del suo contenuto empirico. Questi concetti sono formazioni nelle quali costruiamo, impiegando Ja
categoria di possibilità oggettiva,
connessioni che la nostra fantasia, orientata e disciplinata in vista della
realtà, giudica adeguate. Il tipo
ideale rappresenta, particolarmente in questa funzione, il tentativo di
concepire gli individui storici o i loro elementi particolari in virtù di
concetti genetici. Si prendano per
esempio i concetti di «chiesa» e di «setta». Essi si lasciano risolvere, in via puramente classificatoria,
in complessi di caratteristiche in cui non soltanto il confine tra l’uno e
l’altro, ma anche il contenuto
concettuale deve rimanere sempre fluido. Se
però voglio concepire il concetto di «setta» geneticamente, cioè in riferimento a certi importanti
significati culturali che lo «spirito di
setta» ha avuto per la cultura moderna, allora
determinate caratteristiche dell’uno e dell’altro diventano essenziali,
in quanto stanno in relazione causale adeguata con quegli effetti. I concetti diventano però al tempo stesso
tipico-ideali, cioè essi non si
presentano mai, o si presentano soltanto in
maniera sporadica, nella loro piena purezza concettuale. Qui come ovunque ogni concetto non puramente
classificatorio allontana dalla realtà. Ma la natura discorsiva del nostro
conoscere, vale a dire la circostanza che noi possiamo cogliere la realtà
soltanto mediante una catena di mutamenti di rappresentazione, postula una siffatta
stenografia di concetti. La nostra
fantasia può certo fare sovente a meno di una espressa formulazione
concettuale come mezzo di ricerca — ma per la rappre- sentazione, se essa vuol
essere precisa, l’impiego di tali concetti è in innumerevoli casi del tutto
indispensabile sul terreno dell’ana- lisi culturale. Chi la respinga in linea
di principio deve limitar- si all’aspetto formale, per esempio a quello
storico-giuridico, dei fenomeni culturali. Il cosmo delle norme giuridiche può
naturalmente venire al tempo stesso determinato in forma con- cettualmente
chiara e valere (in senso giuridico1) per la realtà sto- rica. Ma è del loro
significato pratico che deve occuparsi il lavoro della scienza sociale nel
nostro senso. Questo significato può però spesso essere reso consapevole in
maniera precisa soltanto mediante il riferimento del dato empirico a un
caso-limite ideale. Se lo storico (nel senso più ampio della parola) rifiuta un
tentativo di formulazione di un tipo ideale siffatto 606 MAX WEBER
come « costruzione teorica », cioè come qualcosa di non adatto o di non indispensabile per il suo concreto
scopo conoscitivo, la conseguenza è di
regola che egli impiega, consapevolmente o
meno, altri concetti analoghi sezz4 una formulazione linguisti ca e un'elaborazione logica, oppure che egli
rimane attaccato al campo di ciò che è «
sentito » indeterminatamente. Nulla è
tuttavia più pericoloso di una mescolarza di teoria e storia, derivante da pregiudizi
naturalistici, sia che si creda di aver fissato in quei quadri concettuali di
carattere teorico il contenuto « proprio
», l’«essenza» della realtà storica, sia
che li si impieghi invece come un letto di Procuste nel quale debba essere costretta la storia, sia che si
ipostatizzino infine le «idee » come una
realtà « vera e propria » che sussista dietro al fluire dei fenomeni, cioè come « forze »
reali che si manifestano nella storia.
Soprattutto quest’ultimo pericolo incombe su di noi quando siamo abituati a comprendere tra le «idee »
di un'epoca anche, e anzi in prima
linea, i principi o gli ideali che hanzo dominato le masse, oppure una parte storicamente
considerevole degli uomini di
quell’epoca, e che perciò sono stati significativi come componenti della sua configurazione
culturale. A ciò si devono ancora
aggiungere due considerazioni — in primo luogo la circostanza che tra l’«idea » nel senso di
una direzione concettuale, pratica o teorica, e «idea » nel senso di un tipo
ideale di un’epoca da noi costruito come
strumento concettuale sussistono di regola determinate relazioni. Un tipo
ideale di determinate situazioni sociali, che si lascia astrarre da certi
caratteristici fenomeni sociali di un’epoca, può — e questo è infatti sovente il caso — avere ispirato l’uomo del
tempo come ideale da conseguire
praticamente oppure come massima per la regolamentazione di determinate
relazioni sociali. Ciò vale già per
l’«idea» della « garanzia del sostentamento » e di varie teorie canonistiche, specialmente di san Tommaso, in
rapporto al concetto tipico-ideale oggi impiegato dell’«economia cittadina
» del Medioevo, a cui abbiamo accennato
sopra. E ciò vale maggiormente per il famigerato « concetto fondamentale »
dell’economia politica, vale a dire per il concetto di « valore » economico.
Dalla Scolastica fino alla teoria marxistica il principio di qualcosa che sia « oggettivamente » valido, e
che quindi deve essere, si è qui amalgamato con un’astrazione derivata dal
corso empirico della formazione del prezzo. E quel principio, che il «valore» dei beni debba essere regolato
secondo determinati princìpi « di
diritto naturale », ha avuto e ha tuttora un'immensa importanza per lo sviluppo
della cultura — non solo del Medioevo.
Esso ha intensamente influenzato soprattutto la formazione empirica dei prezzi.
Ciò che però viene, e può venir pensato
sotto quel concetto teorico, può essere chiarito in maniera realmente univoca
soltarzto in virtù di una precisa elaborazione concettuale, e cioè di
un’elaborazione tipico-ideale — e a ciò
dovrebbe riflettere chi motteggia sulle « robinsonate » della teoria
astratta, almeno finché non abbia da porre al loro posto qualcosa di meglio, e cioè di più chiaro. Il rapporto causale tra l’idea storicamente
determinabile, che governa gli uomini, e
quegli elementi della realtà storica dai
quali è possibile astrarre il tipo ideale ad essa corrispondente, può
naturalmente configurarsi in maniera assai diversa. In linea di principio occorre però stabilire
soltanto che si tratta di due cose
ovviamente eterogenee. Ma a ciò si deve inoltre aggiungere che noi possiamo
comprendere con precisione concettuale quelle «idee » medesime che governano
gli uomini di un’epoca, e che operano in
maniera diffusa tra di loro — dal
momento che si tratta qui di una più complicata formazione concettuale — di nuovo soltanto zella forma di
un tipo ideale; e ciò perché vivono
empiricamente nella testa di una indeterminata e mutevole molteplicità di
individui, assumendo in essi le più
diverse gradazioni di forma e di contenuto, di chiarezza e di senso. Per esempio, quegli elementi della
vita spirituale degli individui singoli in una determinata epoca del
Medioevo, che di solito noi designamo
come «il Cristianesimo» degli individui
in questione, costituirebbe naturalmente — rel caso che si potesse rappresentarli in maniera
compiuta — un caos di connessioni
concettuali e affettive di ogni tipo, infinitamente differenziate e assai contraddittorie,
sebbene la Chiesa medievale abbia certo
realizzato l’unità della fede e dei costumi in misura particolarmente elevata. Se si propone la
questione di che cosa sia stato allora
in questo caos i « Cristianesimo » medievale,
con il quale si deve nondimeno operare continuamente come se fosse un
concetto ben determinato, e in che cosa consista l’elemento «cristiano » che
noi troviamo nelle istituzioni del Medioevo, risulta subito che anche qui
viene, in ogni singolo caso, impiegata
una pura formazione concettuale da noi creata. Esso è una combinazione di proposizioni di fede,
di norme giuridicoecclesiastiche e di norme etiche, di massime della condotta
della vita e di innumerevoli connessioni particolari, che noi uniamo in
un’«idea»: è una sintesi alla quale non possiamo pervenire in maniera non
contraddittoria senza l’impiego di concetti
tipico-ideali. La struttura
logica dei sistemi concettuali in cui rappresentiamo tali «idee », e il loro
rapporto con ciò che ci è immediatamente dato nella realtà empirica, sono
naturalmente assai diversi. La questione
si presenta ancora in forma relativamente
semplice nei casi in cui vi siano uno oppure pochi princìpi teorici direttivi che si possono facilmente
esprimere in formule — per esempio la
fede nella predestinazione di Calvino — o
postulati etici chiaramente formulabili, i quali abbiano dominato gli
uomini e prodotto effetti storici, in maniera da poter articolare l’«idea » in una gerarchia di
posizioni che si sviluppano logicamente in base a quei principi direttivi. Già
allora si scorda però con troppa
facilità che, per quanto potente sia stata
nella storia l’importanza anche della forza coercitiva puramente Zogica
del pensiero — il marxismo ne è un esempio eminente — tuttavia il processo storico-empirico nella
testa degli uomini deve di regola venir
inteso come condizionato psicologicamente
e non logicamente. E il carattere tipico-ideale di siffatte sintesi di idee storicamente operanti risulta in
maniera ancor più distinta allorché quei fondamentali principi direttivi e quei
postu- lati non vivono, oppure non vivono più, nella testa degli indivi- dui
dominati da posizioni che ne derivano logicamente, oppure per associazione, in
quanto l’«idea » che in origine stava alla loro base è scomparsa, oppure ha
trovato una diffusione solo nelle proprie conseguenze. In maniera ancor più
decisiva il carattere della sintesi emerge come il carattere di un’« idea » che
noi creiamo quando quei fondamentali princìpi direttivi fin dall’inizio sono
pervenuti solo in forma incompiuta, o non sono pervenuti, a coscienza distinta,
o per lo meno non hanno assunto la forma di chiare connessioni concettuali.
Quando per- MAX WEBER 609 ciò adottiamo questo procedimento, come accade e deve
accade- re molto sovente, ci troviamo con questa «idea» — sia essa l’idea del
«liberalismo» di un determinato periodo o quella del « metodismo » o quella di
qualsiasi specie di « socialismo » concettualmente non sviluppato — di fronte a
un puro tipo ideale, che è analogo alle sintesi dei « princìpi » di un’epoca
economica da cui abbiamo preso le mosse. Quanto più ampie sono le connessioni che
si devono rappresentare, e quanto più molteplice è stato il loro significato
culturale, tanto più la loro rappresentazione sistematica in un complesso
concettuale si accosta al carattere del tipo ideale, e tazto meno è possibile operare con uno solo di tali concetti; e
tanto più naturali e inevitabili
diventano quindi i tentativi, sempre ripetuti, di recare a coscienza sempre
nuovi aspetti significativi mediante l’elaborazione di concetti tipico-ideali.
Tutte le formulazioni di un’«essenza»
del Cristianesimo, per esempio, sono tipi ideali che hanno sempre, e necessariamente, soltanto
una validità molto relativa e problematica se pretendono di essere
considerate come una rappresentazione
storica di ciò che esiste empiricamente; e sono invece di alto valore euristico
per la ricerca e di alto valore
sistematico per tale rappresentazione se vengono impiegate semplicemente come mezzi
concettuali per la comparazione e per la misurazione della realtà in
riferimento ad esse. In questa funzione
esse risultano addirittura indispensabili. A
tali formulazioni tipico-ideali si aggiunge però di regola ancora un altro elemento, che ne complica
ulteriormente il significato. Esse
vogliono di solito essere, oppure sono inconsapevolmente, tipi ideali non soltanto in senso /ogico, ma
anche in senso pratico: sono cioè
modelli che — per attenerci all'esempio —
contengono ciò che il Cristianesimo deve essere secondo la convinzione
dell’autore, cioè che in esso è per lui «essenziale », perché fornito di valore permanente. In
questo caso, però, sia esso consapevole
o — più spesso — inconsapevole, siffatte formulazioni contengono degli ideali
4i quali l’autore riferisce
valutativamente il Cristianesimo: sono compiti e fini verso cui egli orienta la sua «idea » del Cristianesimo,
e che naturalmente possono essere assai diversi, e senza dubbio sempre lo
saranno, dai valori ai quali gli uomini del tempo, per esempio i Cristiani
primitivi, riferivano il Cristianesimo ‘. In questo significato le «idee» non
sono naturalmente più puri strumenti
logici, non sono più concetti a cui la realtà viene misurata comparativamente, bensì sono ideali in base
ai quali essa è giudicata
valutativamente. Nor si tratta più del puro processo teorico di riferimento di ciò che è empirico
ai valori, ma di giudizi di valore che
vengono accolti nel « concetto » del Cristianesimo. Poiché qui il tipo ideale
pretende una validità empirica, esso penetra nella regione dell’interpretazione
valutativa del Cristianesimo; il terreno della scienza empirica è abbandonato,
e di fronte a noi sta una professione personale, 707 un'elaborazione concettuale di carattere
tipico-ideale. Per quanto questa distinzione sia una distinzione di principio,
tuttavia la mescolanza di quei due
significati dell’« idea », così fondamentalmente diversi, si presenta molto
spesso nel corso del lavoro storico.
Essa è sempre prossima allorché lo storico comincia a sviluppare la sua
«concezione » di una personalità o di
un’epoca. In antitesi ai criteri etici costanti che uno Schlosser® impiegava in conformità allo spirito del
razionalismo, lo storico moderno educato relativisticamente, che vuole da un
lato «intendere in base a se stessa » e
dall’altro tuttavia anche « giudicare»l’epoca di cui parla, sente il bisogno di
assumere i criteri del proprio giudizio
« dalla materia», cioè di lasciar
scaturire l’«idea » nel senso di ideale dall’«idea » nel senso di «tipo ideale ». E l’attrattiva estetica di un
procedimento del genere lo trascina
continuamente a scordare la linea in cui
l’una e l’altra si distaccano — una deficienza che da un lato non può fare a meno del giudizio valutativo,
e dall'altro porta a respingere da sé la
responsabilità dei propri giudizi. Di fronte a ciò è tuttavia un dovere
elementare dell’autocontrollo scien4. Weber si riferisce qui alle discussioni
sull’« essenza » del Cristianesimo, particolarmente vive nella cultura
filosofico-religiosa tedesca dci primi anni del secolo — a partire dalla pubblicazione di Das Wesen
des Christentums di Adolf von Harnack
(1900). 5. Friedrich Christoph
Schlossser (1776-1861), storico tedesco, autore della Welegeschichte in
zusammenhingender Darstellung (1816-24), della Geschichte des 18. Jahrhunderts (1823), poi continuata col nuovo
titolo di Geschichte des 18. Jahr hunderts
und des 19. bis zum Sturz des franzòsischen Kaiserreichs mit besonderer
Riicksicht auf geistige Bildung (1836-49), di una Weltgeschichte fiir das
deutsche Volk (1844-56) di carattere
divulgativo e di varic altre opere. MAX
WEBER 6II tifico, e il solo mezzo per
prevenire gli inganni, distinguere con
precisione la relazione logica comparativa della realtà con tipi ideali in senso logico dalla valutazione
della realtà in base a ideali. Un «tipo
ideale » nel nostro senso — si può ripeterlo
ancora una volta — è completamente indifferente nei confronti del giudizio valutativo, e non ha nulla a che
fare con una « perfezione » che non sia
puramente logica. Vi sono tipi ideali
tanto di bordelli quanto di religioni; e vi sono tipi ideali di bordelli che possono sembrare tecnicamente «
conformi allo scopo» dal punto di vista dell’odierna etica di polizia, come
ve ne sono di quelli per cui vale
proprio l'opposto. Deve qui
necessariamente venir messa in disparte la discussione approfondita del caso che
si presenta di gran lunga come il più
complicato e interessante — la questione della struttura logica del concetto di stato. Si deve
solamente osservare che, chiedendoci che
cosa corrisponda nella realtà empirica all’idea
dello « stato », noi troviamo un’infinità di comportamenti umani attivi
e passivi, in forma diffusa e discreta, di relazioni regolate di fatto e giuridicamente che
presentano un carattere in parte
singolare e in parte regolarmente ricorrente, tenute insieme da un'idea, cioè dalla fede in norme
valide di fatto, o che devono valere, e
in rapporti di potere di uomini sugli
uomini. Questa fede è in parte un possesso spirituale concettualmente
elaborato, in parte è invece oscuramente sentita, in parte ancora passivamente
accolta e configurata nel modo più diverso nella testa di individui i quali, se
concepissero l’«idea » come tale in maniera realmente chiara, non avrebbero
bisogno della «dottrina generale dello stato» a cui tale idea intende dare
origine. Il concetto scientifico di stato, in qualsiasi modo venga formulato, è
naturalmente una sintesi che z0i assumiamo per determinati scopi conoscitivi.
Ma d'altra parte esso è pure astratto dalle non chiare sintesi che sono state
ritrovate nella testa degli uomini storici. Però il contenuto concreto che lo «
stato » storico assume in quelle sintesi dei contemporanei può venire
illustrato soltanto se ci orientiamo in base a concetti tipico-ideali. Inoltre
non c’è il minimo dubbio che il modo in cui quelle sintesi sono effettuate, in
forma sempre logicamente incompiuta, dai contem poranei, cioè il modo in cui
essi si fanno le loro «idee » dello stato — per esempio la metafisica organica
dello stato, sorta in Germania, in antitesi alla concezione « commerciale »
americana — è di importanza eminentemente pratica; cioè anche qui, in altri
termini, l’idea pratica che si crede
debba valere o valga e il zipo ideale teorico,
costruito a scopi conoscitivi, si accostano tra loro e mostrano la continua tendenza a passare l’uno
nell’altro. Noi abbiamo sopra
considerato di proposito il « tipo ideale »
essenzialmente — quand’anche non esclusivamente — come una costruzione concettuale per la
misurazione e la caratterizzazione sistematica di connessioni individuali, cioè
significative nella loro singolarità,
come per esempio il Cristianesimo, il
capitalismo ecc. Ciò è avvenuto allo scopo di mettere da parte la banale nozione che nel campo dei fenomeni
culturali cid che è astrattamente zipico
sia identico con ciò che è astrattamente
conforme al genere. Questo non è il caso. Senza analizzare qui in linea di principio il concetto di «
tipico», più volte discusso e assai
screditato per l’abuso fattone, noi possiamo assumere dal nostro precedente esame che l’elaborazione di
concetti di tipo, nel senso di
un’eliminazione di ciò che è « accidentale », trova la propria sede anche e precisamente in
rapporto agli individui storici.
Naturalmente anche quei concetti di genere, che troviamo a ogni passo come
elementi di esposizioni storiche e di
concreti concetti storici, possono però venir formati come tipi ideali mediante un procedimento di astrazione
e di accentuazio-ne di determinati elementi ad essi concettualmente
essenziali. Questo è appunto un caso di
applicazione dei concetti tipicoideali particolarmente frequente e importante
dal punto di vista pratico; e ogni tipo
ideale individuale si costruisce in base a
clementi concettuali che sono generici, e che sono stati formati come tipi ideali. Anche in questo caso emerge
però la specifica funzione logica dei
concetti tipico-ideali. Un semplice concetto
di genere, nel senso di un complesso di caratteristiche comuni a più fenomeni, è per esempio il concetto di
«scambio» — finché prescindo dal significato degli elementi concettuali e
analizzo semplicemente l’uso linguistico quotidiano. Se però pongo questo concetto in relazione, per esempio,
con la «legge di utilità marginale » ed
elaboro il concetto di « scambio economico » come concetto di un processo
economicamente RAZIONALE, allora questo contiene in sé, al pari di ogni
concetto logicamente sviluppato in maniera compiuta, un giudizio sulle
condizioni «tipiche » dello scambio.
Esso assume carattere genetico e diventa perciò al tempo stesso tipico-ideale
in senso logico, cioè si allontana dalla
realtà empirica, la quale può solo essere comparata con esso e ad esso
riferita. Una cosa analoga vale per tutti
i cosiddetti « concetti fondamentali » dell'economia politica: essi
possono venir sviluppati in forma genetica soltanto come tipi ideali. L’antitesi tra semplici concetti
di genere, i quali riuniscono ciò che è
comune a certi fenomeni empirici, e tipi
ideali di carattere generico — come per esempio nel caso di un concetto tipico-ideale dell’« essenza »
dell’artigianato — è naturalmente fluida nel caso singolo. Ma nessun concetto
di genere ha in quanto tale carattere
«tipico», e non c’è nessun tipo « di
media» che sia puramente conforme a un genere. Ovunque parliamo, per esempio in
statistica, di grandezze « tipiche », si presenta qualcosa di più che una mera
media. Quanto più ci troviamo dinanzi a
una semplice classificazione di processi che si presentano nella realtà come
fenomeni di massa, tanto più si tratta di
concetti di genere; quanto più invece vengono
formate concettualmente complicate connessioni storiche, prese in quei loro elementi su cui poggia il loro
specifico significato culturale, tanto
più il concetto — o il sistema concettuale —
assumerà il carattere del tipo ideale. Poiché scopo dell’elaborazione di
concetti tipico-ideali è sempre quello di rendere esplicito con precisione 207
già ciò che è conforme al genere, bensì,
al contrario, il carattere specifico di certi fenomeni culturali. Che tipi ideali, anche di carattere generico,
possano essere e siano impiegati,
presenta un interesse metodologico soltanto in
connessione con un altro fatto.
Finora abbiamo imparato a conoscere i tipi ideali essenzialmente
soltanto come concetti astratti di connessioni che, permanendo nel flusso
dell’accadere, sono da noi rappresentati come
individui storici, i cui si compiono determinate linee di sviluppo. Ora
si presenta però una complicazione, la quale reintroduce in maniera molto
facile, con l’aiuto del concetto di «tipico », il pregiudizio naturalistico che
fine delle scienze sociali debba essere
la riduzione della realtà a «leggi». Anche le
linee di sviluppo possono venir costruite come tipi ideali, e 614 MAX WEBER
queste costruzioni possono avere un valore euristico assai
considerevole. Ma così sorge, in misura particolarmente forte, il pericolo che vengano tra loro confusi il tipo
ideale e la realtà. Si può per esempio
pervenire al risultato teorico che in una
società organizzata in forma rigorosamente «artigianale » la sola fonte di accumulazione del capitale sia
la rendita fondiaria. Su tale base si può forse poi costruire — poiché non si
deve qui indagare la correttezza della
costruzione — un quadro ideale della trasformazione dell'economia a carattere
artigianale in un'economia
capitalistica, condizionato da determinati fattori semplici — terreno limitato, popolazione
crescente, afflusso di metalli preziosi,
razionalizzazione della condotta della vita. Se
il corso storico-empirico dello sviluppo sia stato di fatto quello costruito può venir indagato soltanto con
l’aiuto di questa costruzione in quanto mezzo euristico, mediante la
comparazione tra tipo ideale e «fatti».
Se il tipo ideale è « correttamente »
costruito, e tuttavia il corso oggettivo zor corrisponde al corso tipico-ideale, si verrebbe a conseguire la
prova che la società medievale 07 è
stata, in determinate relazioni, una società a
carattere rigorosamente « artigianale ». E quando il tipo ideale è stato costruito in maniera «ideale »
euristica — se e come ciò possa avvenire
nel nostro caso, rimane qui del tutto fuori
della nostra considerazione — allora esso orienterà nel medesimo tempo
la ricerca sulla via che conduce a una più precisa penetrazione di quegli elementi della società
medievale i quali non presentano
carattere artigianale, studiati nel loro specifico carattere e nel loro significato storico.
Esso ha attuato il suo scopo logico,
quando reca a questo risultato, proprio in quanto ha manifestato la sua propria
irrealtà. Esso costituiva, in tale caso, la prova di un'ipotesi. Il
procedimento non è esposto a nessuna riserva metodologica fin quando si tenga
presente che la costruzione tipico-ideale di uno sviluppo e la storia sono due
cose da tenere rigorosamente distinte, e che la costruzione è stata qui
semplicemente il mezzo per compiere in maniera sistematica l'imputazione valida
di un processo storico alle sue cause reali, entro l'ambito di quelle possibili
in conformità allo stato della nostra conoscenza. Mantenere rigorosamente in
piedi questa distinzione è reso sovente molto difficile — secondo quanto ci
dice l’esperienza —dalla seguente circostanza. Nell’interesse della
presentazio- ne in forma intuitiva del tipo ideale o dello sviluppo
tipico-idea- le si cercherà di #lustrarlo mediante materiale intuitivo tratto
dalla realtà storico-empirica. Il pericolo di questo procedimen- to, che pure è
in sé del tutto legittimo, consiste nel fatto che il sapere storico appare qui come servitore
della teoria, anziché viceversa. Il
teorico si trova di fronte alla tentazione di considerare questo rapporto come
normale, oppure — il che è peggio — di
accostare teoria e storia, e addirittura di scambiarle tra loro. Questo caso si presenta in misura ancor
più accentuata allorché la costruzione
ideale di uno sviluppo è effettuata in
maniera da inserirla, con la classificazione concettuale di tipi ideali di determinate formazioni culturali
(per esempio delle forme di impresa
industriale muovendo dall’« economia domestica chiusa », oppure dei concetti
religiosi cominciando dalle « divinità
dell’attimo »), entro una classificazione genetica. La serie dei tipi che risulta in base alle
caratteristiche concettuali prescelte
appare quindi come una loro successione storica, legalmente necessaria.
L'ordine logico dei concetti da un lato, e
dall’altro l'ordinamento empirico di ciò che viene concepito nello spazio, nel tempo e nella connessione
causale, sembrano così legati tra loro
che quasi irresistibile diventa la tentazione di fare violenza alla realtà, per
confermare nella realtà la validità
effettiva della costruzione. Di
proposito si è evitato di condurre la dimostrazione in riferimento a quello che per noi è di gran
lunga il più importante caso di costruzioni tipico-ideali — cioè in riferimento
a Marx. Ciò è avvenuto per non
complicare ancora l’esposizione tirando
dentro anche le interpretazioni di Marx, e per non anticipare le discussioni con cui la nostra
rivista farà di regola oggetto di
analisi critica la letteratura accumulatasi sul — oppure in rapporto al —
grande pensatore. Qui ci si può pertanto
limitare a constatare che tutte le «leggi» e le costruzioni di sviluppo specificamente marxistiche — in
quanto sono teoricamente prive di errore — hanno naturalmente carattere
tipicoideale. Chiunque abbia lavorato con concetti marxistici conosce l’eminente, e anzi singolare significato
euristico di questi tipi ideali, quando
li si impieghi per comparare con essi la realtà, e conosce al tempo stesso la loro pericolosità
quando si voglia presentarli come validi empiricamente, oppure come «forze operanti », «tendenze » ecc. reali (cioè, in
verità, metafisiche). Concetti di
genere; tipi ideali; concetti di genere tipico-ideali; idee nel senso di
combinazioni concettuali empiricamente
operanti negli uomini storici; tipi ideali di queste idee; ideali che dominano gli uomini storici; tipi ideali
di questi ideali; ideali a cui lo
storico riferisce la storia; costruzioni zeoriche effettuate mediante l’impiego illustrativo
del dato empirico; indagine storica
condotta mediante l’impiego di concetti teorici come casi-limite ideali; e
inoltre ancora le diverse complicazioni possibili a cui si è solo potuto
accennare — sono tutte formazioni
concettuali, il cui rapporto con la realtà empirica del dato immediato resta problematico in ogni
caso particolare. Questa elencazione
mostra già da sola l’intrico senza fine dei
problemi metodico-concettuali, che rimangono sempre in vita nel campo delle scienze della cultura. E noi
abbiamo dovuto astenerci assolutamente
dall’esaminare le questioni metodologiche pratiche connesse ai problemi che si
è potuto soltanto indicare, e dal discutere in maniera approfondita le
relazioni della conoscenza tipico-ideale
con la conoscenza « legale », dei concetti tipico-ideali con i concetti
collettivi, e così via. Lo storico
persevererà tuttora, dopo queste polemiche, nell’affermare che la prevalenza
della forma tipico-ideale di elaborazione concettuale e di costruzione è un
sintomo specifico della giovinezza di
una disciplina. E in questo gli si deve in
un certo senso dar ragione, ma con conseguenze diverse da quelle che egli vorrebbe trarne. Prendiamo un
paio di esempi da altre discipline. È
certo vero che lo scolaro infastidito, al
pari del filologo primitivo, concepisce anzitutto una lingua «organicamente », cioè come una totalità
sovra-empirica retta da norme, ma
concepisce il compito della scienza come la
determinazione di ciò che — in quanto regola linguistica — deve valere. Elaborare logicamente la «lingua
scritta », come ha fatto ad esempio la
Crusca, ridurne il contenuto a regole, è
normalmente il primo compito che una « filologia » si propone. E quando invece oggi un insigne filologo
proclama oggetto della filologia il «
modo di parlare di ogni individuo », la determinazione di un programma siffatto
è possibile solo in quanto nella lingua scritta ci si trova dinanzi a un tipo
ideale relativamente stabile, con cui può operare (almeno tacitamente)
l’analisi dell’infinita molteplicità del modo di parlare, che altrimenti sarebbe del tutto priva di orientamento e di
approdo. Non altrimenti le costruzioni
delle teorie dello stato a carattere giusnaturalistico o organico, oppure — per
rammentarci di un ideale nel nostro
senso — la teoria dello stato antico formulata da Benjamin Constant‘,
funzionavano in certa misura come porti di rifugio, finché non si è imparato a
orientarci nell’immenso mare dei fatti
empirici. La maturazione di una scienza
comporta infatti sempre il superamento del tipo ideale, nella misura in cui esso viene concepito come
empiricamente valido oppure come
concetto di genere. E perciò, per esempio,
l’impiego dell’acuta costruzione di Constant è ancor oggi del tutto legittimo per l’illustrazione di
determinati aspetti e di caratteristiche
storiche peculiari dell’antica vita statale, se si tiene fermo con cura il suo carattere
tipico-ideale. Non solo, ma soprattutto
vi sono scienze alle quali è assegnata un’eterna giovinezza; e queste sono tutte le discipline
storiche, tutte quelle cioè a cui il fluire sempre progrediente della cultura
propone di continuo nuove posizioni
problematiche. È connesso all’essenza del loro compito che tuzte le costruzioni
tipico-ideali debbano tramontare, ma che
al tempo stesso altre nuove siano sempre
indispensabili. Di continuo si ripetono
i tentativi di determinare il senso «
proprio» o «vero » dei concetti storici, e mai essi giungono alla fine. Di conseguenza le sintesi, con cui
la storia di continuo lavora, rimangono regolarmente nella forma di
concetti solo relativamente determinati,
oppure, allorché si deve conse- guire a ogni costo l’univocità del contenuto
concettuale, il con- cetto diventa un tipo ideale astratto e si rivela come un
punto di vista teorico, quindi « unilaterale », dal quale la realtà può 6.
Benjamin-Henri Constant de Rebecque, uomo politico francese del periodo
napoleonico e dell'età della Restaurazione, esiliato da Napoleone, in seguito
uno dei maggiori esponenti dell’opposizione liberale alla monarchia borbonica,
autore del Cours de politique constitutionelle (1818), del famoso discorso De
la liber:é des anciens comparée è celle des modernes (1819), dell’opera De la
religion, considéré dans sa source, ses formes et ses dévelopments (1824-27),
dei MÉlanges de politique et de litiérature
(1829) e di vari altri scritti, tra cui il volume postumo Du polytAdisme romain (1833). essere illuminata e al quale
essa può venir riferita — ma che si
mostra evidentemente inappropriato come schema in cui essa potrebbe venir inserita senza residuo. Poiché
nessuno di quei sistemi concettuali, di
cui non possiamo fare a meno per la
penetrazione degli elementi di volta in volta significativi della realtà, può tuttavia esaurirne l’infinita
ricchezza. Nessuno è qualcosa di diverso
da un tentativo di recare ordine, sulla base
della situazione del nostro sapere e delle formazioni concettuali a nostra disposizione, nel caos di quei fatti
che abbiamo compreso nell’ambito del nostro inzeresse. L'apparato
concettuale che il passato ha sviluppato
mediante l'elaborazione, cioè piuttosto mediante la trasformazione concettuale
della realtà immediatamente data e il suo inserimento in quei concetti che
corrispondevano alla situazione della sua conoscenza e alla direzione del suo
interesse, sta in continua contrapposizione con la nuova conoscenza che noi possiamo e vogliamo
ottenere dalla realtà. In questa lotta
si compie il progresso delle scienze della
cultura. Il suo risultato è un continuo processo di trasformazione di
quei concetti con cui cerchiamo di penetrare la realtà. La storia delle scienze della vita sociale è e
rimane caratterizzata da un continuo
alternarsi tra il tentativo di ordinare concettualmente i fatti mediante
un’opera di elaborazione concettuale, la
risoluzione dei quadri concettuali così ottenuti mediante l’estensione e
l’approfondimento dell’orizzonte scientifico, e l’elaborazione di nuovi
concetti sul fondamento così mutato. Non viene
qui affatto in luce l’erroneità del tentativo di formare sistemi di
concetti 12 gezere — ogni scienza, anche la semplice storia descrittiva, lavora con la provvista
concettuale del suo tempo — bensì la
circostanza che nelle scienze della cultura
umana la formazione dei concetti dipende dalla posizione dei problemi, e quest'ultima varia con il
contenuto della cultura stessa. Nelle
scienze della cultura il rapporto tra il concetto e il suo contenuto comporta la transitorietà di
ogni sintesi siffatta. I grandi tentativi di costruzione concettuale hanno di
regola avuto il loro valore, nel campo
della nostra scienza, nel rivelare le
limitazioni di significato del punto di vista che sta alla loro base. I più importanti progressi nel campo
delle scienze sociali sono, dal punto di
vista oggettivo, connessi alla trasposizione
dei problemi pratici della cultura, e si presentano nella forma di una critica dell’elaborazione concettuale.
Sarà uno dei principali compiti della nostra rivista servire allo scopo di
questa critica, e perciò all'indagine
dei princìpi della sintesi nel campo della scienza sociale. Traendo le conseguenze di quanto si è detto,
noi perveniamo a un punto in cui le nostre opinioni si discostano talvolta da quelle di alcuni, anche eminenti,
rappresentanti della scuola storica, tra
i cui discendenti tuttavia ci siamo annoverati. Essi permangono sovente, in maniera espressa o
tacita, nella convinzione che il fine ultimo, lo scopo di ogni scienza sia
quello di ordinare la propria materia in
un sistema di concetti il cui contenuto
deve essere ottenuto mediante l'osservazione di regolarità empiriche,
l’elaborazione di ipotesi e la loro verifica,
finché non sia sorta su tale base una scienza «compiuta» e perciò deduttiva. In vista di questo fine il
lavoro storico-induttivo che si sta attualmente conducendo sarebbe un lavoro
preliminare, condizionato dall’imperfezione della nostra disciplina: nulla deve naturalmente apparire più
sospetto, dal punto di vista di questa
forma di considerazione, della formazione e
dell’impiego di concetti precisi che vorrebbero anticipare
prematuramente quel fine, proprio invece di un lontano futuro. Questa
concezione sarebbe in linea di principio incontestabile sul terreno della dottrina antica e scolastica
della conoscenza, a cui sono ancora
profondamente attaccati gli specialisti della scuola storica: scopo dei concetti si presuppone essere
la riproduzione rappresentativa della
realtà «oggettiva», e da ciò deriva la
continua insistenza sull’irrealtà di ogni concetto preciso. Chi pensa però fino in fondo il principio
fondamentale della moderna dottrina della conoscenza, richiamantesi a Kant, che
i concetti sono e possono essere solamente mezzi del pensiero foggiati allo
scopo di dominare spiritualmente il dato empirico, non potrà ritenere la circostanza che i concetti
genetici siano necessariamente tipi ideali come un'obiezione valida contro la
loro elaborazione. Per lui il rapporto
tra concetto e lavoro storico si
inverte: quel fine ultimo gli appare logicamente impossibile, e i concetti si rivelano non già fire, bensì
mezzo in vista della conoscenza delle
connessioni significative da puntì di vista individuali. Proprio in guanto i
contenuti dei concetti storici sono necessariamente mutevoli, questi debbono
essere ogni volta formulati in maniera precisa. Egli avanzerà soltanto
l’esigenza che nel loro impiego sia
accuratamente tenuto fermo il loro
carattere di formazioni concettuali ideali, che cioè tipo ideale e storia non vengano scambiati tra loro. Dal
momento che non si può considerare come
fine ultimo quello di pervenire a concetti
storici realmente definitivi, per l’inevitabile mutamento delle idee di valore direttive, egli riterrà che
proprio in quanto concetti precisi e univoci vengono formulati in riferimento
al particolare punto di vista, che ogni volta esplica una funzione direttiva,
sia data la possibilità di mantenere chiari nella coscienza i limiti della loro validità, Si affermerà ora — e noi l’abbiamo già
ammesso — che una concreta connessione
storica può nel caso particolare venir illustrata intuitivamente nel suo corso,
senza che sia di continuo posta in
relazione con concetti definiti. E di conseguenza si reclamerà per lo storico della nostra
disciplina che egli, al pari di ciò che
si è detto dello storico politico, parli la «lingua della vita ». Certamente! Occorre solamente
aggiungere che in questo procedimento
rimane necessariamente accidentale, in un
grado spesso molto elevato, se il punto di vista in base a cui il processo considerato ottiene significato
pervenga, o meno, a chiara coscienza.
Noi non ci troviamo in genere nella felice
situazione dello storico politico, per il quale i contenuti di cultura, a cui egli riferisce la sua
esposizione, sono di regola univoci — 0
almeno così sembrano. Ogni rappresentazione che
sia solo intuitiva assume il carattere proprio di una rappresentazione
artistica: «ognuno vede ciò che reca in cuore». Giudizi validi presuppongono sempre l’elaborazione
logicz del dato intuitivo, cioè l'impiego di concetti; ed è certo possibile, e
spesso esteticamente soddisfacente,
conservarli in petto, ma ciò minaccia di continuo il sicuro orientamento del
lettore, sovente anche quello di chi scrive, per ciò che concerne il contenuto
e la portata dei suoi giudizi. Estremamente pericolosa può però diventare
l’omissione di una precisa elaborazione
concettuale per le discussioni pratiche
di politica economica e sociale. Quale confusione abbiano qui prodotto per esempio l’impiego del termine «
valore » — questo figlio del dolore della nostra disciplina, al quale può
appunto essere dato un senso univoco soltanto su base tipico-ideale — oppure parole come « produttivo », « dal
punto di vista economico-politico » ecc., che non reggono a nessuna analisi
concettualmente chiara, è addirittura incredibile per lo spettatore che stia al di fuori. E a recar danno sono
qui prevalentemente i concetti collettivi assunti dal linguaggio quotidiano. Si
prenda, per fornire un'illustrazione il più possibile accessibile anche a chi
non abbia competenza specifica, il concetto di « agricoltu- ra», quale si
presenta nell’espressione « interessi dell’agricoltu- ra». Se assumiamo
anzitutto gli « interessi dell’agricoltura » co- me le rappresentazioni
soggettive più o meno chiare, ed empiri- camente determinabili, che i singoli
operatori economici hanno dei loro interessi, e prescindiamo quindi del tutto dagli
infiniti conflitti di interessi che qui sussistono tra allevatori di bestia-
me, ingrassatori di bestiame, coltivatori di grano, consumatori di grano,
distillatori di acquavite e così via, non ogni estraneo ma certo almeno ogni
specialista si renderà conto dell'enorme groviglio di relazioni di valore, tra
loro antagonistiche e con- traddittorie, che è qui sotto oscuramente implicato.
Noi voglia- mo qui enumerarne solo alcune: interessi di agricoltori che
vogliono vendere il proprio podere, e che perciò sono interessa- ti
esclusivamente a un celere rialzo del prezzo del terreno; l'interesse
contrapposto di coloro che intendono comperare, o accrescersi, o prendere in
affitto; l'interesse di coloro che, per motivi di vantaggio sociale, desiderano
conservare un determi- nato podere per i propri successori e sono quindi
interessati alla stabilità della proprietà terriera; l'interesse contrapposto
di coloro che desiderano, per sé e per i propri figli, un movimen- to del
terreno in direzione di un padrone migliore oppure — il che non è senz'altro
identico — di un acquirente fornito di disponibilità di capitali; l'interesse
puramente economico dei « padroni più capaci», nel senso dell'economia privata,
alla li- bertà di movimento economico; l'interesse antagonistico di de-
terminati strati dominanti alla conservazione della tradizionale posizione
sociale ed economica del proprio «ceto», e quindi della propria discendenza;
l’interesse sociale degli strati di agri- coltori 207 dominanti al declino di
quegli strati superiori, che opprimono la loro posizione; il loro interesse,
che talvolta risul- 622 MAX WEBER ta in collisione col precedente, di possedere
in quegli strati una guida politica per la protezione dei propri interessi di
guada- gno. E l’elenco potrebbe ancora essere accresciuto a lungo, senza
trovare una fine, per quanto si proceda in maniera sommaria e imprecisa. Noi
trascuriamo il fatto che agli interessi
più «egoistici» di questo tipo possono mescolarsi o unirsi i più diversi valori ideali, e che tali valori
possono ostacolarli o deviarli, per
tenere soprattutto presente che, quando parliamo di «interessi dell'agricoltura», pensiamo di
regola z0n soltanto a quei valori materiali e ideali a cui gli agricoltori
stessi riferiscono i propri «interessi»,
bensì anche a quelle idee di valore, in
parte completamente eterogenee, a cui noi possiamo riferire l'agricoltura: per esempio interessi
produttivi, derivanti dall’interesse in una nutrizione più a buon mercato
della popolazione e dall’interesse, che
non sempre coincide con quello, in una nutrizione qualitativamente migliore, a
cui possono contrapporsi in varia
maniera gli interessi della città e della
campagna — mentre non c’è alcuna garanzia che l’interesse della generazione presente sia identico con
il probabile interesse di quelle future; oppure interessi demografici, in
particolare interessi a una 24merosa popolazione agricola, derivanti dagli interessi « dello stato» per motivi di
politica di grande potenza o di politica
interna, oppure da altri interessi ideali di
specie più diversa, come dall’influenza prevista di una numerosa
popolazione agricola sul carattere culturale di un paese — interessi i quali possono contrastare con
svariati interessi privati di tutte le parti della popolazione agricola, e
presumibilmente anche con tutti gli interessi presenti della massa della popolazione agricola. Oppure si può
rammentare l’interesse a un determinato
tipo di organizzazione sociale della popolazione agricola, a causa delle
influenze politiche o culturali che ne
derivano — interesse che può urtarsi per il suo orientamento con tutti i presumibili interessi presenti e
futuri, anche i più urgenti, dei singoli
agricoltori e anche « dello stato ». E — ciò
che complica ulteriormente la cosa — lo «stato », al cui « interesse »
noi volentieri riferiamo questi e numerosi altri interessi particolari del genere, è per noi spesso solo
una designazione che riveste un
groviglio, in sé estremamente intricato, di idee di valore, con cui esso è da parte sua posto
in relazione nel caso singolo: sicurezza puramente militare verso l’esterno;
sicurezza della posizione dominante di una dinastia o di determinate classi
all’interno; interesse alla conservazione e all’estensione dell’unità statale della nazione, per se
stessa o in funzione della conservazione
di determinati beni culturali oggettivi, tra loro di nuovo assai diversi, che noi crediamo di
rappresentare in forma di un popolo
fornito di unità statale; trasformazione del
carattere sociale dello stato nel senso di determinati ideali culturali,
ancora assai diversi — e si potrebbe continuare a lungo se si volesse anche soltanto accennare che cosa
corre sotto l’etichetta di «interessi statali », a cui possiamo riferire
«l’agricoltura». L'esempio qui prescelto, e ancor più la nostra sommaria analisi, è grossolano e semplificato. Chi è
privo di competenza specifica potrebbe
ancora analizzare in maniera simile (e più a
fondo) per esempio il concetto di « interessi di classe dei lavoratori
», per vedere quale groviglio, pieno di contraddizioni, in parte di interessi e di ideali dei
lavoratori, in parte di ideali in base a
cui noi consideriamo i lavoratori, stia al di sotto di esso. È impossibile superare lo slogan della
lotta di interessi mediante
un’accentuazione puramente empiristica della loro «relatività»: una chiara e precisa
determinazione concettuale dei diversi
punti di vista possibili è la sola via che ci consente di procedere oltre l'oscurità della frase.
L’« argomento del libero commercio » come intuizione del mondo o come norma
valida è una cosa ridicola, ma gravi danni ha recato alle nostre discussioni di politica commerciale — e lo
stesso vale quali che siano gli ideali
di politica commerciale che il singolo vuole
rappresentare — il fatto che noi abbiamo sottovalutato nel suo valore euristico l'antica esperienza di vita
dei grandi mercanti depositata in tali
formule tipico-ideali. Solo mediante formule
tipico-ideali diventano realmente espliciti nel loro proprio carattere i
punti di vista considerati nel caso singolo, e ciò attraverso un’opera di
confronto del dato empirico con il tipo ideale.
L'uso dei concetti collettivi indifferenziati, con cui lavora il linguaggio quotidiano, è sempre il
rivestimento di oscurità del pensiero o
della volontà, ed è abbastanza spesso lo strumento di ingannevoli raggiri — in ogni caso è però un
mezzo per ostacolare lo sviluppo di una corretta impostazione problematica. Noi
siamo alla fine di queste considerazioni, che miravano semplicemente a porre in luce la linea,
spesso molto sottile, che separa scienza
e fede, e a cogliere il senso dell’aspirazione
alla conoscenza economico-sociale. La validità oggettiva di ogni sapere empirico poggia sul fatto, e soltanto
sul fatto che la realtà data viene
ordinata in base a categorie che sono soggetti
ve in un senso specifico, in quanto cioè rappresentano il presupposto
della nostra conoscenza, e che sono vincolate al presupposto del vglore di
quella verità che soltanto il sapere empirico
può darci. A colui che non consideri fornita di valore questa verità — e la fede nel valore della verità
scientifica è infatti prodotto di
determinate culture, e non già qualcosa di naturalmente dato — non abbiamo
nulla da offrire con i mezzi della
nostra scienza. Invano egli andrà in cerca di un’altra verità che possa
sostituire la scienza in ciò che essa soltanto può fornire — concetti e giudizi che non sono la
realtà empirica, e che neppure la
riproducono, ma che consentono di ordinarla
concettualmente in modo valido. Nel campo delle scienze sociali
empiriche della cultura — l'abbiamo visto — la possibilità di una conoscenza fornita di senso di ciò che
per noi è essenziale nell'infinità dell’accadere appare vincolata al costante
impiego di punti di vista di carattere specifico, i quali sono tutti, in ultima analisi, orientati verso idee di
valore che da parte loro possono essere
empiricamente constatate e vissute come elementi di ogni agire umano fornito di
senso, ma zor già fondate come valide in
base al materiale empirico. L’«oggettività » conoscitiva delle scienze sociali
dipende piuttosto dal fatto che il dato
empirico è sì orientato continuamente verso quelle idee di valore che sole gli forniscono un valore
conoscitivo, ed è compreso nel suo significato in base ad esse, ma tuttavia non
diventa mai piedestallo per la prova, empiricamente impossibile, della loro validità. E la fede, che sempre è
in qualche forma presente in tutti noi,
nella validità sovra-empirica delle ultime e
supreme idee di valore a cui ancorare il senso della nostra esistenza, non esclude ma reca con sé
l’incessante mutabilità dei punti di
vista concreti da cui la realtà empirica deriva un significato: la vita nella
sua realtà irrazionale e il suo contenuto di
possibili significati sono inesauribili, perciò la concreta
configurazione della relazione di valore rimane fluida, sottoposta com'è al
mutamento nell’oscuro avvenire della cultura umana. La luce, che emana da quelle supreme idee di
valore, cade sempre su una parte finita,
e continuamente mutevole, dell’immensa e
caotica corrente degli avvenimenti che fluisce nel tempo. Tutto ciò non dovrebbe venir frainteso nel
senso che il compito proprio della
scienza sociale debba essere una continua caccia affannosa di nuovi punti di
vista e di nuove costruzioni concettuali. Al contrario, nulla dovrebbe qui
venir affermato in maniera più risoluta del principio che il contributo alla conoscenza del significato culturale di
connessioni storiche concrete è
l’esclusivo fine ultimo a cui, accanto ad altri mezzi, intende servire anche il lavoro di
elaborazione e di critica concettuale. Vi sono anche nel nostro campo, per
usare un’espressione di F. T. Vischer?, « cercatori di materiale » e «
cercatori di significato ». La gola
bramosa di fatti dei primi può essere
saziata solo con materiale documentario, con tavole statistiche e con inchieste, ma è insensibile alla
raffinatezza del nuovo pensiero. La
golosità dei secondi altera il proprio gusto con sempre nuovi distillati concettuali. Quella
genuina capacità artistica, che per esempio tra gli storici Ranke possedeva in
misura così grandiosa, si manifesta di
solito nella capacità di creare qualcosa
di nuovo mediante il riferimento di fatti z0t a punti di vista anch'essi noti. Ogni lavoro delle scienze della cultura in
un’epoca di specializzazione, dopo essersi diretto in base a determinate
impostazioni problematiche a considerare una determinata materia, e dopo essersi creato i suoi princìpi metodici,
riterrà l’analisi di questo materiale
come uno scopo a sé, senza controllare di
continuo in maniera consapevole il valore conoscitivo dei singoli fatti
in riferimento alle ultime idee di valore, e anche senza rimanere consapevole del proprio legame con
queste. Ed è bene che sia così. Ma a un
certo momento muta il colore: il significato dei punti di vista impiegato in
maniera non riflessa diventa incerto, e la strada si perde nel crepuscolo. La
luce dei 7. Friedrich Theodor Vischer
(1807-1887), autore di una Aesthetik oder Wissenschaft des Schònes in sci
volumi (1846-58), dì ispirazione hegeliana, e di numerosi saggi di estetica e di critica
artistico-letteraria. grandi problemi culturali è di nuovo spostata. Allora
anche la scienza si appresta a mutare la
propria impostazione e il proprio apparato concettuale, e a guardare nella
corrente dell’accadere dall'alto del pensiero. Essa segue quegli astri che,
essi soli, possono mostrare senso e
direzione al suo lavoro: ma sorge il
nuovo impeto e mi slancio per bere alla
sua luce eterna. Il giorno innanzi a me,
la notte alle mie spalle, su di me il
cielo, sotto di me le onde”. 8. GoetHne,
Faust, vv. 1085-88 (tr. it, di F. Fortini). Per « valutazione » si debbono qui
di seguito intendere, se nient'altro è
detto esplicitamente o risulta di per sé evidente, le valutazioni « pratiche »
di un fenomeno influenzabile mediante il nostro agire, il quale viene
considerato come riprovevole oppure come degno di approvazione *. Con il
problema della « libertà» di una
determinata scienza da valutazioni di questa
specie, cioè con un problema concernente la validità e il senso a. Questo saggio è la trasformazione di una
comunicazione, diffusa in forma
manoscritta, preparata per una discussione interna nella riunione del 1913 del « Verein fr Sozialpolitik ». È
stato eliminato il più possibile tutto
ciò che interessava soltanto questo gruppo di studio, mentre sono state ampliate le considerazioni
metodologiche generali. Tra le altre comunicazioni presentate per tale
discussione è stata pubblicata quella del
prof. E. Spranger!, nello « Schmollers Jahrhbuch fir Gesetzgebung,
Verwaltung und Volkswirtschaft », XXXVIII, 1914, pp. 33-57. Io confesso di aver trovato stranamente debole, perché
non maturato chiaramente, questo lavoro di un filosofo che anch'io stimo assai;
ma evito qui, anche già per ragioni di
spazio, ogni polemica con lui, limitandomi a esporre il mio proprio punto di vista. * Der Sinn der « Wertfreiheit» der
soziologischen und dlkonom:schen Wissenschaften, « Logos », VII, 1917, pp.
40-88, raccolto nel volume Gesammelte Aufsitze
zur Wissenschafeslehre, Tiùbingen, ]. C. B. Mohr, 1922, 4* ed. (a cura
di Johannes Winckelmann) 1973, pp.
489-540 (Il significato della «avalutatività » delle scienze sociologiche ed economiche, tr. it. di Pietro
Rossi, in !/ metodo delle scienze storicosociali, Torino, Einaudi, 1958, pp.
309-72). 1. Eduard Spranger (1882-1963),
filosofo e pedagogista tedesco, autore di Lebensformen (1914), di Kultur und
Erzichung (1919), di Lebenserfahrung (1947) e di numerose altre opere, fu allievo di Dilthey,
del quale sviluppò soprattutto la teoria
delle scienze dello spirito. 628
MAX WEBER di questo principio logico,
non ha nulla a che fare la questione del
tutto diversa, di cui si deve ora preliminarmente discutere — la questione se
si debba, oppure no, fare « professione » nel- l'insegnamento accademico a
favore delle proprie valutazioni pra- tiche, di carattere etico oppure fondate
in riferimento a ideali di cultura o, in altra maniera, su un'intuizione del
mondo. Questa non può venir discussa scientificamente. Infatti essa stessa è
una questione del tutto dipendente da valutazioni pratiche, e quindi non può
essere decisa per tale via. Per citare soltanto i poli estre- mi, vengono
sostenuti: 2) sia il punto di vista per cui la separazio- ne di argomenti
puramente logici o puramente empirici dalle valutazioni pratiche, o etiche,
oppure connesse a un'intuizione del
mondo è sì giustificata, ma tuttavia (e forse proprio perciò) entrambe le categorie di problemi appartengono
all'ambito della cattedra; b) sia il punto di vista per cui, anche se
quella separazione n0n può essere
realizzata logicamente in maniera
coerente, si deve raccomandare di tener distanti il più possibile dall’insegnamento accademico tutte le
questioni pratiche di valore. Questo
secondo punto di vista mi sembra inammissibile. In particolare la distinzione, non di rado fatta
per le nostre discipline, delle valutazioni pratiche in valutazioni « politiche
di parte » e in valutazioni di altro
carattere mi sembra semplicemente ineseguibile, e appropriata soltanto a
nascondere la portata pratica della presa di posizione suggerita agli
ascoltatori. Inoltre, l'opinione che
alla cattedra si addica la « mancanza di
passione », e che di conseguenza debbano essere evitati gli argomenti
che comportano il pericolo di discussioni «eccitate », sarebbe — una volta ammesso in genere che
sulla cattedra si possano enunciare
valutazioni — una convinzione da burocrati,
che ogni insegnante indipendente dovrebbe respingere. Di quegli studiosi
che 70» hanno ritenuto di dover rinunciare a valutazioni pratiche nelle
discussioni empiriche, proprio i più appassionati — come per esempio
Treitschke, e a modo suo pure Mommsen® —
furono quelli maggiormente tollerabili. Poiché
2. Theodor Mommsen, filologo e storico tedesco, autore di una fondamentale Romische Geschichte rimasta
incompleta (1849-85), di Uber das rimische Miinzivesen (1850), degli
Unteritalische Dialekte (1850), della Romische Chronoappunto mediante la forte
accentuazione emotiva l’ascoltatore è almeno posto nella situazione di poter da
parte sua stabilire la soggettività della valutazione del professore, nella
sua influenza su un'eventuale
distorsione delle sue proposizioni di
fatto, e di fare quindi da sé ciò che rimane precluso al temperamento
del professore. Può quindi restar affidata all’autentico pathos quell’efficacia sulle anime della gioventù
che — come io presumo — i sostenitori
delle valutazioni pratiche pronunciate
dalla cattedra desiderano assicurare ad esse, senza che l’ascoltatore
venga traviato alla confusione reciproca di diverse sfere — come necessariamente accade quando la
determinazione di fatti empirici e
l'esortazione a una presa di posizione pratica di fronte a grandi problemi della vita sono
entrambe immerse nella stessa fredda
assenza di temperamento. Il primo punto
di vista mi sembra accettabile, e così lo è dal
punto di vista soggettivo dei suoi sostenitori, solo se
l’insegnante si pone come dovere
incondizionato — in ogni caso particolare, e
fino al pericolo di rendere priva di attrattive la propria lezione
— quello di rendere inesorabilmente
chiaro ai suoi ascoltatori e, ciò che
costituisce la cosa principale, a se stesso, che cosa delle sue asserzioni è dedotto con un puro procedimento
logico o è determinazione puramente empirica di fatti, e che cosa è invece valutazione pratica. Far questo mi sembra,
d’altra parte, addirittura un imperativo di onestà intellettuale, una volta
ammessa l’estraneità delle due sfere; in
questo caso è assolutamente il minimo
che si possa chiedere. Invece la
questione se dalla cattedra si debba o no, in generale (pur con tale cautela),
enunciare valutazioni pratiche, è da
parte sua una questione di politica universitaria pratica, e può in ultima analisi essere decisa soltanto dal
punto di vista di quei compiti che
l’individuo vorrebbe assegnare, in base alle
sue valutazioni, alle università. Chi per esse, e quindi per se stesso, pretende ancor oggi in virtù della
sua qualificazione di professore
universitario la funzione universale di formare gli logie bis auf Casar (1858), delle Romische
Forschungen (1864-79), del Rémisches
Staatsrecht (1871-88), del Romisches Strafrecht (1899) e di varic altre
opere, editore del Corpus Inscriptionum
latinarum (a partire dal 1863), fu il maggiore storico dell'antichità
dell'Ottocento. uomini e di propagare una convinzione politica, etica,
artistica, culturale o di altra specie, si comporterà in maniera differente da
colui che ritiene di dover affermare il fatto (e le sue conseguenze) che le aule accademiche svolgono
oggi la loro azione realmente fornita di
valore soltanto mediante l’insegnamento specifico da parte di individui
specificamente qualificati, e che pertanto l’« onestà intellettuale » è la sola
virtù particolare alla quale essi devono educare. Si può sostenere il
primo punto di vista sulla base di
posizioni ultime altrettanto svariate che il secondo. Quest'ultimo in
particolare (che io personalmente accolgo) si può derivarlo sia da una smisurata
sia da una molto modesta valutazione del
significato della formazione « specifica
». Lo si può sostenere, per esempio, non già perché si desideri che tutti gli uomini nel loro
senso intimo diventino il più possibile
degli «specialisti»; ma, proprio al contrario,
perché si desidera vedere le ultime e più personali decisioni di vita, che un uomo deve prendere da sé, non
confuse insieme con l'insegnamento
specifico — per quanto alto il suo significato possa essere valutato non solo
per la disciplina generale del pensiero,
ma anche, indirettamente, per l’auto-disciplina e per l'orientamento etico del giovane — e vedere
altresì la loro soluzione in base alla
coscienza propria dell’ascoltatore r07 eliminata da una suggestione che si
esercita dalla cattedra. Il pregiudizio
di Schmoller*, favorevole alla valutazione dalla cattedra, mi risulta
personalmente del tutto comprensi bile
come l’eco di una grande epoca, che egli e i suoi amici contribuirono a
creare. Ma ritengo che neppure a lui possa sfuggire la circostanza che anzitutto la situazione di
fatto è, per la giovane generazione,
mutata notevolmente in un punto importante. Quarant'anni or sono, nel mondo
degli studiosi delle nostre discipline
era assai diffusa la fede che nel campo delle
valutazioni pratico-politiche una soltanto delle possibili prese di posizione dovesse essere quella eticamente
giusta (anche se 3. Gustav von Schmoller
(1838-1917), cconomista e storico economico tedesco, autore di Uber einige Grundfragen des Rechts und
Volkswirtschaft (1875), delle Grundfragen
der Sozialpolitix und der Volkswirtschaftslehre (1897), del Grundriss
der allgemeinen Volkswirtschaftslehre (1900), di Die soziale Frage (1918) e di
varic altre opere, fu il fondatore della
cosiddetta « giovane scuola storica » di economia, c difese l'impo- stazione
storica dell’econo mia politica nei confronti della teoria marginalistica. Schmoller
ha certamente rappresentato questo punto di vista solo in misura assai
limitata). Ma questo non è oggi più il caso, come si può facilmente rilevare,
proprio tra i sostenitori delle valutazioni dalla cattedra. La legittimità
delle valutazioni dalla cattedra non viene più oggi sostenuta in nome di
un’aspi- razione etica, i cui postulati di giustizia (relativamente) sempli- ci
in parte si configuravano, e in parte sembravano essere, sia nel modo della
loro giustificazione sia nelle loro conseguenze, (relativamente) semplici e
soprattutto (relativamente) imperso- nali, in quanto erano univocamente
sopra-personali. Essa viene invece sostenuta (per effetto di uno sviluppo
inevitabile) in no- me di un variopinto mazzo di « valutazioni culturali »,
cioè in verità di pretese soggettive alla cultura — o, in termini chiari, del supposto «diritto della personalità »
dell’insegnante. Ci si può anche
indignare di fronte a questo punto di vista, ma non lo si potrà confutare — e proprio in quanto
esso implica appunto una «valutazione pratica » — che di tutti i tipi di
profezia la profezia professorale,
atteggiata in tal senso « personalmente », è la sola realmente insopportabile.
È una situazione senza confronto quella
di numerosi profeti accreditati dallo stato, i
quali non predicano per le strade o nelle chiese o altrove sulla pubblica piazza, oppure, privatamente, in
conventicole personalmente scelte che si dichiarano tali, ma si permettono
invece di esprimere « in nome della scienza
», nella quiete che si supponeoggettiva, ma che è poi incontrollabile, priva di
discussione, e soprattutto protetta da
ogni contraddittorio, di un'aula accademica privilegiata dallo stato, decisioni
dalla cattedra su questioni di intuizione del mondo. È un vecchio principio,
decisamente sostenuto da Schmoller in una certa occasione, che gli argomenti
enunciati nelle aule accademiche debbono rimanere sottratti alla discussione
pubblica. Sebbene sia possibile opinare
che ciò abbia eventualmente, pure nel campo delle scienze empiriche,
certi svantaggi, si assume ovviamente — e anch'io assumo — che la «lezione»
debba essere appunto qualcosa di diverso
da una « conferenza », che il rigore impregiudicato, la conformità ai fatti, la sobrietà
dell’esposizione accademica possano essere danneggiati nel loro scopo
pedagogico dall’introdursi della pubblicità, per esempio della pubblicità di
tipo giornalistico. Solo che un siffatto privilegio di incontrollabilità sembra
in 632 MAX WEBER ogni caso appropriato soltanto all'ambito
della pura qualificazione specifica del professore. Non c’è però nessuna
qualifica zione specifica per la
profezia personale, e quindi non può
neppur esserci nessun privilegio. E in primo luogo essa non può abusare della situazione di costrizione
esistente per lo studente — il quale deve, per progredire nella vita, far
ricorso a determinate istituzioni
accademiche e quindi ai rispettivi insegnanti — per istillargli insieme a ciò
di cui egli ha bisogno, ossia allo
stimolo e alla disciplina della sua capacità di ragionare e del suo pensiero, e
insieme a ciò determinate conoscenze,
anche — in forma protetta da ogni contraddizione — la propria cosiddetta
« intuizione del mondo », per quanto interessante essa possa talvolta risultare
(mentre sovente è abbastanza
indifferente). Per la propaganda
dei suoi ideali pratici il professore, al
pari di ogni altro individuo, ha a disposizione altre opportunità; e
quando non le ha, può facilmente procurarsele nella forma più appropriata, come
l’esperienza dimostra per ogni onesto tentativo. Ma il professore non deve
avanzare la pretesa di recare nel suo
zaino, in quanto professore, il bastone di maresciallo dell’uomo di stato (o
del riformatore culturale), come egli fa
quando utilizza la protezione della cattedra per esprimere il suo sentimento di
uomo di stato (o di politico della
cultura). Nella stampa, nelle assemblee pubbliche, nelle riunioni, nei
saggi, in ogni altra forma accessibile a ogni cittadino, egli può (e deve) fare ciò che il suo dio o
il suo demone gli significa. Ma ciò che
oggi lo studente dovrebbe soprattutto
imparare nell'aula accademica dal suo professore è la capacità: 1) di accontentarsi del semplice adempimento
di un dato compito; 2) di riconoscere anzitutto i fatti, anche e in primo
luogo i fatti personalmente scomodi, e
quindi di distinguere la loro
determinazione dalla presa di posizione valutativa; 3) di posporre la
propria persona alle cose, e quindi di reprimere anzitutto il bisogno dell’esibizione importuna del suo
gusto personale e degli altri suoi
sentimenti. Mi sembra che questo sia oggi
molto più urgente di quarant'anni or sono, quando il problema non
esisteva propriamente in questa forma. Nor è vero affatto — come è stato
affermato — che la « personalità »
costituisce e debba costituire in questo senso un’« unità », e che MAX WEBER 633
essa subisca per così dire detrimento quando non la si esibisce in ogni occasione. In ogni lavoro professionale,
infatti, il compito come tale reclama il
proprio diritto, e dev'essere adempiuto in
base alle sue leggi. In ogni lavoro professionale colui che vi si dedica deve limitarsi a esso, ed escludere
ciò che non appartiene rigorosamente al compito, ma soprattutto il proprio
amore e il proprio odio. E zor è vero
che una forte personalità sia
documentata dal fatto che in ogni occasione indaga secondo una «nota personale » ad essa soltanto
propria. Si deve al contrario auspicare
che proprio la generazione che ora cresce si
abitui di nuovo soprattutto al pensiero che « essere una personalità » è
qualcosa che non si può volere di proposito, e che c’è soltanto una via per diventarlo (forse!) — la
dedizione senza riserve a un «compito »,
quale possa essere nel caso specifico
questo compito, e l’« esigenza quotidiana» che ne deriva. È contro le regole dello stile mescolare nelle
discussioni di fatto le faccende personali. E non compiere quel tipo specifico
di auto-limitazione, che esso richiede,
significa spogliare il lavoro «
professionale » del solo significato che oggi gli è ancora realmente rimasto.
Poco importa che il culto della personalità ora
di moda tenti di affermarsi sul trono, nell'ufficio pubblico o sulla cattedra: esso conduce sì quasi sempre
a vasti effetti esteriori, ma
interiormente è sempre misera cosa, e danneggia
ovunque il compito. Spero che non ci sia particolare bisogno di dire che gli avversari, a cui queste
analisi si riferiscono, hanno certo ben
poco da fare con questa specie di culto di ciò
ch e è « personale » in quanto « personale ». Essi in parte considerano
il compito della cattedra in un'altra luce, in parte hanno ideali educativi che
io rispetto, ma che non condivido. Però
si deve considerare non soltanto ciò che essi vogliono, ma anche il modo
in cui ciò che essi legittimano con la propria
autorità opera su una generazione, la quale rivela già una predisposizione sviluppata in maniera
inevitabilmente molto forte a ritenersi
importante. E infine richiede appena un
accenno il fatto che parecchi supposti
azversari di valutazioni (politiche) dalla cattedra non sono affatto giustificati quando, per
screditare le discussioni di politica
culturale e sociale che si compiono pubblicamente al di fuori dell’aula accademica, si richiamano al
principio dell’esclusione dei « giudizi di valore », da loro ancora spesso
gravemente frainteso. L'indubitabile esistenza di questi elementi falsamente
«avalutativi», ma in realtà tendenziosi, e introdotti nella nostra disciplina dall’ostinata e
consapevole posizione partigiana di forti cerchie di interessati, ci consente
di comprende- re con chiarezza come un ampio numero proprio di studiosi
interiormente indipendenti possa attualmente continuare a soste- nere la
valutazione dalla cattedra, poiché essi hanno troppo orgoglio per partecipare a
quella pagliacciata di una « avalutati- vità » soltanto apparente.
Personalmente io ritengo che, ciò no- nostante, debba essere fatto quello che
(secondo la mia opinio- ne) è corretto, e che il peso delle valutazioni
pratiche di uno studioso sarebbe soltanto accresciuto dalla sua capacità di
limi- tarsi a sostenerle nelle occasioni opportune al di fuori dell’aula
accademica, se si sa che egli possiede il rigore di fare, entro l’aula,
soltanto ciò che è proprio del «suo ufficio ». Ma tutte queste sono appunto
anch'esse questioni pratiche di valutazio- ne, e perciò non suscettibili di
esser risolte. In ogni caso, però, l'affermazione di principio del diritto
della valutazione dalla cattedra sarebbe coerente, a parer mio, solo se al
tempo stesso si garantisse che tutte le valutazioni di ogni parte abbiano
l'opportunità di farsi valere sulla cattedra *. Da noi, invece, con
l’insistenza sul diritto alla valutazione dalla cattedra si sostiene di solito
precisamente l'opposto di quel principio di un’equa rappresentanza di tutte le
correnti (e ovvia- mente anche di quelle « più estreme »). Era per esempio
natu- ralmente coerente, dal punto di vista personale di Schmoller, la tesi in
base a cui egli spiegava che « marxisti e manchesteria- ni » sono privi di
qualificazione per occupare cattedre universi- tarie, sebbene egli non abbia
mai compiuto l’ingiustizia di a. A tale scopo non basta affatto il principio
olandese dell'emancipa- zione anche della facoltà teologica dal controllo
confessionale, congiunta alla libertà di fondare università a condizione che
siano assicurati i mezzi finanziari, che siano osservate le prescrizioni per la
qualificazione dei pro- fessori, e che sia garantito il diritto privato di
istituire cattedre con il pa- tronato delle candidature da parte di coloro che
le istituiscono. Infatti ciò avvantaggia
soltanto chi possiede denaro e le organizzazioni autoritarie che si trovano già
in possesso del potere: soltanto gli ambienti clericali, come è noto, ne hanno
fatto uso. ignorare i contributi scientifici che sono venuti da queste
direzioni. Proprio su questi punti io personalmente non ho mai potuto seguire il nostro venerato maestro.
Non si può ovviamente insieme richiedere l’autorizzazione alla valutazione
dalla cattedra e — allorché se ne devono trarre le conseguenze — sostenere che l’università è un'istituzione
statale per la formazione di funzionari « fedeli allo stato ». In tale maniera
l’università diverrebbe non una «scuola specializzata » (ciò che a molti docenti sembra degradante), bensì un
seminario di preti — solo senza poterle
dare la dignità religiosa che questo possiede. Si è voluto dedurre certi limiti
con un puro procedimento «logico». Uno
dei nostri più eminenti giuristi spiegava una
volta, mentre si pronunciava contro l'esclusione dei socialisti dalle cattedre, che egli non avrebbe potuto
accettare come insegnante di diritto soltanto un « anarchico », poiché questi
nega in genere la validità del diritto
come tale — ed egli riteneva ovviamente
questo argomento come conclusivo. Io sono dell’opinione precisamente opposta.
L’anarchico può sicuramente essere un buon conoscitore del diritto. E se egli è
tale, allora proprio quel punto di
Archimede che si pone a/ di fuori delle
convinzioni e dei presupposti che ci appaiono così evidenti — quel punto in cui lo colloca, quando è pura,
la sua oggettiva convinzione — può
renderlo capace di riconoscere nelle concezioni fondamentali della dottrina
giuridica in uso una problematica la quale sfugge a tutti coloro per cui esse
sono troppo ovvie. Infatti il dubbio più
radicale è il padre della conoscenza. Il giurista ha tanto poco il compito di
«dimostrare» il valore di quei beni
culturali, la cui esistenza è legata alla
permanenza del « diritto », quanto il medico ha il compito di « provare » che l’allungamento della vita è
degno di essere perseguito in ogni circostanza. L'uno e l'altro non ne sono
neppure in grado, con i loro mezzi. Ma se si vuol fare della cattedra la sede di discussioni pratiche di valore,
allora sarebbe ovviamente un dovere quello di sottoporre proprio le questioni
fondamentali di principio a una libertà di discussione, senza restrizione
alcuna, da tutti i punti di vista. Può accadere questo? Ma le più decisive e importanti questioni
pratico-politiche di valore sono oggi escluse, per la natura della situazione
politica, dalle cattedre delle
università tedesche. Per colui al quale gli interessi della nazione stanno al
di sopra di tutte — senza eccezione — le
sue istituzioni concrete, è per esempio una
questione di importanza centrale stabilire se la concezione oggi
predominante della posizione del monarca in Germania sia conciliabile con gli interessi internazionali
della nazione, e con quei mezzi, cioè :
Ta guerra e la diplomazia, con cui ad essi si
provvede. Non sono sempre i peggiori patrioti, e neppure gli avversari della monarchia, che sono oggi
inclini a rispondere negativamente a
questa questione, e a non credere più nella
possibilità di successi duraturi in quei due campi, fino al momento in
cui non subentrino dei mutamenti molto profondi. Eppure ognuno sa che queste questioni vitali della
nazione non possono venir discusse in
piena libertà sulle cattedre tedesche ®. Ma in considerazione di questo fatto —
che cioè proprio le questioni decisive
di valutazione pratico-politica sono in permanenza sottratte alla libera
discussione dalle cattedre — mi sembra
confacente alla dignità dei rappresentanti della scienza soltanto il tacere anche su quei problemi di
valore, che si consente loro gentilmente
di trattare. In nessun caso si deve però
mescolare la questione se sia lecito, o
necessario, o si debba nell’insegnamento presentare valutazioni pratiche — che è una questione
non risolubile, poiché condizionata da
una valutazione — con la discussione
puramente /ogica della funzione che le valutazioni assolvono per le discipline empiriche, ad esempio per
la sociologia e per l'economia politica.
Altrimenti qui ne soffrirebbe la discussione
impregiudicata del problema propriamente logico — la cui decisione però
non dà per quelle questioni alcuna indicazione, al di fuori di una che è richiesta su base
puramente logica, cioè l'esigenza della
chiarezza e della precisa distinzione delle sfere problematiche eterogenee da parte dei
docenti. Io non vorrei discutere inoltre
se la distinzione tra determinazione empirica e valutazione pratica sia «
difficile ». Essa lo è. Noi tutti, io
che sostengo questa pretesa al pari di altri,
a. Questo non è affatto un caso particolare della Germania. In
quasi tutti i paesi vi sono, manifesti o
celati, dei limiti di fatto; ed è diverso
soltanto il tipo dei problemi di valore che vengono esclusi. commettiamo
sempre e ripetutamente degli errori in proposito. Ma per lo meno i sostenitori
della cosiddetta economia politica etica potrebbero ben sapere che anche la
legge morale è irrealiz- zabile pienamente, ma tuttavia vale in quanto è
«imposta ». E un’analisi della coscienza potrebbe forse mostrare che la realiz-
zazione del postulato è difficile soprattutto perché noi rinuncia- mo con
riluttanza a inoltrarci sul terreno così interessante delle valutazioni con la
« nota personale » che ci stimola. Ogni docente avrà naturalmente osservato che
gli sguardi degli stu- denti si illuminano, e che i loro volti diventano più
attenti, quando egli comincia a « dichiararsi » personalmente; e avrà osservato
pure che la frequenza delle sue lezioni è influenzata in maniera molto
vantaggiosa dall’aspettativa che egli lo fac- cia. Egli sa inoltre che la
concorrenza tra le università per la frequenza mette sovente in condizioni di
vantaggio, per le chiamate, un profeta per quanto piccolo, che riempia le aule,
rispetto a uno studioso per quanto rilevante, che si dedichi all'insegnamento oggettivo — s'intende quando
la profezia non si discosti troppo dalle
valutazioni, politiche o convenzionali,
considerate normali. Soltanto il profeta falsamente alieno da valutazioni, che esprime certi interessi
materiali, ha nei suoi riguardi una
possibilità maggiore, in virtù dell'influenza di tali interessi sui poteri politici. Io ritengo
tutto questo indesiderabile, e quindi non voglio addentrarmi a discutere la
tesi secondo cui l’esclusione di
valutazioni pratiche sarebbe cosa « meschina », e renderebbe « noiose » le
lezioni. Non voglio pronunciarmi sulla questione se le lezioni su un campo
specifico di esperienza debbano tendere soprattutto a essere « interessanti »,
ma da parte mia temo che in ogni caso
uno stimolo realizzato mediante una nota
personale troppo interessante tolga alla
lunga agli studenti il gusto per il semplice lavoro di ricerca. Non voglio poi discutere, ma riconoscere
esplicitamente che, proprio sotto
l'apparenza della soppressione di ogni valutazione pratica, si possono
risuscitare suggestivamente, con
particolare forza, tali valutazioni, secondo il noto schema di «far parlare i fatti». La migliore qualità
della nostra eloquenza parlamentare ed elettorale opera appunto con questo mezzo — e ciò è del tutto legittimo per i
suoi scopi. Non c'è però bisogno di
sprecare nessuna parola per mostrare che questo procedimento sarebbe sulla
cattedra, proprio dal punto di vista
della pretesa di quella distinzione, il più riprovevole di tutti gli abusi. E
che un’apparenza, slealmente suscitata,
di realizzazione di un imperativo possa presentarsi come la sua realtà, non significa una critica
dell’imperativo stesso. Questo è però
senz’altro implicito: che, se l'insegnante non ritiene di doversi precludere delle valutazioni
pratiche, deve però assolutamente dichiararle come tali e agli studenti e 4 se
stesso. Ciò che si deve combattere
nella maniera più decisa, infine, è la
convinzione non rara che la via dell’« oggettività » scientifica sia
rappresentata dalla commisurazione reciproca delle diverse valutazioni, e da un
compromesso « diplomatico » tra di esse.
La «linea di mezzo » non può essere dimostrata scientificamente, con i soli
strumenti delle discipline empiriche, proprio allo stesso modo in cui non
possono esserlo le valutazioni «estreme
». Inoltre, nella sfera della valutazione essa sarebbe normativamente ben poco univoca. Essa non
appartiene alla cattedra, bensì ai
programmi politici, agli uffici e ai parlamenti. Le scienze, sia normative sia
empiriche, possono rendere agli uomini
politici e ai partiti in lotta soltanto un servizio inestimabile, e cioè dire loro: 1) quali
siano le diverse prese di posizione
«ultime» concepibili di fronte a questo problema pratico; 2) come stiano i fatti di cui essi
devono tener conto nella scelta tra
queste prese di posizione. In questo modo noi
rimaniamo fedeli al nostro « compito ».
Un fraintendimento senza fine, ma soprattutto una disputa terminologica, e quindi completamente
sterile, si sono legati al termine
«giudizio di valore» — il che non ha ovviamente
contribuito per nulla alla questione. È del tutto fuori dubbio, come è stato accennato, che queste
discussioni riguardino, nelle nostre
discipline, valutazioni pratiche di fatti sociali, considerati come
desiderabili o indesiderabili praticamente da un punto di vista etico, o da qualche altro punto di
vista culturale, o per altri motivi. Che
la scienza 1) miri a conseguire risultati « forniti di valore », cioè corretti
dal punto di vista logico e in riferimento ai fatti; 2) e miri a conseguire
risultati «forniti di valore », cioè
importanti nel senso dell'interesse scientifico; che inoltre già la scelta della materia implichi
una « valutazione » — queste due cose
sono state seriamente sollevate, nonostante quanto si è detto in proposito *,
come « obiezioni ». Ed è pure sempre
risorto il fraintendimento, quasi incomprensibilmente forte, secondo il quale la scienza empirica
non può trattare come oggetto le
valutazioni « soggettive » degli uomini (e ciò
mentre la sociologia, e nell'ambito dell'economia politica tutta la dottrina dell’utilità marginale, poggia
sul presupposto contrario). Si tratta invece esclusivamente della pretesa, di
per sé perfino banale, che il
ricercatore e l’espositore debbano incondizionatamente fezer distinte — poiché
si tratta di problemi eterogenei — la
determinazione di fatti empirici (compreso l’atteggiamento « valutante », da
lui constatato, degli uomini empirici su cui indaga) e la sua presa di
posizione pratica, che valuta questi
fatti (comprese le « valutazioni » di uomini empirici che sono oggetto di
indagine) come apprezzabili o non apprezzabili, e che in questo senso risulta
«valutativa ». In una trattazione per
altri aspetti fornita di valore, uno scrittore si esprime così: un ricercatore potrebbe
assumere come « fatto » anche la propria
valutazione, e trarne le conseguenze. Ciò che
qui si intende è incontestabilmente esatto, ma l’espressione scelta è
erronea. Si può naturalmente convenire, prima di una discussione, che una determinata misura
pratica — per esempio che la copertura
dei costi richiesti da un aumento dell’esercito
debba esser ricavata soltanto dalle tasche dei possidenti — sia il « presupposto » della discussione stessa,
e che si debbano quindi discutere semplicemente i mezzi per attuarla. Questo è
anzi sovente opportuno. Ma una siffatta
intenzione pratica, presupposta di comune accordo, non la si chiama un «fatto
», bensì uno « scopo stabilito 4
priori». Che si tratti effettivamente anche di cose diverse, potrebbe risultare
presto nella discussione dei « mezzi» —
salvo che lo « scopo presupposto » come indiscutibile fosse così concreto come
accendersi un sigaro. In tal caso anche
i mezzi hanno solo di rado bisogno di discussione. a. Debbo riferirmi a ciò che ho già detto nei
miei saggi precedenti (la correttezza
talvolta insoddisfacente di formulazioni particolari, che in essi possono riscontrarsi, non riguardano nessuno
dei punti essenziali della questione);
per l'« inconciliabilità » di certe valutazioni ultime in un importante campo
di problemi potrei rinviare a G. RabBRUCH, Einfiihrung in die Rechtswissenschaft, Berlin, 22 ed.
1913. Io divergo da lui in alcuni punti;
ma essi non hanno importanza per il problema qui discusso. In quasi ogni caso
di un proposito generalmente formulato, come in quello prima scelto come
esempio, si farà invece espe- rienza che nella discussione dei mezzi non
soltanto appare che i vari individui hanno inteso qualcosa di completamente diverso
sotto tale scopo che si supponeva preciso, ma in particolare risulta che
proprio il medesimo scopo è voluto su basi ultime differenti, e che ciò
influenza la discussione sui mezzi. Ma lasciamo questo da parte. Infatti, che
si possa partire da un determinato scopo, voluto in comune, e discutere
soltanto i mezzi per conseguirlo, e che da ciò risulti allora una discussio- ne
da condurre sul piano puramente empirico — non è ancora accaduto a nessuno di
contestarlo. Tutta la discussione si aggira sulla scelta degli scopi (e non già
dei « mezzi» in vista di uno scopo che è dato), cioè concerne appunto il senso
in cui la valutazione, a cui l’individuo si richiama, non può essere assunta
come « fatto », ma può diventare oggetto di una critica scientifica. Se non si
è determinato questo, ogni altra discussione è infruttuosa. Noi non discutiamo qui la questione della
misura in cui le valutazioni pratiche,
in particolare quelle etiche, possono da
parte loro pretendere una dignità mormativa, rivestendo quindi un carattere diverso da quello
implicito in questioni simili a quella
introdotta da questo esempio, se le bionde
debbano essere preferite alle brune, o in altri giudizi soggettivi di
gusto. Questi sono problemi della filosofia dei valori, non già della metodica
delle discipline empiriche. Ciò che
concerne le ultime è soltanto che da un lato la validità di un imperativo pratico in quanto norma, e
dall’altro la verità di una
determinazione empirica di fatti appartengono a settori problematici del tutto eterogenei, e che si
danneggia la dignità specifica di ognuno
dei due quando si dimentica ciò, cercando
di unificare le due sfere. Questo è avvenuto in forte misura, a mio parere, soprattutto da parte di
Schmoller*. Proprio il rispetto per il nostro maestro mi proibisce di passare
sopra questi punti, in cui ritengo di
non poter concordare con lui. a. Nella
voce «economia politica» (Volkswirtschaftslehre) nello « Handwérterbuch der Staatswissenschaften »,
Berlin, 3? ed. 1911, vol. VIII, pp.
426-501. MAX WEBER 641 In primo luogo vorrei rivolgermi contro la
tesi secondo cui, per i sostenitori
dell’« avalutatività », il mero fatto dell’instabilità storica e individuale
delle prese di posizione valutative di
volta in volta in vigore varrebbe come prova del carattere
necessariamente solo «soggettivo », per esempio, dell’etica. Anche le determinazioni empiriche di fatti sono
spesso soggette a disputa; e sul fatto che un tale debba essere ritenuto un
furfante uò sovente esserci una
concordanza sostanzialmente più generale di quella relativa (proprio presso gli
specialisti) alla interpretazione di un'iscrizione mutilata. L'assunzione,
effettuata da Schmoller, di una
crescente unanimità convenzionale di tutte le
confessioni e di tutti gli uomini intorno ai punti principali delle valutazioni pratiche sta in aspra
antitesi con la mia impressione opposta. Ma questo mi sembra senza rilievo per
la questione. Ciò che in ogni caso è da discutere,
infatti, è che ci si possa arrestare
scientificamente di fronte a una qualsiasi
evidenza di fatto, convenzionalmente stabilita, di certe prese di posizione pratiche, per quanto diffuse esse
siano. La funzione specifica della
scienza mi sembra, proprio all’opposto, quella
di trasformare in problema ciò
che è convenzionalmente evidente. E proprio questo hanno fatto, al tempo loro,
Schmoller e i suoi amici. Che si possa
poi indagare, e in certe circostanze
valutare altamente, l’efficacia causale della esistenza di fatto di certe convinzioni etiche o religiose sulla
vita economica — da ciò non deriva
affatto che quelle convinzioni, che hanno forse
causalmente operato molto, debbano perciò anche essere condivise o anche
soltanto ritenute « fornite di valore»; così come, al contrario, mediante l’affermazione del
valore di un fenomeno etico o religioso non si è detto proprio niente sulla
possibili tà di qualificare anche le
inconsuete conseguenze, che la sua
realizzazione ha avuto o avrebbe, con il medesimo predicato positivo di valore. Su queste questioni non
si arriva a niente attraverso
determinazioni di fatto; esse vengono giudicate dall'individuo in maniera assai
diversa, a seconda delle sue proprie
valutazioni religiose, o pratiche di altro genere. Tutto ciò non riguarda la questione che viene discussa. E
invece io mi oppongo energicamente alla convinzione che una scienza
«realisti ca» dei fenomeni etici, vale a
dire l’indicazione delle influenze di fatto che le convinzioni etiche,
prevalenti in un certo gruppo di uomini, hanno subito dalle altre condizioni
di vita e a loro volta hanno esercitato
su di esse, possa da parte sua dare
luogo a un’«etica », la quale possa asserire qualcosa intorno a ciò che deve valere. Ciò avviene
tanto poco quanto un'esposizione «
realistica » delle concezioni astronomiche, per
esempio, dei Cinesi — che mostrasse in base a quali motivi pratici e in qual modo facciano
dell’astronomia, a quali risultati e perché essa pervenga — potrebbe avere per
scopo di dimostrare la correttezza di questa astronomia cinese; e quanto
la constatazione che gli agrimensori
romani oppure i banchieri fiorentini
(gli ultimi proprio nelle partizioni di grandi patrimoni) pervennero sovente
con i loro metodi a risultati inconciliabili con la trigonometria o con la
tavola pitagorica, potrebbe porre in
discussione la validità di queste. Mediante l'indagine psicologico-empirica e storica di un
determinato punto di vista valutativo,
considerato nel suo condizionamento individuale, sociale, storico, non si perviene mai a
nient'altro che a questo — a spiegarlo
comprendendolo. E ciò non è da poco. Esso è da
desiderarsi non soltanto per la conseguenza concomitante personale (ma
non scientifica), che si può più facilmente « rendere giustizia » a chi, realmente o
apparentemente, la pensa in maniera diversa. Ma è anche scientificamente molto
importante: 1) per lo scopo di una
considerazione causale empirica dell'agire umano, per imparare cioè a conoscere
i suoi reali motivi ultimi; 2) per
determinare, allorché si discute con qualcuno che diverge (realmente o apparentemente) nella
loro valutazione, i punti di vista
valutativi delle due parti. Infatti il senso vero e proprio di una discussione di valore è questo
— di comprendere ciò che l'avversario (o anche, ciò che colui che parla)
realmente intende, cioè il valore a cui ognuna delle due parti tiene in realtà, e non solo in apparenza, rendendo
così possibile in genere una presa di
posizione di fronte a questo valore. Ben
lungi dal ritenere che dal punto di vista dell'esigenza dell’«
avalutatività » delle analisi empiriche siano sterili, o prive di senso, le
discussioni intorno alle valutazioni, proprio la conoscenza di questo loro senso risulta il presupposto
di ogni utile considerazione del genere. Esse presuppongono semplicemente la
comprensione della possibilità di valutazioni ultime inconciliabilmente
divergenti in linea di principio. Poiché « tutto comprendere » non significa anche « tutto perdonare », né
la mera comprensio- ne del punto di vista altrui conduce, di per sé, alla sua
approva- zione. Fssa conduce almeno altrettanto facilmente, e sovente con
maggiore probabilità, a conoscere perché e in che cosa n0n si può concordare.
Questa conoscenza è appunto una conoscen- za di verità, e 44 essa servono le «
discussioni valutative ». Ciò che su tale strada non si può certo conseguire —
perché sta nella direzione precisamente opposta — è una qualsiasi etica
normativa, o in genere la capacità vincolante di qualche « impe- rativo ».
Ognuno sa piuttosto che un fine siffatto viene reso più difficile dall’azione «
relativizzante », almeno in apparenza, di tali discussioni. Con questo non si
dice naturalmente che si debba, per tale motivo, evitarle. Proprio al
contrario. Una con- vinzione «etica» che si lascia scalzare dalla «
comprensione » psicologica di valutazioni divergenti è stata infatti fornita di
valore né più né meno delle opinioni religiose che vengono distrutte dalla conoscenza scientifica — come
talvolta accade. Quando infine Schmoller
sostiene che i propugnatori dell’« avalutatività » delle discipline empiriche
possono riconoscere soltanto verità etiche «formali» (è ovvio che egli le
intende nel senso della « critica della
ragione pratica »), ci si deve addentrare — sebbene il problema non rientri
senz’altro nella nostra questione — in
alcune considerazioni. In primo luogo si
deve respingere l’identificazione — implicita nella concezione di Schmoller —
degli imperativi etici con i « valori
culturali », anche con i più alti. Infatti può esserci un punto di vista per il quale i valori
culturali sono « imposti », anche nella
misura in cui risultano in inevitabile e inconciliabile conflitto con ogni
etica. E viceversa è possibile, senza interna
contraddizione, un’etica la quale rifiuti tutti i valori culturali. In ogni caso le due sfere di valori non sono
identiche. E così pure è un grave (per
quanto diffuso) fraintendimento ritenere
che proposizioni « formali», come quelle dell’etica kantiana, non contengano alcuna indicazione di
contenuto. La possibilità di un'etica
normativa non viene in alcun modo posta in questione per il fatto che vi sono
problemi di carattere pratico per i
quali essa non può fornire, di per sé, prescrizioni univoche (e a tale ambito appartengono in modo specifico
determinati problemi istituzionali, cioè appunto i problemi « politico-sociali
»), e inoltre che l’etica non è la sola cosa che «valga» nel mondo, ma che accanto ad essa sussistono altre sfere
di valori — i cui valori può, in certe
circostanze, realizzare soltanto chi si assuma una «colpa» etica. In ciò
rientra specialmente la sfera dell’agire
politico. Sarebbe da deboli, a parer mio, voler negare le tensioni nei confronti della sfera etica,
che essa appunto contiene. Ma ciò non è
affatto proprio soltanto di essa, come fa
credere la contrapposizione in uso di «morale privata» e di « morale politica ». — Indaghiamo ora alcuni
« limiti » dell’etica, a cui si è prima fatto riferimento. Le conseguenze del postulato della « giustizia
» rientrano nell’ambito delle questioni
che non possono venir decise univocamente da ressuna etica. Se per esempio — il
che corrisponderebbe maggiormente alle concezioni espresse a suo tempo da Schmoller — si debba anche molto a colui che
fa molto, o viceversa si possa chiedere
molto a chi molto può fare; se quindi in
nome della giustizia (eliminando allora altri punti di vista — come quello dell’« incentivo »
necessario) si debbano concedere al grande talento anche grandi possibilità, o
se si debba invece (come riteneva
Babeuf*) pareggiare l'ingiustizia
dell’ineguale distribuzione dei doni spirituali, preoccupandoci con rigore che il talento, il cui semplice
possesso già fornisce un sentimento di
prestigio che rende felice l’individuo, non
possa utilizzare ancora per sé le sue migliori possibilità nel mondo — tutto questo non può venir risolto in
base a premesse «etiche ». A questo tipo
appartiene però la problematica etica
della maggior parte delle questioni di politica sociale. Ma anche nel campo dell’agire personale vi
sono problemi fondamentali, di carattere
specificamente etico, che l’etica non
può risolvere in base ai propri presupposti. Tra di essi rientra in
primo luogo la questione fondamentale se il valore in sé dell’agire etico — il «puro volere» o
l’«intenzione », come si vuole
esprimerlo — debba bastare alla sua giustificazio4. Frangois-Noel Babeuf, noto
come Gracchus Babeuf, esponente dell'ala
estremistica della Rivoluzione francese, pubblicò il giornale « Le tribun
du peuple » e diresse la Congiura degli
cguali: la sua teoria politica, di ispirazione
rousscauiana, è fondata sulla rivendicazione dell'eguaglianza non
soltanto politica, ma anche
economica. MAX WEBER 645 ne, secondo la massima «il Cristiano agisce
bene e rimette a Dio la conseguenza »
(come i moralisti cristiani l’hanno formulata), oppure se si debba prendere in
considerazione la responsabilità per le conseguenze dell’agire, previste come
possibili 0 come probabili, così come esse sono condizionate dal suo
inserimento nel mondo eticamente irrazionale. Nel campo sociale ogni posizione politica radicalmente
rivoluzionaria, soprattutto il
cosiddetto « sindacalismo », procede dal primo postulato, e ogni « politica realistica» procede invece
dal secondo. Entrambe si richiamano a massime etiche; ma queste massime
stanno tra loro in un eterno contrasto,
il quale non può essere affatto risolto
senz’altro con i mezzi di un'etica che abbia il proprio fondamento soltanto in se stessa. Queste due massime etiche sono massime di
carattere rigorosamente « formale », in ciò simili ai noti assiomi della
Critica della ragione pratica. Di questi
ultimi si è molto spesso creduto, per questo loro carattere, che non
contenessero indicazioni di contenuto
per la valutazione dell’agire. Ma ciò non è per niente esatto, come già si è
accennato. Prendiamo di proposito un
esempio il più possibile distante dalla « politica », il quale può forse chiarire che senso abbia propriamente
questo carattere «solo formale», di cui
si è a lungo parlato, di tale etica.
Supponiamo che un uomo dica, riferendosi alla sua relazione erotica con una donna, « all’inizio il nostro
rapporto era soltanto una passione, ora esso costituisce un valore » — la
temperata oggettività dell’etica
kantiana esprimerebbe così la prima metà
di questa proposizione: «all’inizio noi eravamo entrambi, l’uno per
l’altro, soltanto mezzi», e considererebbe quindi l'intera proposizione come un caso
particolare di quel noto principio che
stranamente si è volentieri ritenuto un’espressione, condizionata solo
storicamente, dell’« individualismo », mentre in verità esso rappresenta una
formulazione quanto mai geniale di
un'infinita molteplicità di situazioni etiche, che si debbono appunto intendere correttamente.
Nella sua enunciazione negativa, ed escludendo qualsiasi asserzione su
quello che deve essere il contrapposto
positivo della considerazione dell’altro
«soltanto come mezzo », che eticamente deve venir rifiutata, essa comporta evidentemente: 1) il
riconoscimento di sfere di valori
autonome, al di fuori della sfera etica; 2) la delimitazione della sfera etica
nei loro confronti; 3) la determi- nazione infine del fatto che — e del senso
in cui — si possono tuttavia attribuire all’agire al servizio di valori
extra-etici delle differenze di dignità etica. Di fatto quelle sfere, che permetto-
no o prescrivono la considerazione dell’altro «soltanto come mezzo », sono
eterogenee rispetto all’etica. L'analisi non può qui essere ulteriormente
proseguita: in ogni caso però risulta che il carattere « formale » anche di
quella proposizione etica così astratta non rimane indifferente rispetto al
contenuto dell’a- gire. Ma il problema si complica ancora. Quel predicato
negati- vo, che è stato espresso con le parole « soltanto una passione », può
da un determinato punto di vista venir considerato come un insulto a ciò che di
interiormente più puro e più proprio vi è nella vita, dell'unica via o almeno
della via primaria per uscire al di fuori dei meccanismi «di valore»
impersonali e sovra-personali, e perciò ostili alla vita, per uscire dall’incatenamento
alla pietra senza vita dell’esistenza quotidiana e dalle pretese di un’irrealtà «imposta ». Si può ad
ogni modo pensare a una concezione di
questo punto di vista che — sebbene abbia
a disdegno il termine «valore » per designare la concretezza dell’Erleben — costituirebbe appunto una
sfera la quale, respingendo come cosa estranea e ostile ogni santità e ogni
bontà, ogni legalità etica o estetica,
ogni significatività della cultura o
valutazione della personalità, pretenderebbe tuttavia, e anzi proprio a
causa di ciò, la sua propria dignità «immanente» nel senso estremo della parola. Quale che possa
essere la nostra presa di posizione nei
confronti di tale pretesa, in ogni caso
essa non può venir dimostrata o «confutata » con i mezzi di nessuna « scienza ». Ogni considerazione empirica di questi
argomenti condurrebbe, come ha osservato il vecchio Stuart Mill”, al
riconoscimento di un politeismo assoluto come la sola forma di metafisica ad
essi adeguata. Una considerazione non più empirica, ma interpretativa, cioè un’autentica filosofia
dei valori, non potreb5. Weber si riferisce qui alla formulazione dei saggi
postumi Nature, the Utility of Religion, and Theism, London, 1874, pp. 130-31
(ma cfr. anche p. 150). Per questo
riferimento si veda il breve articolo Zwisclien zwei Gesetze, pubblicato
nella rivista « Die Frau » del febbraio
1916 (ora raccolto in Gesammelte politische Schriften, 2° cd. Tiibingen, 1958,
pp. 139-42). MAX WEBER 647 be poi dimenticare, procedendo innanzi, che
uno schema concettuale dei « valori », per quanto bene ordinato, sarebbe
incapace di rendere giustizia proprio al punto decisivo della questione. Tra i
valori, cioè, si tratta ovunque e sempre, in ultima analisi, non già di semplici alternative, ma
di una lotta mortale senza possibilità
di conciliazione, come tra « dio» e il « demonio ». Tra di essi non è possibile
nessuna relativizzazione e nessun
compromesso. Beninteso, non è possibile in base al loro senso. Poiché, come ognuno ha provato nella
vita, ve ne sono sempre di fatto, e
quindi secondo l’apparenza esterna, continuamente. In quasi ognuna delle prese
di posizione importanti di uomini reali,
infatti, le sfere di valori si incrociano e si intrecciano. La superficialità
della « vita quotidiana », in questo senso più appropriato del termine,
consiste appunto nel fatto che l’uomo il
quale vive entro di essa non diventa consapevole, e neppure vuole diventarlo, di questa
mescolanza di valori mortalmente nemici, condizionata in parte psicologicamente
e in parte pragmaticamente; ed egli si
sottrae piuttosto alla scelta tra «dio»
e il «demonio», evitando di decidere quale dei
valori in collisione sia dominato dall’uno e quale invece dall’altro. Il
frutto dell’albero della conoscenza, frutto inevitabile anche se molesto per la
comodità umana, non consiste in nient’altro che nel dover riconoscere
quell’antitesi e nel dover quindi
considerare che ogni singola azione importante, e soprattutto la vita nel suo insieme — se essa deve non già
scorrere via come un evento naturale,
bensì essere condotta consapevolmente —
rappresenta una catena di decisioni ultime, mediante cui l’anima (come
per Platone °) sceglie il suo proprio destino — e cioè il senso del suo agire e del suo essere. Non
a caso il fraintendimento più grossolano, al quale vanno sempre incontro, di
quando in quando, le intenzioni di coloro che sostengono la tesi della collisione tra i valori, è perciò
costituito dall'interpretazione di questo punto di vista come «relativismo » —
cioè come un'intuizione della vita la
quale poggia invece proprio sulla
visione, radicalmente opposta, del rapporto reciproco delle sfere di valore, e può essere realizzata (in forma
coerente) soltanto 6. Weber allude qui
al mito di Er, esposto nel libro X della Repubblica. sul terreno di una
metafisica configurata in maniera molto
particolare (cioè di una metafisica « organica »). Ritornando al nostro caso specifico, mi
sembra, senza possibilità di dubbio, che nel settore delle valutazioni
pratico-politiche (particolarmente anche di politica economica e sociale),
da cui devono essere tratte le direttive
per un agire fornito di valore, le sole
cose che una disciplina empirica può porre in
luce con i suoi mezzi sono le seguenti: 1) i mezzi indispensabili e 2) le inevitabili conseguenze; 3) la
concorrenza reciproca, in tale maniera
condizionata, di più valutazioni possibili, considerate nelle loro conseguenze
pratiche. Le discipline filosofiche possono
in proposito, con i loro mezzi concettuali, determinare il «senso» delle valutazioni, cioè la loro
struttura dotata di senso e le loro
conseguenze dotate di senso, indicando quindi il loro «luogo» entro la totalità dei valori «
ultimi» che sono possibili in generale e
delimitando le loro sfere di validità
significative. Ma già questioni molto semplici — per esempio in quale misura uno scopo debba sanzionare i
mezzi che sono per esso indispensabili;
oppure in quale misura debbano venir
messe in conto le conseguenze non volute; oppure come si debbano appianare i conflitti tra più scopi
in concreto contrastanti, che sono oggetto di volontà o di dovere — sono in
tutto e per tutto questioni di scelta o
di compromesso. Non c'è nessun
procedimento scientifico (razionale o empirico) di qualsiasi specie, che
potrebbe qui fornire una decisione. E meno
ancora la rostra scienza, che è rigorosamente empirica, può pretendere di risparmiare all'individuo
questa scelta; per cui essa non deve
neppure suscitare l'apparenza di poterlo fare. Occorre infine osservare esplicitamente che
il riconoscimento di questa situazione è, per le nostre discipline, del
tutto indipendente dalla presa di
posizione di fronte alle considerazioni di teoria dei valori prima accennate
con molta brevità. Non c’è infatti
nessun punto di vista logicamente sostenibile
in base a cui esso possa venir rifiutato, se si prescinde da una
gerarchia di valori univocamente prescritta mediante dogmi ecclesiastici. Debbo
aspettarmi che si trovi realmente della gen- te capace di affermare la
zon-diversità di senso dei due gruppi di questioni seguenti — da un lato
questioni come: un fatto concreto avviene così o altrimenti? perché la
situazione concreta in esame si è configurata così e non altrimenti? a una
data situazione, secondo una regola
dell’accadere di fatto, segue di solito
un’altra, e con quale grado di probabilità? — e dall'altro questioni come: che cosa si deve praticamente
fare in una concreta situazione? da
quali punti di vista quella situazione
può apparire praticamente auspicabile oppure no? vi sono proposizioni
(assiomi) formulabili, in qualsiasi maniera, generalmente, a cui si possano
ridurre questi punti di vista? Debbo aspettarmi che. sia sostenuta l'identità
della questione concernente la direzione
in cui una situazione di fatto, concretamente data (o in generale una situazione di un
determinato tipo, in qualche modo accessibile), si svilupperà con probabilità —
e con quale misura di probabilità (cioè
è solita svilupparsi tipicamente) — e dell’altra questione concernente invece
il dovere di contribuire affinché una
determinata situazione si sviluppi in
una determinata direzione — sia essa di per sé probabile, oppure opposta
o un’altra qualsiasi? Debbo aspettarmi infine che sia sostenuta l’identità della questione
concernente l’opinione che determinate
persone in certe circostanze concrete, o un
numero indeterminato di persone nelle medesime circostanze, si formeranno con probabilità (o anche con
sicurezza) su un problema di qualche
specie, e dall’altra parte della questione
concernente la correttezza di questa opinione, che si forma con probabilità o con sicurezza? Debbo cioè
aspettarmi che vi sia della gente la
quale affermi che le questioni di ognuna di tali coppie antitetiche abbiano anche soltanto
qualcosa a che fare l'una con l’altra, e
che esse realmente — come ogni tanto si
ripete — non possano «essere separate l’una dall'altra »? e che quest’ultima asserzione 207 sia in
contraddizione con le esigenze del pensiero scientifico? Se qualcuno, il quale
pur concede l'assoluta eterogeneità
delle due specie di questioni, tuttavia
pretende di esprimersi nel medesimo libro, nella medesima pagina, magari
in una proposizione principale o secondaria di
una medesima unità sintattica, da un lato sull’uno e dall’altro sull’altro di quei due problemi tra loro
eterogenei — questo è affar suo. Ciò che da lui si esige è semplicemente che
egli non illuda senza volerlo (o anche per volontaria mordacità) i suoi 650 MAX
WEBER lettori sull’assoluta eterogeneità dei problemi. Personalmente re- sto
del parere che nessun mezzo al mondo è troppo « pedante- sco» per essere
impiegato allo scopo di evitare confusioni.
Il senso delle discussioni intorno a valutazioni pratiche (de- gli
stessi partecipanti alla discussione) può essere dato soltanto dalle operazioni
seguenti: a) L'elaborazione degli assiomi di valore ultimi, internamen- te «
coerenti », da cui procedono le opinioni tra loro contrappo- ste. Abbastanza
spesso ci si inganna non soltanto sugli assiomi
dell'avversario, ma anche sui propri. Questo procedimento costituisce
un'operazione che, nella sua essenza, parte dalla valutazione particolare e
dalla sua analisi dotata di senso, per procedere sempre più in alto verso prese
di posizione valutative più
fondamentali. Esso non opera con gli strumenti di una discipli- na
empirica e non apporta nessuna conoscenza di fatti. Esso «vale » nello stesso
modo in cui vale la logica. b) La deduzione delle «conseguenze » connesse alla
presa di posizione valutativa, che derivano
da determinati assiomi di valore ultimi,
quando essi, ed essi soltanto, sono posti a fondamento della valutazione
pratica di un certo stato di cose. Essa
è puramente dotata di senso in riferimento all’argomentazione logica, ma
d’altra parte è vincolata a osservazioni empiriche per quanto riguarda la
casistica più esauriente possibile di quelle si- tuazioni empiriche che possono
venir prese in considerazione, in generale, in una valutazione pratica. c) La
determinazione delle conseguenze di fatto che produce la realizzazione pratica
di una data presa di posizione valuta- tiva nei confronti di un certo problema:
1) a causa del legame con determinati mezzi indispen- sabili; 2) a causa
dell’inevitabilità di determinate conseguenze concomitanti, non direttamente
volute. Questa determinazione puramente empirica può avere come risultato, tra l’altro: 1) l'assoluta
impossibilità di qualsiasi realizzazione, per quanto solo molto approssimativa,
del postulato di valore, in quanto non è possibile escogitare nessuna via per
realizzarlo; la maggiore o minore improbabilità di una sua realizzazione
compiuta, o anche soltanto approssimativa, o per gli stessi motivi oppure perché esiste la
probabilità che si verifichi- no conseguenze concomitanti non volute, che sono
tali da ren- derne direttamente o indirettamente illusoria la realizzazione; 3)
la necessità di accettare tali mezzi o tali conseguenze concomitanti, che il sostenitore del
postulato pratico in questione non aveva considerato, di modo che la sua
decisione valutati- va tra scopo, mezzo e conseguenza diventi per lui stesso un
nuovo problema, e perda la sua forza coercitiva sugli altri. d) Infine possono
presentarsi nuovi assiomi di valore, e di
conseguenza nuovi postulati, che il sostenitore di un certo postulato
pratico non ha osservato, e di fronte ai quali non ha quindi preso posizione, sebbene la
realizzazione del proprio postulato
entri in collisione con essi, sia in linea di principio oppure per le conseguenze pratiche che ne
derivano, cioè per il loro senso o praticamente. Nell’un caso (contrasto di
principio) si tratta, nella discussione ulteriore, di problemi del tipo 4);
nell’altro (contrasto di conseguenze) si tratta di problemi del tipo c). Ben
lungi dall'essere « prive di senso », le discussioni valutative di questo tipo
hanno, se sono intese correttamente nel loro scopo — €, a mio parere, allora
soltanto — un'importanza molto rilevante. L'utilità di una discussione intorno
a valutazioni pratiche, condotta al
luogo giusto e nel giusto senso, non è però affatto esaurita con tali diretti « risultati », che
essa può recare a maturazione. Se è condotta correttamente, essa feconda nel
modo più duraturo il lavoro empirico, in quanto gli fornisce le impo- stazioni
problematiche di cui ha bisogno per la propria ricerca. I problemi delle discipline
empiriche debbono certo venir risoli, da
parte loro, in maniera « avalutativa ». Essi non sono « problemi di valore». Ma tuttavia stanno,
nell’ambito delle nostre discipline,
sotto l'influenza della relazione della realtà
«ai» valori. Sul significato dell’espressione «relazione di valo- re»
debbo riferirmi alle mie precedenti formulazioni, e soprat- tutto alle ben note
opere di Heinrich Rickert. Sarebbe impossi- bile riprendere qui ancora una
volta tali questioni. È sufficiente quindi ricordare che quell’espressione — «
relazione di valore» — rappresenta semplicemente l’interpretazione filosofica
di quello specifico « interesse » scientifico che dirige la selezione e la
formulazione dell'oggetto di un'indagine empirica. Nell'ambito dell’indagine
empirica, questa circostanza puramente logica non legittima in ogni caso
nessuna « valutazione pratica ». In
concordanza con l’esperienza storica essa pone
però in rilievo che sono gli interessi culturali, e perciò gli interessi di valore, a indicare la direzione
anche al lavoro delle scienze empiriche.
È chiaro che questi interessi di valore possono svilupparsi nella loro
casistica mediante le discussioni valutative. E queste possono diminuire di
molto, o almeno rendere più facile, al
ricercatore che lavora scientificamente, e soprattutto allo storico, il compito
dell’«interpretazione di valore» — che
per lui è un aspetto preliminare così importante del suo lavoro propriamente empirico. Infatti non
soltanto la distinzione tra valutazioni e relazioni ai valori, ma anche quella
tra valutazione e interpretazione di
valore (cioè lo sviluppo delle prese di
posizione dotate di senso, che sono possibili di fronte a un dato fenomeno),
sovente non è compiuta chiaramente, e
quindi ne derivano oscurità per la determinazione dell’essenza logica
della storia: mi sia consentito di rinviare a questo propo- sito alle
osservazioni già fatte altrove* (senza ritenerle del re- sto in alcun modo
conclusive). Invece di inoltrarmi ancora una volta nella discussione di questi fondamentali problemi metodologici,
vorrei prendere in esame alcuni punti particolari, che sono praticamente
importan- ti per le nostre discipline. È ancora sempre diffusa la fede che si
debba, o che sia necessario, oppure che
si possa derivare delle indicazioni per
le valutazioni pratiche da « tendenze di sviluppo ». Solo che da tali «tendenze di sviluppo », per quanto
univoche esse siano, si possono trarre imperativi univoci dell’agire soltanto
rispetto ai mezzi che si prevedono più appropriati per date prese di posi- a.
Nel saggio Kritische Studien auf dem Gebiet der Rulturwissen- schaftlichen
Logik, « Archiv fir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik », XXII, 1906, pp.
168-69 [ora in Gesammelte Aufsitze zur Wissenschaftslehre. zione, non però
rispetto a quelle prese di posizione. Certamen- te qui il concetto di « mezzo»
è il più ampio che si possa concepire.
Chi per esempio considerasse gli interessi di potenza dello stato come un fine ultimo, dovrebbe in
rapporto alla situazione data considerare
una costituzione assolutistica oppure una costituzione democratico-radicale
come il mezzo (relativamente) più adatto; e sarebbe estremamente ridicolo
prendere un qualsiasi mutamento nella
valutazione di questo apparato statale
come mezzo per un mutamento nella presa di posizione «ultima ». È però inoltre evidente, come già
si è detto, che al singolo sì presenta
sempre nuovamente il problema se egli
debba lasciar cadere la speranza nella realizzabilità delle sue valutazioni pratiche di fronte alla conoscenza
del sussistere di una tendenza univoca
di sviluppo, la quale condiziona lo scopo
cui egli aspira all'impiego di muovi mezzi che, per motivi etici o di altra specie, gli appaiono eventualmente
dubbi, o all’accettazione di conseguenze concomitanti da lui aborrite,
oppure la rende così improbabile da fare
apparire il suo lavoro, misurato in base alla possibilità di successo, una
sterile « donchisciotteria ». Ma la conoscenza di tali « tendenze di sviluppo
», più o meno difficilmente mutabili, non
occupa affatto una posizione
particolare. Ogri nuovo fatto singolo può parimenti avere per effetto di configurare in maniera nuova
l'equilibrio tra lo scopo e i mezzi
indispensabili, o tra il fine voluto e la conseguenza concomitante inevitabile. Se ciò debba
accadere — e quali conclusioni pratiche se ne possano trarre — è una questione
che non rientra in una scienza empirica,
e anzi, come si è detto, in nessuna
scienza in genere, di qualsiasi specie. Si può per esempio dimostrare
tangibilmente al sindacalista convinto che il suo agire non solo è socialmente « inutile »,
cioè non promette alcuna conseguenza per il mutamento della situazione esterna
di classe del proletariato, ma la
peggiora inevitabilmente provocando disposizioni «reazionarie» — con questo
però non gli si dimostra nulle, se egli
è realmente fedele alle conseguenze
ultime della sua convinzione. E ciò non perché egli sia un insensato, ma perché può aver «ragione» dal
suo punto di vista — come dovremo
discutere. In complesso gli uomini inclinano abbastanza fortemente ad adattarsi
interiormente al successo, 0 a ciò che promette di volta in volta il successo,
e non soltanto — come è evidente — nei mezzi o nella misura in cui si sforzano di realizzare i loro ideali
ultimi, ma anche nella rinuncia a questi
medesimi. In Germania si crede di poter
fregiare questo comportamento con il nome di « politica realisti- ca ».
In ogni caso non si riesce a comprendere perché proprio i rappresentanti di una
disciplina empirica debbano sentire il bisogno di appoggiarlo, fornendo la
propria approvazione alla «tendenza di sviluppo » di volta in volta prevalente
e trasfor- mando l’« adattamento » a questa tendenza da problema di valutazione vitimo, da risolversi caso per
caso da parte della coscienza
dell’individuo, in un principio che si suppone coperto dall’autorità di una «scienza ». È esatto — se correttamente inteso — che una
politica la quale rechi al successo è
sempre l’« arte del possibile ». Ma non
meno esatto è che il possibile molto sovente è stato raggiunto solo in quanto
si è mirato all’impossibile che sta al di
là di esso. Infine, non è stata la sola etica realmente coerente dell’« adattamento » al possibile, cioè la
morale burocratica del Confucianesimo,
che ha prodotto le qualità specifiche della nostra cultura — qualità che
probabilmente noi tutti, nonostante ogni
altra differenza, stimiamo (soggettivamente) in maniera più o meno positiva. Da
parte mia, almeno, non vorrei dissua- dere sistematicamente la nazione, proprio
in nome della scien- za, dal ritenere che — come prima si è posto in luce —
accanto al « valore di successo » di un’azione stia anche il suo « valore di
intenzione ». In ogni caso, però, il disconoscimento di questa circostanza
danneggia la comprensione dei fatti reali. Poiché, per rimanere all'esempio
prima addotto del sindacalista, è an- che logicamente un’assurdità commisurare
a scopo di «critica » un atteggiamento, che — se coerente — deve avere come
regola il suo « valore di intenzione », semplicemente con il suo « valo- re di
successo ». Il sindacalista realmente coerente vuole sempli- cemente mantenere
in se stesso, e per quanto è possibile suscita- re in altri, una determinata
coscienza, che gli appare dotata di valore e sacra. Le sue azioni esterne, proprio
quelle che in partenza sono condannate anche a un'assoluta mancanza di
successo, hanno in ultima analisi lo scopo di dargli, di fronte al proprio
foro, la certezza che tale coscienza è pu- ra, che essa ha cioè la forza di «
comprovarsi » in azioni e non MAX WEBER 655 è solo una mera smargiassata. Per
tale scopo (forse) c’è soltan- to il mezzo costituito da tali azioni. Per il
resto — se egli è coerente — il suo regno, come il regno di ogni etica
dell’inten- zione, non è di questo mondo. « Scientificamente » si può solo
determinare che questo modo di concepire i propri ideali è il solo internamente
conseguente, e non è confutabile mediante « fatti » esterni. Io ritengo che con
questo sia stato reso, sia ai sostenitori sia agli avversari del sindacalismo,
un servizio — e precisamente quel servizio che essi a buon diritto pretendono
dalla scienza. Mi sembra invece che nulla si possa ottenere, nel senso di
zessuza scienza di qualsiasi tipo, a trattare con locuzioni del tipo « da un
lato — dall’altro» di sette motivi «a favore» e di sei «contro» un determinato
fenomeno (per esempio uno sciopero generale), e a discuterlo secondo il modo
della vecchia mentalità giuridica oppure dei moderni memoria- li cinesi. Con
quella riduzione del punto di vista sindacalistico alla sua forma il più
possibile razionale e internamente coeren- te, e con la determinazione delle
sue condizioni empiriche di nascita, delle sue possibilità e delle sue
conseguenze pratiche conformi all’esperienza, è in ogni caso esaurito il
compito della scienza avalutativa nei suoi confronti. Se si debba essere o non
essere un sindacalista, ciò non si può mai provare senza far ricorso a premesse
metafisiche ben determinate, le quali non sono dimostrabili, e in questo caso
non lo sono certo median- te qualsiasi scienza, quale che essa sia. Così pure,
che un ufficiale preferisca saltare in
aria con il suo fortino anziché
arrendersi, può nel caso specifico risultare assolutamente inutile sotto
ogni riguardo, se commisurato alla conseguenza. Ma non sarebbe indifferente che sia esistita o
no l'intenzione che lo ha spinto a ciò,
senza indagarne l'utilità. Essa risulta « priva
di senso » tanto poco quanto lo è quella del sindacalista coerente.
Quando il professore, dalla comoda altezza della cattedra, vuole raccomandare un catonismo di tale
specie, ciò non apparirebbe certo particolarmente appropriato. Ma non è
neppure indicato che egli apprezzi
l’opposto, facendo un dovere dell’adattarsi degli ideali alle possibilità offerte
appunto dalle tendenze di sviluppo attuali e dalle attuali situazioni. È stato qui innanzi ripetutamente usato il
termine « adattamento », che nel caso specifico risulta, data la formulazione
scelta, abbastanza privo di fraintendimento. Ma si deve rilevare che di per sé ha un duplice significato: da
un lato designa l'adattamento dei mezzi
di una presa di posizione ultima a date
situazioni (« politica realistica» in senso stretto) — dall’altro designa l'adattamento nella scelta delle
medesime prese di posizione ultime, che sono in genere possibili, alle
possibilità momentanee che una di esse realmente o apparentemente possiede (ed è quel tipo di « politica realistica »
con cui la nostra politica, da ventisette anni in qua, è pervenuta a così
curiosi successi). Ma con ciò il numero dei suoi possibili significati non
è ancora esaurito. Sarebbe perciò
piuttosto opportuno, a mio parere, in ogni discussione dei nostri problemi, sia
di questioni di « valutazione » che di
altre, togliere di mezzo questo concetto
di cui si è tanto abusato. Infatti esso è sempre del tutto frainteso
come espressione di un argomento scientifico, nella cui forma si presenta
ognora rinnovato sia a scopo di « spiegazione »
(per esempio della sussistenza empirica di certe intuizioni etiche
presso certi gruppi umani in determinate epoche) sia a scopo di « valutazione » (per esempio di
quelle intuizioni etiche, esistenti di fatto, in quanto oggettivamente «
adattate » e perciò oggettivamente «
corrette » e fornite di valore). In nessuno di questi sensi esso serve però a
qualcosa, perché sempre ha bisogno a sua
volta di interpretazione. Esso ha la sua patria
nella biologia. Se fosse realmente preso in senso biologico, per designare la possibilità data dalle
circostanze, e relativamente
determinabile, che un gruppo umano possiede di mantenere la propria eredità psico-fisica mediante una
grossa riproduzione, allora gli strati
popolari economicamente meglio provvisti, e
capaci di regolare più razionalmente la loro vita, sarebbero i «meno adattati », secondo le note esperienze
fornite dalla statistica delle nascite. « Adattati » alle condizioni
dell'ambiente della zona di Salt Lake erano, in senso biologico — ma anche
in ognuno dei numerosi altri significati
puramente empirici — i pochi Indiani che
vi vivevano prima dell’arrivo dei Mormoni,
e lo erano nella stessa maniera, altrettanto bene e altrettanto male, le più tarde e numerose popolazioni
mormoniche. In virtù di questo concetto
noi non perveniamo affatto a una migliore comprensione sul piano empirico, ma
ci immaginiamo facilmente di farlo. E soltanto nel caso di due organizzazioni
per il resto assolutamente equivalenti sotto 0gr: rispetto — que- sto può venir
stabilito fin d'ora — si può dire che una concreta differenza particolare è capace di
condizionare una situazione
empiricamente « più opportuna » per la permanenza di una di esse, e quindi in tal senso « più adattata »
alle condizioni date. Per ciò che
riguarda la valutazione si può tanto essere dell’opinione che il maggior numero
e le prestazioni e qualità materiali e di altra specie, che i Mormoni portarono
sul posto e vi svilupparono, siano una
prova della loro superiorità sugli Indiani, quanto essere invece del parere di
colui che aborre incondizionatamente i mezzi e le conseguenze concomitanti
dell’etica dei Mormoni, la quale è
almeno corresponsabile di quelle azioni, e quindi può pienamente preferire la
romantica esistenza degli Indiani nella
prateria — senza che nessuna scienza al mondo, di qualsiasi specie, possa
pretendere di dissuaderlo. Qui si tratta già, infatti, dell’irresolubile
equilibrio tra scopo, mezzo e conseguenza concomitante. Soltanto quando la
questione concerne i mezzi appropriati
per un dato scopo, stabilito in maniera assolutamente univoca, essa può realmente venir decisa sul terreno
empirico. La proposizione « x è il solo mezzo per y » è infatti la semplice
inversione della proposizione « a x segue y ». Però il concetto di «
adattazione » (e tutti gli altri affini) non fornisce in nessun caso — e questa è la cosa principale — la minima
informazione sulle fondamentali
valutazioni ultime, e anzi semplicemente le cela; lo stesso fa, per esempio, il concetto in
fondo confuso, e di recente prediletto,
di «economia umana». « Adattato» nel
campo della «cultura» è, secondo il modo in cui il concetto assume un significato, tutto o nulla. Poiché
non si può eliminare la lotta da ogni vita culturale. Si possono mutare i
suoi mezzi, il suo oggetto, anche la sua
direzione fondamentale e i suoi
portatori; ma non si può metterla da parte. Essa può costituire, anziché un conflitto esterno di
uomini ostili per cose esterne, un conflitto interno di uomini che si amano in
vista di beni interiori, e quindi non
una costrizione esterna ma
un'oppressione interna (appunto anche in forma di dedizione erotica o caritativa), o rappresentare infine
un conflitto interiore dell’anima dell'individuo con se stessa — ma sempre c’è,
e sovente con conseguenze tanto maggiori
quanto meno viene notata, cioè quanto più il suo corso assume la forma di
un'ottusa o di una comoda indifferenza o anche di un’auto-illusione, oppure si compie mediante la «selezione ». La
« pace» non significa nient'altro che un
differimento delle forme di lotta o
degli avversari o degli oggetti di lotta, o infine delle possibilità di selezione. Se e quando spostamenti del
genere passino la prova di fronte a un
giudizio valutativo, etico o di altra specie, non può ovviamente essere
stabilito in termini generali. Soltanto
una cosa è fuori dubbio: che ogni ordinamento, di qualsiasi tipo, di relazioni sociali, se si
vuole valutarlo, deve in ultima analisi
essere sempre esaminato in riferimento al #po
umano a cui esso, attraverso una selezione (di motivi) esterna o interna, dà le migliori possibilità per
diventare predominante. Altrimenti
l'indagine empirica non è realmente esaustiva, e neppure c’è la base di fatto necessaria per
una valutazione, sia essa consapevolmente
soggettiva oppure pretenda invece una
validità oggettiva. Questa circostanza sia ricordata almeno a quei numerosi colleghi i quali credono che si
possa operare, nella determinazione
delle linee di sviluppo sociali, con un
preciso concetto di « progresso ». Ciò ci conduce dinanzi al compito di un'analisi più ravvicinata di
questo importante concetto. Si può
naturalmente usare il concetto di « progresso » in maniera assolutamente avalutativa, se lo si
identifica con il « progredire » di un
qualsiasi concreto processo di sviluppo,
considerato isolatamente. Ma nella maggior parte dei casi la cosa è sostanzialmente più complicata. Noi
prendiamo qui in esame alcuni casi in
cui, in campi eterogenei, la congiunzione con questioni di valore è la più
intrinseca possibile. Nel campo dei contenuti irrazionali, sentimentali,
affettivi del nostro. atteggiamento psichico, l'accrescimento quantitativo e la
moltiplicazione qualitativa — che nella maggior parte dei casi vi è legata —
delle possibili forme di atteggiamento possono venir designati in modo
avalutativo come progresso della «
differenziazione » psichica. Ma ad esso si unisce ben presto il concetto di valore di un accrescimento della
« portata » o della «capacità » di un’«
anima » concreta oppure — il che già rappresenta una costruzione tutt'altro che
univoca — di un’« epoca» (come avviene nel libro di Simmel, Schopenhauer
und Nietzsche”). È fuori di dubbio, naturalmente, che quel «
progredire della differenziazione » esiste di fatto — con la riserva che non sempre esso c'è là dove si crede alla sua
presenza. L'attenzione per le sfumature
del sentimento, che viene crescendo nel periodo attuale — sia come conseguenza
dell’aumentata razionalizzazione e intellettualizzazione di tutti i settori
della vita, sia come conseguenza
dell’aumentata importanza soggettiva che
l'individuo attribuisce alle proprie manifestazioni di vita (per gli altri spesso estremamente indifferenti) —
facilmente illude sull’esistenza di una crescente differenziazione. Essa
può rappresentare questa differenziazione,
oppure promuoverla; ma l'apparenza
inganna con facilità, e io confesso che vorrei stimare abbastanza alta la
portata di tale illusione. Ad ogni modo il
fatto esiste. Designare una differenziazione progressiva come « progresso » è di per sé una questione di
opportunità terminologica. Ma che essa debba venir valutata come « progresso
» nel senso di una crescente « ricchezza
interiore », non può in ogni caso essere
deciso da nessuna disciplina empirica. Infatti
queste discipline non hanno competenza per stabilire se le nuove
possibilità di sentimento che si vengono sviluppando, o che sono tratte alla coscienza, con le nuove
«tensioni» e i nuovi « problemi » che in
certe circostanze comportano, debbano venir riconosciute come « valori ». Chi
però non voglia assumere una posizione
valutativa di fronte al fatto della differenziazione in quanto tale — cosa che
certamente nessuna disciplina empirica può proibire ad alcuno — e cerchi un
punto di vista adatto allo scopo, viene
di conseguenza condotto, anche da alcuni
fenomeni contemporanei, di fronte alla questione del prezzo che questo processo, in quanto è
diventato qualcosa di più di un'illusione
intellettualistica, è «costato ». Egli non potrà ad esempio dimenticare che la
caccia all’Erlebzis — questo valore alla
moda peculiare della Germania contemporanea —
può essere in misura assai forte il prodotto di una diminuzione della
forza di sostenere interiormente la « vita quotidiana», e che quella
pubblicità, che l’individuo sempre più sente
7. Schopenhauer und Nietzsche, ein Vortragszyklus, Leipzig. il bisogno
di dare al suo Erleden, potrebbe pure essere valutata come una perdita nel sentimento della
distanza, e quindi dello stile e della
dignità. In ogni caso, nel campo delle valutazioni dell’Erleben soggettivo il « progresso della
differenziazione » è identico con
l’aumento del « valore » soltanto nel senso intellettualistico di un
accrescimento dell’Erleden consapevole, oppure
dell’accrescimento della capacità di espressione e della comunicabilità. Le cose sono alquanto più complicate a
proposito dell’applicabilità del concetto di « progresso » (nel senso di
valutazione) al campo dell’arse. Essa
viene talvolta contestata con violenza;
e, a seconda del senso in cui viene intesa, a ragione o a torto. Non c'è mai stata nessuna considerazione
valutativa dell’arte che potesse
procedere con l’antitesi esclusiva di « arte» e « nonarte », facendo a meno
delle distinzioni tra tentativo e riuscita,
tra il valore delle diverse riuscite, tra la riuscita compiuta e quella che risulta infelice in qualche punto
specifico, oppure in parecchi e anche
importanti, ma tuttavia non è senz'altro priva
di valore — e ciò non soltanto per una concreta volontà di creazione artistica, ma anche per la volontà
artistica di epoche intere. Il concetto
di un « progresso », applicato a queste situazioni, appare banale, a causa del
suo impiego in riferimento a puri
problemi tecnici. Ma esso non risulta di per sé privo di senso. Assai differente appare il problema
per la storia dell’arte e per la sociologia dell’arte, condotte in modo
puramente empirico. Per la prima non c’è naturalmente un « progresso» dell’arte
nel senso della valutazione estetica di opere
d’arte come opere riuscite in maniera dotata di senso; poiché questa valutazione non può venir compiuta con
i mezzi della considerazione empirica, e
si pone completamente al di là del suo
lavoro. Invece proprio essa può impiegare un concetto di « progresso.» puramente tecnico, razionale e
quindi univoco, del quale si deve adesso
parlare — e la cui utilità per la storia
empirica dell’arte deriva dal fatto che questo si limita esclusivamente
alla determinazione dei 72e2z1 tecnici che una determinata volontà artistica
usa per una data intenzione. L'importanza
per la storia dell’arte di queste analisi così rigorosamente definite è
facilmente sottovalutata, oppure fraintesa nel senso di identificarle con una
supposta « conoscenza », del tutto subalterna e
MAX WEBER 661 non genuina, che
pretende di aver «inteso » un artista quando
ha sollevato la tenda del suo laboratorio ed esaminato i suoi mezzi esteriori di rappresentazione, cioè la
sua « maniera ». Soltanto il progresso «
tecnico », preso nel suo significato corretto, è di competenza della storia
dell’arte, poiché proprio esso — e la
sua influenza sulla volontà artistica — costituisce ciò che di empiricamente determinabile vi è nel
corso dello sviluppo dell’arte, senza implicare il ricorso a una valutazione
estetica. Prendiamo alcuni esempi che possano illustrare i reali significati dell'elemento
«tecnico », nel senso genuino del termine,
per la storia artistica.
L'origine del gotico fu in prima linea il risultato della soluzione
tecnica di un problema di copertura degli spazi, in sé di pura tecnica architettonica — la questione
dell’ottimo, dal punto di vista tecnico, per l’edificazione di contrafforti di
sostegno di una volta a croce, congiunta
ad alcuni altri particolari che non
occorre qui discutere. Vennero risolti problemi architettonici molto concreti;
e la conoscenza che in tale maniera diventava possibile una determinata maniera
di copertura di spazi non quadrati
suscitò l’entusiasmo appassionato di quegli architetti, per adesso e forse per sempre ignoti, ai
quali è dovuto lo sviluppo del nuovo
stile di costruzione. Il loro razionalismo
tecnico condusse il nuovo principio a tutte le sue conseguenze. La loro volontà artistica lo utilizzò come
possibilità di risolvere compiti fino allora impensati, e spinse quindi la
plastica sulla via di un nuovo «senso
del corpo», suscitato in primo luogo
dalle nuove elaborazioni di spazio e di piani dell’architettura, Che questa
trasformazione, di carattere in primo luogo
tecnico, si sia incontrata con certi contenuti di sentimento, condizionati in forte misura sociologicamente
o dalla storia religiosa, fornì gli elementi essenziali di quel materiale di
problemi con i quali lavorò la creazione artistica dell’epoca del gotico.
Allorché la considerazione storica e sociologica dell’arte ha posto in luce queste condizioni oggettive,
tecniche o sociali o psicologiche, del
nuovo stile, essa esaurisce il suo compito puramente empirico. Ma essa non «
valuta » con ciò lo stile gotico in
rapporto a quello romanico oppure a quello rinascimentale, anch'esso fortemente orientato in vista del
problema tecnico della cupola, e insieme
in vista dei mutamenti dell'ambito di
662 MAX WEBER lavoro
dell’architettura, condizionati pure sociologicamente; né « valuta » esteticamente, finché rimane una
storia empirica dell’arte, la singola costruzione. Anzi, l’interesse per le
opere d’arte e le sue particolari qualità esteticamente rilevanti, quindi il
suo oggetto, è ad essa eteronomo, cioè dato 4 priori in base al valore estetico
che, con i suoi mezzi, essa non può affatto stabilire. Lo stesso avviene per
esempio nel campo della storia della musica. Dal punto di vista dell’inzeresse
dell’uomo europeo moderno («riferimento di valore »!) il suo problema centrale
è questo: perché la musica armonica si
sia sviluppata dalla polifonia, affermatasi quasi ovunque su base popolare,
soltanto in Europa e in un determinato
spazio di tempo, mentre altrove la
razionalizzazione della musica si è incamminata per un’altra strada, il più delle volte precisamente
opposta, e cioè per la strada di uno
sviluppo degli intervalli mediante la divisione
delle distanze (per lo più una quarta) anziché mediante la divisione armonica (una quinta). Al centro si
colloca il problema dell'origine della terza nella sua interpretazione
armonica, cioè come elemento della
triade, e inoltre il problema del cromatismo armonico e ancora della ritmica
musicale moderna (della cadenza lenta e
veloce) — invece della cadenza puramente metronomica — vale a dire di una
ritmica senza la quale è impensabile la
moderna musica strumentale. Si tratta qui di
nuovo prevalentemente di problemi di « progresso » razionale, e puramente tecnico. Che per esempio il
cromatismo fosse noto molto prima della
musica armonica, come mezzo di rappresentazione della « passione », risulta
infatti dall'antica musica cromatica (presumibilmente mono-armonica) per gli
appassionati Sé,uror del frammento di
Euripide di recente scoperto. Non nella
volontà espressiva artistica, bensì nei mezzi espressivi tecnici stava la
differenza di questa musica antica nei confronti di quella cromatica che i grandi innovatori
musicali del Rinascimento crearono in un’impetuosa aspirazione razionale alla
scoperta — per poter appunto dare forma musicalmente alla « passione ». La
novità tecnica era però che questo cromatismo diventava quello dei nostri
intervalli armonici, e non già quello
delle distanze melodiche di semitono, o di quarto di tono, degli Elleni. E che potesse diventare tale,
ha a sua volta il fondamento in
precedenti soluzioni di problemi tecnico-RAZIONALI; cioè soprattutto nella
creazione della notazione razionale
(senza la quale nessuna moderna composizione sarebbe nemmeno
concepibile), e già prima nella creazione di determinati strumenti che costrinsero all’interpretazione
armonica di intervalli musicali, nonché, in particolare, del canto polifonico
razionale. Un contributo molto importante a queste scoperte lo aveva però
fornito, nel primo Medioevo, il monachesimo dell’area missionaria nord-occidentale, il quale, senza
presagire la posteriore portata della propria opera, razionalizzò per i suoi
scopi la polifonia popolare, invece di
organizzare la propria musica — come
fece il monachesimo bizantino — sul modello del
uerorotég tratto dagli Elleni. Le caratteristiche concrete, condizionate
sociologicamente e dalla storia religiosa, della situazione esterna e interna
della chiesa cristiana in Occidente consentirono qui che da un razionalismo
proprio soltanto del monachesimo occidentale sorgesse questa problematica
musicale, che era nella sua essenza di
carattere «tecnico». Dall'altra parte
l'adozione e la razionalizzazione della misura di danza, che è la fonte delle forme musicali sfocianti nella
sonata, furono condizionate da certe forme di vita della società
rinascimentale. Infine lo sviluppo del
pianoforte, cioè di uno dei più importanti portatori tecnici dello sviluppo
musicale moderno e della sua diffusione
nella borghesia, si radicò nello specifico carattere intra-domestico della cultura
nord-europea. Sono tutti « progressi » dei mezzi tecnici della musica, che
hanno così fortemente determinato la sua storia. La storia empirica della
musica potrà e dovrà appunto seguire queste componenti dello sviluppo storico,
senza avanzare, da parte sua, una valutazione
estetica delle opere musicali. Il « progresso » tecnico si è molto spesso compiuto in prodotti che, valutati
esteticamente, appaiono del tutto insufficienti. Ma la direzione di interesse,
cioè l'oggetto da spiegare storicamente,
è data alla storia della musica eteronomamente, mediante la sua significatività
estetica. Per il campo dello sviluppo
della pittura, la nobile modestia
dell’impostazione problematica di Die k/assische Kunst di Wélfflin®
costituisce un esempio eminente delle fecondità di un lavoro empirico. 8. Heinrich von Woélfflin, storico dell’arte
tedesco, autore dei Prole664 MAX WEBER
La piena separazione della sfera dei valori dalla realtà empirica emerge
poi in maniera caratteristica dal fatto che l’impiego di una determinata
zecnica, per quanto « progressiva », non
implica nulla sul valore estetico dell’opera d'arte. Opere d'arte create con la tecnica più « primitiva» — per
esempio quadri privi di ogni nozione di
prospettiva — possono risultare esteticamente di eguale dignità di quelle più
perfette prodotte mediante la tecnica razionale, se si presuppone che la
volontà artistica si sia limitata a
quelle formulazioni che sono adeguate a
tale tecnica « primitiva ». La creazione di nuovi mezzi tecnici rappresenta soltanto una crescente
differenziazione, e dà soltanto la possibilità di una crescente « ricchezza »
dell’arte, nel senso di un incremento di
valore. Di fatto essa ha avuto, non di
rado, l’effetto opposto di un «impoverimento» del senso della forma. Ma per la considerazione
empirico-causale è proprio il mutamento della «tecnica» (nel senso più alto
del termine) che costituisce l'elemento
di sviluppo più importante dell’arte,
che si può determinare in linea generale.
Non soltanto gli storici dell’arte, ma gli storici in genere replicano di solito che essi non possono
rinunciare al diritto di una valutazione
politica o culturale o etica o estetica, né sono in grado di compiere, senza di essa, il
proprio lavoro. La metodologia non ha né
la forza né il proposito di prescrivere a
chicchessia ciò che egli intende offrire in un’opera letteraria. Essa si prende, da parte sua, soltanto il
diritto di stabilire che certi problemi
hanno un senso tra loro eterogeneo, che il loro
scambio reciproco conduce la discussione a uno sterile gioco di contrapposizioni, e che quindi una
discussione condotta con i mezzi della
scienza empirica o della logica per gli uni è fornita di senso, e per gli altri
è invece impossibile. Forse si può qui
aggiungere, senza per ora inoltrarci nella sua dimostrazione, un'osservazione
generale: un'analisi attenta di lavori storici mostra con facilità che lo
sforzo di seguire la catena causale, storico-empirica, viene quasi senza
eccezione interrotto, a danno dei
risultati scientifici, allorché lo storico comincia a gomena zu einer Psycologie der Architektur
(1866), di Renaissance und Barock (1888),
di Die Klassische Kunst (1899), dei Kunstgeschichtliche Grundbegrifle
(1915), dei Gedanken zur Kunstgeschichte (1940) e di varie altre opere. MAX WEBER 665
«valutare ». Egli incorre allora nel pericolo, per esempio, di « spiegare » come conseguenza di una «
mancanza » o di una « caduta » ciò che
forse era effetto di ideali a lui eterogenei del soggetto che agisce, e pecca quindi di fronte
al suo compito più proprio — quello
dell’« intendere ». Il fraintendimento si spiega per due ragioni. In primo
luogo per il fatto che, restando
all’arte, la realtà artistica è accessibile, oltre che alla pura
considerazione valutativa estetica da un lato e dall’altro alla pura considerazione empirica, mirante alla
determinazione delle cause, anche a una terza specie di considerazione —
all’interpretazione di valore (sulla cui essenza non occorre qui ripetere
ciò che si è detto in altra sede). Sul
suo valore specifico, e sulla sua
indispensabilità per ogni storico, non sussiste alcun dubbio; e così pure non c’è alcun dubbio che il
consueto lettore di studi di storia
dell’arte si aspetta di trovare anche, e per l’appunto, questa trattazione.
Soltanto che essa, presa nella sua
struttura logica, non è identica con la considerazione empirica. Questo però si deve riconoscere: chi vuole
svolgere indagini di storia dell’arte,
per quanto puramente empiriche, deve possedere la capacità di «intendere» la
produzione artistica — e questo non è assolutamente concepibile senza quella
capacità di giudizio estetico, cioè senza la capacità di valutazione. La stessa
cosa vale pure per lo storico della politica o della lettera- tura o della
religione o della filosofia. Ma ovviamente ciò non implica nient'altro
sull’essenza logica del lavoro storico.
Di ciò si dirà oltre. Qui si doveva discutere semplicemente la questione del senso in cui, a/ di fuori
della valutazione estetica, si può
parlare di « progresso » in sede di storia dell’arte. È risultato che questo
concetto acquista un senso tecnico e
razionale che designa i mezzi necessari per un certo proposito artistico, e può diventare come tale
significativo per la storia dell’arte
empiricamente condotta. È ora tempo di indagare questo concetto di progresso «
razionale » nel suo campo più proprio, considerandolo nel suo carattere
empirico o non-empirico. Poiché quanto
si è detto è soltanto un caso particolare di una circostanza molto universale. La maniera in cui Windelband ha delimitato il
tema della sua Geschichte der
Philosophie — «il processo mediante cui
l'umanità europea ha formulato la sua concezione del mondo in concetti
scientifici» — conduce nella sua pragmatica, a mio parere assai brillante, all'impiego di uno
specifico concetto di « progresso » che
deriva da questo riferimento a valori culturali
(e di cui egli trae le conseguenze); e questo concetto da un lato risulta nient’affatto evidente per ogni
« storia » della filosofia, dall'altro, se si assume un corrispondente
riferimento a valori culturali, vale non
soltanto per una storia della filosofia,
e neppure soltanto per la storia di qualsiasi altra disciplina, ma — diversamente da quanto Windelband sostiene!
— per ogni « storia» in generale.
Ciononostante, qui di seguito dobbiamo
parlare soltanto di quei concetti razionali di « progresso », che occupano un posto nelle nostre discipline
sociologiche ed economiche. La nostra vita sociale ed economica,
europeo-americana, risulta «
razionalizzata » in un modo e in un senso specifico. Spiegare questa razionalizzazione, e
elaborare i concetti ad essa corrispondenti, è quindi uno dei principali
compiti delle nostre discipline. Perciò
ricompare il problema toccato nell’esempio della storia dell’arte, ma lasciato
in quella sede aperto: che cosa vuol
dire propriamente la designazione di un processo come « progresso razionale » ? Si ripete anche qui la combinazione di «
progresso » nel triplice senso: 1) di un
mero « progredire » nella differenziazione; 2) di una progressiva razionalità
tecnica dei mezzi; 3) di un incremento
di valore. In primo luogo un comportamento soggettivamente « razionale » non è
identico con un agire razionalmente « corretto », che impieghi cioè
oggettivamente mezzi corretti, in conformità alla conoscenza scientifica. Ma
esso di per sé significa soltanto che il
proposito soggettivo è diretto a un
orientamento ordinato in vista di mezzi ritenuti corretti per un dato scopo. Una progressiva razionalizzazione
soggettiva dell’agire non è quindi, di necessità, anche oggettivamente un «
progresso » nella direzione verso l’agire razionalmente « corretto ». La magia, per esempio, è stata
sistematicamente « razionalizzata » al pari della fisica. La prima terapia
deliberatamente «razionale » ha
significato quasi ovunque un disprezzo per la
9. Lelrbuch der Geschichte der Philosophie, Frciburg, i.B. cura dei
sintomi empirici con erbe e bevande provate solo empiricamente, a favore dello
sforzo di scacciare le « cause » (magiche o demoniache) « vere e proprie »
della malattia. Essa aveva perciò,
formalmente, la medesima struttura razionale che rivestono parecchi dei più
importanti progressi della terapia moderna. Ma noi non potremo valutare quelle
terapie magiche di sacerdoti come «
progresso » verso un agire «corretto », in
antitesi a quell'empiria. E d’altra parte non ogni « progresso» nella
direzione verso l’impiego dei mezzi «corretti» è conseguito mediante un «progredire» nel primo
senso, cioè nel senso soggettivamente
razionale. Che un agire più razionale soggettivamente progressivo conduca a un
agire oggettivamente « più conforme allo scopo », è soltanto una tra più
possibilità, e rappresenta un processo da aspettarsi con una (diversamente
grande) probabilità. Se però nel caso specifico è corretta la proposizione la quale asserisce che la
regola x è il mezzo (possiamo assumere
il solo) per raggiungere l’effetto y — ciò
che costituisce una questione empirica, poiché si tratta della semplice inversione della proposizione
causale: a x segue y — e se ora questa
proposizione viene consapevolmente assunta da
certi uomini per l'orientamento del proprio agire in vista dell’effetto
y — il che è pure determinabile empiricamente — 4/lora il loro agire risulta
orientato in modo « tecnicamente corretto ». Se l’atteggiamento umano (di
qualsiasi specie) è orientato in qualche
punto particolare in modo tecnicamente « più corretto» di prima, ha luogo un «
progresso tecnico ». Se questo sia il
caso, è — naturalmente presupponendo sempre l’assoluta univocità dello scopo
che viene stabilito — una determinazione
che una disciplina empirica deve compiere di fatto con i mezzi dell’esperienza scientifica, ossia una
questione empirica. Vi sono quindi, in
questo senso — ben inteso, dato un certo
scopo 4nivoco — concetti univocamente determinabili di correttezza
«tecnica», e di progresso «tecnico» nei mezzi (dove qui « tecnica » viene intesa nel suo senso
più ampio, cioè come comportamento
razionale valido in tutti i campi, anche in quelÈ, della manipolazione e del
dominio politico, sociale, educatio, propagandistico sulle masse). Si può in
particolare (per accennare soltanto alle
cose che ci toccano da vicino) parlare in
maniera abbastanza univoca di « progresso » nel campo specifico chiamato
di solito «tecnica», al pari però che nel campo
della tecnica commerciale o anche di quella giuridica, se si assume qui come punto di partenza uno stato
univocamente determinato di una
formazione concreta. Approssimativamente, infatti, i singoli princìpi
tecnicamente razionali, come ogni
esperto sa, entrano tra loro in conflitto, e tra di essi si può trovare sì un equilibrio da qualche punto di
vista di coloro che vi sono
concretamente interessati, ma non mai in maniera «oggettiva». E assumendo dati bisogni,
stabilendo inoltre che tutti questi
bisogni in quanto tali, nonché la valutazione della loro importanza soggettiva, debbano essere
sostrazti alla critica, infine presupponendo una data maniera di ordinamento economico — di nuovo con la riserva che per
esempio gli interessi alla durata, alla
sicurezza e alla fecondità del soddisfacimento di questi bisogni possono
entrare, ed entrano, in conflitto — c'è anche un progresso «economico » verso
un optimum relativo di copertura del fabbisogno nel caso di date possibilità di mezzi disponibili. Ma c’è
soltanto in base a questi presupposti e a queste limitazioni. È stato fatto il tentativo di derivare da ciò
la possibilità di valutazioni univoche,
e perciò puramente economiche. Un
esempio caratteristico in merito è il caso, citato dal prof. Liefmann
", della distruzione di proposito dei beni di consumo scesi al di sotto del prezzo di costo,
nell’interesse della redditività dei produttori. Questa distruzione dovrebbe
essere valutata anche come
oggettivamente « corretta dal punto di vista economico ». Ma tale illustrazione
e tutte le altre simili — questo è
quanto ci interessa — assumono come evidenti una serie di presupposti che non lo sono; assumono cioè
non soltanto che l'interesse
dell'individuo vada oltre la sua morte, ma anche che esso deve valere come tale, una volta per
sempre. Senza questa trasposizione
dall’« essere » al « dover essere » la valutazione in questione, che si
pretende puramente economica, non
potrebbe venir effettuata univocamente. Poiché senza di essa, per
esempio, non si può parlare degli interessi dei « produtto- ri» e dei
«consumatori» come di interessi di persone che si 12. Robert Liefmann
{1874-1941), economista tedesco, autore dell’opera Die Un- ternchmungsformen
(1912) e di altri scritti. MAX WEBER 669 perpetuano. Che l'individuo prenda in
considerazione gli interessi dei suoi eredi, non è però più una circostanza
puramente economica. Agli uomini viventi
vengono qui sostituiti piuttosto degli
interessati, i quali utilizzano il « capitale » nelle loro «imprese » ed
esistono per queste imprese. Ciò costituisce una finzione utile per scopi
teorici; ma anche come finzione non si
adatta alla situazione dei lavoratori, e in particolare di quelli senza figli. In secondo luogo essa ignora il
fatto della « situazione di classe » la quale, sotto il dominio del principio
di mercato, può assolutamente peggiorare (non che debba necessariamente), non
già nonostante ma proprio ir conseguenza della distribuzione « ottima » di
capitale e lavoro nei diversi rami produttivi — ottima in quanto valutata dal
punto di vista della redditività — il rifornimento di beni per certi strati di
consumatori. Infatti quella
distribuzione « ottima » della redditività, che condiziona la costanza
dell’investimento di capitale, dipende a sua
volta dalle costellazioni di forze esistenti tra le classi, le cui conseguenze possono nel caso concreto (non
già che debbano necessariamente) indebolire la posizione di quegli strati nella
lotta per i prezzi. In terzo luogo essa ignora la possibilità di durevoli antitesi di interessi, prive di
possibilità di composizione, tra i membri di diverse unità politiche; e quindi
prende partito 4 priori per l’«
argomento della libertà di commercio »,
che si tramuta così, da mezzo euristico estremamente utile, in una «valutazione » tutt'altro che evidente,
appena da esso si traggano postulati
concernenti il dover essere. Quando però,
per uscire da questo conflitto, essa presuppone l’unità politica dell'economia mondiale (il che teoricamente è
senz'altro permesso), allora l’ineliminabile possibilità della critica che
suscita la distruzione di quei beni
consumabili nell'interesse dell’optimum di redditività permanente (dei prodotti
e dei consumatori) offerta dai rapporti esistenti — quale viene qui
presupposto — si sposta semplicemente
nella sua ampiezza. La critica si dirige
cioè contro l’intero principio del rifornimento del mercato in base a tali
direttive, risultanti dall’optimum di redditività, esprimibile in denaro, di
singole economie in rapporto di scambio
— si dirige contro il principio în quanto tale. Un'organizzazione di
rifornimento dei beni, non organizzata in forma
di mercato, non avrebbe alcun motivo per tener conto della costellazione
di interessi economici individuali data in base al principio di mercato, e perciò non sarebbe
neppur costretta a sottrarre al consumo
quei beni già esistenti. Soltanto se si
presuppongono le seguenti condizioni: 1) esclusivi interessi di redditività
permanenti, di persone concepite come
costanti e con bisogni anch'essi concepiti come costanti per lo scopo; 2) esclusivo dominio
dell’organizzazione di rifornimento dei beni fondata sul capitale privato,
mediante uno scambio di mercato
completamente libero; 3) una potenza statale non interessata come mero garante
giuridico — soltanto a queste condizioni
la concezione del prof. Liefmann risulta corretta anche solo dal punto di vista
teorico, e perciò giusta in maniera
ovvia. Infatti la valutazione concerne allora i mezzi razionali per la migliore soluzione di un
problema tecnico particolare di distribuzione dei beni. Le finzioni
dell’economia pura, utili a scopi
teorici, non possono però essere trasformate
in base di valutazioni pratiche di fatti reali. Rimane stabilito che la teoria economica non può asserire
assolutamente nient’altro che questo: per il dato scopo tecnico x la regola y è
il solo mezzo appropriato, oppure lo è
insieme a yy e a y, — e nell’ultimo caso tra y, yi e y. vi sono differenze del
modo di operare ed eventualmente di
razionalità; la loro applicazione e il conseguimento dello scopo x obbligano a
tener conto delle « conseguenze concomitanti » 2, z, e 2. Tutto ciò è il
risultato di semplici inversioni di
proposizioni causali; e nella misura in
cui si possono riferire ad esse delle « valutazioni », queste risultano
esclusivamente valutazioni del grado di razionalità di un’azione prospettata.
Le valutazioni sono univoche soltanto quando lo scopo economico e le condizioni
di struttura sociale appaiono date, quando si tratta soltanto di scegliere tra
diversi mezzi economici, e quando questi
sono diversi soltanto in riferimento alla sicurezza, alla rapidità e alla
produttività quantitativa dell'effetto, ma funzionano in maniera del tutto
identica sotto ogni altro rispetto che
possa risultare importante per gli
interessi umani. Soltanto allora un mezzo deve essere anche valutato incondizionatamente come quello
«tecnicamente più corretto », e questa
valutazione risulta univoca. In ogni altro
caso, che non sia puramente tecnico, la valutazione cessa di essere
univoca, e si presentano valutazioni che non possono venir determinate su base puramente
economica. Ma con la determinazione
dell’univocità di una valutazione
tecnica entro la sfera puramente economica z0n si perviene, naturalmente, a una univocità della «
valutazione » definitiva. Piuttosto, al
di là di queste discussioni comincerebbe il turbine della infinita molteplicità di possibili
valutazioni, che possono venir
controllate soltanto riportandole ad assiomi ultimi. Infatti — per menzionare una cosa soltanto — dietro
l’«azione» sta l’uomo, per il quale il
progredire della razionalità soggettiva e
della «correttezza» tecnico-oggettiva dell'agire in quanto tale può valere, al di sopra di un certo grado — e
anzi, in base a certe concezioni, in
maniera del tutto generale — come un
pericolo a cui vengono esposti i beni importanti (ad esempio quelli etici o religiosi). Difficilmente
qualcuno di noi condividerà l’etica (estrema) buddistica, che respinge ogni
azione diretta a uno scopo perché essa è
tale, cioè in quanto allontana dalla
redenzione. Ma «confutarla », nel senso in cui si confuta un falso esempio aritmetico oppure un’errata diagnosi
medica, è semplicemente impossibile. Pur
senza ricorrere a esempi così estremi, è
però agevole comprendere che i processi di razionalizzazione economica, per
quanto senza dubbio « tecnicamente
corretti», non sono in nessuna maniera legittimati di fronte al foro della valutazione per questa loro
qualità. Ciò vale per tutti i processi
di razionalizzazione, nessuno escluso, comprendendovi pure campi in apparenza
puramente tecnici come quelli della banca. Coloro che si oppongono a tali
processi di razionalizzazione non sono
affatto necessariamente dei pazzi.
Piuttosto, ogni qual volta si voglia valutare, si deve prendere in
considerazione l’influenza dei processi di razionalizzazione tecnica sulla
modificazione dell’insieme delle condizioni
di vita, esterne e interne. Sempre, e senza eccezione, il concetto di
progresso legittimo nelle nostre discipline riguarda l’aspetto « tecnico », il
che vuol dire — come si è accennato — il
«mezzo» necessario per uno scopo dato univocamente. Mai esso si innalza alla sfera delle valutazioni
« ultime ». Dopo quanto si è detto, io
ritengo l’impiego del termine «
progresso » di per sé inopportuno anche nel campo limitato della sua applicabilità empiricamente
incontestabile. Ma non è mai possibile proibire ad alcuno l’uso di un termine;
sono soltanto da evitare i possibili
fraintendimenti. Rimane ora da
discutere, prima di giungere alla fine, un
ultimo gruppo di problemi concernenti la posizione dell’elemento
razionale entro le discipline empiriche.
Quando ciò che è normativamente valido diventa oggetto di indagine empirica, allora perde, in quanto
oggetto, il suo carattere di norma; esso viene considerato come «esistente »,
non come « valido ». Per esempio,
qualora la statistica volesse stabilire il numero degli «errori aritmetici»
entro una determinata sfera di calcolo
professionale — il che potrebbe pur avere un
senso scientifico — i princìpi fondamentali della tavola pitagorica
«varrebbero » per essa in due sensi del tutto diversi. Per un verso la loro validità normativa è
naturalmente il presupposto assoluto del suo proprio lavoro di calcolo. Ma per
un altro verso, per cui si indaga il
grado di applicazione «corretta » della tavola pitagorica in quanto oggetto
dell'indagine, le cose stanno, considerate logicamente, in maniera del tutto
diversa. Qui l’applicazione della tavola pitagorica da parte di quelle persone,
i cui calcoli sono oggetto di analisi statistica, viene studiata come una
massima effettiva di comportamento, divenuta loro abituale mediante
l’educazione; e si deve pertanto stabilire la frequenza della sua applicazione
di fatto, proprio come possono essere oggetto
di determinazione statistica certi fenomeni di pazzia. Che la tavola pitagorica
« valga » normativamente, sia cioè «corretta », non è oggetto di discussione in
questo caso, in cui l’« oggetto » è
invece la sua applicazione; ed è anzi
logicamente del tutto indifferente. Lo statistico, nel corso della sua analisi statistica dei calcoli delle
persone su cui indaga, deve da parte sua
naturalmente adeguarsi a questa convenzione, di calcolare « secondo la tavola
pitagorica ». Ma egli dovrebbe parimenti impiegare un procedimento di calcolo «
falso », quale risulta se valutato
normativamente, nel caso in cui esso
fosse stato ritenuto «corretto» in un gruppo umano ed egli dovesse indagare statisticamente la frequenza
della sua applicazione di fatto, che appariva «corretta » dal punto di vista
di quel gruppo. Per ogni considerazione
empirica, sociologica o storica, la
nostra tavola pitagorica, nel caso in cui si presenti come oggetto dell'indagine, è una massima di
comportamento MAX WEBER 673 pratico valida convenzionalmente in un gruppo
umano, e seguita con maggiore o minore approssimazione, e nient'altro.
Ogni esposizione della dottrina
pitagorica della musica deve anzitutto assumere il calcolo « falso » — per il
nostro sapere — che 12 quinte siano
eguali a 7 ottave. Così pure ogni storia della logica deve assumere l’esistenza
storica di asserzioni logiche (per noi)
contraddittorie — ed è umanamente comprensibile, ma non rientra tuttavia nel compito di un'analisi
scientifica, che si possa accompagnare
tali « assurdità » con esplosioni di sdegno,
come ha fatto uno storico assai eminente della logica medievale 13 Questa metamorfosi di verità normativamente
valide in opinioni valide convenzionalmente, alla quale sottostanno intere
formazioni spirituali, anche i princìpi logici o matematici — metamorfosi che
ha luogo quando tali verità diventano oggetto di una considerazione che si riferisce al loro
essere empirico, e non già al loro senso
(normativamente) corretto — avviene in
maniera del tutto indipendente dalla circostanza che la validità normativa delle verità logiche e matematiche
costituisce d’altra parte l’a priori di
ogni scienza empirica. Meno semplice è la
loro struttura logica nel caso di quella funzione già prima accennata, che loro spetta nell'indagine
empirica di connessioni spirituali, e
che deve di nuovo essere distinta con cura dalle altre due — cioè dalla loro posizione come
oggetto di ricerca e dalla loro
posizione come 4 priori della ricerca. Ogni scienza di connessioni spirituali o sociali
costituisce una scienza del
comportamento «ma7z0 (facendo rientrare nell’ambito di tale concetto, in questo caso, ogni atto
spirituale e ogni abito psichico). Essa vuole « intendere » questo comportamento
e per questa via « interpretare esplicativamente » il suo corso. Non possiamo
qui trattare il difficile concetto di «intendere»; a noi interessa, in questo contesto, soltanto una
sua specie particolare, cioè l'interpretazione « razionale ». Noi «intendiamo »
ovviamente senz’altro che un pensatore « risolva » un determinato « problema » nel modo che noi stessi riteniamo
normativamente «corretto », che per esempio un uomo calcoli in maniera 13. Weber allude qui alla Geschichte der
Logik im Abendland di Karl Prand,
Leipzig, 1855-70. 43. STORiCISMO
TEDESCO. 674 MAX WEBER «corretta» o che impieghi per uno scopo che
si propone i mezzi — a nostro parere — «
corretti ». E la nostra comprensione di questi processi è quindi
particolarmente evidente, poiché si
tratta appunto della realizzazione di ciò che è oggettivamente « valido ». E
tuttavia ci si deve guardare dal credere che in
questo caso ciò che è normativamente corretto appaia, dal punto di vista
logico, nella medesima struttura che riveste nella sua posizione generale come 4 priori di ogni
indagine scientifica. Piuttosto la sua funzione come mezzo dell’«intendere »
è precisamente la stessa che la «
penetrazione simpatetica » puramente psicologica compie nelle connessioni
logicamente i irrazionali dei sentimenti e degli affetti, allorché si tratta di
conoscerle attraverso la comprensione. Non già la correttezza normativa, bensì
da una parte le abitudini convenzionali del ricercatore e del docente a pensare
così e non altrimenti, dall’altra però
anche, nel caso in cui sia richiesta, la sua capacità di poter « penetrare simpateticamente », a scopo
di comprensione, in un pensiero che si
discosta da quel modo, e che gli appare
quindi normativamente « falso » secondo le sue abitudini, rappresentano
qui il mezzo della spiegazione comprendente. Già il fatto che il pensiero «falso», cioè l’«errore
», sia in linea di principio accessibile
alla comprensione al pari del pensiero
«corretto », dimostra infatti che ciò che vale come normativamente «corretto»
viene qui considerato non 12 quanto tale,
ma soltanto come un tipo convenzionale, assai facilmente intelligibile.
Ciò conduce ora a un'ultima constatazione sulla funzione di ciò che è
normativamente corretto nell’ambito della conoscenza sociologica. Già allo scopo di «intendere » un calcolo,
oppure un’asserzione logica «falsa», e di stabilire e di rappresentare il
suo influire in quelle conseguenze di
fatto che ha avuto, si dovrà ovviamente
non soltanto provarlo calcolando « correttamente », oppure pensando logicamente in maniera
corretta, ma anche indicare
esplicitamente, con i mezzi del calcolo «corretto » o della logica « corretta », quel punto in cui
il calcolo o l’asserzione logica in esame diverge da ciò che l’autore considera
da parte sua come normativamente
«corretto ». E ciò non di necessità soltanto per quello scopo
pratico-pedagogico, che per esempio Windelband pone in primo piano
nell’Introduzione alla sua Geschichte der Philosophie" (stabilire « tavole
di ammonimento » contro « vie errate »), e che costituisce soltanto
un’auspicabile prodotto secondario del lavoro storico. E ciò neppure perché ogni problematica storiografica, nel
cui oggetto rientri no conoscenze
logiche o matematiche o scientifiche di altro
genere, debba inevitabilmente avere a propria base come unica possibile relazione di valore ultima,
decisiva per la selezione, soltanto il
«valore di verità» da noi riconosciuto valido, e quindi il « progresso » in direzione di
questo; sebbene poi, se questo fosse
effettivamente il caso, rimarrebbe da tener presente la circostanza sovente constatata da
Windelband, che il « progresso » in questo senso ha varie volte imboccato,
invece della strada diretta, quella che
— in termini economici — si può dire la
«deviazione più redditizia » attraverso «errori», cioè attraverso confusioni di problemi. Ciò accade
invece perché (anzi solo in quanto) quei
punti in cui la formazione spirituale, indagata come oggetto, diverge da ciò
che l’autore deve ritenere «corretto »,
diventeranno di regola per lui importanti
— vale a dire specificamente «caratteristici» ai suoi occhi, e quindi, dal suo punto di vista, o riferiti
direttamente ai valori oppure legati in
rapporto causale con altri aspetti riferiti ai
valori. Ciò avverrà normalmente quanto più il valore di verità di certi princìpi è il valore direttivo di
un'esposizione storica, particolarmente
della storia di una determinata « scienza » (per esempio della filosofia o dell’economia
politica teorica). Ma questo non è affatto il caso esclusivo. Una situazione
almeno analoga sì presenta ovunque un agire soggettivamente razionale, secondo
il suo proposito, forma in genere l’oggetto di una rappresentazione, e ovunque
«errori di pensiero » o «errori di calcolo » possono costituire delle
componenti causali del corso dell’agire. Per «intendere » per esempio la condotta
di una guerra si dovrà inevitabilmente immaginare da entrambe le parti — sebbene non necessariamente in forma
esplicita o dettagliata — un ideale comandante supremo, al quale sia nota la situazione generale e la dislocazione delle
forze militari contrapposte, e siano pure note e continuamente presenti le
possibilità che ne derivano di conseguire il fine, in concreto univocamente
determinato, della distruzione della potenza militare avversaria — e che in
base a questa conoscenza abbia agito senza
errori, e anche « senza sbagliare » logicamente. Soltanto allora si può stabilire con precisione quale
influenza ha avuto sull’andamento delle cose la circostanza che i comandanti
reali non abbiano posseduto né quella
conoscenza né questa immunità dagli
errori, e non siano stati in genere delle macchine per pensare razionali. La costruzione razionale
ha qui pertanto il valore di servire
come mezzo di corretta « imputazione » causale. Il medesimo senso hanno quelle
costruzioni utopiche di un agire razionale
rigoroso e privo di errori, che crea la teoria
economica « pura ». Allo scopo
dell’imputazione causale di processi empirici noi abbiamo bisogno appunto di costruzioni
razionali, tecnico-empiriche o anche logiche, le quali rispondano a questa
questione: come, nel caso di una «
correttezza » e « non-contraddittorietà »
assolutamente razionale, sia empiricamente sia logicamente, potrebbe
configurarsi (oppure essersi configurata) una certa circostanza, che
rappresenta o una connessione esterna dell’agire o anche una formazione
concettuale (per esempio un sistema filosofi
co). Considerata dal punto di vista logico, la costruzione di una siffatta utopia razionalmente «corretta» è
però soltanto una delle diverse
formazioni possibili di un « tipo ideale » — come ho definito (in una terminologia per me
preferibile a ogni altra espressione)
tali costrutti concettuali. Infatti non soltanto è possibile concepire, come si
è detto, dei casi in cui una conclusione
caratteristicamente fa/sa oppure un determinato atteggiamento tipico contrario allo scopo possono rendere,
come tipo ideale, un migliore servizio;
ma soprattutto vi sono intere sfere di
atteggiamento (le sfere dell’« irrazionale »), nelle quali può meglio servire a tale proposito non già il
massimo di razionalità logica, bensì semplicemente una univocità conseguita
mediante l’astrazione isolante. Di fatto il ricercatore impiega assai spesso dei «tipi ideali » costruiti in
maniera normativamente «corretta ».
Considerata logicamente, però, la «correttezza»
normativa di questi tipi non è cosa essenziale. Ma un ricercatore può,
per caratterizzare per esempio una forma specifica di coscienza tipica agli uomini di un’epoca,
costruire sia un tipo di coscienza che
gli appare personalmente conforme alla normasotto il profilo etico, e quindi in
tal senso oggettivamente « corretta », sia un tipo che gli appare invece
eticamente opposto alla norma — per comparare con esso l'atteggiamento degli
uomini sui quali sta indagando — oppure può infine costruire anche un tipo di coscienza a cui egli personalmente
non attribuisce nessun predicato positivo o negativo di qualsiasi specie. Ciò
che è normativamente « corretto » non ha
nessun monopolio per questo scopo. Infatti, quale che sia il contenuto di un
tipo ideale razionale — sia che esso rappresenti una norma di fede etica,
giuridica, estetica o religiosa, oppure una massima di politica giuridica o
sociale o culturale, oppure una « valutazione » di qualsiasi specie espressa nella forma il più possibile
razionale — la sua costruzione ha sempre, nell’ambito delle indagini empiriche,
soltanto lo scopo di « comparare » con esso la realtà empirica, e di stabilire
il suo contrasto o la sua lontananza da essa oppure il suo relativo accostarsi ad essa, per poterla
descrivere e intendere mediante
l'imputazione causale e quindi spiegarla, facendo uso di concetti intelligibili 11 più possibile
univocamente. Queste funzioni esplica,
per esempio, l’elaborazione concettuale della
dogmatica giuridica per la disciplina empirica della storia del diritto, e così pure la dottrina del calcolo
razionale per l’analisi dell’atteggiamento reale delle singole economie
nell’economia acquisitiva. Entrambe le discipline dogmatiche ora citate hanno naturalmente inoltre, in quanto
«dottrine tecniche », scopi
eminentemente pratico-normativi. Ed entrambe sono, in tale loro qualità di scienze dogmatiche, così
poco empiriche nel senso qui discusso
come possono esserlo la matematica o la
logica, l’etica normativa o l’estetica, da cui del resto esse
differiscono, per altri motivi, tanto quanto queste sono anche diverse tra loro.
La teoria economica, infine, è ovviamente una dogmatica in senso logicamente assai diverso da quello,
per esempio, della dogmatica giuridica.
I suoi concetti si riferiscono alla
realtà economica in maniera specificamente diversa da quella in cui i
concetti della dogmatica giuridica si riferiscono alla realtà dell’oggetto della storia o della
sociologia del diritto. Ma, come i
concetti dogmatici della scienza giuridica possono e debbono venir impiegati da queste ultime come
«tipi ideali », così questa specie di
impiego per la conoscenza della realtà sociale presente e passata costituisce
addirittura il senso esclusivo della teoria economica pura. Essa formula
determinati presupposti, che nella realtà non si trovano quasi mai attuati
in forma pura, ma che si riferiscono ad
essa con un diverso grado di
approssimazione, chiedendosi come in base ad essi verrebbe a configurarsi l’agire sociale degli uomini,
qualora esso procedesse in maniera strettamente razionale. Essa assume, in
particolare, il predominio di puri interessi economici ed esclude quindi l'influenza di orientamenti politici o di
altra specie non economica. In essa ha
però avuto luogo il tipico procedere di una « confusione di problemi ». Infatti
quella pura teoria « non-statale »,
«amorale », «individualistica », che è stata e sarà sempre
indispensabile come strumento metodico, è stata concepita dalla scuola liberistica radicale come una copia esauriente
della realtà « naturale», cioè della
realtà che non è stata falsata dalla
stupidità umana, e inoltre, in base a ciò, come un « dover essere» — come un
ideale valido nella sfera normativa, che
si poneva al posto di un tipo ideale utilizzabile per la ricerca empirica intorno a ciò che è. Allorché i
mutamenti di valutazione dello stato, prodottisi nella politica economica e
sociale, provocarono una ripercussione
nella sfera valutativa, questa ripercussione colpì di nuovo la sfera
dell’essere; di modo che la teoria
economica pura fu rigettata non soltanto come espressione di un ideale —
sebbene essa non avesse mai potuto pretendere tale dignità — ma anche come
metodo per la ricerca sulla realtà di
fatto. Considerazioni « filosofiche » di specie più diversa dovevano sostituire
la pragmatica razionale; e l’identificazione di ciò che è « psicologicamente »
con ciò che vale eticamente rendeva
ineseguibile una precisa distinzione della sfera della valutazione dal lavoro empirico. Le
straordinarie prestazioni degli
esponenti di questo sviluppo scientifico nel settore storico o sociologico o politico-sociale sono ormai
universalmente riconosciute; ma chi giudichi in maniera impregiudicata deve
pur riconoscere la completa caduta,
durata per decenni, del lavoro teorico e
in genere di una rigorosa scienza economica, che quella mescolanza di problemi ha avuto per
sua naturale conseguenza. Una delle due tesi principali, con cui lavoravano
gli avversari della teoria pura,
sosteneva che le costruzioni RAZIONALI di questa fossero « pure finzioni », le
quali non asseriscono nulla sulla realtà
dei fatti. Correttamente intesa, questa affermazione è valida. Infatti le
costruzioni teoriche sono soltanto al
servizio della conoscenza della realtà — che da sole non possono
fornire; e anche nel caso estremo questa realtà, per la cooperazione di altre
circostanze e serie di motivi, non contenute nei loro presupposti, risulta
soltanto approssimata rispetto al corso così costruito. Ciò non dimostra
certamente nulla, secon- do quanto si è detto, contro l’utilità e la necessità
della teoria pura. La seconda tesi sosteneva che non potesse esserci in ogni
caso una dottrina avalutativa concernente la politica economica, formulata
scientificamente. Essa è naturalmente del tutto
falsa, tanto falsa che proprio l’« avalutatività» — nel senso precedentemente illustrato — rappresenta il
presupposto di ogni considerazione
puramente scientifica della politica, in particolare di quella sociale ed
economica. Non occorre qui ripetere che
è evidentemente possibile, e scientificamente utile e necessario, formulare
proposizioni di questo tipo: per conseguire l’effeto (politico-economico) x, y
è il solo mezzo, oppure — date le
condizioni di, 52, d3 — Yi Y» yY: sono i soli mezzi, o i mezzi più appropriati. E c’è soltanto bisogno
di accennare che il problema consiste
nella possibilità di un'assoluta urivocità di
designazione dello scopo a cui si tende. Se questa ha luogo, allora si tratta di una semplice inversione
di proposizioni causali, e quindi di un problema puramente «tecnico ».
Proprio perciò la scienza non è affatto
costretta, in tutti questi casi, a
concepire queste proposizioni teleologiche di carattere tecnico diversamente che come semplici proposizioni
causali, cioè in questa forma: a y segue
sempre, oppure a Yi, Ya» 7: Se gue,
nelle condizioni è;, 6, 6, l’effetto x. Infatti ciò vuol dire precisamente la stessa cosa, e l’uomo «
pratico » può facilmente derivarne dei « precetti ». Ma la dottrina scientifica
dell'economia ha pure alcuni altri compiti, accanto alla determinazione di pure
formule tipico-ideali da un lato e dall'altro alla determinazione di tali connessioni economiche
particolari, di carattere causale —
poiché si tratta senza eccezione di connessioni di questo genere, se x è
abbastanza uzivoco, e se quindi
l'imputazione dell’effetto alla causa, cioè del mezzo allo scopo, dev'essere abbastanza rigorosa. Esso deve
inoltre indagare la totalità dei fenomeni sociali nel modo in cui sono
condizionati da cause economiche; e ciò
mediante l’interpretazione della storia
e della società sotto il profilo economico. E d'altra parte essa deve pure determinare il condizionamento
dei processi e delle forme di economia
da parte dei fenomeni sociali, secondo
le loro diverse forme e i loro diversi stadi di sviluppo; e ciò mediante la storia economica e la sociologia
dell'economia. Entro questi fenomeni sociali rientrano evidentemente, e certo
in prima linea, le azioni e le
formazioni politiche, in particolare lo
stato e il diritto garantito statalmente: ma, è pure ovvio, non soltanto quelle politiche — bensì la
totalità di quelle formazioni che influenzano l’economia, in «n grado
abbastanza rilevante per l'interesse scientifico. Indicare l'insieme di questi
problemi come una dottrina della « politica economica» sarebbe naturalmente assai poco appropriato. L’uso
che tuttavia se ne fa a tale scopo può
soltanto venir spiegato esteriormente in
base al carattere delle università come istituti educativi per funzionari statali, e interiormente in base
agli enormi strumenti che lo stato possiede per influire in modo intensivo
sulla vita economica, e quindi in base
all'importanza pratica della sua
considerazione. Non occorre constatare di nuovo che in tutte queste indagini è sempre possibile invertire
le asserzioni sul rapporto «
causa-effetto » in asserzioni sul rapporto « mezzo-scopo », quando la
conseguenza in questione può essere stabilita
con sufficiente univocità. In tale maniera il rapporto logico tra sfera della valutazione e sfera della
conoscenza empirica non risulta
naturalmente affatto mutato. E solo più a una cosa rimane, al termine di questa analisi, da
accennare. Lo sviluppo degli ultimi
decenni, e specialmente gli avvenimenti senza precedenti di cui siamo oggi
testimoni, hanno potentemente
accresciuto il prestigio dello stato. Ad esso soltanto, tra tutte le comunità
sociali, viene oggi attribuita una forza
«legittima » sulla vita, la morte e la libertà; e i suoi organi ne fanno uso, in guerra contro i nemici esterni,
in pace e in guerra contro gli
oppositori interni. Esso è in pace il maggiore
imprenditore economico e il più potente esattore di tributi dei cittadini; in guerra dispone nella maniera
più illimitata di tutti i beni economici
che gli sono accessibili. La sua moderna
forma razionale di organizzazione ha reso possibile, in numerosi
settori, compiti che senza dubbio nessun agire associato di altra specie avrebbe potuto eseguire, neppure
in modo approssimato. Non poteva non accadere che da ciò si traesse la
conseguenza che lo stato deve anche essere — soprattutto nelle valutazioni che
si muovono entro il campo della « politica » — il « valore » ultimo, e che ogni agire sociale
deve, in ultima analisi, venire commisurato ai suoi interessi di esistenza.
Solo che anche questo processo
costituisce una trasposizione, del tutto
indebita, di fatti della sfera dell’essere in norme della sfera della valutazione — pur prescindendo qui
dalla mancanza di univocità delle
conseguenze tratte da quella valutazione, come
appare subito da ogni considerazione dei «mezzi» (per la «conservazione » o l’«incremento » dello
«stato »). Entro la sfera dei puri fatti
oggettivi si deve far valere anzitutto, di
fronte a quel prestigio, la constatazione che lo stato 207 può certe cose. E ciò anche nei campi che risultano
i suoi domini più propri, come in quello
militare. L'osservazione di alcuni
fenomeni che la guerra attuale ha reso manifesti negli eserciti di stati razionalmente eterogenei ci insegna
che la libera dedizione dell'individuo al compito che il suo stato rappresenta
— una dedizione che lo stato non può
imporre — è tutt'altro che indifferente
per il successo militare. E per il campo economico basta accennare che la trasposizione di forme
e di principi dell’economia bellica in
forma di fenomeni permanenti di pace
potrebbe rapidamente avere conseguenze che condurrebbero in rovina, proprio per i suoi sostenitori,
l'ideale di uno stato espansivo. Su questo, tuttavia, non occorre soffermarci
più a lungo. Nella sfera della
valutazione è però possibile sostenere, in maniera pienamente dotata di senso,
il punto di vista che vorrebbe veder
rafforzata il più possibile la potenza dello stato come mezzo coercitivo contro ogni resistenza, ma
che d'altra parte gli nega qualsiasi
valore proprio e lo qualifica come un mero
strumento tecnico per la realizzazione di valori del tutto diversi, dai
quali soltanto esso potrebbe prendere in prestito la sua dignità e mantenerla anche solo finché non
cercasse di spogliarsi di questo suo compito ausiliario. Naturalmente qui non si deve né svolgere né
sostenere questo o qualsiasi altro possibile punto di vista valutativo. Si
deve però soltanto ricordare che, se ce
n'è qualcuna, l'obbligazione più particolarmente appropriata a « pensatori» di
professione consiste nel mantenere di
fronte agli ideali dominanti al momento, anche di fronte ai più forniti di
maestà, una mente fredda, nel senso di
rimanere personalmente capace di « nuotare contro la corrente ». Le «idee
tedesche del 1914 » furono un prodotto
da letterati”. Il socialismo del futuro è una frase per la razionalizzazione dell'economia, da
attuarsi mediante una combinazione di
burocratizzazione ulteriore e di amministrazione da parte di un gruppo
organizzato di individui interessati.
Quanto il fanatismo dei patrioti di ufficio della politica economica
invoca per queste misure puramente tecniche, in luogo di una discussione oggettiva della loro
opportunità, in buona parte condizionata semplicemente dalla politica
finanziaria, la consacrazione non
soltanto della filosofia tedesca ma anche della religione — come oggi avviene
in ampie proporzioni — ciò non
rappresenta altro che una ripugnante degenerazione di gusto di letterati che si reputano
importanti. Come possano 0 debbano
apparire le reali «idee tedesche del 1918», alla cui elaborazione avranno parte anche i reduci
dalla guerra, nessuno può oggi ben prevedere. Ma da queste dipenderà appunto
il futuro. 15. Weber si riferisce qui al manifesto nazional-socialista
pubblicato nel 1916 dal sociologo
tedesco Johann Plenge, col titolo 1789 und 1914: die symbolische Jahre in der Geschichte des politischen
Geistes, nel quale le «idee tedesche del 1914 »
erano contrapposte ai princìpi della Rivoluzione francese. Per
assecondare il vostro desiderio, dovrò parlare della « scienza come professione
». Ebbene, è una specie di pedanteria di
noi economisti, alla quale voglio attenermi, quella di prender sempre le mosse dalla situazione esteriore, e
quindi, nel caso nostro, dalla domanda:
come si configura la scienza come professione nel senso materiale della parola?
E questo, in sostanza, oggi praticamente significa: qual è la situazione di un laureato che abbia deciso di dedicarsi per
professione alla scienza nell’ambito della vita accademica? Per comprendere in
che cosa consista su questo punto la
particolarità della situazione tedesca,
è opportuno procedere comparativamente, rendendoci conto di come stiano le cose nel paese
straniero che sotto questo aspetto
presenta la più recisa antitesi con le nostre condizioni, e cioè negli Stati
Uniti. Da noi — come tutti sanno — un
giovane che si dedichi alla scienza come
professione, inizia normalmente la sua carriera come « libero docente ». Dopo
essersi consultato col professore titolare della materia e averne avuto
l'approvazione, egli consegue
l’abilitazione in una università, in base a un libro e a un esame, per lo più semplicemente formale,
da parte della facoltà, dopo di che
tiene lezioni — senza stipendio, compensato soltanto mediante le tasse
d'iscrizione al suo corso — intorno all'argomento da lui scelto entro i limiti
della sua verza * Wissenschaft als Beruf
(conferenza tenuta all’Università di Monaco, 1919), raccolto nel volume Gesammelte Aufsitze zur
Wissenschaftslehre, Tiibingen, J. C. B.
Mohr, 1922, 4* ed. (a cura di Johannes Winckelmann) 1973, pp. 582-613
(La scienza come professione, tr. it. di
Antonio Giolitti, in Il lavoro intellettuale come professione, Torino, Einaudi,
1948, pp. 41-77). legendi. In America la
carriera universitaria comincia normalmente in modo del tutto diverso, e cioè
con l'assunzione in qualità di «
assistente»: qualcosa di simile a quel che avviene di solito nei nostri grandi istituti delle
facoltà di scienze naturali e di medicina, dove è soltanto una frazione degli
assistenti ad aspirare — spesso solo
dopo parecchio tempo — alla formale
abilitazione a libero docente. La differenza significa praticamente che
da noi la carriera di un uomo di scienza poggia interamente su presupposti
plutocratici. Giacché, per un giovane studioso privo di disponibilità
patrimoniali, è estremamente arrischiato esporsi, in linea generale, alle
condizioni imposte dalla carriera
accademica. Egli deve poter tirare avanti almeno un certo numero di anni senza sapere in nessun
modo se avrà in seguito la possibilità
di riuscire a raggiungere una posizione
che gli permetta di provvedere al proprio mantenimento. Viceversa, negli
Stati Uniti vige il sistema burocratico. Là il giovane è pagato fin
dall’inizio. Modestamente, si capisce: lo stipendio, il più delle volte,
raggiunge appena il livello del salario di
un operaio a un grado minimo di specializzazione. Tuttavia egli comincia pur sempre con una posizione
apparentemente sicura, giacché
percepisce un compenso fisso. Ma è previsto
che possa essere licenziato, come i nostri assistenti, e tale sorte lo attende spesso inesorabilmente se non
corrisponde alle aspettative che si ripongono in lui. Tali aspettative però si
limitano a che insegni ad «aula esaurita
». Ciò non può capitare a un libero docente tedesco. Una volta che egli lo
diventa, non ci si libera più di lui. Certamente egli non ha «diritti».
Tuttavia ha motivo di pensare che, dopo un'attività di alcuni anni, gli spetti
una specie di diritto morale a esser preso in considerazio- ne: anche — e ciò è
spesso importante — quando si tratti
dell’eventuale abilitazione di altri liberi docenti. La questione se in linea di principio si debba dare
l’abilitazione a qualunque studioso di provata
capacità o se invece si debba tener conto dei
«bisogni dell’insegnamento », attribuendo così ai docenti già abilitati un monopolio dell’insegnamento, è
un penoso dilemma connesso con quel doppio aspetto della professione
universitaria a cui ora accenneremo. Di solito, si decide per la seconda alternativa. Ma ciò aumenta il pericolo che
il titolare della materia în questione,
nonostante la massima coscienziosità soggettiva, dia la preferenza ai propri
scolari. Personalmente, io ho seguito il
principio — sia detto di passaggio — che uno
studioso laureato con me debba dar prova di sé e conseguire l'abilitazione presso «n altro professore e
in un’altra università. Ma il risultato fu che uno dei miei più valenti
allievi venne respinto perché nessuno
credette che tale fosse il motivo del
suo trasferimento. Un'altra differenza
rispetto all'America è la seguente: da
noi, il libero docente è in generale meno occupato con le lezioni di
quanto egli stesso desidererebbe. Senza dubbio avrebbe il diritto di tenere tutte le lezioni della sua
materia. Ma ciò viene considerato una
sconveniente mancanza di riguardo verso
i docenti più anziani, e di regola le lezioni «importanti » sono tenute dal titolare della cattedra, mentre il
docente si accontenta di lezioni 4 latere. Egli ne trae il vantaggio, sia
pure involontariamente, di poter
disporre degli anni della giovinezza per il lavoro scientifico. Tutto ciò in America è organizzato in maniera
fondamentalmente diversa. Proprio nei primi anni il docente è assolutamente
sovraccarico di lavoro, appunto perché è pagato. In un dipartimento di
germanistica, per esempio, il professore ordinario terrà un corso di tre ore settimanali su
Goethe e basta, mentre l'assistente più
giovane sarà ben contento se con dodici ore
settimanali, oltre all'insegnamento elementare della lingua tedesca, gli
verrà assegnato qualche altro argomento su un poeta della levatura di Uhland'. Infatti sono gli
organi ufficiali della facoltà a
prescrivere il programma di insegnamento, al
quale l’assistente americano è altrettanto vincolato quanto da noi l’assistente d’istituto. Possiamo ora vedere chiaramente come da noi
il più recente sviluppo dell’organizzazione universitaria in vasti settori
della scienza segua l'orientamento di quella americana. I grandi istituti per gli studi di medicina o di
scienze naturali sono imprese «
capitalistiche di stato ». Non possono esser amministrati senza grandi mezzi. E
anche lì si verifica, come in ogni 1.
Johann Ludwig Uhland, poeta romantico tedesco, autore anche di drammi storici, di studi sull’antica
letteratura tedesca e di volumi sulla mitologia germanica: prese parte alla
vita politica dell'età della Restaurazione, aderendo a posizioni nazionali-liberali, e nel 1848 fu
membro dell'assemblea di Francoforte. impresa capitalistica, la « separazione
del lavoratore dai mezzi di produzione
». Il lavoratore, vale a dire l’assistente, è ridotto a servirsi degli strumenti che lo stato mette
a sua disposizione; egli viene pertanto
a dipendere dal direttore d’istituto allo stesso modo dell’impiegato in una
fabbrica — giacché quel direttore s'immagina, in perfetta buona fede, che
l'istituto sia «swo » e vi fa da padrone
— e la sua posizione è spesso altrettanto
precaria come quella di un qualsiasi « proletaroide » o di un assistente di università americana. La nostra vita universitaria tedesca va
americanizzandosi, come la nostra vita
in generale, in certi punti assai importanti,
e questo sviluppo — ne sono convinto — si estenderà in seguito anche a quei campi dove, come avviene ancor
oggi in larga misura nel mio, è
l’artigiano stesso a possedere lo strumento di
lavoro (essenzialmente la biblioteca), in modo del tutto analogo all’artigiano d’altri tempi nell’ambito del
suo mestiere. Il processo è in pieno sviluppo.
I vantaggi tecnici sono assolutamente indiscutibili, come in ogni azienda capitalistica e al tempo stesso
burocratizzata. Ma lo « spirito» che vi
domina è tutt'altro dall’antica atmosfera
tradizionale delle università tedesche. C'è un abisso straordinariamente
profondo, esteriormente e interiormente, tra il dirigente di una simile grande
impresa capitalistica universitaria e il
solito professore ordinario di vecchio stile: anche nell’atteggiamento
interiore. Non posso qui dilungarmi su questo punto. Tanto all'interno quanto all’esterno l'antico
ordinamento universitario è diventato fittizio. Ma è rimasto, e anzi si è
sostanzialmente accentuato, un motivo caratteristico della carriera universitaria: il fatto che un simile libero
docente, divenuto ormai un assistente,
riesca finalmente a insediarsi nella posizione di ordinario o di direttore
d'istituto, costituisce un’opportunità che è un mero caso. Senza dubbio non
domina soltanto il caso, ma esso ha
tuttavia un'influenza straordinariamente grande. Non conosco quasi altre
carriere al mondo dove esso abbia una
parte così grande. Tanto più sono in grado di dirlo io che personalmente devo ad alcune circostanze
meramenti accidentali di esser stato chiamato giovanissimo, ai miei tempi,
alla cattedra di una materia nella quale
allora altri della mia età avevano senza
dubbio acquisito meriti maggiori dei miei. E in
MAX WEBER 687 base a questa
esperienza presumo di avere una vista più acuta
per scorgere l’immeritata sorte dei molti ai quali il caso ha giocato e ancora gioca il tiro opposto e che,
nonostante tutta la loro capacità, non
giungono attraverso quell’apparato selettivo al posto che loro spetterebbe. Che il caso e non la capacità in quanto tale
abbia una parte così grande, non dipende
soltanto, e nemmeno prevalentemente,
dalle debolezze umane che naturalmente s'incontrano in questo processo di selezione come in tutti gli
altri. Sarebbe ingiusto attribuire a
deficienze personali di facoltà o di ministeri la responsabilità del fatto che indubbiamente vi
siano tante mediocrità a esercitare una parte preponderante nelle università.
Ciò fa parte delle leggi dell’agire in
comune degli uomini, e specialmente di più organismi, cioè nel caso nostro
delle facoltà proponenti e dei ministeri. Eccone una riprova: possiamo
seguire attraverso i secoli le vicende
delle elezioni papali, ossia il più
importante esempio che ci sia dato controllare di una selezione personale del medesimo tipo. Soltanto di rado
il cardinale di cui si dice che è il «
favorito » riesce eletto: di regola tocca al
candidato numero due o numero tre. La stessa cosa avviene col presidente degli Stati Uniti: per lo più è il
numero due e spesso il numero tre, e
solo eccezionalmente l’uomo più quotato ma anche più eminente, quello che entra
nella nomination delle convenzioni di
partito e quindi nel processo elettorale.
Gli Americani hanno già creato espressioni sociologiche tecniche per
queste categorie e sarebbe davvero interessante cercare in questi esempi le leggi di una selezione
mediante la formazione di una volontà collettiva. Non lo faremo ora. Ma esse
valgono anche per i corpi accademici, e c'è da meravigliarsi non già che ne scaturiscano frequenti errori, bensì
del numero pur sempre assai rilevante, da un punto di vista relativo, delle
nomine giuste. Soltanto dove si ha
l'intervento per motivi politici, di
parlamenti — come in alcuni paesi — o, come prima da noi, di monarchi (entrambi operano allo stesso modo),
oppure, come adesso, di rivoluzionari
impadronitisi del potere, si può esser
certi che tutte le probabilità di successo vanno soltanto alle accomodanti mediocrità o agli arrivisti. Nessun professore universitario ripensa
volentieri alle discussioni per le nomine, perché di rado sono piacevoli.
Tuttavia posso affermare che in numerosissimi casi di cui sono a conoscenza,
mai è mancata la buona volontà di far dipendere la decisione da motivi puramente oggettivi. Bisogna infatti mettere in chiaro che non
dipende soltanto dall’inadeguatezza
della selezione in virtù di formazione di
una volontà collettiva se nella decisione delle sorti accademiche ha
tanta importanza il «caso ». Ogni giovane che senta la vocazione dello studioso deve piuttosto
rendersi ben conto che il compito a cui si
accinge presenta un duplice volto. Deve
avere non soltanto i requisiti dello studioso ma anche quelli dell'insegnante. Non è affatto detto che gli
uni e gli altri coincidano. Si può
essere uno studioso insigne e al tempo stesso
un pessimo maestro. Basta rammentare l’attività d’insegnamento di uomini
come Helmholtz e come Ranke. E non si tratta di
eccezioni rare. Ma le cose stanno ora in modo che le nostre università, specialmente quelle piccole, si
fanno la concorrenza più ridicola per le
frequenze. Le affittacamere delle città universitarie celebrano come una festa
il millesimo studente, e il duemillesimo
possibilmente con una fiaccolata. Gli interessi di propina dei singoli corsi — bisogna
ammetterlo apertamente — risentono della
nomina di un titolare « di grido » in qualche
cattedra affine, e anche prescindendo da ciò il numero degli uditori fornisce una tangibile testimonianza
in cifre, mentre le qualità di dottrina
sono imponderabili e spesso (com'è del tutto
naturale) addirittura contestate nel caso di arditi innovatori. Perciò nella maggior parte dei casi tutto
soggiace a questa suggestione della
benedizione e del valore incommensurabili
del numeroso uditorio. Se di un docente si dice che è un cattivo maestro, ciò equivale per lo più alla
sua condanna a morte nel campo universitario,
quand’anche si tratti del primo dotto
del mondo. Ma la questione se egli sia un buono o un cattivo maestro trova risposta nella
frequenza di cui lo onorano i signori studenti. Sta però di fatto che, se gli
studenti si affollano intorno a un
professore, ciò è determinato in larghissima misura da circostanze meramente
esteriori, come il temperamento o perfino l’inflessione di voce — e ciò a un
punto tale che non si crederebbe
possibile. Dopo un'esperienza in ogni
modo abbastanza lunga e una fredda riflessione, ho concepito una profonda sfiducia verso i corsi
universitari di massa, per Max Weber nel
1919. quanto non si possa certo farne a
meno. La democrazia dev’essere applicata dove si conviene. Ma l’insegnamento
scientifico, quale dobbiamo esercitarlo
nelle università tedesche in conformità alla loro tradizione, è una faccenda —
non dissimuliamocelo — di aristocrazia dello spirito. D'altra parte è
certamente vero che saper esporre i
problemi scientifici in modo da renderli accessibili a una mente incolta ma
capace d’intendere, e da metter questa
in grado di farsene un'idea propria — ciò che
per noi è l’unica cosa decisiva — costituisce forse il compito pedagogicamente più difficile. Senza dubbio:
ma non è il numero degli uditori a decidere se esso sia stato risolto. E
quest’arte costituisce appunto — per ritornare al nostro argomento — un dono personale e non coincide affatto
necessariamente con le qualità
scientifiche di uno studioso. A differenza dalla Francia, però, noi non abbiamo
alcuna corporazione degli « immortali » della scienza, ma per la nostra
tradizione sono le università che devono soddisfare a entrambe le esigenze:
quella della ricerca e quella
dell’insegnamento. Ma è un puro caso che le
capacità necessarie a questo scopo si ritrovino tutte nello stesso individuo.
La vita accademica è quindi abbandonata al cieco caso. Quando dei giovani studiosi vengono a
chiedere consiglio per l'abilitazione,
la responsabilità che ci si assume accedendo alla richiesta è quasi intollerabile. Se si tratta
di un ebreo, gli si risponde,
naturalmente: «lasciate ogni speranza ». Ma anche a chiunque altro bisogna domandare, in
coscienza: credete di poter sopportare
di vedervi passare avanti, di anno in anno,
una mediocrità dietro l’altra, senza amareggiarvi e intristirvi l'animo? E ogni volta la risposta è
evidentemente la stessa: naturalmente,
io vivo solo per la mia «vocazione»; ma per
mio conto ho saputo solo di pochissimi che abbiano retto senza risentirne un danno interiore. Questo mi sembrava necesssario dire intorno
alle condizioni esteriori della
professione di studioso. Credo però che
voi vogliate in realtà sentir parlare di qualcosa d'altro, e precisamente della
vocazione interiore alla scienza. Al giorno d'oggi l’esercizio della scienza
come professione è condizionato, sul
piano interiore, dal fatto che la scienza è
pervenuta a uno stadio di specializzazione prima sconosciuto, e tale
rimarrà sempre in futuro. Non soltanto esteriormente, no certo, ma proprio interiormente, le cose
stanno in modo che soltanto nel caso di
un’estrema specializzazione l’individuo
può avere sicura coscienza di produrre qualcosa di realmente perfetto nel campo scientifico. Tutti i
lavori che sconfinano in campi contigui,
come talvolta ci capita di fare, e come per
esempio noi sociologi dobbiamo sempre fare, sono gravati dalla rassegnata coscienza di fornire tutt'al più
allo specialista un'’utile impostazione di qualche problema nel quale non gli
sarà tanto facile imbattersi nel suo
campo specifico, cosicché il proprio lavoro non potrà non rimanere estremamente
imperfetto. Soltanto attraverso una
rigorosa specializzazione l’uomo di scienza può giungere — una volta e forse
mai più nella vita — a dire con sicura
coscienza: ho prodotto qualcosa che durerà.
Un'opera realmente definitiva e valida è oggi sempre un'opera specializzata. Resti quindi discosto dalla
scienza chi non è capace di mettersi, per dir così, dei paraocchi, e di
pervenire all’idea che il destino della propria anima dipende appunto
dall’esattezza, poniamo, di questa congettura — proprio di questa — rispetto a quel passo di quel manoscritto.
Altrimenti egli non avrà mai fatto
dentro di sé ciò che può chiamarsi l’« esperienza vissuta» della scienza. Senza questa strana
ebbrezza, derisa dai non iniziati, senza
questa passione, questo « dovevano passare millenni prima che tu venissi al
mondo, e altri millenni attendono in
silenzio»* — tutto per il successo di questa tua congettura — m0n c’è vocazione per la scienza
e bisogna scegliere un’altra via. Infatti per l’uomo in quanto uomo, nulla ha valore di ciò che non può fare con
passione. Ora, però, sta di fatto che,
per quanto grande, genuina e profonda
possa essere tale passione, il risultato appare ancora lontano. Essa è certamente una condizione
preliminare per il fattore decisivo: l’«
ispirazione ». È vero che oggi negli ambienti giovanili è assai diffusa
l'opinione che la scienza sia diventata un esercizio di calcolo da eseguirsi
nei laboratori o nelle cartoteche
statistiche col solo ausilio del freddo intelletto e non con tutta l’« anima », allo stesso modo di
quel che avviene «in una fabbrica». A
questo proposito si deve anzitutto osservare
2. Il passo citato è di Carlyle. che per lo più queste persone non hanno
un'idea chiara di quel che avviene in
una fabbrica più di quanto l’abbiano di ciò che
avviene in un laboratorio. Nell’uno o nell’altra all'uomo deve venire in mente un'idea — e proprio l'idea
giusta — per produrre qualcosa che abbia veramente valore. Ma quell'idea
non si ottiene per forza. Non ha nulla a
che fare con un qualsiasi freddo
calcolo. Senza dubbio anche questa è una condizione imprescindibile. Nessun sociologo, per
esempio, avrà da pentirsi se, anche nei suoi tardi anni, avrà speso qualche
mese intorno a molte decine di migliaia di elementi di calcolo del tutto banali. Non si può ricorrere impunemente ai
soli mezzi meccanici, se si vuol conseguire qualche risultato; e quel che
in definitiva si ricava è spesso
irrisorio. Ma chi non ha un'idea
determinata sullo scopo del calcolo e, durante il calcolo stesso, sulla portata dei risultati singoli, non ne
trae neppure quel minimo. Normalmente
l’« idea » si prepara a germogliare soltanto sul terreno del duro lavoro. Non
sempre, s'intende. L’idea di un dilettante può avere un'importanza identica o
maggiore di quella di uno specialista. Molte delle nostre impostazioni e delle
nostre conoscenze più importanti sono dovute proprio ai dilettanti. Il dilettante
si distingue dallo specialista — come ha
detto Helmholtz a proposito di Robert Mayer? — solo in quanto gli manca la precisa sicurezza del
metodo di lavoro e non è quindi in grado
di controllare 2 posteriori la portata
della sua idea e di apprezzarla o applicarla. L'idea non sostituisce il
lavoro. E il lavoro dal canto suo non può sostituire 0 suscitare a forza l’idea più di quanto non
possa farlo la passione. L'una e l’altro — e specialmente tutti e due insieme —
la maturano. Ma essa viene quando le
aggrada e non quando pare a noi. È
infatti vero che le cose migliori vengono in
mente, come dice Ihering, fumando il sigaro sul divano oppure — come narra di sé Helmholtz con precisione
di naturalista — passeggiando per una
strada lievemente in salita, e via dicendo, ma sempre, comunque, quando non si
sta in loro attesa, non già durante
l’ansia e lo sforzo di ricerca a tavolino. Mayer, medico e fisico tedesco,
autore del volume Dic organische
Bewegung in ihren Zusammenhinge mit dem Stoffwechsel (1845), contribuì alla
formulazione del principio della conservazione dell'energia: fu oggetto di aspra critica da parte di Helmholtz, Certo,
però, non sarebbero venute in mente senza i precedenti appassionanti problemi e
senza quel tormento a tavolino. Comunque
sia, l’uomo di scienza deve anche tener conto di quel caso che non va disgiunto da qualsiasi
lavoro scientifico: verrà o no
l’«ispirazione»? Si può essere un impareggiabile lavoratore e non avere mai avuto una propria
idea originale. Ma è un grave errore
credere che ciò avvenga soltanto nella
scienza e che in un’azienda, per esempio, le cose stiano diversamente
che in un laboratorio. Un commerciante o un grande industriale privo di «fantasia negli affari»,
cioè senza idee, senza idee geniali, rimarrà
per tutta la vita, nel migliore dei
casi, un semplice commesso o un impiegato tecnico: non creerà mai qualcosa di vitale nell’organizzazione.
Nel campo della scienza l’ispirazione
non ha affatto un'importanza maggiore —
come immagina la presunzione degli studiosi — che nel campo dei problemi della vita pratica che deve
padroneggiare un imprenditore moderno. E d'altra parte la sua importanza non
è minore — come spesso erroneamente si
crede — che nel campo dell’arte. È
puerile pensare che a tavolino, munito di un regolo o di altri mezzi meccanici
o di macchine calcolatrici, il
matematico giunga a un risultato di qualche valore scientifico; la fantasia matematica di un Weierstrass* si
presenta naturalmente orientata in modo del tutto diverso, nel suo senso e
nel suo risultato, da quella di un
artista, e anche sotto il profilo
qualitativo è fondamentalmente differente. Non però quanto al procedimento psicologico. Entrambi sono
esaltazione (nel senso della « mania »
di Platone) e « ispirazione ». Ora, che
uno abbia ispirazioni scientifiche, dipende da un destino a noi ignoto, ma soprattutto da un «
dono», Un atteggiamento, di cui è ben comprensibile la popolarità specialmente tra i giovani, si è schierato — e
quell’indubitabile verità non è certo
l’ultima ragione di ciò — in favore di alcuni idoli il cui culto vediamo oggi trionfare a tutti gli
angoli di strada e in tutte le riviste.
Tali idoli sono la «personalità» e l’«esperienza vissuta ». L'una e l’altra
sono strettamente connesse: 4. Karl
Theodor Wilhelm Weicrstrass (1815-1897), matematico tedesco, autore di numerosi scritti raccolti nelle Gesammelte
Abhandiungen, diede importanti contributi alla teoria delle funzioni.
l'opinione dominante è che la seconda sia costitutiva della prima e le
appartenga. Ci si tormenta per «vivere la propria esperienza» — giacché questo fa parte del
modo di vivere che si addice a una personalità
— e non potendo riuscirvi bisogna almeno
fare come se si possedesse questa grazia. Una volta questa «esperienza vissuta » si chiamava in
tedesco Sensation. E di quel che fosse e
significasse la « personalità », si aveva
allora — ritengo — un'idea più esatta.
Egregi ascoltatori! Nel campo scientifico ha una sua « personalità »
soltanto chi serve puramente la causa. E ciò non si verifica soltanto in campo scientifico. Non
conosciamo alcun grande artista che non
si sia interamente dedicato alla propria
causa e che abbia servito altri all’infuori di questa. Perfino una personalità della levatura di Goethe non ha
potuto impunemente — per quel che concerne la sua arte — prendersi la
libertà di voler fare un’opera d’arte
della propria « vita». Ma se pure non si
voglia ammetterlo, bisogna tuttavia essere un Goethe per poterselo permettere, e ognuno dovrà
convenire almeno sul fatto che nessuno
mai ne è uscito immune, neppure lui, la cui
figura è unica nel corso di millenni. Le cose non stanno altrimenti in
politica: ma di ciò non si parlerà oggi. Nel campo della scienza non è certo una « personalità »
colui il quale, al modo di un
impresario, porta se stesso alla ribalta insieme alla causa a cui dovrebbe dedicarsi, e vorrebbe
giustificare se medesimo col « vivere la propria esperienza », e domanda: come
dimostrerò di essere qualcosa di più di un semplice « specialista», come
riuscirò a dire qualcosa che non sia stato ancor detto da nessuno nella stessa forma o con lo
stesso contenuto? Un fenomeno, questo,
che oggi si osserva su larga scala e che
lascia ovunque un’impronta di meschinità, avvilendo colui che si pone una simile domanda, laddove soltanto
l’intima dedizione al proprio compito, e ad esso soltanto, può innalzarlo
all’altezza e alla dignità della causa che pretende servire. Né diversamente
avviene per l'artista. Contrapposto a
queste condizioni preliminari che il nostro
lavoro ha in comune con l’arte, esiste un destino che lo differenzia
profondamente dal lavoro dell’artista. Il lavoro scientifico è inserito nel corso del progresso. E
viceversa nessun progresso — in questo
senso — si attua nel campo dell’arte. Non è vero che un’opera d’arte di
un'epoca in cui siano stati elaborati
nuovi mezzi tecnici o, per esempio, le leggi della prospettiva, si trovi per questa ragione a un più alto
livello, sul piano puramente artistico,
di un’opera d’arte priva di ogni conoscenza di quei mezzi e di quelle leggi —
se questa non è formalmente o materialmente manchevole, cioè se ha scelto e
plasmato il proprio oggetto come era possibile fare a regola d’arte senza l'applicazione di quelle condizioni e
di quei mezzi. Un'opera d’arte veramente «compiuta» non viene mai
superata, non invecchia mai; l’individuo
può attribuirvi personalmente un
significato di diverso valore; ma di un’opera realmente «compiuta » in senso artistico nessuno potrà
mai dire che sia «superata» da un’altra
pur essa «compiuta». Al contrario,
ognuno di noi sa che, nella scienza, il proprio lavoro dopo dieci, venti, cinquant'anni è invecchiato.
Questo è il destino, 0 meglio, questo è
il senso del lavoro scientifico, il quale, rispetto a tutti gli altri elementi
della cultura di cui si può dire la
stessa cosa, è ad esso assoggettato e affidato in modo del tutto specifico: ogni lavoro scientifico
«compiuto » comporta nuove « questioni »
e vole essere « superato » e invecchiare. A
ciò deve rassegnarsi chiunque voglia servire la scienza. Senza dubbio vi sono opere scientifiche che possono
conservare durevolmente la loro importanza come «mezzi di godimento» a causa della loro qualità artistica, oppure
come mezzo di addestramento al lavoro. Ma esser superati scientificamente è —
giova ripeterlo — non soltanto il
destino di noi tutti, ma anche il nostro
scopo. Non possiamo lavorare senza sperare che altri si spingeranno più avanti di noi. In linea di
principio, questo progresso tende
all’infinito. E con ciò siamo giunti al problema del senso della scienza. Infatti, non appare
di per se stesso chiaro come possa avere
in sé un senso e una ragione qualcosa
che è sottoposto a una simile legge. Perché mai ci si adopera intorno a
quello che, nella realtà, non giunge e non può mai giungere alla fine? Ebbene,
anzitutto per scopi puramente pratici,
cioè per scopi tecnici nel senso ampio della parola: per poter orientare la nostra azione pratica in base
alle aspettative che ci fornisce
l’esperienza scientifica. Sta bene. Ma questo ha un significato solo per l'uomo
pratico. Qual è ora la posizione interiore dell’uomo di scienza di fronte alla
propria professione, ammesso che egli
cerchi di averne una in generale? Egli risponde: la scienza « per amore della
scienza » e non per consentire ad altri
di raggiungere successi nel campo degli affari di carattere tecnico, per
potersi meglio nutrire, vestire, illuminare, governare. Quale opera fornita di
senso crede egli dunque di produrre in
tal modo, con queste creazioni sempre destinate a invecchiare, col lasciarsi incanalare in
questa attività divisa in settori
specializzati, e protraentesi all'infinito? A questo proposito bisogna fare
alcune considerazioni generali. Il
progresso scientifico è una frazione, e senza dubbio la più importante, di quel processo di
intellettualizzazione al quale siamo
sottoposti da secoli e contro il quale oggi di solito si prende una posizione così straordinariamente
negativa. Anzitutto rendiamoci
chiaramente conto di che cosa propriamente significhi, dal punto di vista
pratico, questa razionalizzazione intellettualistica ad opera della scienza e
della tecnica orientata
scientificamente. Vorrà forse significare che oggi noi altri, per esempio ogni persona presente in
questa sala, abbiamo una conoscenza delle condizioni di vita nelle quali
esistiamo maggiore di quella di un Indiano o di un Ottentotto? Ben difficilmente. Chiunque di noi viaggi in tram
non ha la minima idea — a meno ch'egli non sia un fisico di mestiere — di come la vettura riesca a mettersi in moto:
né, d’altronde, ha bisogno di saperlo.
Gli basta di poter « fare assegnamento » sul
modo di comportarsi di una vettura tranviaria, ed egli orienta in conformità la propria condotta; ma nulla
sa di come si faccia per costruire un
tram capace di mettersi in moto. Il
selvaggio ha una conoscenza dei propri utensili incomparabilmente
migliore. Se oggi spendiamo del denaro, scommetto che, perfino se vi sono colleghi economisti qui
presenti, ognuno avrà pronta una
risposta diversa alla domanda: come avviene
che qualcosa — ora poco, ora molto — possa esser comperato con il denaro? Il selvaggio sa in quale modo
riesce a procurarsi il nutrimento quotidiano e quali istituzioni gli servano
a questo scopo. La progressiva
intellettualizzazione e razionalizzazione n0n significa dunque una crescente
conoscenza generale delle condizioni di vita che ci circondano. Essa
significa bensì qualcosa di diverso: la
coscienza o la fede che, se soltanto si volesse, si potrebbe in ogni momento
provare che non vi sono forze fondamentalmente misteriose e imprevedibili le
quali intervengano in modo da impedire che si possa dominare — in linea di principio — tutte le cose
mediante la previsione razionale. Ma ciò
significa il disincantamento del mondo. Non
occorre più ricorrere a mezzi magici per dominare o per ingraziarsi gli
spiriti, come fa il selvaggio per il quale esistono potenze del genere. A ciò sopperiscono i
mezzi tecnici e la previsione razionale.
È soprattutto questo il significato dell’intellettualizzazione in quanto
tale. Questo processo di disincantamento
proseguito per millenni nella cultura
occidentale e, in generale, questo « progresso » del quale la scienza è un elemento e un
impulso, contiene un qualche senso che
vada al di Ià del fatto puramente pratico e
tecnico? Questa domanda la trovate formulata come questione di principio soprattutto nelle opere di Lev
Tolstòj. Egli vi giunse attraverso una
propria via. Il problema centrale intorno
al quale egli si tormentava era la questione se la morte fosse o no un fenomeno dotato di senso. E la sua
risposta, nei confronti degli uomini civili, è negativa. Ciò appunto in
quanto la vita del singolo individuo
civilizzato, inserita nel « progresso», nell’infinito, non può per il suo
stesso senso immanente avere alcun
termine. Giacché c'è sempre un ulteriore progresso da compiere per chi c'è dentro; nessuno muore
dopo esser giunto al culmine, che è
situato nell'infinito. Abramo e un
qualsiasi contadino dei tempi antichi moriva « vecchio e sazio della vita» perché si trovava nel ciclo
organico della vita, perché la sua vita,
anche per il suo significato, alla sera della
sua giornata gli aveva portato ciò che poteva offrirgli, perché non rimanevano per lui enigmi da risolvere ed
egli poteva perciò averne « abbastanza
». Ma un uomo civile, il quale partecipa all’arricchimento progressivo della
civiltà in idee, conoscenze, problemi, può diventare « stanco della vita » ma non
sazio. Di ciò che la vita dello spirito
sempre nuovamente produce egli coglie
soltanto la minima parte, e sempre qualcosa di provvisorio e mai definitivo:
quindi la morte è per lui un accadimento
privo di senso. Ed essendo la morte priva di senso, lo è anche la vita culturale come tale, in quanto
appunto con la sua assurda « progressività » fa della morte un assurdo.
Ovunque, nei MAX WEBER 697 suoi ultimi romanzi, quest'idea costituisce
il motivo fondamentale dell’arte di Tolstòj.
Quale posizione si può assumere in proposito? Al « progresso», come
tale, può riconoscersi un senso che va al di là della tecnica, cosicché avrebbe significato la
professione dedicata al suo servizio? È
un quesito che va posto. Ma non si tratta
soltanto del problema della professione e della vocazione ne: riguardi della scienza, e cioè del problema:
che cosa significa la scienza come
professione per colui il quale vi si dedica? —
bensì anche di questo: che cos'è la professione della scienza nell’ambito dell'intera vita dell'umanità? e
qual è il suo valore? L’antitesi tra
passato e presente è qui enorme. Vi ricorderete di quella meravigliosa immagine
al principio del libro VII della
Repubblica di Platone: quegli uomini in una caverna incatenati, col viso rivolto alla parete di
roccia, che la luce colpisce alle spalle
e che non possono vederla e si preoccupano
perciò soltanto delle ombre che essa getta sulla parete e cercano di stabilirne la causa. Finalmente uno di
loro riesce a spezzare le catene, si
volta e mira: il sole. Abbagliato brancola all’intorno e descrive balbettando
quel che ha veduto. Gli altri gli dànno
del pazzo. Ma a poco a poco egli impara a vedere nella luce e allora si adopera a scendere tra gli
uomini delle caverne e a trarli su verso
la luce. Egli è il filosofo e il sole è la verità della scienza, che sola non va in caccia di
fantasmi e di ombre ma persegue il vero
essere. Ebbene, chi tiene oggi un simile
atteggiamento verso la scienza? È
proprio la gioventù a manifestare oggi un sentimento opposto: le formazioni
concettuali della scienza sono un mondo
sotterraneo di artificiose astrazioni che cercano di cogliere con le loro mani
esangui, senza mai riuscirvi, la linfa e il
sangue della vita reale. È qui nella vita, in ciò che per Platone costituiva il gioco d’ombre sulle pareti
della caverna, che palpita la vera realtà: il resto sono fantasmi senza vita
astratti da quella, e null’altro. Come
si è effettuato un tale mutamento?
L’appassionato entusiasmo di Platone nella Repubblica si spiega in
ultima analisi considerando che allora per la prima volta si era scoperto consapevolmente il senso di
uno dei più importanti mezzi di ogni conoscenza scientifica: il concetto.
Socrate ne ha rivelato tutta
l’importanza. Ma non è stato il solo: in
698 MAX WEBER India potete
trovare saggi di una logica del tutto simile a
quella di Aristotele. Mai però con questa coscienza del suo significato. Allora per la prima volta sembrò
disponibile un mezzo per stringere
chiunque nella morsa della logica così da
non lasciarlo uscire senza ammettere o di non saper nulla o che questa e non altra è la verità, l'eterna
verità, che non è transeunte come
l’agire e l’indaffararsi degli uomini ciechi. Fu questa la straordinaria esperienza vissuta
dai discepoli di Socrate. Da ciò sembrava conseguire che, ove si fosse trovato
l’esatto concetto del bello, del buono,
come pure del coraggio, dell’anima, e via dicendo, se ne potesse cogliere anche
il vero essere, e ciò sembrava di nuovo
aprire la via per sapere e per insegnare
il modo giusto di agire nella vita, soprattutto come cittadino. Infatti la mentalità completamente politica
dei Greci riduceva tutto a questo
problema. Perciò si coltivava la scienza.
Accanto a questa scoperta dello spirito greco si presenta ora — frutto del Rinascimento — il secondo grande
strumento del lavoro scientifico,
l'esperimento razionale, come mezzo per l’esperienza rigorosamente controllata,
senza il quale sarebbe impossibile la scienza empirica moderna. Anche
precedentemente era stato adottato il
metodo sperimentale: nella fisiologia, per
esempio, in India, per servire alla tecnica ascetica dello Yogi; nella matematica, tra gli antichi Greci, ai
fini della tecnica bellica; per i lavori
nelle miniere, durante il Medioevo. Ma
aver innalzato l'esperimento a principio della ricerca come tale è un prodotto del Rinascimento. Ne furono
pionieri i grandi innovatori nel campo
dell’arte: Leonardo e i suoi pari, e caratteristici soprattutto gli
sperimentatori di musica del Cinquecento con i loro clavicembali sperimentali.
Da questi l’esperimento passò nella
scienza soprattutto ad opera di Galilei, e nella teoria ad opera di Bacone; lo
adottarono poi le singole discipline
delle scienze esatte nelle università del continente, in primo luogo in Italia e in Olanda. Che cosa dunque significava la scienza per
quegli uomini alla soglia dell’età
moderna? Per gli sperimentatori nel campo
dell’arte, come Leonardo e gli innovatori nella musica, significava la
via per giungere alla vera arte, ciò che per loro equivaleva alla vera natura.
L'arte doveva esser elevata alla dignità di
una scienza, e cioè al tempo stesso, e soprattutto, l’artista al rango
di un dotto, dal punto di vista sociale e riguardo al senso della sua vita. È questa l’ambizione che sta
per esempio alla base anche del Trattato
della pittura di Leonardo. E oggi? «La
scienza come via per giungere alla natura» — questa frase suonerebbe come una bestemmia alle
orecchie dei giovani. No, tutt'al
contrario: liberiamoci dall’intellettualismo della scienza per ritornare alla nostra propria
natura e quindi alla natura in generale!
Sarà forse allora la via per giungere all'arte? A questa domanda è superflua
qualsiasi critica. — Ma all’epoca
dell’origine delle scienze esatte della natura, ci si attendeva dalla scienza qualcosa di più. Se
rammentate il detto di Swammerdam® «vi
reco qui la prova della provvidenza di
Dio nell’anatomia d’un pidocchio », capirete ciò che il lavoro scientifico, sotto l'influenza (indiretta)
del Protestantesimo e del Puritanesimo,
considerasse allora come proprio compito: la
via per giungere a Dio. Questa, allora, non la si trovava più nei filosofi, nei loro concetti e nelle loro
deduzioni: che non si potesse trovare
Dio per la via tentata dal Medioevo, ben lo
sapeva tutta la teologia pietistica di quel tempo, Spener* soprattutto.
Dio è nascosto, le sue vie non sono le nostre vie, i suoi pensieri non sono i
nostri pensieri. Ma nelle vie esatte della natura, dove si poteva cogliere fisicamente la sua
opera, là si sperava di poter
rintracciare i suoi disegni in relazione al mondo. E oggigiorno? Chi ancor oggi
— tranne alcuni grandi fanciulli, quali
è dato incontrare proprio nelle scienze naturali — crede che le conoscenze dell'astronomia o della biologia o
della fisica o della chimica possano insegnarci qualcosa intorno al serso
del mondo, o anche soltanto intorno alla
via per la quale si possano rintracciare gli indizi di un simile « senso », se
pur ve n'è uno? Quelle conoscenze sono
semmai più adatte a soffocare in germe
la fede che vi sia qualcosa di simile a un «senso» del 5. Jan Swammerdam, naturalista olandese,
autore del Tractatus
physico-anatomico-medicus de respiratione usuque pulmonum (1667), del
Miraculum naturae seu uteris muliebris fabrica (1672), della Ephemerae vita
(1675) © di varie altre opere, diede
importanti contributi allo studio degli insetti, all'embriologia, all'anatomia
umana, e fu tra i pionieri del microscopio. Spener, teologo protestante
tedesco, autore di Pia desideria (1675),
di Dus geistliche Priestertum (1677), della Evangelische Glaubenslehre (1688),
delle Evangelische Lebenspffichten (1692) c di varie altre opere, fu il fondatore del movimento pietistico. mondo! E finalmente, la scienza come via per
giungere «a Dio»? Essa, la potenza
specificamente estranea alla divinità?
Che tale essa sia nessuno oggi, nel suo intimo, può dubitarne, pur essendo più o meno disposto a
confessarlo. L’emancipazione dal razionalismo e dall’intellettualismo della
scienza costituisce il presupposto fondamentale della vita in comunione con
il divino: questa massima, o qualcosa di
significato identico, è una delle parole
d’ordine che si ritrovano ovunque nel sentimento dei nostri giovani dotati di
animo religioso o che aspirano a un'esperienza religiosa. Ed essa vale non
soltanto per l’esperienza religiosa, ma
per l’esperienza in generale. Paradossale però è la via seguita: si elevano ora
alla coscienza e si sottopongono alla
sua lente proprio quelle sfere dell’irrazionale, le sole che finora l’intellettualismo non
aveva ancora toccato. A ciò conduce
infatti, in pratica, il moderno romanticismo intellettualistico
dell’irrazionale. Questa via per liberarsi dall’intellettualismo porta a un
risultato esattamente opposto al fine immaginato da coloro i quali la percorrono.
Che infine per un ingenuo ottimismo si sia celebrato nella scienza, ossia nella
tecnica per il dominio della vita su di
essa fondata, la via per giungere alla
felicità, posso passarlo sotto silenzio dopo la critica demolitrice rivolta da
Nietzsche a quegli « ultimi uomini» i quali
«hanno trovato la felicità». Chi ci crede più, tranne alcuni grandi fanciulli sulle cattedre o nei
comitati di redazione? Torniamo al punto
di partenza. Dati questi presupposti
intrinseci, qual è il senso della scienza come professione, dal momento che sono naufragate tutte quelle
precedenti illusioni — «la via per il
raggiungimento del vero essere», «la via
verso la vera arte», «la via verso la vera natura», «la via verso il vero Dio », «la via verso la vera
felicità »? La risposta più semplice è
stata data da Tolstòj con queste parole: « essa è priva di senso perché non risponde alla sola
domanda importante per noi: che cosa dobbiamo fare? come dobbiamo vivere?
» Il fatto che non vi risponda è assolutamente
incontestabile. Si tratta soltanto di
domandarsi in quale senso non dia « nessuna» risposta, e se in luogo di questa
essa non possa per caso dare un qualche
aiuto a chi si ponga la questione nei suoi
termini esatti. — Oggi si suole sovente parlare di una scienza senza
presupposti. Ce n'è una? Dipende da quel che si vuol intendere. Presupposto di qualsiasi lavoro
scientifico è sempre la validità delle
regole della logica e della metodologia, di
questi fondamenti generali del nostro orientamento nel mondo. Ora siffatti presupposti, per lo meno quanto
alla nostra questione particolare, non sono affatto problematici. Si
presuppone inoltre che il risultato del
lavoro scientifico sia importante nel
senso che sia « degno di essere conosciuto ». E qui evidentemente hanno
la loro radice tutti i nostri problemi. Infatti questo presupposto non può essere a sua volta
dimostrato con i mezzi della scienza.
Può essere soltanto interpretato nel suo senso
ultimo, che bisognerà accogliere o respingere a seconda della personale posizione ultima di fronte alla
vita. Assai diverso, inoltre, è il tipo
di relazione del lavoro scientifico con questi suoi presupposti, a seconda
della loro struttura. Le scienze
naturali come la fisica, la chimica, l’astronomia, presuppongono come evidente che le leggi
ultime dell’accadere cosmico —
costruibili, fin dove arriva la scienza — siano degne di esser conosciute. Non soltanto perché con
queste nozioni si possono raggiungere
successi tecnici, ma — se devono essere
« professione » — « per se stesse ». Questo presupposto a sua volta non è assolutamente dimostrabile; e
meno che mai si può dimostrare se il
mondo da esse descritto sia degno di esistere,
se cioè esso abbia un « senso », e se abbia un senso esistere in esso. Di ciò quelle scienze non si
preoccupano. Oppure prendete un'arte pratica così sviluppata scientificamente
come la medicina moderna. Il « presupposto» generale dell'esercizio della
medicina è — in parole povere — che sia considerato positivo, unicamente come
tale, il compito della conservazione della vi- ta e della riduzione al minimo
della sofferenza. E ciò è proble- matico. Il medico cerca con tutti i mezzi di
conservare la vita al moribondo, anche se questi implora di essere liberato
dalla vita, anche se la sua morte è e dev'essere desiderata — più o meno
consapevolmente — dai suoi congiunti, per i quali la sua vita è ormai priva di
valore mentre insopportabili sono gli oneri per conservarla, ed essi gli
augurano la liberazione dalla sofferenza (si tratta, poniamo il caso, di un
povero folle). Ma i presupposti della medicina e il codice penale impediscono
al medico di desistere. La scienza medica non si pone la domanda se e quando la
vita valga la pena di esser vissuta. Tutte le scienze naturali dànno una
risposta a questa domanda: che cosa dobbiamo fare se vogliamo dominare
tecnicamente la vi- ta? Ma se dobbiamo e vogliamo dominarla tecnicamente, e se
ciò, in definitiva, abbia propriamente un senso, esso lo lasciano del tutto in
sospeso oppure lo presuppongono per i loro scopi. Prendiamo, se volete, una
disciplina come la scienza dell’arte. Il fatto che vi siano opere d’arte
costituisce, per l’estetica, un dato. Essa cerca di stabilire a quali
condizioni quel fenomeno si verifichi. Ma non si pone la domanda se il dominio
dell’arte non sia per avventura un regno di magnificenza diabolica, un regno di
questo mondo, e perciò intimamente opposto al divino e, per il suo carattere
intrinsecamente aristocratico, allo spirito di fraternità. Essa non si domanda
quindi se debbano esservi opere d’arte. Oppure prendiamo la giurisprudenza:
essa stabili- sce ciò che è valido secondo le regole del pensiero giuridico, in
parte coercitivamente logico e in parte vincolato da schemi convenzionali; vale
a dire, stabilisce se sono riconosciute obbli- gatorie determinate regole
giuridiche e determinati metodi per la loro interpretazione. Non decide se
debba esservi il diritto e se debbano esser formulate proprio quelle regole;
essa può indi- care soltanto che, se si vuol conseguire un risultato, il mezzo
appropriato per raggiungerlo ci è dato da questa regola giuridi- ca, secondo le
norme del nostro pensiero giuridico. O prendete ancora le scienze storiche
della cultura. Esse ci insegnano a comprendere i fenomeni della cultura —
politici, artistici, lette- rari e sociali — in base alle condizioni del loro
sorgere. Ma non rispondono di per sé alla questione se questi fenomeni
culturali fossero e siano degni di sussistere, e neppure all’altra questione se
valga la pena di conoscerli. Esse presuppongono che abbia un interesse
partecipare, mediante tale procedimen- to, alla comunità degli « uomini civili
». Ma che così stiano le cose, esse non sono in grado di dimostrarlo «
scientificamente » a nessuno, e che esse lo presuppongano non dimostra affatto
che ciò sia evidente. E infatti non lo è per nulla. Soffermiamoci ora su quelle
discipline alle quali sono più vicino, e cioè la sociologia, la storia,
l'economia, la dottrina dello stato, e su quelle forme di filosofia della
cultura che si pro- pongono di darne un’interpretazione. Si afferma — e io lo
MAX WEBER 793 sottoscrivo — che la politica non si addice all’aula di lezione.
Non vi si addice da parte degli studenti. Io vorrei deplorare per esempio che
nell’aula del mio vecchio collega Dietrich Sché- fer? a Berlino gli studenti
pacifisti si accalcassero intorno alla cattedra e facessero un chiasso simile a
quello che devono aver inscenato gli studenti anti-pacifisti davanti al
professor Fòr- ster®, dalle cui opinioni le mie divergono radicalmente in molti
punti. Ma la politica non si addice all'aula neppure da parte degli insegnanti:
meno che mai quando l’insegnante si occupa di politica dal punto di vista
scientifico. Infatti la presa di posizione politica pratica e l’analisi
scientifica di formazioni e partiti politici sono due cose diverse. Quando uno
parla sulla democrazia in una riunione popolare, non fa mistero della propria
presa di posizione personale: anzi, è questo il dannato obbligo e dovere,
prender partito in modo chiaramente ricono- scibile. Le parole di cui ci si
serve non sono in questo caso strumenti di analisi scientifica, bensì mezzi di
propaganda per trarre dalla nostra parte gli altri. Esse non sono un vomere per
smuovere il terreno del pensiero contemplativo, bensì spade contro gli
avversari, strumenti di lotta. Ma in una lezione o in un'aula sarebbe un
misfatto usare la parola in questa maniera. Se.vi si parlerà di « democrazia »,
si osserveranno le sue di- verse forme, si analizzerà il modo in cui esse
funzionano, si stabilirà quali siano le conseguenze particolari dell’una o
dell’al- tra per le condizioni della vita, e poi vi si contrapporranno le altre
forme non democratiche di organizzazione politica e si cercherà di giungere
fino al punto in cui l'ascoltatore sia in grado di poter prendere posizione
secondo i suo: ideali ultimi. Ma il vero maestro si guarderà bene dal
sospingerlo, dall'alto della cattedra, a prendere una qualsiasi posizione, sia
esplicita- mente sia con suggerimenti — poiché naturalmente il metodo più sleale
è quello di « far parlare i fatti». 7. Dietrich Schifer (1845-1929), storico
tedesco allievo di Treitschke, di oricn- tamento nazionalistico, 8. Friedrich
Wilhelm Forster (1869-1966), filosofo e pedagogista tedesco, autore di
Lebensfiihrung (1909), di Autorità und Freiheit (1910), di Erziechung und
Selbst- erziehung (1917), di Hauptaufgaben der Erziehung (1959) e di numerose
altre opere di argomento etico-pedagogico ed etico-politico, fu sostenitore del
pacifismo e quiodi oggetto di violenti attacchi da parte degli studenti
nazionalisti. Ma per quale ragione, precisamente, dobbiamo astenercene ?
Premetto che diversi tra i miei stimatissimi colleghi sono del parere che una
siffatta discrezione non sia attuabile e che, se anche lo fosse, sarebbe follìa
pretenderla. Ora a nessuno può dimostrarsi scientificamente quale sia il suo
dovere di professo- re universitario. Da lui si può pretendere soltanto la
probità intellettuale, per cui sappia comprendere che la constatazione dei
fatti, la determinazione di rapporti matematici o logici o della struttura
interna di beni culturali da una parte — e dall’al- tra la risposta alla
questione del valore della cultura e dei suoi contenuti particolari — e quindi
del modo in cui si deve agire nell’ambito della comunità civile e dei gruppi
politici — sono due problemi assolutamente eterogenei. Se poi egli domanda
perché non debba trattarli entrambi nell'aula di lezione, ecco la risposta:
perché il profeta e il demagogo non si addicono alla cattedra. Al profeta e al
demagogo è stato detto: «esci per le strade e parla pubblicamente ». Parla,
cioè, dov’è possibi- le la critica. Nell’aula di lezione, ove si sta seduti di
faccia ai propri ascoltatori, a questi tocca tacere e al maestro parlare, e
reputo una mancanza di senso di responsabilità approfittare della circostanza
che gli studenti sono obbligati dal program- ma di studi a frequentare il corso
di un professore dove nessu- no può intervenire a controbatterlo, per inculcare
negli ascolta- tori la propria personale concezione politica invece di recare
loro giovamento, come il dovere impone, con le proprie cono- scenze e le
proprie esperienze scientifiche. Può certamente avve- nire che l'individuo
riesca solo imperfettamente a nascondere le proprie simpatie soggettive.
Allora, egli si espone alla cri- tica più spietata davanti al foro della sua
coscienza. E ciò d'altronde non prova nulla, poiché anche altri errori puramen-
te di fatto sono possibili e non possono contrastare al dovere di ricercare la
verità. Io mi rifiuto di ammetterlo anche e precisa- mente per l'interesse
puramente scientifico. Sono disposto a provare sulle opere dei nostri storici
che, ogni qual volta l’uo- mo di scienza mette innanzi il proprio giudizio di
valore, cessa la perfetta comprensione del fatto. Tuttavia, ciò esula dal tema
di questo discorso ed esigerebbe lunghe considerazioni critiche. Io domando
semplicemente: come può da una parte un cattolico credente e dall’altra un
massone — in un corso sulle forme di chiesa e di stato o sulla storia della
religione — come possono mai questi due esser condotti a un’eguale valutazione
di tali oggetti? È impossibile. Eppure, il professore universita- rio deve
desiderare e proporsi di giovare con le sue conoscenze e i suoi metodi tanto
all'uno come all’altro. Ora voi direte giustamente: neppure riguardo ai fatti
relativi all'origine del Cristianesimo il cattolico credente potrà mai
accettare l’opinio ne prospettatagli da un maestro che non condivida i suoi
pre- supposti dogmatici. Senza dubbio! Ma la differenza consiste nel fatto che
la scienza « priva di presupposti », nel senso che riftu- ta ogni vincolo
religioso, non riconosce di fatto, dal canto suo, il « miracolo » e Ia
«rivelazione ». Altrimenti essa tradirebbe i propri « presupposti ». Il
credente li riconosce entrambi. E quel- la scienza « priva di presupposti » non
pretende da lui meno — ma anche niente di più — del riconoscimento che bisogna
seguire la via tentata dalla scienza, se si vuol spiegare quell’av- venimento
prescindendo da quegli interventi soprannaturali, che per una spiegazione
empirica devono essere esclusi come momenti causali. Ciò il credente può
ammetterlo senza tradire la propria fede. Ma la funzione della scienza non avrà
allora alcun senso per chi è indifferente al fatto in quanto tale e reputa
importan- te soltanto la presa di posizione pratica? Forse sì. E anzitutto: un
abile maestro considererà suo primo compito insegnare ai propri allievi a
riconoscere i fatti scomodi, e cioè tali, intendo dire, che siano scomodi per
la sua opinione di partito; e per ogni partito — per esempio anche per il mio —
vi sono fatti del genere, estremamente imbarazzanti. Credo che il professore
universitario, se avvezza i propri ascoltatori a questa necessità, compia una
funzione non soltanto intellettuale, ma — oserei dire — una « funzione etica »,
per quanto una simile espressio- ne possa suonar troppo patetica applicata a un
fatto così sempli- ce e ovvio. Finora ho parlato soltanto dei motivi pratici
che consiglia- no di evitare di imporre una presa di posizione personale. Ma
non è tutto qui. L’impossibilità di presentare « scientificamen- te» una presa
di posizione pratica — eccetto nel caso di una discussione dei mezzi per uno
scopo che si presuppone già dato deriva da ragioni ben più profonde. Una simile
impresa è in linea di principio priva di
senso, in quanto i diversi ordini di valori che esistono al mondo stanno tra
loro in una lotta inconciliabile. Il
vecchio Mill — la cui filosofia non intendo
peraltro lodare, ma che su questo punto ha ragione — dice in qualche
luogo: partendo dalla pura esperienza si giunge al politeismo. Il principio è
formulato superficialmente e sembra un paradosso, tuttavia contiene una qualche
verità. Di questo, se non altro, oggi siamo certi: che qualcosa può essere
sacro non soltanto anche senza essere bello, ma perché e in quanto non è bello
(potrete trovarne le prove nel cap. 53 del Libro di Isaia e nel Salmo 21) e che
qualcosa può essere bello non soltanto anche senza essere buono bensì in quanto
non è tale, come abbiamo imparato da Nietzsche e come anche prima potete
trovare illu- strato nelle Fleurs du mal, come chiamò Baudelaire il suo volume
di poesie; ed è infine una verità di tutti i giorni che qualcosa può essere
vero sebbene e in quanto non sia bello, né sacro, né buono. Ma questi sono
soltanto gli esempi più elemen- tari di tale lotta tra gli dèi che presiedono
ai diversi ordinamen- ti e valori. Come si possa fare per decidere «
scientificamente » tra il valore della cultura tedesca e di quella francese, io
lo ignoro. Anche qui c'è un antagonismo
tra divinità diverse, per tutti i tempi.
Avviene come nel mondo antico, ancora sotto
l'incanto dei suoi dèi e dei suoi demoni, anche se in un altro senso: come i Greci sacrificavano ora ad
Afrodite e ora ad Apollo, e ciascuno in
particolare agli dèi della propria città,
così è ancor oggi, senza l’incantesimo e l’ammanto della forza plastica, mitica ma intimamente vera, di
quell’atteggiamento. Su questi dèi e
sulle loro lotte domina il destino, non certo la « scienza ». È dato solamente intendere che
cosa sia il divino nell’uno e nell’altro
caso, ovvero in un ordinamento e nell’altro. Ma con ciò la questione è
assolutamente chiusa a qualsiasi discussione
in un’aula di lezione e per bocca di un insegnante, quantunque naturalmente non sia affatto
chiuso l’enorme problema di vita che vi è racchiuso. Qui però la parola spetta
a potenze diverse che non alle cattedre
universitarie. Chi vorrà provarsi a «
confutare scientificamente » l’etica del Sermone della Montagna, per esempio la
massima: « non far resistenza al male »,
oppure l’immagine del porgere l’altra guancia? Eppure MAX WEBER 707
è chiaro che, dal punto di vista intra-mondano, vi si predica un'etica della mancanza di dignità: bisogna
scegliere tra la dignità religiosa, che
questa etica comporta, e la dignità virile,
che predica qualcosa di ben diverso: «devi far resistenza al male, altrimenti sei anche tu responsabile se
questo prevale ». Dipende dalla propria
presa di posizione rispetto al fine ultimo
che l’uno sia il diavolo e l’altro il dio, e spetta all’individuo decidere quale sia per lui il dio e quale il
diavolo. E così avviene per tutti gli
ordinamenti della vita. Il grandioso razionalismo della condotta etico-metodica
della vita, che sgorga da ogni profezia
religiosa, aveva detronizzato questo politeismo a favore dell’« Uno, che è necessario», e poi,
di fronte alle realtà della vita
esteriore e interiore, si è visto costretto a scendere a quei compromessi e a
quelle relativizzazioni che tutti conosciamo
dalla storia del Cristianesimo. Ma ciò è oggi una «realtà quotidiana » per la religione. Gli
antichi dèi, spogliati del loro incanto
e perciò ridotti a potenze impersonali, si levano dalle loro tombe, aspirano a
dominare sulla nostra vita e riprendono
quindi la loro eterna lotta. Ma ciò che per l’uomo moderno è appunto tanto
difficile, e sommamente difficile per la giovane generazione, è saper far
fronte a siffatta realtà quoti- diana. Tutto quell’affannarsi in cerca dell’«
esperienza vissuta » deriva da questa debolezza. Infatti è una debolezza non
poter tenere levato lo sguardo al volto severo del destino dei tempi. Ma il
destino della nostra cultura è appunto quello di essere diventati oggi
nuovamente e più chiaramente consapevoli di ciò che per un millennio
l’orientamento esclusivo — vero o presunto — verso il grandioso pathos
dell'etica cristiana aveva celato ai nostri occhi. Ma basta ora con questi problemi che ci
conducono troppo lontano. Poiché, quando
una parte dei nostri giovani volesse dare
a tutto ciò questa risposta: « già, ma noi veniamo a lezione per ricavarne
un'esperienza che non consista soltanto in
analisi e in constatazioni di fatto », essi incorrerebbero nell’errore
di cercare nel professore qualcosa di diverso da ciò che sta loro di fronte — e cioè un capo e non un
maestro. La cattedra ci è conferita
solamente in qualità di maestri. Si tratta di due cose ben diverse, e di ciò è facile
convincersi. Permettetemi di condurvi
ancora una volta in America, dove queste cose si 708 MAX WEBER
possono spesso vedere nella loro più pesante originarietà. Il ragazzo americano impara incomparabilmente
meno del nostro. Nonostante un'incredibile quantità di esami, il senso
della sua vita scolastica non è ancora
diventato tale da ridurlo un « tipo da
esami », come avviene per il ragazzo tedesco. Infatti la burocrazia, la quale
esige il diploma di esame come biglietto d’ingresso nel regno delle prebende
degli uffici, è laggiù ancora agli inizi.
Il giovane americano non porta rispetto a nulla e a nessuno, a nessuna
tradizione e a nessun ufficio, salvo che alla prestazione personale: questa è
per l’Americano la «democrazia», Per quanto la
realtà possa comportarsi pur sempre in maniera distorta rispetto a
questo contenuto di senso, esso risulta però tale e di questo dobbiamo qui tener conto. Dell’insegnante che
gli sta di fronte il giovane americano
ha quest’opinione: egli mi vende le sue
nozioni e i suoi metodi per il denaro di mio padre, così come l’erbivendola vende i cavoli a mia madre. Con
ciò è detto tutto. Tuttavia, se il
maestro è per avventura un alipone di
football, in questo campo egli è anche un capo. Ma se non è tale (o qualcosa di simile in altri sport),
egli è semplicemente un insegnante e
nulla più, e a nessun giovane americano verrà
in mente di farsi vendere da lui delle « intuizioni del mondo » o delle regole per la sua condotta di vita.
Ora, noi respingeremo una simile opinione formulata in questi termini.
Bisogna però domandarsi se in questo modo
di sentire, che di proposito ho voluto spingere all'estremo, non si annidi un
nocciolo di verità. Fratelli d'armi e sorelle d'armi! Voi venite
alle nostre lezioni con la pretesa di trovare in noi qualità di capi, senza
aver riflettuto che, di cento
professori, almeno novantanove non pretendono e non possono pretendere di
essere non soltanto campioni di football della vita, ma neppure in generale
«capi» nelle faccende della condotta
della vita. Pensate che il valore
dell'uomo non dipende certo dal fatto di possedere le doti di un capo. E comunque, le qualità che fanno di
qualcuno un eminente studioso e un
professore universitario non sono quelle
stesse che ne fanno un capo sul terreno dell’orientamento pratico della vita o,
più specificamente, della politica. È un puro caso che qualcuno possegga anche
questa qualità, ed è una cosa assai preoccupante quando chiunque stia in
cattedra si sente posto di fronte alla pretesa che egli la possegga. E ancor più preoccupante, poi, è quando a ogni
professore universitario viene data facoltà di assumere nell’aula la posizione
di un capo. Infatti coloro che si
ritengono di esserlo più degli altri lo
sono spesso meno di tutti; ma soprattutto la cattedra non può offrire alcuna possibilità di
conferma. Il professore che si senta
chiamato a dare il suo consiglio ai giovani e goda della loro fiducia, dovrà procurare di
mettersi alla prova discutendo con loro in un rapporto personale da uomo a
uomo. E se si sente chiamato a
partecipare alle lotte tra le intuizioni del
mondo e le diverse opinioni di partito, lo faccia al di fuori, nell’agone della vita: nella stampa, nelle
assemblee, nei circoli, dove gli pare. È
troppo comodo però dar prova del proprio
coraggio di confessore della fede là dove gli astanti, e fors'anche
quelli di diversa opinione, sono condannati al silenzio. Voi mi porrete infine la domanda: se così
stanno le cose, che offre allora la
scienza di veramente positivo per la «vita »
pratica e personale? E con ciò siamo daccapo al problema della vostra « professione ». Anzitutto,
naturalmente, la scienza offre
cognizioni sulla tecnica per padroneggiare la vita, rispetto agli oggetti esterni e rispetto all’agire
dell’uomo, mediante la previsione razionale: ebbene, voi replicherete che con
ciò siamo pur sempre al punto
dell’erbivendola del ragazzo americano. Sono
perfettamente della vostra opinione. Ma c’è in secondo luogo qualcosa che quell’erbivendola non è tuttavia
capace di fare: i metodi del pensare,
l’attrezzatura e l'addestramento a quello
scopo. Direte forse che, se questi non sono proprio gli ortaggi, non sono tuttavia più che i semplici mezzi
per procurarseli. Bene, diamolo oggi per
ammesso. Ma fortunatamente la funzione della scienza non è ancora finita, bensì
noi siamo in condizione di aiutarvi a conseguire un ulteriore risultato: la
chiarezza. A patto, naturalmente, di possederla noi stessi. Se questo è il caso, possiamo renderlo chiaro: rispetto
al problema del valore, intorno al quale
sempre ci si aggira — per comodità vi
prego di riferirvi, come esempio, ai fenomeni sociali — si possono prendere praticamente diverse
posizioni. Se si assume l’una o l’altra,
bisogna applicare — secondo le esperienze della
scienza — certi mezzi o certi altri per attuarla praticamente. Ora questi mezzi possono essere di per sé
tali che voi crederete di doverli respingere. Allora, bisogna appunto scegliere
tra lo scopo e i mezzi indispensabili.
Lo scopo «giustifica» o no questi mezzi?
L'insegnante può mostrarvi la necessità di questa scelta, ma non può fare di più, in quanto
voglia rimanere insegnante e non
diventare un demagogo. Naturalmente, può
ancora dirvi: se volete questo o quell'altro scopo, dovete mettere in
conto anche questa o quell’altra conseguenza concomitante che si verifica in
conformità all'esperienza; la situazione,
cioè, è sempre la medesima. Tuttavia, tutti questi sono pur sempre problemi del genere di quelli che
possono sorgere anche per ogni tecnico, il quale in innumerevoli casi deve
decidere secondo il principio del minor male o del meglio relativo. Ma per lui una cosa, quella principale, è di
solito già data: lo scopo. Non così
avviene per noi, non appena siano in questione
problemi realmente « ultimi ». E con ciò siamo giunti alla funzione più
alta che la scienza in quanto tale può assolvere in servizio della chiarezza, e
contemporaneamente anche ai suoi
confini. Noi possiamo — e dobbiamo — anche dirvi: questa o quest'altra
posizione pratica può essere derivata con
intima coerenza e quindi con serietà, per quanto riguarda il suo senso, da questa o da quest'altra
fondamentale concezione del mondo —
magari da una soltanto o forse anche da più —
ma non mai da quell'altra. Voi servite questo dio — per parlar figuratamente — e offendete
quell'altro, se vi risolveteper questa presa di posizione. Infatti perverrete
necessariamen- te a queste e a quest’altre conseguenze ultime dotate di senso,
se rimarrete fedeli a voi stessi. Quest'opera, almeno in linea di principio,
può esser compiuta. A ciò tendono la disciplina spe- ciale della filosofia e le
discussioni di principio, per loro essen- za filosofica, delle singole
discipline. Possiamo quindi, se ab- biamo ben capito il nostro compito (il che
dev’esser qui presup- posto), costringere l'individuo — o almeno aiutarlo — a
render- st conto del senso ultimo del suo proprio operare. Questo non mi sembra
sia troppo poco, anche per la vita puramente perso- nale. Di un insegnante che
riesca in questo compito sarei tenta- to di dire che si è messo al servizio di
potenze «etiche», del dovere di promuovere la chiarezza e il senso di
responsabilità, e credo che ne sarà tanto più capace quanto più
coscienziosamente eviterà di fornire bell'e pronta o di suggerire per pro- prio
conto all'ascoltatore una presa di posizione. Senza dubbio la soluzione che qui
vi ho prospettato riposa su questo fondamentale dato di fatto: che la vita, in
quanto deve fondarsi su se stessa ed essere compresa in base a se stessa,
conosce soltanto la lotta eterna di quelle divinità tra loro — cioè, fuor di
metafora, l’inconciliabilità e quindi l’inso- lubilità della lotta tra le
posizioni ultime possibili in generale rispetto alla vita, vale a dire la
necessità di decidere per l’una o per l’altra. Se in queste condizioni la
scienza sia degna di diventare una «professione » e se essa stessa costituisca
una « professione » fornita di valore oggettivo — ecco un altro giu- dizio di
valore sul quale non è dato pronunciarsi nell’aula di lezione. Per
l'insegnamento, infatti, la risposta affermativa è un presupposto. Io
personalmente, col mio stesso lavoro, rispondo affermativamente. E ciò vale
anche per quel punto di vista — che la gioventù oggi professa, o meglio che per
lo più s'imma- gina semplicemente di professare — il quale odia
l’intellettuali- smo come il più nero dei diavoli. Giacché ad esso si conviene
il detto: «il diavolo è vecchio, pensateci: invecchiate e lo capire- te »°. Ciò
non s'intende nel senso dell’atto di nascita, ma nel senso che, anche riguardo
a questo diavolo, se si vuol farla finita con lui, non vale ricorrere alla
fuga, come oggi si fa così volentieri, ma bisogna scrutare bene a fondo tutte
le sue vie prima di poter vedere la sua potenza e i suoi confini. Che la
scienza sia oggi una «professione» spectalizzata, posta al servizio
dell’auto-riflessione e della conoscenza di situa- zioni di fatto, e non una
grazia di visionari e profeti, dispensa- trice di mezzi di salvezza e di
rivelazioni, o un elemento della meditazione di saggi e filosofi sul serso del
mondo — è certa- mente un dato di fatto ineluttabile dalla nostra situazione
stori- ca, al quale, se vogliamo restare fedeli a noi stessi, non possia- mo
sfuggire. E se di nuovo sorge in voi Tolstò) a domanda- re: «se dunque non è la
scienza a farlo, chi risponde allora alla domanda: che cosa dobbiamo fare? e come
dobbiamo diri- gere la nostra vita? », oppure, nel linguaggio che testé 9.
Goetne, Faust, vv. 6817-18 (tr. it. di F. Fortini). abbiamo usato: « quale
degli dèi in lotta dobbiamo servire? o forse qualcun altro, e chi mai? »,
bisogna dire che la risposta spetta a un profeta o a un redentore. Se questi
non è tra noi o se il suo annuncio non è più creduto, non varrà certo a farlo
scendere su questa terra il fatto che migliaia di professori tentino di
rubargli il mestiere nelle loro aule di lezione, come tanti piccoli profeti
privilegiati o pagati dallo stato. Ciò servirà soltanto a nascondere tutto
l'enorme peso del significato del fatto decisivo, che cioè il profeta, che
invocano tanti della no- stra più giovane generazione, zon esiste. L'interesse
interiore di un uomo davvero «musicale» in senso religioso non sarà mai e poi
mai soddisfatto, io credo, dall’espediente per cui si cerca di nascondergli con
un surrogato — come sono tutti questi falsi profeti in cattedra — il fatto
fondamentale che il destino gli impone di vivere in una epoca lontana da Dio e
priva di profeti. La serietà del suo sentimento religioso dovreb- be, mi
sembra, ribellarvisi. Ora, voi sarete indotti a domanda- re: ma come ci si deve
comportare di fronte al fatto dell’esi- stenza della « teologia » e delle sue
pretese a porsi come « scien- za»? Cerchiamo di non sottrarci alla risposta. «
Teologia» e « dogmi » non si trovano certo sempre e ovunque, ma neppure
esclusivamente nel Cristianesimo. Li incontriamo (guardando dietro di noi nel
tempo) in forme molto sviluppate anche nell’I- slam, nel Manicheismo, nella
Gnosi, nell’Orfismo, nel Parsismo, nel Buddismo, nelle sette indù, nel Taoismo,
nelle Uparishad e naturalmente anche nell’Ebraismo. Com'era naturale, essi sono
sviluppati sistematicamente in misura assai diversa. E non è un caso che non
soltanto il Cristianesimo occidentale li abbia co- struiti, o tenda a
costruirli in forma più sistematica — a diffe- renza della teologia, per
esempio, dell’Ebraismo — ma anche che il loro sviluppo abbia avuto qui un
significato storico di gran lunga più importante. È questo un prodotto dello
spirito greco, dal quale deriva tutta la teologia dell’Occidente come
(evidentemente) tutta la teologia orientale deriva dal pensiero indiano. Ogni
teologia consiste nella razionalizzazione intellet- tuale del patrimonio
religioso della salvezza. Nessuna scienza è assolutamente priva di presupposti
e nessuna può stabilire il fondamento del proprio valore per chi rifiuti tali
presupposti. Tuttavia, ogni teologia aggiunge alcuni presupposti specifici per
il proprio lavoro e quindi per la giustificazione della pro- pria esistenza. In
diverso senso e con diversa portata. Per ogni teologia, per esempio anche per
quella induistica, vige il presup- posto che il mondo deve avere un senso; e la
questione da risolvere è la seguente: come bisogna interpretarlo, perché ciò
possa esser concepito? In modo del tutto simile alla teoria della conoscenza di
Kant, la quale muoveva dal presupposto che «c'è una verità scientifica, ed essa
vale » e quindi si do- mandava: in virtù di quali condizioni del pensiero ciò è
possibi- le (in modo dotato di senso)? Oppure al modo degli estetici moderni i
quali (esplicitamente — come per esempio Georg von Lukics!” — oppure di fatto)
muovono dal presupposto che « vi sono opere d’arte » e si domandano: come ciò è
possibi- le (in modo dotato di senso)? Tuttavia, le teologie non si
accontentano di regola di quel presupposto (appartenente essen- zialmente alla
filosofia della religione); esse muovono di rego- la dal presupposto ancor più
remoto per cui determinate « rive- lazioni» devono essere assolutamente credute
in quanto fatti che rivestono un’importanza per la salvezza — come tali, cioè,
che soli rendono possibile una condotta nella vita dotata di senso — e per cui
determinati modi di essere e di agire possie- dono la qualità della santità,
ossia costituiscono una condotta di vita dotata di senso religioso o sono
elementi di questa. La domanda che si pone la teologia è allora di nuovo: come
possono essere interpretati in modo dotato di senso, nell’am- bito di
un'immagine complessiva del cosmo, questi presupposti che vanno accettati in
modo assoluto? Quei presupposti sì trova- no per la teologia al di là di ciò
che è «scienza». Essi non sono un «sapere» nel senso corrente, bensì un «
possedere ». Non possono esser sostituiti — la fede o gli altri stati di grazia
— da nessuna teologia, per chi non li « possieda ». Meno che mai, poi, da
un’altra scienza. Anzi, in ogni teologia « positi- va » il credente giunge al
punto dov'è valida la massima agosti- niana: credo non quod, sed quia absurdum
est. La capacità di compiere questo estremo « sacrificio dell’intelletto »
costituisce il carattere decisivo dell’uomo che appartiene a una religione 10.
Weber si riferisce qui ai primi volumi di Lukics, Die Seele und die Formen
(1911) e Die Thcorie des Romans (1916). positiva. E così stando le cose, è
chiaro che, ad onta (o piutto- sto in conseguenza) della teologia (che svela
questo stato di cose), la tensione tra la sfera di valore della «scienza» e
quella della salvezza religiosa è insuperabile. Il «sacrificio dell'intelletto»
lo compie, com'è naturale, il discepolo al profeta e il credente alla chiesa.
Ma non è ancora mai sorta una nuova profezia — riprendo qui di proposito questa
immagine che ha urtato molte suscettibilità — semplice- mente per il fatto che
molti intellettuali moderni abbiano senti- to il bisogno di arredare, per così
dire, la loro anima con oggetti antichi garantiti come autentici, e si siano
ricordati in quest'occasione che tra questi vi è anche la religione, che essi
certamente non possiedono, ma che sostituiscono con una spe- cie di cappella
privata addobbata come per gioco con immagini sacre di tutti i paesi, oppure
con ogni sorta di esperienze vissu- te alle quali conferiscono la dignità di un
patrimonio mistico di salvezza e che vanno a vendere in piazza. Tutto ciò è
semplicemente ciarlataneria o auto-illusione. Ma non è davvero una
ciarlataneria, bensì qualcosa di assai serio e sincero — quantunque non esente,
talvolta, da qualche fraintendimento del suo stesso significato — il fatto che
alcune di quelle comuni- tà di giovani, sorte nel silenzio di questi ultimi
anni, diano alle loro relazioni reciproche il senso di un legame religioso,
cosmico o mistico. È vero che ogni atto di genuina fratellanza può connettersi
con la consapevolezza che con ciò viene in certo qual modo accumulato in un
dominio sovra-personale qualcosa che non andrà perduto; ma altrettanto mi
sembra dubbio che la dignità delle relazioni puramente umane tra i membri di
una comunità venga elevata attraverso siffatte inter- pretazioni religiose. —
Tuttavia, questo non rientra più nel nostro tema. È il destino dell’epoca
nostra, con la sua caratteristica razio- nalizzazione e intellettualizzazione,
e soprattutto col suo disin- cantamento del mondo, che proprio i valori ultimi
e più subli- mi siano diventati estranei al gran pubblico per rifugiarsi nel
regno extra-mondano della vita mistica o nella fraternità di relazioni
immediate tra gli individui. Non è accidentale che la nostra arte migliore sia
intima e non monumentale, e che oggi soltanto in seno alle più ristrette
comunità, nel rapporto da uomo a uomo, nel piazissimo, palpiti
quell’indefinibile che un tempo pervadeva e rinsaldava come un soffio profetico
e una fiamma impetuosa le grandi comunità. Proviamoci a forzare e a «inventare»
un senso monumentale dell’arte, ed ecco na- scere un pietoso aborto come quello
dei numerosi monumenti commemorativi degli ultimi vent'anni. Qualcosa di simile
si riproduce nella sfera interiore, con effetti ancor più deleteri, se si cerca
di escogitare nuove formazioni religiose senza una nuo- va genuina profezia. E
la profezia formulata dalla cattedra potrà forse dar vita a sette fanatiche,
mai però a un'autentica comunità. A chi non sia in grado di affrontare
virilmente questo destino della nostra epoca bisogna consigliare di torna- re
in silenzio, senza la consueta conversione pubblicitaria, ma schiettamente e
semplicemente, nelle braccia delle antiche chie- se, largamente e
misericordiosamente aperte. Esse non gli ren- dono il passo difficile.
Comunque, egli dovrà in qualche modo compiere — è inevitabile — il « sacrificio
dell’intelletto ». Non glielo rimprovereremo, se egli ne sarà realmente capace.
Infatti un simile sacrificio dell’intelletto in favore di un’incondiziona- ta
dedizione religiosa è pur sempre qualcosa di moralmente diverso da quel modo di
evitare la semplice probità intellettua- le che si verifica quando, non avendo
il coraggio di rendersi chiaramente conto della propria posizione ultima, si
allevia que- sto dovere con una debole relativizzazione. E lo considero an- che
più rispettabile di quella profezia dalla cattedra che non ha capito che entro
le pareti dell’aula di lezione nessun'altra virtù ha valore al di fuori della
semplice probità intellettuale. Questa ci impone di mettere in chiaro che oggi
tutti coloro i quali vivono nell’attesa di nuovi profeti e nuovi redentori si
trovano nella stessa situazione descritta nel bellissimo canto del- la
sentinella idumèa durante il periodo dell’esilio, che si legge nell’oracolo di
Isaia: «Una voce chiama da Seir in Edom: sentinella quanto durerà ancora la
notte? E la sentinella ri- sponde: verrà il mattino e anche la notte; se volete
domandare, tornate un’altra volta » !. Il popolo, al quale veniva data questa
risposta, ha domandato e atteso ben più di due millenni, e sap- Ir. Isaia, cap.
21, 11-12. 716 piamo il suo tragico destino. Ne vogliamo trarre insegnamento
che anelare e attendere non basta, e ci comporteremo in altra maniera: ci
metteremo al nostro lavoro e adempiremo al « com- pito quotidiano» — nella
nostra qualità di uomini e nella nostra attività professionale. Ciò è semplice
e facile quando ognuno abbia trovato e segua il démone che tiene i fili della
sua Vita. SPENGLER nascue a Blankenburg, ai confini della Sassonia, figlio di
un ingegnere minerario e di una madre con forti inclinazioni artistiche. Dopo
aver compiuto gli studi liceali a Halle, frequenta le università di Monaco, di
Berlino e di Halle. Consegue il dottorato a Halle, con una dissertazione sul
pensiero d’Eraclito. Insegna al liceo di Amburgo; dopo di che si trasfere a
Monaco. Durante la grande guerraSpengler si dedica alla stesura della sua opera
maggiore, Der Untergang des Abendlandes, di cui il primo volume compare al
termine del conflitto (Miinchen; tr. it. Milano). Il titolo di quest'opera —
che incontra subito un enorme successo — esprime la sua connessione con il
clima politico della sconfitta tedesca: il crollo della Germania si traduce nel
« tramonto » della civiltà occidentale, interpreta- to come il necessario
momento di decadenza a cui ogni cultura è condannata. I presupposti filosofici
generali dell’opera di Spengler possono essere rintracciati per un verso nel
pensiero di Dilthey — sviluppato in senso relativistico — e per l’altro verso
in Goethe e in Nietzsche, i due « autori » di Spengler. Da Dilthey deriva la
rivendicazione di una via di accesso alla storia che sia irriducibile al metodo
della scienza naturale, così come deriva l'affermazione del carattere storico
di tutte le manifesta- zioni del mondo umano. Spengler non soltanto accoglie
l’antitesi tra due modi di considerare la realtà, ma dà alla distinzione tra
natura e storia un rilievo ontologico; d'altra parte egli si richiama alla tesi
diltheyana dell’auto-centralità delle epoche storiche, applicandola alle
culture e facen- do così di ogni cultura un organismo chiuso in se stesso,
privo di rapporto con le altre culture. Da Goethe deriva invece la prospettiva
biologica in base alla quale la storia viene interpretata come un processo
organico, contrapposto all’uniformità delle vicende naturali nel cui ambi- to
vale il principio di causalità: la «natura vivente» di Goethe si trasforma nel
« mondo come storia », definito in antitesi al « mondo come natura», e la sua
logica è intesa come una logica organica, eterogenea alla logica meccanica
della natura. Da Nietzsche, infine, deriva lo schema ciclico di interpretazione
della storia, per cui il proces- so di ogni cultura appare come la ripetizione
di un processo sempre eguale: la dottrina dell'eterno ritorno viene tradotta
nell’affermazione dell'identità del ciclo biologico degli organismi elementari
della storia, cioè delle culture. Queste diverse componenti confluiscono — in
una mescolanza talvol- ta eclettica — a costituire l'impianto teorico di Der
Untergang des Abendlandes. In base ad esse Spengler si propone di dimostrare
che ogni cultura, essendo un organismo biologico, nasce, si sviluppa, decade e
muore, secondo la legge ineluttabile della sua specie: perciò ogni cultu- ra —
anche quella dell'Occidente — è destinata, a un certo momento, a perire. E
nulla valgono gli sforzi degli uomini rivolti a sottrarla a questa sorte,
poiché la logica organica della storia incarna il volere del destino, al quale
l’uomo non può che sottomettersi. Però, se il ciclo evolutivo è comune a tutte
le culture, diverso è il patrimonio biologico di ognuna: ogni cultura dà
origine a un proprio mondo simbolico, le cui manifestazioni valgono soltanto
all’interno di essa e non sono parteci- pabili dai membri delle altre culture.
Da ciò la conclusione relativistica a cui Spengler perviene: tra le culture non
è possibile alcuna comunica- zione, poiché non vi sono valori comuni tra di
esse. Ogni cultura crea i propri valori, che sono del tutto diversi da quelli
delle altre culture. In questo quadro la civiltà occidentale si presenta come
una cultura partico- lare ormai pervenuta al proprio tramonto, e
inarrestabilmente avviata alla fine. Analizzando i fenomeni politico-economici
che caratterizzano il mondo contemporaneo — l'affermazione della classe
borghese, il prevale- re dell'economia sulla politica, la dernocrazia,
l’organizzazione capitalisti- ca — Spengler cerca di porre in luce i sintomi di
questa decadenza, in virtù della quale la civiltà occidentale si presenta non
più come una « cultura » ma come una «civiltà in declino », ossia come una
Zivilisa- tion. Il tentativo di costruire una morfologia della storia
universale (come Spengler definisce la sua impresa filosofica) mette così capo
alla profezia, in chiave pessimistica, dell'imminente conclusione del ciclo
storico della civiltà occidentale. Benché oggetto di numerose critiche e
confutazioni, l’opera di Spen- gler ebbe una larga accoglienza positiva, e le
sue idee contribuirono in misura rilevante a preparare quel clima ideologico da
cui trarrà origine e alimento il nazismo. Nei volumi successivi a Der Untergang
des Abendlandes — da Preussentum und Sozialismus (Miinchen, 1919) a Politische
Pflichten der deutschen ]ugend (Miinchen, 1924) e a Neubau des deutschen
Reiches (Miinchen, 1924), e poi ancora da Der Mensch und die Technik (Miinchen,
1931; tr. it. Milano, 1931) a Jahre der Entscheidung (Miinchen, 1933; tr. it.
Milano, 1934) — Spengler conduce un'aspra polemica contro il liberalismo, il
regime parlamentare, i partiti politici, affermando la necessità di restaurare
l’autorità dello stato e di dar vita a un socialismo coerente con la tradizione
prussiana. È pur vero che egli non aderì mai al nazismo; ma l'opposizione alla
repubblica di Weimar e l’esaltazione del primato della politica, della
superiorità della razza bianca, del cesarismo, ne fanno uno dei padri
ideologici del regime. Negli ultimi anni Spengler vive ritirato, ritornando sui
temi della morfologia della storia universale e dedicando una particolare
attenzione al passaggio dalla preistoria alla storia e all’origine delle
culture: questi scritti, rimasti inediti per lungo tempo, sono stati pubbli-
cati soltanto in epoca recente (Urfragen, Miinchen, 1965; tr. it. Milano, 1971;
e Friihzeit der Weltgeschichte, Minchen, 1966). Muore a Monaco l'8 maggio 1936.
Di Der Untergang des Abendlandes esiste una recente riedizione in un volume,
Miinchen, 1963, 19697, nonché un’edizione economica nei « Deutsche
Taschenbiicher », 1973; anche Der Mensch und die Technik è stato ristampato nel
1971. Gli altri scritti del periodo 1919-24 sono stati raccolti nel volume
Politische Schriften, Miinchen, 1933. Ai volumi già menzionati si devono
aggiungere le Reden und Aufsitze (a cura di H. Kornhardt), Minchen, 1937, 1938
?, 1951° — che comprende anche Preus- sentum und Sozialismus — e i Gedanken (a
cura di H. Kornhardt), Miinchen, 1941. L'epistolario di Spengler è stato
pubblicato col titolo Briefe 1913-1936 (a cura di A. M. Koktanek, in
collaborazione con M. Schròter), Minchen, 1963. Sul dibattito a cui diede
origine la pubblicazione di Der Untergang des Abendlandes riferisce ampiamente
M. ScHnòrER, Die Streit um Spen- gler, Miinchen, 1922, ora ristampato come
prima parte di Metaphysik des Untergangs (Eine kulturkritische Studie tiber
Oswald Spengler), Miin- chen, 1949. Tra la vasta letteratura critica
concernente l’opera e il pensiero di Spen- gler segnaliamo gli studi seguenti:
« Logos », IX, 1920-21, n. 2 (fascicolo speciale dedicato a Spengler), con
articoli di K. JoéL, E. ScHwartz, W. SpreceLBere, L. Curtius, E. Frank, E.
Mezcer. T. L.
Harins, Die Struktur der Weltgeschichte, Tibingen, 1921. A. Messer, Oswald
Spengler als Philosoph, Stuttgart, 1922. A. Fauconnet, Oswald Spengler, Paris,
1925. R. G. Corrinewoon, Oswald Spengler and the Theory of Historical Cy- cles,
« Antiquity: a Quaterly Review of Archaeology », I, 1927, pp. 311-25 € 435-46. V. Bronio-BroccHieri, Spengler. La dottrina
politica del pangermanesi- mo post-bellico, Milano, 1928. tr A. G. OSWALD
SPENGLER 723 . Fenvre, De Spengler à Toynbee: quelques philosophies opportunistesde
l’histoire, « Revue de métaphysique et de morale », XLIII, 1936, pp. 573-602. .
Giusso, Spengler e la dottrina
degli universi formali, Napoli, 1936. . Gaune, Spengler und die Romantik,
Berlin, 1937. Scunoter,
Mesaphysik des Untergangs (Eine kulturkritische Studie ber Oswald Spengler),
Miinchen, 1949. S. Hucnes, Oswald Spengler: a Critical Estimate, New York,
1952. . Barrzer, Oswald Spenglers Bedeutung fiir die Gegenwari, Neheim-
Hiisten, 1959. . Stutz, Oswald Spengler als politischer Denker, Bern, 1959. A.
Waismann, E? historicismo contemporaneo: Spengler, Troeltsch, Croce, Buenos
Aires, 1960, parte I. Barrzer, Philosoph oder Prophet? Oswald Spenglers
Vermichtnis und Voraussagen, Neheim-Hiisten, 1962. Mitter, Oswald Spenglers
Bedeutung fiir die Geschichtswissenschaft, « Zeitschrift fir philosophische
Forschung», XVII, 1963, pp. 483-98. Spengler-Studien: Festgabe fiir Manfred
Schròter zum 85. Geburtstag (a A. cura di A. M. Koxraner), Miinchen, 1965. M.
Koxraner, Oswald Spengler in seiner Zeit, Miùnchen, 1968. Un elenco completo degli scritti di Spengler è dato da
A. M. Korra- NEK, Oswald Spengler in seiner Zeit cit., pp. 473-80. Manca invece
una bibliografia aggiornata degli scritti su Spengler: si vedano però le indi-
cazioni contenute nei volumi sopra menzionati di M. ScHRòTER e di H. S. HucHs.
È ora finalmente possibile compiere il passo decisivo e ab- bozzare un'immagine
della storia non più dipendente dalla po- sizione accidentale dell’osservatore
in un determinato « presen- te» — il suo presente — e dalla sua qualità di
membro interes- sato di una particolare cultura, le cui tendenze religiose,
spiri- tuali, politiche, sociali lo inducono a ordinare il materiale stori- co
sulla base di una prospettiva temporale e spazialmente delimitata, e a imporre
quindi a ciò che è accaduto una forma arbitraria e superficiale, ad esso
intimamente estranea. Ciò che finora mancava era la distanza dall’oggetto. Nei
confronti della natura essa era stata acquisita da lungo tempo; ma qui era
anche più facile acquisirla. Il fisico traccia il qua- dro meccanico-causale
del suo mondo come cosa ovvia, come se egli non esistesse affatto. La stessa
cosa è però possibile anche nel mondo formale della storia. Fino ad oggi noi
non lo sapevamo. Caratteristico degli storici moderni è l'orgoglio
dell'oggettività; ma con ciò essi tradiscono quanto poco siano consapevoli dei
propri pre- giudizi. Perciò si può forse dire (e lo si farà in avvenire) che è
fino ad oggi mancata una reale considerazione della storia di stile faustiano,
ossia una considerazione che possegga la di- * Der Untergang des Abendlandes:
Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte, cap. I: Das Problem der
Weltgeschichte, sezione 1: Physiognomik und Systematik, Miinchen, C. H.
Beck'sche Verlagsbuchhandlung, 1918-1922, ed. definitiva 1923, vol. I, pp.
125-151 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi, autorizzata, per gentile
concessione della Casa Editrice Longanesi). stanza sufficiente per osservare,
nell'immagine complessiva della storia universale, anche il presente — che è
tale solo in rapporto a una delle innumerevoli generazioni umane — come qualcosa
di infinitamente distante ed estraneo, come un lasso di tempo che non ha un
peso maggiore di tutti gli altri, senza il criterio falsificante di qualche
ideale, senza il riferimento a se stessi, senza desiderio, preoccupazione e
intima personale partecipa- zione, come li pretende la vita pratica; una
distanza, quindi, che consenta — per dirla con Nietzsche, che però non la
posse- deva a sufficienza — di considerare il fatto «uomo» da una lontananza
immensa; un colpo d’occhio sulle culture, anche sulla propria, come quello che
si dà sulla serie di vette di una catena di montagne all’orizzonte. Per far
questo bisognava, ancora una volta, portare a compi- mento un'impresa simile a
quella di Copernico, una liberazio- ne dall’apparenza in nome dello spazio infinito
come quella che da tempo lo spirito occidentale aveva compiuto nei confron- ti
della natura, allorché passò dal sisterna tolemaico del mondo al sistema che
oggi è il solo per lui valido, eliminando in tal modo come formalmente
determinante la posizione accidentale dell'osservatore su un particolare
pianeta. La storia universale è suscettibile, e ha bisogno, del medesi- mo
distacco da una posizione di osservazione accidentale — dall’« età moderna ».
Certo, il secolo x1x ci appare infinitamen- te più ricco e importante che non,
per esempio, il secolo xIx avanti Cristo; ma anche la Luna ci sembra più grande
di Giove e di Saturno. Da lungo tempo il fisico si è liberato dal pregiudizio
della distanza relativa; non così lo storico. Noi ci permettiamo di designare
la cultura dei Greci come antichità in rapporto alla nostra età moderna. Lo era
forse anche per i raffinati Egizi alla corte del grande Thutmosi!, che si
trovava- no al culmine del loro sviluppo storico — un millennio prima di Omero?
Per noi gli avvenimenti che si sono svolti dal 1500 al 1800 sul terreno
dell'Europa occidentale riempiono il terzo più importante « della » storia
universale. Per lo storico cinese che 1. Thutmosi (o Tutmosi) III, faraone
della Diciottesima dinastia vissuto intorno al 1600 a. C., sotto il cui regno
la potenza egiziana raggiunse il suo culmine, esten- dendosi fino alla Siria e
a Cipro. guarda indietro ai quattromila anni di storia cinese e giudica in base
ad essa, non sono che un breve e poco significativo episo- dio, neppure
lontanamente così importante come i secoli della 10, Depp dinastia Han (206
a.C.-220 d.C.) che fanno epoca nella sua «storia universale ». L'intento delle
pagine che seguono è di svincolare la storia dal pregiudizio personale
dell’osservatore, che nel nostro caso la riduce essenzialmente alla storia di
un frammento del passa- to, assumendo come fine ciò che è accidentalmente
presente ’ P nell'Europa occidentale, e come criteri di ciò che è stato rag-
giunto e dev'essere raggiunto gli ideali e gli interessi validi in questo
particolare momento. II Natura e storia: in questo modo si contrappongono tra
loro, agli occhi di ogni uomo, le due possibilità estreme di ordinare in
un'immagine del mondo la realtà circostante. Una realtà è natura in quanto
subordina ogni divenire al divenuto, è storia in quanto subordina ogni divenuto
al divenire. Una realtà può essere vista nella sua forma «ricordata » — così
sorge il mondo di Platone, di Rembrandt, di Goethe, di Beetho- ven — oppure può
essere concepita criticamente nella sua esi- stenza sensibile presente — ed
ecco i mondi di Parmenide e di Descartes, di Kant e di Newton. Conoscere, nel
senso rigoroso del termine, è quell’atto dell'esperienza vissuta il cui
risultato compiuto si chiama « natura». Il conosciuto e la natura sono
identici. Ogni conosciuto è equivalente — come dimostra il simbolo del numero
matematico — a ciò che è meccanicamente limitato, a ciò che è esatto una volta
per sempre, a ciò che è posto. La natura è il complesso di ciò che è necessario
in virtà di leggi: vi sono soltanto leggi maturali. Nessun fisico che sia
consapevole della propria funzione vorrà procedere al di là di questo limite.
Il suo compito è quello di determinare la totali- tà, il sistema ben ordinato
di tutte le leggi che si possono ritrovare nell'immagine della su4 natura e,
più precisamente, che rappresentano in maniera esauriente e senza residuo l’im-
magine della sua natura. D'altra parte l'intuire — e rimando al detto di
Goethe: «l’intuire va ben distinto dal guardare »? — è quell’atto dell’e-
sperienza vissuta che, in quanto si compie, è esso medesimo storia. Ciò che
viene immediatamente vissuto è l’accaduto, è storia. Ogni accadere è singolare
e irripetibile. Esso reca in sé la caratteristica della direzione (del
«tempo»), dell’irreversibili tà. L’accadere, contrapposto come ormai divenuto
al divenire, come realtà irrigidita alla realtà vivente, appartiene
irrevocabil- mente al passato: il sentimento di ciò è l'angoscia cosmica. Ogni
cosa conosciuta è però atemporale, né passata né futura, bensì semplicemente
«esistente » e perciò di validità permanen- te. Questa è la struttura interna
di ciò che è oggetto di leggi naturali. La legge — ciò che è posto — è
anti-storica; essa esclude il caso. Le leggi naturali sono forme di una necessità
priva di eccezione, e quindi inorganica. È chiaro il motivo per cui la
matematica, come ordine quantitativo del divenuto, si riferisce sempre alle
leggi e alla causalità, e soltanto ad esse. Il divenire « non ha numero ».
Soltanto ciò che è privo di vita — e il vivente soltanto se si prescinde dal
suo essere vivente — può venir contato, misurato, analizzato. Il puro divenire,
la vita, è in questo senso illimitato. Esso si pone oltre l'ambito della causa
e dell’effetto, della legge e della misura. Nessuna profonda e genuina ricerca
storica va in cerca della legalità causale; in caso diverso non ha compreso la
sua essenza più propria. E tuttavia la storia osservata non è puro divenire;
essa è un'immagine, una forma del mondo che irradia dall’essere desto
dell'osservatore, e nella quale il divenire domina il dive- nuto. È sulla
presenza in essa del divenuto, e quindi su una deficienza, che poggia la
possibilità di ricavarne scientificamen- te qualcosa; e quanto maggiore è tale
presenza, tanto più essa appare meccanica, intellettualistica, causale. Anche
la « natura vivente » di Goethe — un'immagine del mondo completamente estranea
alla matematica — conteneva tanto di morto e di rigido da poterne trattare
scientificamente almeno la facciata. Se questo contenuto diminuisce molto, se
essa è prossima al 2. Goerne, Lettera a Wilhelm von Humboldt del 3 dicembre
1795. OSWALD SPENGLER 729 puro divenire, allora l’intuire è divenuto un puro
Erlebnis che consente soltanto modi di elaborazione artistica. A ciò che vide
con il proprio occhio spirituale come destino dei mondi, Dante non avrebbe
potuto dare forma scientifica; neppure Goethe avrebbe potuto darla a ciò che
scorse nei grandi attimi del suo abbozzo faustiano; e altrettanto poco Plotino
e Giordano Bru- no alle loro visioni, che non sono state il risultato di
ricerche. Qui sta la causa più importante del conflitto concernente la forma
intima della storia. Di fronte allo stesso oggetto, allo stesso materiale di
fatti, ogni osservatore ha, secondo la sua disposizione, una diversa
impressione della totalità, inafferrabi- le e incomunicabile, che sta a base
del suo giudizio e gli conferisce un colore personale. Il grado del divenuto
sarà sem- pre diverso nella visione di due uomini: motivo sufficiente per cui
essi non possono mai intendersi sul compito e sul metodo. Ognuno dà all’altro
la colpa per la mancanza di chiarezza di pensiero, e tuttavia ciò che è
designato con questa espressione, e sulla cui struttura nessuno ha potere, non
è qualcosa di peggio ma una diversità necessaria. La stessa cosa vale per tutta
la scienza naturale. Ma si tenga ben presente che pretendere di trattare
scientifi- camente la storia è, in ultima istanza, sempre qualcosa di
contraddittorio. La scienza genuina si estende fin dove hanno validità i
concetti di vero e di falso: ciò vale per la matemati- ca, e vale pure per la
disciplina di raccolta, di ordinamento e di esame del materiale, che è
preliminare rispetto alla storia. Ma lo sguardo storico vero e proprio, che
procede soltanto di qui, appartiene al regno dei significati, in cui i termini
decisi- vi non sono il vero e il falso, ma il superficiale e il profondo. Il
vero fisico non è profondo, ma « acuto ». Solamente quando abbandona il campo
delle ipotesi di lavoro e sfiora le cose supreme, può essere profondo; ma
allora è diventato ormai anche lui un metafisico. La natura dev'essere
considerata scienti- ficamente, mentre la storia deve essere oggetto di poesia.
Il vecchio Leopold von Ranke avrebbe detto, una volta, che il Quentin Durward di
Scott? rappresenta la vera storiografia. E 3. Walter Scott (1771-1832), pocta e
romanziere scozzese, autore di famosi ro- manzi storici che ebbero larga
influenza anche sugli storici romantici: il Quentin Durward, qui citato, è del
1823. 730 OSWALD SPENGLER le cose stanno proprio così; una buona opera storica
ha il suo vantaggio nel fatto che il lettore può diventare il suo proprio
Walter Scott. D'altra parte, dove dovrebbe dominare il regno dei numeri e del
sapere esatto, Goethe aveva chiamato «natura vivente » proprio ciò che era
un'intuizione immediata del puro divenire e del formarsi, e che quindi era
storia nel senso qui definito. Il suo mondo era anzitutto un organismo, un
essere vivente; e si comprende che le sue ricerche, anche quando recano esterior-
mente un’impronta fisica, non hanno come scopo in sé numeri né leggi né una
causalità fissata in formule, e in generale nessun’analisi, ma sono piuttosto
morfologia nel senso più alto ed evitano perciò il mezzo specificamente
occidentale (e nien- t'affatto antico) di ogni considerazione causale,
l'esperimento misuratore, senza però farne mai lamentare l’assenza. La sua
considerazione della superficie terrestre è sempre geologia, mai mineralogia
(che egli chiamava scienza di ciò che è morto). Diciamolo ancora una volta: non
esiste nessun confine preci- so tra i due modi di concepire il mondo. Se è vero
che dive- nire e divenuto sono antitetici, altrettanto sicuro è il fatto che
essi sono presenti entrambi in ogni specie di intendere. Rivive la storia colui
che intuisce entrambi i termini come divenienti e in via di compimento; conosce
la natura chi li analizza come divenuti e compiuti. In ogni uomo, in ogni
cultura, in ogni grado di cultura è presente una disposizione originaria,
un’originaria inclina- zione e determinazione a preferire una delle due forme
come ideale di comprensione del mondo. L’uomo dell’Occidente è in alto grado
disposto storicamente *, mentre l’uomo antico lo fu in misura minima. Noi
consideriamo tutto ciò che è dato in rapporto al passato e al futuro,
l’antichità riconobbe come esi- stente soltanto il presente nella sua
puntualità: il resto diventa- a. L’anti-storico come espressione di una decisa
disposizione siste- matica dev'essere nettamente distinto da ciò che è
astorico. L'inizio del quarto libro di Die Welt als Wille und Vorstellung di
Schopenhauer ($ 53) è indicativo di un uomo che pensa in modo anti-storico, che
cioè reprime, in base a fondamenti teoretici, l'elemento storico che è presente
in lui e lo respinge contrapponendogli l’astorica natura ellenica che non lo
possiede e non lo comprende. OSWALD SPENGLER 731 va mito, In ogni nota della
nostra musica, da Palestrina‘ fino a Wagner, abbiamo davanti a noi anche un
simbolo del divenire; i Greci avevano in ogni loro statua un'immagine del puro
presente. Il ritmo di un corpo poggia sul rapporto simultaneo delle parti, il
ritmo di una fuga sul corso temporale. III In questo modo i principi della
forma e della legge ci si presentano come i due elementi fondamentali di ogni
configura- zione del mondo. Quanto più decisamente un’immagine del mondo reca
in sé i tratti della natura, tanto più illimita- tamente valgono in essa la
legge e il mumero. Quanto più puramente un mondo viene intuito come un esterno
diveniente, tanto più l’inafferrabile ricchezza del suo processo di formazio-
ne è estranea al numero. «La forma è qualcosa di mobile, di diveniente, di
transeunte. La dottrina della trasformazione. La dottrina della metamorfosi è
la chiave per penetrare tutti i segni della natura» — si dice in un’annotazione
postuma di Goethe, Così la celebre « fantasia sensibile esatta » di Goethe, che
lascia il vivente agire su di sé*, si distingue già sotto il profilo
metodologico dal procedimento esatto e mortifero della fisica moderna. Il
residuo dell’aliro elemento — che si troverà sempre — si manifesta nella
scienza naturale rigorosa sotto forma di scorie e di ipotesi inevitabili, il
cui contenuto intuitivo riempie e sostiene tutto ciò che è rigidamente numera-
bile e aderente a formule; e nella ricerca storica si manifesta come
cronologia, vale a dire come una rete di numeri intima- mente del tutto
estranea al divenire (e qui mai tuttavia percepi- a. «Vi sono fenomeni
originari, che noi non dobbiamo turbare e pregiudicare nella loro divina
semplicità » (GoetHE, colloquio con Falk del 25 gennaio 1813, citato da J.D.
Fark, Goethe aus naherm persòn- lichem Umgange dargestellet, Leipzig, 1832 [ed.
Artemis, vol. XXII, p. 680]). 4. Giovanni Pierluigi da Palestrina (1526-1594),
compositore italiano, autore di celebri messe, di magnificat, di inni, di
mottetti, di lamentazioni ecc., è la principale figura della musica sacra del
Cinquecento. S. GortHe, Fragmente zur vergleichenden Anatomie (morfologia), in
Natur wissenschafdlichen Schriften, Zurich, 1952, vol. II, p. 415. 732 OSWALD
SPENGLER ta nella sua estraneità), che avvolge e penetra il mondo delle forme
storiche come uno scheletro di date o come statistica, senza che si possa
parlare di matematica. Il numero cronologi- co designa ciò che è reale singolarmente,
il numero matematico designa ciò che è costantemente possibile. Il primo
delimita forme ed elabora per l’occhio del comprendere i contorni di epoche e
di fatti; è al servizio della storia. Il secondo è esso stesso la legge che
deve stabilire il termine e il fine della ricerca. Il numero cronologico è
preso in prestito, come mezzo di una scienza preliminare, dalla scienza per
eccellenza, cioè dalla matematica; nel suo uso si prescinde tuttavia da questa
qualità. Si colga la differenza tra i due simboli seguenti: 12 x 8 = 96 e 18
ottobre 1813 °. Qui l’uso del numero si distin- gue completamente, proprio come
l’uso linguistico nella prosa e nella poesia. Ancora un’altra cosa occorre qui
osservare. Poiché a base del divenuto sta sempre un divenire e la storia
rappresenta un ordinamento dell'immagine del mondo nel senso del divenire, la
storia è la forma del mondo originario, mentre la natura — nel senso di un
meccanismo elaborato del mondo — è una forma successiva, che può essere
realmente realizzata soltanto da parte dell’uomo appartenente a culture mature.
Di fatto l’ambiente oscuro e animistico dell'umanità primitiva, di cui ancor
oggi testimoniano i suoi usi e i suoi miti religiosi, quel mondo completamente
organico e pieno di arbitrio, di demoni ostili e di potenze capricciose,
costituisce una totalità vivente, inafferrabile, enigmaticamente fluttuante e
imprevedibile. Si può anche chiamarlo natura, ma esso non è la nostra natura,
non è il riflesso irrigidito di uno spirito conoscente. Questo mondo originario
risuona ancora talvolta, come un frammento di umanità da lungo tempo passata,
soltanto nell’anima infanti- le e nei grandi artisti, in mezzo a una « natura»
rigorosa che lo spirito cittadino delle culture mature ha costruito con
tiranni- ca energia intorno al singolo. Qui sta il motivo della tensione
irritata tra intuizione scientifica (« moderna ») e intuizione arti- stica («
non pratica ») del mondo, nota a ogni epoca tarda. L’uo- 6. Data della
battaglia di Lipsia, in cui Napolcone fu sconfitto dal generale prus- siano
Blicher. OSWALD SPENGLER 733 mo aderente ai fatti e il poeta non perverranno
mai a intendersi reciprocamente. Qui dev'essere cercato anche il motivo per cui
ogni ricerca storica che aspiri alla scientificità, mentre do- vrebbe sempre
recare in sé qualcosa della fanciullezza e del sogno, qualcosa di goethiano,
sfiora il rischio di diventare una mera fisica della vita pubblica — cioè una
storia « materialisti- ca », come si è essa stessa chiamata senza alcun
sospetto. « Natura » nel senso esatto del termine è il modo più raro, limitato
agli uomini delle grandi città di culture più tarde, il modo maturo e forse già
senile di possedere la realtà; la storia è invece il modo ingenuo e giovanile,
e anche più inconsapevo- le, proprio di tutta l'umanità. Così almeno la natura
numerabi- le, priva di mistero, analizzata e analizzabile di Aristotele e di
Kant, dei Sofisti e dei darwinisti, della fisica e della chimica moderna si
contrappone a quella natura immediatamente vissu- ta, illimitata, sentita di
Omero e dell’E444”, dell’uomo dorico e di quello gotico. "Trascurare
questo vorrebbe dire disconoscere l’essenza di ogni considerazione della
storia. Essa è la natura propriamente zazurale, mentre la natura esatta,
ordinata mecca- nicamente, è una concezione artificiale dell'anima di fronte al
suo mondo. Ciononostante — o proprio per questo — la scien- za naturale è
facile per l'uomo moderno, mentre la considera- zione della storia gli è
difficile. Le spinte del pensiero meccanicistico, che procede completa- mente
sulla base della delimitazione matematica, della distinzio- ne logica, della
legge e della causalità, compaiono assai per tempo. Si trovano nei primi secoli
di tutte le culture, per quanto ancora deboli, isolate, ancora tendenti a
svanire nella ricchezza della coscienza religiosa del mondo; basti citare il
nome di Ruggero Bacone®. Presto esse assumono un carattere più rigoroso; non
manca loro — come a tutto ciò che è conqui- sta spirituale e sottoposto alla
minaccia della natura umana — 7. Raccolta di canti mitologici ed epici, redatti
in Islanda tra il secolo x e il se- colo xur, a cui fa seguito un trattato di
arte poetica composto dall'islandese Snorri Sturluson: è la principale fonte di
conoscenza dell’antica religione germanica, che si presenta tuttavia già in
forma dottrinalmente elaborata. 8. Ruggero Bacone (1214-1292?), filosofo
inglese e monaco francescano, autore dell'Opus maius, dell'Opus minus,
dell'Opus tertium e di vari altri scritti, è consi- derato il maggior
rappresentante dell'orientamento empiristico nella Scolastica del secolo xuI.
l'aspetto tirannico ed esclusivistico. In modo non percepibile il regno di ciò
che è espresso in concetti spaziali — infatti i concetti sono per loro essenza
numeri, di costituzione puramen- te quantitativa — penetra il mondo esterno del
singolo, produ- ce nelle, con e tra le semplici impressioni della vita
sensibile una connessione meccanica di tipo causale e numerico, sottopo- nendo
in ultimo la coscienza desta degli uomini civili delle grandi città — si tratti
della Tebe egizia o di Babilonia, di Benares, di Alessandria o delle metropoli
dell'Europa occidenta- le — a una costrizione continua da parte del pensiero
fondato sulle leggi naturali. In tal modo nulla più si oppone al pregiu- dizio
di ogni filosofia e di ogni scienza (giacché di un pregiudi- zio si tratta)
secondo cui questa situazione è /o spirito uma- no e ciò che gli sta di fronte,
l’immagine meccanicistica del mondo circostante, è il mondo. Logici come
Aristotele e Kant hanno elevato questa visione a visione dominante, ma Platone
e Goethe vi si oppongono. IV Il grande compito della conoscenza del mondo, che
per l'uomo appartenente alle culture superiori è un bisogno, una specie di
penetrazione della sua esistenza che egli crede dovuta a sé e ad essa — sia che
il suo procedimento venga chiamato filosofia o scienza, sia che la sua affinità
con la creazione artisti- ca e con l’intuizione della fede venga sentita con
intima certez- za oppure venga contestata — è in ogni caso sicuramente il medesimo:
quello di rappresentare nella sua purezza il linguag- gio formale dell'immagine
del mondo che è determinato ante- riormente all'essere desto del singolo e che
questi, finché non la pone a confronto con altre, deve considerare come «il»
mondo. Tenendo conto della differenza tra natura e storia, questo compito deve
essere duplice. L'una e l’altra parlano il proprio linguaggio formale,
differente sotto ogni riguardo; in un’imma- gine del mondo non ben
caratterizzata — come di regola avvie- ne — i due linguaggi possono sovrapporsi
e confondersi, mai però congiungersi in un’unità intima. Direzione e estensione
sono le caratteristiche dominanti in virtù delle quali si distinguono
l'impressione storica e quella naturalistica del mondo. L’uomo non è affatto in
grado di lasciarle operare contemporaneamente nella loro azione for- mativa. Il
termine «lontananza » ha un doppio senso indicati- vo: da un lato significa
futuro, dall'altro distanza spaziale. Si osserverà che il materialista storico
percepisce quasi di necessità il tempo come dimensione matematica. Per
l'artista nato, al contrario — come dimostra la lirica di tutti i popoli — le
lontananze panoramiche, le nuvole, l'orizzonte, il sole calante sono tutte
impressioni che si legano irresistibilmente col senti- mento di qualcosa di là
da venire. Il poeta greco nega il futuro e di conseguenza non vede, non canta
tutto questo: dal mo- mento che appartiene del tutto al presente, appartiene
an- che del tutto alla vicinanza. Lo scienziato naturale, l’uomo di intelletto
produttivo in senso proprio — sia egli uno sperime- tatore come Faraday”, un
teorico come Galilei o un calcolatore come Newton — trova nel suo mondo
soltanto quantità prive di direzione che egli misura, vaglia e ordina. Soltanto
ciò che è quantitativo sottostà alla formulazione numerica, è deter- minato in
modo causale, può diventare concettualmente accessi- bile ed essere formulato
in leggi. Con ciò sono esaurite le possibilità della pura conoscenza della
natura. Tutte le leggi sono connessioni quantitative o — come si esprime il
fisico — tutti i processi fisici si svolgono nello spazio. Senza modificare il
dato di fatto, il fisico antico avrebbe corretto tale espressione nel senso
dell’antico sentimento del mondo, negatore dello spa- zio, dicendo che tutti i
processi «Hanzo luogo tra corpi». Tutto ciò che è quantitativo è estraneo alle
impressioni storiche. Il suo organo è diverso. Il mondo come natura e il mondo
come storia hanno i loro propri modi di apprendimen- to. Noi li conosciamo e li
usiamo quotidianamente, senza però essere stati finora consapevoli della loro
antitesi. Ci sono una conoscenza della natura e una conoscenza dell’uomo, vale
a dire l’esperienza scientifica e l’esperienza della vita. Si segua 9. Michael
Faraday (1791-1867), fisico e chimico inglese, autore della C/hemical
Manipulation (1827), delle Experimental Researches in Electricity (1839-1855),
delle Experimental Rescarches in Chemistry and Physics (1859), diede contributi
fondamen- tali allo sviluppo della teoria dell'elettricità e del magnetismo.
quest’antitesi fino alle sue ultime profondità e si comprenderà che cosa
intendo. Tutti i modi di concepire il mondo possono essere definiti, in ultima
analisi, come morfologia. La morfologia di ciò che è meccanico ed esteso, cioè
una scienza che scopre e ordina leggi naturali e relazioni causali, si chiama
sistematica; la morfolo- gia di ciò che è organico, della storia e della vita,
vale a dire tutto quanto reca in sé direzione e destino, si chiama fisiogno-
mica. V Il modo sistematico di considerazione del mondo ha rag- giunto e
oltrepassato il suo culmine in Occidente durante il secolo scorso; il modo
fisiognomico ha invece ancora davanti a sé il suo grande momento. Tra un
centinaio di anni tutte le scienze ancora possibili su questo terreno sono
destinate a diven- tare frammenti di un’unica immensa fisiognomica di tutto
quanto è umano. Questo significa una «morfologia della storia universale ». In
ogni scienza, dal punto di vista del fine come del materiale, l’uomo racconta
se stesso. Esperienza scien- tifica vuol dire auto-conoscenza spirituale. Da
questo punto di vista la matematica è stata considerata poco prima come un
capitolo della fisiognomica. Non abbiamo preso in esame ciò che si proponeva il
singolo matematico: il dotto in quanto tale e i suoi risultati in quanto
esistenza di una somma di sapere si differenziano reciprocamente. Il matematico
come uomo la cui operosità costituisce una parte del suo manifestarsi, e il cui
sapere e opinare costituisce una parte della sua espressione, è qui il solo ad
avere importanza, e precisamente come orgazo di una cultura. Essa parla di sé
per il suo tramite. Come personali- tà, come spirito, nel suo scoprire, nel suo
conoscere, nel suo formare egli appartiene alla fisiognomica di quella cultura.
Ogni matematica che, in quanto sistema scientifico oppure — come nel caso
dell'Egitto — nella forma dell’architettura, rende manifesta a tutti l’idea del
suo numero, inerente al suo essere desto, è la confessione di un’anima. Quanto
è certo che la funzione che si propone appartiene soltanto alla superficie
della storia, altrettanto certo è che il suo elemento inconscio, cioè il numero
stesso e lo stile dello sviluppo che la conduce alla costruzione di un mondo
formale chiuso, costituisce un’e- spressione dell’esistenza, del sangue. La sua
storia vitale, il suo fiorire e sfiorire, la sua relazione profonda con le arti
figurati- ve, con i miti e i culti della medesima cultura, tutto ciò appar-
tiene a una morfologia del secondo tipo, cioè a una morfologia storica, finora
ritenuta quasi impossibile. La facciata visibile di ogni storia ha perciò lo
stesso significa- to dell'apparenza esteriore dell’uomo singolo, vale a dire
della statura, del volto, del portamento, dell’andatura: non il lin- guaggio,
ma il parlare; non lo scritto, ma la scrittura. Tutto ciò è ben presente al
conoscitore di uomini. Il corpo con tutte le sue operazioni, il limitato, il
divenuto, il transitorio, è espres- sione dell'anima. Ma essere conoscitore di
uomini vuol dire anche conoscere quei grandi organismi umani di stile superiore
che chiamo culture; vuol dire cogliere il loro volto, il loro linguaggio, le
loro azioni, nello stesso modo in cui si colgono quelle di un uomo singolo. La
fisiognomica descrittiva e figurativa è arte del ritratto trasferita
all'elemento spirituale. Don Chisciotte, Werther, Ju- lien Sorel! sono i
ritratti di un’epoca. Faust è il ritratto di un'intera cultura. Lo scienziato
naturale, il morfologo in quan- to sistematico, conosce il ritratto del mondo
soltanto come com- pito imitativo; la stessa cosa vale per la «fedeltà alla
natu- ra» e la « somiglianza » nel caso dell’artigiano che dipinge, il quale,
in fondo, si accinge alla sua opera in modo puramente matematico. Ma un
ritratto genuino nel senso di Rembrandt è fisiognomica, cioè storia racchiusa
in un attimo. La serie dei suoi autoritratti non è altro che un’autobiografia
autenticamen- te goethiana. Così si dovrebbe scrivere la biografia delle grandi
culture. La parte imitativa, il lavoro dello storico di mestiere sulle date e
sui numeri è soltanto mezzo, non fine. Ai tratti del volto della storia
appartiene tutto ciò che è stato finora valutato soltanto in base a criteri
personali, in base all’utilità e alla dan- nosità, al bene e al male, al
piacere e al dispiacere: forme stata- li e forme economiche, battaglie e arti,
scienze e divinità, mate- matica e morale. Tutto ciò che è divenuto in
generale, tutto 10. Personaggio principale de Le ronge et le noir di Stendhal.
ciò che si manifesta è simbolo, è espressione di un’anima; aspira a essere
considerato con l’occhio del conoscitore di uomi- ni, a non essere ricondotto a
leggi, ma sentito nel suo significa- to. In tal modo l’indagine si eleva a una
certezza ultima e suprema: tutto ciò che è transitorio è soltanto un'immagine.
Alla conoscenza della natura ci si può educare, ma conosci- tore della storia
si nasce. Il conoscitore coglie e penetra uomini e fatti di un colpo, sulla
base di un sentimento che non s’impa- ra, che è sottratto a ogni influenza
intenzionale, che ben rara- mente si produce nella sua massima forza.
Analizzare, definire, ordinare, delimitare in base a cause ed effetti, si può
sempre farlo, se si vuole: questo è un lavoro, l’altra è una creazione. Forma e
legge, immagine e concetto, simbolo e formula hanno un organo completamente
diverso. Ciò che si manifesta in que- st’antitesi è il rapporto tra vita e
morte, tra generazione e distruzione. L'intelletto, il sistema, il concetto
uccidono in quanto « conoscono »; fanno del conosciuto un oggetto irrigidi- to,
che si può misurare e suddividere. Invece l’intuizione vivifi- ca; incorpora il
singolo in un’unità vivente, intimamente senti- ta. Il poetare e la ricerca
storica sono affini quanto affini sono il calcolare e il conoscere. Ma — come
disse una volta Hebbel !! — «i sistemi non possono venir sognati né le opere
d’arte calcolate o, il che è lo stesso, escogitate ». L'artista, lo storico
autentico intuisce il modo in cui qualcosa diviene. Egli rivive ancora una
volta il divenire nei tratti di ciò che è osservato. Il sistematico — sia egli
fisico, logico, darwiniano oppure scritto- re di storia pragmatica — ha
esperienza di ciò che è divenuto. L'anima di un artista è, come l’anima di una
cultura, qualcosa che aspira a realizzarsi, qualcosa di concluso e di perfetto
o — nel linguaggio della filosofia antica — un microcosmo. Lo spiri- to
sistematico staccato dal sensibile — « as-tratto» — è un fe- nomeno tardo,
ristretto e perituro, e appartiene agli stadi più maturi di una cultura. È un
fenomeno collegato alle città, in cui la sua vita si concentra sempre di più:
esso appare e di nuovo scompare insieme con esse. La scienza antica sussiste
11. Christian Friedrich Hebbcl (1813-1863), poeta e drammaturgo tedesco, autore
di vari drammi di argomento storico, di poesie, dì saggi estetici, nonché di
Tagedé- cher (iniziati nel 1836): il suo pensicro è ispirato da Gocthe e dalle
tcorie idcalistiche, in particolare da Schelling c da Hegel. O$WALD SPENGLER
739 soltanto nel periodo che va dagli Ionici del secolo vi fino all’e- poca
romana; di artisti antichi ve ne furono per tutta l’antichi- tà. Possa servire
da ulteriore chiarimento lo schema seguente: Anima Mondo Esistenza Possibilità
Compimento Realtà (Vita) Divenire Divenuto Essere Direzione Estensione desto
Organico Meccanico Simbolo, immagine Numero, concetto Storia Natura Immagine
Ritmo, forma Tensione, legge del mondo Fisiognomica Sistematica Fatti Verità Se
si cerca di pervenire a chiarezza sul principio di unità in base al quale
ognuno dei due mondi viene concepito, si troverà che la conoscenza regolata
matematicamente si riferisce in tutto e per tutto, e in modo tanto più deciso
in quanto più è pura, a qualcosa che è costantemente presente. L'immagine della
natu- ra, quale il fisico la considera, è ciò che si dispiega al momen- to
dinanzi ai suoi sensi. Tra i presupposti per lo più sottintesi, ma non per
questo meno saldi, di ogni ricerca naturale vi è quello secondo cui «la» natura
è la medesima per ogni essere desto e per tutti i tempi: un esperimento decide
una volta per tutte. Non che il tempo venga negato, ma all’interno di questo
orientamento si prescinde da esso. La storia reale poggia inve- ce sul
sentimento, altrettanto certo, del contrario. La storia presuppone come suo
organo un tipo di sensibilità interiore, difficile da descrivere, le cui
impressioni vengono colte in un’in- finita trasformazione e non possono quindi
essere raccolte in un punto del tempo (del supposto «tempo» dei fisici si
parle- rà più oltre). L'immagine della storia — si tratti della storia
dell'umanità, del mondo degli organismi, della terra o del sistema delle stelle
fisse — è un'immagine della memoria. La memoria viene qui concepita come uno
stato superiore che non è affatto proprio a ogni essere-desto, ed è concesso a
qualcuno solo in grado minimo, vale a dire come una forma del tutto particolare
di immaginazione che consente di rivivere l’attimo singolo sub specie
aeternitatis, in continua relazione con tutto ciò che è passato e futuro: essa
è il presupposto di ogni specie di contemplazione retrospettiva, di
auto-conoscenza e di auto- confessione. In questo senso l’uomo antico non
possiede alcuna memoria, e quindi neppure storia, né in sé né intorno a sé. «
Nessuno può emettere giudizi sulla storia, se non chi ne abbia fatto esperienza
egli stesso » (Goethe !). Nella coscienza del mondo dell’antichità tutto il
passato è assorbito nell’attimo. Si confrontino le teste quanto mai « storiche
» delle sculture del duomo di Naumburg, delle figure di Direr e di Rembrandt,
con quelle ellenistiche, per esempio con quella della celebre statua di
Sofocle. Le prime narrano l’intera storia di un’anima, mentre i tratti delle
seconde si limitano strettamente all’espres- sione di un essere momentaneo.
Esse tacciono tutto ciò che ha condotto, nel corso di una vita, a questo essere
— sempre che se ne possa in generale parlare di fronte a un uomo genuina- mente
antico, che è sempre compiuto, mai un essere diveniente. VI È ora possibile
rintracciare gli elementi ultimi del mondo formale della storia. Forme
innumerevoli, che compaiono e scompaiono, che si stagliano e si dileguano
nuovamente in una ricchezza senza fine; una confusione smagliante di mille
colori e di mille luci, caratterizzata in apparenza dalla più libera
accidentalità — questa è, a prima vista, l’immagine della storia universale,
quale essa si dispiega nella sua totalità di fronte all’occhio interiore. Ma lo
sguardo che penetra più profonda- mente nell’essenziale separa da questo
arbitrio quelle forme pure che, fittamente ricoperte e disvelantisi soltanto
controvo- glia, stanno alla base di ogni umano divenire. Dell’immagine del
divenire complessivo del mondo con i suoi orizzonti che si accumulano
potenzialmente — così come 12. GoerHe, Maximen und Reflezionen, 517. OSWALD
SPENGLER 741 l'occhio faustiano che li abbraccia — e quindi del divenire del
cielo stellato, della superficie terrestre, degli esseri viventi, degli uomini,
noi consideriamo ora soltanto l’unità morfolo- gica estremamente piccola della
«storia universale » nel sen- so consueto della parola, cioè della storia (poco
apprezzata dal vecchio Goethe) dell'umanità superiore, che abbraccia cir- ca
seimila anni, senza affrontare l’arduo problema dell’ana- logia interna di
tutti questi aspetti del divenire. Ciò che dà senso e contenuto a questo
fuggevole mondo di forme, e che è rimasto finora profondamente sommerso sotto
la massa quasi impenetrabile di «date» e di «fatti» tangibili, è il fenomeno
delle grandi culture. Soltanto quando queste forme originarie siano state
individuate, sentite, elaborate nel loro si- gnificato fisiognomico, può
ritenersi compresa da noi l'essenza e la forma intima della storia umana — in
antitesi all’essenza della natura. Soltanto partendo da questo sguardo profondo
e prospettico si può parlare seriamente di una filosofia della sto- ria.
Soltanto allora si può cogliere ogni fatto presente nell’im- magine storica,
ogni idea, ogni arte, ogni guerra, ogni persona- lità nel suo contenuto
simbolico, e considerare la storia non più come mera somma del passato, priva
di un proprio ordine e di una interna necessità, bensì come un organismo di
strut- tura quanto mai rigorosa e con un'articolazione fornita di sen- so, nel
cui sviluppo il presente accidentale dell’osservatore non indica una semplice
sezione e il futuro non appare più come informe e indeterminabile. Le culture
sono organismi; la storia universale è la loro biografia complessiva. L’immensa
storia della cultura cinese o della cultura antica è morfologicamente l’esatta
contropartita della piccola storia del singolo uomo o di un animale, di un
albero, di un fiore. Per lo sguardo faustiano non si tratta di un’esigenza, ma
di un'esperienza: se si vuol conoscere la for- ma interna, ovunque ripetuta, la
morfologia comparativa delle piante e degli animali ha già da lungo tempo
preparato il metodo adatto. Nel destino delle singole culture che si succe- a.
Non si tratta del metodo analitico del « pragmatismo » zoologico dei darwinisti
con la loro caccia di connessioni causali, bensì del metodo intuitivo e
sintetico di Goethe. 742 OSWALD SPENGLER dono, che crescono l’una accanto
all’altra, si toccano, si ostacola- no, si soffocano, viene a esaurirsi il
contenuto di tutta la storia umana. E se passiamo spiritualmente in rassegna le
loro forme, che finora erano troppo profondamente nascoste sotto la superfi-
cie del corso banale di una «storia dell'umanità », perveniamo a scoprire la
forma originaria della cultura, libera da ogni elemento perturbatore e privo di
significato, la quale sta alla base di tutte le culture particolari come loro
ideale formale. Distinguo qui l’idea di una cultura, il complesso delle sue
possibilità interne, dalla sua manifestazione sensibile nell’imma- gine della
storia, che costituisce la sua realizzazione compiuta. Questo è il rapporto
dell’anima con il corpo vivente, con la sua espressione in mezzo all'universo
visibile ai nostri occhi. La storia di una cultura è la progressiva
realizzazione di ciò che ad essa è possibile. Il compimento equivale alla fine.
In questo modo l’anima apollinea — che alcuni di noi possono forse comprendere
e rivivere — stava in rapporto con il suo dispiega- mento nella realtà, con l’«
antichità » della quale l’archeologo, il filologo, lo studioso di estetica e lo
storico indagano i resti accessibili all’occhio e all’intelletto. La cultura è
il fenomeno originario di tutta la storia univer- sale passata e futura. La
profonda e poco apprezzata idea che Goethe scoprì nella sua «natura vivente», e
che ha sempre posto a base delle sue ricerche morfologiche, deve qui venir applicata,
nel suo senso più preciso, a tutte le formazioni della storia umana pienamente
maturate, morte mentre ancora stava- no fiorendo, semi-sviluppate o soffocate
ancora in germe. Si tratta di un metodo fondato sul sentire simpatetico, non
sull’a- nalisi. « Il massimo a cui l’uomo può pervenire è la meraviglia; perciò
sia soddisfatto quando il fenomeno originario lo pone in uno stato di
meraviglia; non gli è concesso niente di superiore, e neppure.deve cercarvi
qualcosa di più: qui sta il limite »!. Fenomeno originario è quello in cui
l’idea del divenire sta dinanzi agli occhi nella sua purezza. Goethe vide
chiaramente, davanti al suo occhio spirituale, l’idea della pianta originaria
nella forma di ogni pianta singola, nata accidentalmente o an- che solo possibile.
Nella sua indagine sull’os intermazillare 13. GoerHe, Gespriche mit Eckermann,
18 febbraio 1829. OSWALD SPENGLER 743 egli partì dal fenomeno originario del
vertebrato, e in altro campo partì dalla stratificazione geologica, dalla
foglia come forma originaria di ogni organo vegetale, dalla metamorfosi delle
piante come immagine primordiale di tutto il divenire organico. « La medesima
legge si potrà applicare a tutti gli altri esseri viventi » !* — scrisse da
Napoli a Herder, comunican- dogli la sua scoperta. Si trattava di uno sguardo
sulle cose che Leibniz avrebbe potuto intendere; il secolo di Darwin ne restò
invece il più possibile distante. Non esiste però ancora una considerazione
della storia che sia completamente libera dai metodi del darwinismo, cioè dalla
scienza naturale sistematica poggiante sul principio causale. Mai si è discusso
di una fisiognomica rigorosa e chiara, compiu- tamente consapevole dei suoi
mezzi e dei suoi limiti, i cui metodi dovevano essere ancora trovati. Questo è
il grande com- pito del secolo xx: porre accuratamente in luce la struttura
interna delle unità organiche attraverso le quali e nelle quali si compie la
storia universale; distinguere ciò che è morfologica- mente necessario ed
essenziale da ciò che è accidentale, coglie- re l’espressione degli avvenimenti
e scoprire il linguaggio che sta alla sua base. VII Una massa sterminata di
esseri umani, una corrente senza sponde che scaturisce dall’oscuro passato, là
dove il nostro senti- mento del tempo perde la propria capacità ordinatrice e
l’in- quieta fantasia — o l’angoscia — ha suscitato come per magia in noi
l'immagine di epoche geologiche per nascondere un enig- ma insolubile; una
corrente che va a perdersi in un futuro altrettanto oscuro e atemporale —
questo è il substrato del- l’immagine faustiana della storia umana. L’onda
uniforme di innumerevoli generazioni muove questa vasta superficie. Fasci di
luce si estendono abbaglianti. Effimeri bagliori passano e danzano,
scompigliano e turbano il chiaro specchio, si trasfor- mano, balenano e
scompaiono: sono ciò che abbiamo chiamato 14. GoerHE, Italienische Reise,
lettera a Herder.generazioni, stirpi, popoli, razze. Essi abbracciano una serie
di generazioni in un ambito delimitato della superficie storica. Quando si spegne
la forma plasmatrice in esse presente — e questa forza è assai diversa, e
predetermina un’assai diversa durata e plasticità di queste formazioni — si
dissolvono anche le caratteristiche fisiognomiche, linguistiche, spirituali, e
il feno- meno si risolve di nuovo nel caos delle generazioni. Arii, Mon- goli,
Germani, Celti, Parti, Franchi, Cartaginesi, Berberi, Ban- tù, sono tutti nomi
che designano formazioni estremamente differenziate di tale ordine. Ma su
questa superficie le grandi culture tracciano i loro maestosi cerchi di onde.
Esse compaiono all’improvviso, si estendono seguendo direttrici fastose, si
acquietano, scompaio- no lasciando di nuovo solitario e stagnante lo specchio
della marea. Una cultura nasce nell’attimo in cui una grande anima si desta
dallo stato psichico originario dell’umanità eternamente fanciulla e se ne
distacca, come una forma da ciò che è privo di forma, come qualcosa di limitato
e di perituro dall’illimitato e dal permanente. Essa fiorisce sulla base di un
territorio delimi- tabile in modo preciso, al quale rimane vincolata come una
pianta. Una cultura perisce quando quest'anima ha realizzato l’intera somma
delle sue possibilità sotto forma di popoli, di lingue, di dottrine religiose,
di arti, di stati e di scienze, ritor- nando quindi nel grembo della
spiritualità originaria. Ma la sua esistenza vivente, cioè quella successione
di grandi epoche che designano in una linea retta il suo compimento progressi-
vo, è una lotta interiore e piena di passione per l’affermazione dell'idea
contro le potenze del caos verso l'esterno, e verso l'interno contro
l’inconscio in cui esse si sono astiosamente ritirate. Non è soltanto l’artista
a combattere contro la resisten- za della materia e l’'annientamento dell’idea
entro di sé. Ogni cultura si trova in una relazione profondamente simbolica e
quasi mistica con ciò che è esteso, con lo spazio nel quale e attraverso il
quale essa vuole realizzarsi. Quando il fine è rag- giunto e l’idea, la
molteplicità delle sue possibilità interne, si è compiuta e si è realizzata
verso l'esterno, improvvisamente la cultura si irrigidisce; essa muore, il suo
sangue si coagula, le sue forze vengono meno — ed essa diventa una civiltà in
declino. Questo è ciò che sentiamo e intendiamo parlando di egizia- nismo, di
bizantinismo, di mandarinismo. Così essa può anco- ra, come un gigantesco
albero marcito nella foresta, protende- re i suoi rami fradici per secoli e
millenni. È quello che vedia- mo in Cina, in India, nel mondo islamico. In
questo modo l’antica civiltà in declino dell’epoca imperiale si elevava
gigante- sca, con apparente forza giovanile e apparente ricchezza, sot- traendo
aria e luce alla giovane cultura araba dell’Oriente. Questo è il senso di tutti
i tramonti della storia — del compimento interno ed esterno, dell’esaurimento
che sovrasta ogni cultura vivente. Di essi quello che ci appare più chiaro nei
suoi contorni è il «tramonto dell’antichità », mentre già oggi avvertiamo
chiaramente in noi e intorno a noi i primi indizi di un avvenimento ad esso del
tutto analogo per corso e durata, che appartiene ai primi secoli del prossimo
millennio: il « tramonto dell’Occidente » ?. Ogni cultura percorre le età
dell’individuo: ognuna ha la sua infanzia, la sua giovinezza, la sua maturità e
la sua vec- chiaia. Un’anima giovanile, timida, ricca di presentimenti si
manifesta negli albori del romantico e del gotico. Essa riempie di sé il
passaggio faustiano dalla Provenza dei Trovatori fino al duomo di Hildesheim
del vescovo Bernward”. Qui soffia un vento di promavera. « Nelle opere
dell’antica architettura tede- sca — dice Goethe! — si vede il fiorire di una
situazione straordinaria. Chi si trovi immediatamente di fronte una fiori- tura
del genere, non può che stupirsi; ma chi penetri nella segreta vita interna della
pianta, nel muoversi delle forze, se- guendo passo passo lo sviluppo della
fioritura, vede la cosa con occhi del tutto diversi; sa quello che vede ».
L'infanzia ci a. Non si tratta della catastrofe delle migrazioni dei popoli che
costi- tuisce —- come nel caso della distruzione della cultura maya da parte
spagnola — un caso privo di necessità più profonda, bensì dell'intimo
disfacimento che sopravviene fin da Adriano, e corrispondentemente in Ci- na
sotto la dinastia orientale Han (25-220 d. C.). 15. Hildeshcim è una città
della Bassa Sassonia, sede episcopale dall'epoca di Carlo Magno: San Bernward
vi fu vescovo dal 993 al 1022, facendo costruire le mura intorno alla città e
favorendo lo sviluppo della metallurgia. 16. GoerHE, Gespricke mit Eckermann,
21 ottobre 1823. parla in modo simile e con voci del tutto affini, con l’arte
dorica pre-omerica, con quella cristiana antica, cioè arabo-primi- tiva, e con
le opere dell’antico regno egizio che ha inizio con la quarta dinastia. Qui una
coscienza del mondo mitica lotta con tutto ciò che di oscuro e di demoniaco è
presente in essa e nella natura come con una colpa, per poter maturare fino
alla pura luminosa espressione di un'esistenza finalmente conquista- ta e
compresa. Quanto più una cultura si avvicina al mezzogior- no della sua
esistenza, tanto più il suo linguaggio formale finalmente assicurato diventa
maturo, aspro, controllato, denso, tanto più essa è certa nel sentimento della
propria forza e tanto più chiari diventano i suoi tratti. Nell’epoca primitiva
tutto ciò era ancora sordo e confuso, procedeva per tentativi, pieno al tempo
stesso di nostalgia e di angoscia infantile. Si consideri la decorazione dei
portali delle chiese romanico-goti- che della Sassonia e della Francia
meridionale: si pensi alle catacombe cristiane primitive, ai vasi in stile
diploico. Ora, nella piena coscienza della forza plasmatrice giunta alla
maturi- tà — come si manifesta nelle epoche dell’inizio del Medio Impero, dei
Pisistrati, di Giustiniano I, della Controriforma — ogni singolo tratto
espressivo appare scelto, rigoroso, misurato, di una meravigliosa levità e
naturalezza. Qui troviamo ovun- que attimi di perfezione luminosa, attimi in
cui sono sorti la testa di Amenemhet III ” (la sfinge di Hyksos di Tanis), la
cupola di Santa Sofia, i dipinti di Tiziano. Ancora più tardi, delicati, quasi
fragili, della dolcezza dolorosa degli ultimi gior- ni d’ottobre, sono
l’Afrodite di Cnido e la sala dei cori dell’E- retteo, gli arabeschi degli
archi saraceni a ferro di cavallo, lo Zwinger di Dresda", Watteau! e
Mozart. Infine, nella vec- chiaia della civiltà in declino, il fuoco dell’anima
si spegne. Per una volta ancora la forza calante trova l’ardire, pervenen- do
con parziale successo a una grande creazione — nel classici- smo, che non è
estraneo a nessuna cultura in via di estinzione; 17. Amenembet II, faraone
della Dodicesima dinastia vissuto intorno al 1850- 1800 a, C. 18, Lo Zwinger è
il castello rcale di Dresda, costruito nell'età barocca, sede di celebri
collezioni. 19. Jcan-Antoinc Wattcau (1684-1721), uno dci maggiori pittori
francesi del Set- tecento. l’anima ripensa ancora una volta dolorosamente — nel
romanti- cismo — alla propria infanzia. Alla fine stanca, neghittosa, fredda,
essa smarrisce la gioia dell’esistenza e — come nell’epo- ca imperiale di Roma
— aspira a fare nuovamente ritorno dalla luce millenaria nell’oscurità della
mistica spirituale originaria, nel grembo materno, nella tomba. Questa è la
magia della « seconda religiosità », che i culti di Mitra, di Iside, del Sole
hanno esercitato una volta sull'uomo della tarda antichità — i medesimi culti
che in Oriente un’anima appena albeggiante aveva riempito di un’interiorità
completamente nuova, facendo- ne l’espressione primitiva, sognante, angosciata
della sua solitu- dine in questo mondo. VII Si parla dell’abito di una pianta e
con ciò si intende la forma di apparenza esterna propria ad essa soltanto, cioè
il carattere, l'andamento, la durata del suo manifestarsi nel mon- do visibile
ai nostri occhi — l'elemento per cui ognuna si distingue, in ogni sua parte e
in ogni fase della sua esistenza, dagli esemplari di tutte le altre specie.
Applicherò questo im- portante concetto fisiognomico ai grandi organismi della
storia, e parlerò dell'abito della cultura, della storia o della spiri- tualità
indiana, egiziana, antica. Un sentimento indeterminato di esso è stato da
sempre a base del concetto di stile; e quando si parla dello stile religioso,
intellettuale, politico, sociale, econo- mico di una cultura, e dello stile di
un'anima in generale, ci si limita a chiarirlo e ad approfondirlo. Questo abito
dell’esi- stenza nello spazio, che nell'uomo singolo si estende al fare e al
pensare, al portamento e alla disposizione spirituale, abbrac- cia
nell'esistenza di intere culture l’espressione complessiva del- la vita di
ordine superiore, come la scelta di determinati generi artistici (la scultura e
l'affresco da parte dei Greci, il contrap- punto e la pittura a olio in
Occidente) e il riftuto deciso di altri generi artistici (l’arte plastica da
parte degli Arabi), la propen- sione all’esoterismo (in India) o alla
popolarità (nel mondo antico), al discorso orale (nell’antichità) o allo
scritto (in Cina e in Occidente), come forme di comunicazione spirituale,
nonché il tipo di costumi, di amministrazione, di mezzi di traspor- to e le
forme di rapporto sociale. Tutte le grandi personalità antiche costituiscono un
gruppo a sé, il cui abito spirituale è rigorosamente distinto da quello dei
grandi uomini appartenen- ti al gruppo arabo o occidentale. Si confronti un
Goethe o un Raffaello con gli uomini dell’antichità, ed Eraclito, Sofocle,
Platone, Alcibiade, Temistocle, Orazio, Tiberio ci appariranno subito come
raccolti in un’unica famiglia. Ogni metropoli anti- ca — dalla Siracusa di Gerone
fino alla Roma imperiale — in quanto incarnazione e simbolo di un medesimo
sentimento del- la vita, è profondamente diversa per piano urbanistico, per la
struttura delle strade, per il linguaggio dell’architettura priva- ta e
pubblica, per il tipo delle piazze, dei vicoli, dei cortili, delle facciate,
per il colore, il chiasso, il traffico, per lo spirito delle sue notti, dal
gruppo delle metropoli indiane, arabe, occi- dentali. A Granada molto tempo
dopo la sua conquista si poteva ancora sentire l’anima delle città arabe, di
Bagdad e del Cairo, mentre nella Madrid di Filippo II si incontrano già tutte
le caratteristiche fisiognomiche delle immagini di città moderne come Londra e
Parigi. In ogni diversità di questa specie c'è un alto grado di simbolismo: si
pensi alla propensio- ne occidentale per le prospettive e i tracciati stradali
rettilinei, come lo scorcio possente dei Champs Elysées visti dal Louvre o la
piazza di San Pietro, e alla loro antitesi rispetto alla confusio- ne e alla
ristrettezza quasi intenzionale della Via Sacra, del Foro romano e
dell’Acropoli con il loro ordine asimmetrico e aprospettico delle parti. Anche
la struttura della città ripete o per un oscuro impulso (come avviene nel
gotico) o consapevol- mente (come dopo Alessandro e Napoleone) qui il principio
matematico leibniziano dello spazio infinito, là quello euclideo dei corpi
isolati. Ma all’abito di un gruppo di organismi appartiene anche una
determinata durata della vita e un determinato ritmo di sviluppo. Questi
concetti non possono mancare in una dottrina della struttura della storia. Il
ritmo dell’esistenza antica era diverso da quello dell’esistenza egizia o
araba. Si può parlare dell’« andante » dello spirito ellenico-romano e dell’«
allegro con brio » di quello faustiano. Al concetto di durata della vita di un
uomo, di una farfalla, di una quercia, di un filo d'erba si connette, del tutto
indipendentemente da ogni accidentalità del destino individuale, un determinato
valore. Nella vita di tutti gli uomini dieci anni costituiscono una sezione
approssimativa- mente equivalente, e anche la metamorfosi degli insetti è lega-
ta, nei casi singoli, a un numero di giorni già noto con precisio- ne in
anticipo. I Romani ricollegavano ai loro concetti di pueri- tia, adulescentia,
juventus, virilitas, senectus una rappresentazio- ne fornita di precisione
quasi matematica. Senza dubbio la biologia del futuro farà della durata
predeterminata della vita delle varie specie e dei vari generi — in antitesi al
darwinismo, e con un'esclusione di principio dei motivi causali di finalità
riguardo all'origine delle specie — il punto di partenza di una problematica
completamente nuova. La durata di una genera- zione — poco importa di quali
esseri — è un fatto di significa- to quasi mistico. Queste relazioni posseggono
anche, in manie- ra finora mai percepita, una validità per tutte le culture
superio- ri. Ogni cultura, ogni sua epoca iniziale, ogni crescita e ogni
declino, ognuna delle sue fasi e dei suoi periodi internamente necessari
possiede una durata determinata, sempre eguale, sem- pre ricorrente con
l'insistenza di un simbolo. In quest'opera si dovrà rinunciare a svelare questo
mondo di connessioni piene di mistero, ma i fatti che verranno in seguito
sempre più in luce sveleranno tutto ciò che qui rimane celato. Che cosa signi-
fica il sorprendente periodo di cinquant’anni, che si riscontra in ogni
cultura, nel ritmo del divenire politico, spirituale, arti- stico? *® Che cosa
significano i periodi di trecento anni del barocco, dello ionico, delle grandi
matematiche, dell’arte plasti- ca attica, della pittura a mosaico, del
contrappunto, della mec- canica galileiana? Che cosa significa la durata ideale
di un millennio nella vita di ogni cultura, in confronto a quella
dell'individuo, in cui «la vita dura settant'anni » ? a. Mi limiterò a fare qui
riferimento alla distanza delle tre guerre puniche e alla serie, anch'essa da
intendersi in maniera puramente rit- mica, della guerra di successione
spagnuola, delle guerre di Federico il Grande, di Napoleone, di Bismarck e
della guerra mondiale. Affine a ciò è il rapporto spirituale tra nonno e
nipote. Di qui trae origine la convinzione dei popoli primitivi che l’anima del
nonno ritorni nel nipote e il costume diffuso di dare al nipote il nome del
nonno, che con la sua forza mistica ne rievoca l’anima nel mondo corporeo. Nel
modo in cui le foglie, i fiori, i rami, i frutti recano ad espressione nella
loro forma, nella loro foggia e nel loro porta- mento l’essere vegetale, lo
stesso fanno le formazioni religiose, intellettuali, politiche ed economiche
nell’esistenza di una cultu- ra. Ciò che per l’individualità di Goethe
significa una serie di manifestazioni così differenti quali il Faust, la
Farbenlehre, il Reineke Fuchs, il Tasso, il Werther, il viaggio in Italia,
l'amo- re per Federica, il West-ostliche Divan e le Ròmische Elegien, per
l’individualità del mondo antico significano le guerre per- siane, la tragedia
attica, la polis, il dionisiaco, al pari della tirannide, delle colonne
ioniche, della geometria di Euclide, della legione romana, dei combattimenti
tra gladiatori e del pa- nem et circenses dell’epoca imperiale. In questo senso
ogni esistenza individuale in qualche modo significativa ripete, con profonda
necessità, tutte le epoche della cultura a cui appartiene. In ciascuno di noi
la vita interio- re si desta — in quell’istante decisivo a partire dal quale si
sa di essere un Io — nel punto e nel modo in cui si è destata l'anima
dell'intera cultura. Ognuno di noi, uomini dell’Occi- dente, ancora rivive da
fanciullo, nei suoi sogni ad occhi aperti e nei giochi infantili, il suo
gotico, le sue cattedrali, i castelli feudali e le saghe degli eroi, il Dieu Je
veut delle Crociate e il tormento del giovane Parsifal’. Ogni giovane greco
aveva la sua epoca omerica e la sua Maratona. Nel Werther di Goethe, immagine
di una svolta giovanile nota a ogni uomo faustiano, ma a nessun uomo antico,
ritorna l’epoca di Petrarca e del Minnesang”®. Quando Goethe abbozzò l’Urfaust,
egli era Parsi fal; quando finì la prima parte, era Amleto; soltanto con la
seconda parte diventò l’uomo universale del secolo x1x, quale 20. Eroc di una
leggenda popolare di origine celtica, poi collegato con il ciclo di Re Artà o
dei « cavalieri della tavola rotonda »: in questo nuovo contesto Parsifal
diventa il personaggio principale della ricerca del Graal, dando così il titolo
— nel secolo xt — a un noto pocma cavalleresco di Chrétien de Troyes. A
quest'ultima ver- sione si è richiamato Wagner nella sua ultima opera, il
Parsifal, scritta nel 1876-1877 e messa in musica nel 1877-1882. 21.
Designazione collettiva della lirica tedesca dei secoli xir e xm, affine alla
poesia trobadorica provenzale, che si ispira all'ideale dell’« amor cortese ».
La parola è composta dai termini Minne (= Liebe, amore) c Sang (= Gesang, canto
o canzone); essa si riferisce all'omaggio reso dal cavaliere alla sua dama,
cspresso con la parola Minnedienst. Byron lo intese. Perfino la senilità, quei
secoli capricciosi e infecondi dell’Ellenismo più tardo, la «seconda fanciullezza
» di un'intelligenza stanca e svogliata, si può studiare in più d’uno dei
grandi vegliardi dell’antichità. Nelle Baccanti di Eu- ripide è anticipato
molto del sentimento della vita, e nel Timeo di Platone molto del sincretismo
religioso dell’età imperiale. Il secondo Faust di Goethe e il Parsifal! di
Wagner svelano in anticipo quale forma la nostra spiritualità assumerà nei
prossi- mi secoli, negli ultimi secoli creativi. Per omologia degli organi la
biologia intende la loro equiva- lenza morfologica, in antitesi all’analogia,
che si riferisce inve- ce all’equivalenza della loro funzione. Goethe ha
concepito que- sto concetto importante, e così fecondo nelle sue conseguenze,
il cui sviluppo lo ha condotto a scoprire nell'uomo l’os interma- xillare; Owen?
ne ha dato una formulazione rigorosamente scientifica. Io introduco questo
concetto anche nel metodo sto- rico. È noto che a ogni parte del cranio umano
corrisponde in modo preciso in tutti i vertebrati — fino ai pesci — un’altra
parte, in modo tale che le pinne pettorali dei pesci e i piedi, le ali, le mani
dei vertebrati terrestri sono organi omologhi, anche se hanno perduto ogni più
piccola parvenza di somiglianza. Omologhi sono i polmoni degli animali
terrestri e la vescica natatoria dei pesci; analoghi sono invece — in
riferimento all’u- so — i polmoni e le branchie®. Qui si manifesta un talento
a. Non è superfluo aggiungere che questi fenomeni puri della natura vivente
sono estranei a ogni elemento causale, e che il materialismo do- vette pervertirne
l'immagine con l’introduzione di cause finali, per otte- nere un sistema adatto
all'intelletto comune. Goethe, che del darwi- nismo aveva grosso modo
anticipato ciò che di esso rimarrà ancora tra cinquant'anni, escluse
completamente il principio di causa. Egli carat- terizza la vita reale priva di
cause e di scopi in modo tale che i darwi- nisti non si sono qui affatto
avveduti dell'assenza del principio. Il con- cetto di fenomeno originario non
permette nessuna assunzione causale, a meno che non si voglia fraintenderlo in
senso meccanicistico. 22. Richard Owen (1804-1892), biologo inglese, autore
della Memoir on the Pearly Nautilus (1832), della Odontography (1840-1845),
della History of British Fossil Mam- mals and Birds (1846), della History of
British Fossil Reptils (1849-1884) e di varie altre opere, diede importanti
contributi alla paleontologia degli animali vertebrati. morfologico
approfondito, ottenuto attraverso una rigorosissi- ma educazione dello sguardo,
che è del tutto estraneo all’attua- le ricerca storica con la sua comparazione
superficiale, tra Cristo e Budda, tra Archimede e Galilei, tra Cesare e Wallen-
stein”?, tra i piccoli stati tedeschi e quelli ellenici. Nel corso di
quest'opera diventerà sempre più chiaro quali immense pro- spettive si aprano
allo sguardo storico, non appena questo meto- do rigoroso venga compreso ed
elaborato anche all’interno della considerazione della storia. Formazioni
omologhe sono — per menzionarne qui soltanto alcune — l’arte plastica antica e
la musica strumentale dell'Occidente, le piramidi della Quarta dinastia e le
cattedrali gotiche, il Buddismo indiano e lo Stoici- smo romano (mentre
Buddismo e Cristianesimo z07 sono nep- pure analoghi), l'epoca degli « stati in
lotta» della Cina, degli Hyksos e delle guerre puniche, le epoche di Pericle e
degli Omeiadi, le epoche del Rigveda”, di Plotino e di Dante. Omo- loghi sono
la corrente dionisiaca e il Rinascimento, analoghe sono invece la corrente
dionisiaca e la Riforma. Per noi — lo ha giustamente sentito Nietzsche — «
Wagner riassume la mo- dernità ». Di conseguenza dev’esserci qualcosa di
corrisponden- te anche per la modernità antica; ed è l’arte di Pergamo.
Dall’omologia dei fenomeni storici deriva nel medesimo tempo un concetto del
tutto nuovo. Io definisco « contempora- nei» due fatti storici che, ognuno
nella sua cultura, com- paiono esattamente nel medesimo luogo (relativo) e
hanno per- ciò un significato esattamente corrispondente. Si è già mostra- to
come lo sviluppo della matematica antica e di quella occiden- tale siano
avvenuti in piena coerenza. In questo caso Pitagora e Descartes, Archita* e
Laplace, Archimede e Gauss” dovrebbe- 23. Albrecht Wenzel Euscbius von
Waldstein o Wallenstcin (1583-1634), condot- tiero delle armate imperiali
durante la guerra dei Trent'anni, in seguito accusato di tradimento e ucciso,
La sua vita ispirò la trilogia di Schiller che da Wallenstein prende il nome
(scritta nel 1798-1799). 24. Prima parte dei Veda, raccolta di inni e di
racconti cosmogonici anteriori all'800 a. C., che costituiscono il primo nucleo
della letteratura metafisica indiana. 25. Archita di Taranto, matematico greco
della prima metà del secolo Iv, svilup- pò l’opera di Pitagora e fu in
relazione con Platone. 26. Carl Friedrich Gauss (1777-1855), matematico c
astronomo tedesco, autore delle Disquisitiones arithmeticae (1801) e di
numerosi altri scritti, dicde una nuova impo- stazione alla teoria dei numeri e
aprì la strada alle geometrie non cuclidec. Non meno ro essere designati come
contemporanei; la nascita dello ionico e del barocco si compie
contemporaneamente; Polignoto” e Rembrandt, Policleto” e Bach sono
contemporanei. Contempo- ranei appaiono, in tutte le culture, la Riforma, il
Puritanesi- mo, e soprattutto la svolta che reca alla civiltà in declino.
Nell'antichità quest'epoca porta i nomi di Filippo e di Alessan- dro;
nell'Occidente l’avvenimento ad essa contemporaneo com- pare nella forma della
Rivoluzione francese e di Napoleone. Alessandria, Bagdad e Washington vengono
costruite contem- poraneamente; l'apparizione delle antiche monete e della no-
stra contabilità a partita doppia, della prima tirannide e della Fronda, di
Augusto e di Shih Huang Ti”, di Annibale e della guerra mondiale avvengono
contemporaneamente. Spero di dimostrare che tutte — senza eccezione — le gran-
di creazioni e forme della religione, dell’arte, della politica, della società,
dell'economia, della scienza sorgono, si compiono e periscono
contemporaneamente nelle diverse culture; che la struttura interna di una
corrisponde completamente a quella delle altre; che nell'immagine storica di
ogni cultura non c’è un solo fenomeno fornito di profondo significato
fisiognomico di cui non si possa rintracciare la contropartita, in una forma
rigorosamente definibile e in un luogo ben determinato, anche nelle altre. Ma
per cogliere l’omologia tra due fatti occorre un approfondimento e
un’indipendenza dall’apparenza della faccia- ta completamente diversi da quelli
finora consueti tra gli stori- ci, i quali non si sarebbero mai sognati che il
Protestantesimo trova il suo corrispettivo nel movimento dionisiaco e che il
Puritanesimo inglese dell'Occidente corrisponde all’Islam nel mondo arabo. Da
questo aspetto deriva una possibilità che va molto al di là dell’ambizione di
ogni ricerca storica precedente, la quale si importanti sono le sue ricerche
astronomiche: calcolò per primo l'orbita del pianetino Ccrere cd elaborò un
nuovo metodo di calcolo dell'orbita dei piancti. 27. Polignoto di Taso, pittore
greco vissuto nella prima metà del secolo v. 28. Policleto, grande scultore
greco del secolo v. 29. Shih Huang Ti (259-210 a. C.), « primo imperatore
sovrano », è il titolo as- sunto dal re Cheng dello stato di Ch'in dopo
l'unificazione della Cina e la soppres- sione degli altri stati indipendenti. A
lui si devono la semplificazione della scrittura cinese, l'estensione del
sistema giuridico Ch'in a tutto l'impero, l'organizzazione am- ministrativa
dell'impero, nonché il completamento della Grande muraglia. limitava
essenzialmente a ordinare il passato, nella misura in cui esso era conosciuto,
secondo uno schema unilineare — cioè la possibilità di procedere oltre il
presente come limite dell’inda- gine e di determinare in anticipo anche le
epoche zoz ancora trascorse della storia occidentale nella loro forma interna,
nella loro durata, nel loro ritmo, nel loro senso, nel loro risultato, ma anche
la possibilità di ricostruire con l’aiuto di connessioni morfologiche le epoche
da gran tempo scomparse e sconosciute, e perfino intere culture del passato. Si
tratta di un procedimen- to non dissimile da quello della paleontologia che
oggi è in grado di fornire, sulla base di un singolo frammento del cra- nio,
nozioni ampie e sicure sullo scheletro e sull’appartenenza del frammento a una
specie determinata. Una volta presupposto il ritmo fisiognomico è del tutto
pos- sibile ritrovare, sulla base di particolarità disperse della decora-
zione, dell’architettura e della scrittura, e di dati isolati di natura
politica, economica, religiosa, i tratti organici fondamen- tali dell'immagine
storica di interi secoli; è possibile ricavare da elementi del linguaggio
formale dell’arte la forma statale ad essa contemporanea, dalle forme
matematiche il carattere delle corrispondenti forme economiche. Si tratta di un
procedimento genuinamente goethiano, che riporta all’idea goethiana di fero-
meno originario, e che è corrente nel limitato ambito della zoologia e della
botanica comparativa, ma che può venir esteso, in misura finora mai sospettata,
all'intero campo della storia. Sul concetto di politica abbiamo riflettuto più
di quanto fosse opportuno, e tanto meno ci siamo intesi sul modo di considerare
la politica reale. I grandi uomini di stato sono soliti agire immediatamente,
sulla base di un sicuro intuito dei fatti. Per essi ciò è tanto evidente che
non viene loro neppure in mente la possibilità di riflettere sui concetti
generali fonda- mentali di questo agire — posto che tali concetti esistano.
Essi sapevano da sempre che cosa dovevano fare. Una teoria in proposito non corrispondeva
né al loro talento né al loro gu- sto. Ma i pensatori di professione che
posavano lo sguardo sui fatti creati dagli uomini erano così intimamente
distanti da questo agire che perdevano tempo almanaccando di astrazioni —
preferibilmente in immagini mitiche come quelle di giusti- zia, virtù, libertà
— e in base ad esse misuravano l’accadere storico del passato e soprattutto del
futuro. Essi dimenticarono che si trattava in fondo di semplici concetti, e
pervennero alla convinzione che la politica esista per dare forma al corso del
mondo secondo una ricetta ideale. E poiché una cosa simile non è avvenuta mai e
in nessun luogo, l’agire politico apparve loro così ristretto in confronto al
pensiero astratto che nei loro libri disputavano sul fatto se possa in qualche
modo esserci un « genio dell’azione ». * Der Untergang des Abendlandes: Umrisse einer
Morphologie der Weltgeschichte, cap. Il-iv: Der Staat, sezione 3: Philosophie der Politig, Minchen, C. H.
Beck'sche Verlagsbuchhandlung, 1918-22, cd. definitiva 1923, vol. II, pp.
544-579 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi, autorizzata, per gentile
concessione della Casa Edi- trice Longanesi). 756 OSWALD SPENGLER Qui si
compirà invece il tentativo di creare, anziché un sistema ideologico, una fisiognomica
della politica quale è stata realmente fatta nel corso della storia intera, e
non così come avrebbe dovuto essere fatta. Il compito era quello di penetrare
il senso ultimo dei grandi fatti, di «vederli», di sentire e di circoscrivere
il loro elemento simbolicamente significativo. I progetti di miglioramento del
mondo non hanno nulla a che fare con la realtà storica?. Noi chiamiamo storia
le correnti dell’esistenza umana nella misura in cui le concepiamo come
movimento; le chiamiamo generazione, ceto, popolo, nazione nella misura in cui
le conce- piamo invece come qualcosa di mosso. La politica è il modo e la
maniera in cui quest’esistenza che scorre si afferma, cresce, trionfa sulle
altre correnti della vita. Tutta la vita è politica, in ogni suo tratto
istintivo, fino al midollo. Ciò che oggi designiamo volentieri come energia
vitale (come vitalità), quel « qualcosa » in noi che vuole ad ogni costo
avanzare e sollevar- si, il cieco, cosmico, nostalgico impulso alla validità e
alla po- tenza che rimane legato — a mo’ di pianta e di razza — alla terra,
alla « patria », quell’essere diretto e quel dover necessaria mente agire
costituisce quello che ovunque, tra gli uomini superiori, cerca ed è costretto
a cercare, come vita politica, le grandi decisioni per essere oppure per subire
un destino. Infatti o si cresce 0 si muore: non c'è una terza possibilità. Per
questo motivo la nobiltà come espressione di una razza forte è il ceto
propriamente politico: la disciplina, non la cultu- ra è la forma propriamente
politica di educazione. Ogni gran- de politico, che è un centro di forza nella
corrente di ciò che accade, ha qualcosa di nobile nel modo di sentire la
propria a. «I regni passano, un buon verso rimane» — così si esprimeva Wilhelm
von Humboldt sul campo di battaglia di Waterloo. Ma la per- sonalità di
Napoleone ha plasmato in anticipo la storia dei secoli suc- cessivi, Per ciò
che riguarda i buoni versi, egli avrebbe dovuto inter- rogare in proposito un
contadino per strada. È vero che essi rimangono, ma per l'insegnamento della
letteratura. Platone è eterno, ma per i filologi. La figura di Napoleone domina
però interiormente noi tutti, i nostri stati e i nostri eserciti, la nostra
opinione pubblica, tutto il nostro essere politico — e in misura tanto maggiore
quanto meno ne abbiamo coscienza. OSWALD SPENGLER 757 vocazione e nel proprio
legame interiore. Invece tutto ciò che è microcosmico, tutto ciò che è
«spirito», è anche apolitico; perciò ogni politica programmatica e ogni
ideologia hanno qual- cosa di sacerdotale. I migliori diplomatici sono i
fanciulli quando giocano o vogliono avere qualcosa. Allora la sostanza cosmica
presente nell'esistenza singola si fa strada immediata- mente e con una
sicurezza da sonnambulo. Col destarsi della giovinezza gli uomini non imparano,
ma anzi disimparano questa maestria dei primi anni di vita: proprio per questo
motivo l’uomo di stato è cosa rara tra gli uomini. Queste correnti
dell’esistenza nell’ambito di una cultura su- periore — perché soltanto
all’interno di essa e tra di esse vi è grande politica — sono possibili solo al
plurale. Un popolo esiste realmente soltanto in rapporto ad altri popoli. Ma
pro- prio per questo motivo il rapporto naturale, razziale, tra di essi è la
guerra. Si tratta di un fatto che nessuna verità cambie- rà mai. La guerra è la
politica originaria di ogzi essere viven- te, fino al punto che la lotta e la
vita sono in fondo tutt'uno e che con la volontà di lotta si spegne anche
l'essere. Vi sono antiche parole germaniche come orrusta e orlog che
significano serietà e destino, in antitesi allo scherzo e al gioco: è un
rafforzamento, non una differenza di essenza. E se ogni alta politica vuol
essere una sostituzione della spada con armi spiri- tuali, se l'ambizione
dell’uomo di stato alla sommità di tutte le culture è quella di rendere quasi
non più necessaria la guerra, rimane pur sempre l’affinità originaria tra
diplomazia e arte della guerra: il carattere di lotta, la medesima tattica, la
mede- sima astuzia bellica, la necessità di avere sullo sfondo forze materiali
per dare peso alle operazioni. Anche il fine rimane lo stesso: la crescita
della propria unità vitale — ceto o nazione — a spese delle altre. Ogni
tentativo di escludere questo ele- mento razziale conduce soltanto alla sua
trasposizione in un campo diverso: anziché tra partiti c'è la lotta tra
territori o, quando la volontà di crescita viene meno anche qui, tra bande di
avventurieri a cui il resto della popolazione volontariamente si rassegna. In
ogni guerra tra potenze della vita si tratta di stabilire chi debba governare
il tutto. È sempre una vita e mai un sistema, una legge o un programma, che
fornirà il ritmo nella 758 OSWALD SPENGLER corrente dell’accadere ®. Essere il
centro di azione, il centro attivo di una massa, elevare la forma interiore
della propria persona a forma di interi popoli e di intere epoche, avere il
comando della storia per poter condurre il proprio popolo e la propria stirpe,
con i suoi fini, al culmine degli avvenimenti — questo è l'impulso
inconsapevole e irresistibile operante in ogni essere individuale fornito di
vocazione storica. C'è soltan- to storia personale, e quindi anche soltanto
politica personale. La lotta non di princìpi ma di uomini, non di ideali ma di
caratteri razziali per esercitare il potere costituisce il presuppo- sto e il
fine della politica: le rivoluzioni stesse non costituisco- no un'eccezione,
poiché la « sovranità popolare » non è che una parola per esprimere il fatto
che il potere dominante ha assun- to il titolo di capo-popolo anziché quello di
re. Con questo non muta il metodo di governare, e neppure la posizione dei
gover- nanti. Anche la pace universale, tutte le volte che c’è sta- ta, non è
stata altro che la schiavitù dell’umanità intera sotto il governo di un piccolo
numero di nature forti decise a dominare. Il concetto di esercizio del potere
implica — già tra gli animali — che un’unità vitale si frantumi in soggetti e
oggetti di governo. Ciò è talmente ovvio che questa struttura interna di ogni
unità di massa non va perduta neppure un istante, anche durante le crisi più
gravi come quella del 1789. Soltanto il detentore del potere scompare, non però
l’ufficio; e quando nel corso degli avvenimenti un popolo perde realmente ogni
guida e si spinge in avanti senza regola, ciò significa soltanto che
trasferisce all’esterno la propria guida, perché è diventato oggetto nella sua
totalità. Non vi sono popoli politicamente dotati; vi sono soltanto popoli che
sono saldamente in mano a una minoranza gover- nante e che quindi si trovano
bene nella loro costituzione. Come popolo, gli Inglesi sono altrettanto privi
di giudizio, ristretti e poco pratici di cose politiche che qualsiasi altra
nazio- ne, ma posseggono, pur con tutto il loro gusto per i dibattiti pubblici,
una tradizione di fiducia. La differenza consiste sem- plicemente nel fatto che
l’Inglese è oggetto di un governo che a. È questo il significato della frase
inglese men not measures, che indica il segreto di ogni politica che ha
successo. OSWALD SPENGLER 759 ha consuetudini assai antiche e ricche di
successo, a cui egli acconsente perché ne conosce per esperienza il vantaggio.
Da questo consenso, che dal di fuori appare come accordo, non c’è che un passo
per arrivare alla convinzione che tale governo dipenda dalla volontà popolare,
anche se all’inverso è proprio esso che gli inculca sempre, per motivi tecnici,
questo punto di vista. La classe di governo inglese ha sviluppato i suoi fini e
i suoi metodi in piena indipendenza dal « popolo »; essa lavora con — e in —
una costituzione non scritta le cui finezze nient’affatto teoriche, nate
dall’uso, sono impenetrabili e in- comprensibili al profano. Ma il coraggio
della truppa dipende dalla fiducia nella guida — una fiducia che vuol dire
rinuncia non arbitraria alla critica. È l'ufficiale che rende eroi i codardi o
codardi gli eroi: ciò vale per gli eserciti, per i popoli, per i ceti come per
i partiti. Il talento politico di una massa non è altro che fiducia nella sua
guida. Ma essa dev'essere guadagna- ta; deve maturare lentamente, venir
mantenuta in virtù del successo e diventare tradizione. Il difetto di capacità
direttive nello strato dominante si manifesta come scarso sentimento di
sicurezza presso i dominati, cioè come quella specie di critica priva d'istinto
e petulante, che mette fuori forma un popolo con la sua semplice presenza. II
Come si fa politica? — L'uomo di stato nato è soprattutto un conoscitore: un
conoscitore di uomini, di situazioni, di cose. Egli possiede lo « sguardo » che
abbraccia integralmente, senza esitare, l'ambito del possibile. Il conoscitore
di cavalli saggia con «ro sguardo il portamento dell’animale e sa quali
prospettive esso possiede nella corsa. Il giocatore lancia uno sguardo
all’avversario e ne conosce la prossima mossa. Fare ciò che è giusto senza « saperlo
», la mano sicura che allenta imper- cettibilmente o lascia andare del tutto la
redine — tutto ciò è l'opposto dell’uomo teoretico. Il ritmo segreto di ogni
divenire è il medesimo in lui e nelle cose storiche. L'uno ha sentore
dell’altro, l’uno esiste per l’altro. L'uomo di azione non si trova mai in
pericolo di condurre una politica sentimentale o programmatica. Non crede alle
grandi parole: egli ha continua- 760 OSWALD SPENGLER mente sulle labbra la
domanda di Pilato. Verità — ma l’uomo di stato nato sta al di là del vero e del
falso, non scambia la logica degli avvenimenti con la logica dei sistemi. Le «
verità » — o gli «errori », che sono qui la stessa cosa — vengono da lui
considerate soltanto come correnti spirituali, riguardo alla loro efficacia:
egli ne scorge la forza, la durata e la direzione, e le mette in conto per il
destino della potenza da lui diretta. Certamente possiede convinzioni che gli
sono care, ma come uomo privato; nessun politico di statura si è mai sentito
dipen- dente da esse mentre agiva. « Colui che agisce è sempre privo di
coscienza; nessuno ha coscienza come ne ha l’uomo contem- plativo » !. Ciò vale
per Silla e Robespierre così come per Bi- smarck e Pitt. I grandi papi e i
capi-partito inglesi, finché dovevano dirigere il corso delle cose, non
seguivano princìpi diversi da quelli dei conquistatori e degli agitatori di
tutti i tempi. Si tragga dalle azioni di Innocenzo III, che ha condotto la
Chiesa vicino al dominio del mondo, la loro regola fonda- mentale, e se ne
ottiene un catechismo del successo che rappre- senta l’estremo opposto di ogni
morale religiosa, ma senza il quale nessuna chiesa, nessuna colonia inglese,
nessun patrimo- nio americano, nessuna rivoluzione vittoriosa, infine nessun
sta- to e nessun partito, nessun popolo si troverebbe in una situazio- ne
sopportabile. La vita, non l’individuo, è priva di coscienza. Perciò occorre
intendere il tempo per il quale si è nati. Chi non avverte e non coglie le sue
potenze più segrete, chi non sente in se stesso qualcosa di affine che lo
spinge in avanti per un cammino che non si può circoscrivere con concetti, chi
crede a ciò che sta in superficie, all'opinione pubblica, alle grandi parole e
agli ideali del giorno, non è all’altezza dei suoi avvenimenti. Allora questi
lo hanno in loro potere, e non vicever- sa. Mai guardarsi alle spalle e mai
trarre il criterio dal passato! e tanto meno di fianco, da un qualsiasi
sistema! In epoche come l’attuale o come quella di Gracco vi sono due specie di
idealismo infausto: quello reazionario e quello democratico. L'uno crede nella
reversibilità della storia, l’altro nella presenza in essa di un fine. Ma per
il necessario insuccesso in cui entrambe gettano la nazione sul cui destino
hanno acquisito potere, è indifferente 1. GorrHe, Maximen und Reflexionen, 241.
OSWALD SPENGLER 761 che la si sacrifichi a un ricordo o a un concetto. L’uomo
di stato genuino è la storia fatta persona; è il suo orientamento in forma di
volontà singola, la sua logica organica in forma di carattere. Ma l’uomo di
stato di valore dovrebbe anche essere un edu- catore in senso elevato: non come
rappresentante di una mora- le o di una dottrina, ma come modello nel suo
agire. È un fatto noto che nessuna religione nuova ha mai mutato lo stile
dell’esistenza. Essa ha penetrato l’essere desto, l’uomo spiritua- le, ha
gettato nuova luce su un mondo al di là, ha creato una felicità
incommensurabile con la forza della modestia, della rinuncia e della
sopportazione fino alla morte; ma sulle forze della vita non possedeva alcun
potere. Soltanto la grande perso- nalità — la sostanza impersonale, la razza in
essa presente, la forza cosmica che le è connessa — opera creativamente sul
vivente, non istruendo ma disciplinando, trasformando il tipo di interi ceti e
di interi popoli. Non /e verità, # bene, i sublime, bensì i;7 Romano, #
Puritano, : Prussiano costituisco- no un fatto. Il sentimento dell’onore, il
sentimento del dovere, la disciplina, la decisione sono tutte cose che non si
imparano dai libri; esse vengono destate, nel fluire dell’esistenza, da un
modello vivente. Perciò Federico Guglielmo I? fu uno dei più grandi educatori
di tutti i tempi e il suo portamento persona- le, plasmatore di una razza, non
è più scomparso nel susseguir- si delle generazioni. Ciò che distingue l’uomo
di stato genuino dal semplice politico, dal giocatore per diletto, dal
cacciatore di felicità che opera sulle sommità della storia, dall’avido e
dall’ambizioso, dal maestro di scuola che va predicando un ideale, è il fatto
che egli può esigere il sacrificio e lo ottiene perché il sentimento di essere
necessario all’epoca e alla nazio- ne viene condiviso da migliaia di uomini, li
plasma fin nel loro intimo e li rende capaci di imprese alla cui altezza non si
sarebbero altrimenti mai sollevati*. a. Ciò vale, in definitiva, anche per le
chiese, le quali sono qualcosa di completamente diverso dalle religioni, cioè
elementi del mondo dei 2. Federico Guglielmo I (1688-1740), re dì Prussia dal
1713 alla morte, pose le ba- si dell’amministrazione dello stato prussiano: la
sua parsimonia e la sua vita frugale servirono di esempio a generazioni di
funzionari del nuovo stato. 762 OSWALD SPENGLER Ma il momento supremo non
consiste nell’agire, bensì nel poter comandare. Soltanto con questo il singolo
cresce al di sopra di sé, diventando il punto centrale di un mondo attivo. C'è
una specie di comandare che fa dell’obbedire una consuetu- dine fiera, libera e
nobile — e che Napoleone, per esempio, non ha posseduto. Un residuo di
mentalità subalterna gli ha impedito di educare degli uomini e non degli
strumenti di registrazione, di dominare tramite personalità anziché median- te
decreti; e poiché non era capace di questa sensibilità sottile del comandare e
doveva quindi fare da solo tutto quanto era veramente decisivo, doveva a poco a
poco fallire a causa della sproporzione tra i compiti della sua posizione e i
limiti della capacità di azione umana. Ma chi possiede questa dote suprema e
ultima dell’umanità più perfetta — come Cesare o Federico il Grande — alla sera
di una battaglia, quando le operazioni vanno incontro all’esito voluto e la
campagna si decide con la vittoria, oppure nell’ora in cui si conclude, con
l’ultima firma, un’epoca della storia, prova un sentimento di potenza meravi-
glioso che rimane per sempre precluso agli uomini della veri- tà. Vi sono
attimi — che indicano i punti più alti delle cor- renti cosmiche — in cui
l’individuo è consapevole di essere identico al destino e di stare al centro
del mondo, e percepisce la sua personalità quasi come il manto di cui la storia
futura è in procinto di avvolgersi. Il primo compito è di fare qualcosa da sé;
il secondo, meno appariscente ma più difficile e più grande nella sua efficacia
remota, è di creare una tradizione, di coinvolgere altri af- finché proseguano
la propria opera, il suo ritmo e il suo spiri- to; scatenare una corrente di
attività unitaria che non ha più bisogno del primo capo per mantenere la
propria forma. Con ciò l’uomo di stato cresce a un’altezza che l’antichità ha
defini- to come divinità: diventa il creatore di una vita nuova, il capostipite
spirituale di una razza giovane. Dopo pochi anni egli scompare, come essere
singolo, da questa corrente. Ma una fatti e quindi — nel carattere della loro
guida — fenomeni politici e non religiosi. Non la predica cristiana, ma il
martire cristiano ha con- quistato il mondo, e del possesso di questa forza
egli era debitore non già alla dottrina, ma all’esempio dell'Uomo sulla croce.
minoranza da lui suscitata, un altro essere di specie assai rara, subentra al suo
posto per un tempo indeterminato. Un indivi- duo può produrre e lasciare come
eredità questo elemento co- smico, quest’anima di uno strato dominante; in
tutta la storia questo ha sempre dato effetti durevoli. Il grande uomo di stato
è raro: se egli venga, se si affermi, se troppo presto o troppo tardi — tutto
ciò è affidato al caso. I grandi individui spesso distruggono più di quanto non
abbiano costruito, e ciò a causa del vuoto che la loro morte lascia nella
corrente dell’accadere. Ma creare una tradizione vuol dire escludere il caso.
Una tradi- zione alleva un tipo medio elevato su cui il futuro può fare sicuro
affidamento: non un Cesare, ma un senato; non un Napoleone, ma un corpo
incomparabile di ufficiali. Una forte tradizione attrae da tutte le parti i
talenti e consegue grandi successi con ridotte capacità: lo dimostrano le
scuole pittoriche italiane e olandesi non meno dell’esercito prussiano e della
diplomazia della curia romana. È stata una grande debolezza di Bismarck — in
confronto a Federico Guglielmo I — che egli abbia sì saputo agire, ma non
formare una tradizione, che non abbia creato accanto al corpo di ufficiali di
Moltke® una razza corrispondente di politici che si identificasse con il suo
stato e con i nuovi compiti da esso posti, che traesse continuamente dal basso
uomini importanti incorporando per sempre il loro stile di azione. Se ciò non
avviene, anziché uno strato di gover- no formato di un sol getto si avrà un
insieme di teste che affronta disarmata l’imprevisto. Ma se ciò riesce, allora
sorge un « popolo sovrano » nell’unico senso che è degno di un popo- lo e che è
possibile nel mondo dei fatti; una minoranza ben integrata e altamente
selezionata, provvista di una tradizione sicura e maturata attraverso una lunga
esperienza, che attrae c utilizza sul suo cammino ogni talento e che proprio
per questo motivo si trova in accordo con il resto della nazione da essa
governato. Una minoranza siffatta diventa a poco a poco una razza genuina —
anche se una volta era stata un partito — e 3. Helmuth Carl Bernhard von Moltke
(1800-1891), generale prussiano, prestò dap- prima servizio nell’esercito
turco; ritornato in Germania nel 1840, diresse le armate prussiane nella guerra
del 1866 conuo l’Austria e poi nella guerra franco-tedesca del 1870-71. A lui
si deve l’organizzazione in forma moderna dell’esercito prussiano: gran- de
stratega, ebbe una parte decisiva nell'esito vittorioso delle due guerre.
decide con la sicurezza del sangue, non dell’intelletto. Proprio per questo
motivo tutto accade in essa « da sé»: non ha più bisogno del genio. Ciò
significa, se così si può dire, la sostitu- zione del grande politico con la
grande politica. Ma che cos'è la politica? — Essa è l’arte del possibile: è una
formula antica, che dice quasi tutto. Il giardiniere può trarre una pianta dal
seme o nobilitarne la specie; può dispiega- re o lasciar deperire le
disposizioni in essa latenti, la sua cresci- ta e la sua foggia, la sua
fioritura e i suoi frutti. Dal suo sguardo per il possibile, e quindi per il
necessario, dipendono la perfezione, la forza, l’intero destino della pianta.
Ma la forma fondamentale e la direzione della sua esistenza, le sue fasi di
sviluppo, la sua velocità e la sua durata, la «legge secondo cui si manifesta »
70n sono in potere del giardiniere. Essa deve realizzarla, oppure muore; e la
stessa cosa vale per quell’immensa pianta che è la «cultura» e per le correnti
dell’esistenza di generazioni umane racchiuse nel suo mondo di forme politiche.
Il grande uomo di stato è il giardiniere di un popolo. Ogni individuo che
agisce è nato in e per un determinato tempo. In tal modo è determinato anche
l’ambito di ciò che può venir conseguito da /ui. Il nonno e il nipote hanno di
fronte cose differenti; anche il loro fine e il loro compito sono quindi
differenti. L'ambito si restringe ulteriormente a causa dei limiti della sua
personalità e delle qualità del suo popolo, della situazione e degli uomini con
cui deve lavorare. Ciò che qualifica il politico di statura è il fatto che di
rado egli deve fare sacrifici per essersi ingannato su questi limiti, ma anche
il fatto che non tralascia nulla di quanto può essere realizzato. In ciò
rientra pure — e proprio tra Tedeschi non si ripeterà mai abbastanza — il fatto
che egli non scambia ciò che dovrebbe essere con.ciò che sarà. Le forme
fondamentali dello stato e della vita politica, la direzione e il luogo del suo
sviluppo sono dati con un determinato tempo, e sono immutabili. Tutti i
successi politici vengono conseguiti con questi clementi, non già a loro spese.
Gli adoratori degli ideali politici creano dal nulla: essi sono — nelle loro
teste — sorprendentemente liberi; ma i loro edifici ideali, costruiti su
concetti vuoti come quelli di saggezza, giustizia, libertà, eguaglianza sono in
definitiva sempre gli stessi, e ricominciano sempre da capo. A chi è padrone
dei fatti basta dirigere in modo impercettibile ciò che gli è semplicemente
presente. Questo sembra poca cosa; e tuttavia soltanto qui comincia la libertà
in senso elevato. Ciò che conta sono le piccole mosse, l’ultima cauta pressione
sul timone, la fine sensibilità per le sfumature più sottili dell’ani- ma dei
popoli e degli individui. L'arte dello stato è da un lato chiara visione delle
grandi linee tracciate in modo irrevocabile; dall’altro è mano sicura per ciò
che è singolare e personale, per ciò che in questo quadro può trasformare un
disastro che si approssima in un successo decisivo. Il segreto di ogni vittoria
risiede nell’organizzazione di quanto non appare. Chi sa far questo può
dominare il vincitore come rappresentante dei vinti, al pari di Talleyrand a
Vienna. Cesare, la cui posizione era allora quasi disperata, ha posto a Lucca
al servizio dei propri fini, senza farsi accorgere, la potenza di Pompeo,
scavandogli così la fossa. Ma vi è un pericoloso limite del possibile, che la
perfetta sensibilità dei grandi diplomatici dell’epoca barocca non ha quasi mai
toccato, mentre è privilegio degli ideologi inciamparvi continuamente sopra. Vi
sono svolte nella storia da cui il conoscitore si lascia trascinare per un
intero periodo, pur di non perdere il dominio. Ogni situazione possiede la
propria misura di elasticità, sulla quale non ci si può ingannare in nes- sun
modo. Una rivoluzione giunta al suo scoppio dimostra sempre una deficienza di
sensibilità politica, sia dei governanti sia dei loro avversari. Il necessario
dev'essere fatto al tempo giusto, cioè fin quan- do è un dono con cui il potere
del governo si assicura la fiducia, e non dev'essere fatto come un sacrificio
che manifesti debolezza e desti disprezzo. Le forme politiche sono forme
viventi che si trasformano inesorabilmente in una determinata direzione. Si
cessa di essere «in forma » quando si vuol ostaco- lare questa marcia oppure
deviarla in direzione di un ideale. La nobiltà romana possedette questa
sensibilità; non così quel- la spartana. Nell’epoca dell’ascesa della
democrazia si è sem- pre pervenuti all’attimo fatale — in Francia prima del
1789, in Germania prima del 1918 — in cui era troppo tardi per presenta- re una
riforma necessaria come un libero dono, e quindi si sarebbe dovuto rifiutarla
con energia priva di esitazione in quanto ora, come sacrificio, preparava la
dissoluzione. Ma chi non vede per tempo la prima necessità, disconoscerà ancora
più sicuramente la seconda. Anche il viaggio a Canossa può avveni- re troppo
presto o troppo tardi; in ciò risiede, per interi popoli, la decisione se essi
saranno in futuro un destino per gli altri, oppure se dovranno subirlo da
altri. Ma la democrazia in decadenza ripete lo stesso errore di voler tenere
fermo ciò che era l’ideale di ieri: questo è il pericolo del secolo xx. Su ogni
sentiero che conduce al cesarismo si trova un Catone. L'influenza che anche un
uomo di stato in posizione eccezio- nalmente forte può avere sui metodi
politici è assai ristretto; è proprio del valore dell’uomo di stato non farsi
illusioni in pro- posito. Il suo compito è di lavorare con e dentro le forme
storiche presenti; soltanto il teorico si entusiasma a scoprire forme più
ideali. Nell’«essere in forma» politico rientra però l’incondizionato
padroneggiamento dei più moderni. Qui non c'è nessuna scelta: i mezzi e i
metodi sono dati dal tempo, e appartengono alla forma interna di un’epoca. Chi
si sbaglia su di essi, chi consente al suo gusto e al suo sentimento di
prevale- re sulla propria sensibilità, perde di mano i fatti. Il pericolo di
un’aristocrazia è di essere conservatrice nei mezzi; il pericolo della
democrazia è di scambiare la formula con la forma. I mezzi del presente sono
ancora per molti anni quelli parlamen- tari: le elezioni e la stampa. Su di
essi si può avere l’opinione che si vuole, si può onorarli o disprezzarli, ma
bisogna padro- neggiarli. Bach e Mozart padroneggiavano i mezzi musicali del
loro tempo: questo è l’indice di ogni specie di maestria. Le cose non stanno
diversamente per l’arte dello stato. Ma quella che importa non è, in ogni caso,
la forma esteriore generalmen- te visibile, bensì ciò di cui è il rivestimento.
Perciò essa può venir mutata senza che sia mutato qualcosa nell’essenza dell’ac-
cadere; può venir tradotta in concetti e in testi costituzionali senza neppur
incidere sulla realtà; e l’ambizione di tutti i rivoluzionari e dottrinari si
riduce a immischiarsi in questo gioco di diritti, di princìpi e di libertà alla
superficie della storia. L'uomo di stato sa che l’estensione del diritto di
voto è del tutto inessenziale rispetto alla tecnica ateniese o romana,
giacobina, americana e ora anche tedesca, di fare le elezioni. Comunque suoni
la costituzione inglese, ciò è indifferente di fronte al fatto che la sua
applicazione è controllata da un piccolo strato di famiglie nobili, di modo che
Edoardo VII‘ era un ministro del proprio ministero. Per quanto riguarda la
stam- pa moderna, il visionario può ben appagarsi del fatto che essa è costituzionalmente
« libera »; il conoscitore si domanda soltan- to chi ne dispone. La politica è
infine la forma in cui si compie la storia di una nazione in una pluralità di
nazioni. La grande arte consi- ste nel mantenere internamente in forma la propria
nazione in vista degli avvenimenti esterni. Non soltanto per i popoli, gli
stati e i ceti, ma per le unità viventi di ogni specie fino ai gruppi di
animali più semplici e al corpo dell'individuo, questo è il rapporto naturale
tra politica interna e politica estera: la prima esiste esclusivamente per la
seconda, e non viceversa. Il democratico genuino tratta di solito la politica
interna come uno scopo in sé, mentre il diplomatico di media levatura pensa
soltanto alla politica estera. Ma proprio per questo motivo i risultati
particolari di entrambi restano sospesi in aria. Senza dubbio il maestro
nell’arte politica si rivela nel modo più mar- cato nella tattica delle riforme
interne, nella sua attività econo- mica e sociale, nell’abilità di mantenere in
accordo, e al tempo stesso funzionante, la forma pubblica della totalità — «
diritti e libertà » — con il gusto dell’epoca, e nell'educazione di senti-
menti senza i quali non è possibile che un popolo si mantenga in buona
costituzione: fiducia, rispetto dei capi, consapevolez- za della propria
potenza, soddisfazione e, se diventa necessa- rio, entusiasmo. Ma tutto ciò
mantiene il suo valore soltanto in riferimento al fatto fondamentale della
storia superiore, cioè al fatto che un popolo non è solo al mondo e che per il
suo futuro è decisivo il rapporto di forze con altri popoli e altre potenze,
non il semplice ordinamento interno. E poi- ché lo sguardo dell’uomo comune non
giunge tanto in là, è la minoranza governante che deve possederlo anche per il
re- 4. Edoardo VII (1841-1910), re d’Inghilterra a partire dal rgor, alla morte
della madre regina Vittoria, promosse una politica di entenze con la Francia e
la Russia: il suo regno — come allude qui Spengler — si ispirò ai più rigorosi
principi costituzionali. sto del popolo: quella minoranza in cui l’uomo di
stato trova lo strumento con cui può realizzare i suoi propositi *. III Per la
politica primitiva di ogni cultura le potenze direttive rappresentano un dato
di fatto. L’intera esistenza riveste una forma rigorosamente patriarcale e
simbolica; i condizionamenti del territorio materno sono così forti, il vincolo
feudale e an- che lo stato fondato sul ceto sono, per la vita così
circoscritta, una cosa talmente ovvia che la politica dell’epoca omerica e
dell’epoca gotica si limita ad agire nel quadro di forme date. Queste forme
mutano, in certa misura, per proprio conto. Che questo sia un compito della
politica non perviene mai chiara- mente alla coscienza, anche quando una
monarchia è rovesciata o una nobiltà è assoggettata. Esiste soltanto una
politica di ceto, una politica imperiale, papale, di vassalli. Il sangue, la
razza, parla con imprese impulsive e semi-consapevoli, poiché anche il
sacerdote, nella misura in cui fa politica, agisce qui come uomo di razza. I «
problemi» dello stato non si sono ancora destati. La signoria e i ceti
originari, l’intero mondo di forme primitive, sono dati da Dio, e soltanto in
base a questo presupposto si combattono minoranze organiche, fazioni. È proprio
dell’essenza della fazione che non le venga neppu- a. Non ci sarebbe neppure
bisogno di sottolineare che questi non sono i princìpi di un governo
aristocratico, ma del governare in genere. Nessun capo di masse fornito di
talento — né Cleone5 né Robespierre né Lenin — ha mai considerato diversamente
il suo ufficio. Chi si sente realmente l’incaricato della moltitudine anziché
il dirigente di coloro che non sanno quello che vogliono, non sarà padrone in
casa propria neppure per un giorno. La questione è soltanto quella di sta- bilire
se i grandi capi-popolo facciano uso della loro posizione a vantaggio proprio o
degli altri; e su quest'argomento ci sarebbe parecchio da dire. 5. Cleone, uomo
politico ateniese del secolo v a. C., pervenuto al potere dopo la morte di
Pericle (429 a. C.), capeggiò il partito favorevole a una guerra offensiva con-
tro Sparta. Morì in battaglia ad Amfipoli nel 422 a. C., dopo che le sorti del
conflitto già volgevano a sfavore di Atene. re in mente l’idea di poter mutare
secondo un programma l’ordine delle cose. La fazione vuol conquistare un posto
all’in- terno di quest'ordine, vuole conquistare potenza e possesso, co- me
tutto ciò che cresce in un mondo che cresce. Si tratta di gruppi in cui hanno
un ruolo la parentela tra i casati, l'onore, la fedeltà, i vincoli di
un’interiorità quasi mistica, e da cui rimangono del tutto escluse le idee
astratte. Di questo genere sono le fazioni dell’epoca omerica e gotica,
Telemaco e i Proci di Itaca, gli Azzurri e i Verdi sotto Giustiniano, i Guelfi
e i Ghibellini, i casati di Lancaster e di York, i Protestanti?, gli Ugonotti,
e ancora le potenze che hanno suscitato la Fronda e la prima tirannide. Il
libro di Machiavelli poggia completamen- te su questo spirito. Una svolta
subentra non appena assume la guida — con le grandi città — il non-ceto, cioè
la borghesia. Ora, al contrario, è la forma politica che assurge a oggetto
della lotta, a proble-ma: fin allora era maturata, ora dev'essere creata. La
politica si desta; non soltanto viene concepita, ma anche tradotta in concetti.
Contro il sangue e la tradizione si sollevano le poten- ze dello spirito e del
denaro. Al posto dell'organico subentra l'organizzato, al posto del ceto
subentra il partito. Un partito non è una formazione razziale, ma un insieme di
teste e per- ciò tanto superiore agli antichi ceti nello spirito, quanto più
povero nell’istinto. Esso è il nemico mortale di ogni articolazio- ne
sviluppata in base al ceto, la cui semplice presenza ne con- traddice
l’essenza. Proprio per questo motivo il concetto di partito è sempre legato con
il concetto incondizionatamente negatore, dissolutore e socialmente livellatore
dell'eguaglianza. Non si riconoscono più ideali di ceto, ma solamente interessi
professionali ®. Ma esso è legato anche a quello, altrettanto ne- gatore, della
libertà: / partiti sono un fenomeno puramente cittadino. Con la completa
liberazione della città dalla campa- gna la politica di ceto lascia ovunque il
passo alla politica di partito — poco importa che ne abbiamo conoscenza oppure
a. I quali erano, in origine, un'alleanza di diciannove principi e città libere
(1529). b. Perciò sul terreno dell’eguaglianza borghese il possesso di denaro
prende subito il posto che prima occupava il rango genealogico. no: in Egitto
con la fine del Regno di mezzo®, in Cina con gli stati combattenti”, a Bagdad e
a Bisanzio con gli Abassidi*. Nelle capitali dell'Occidente si formano i
partiti di tipo parla- mentare, nelle città-stato antiche i partiti del foro;
partiti di stile magico li conosciamo nel Maali® e presso i monaci di Teodoro
di Studion *"°. Ma è sempre il n0m-ceto, l’unità della protesta contro
l’essen- za del ceto in generale, la cui minoranza dirigente — « cultura e
possesso» — si presenta come partito fornito di un program- ma, di uno scopo
non sentito ma definito, e che rifiuta tutto quanto non si lascia cogliere
intellettualmente. Esiste perciò, in fondo, un unico partito — quello della
borghesia, quello liberale; ed esso è anche pienamente cosciente di questo
rango. Esso si identifica con il « popolo ». I suoi avversari, soprattutto i
ceti genuini, « Juzker e preti», sono nemici e traditori « del popolo », mentre
la propria opinione è la « voce del popolo », che viene iniettata a questo con
tutti i mezzi della manipolazio- ne politica di partito come il discorso del
foro o la stampa occidentale, per poterla quindi rappresentare. a. Cfr. anche
J. WeLLHausen, Die religiòs-politischen Oppositionspar- teien im alten Islam,
Gòttingen, 1901. 6. Periodo della storia egiziana che abbraccia l'Undicesima e
la Dodicesima di- nastia, dal secolo xx1 a. C. all'invasione degli Hyksos: in
quest'epoca la capitale del- l'Egitto fu trasferita da Memfi a Tebe, c il nuovo
stato raggiunse un maggior grado di unità attraverso il controllo esercitato
sulla nobiltà feudale delle province e le sue ten- denze centrifughe. 7. Con
l’espressione Clan-kso (« stati combattenti ») si designano gli ultimi duc
secoli e mezzo di dominio della dinastia Chou — vale a dirc il periodo che va
dal 500 circa al 249 a. C. — caratterizzati da una situazione di anarchia
feudale e di lot- te tra i diversi regni che costituivano l'Impero cinese. 8.
Dinastia araba succeduta a quella omeiade, che salì al potere nel 750 trasfe-
rendo Ja capitale del mondo arabo da Damasco a Bagdad. Il suo dominio entra in
erisi verso la fine del secolo, giungendo al termine nel 1055, quando i Turchi
selgiu- cidi — da tempo convertiti alla fede islamica — conquistano Bagdad.
Tuttavia il ca- liffato abasside continuerà formalmente a esistere fino al
1258, quando sarà soppresso dai Mongoli che subentreranno ai Turchi nel
possesso di Bagdad. 9. Il Maali (o Mali) è una regione dell’Africa a sud del
Sahara, sull'alto corso del Niger, dove nei secoli xiv e xv si sviluppò un
regno reso particolarmente fiorente dal- la posizione strategica di alcune
città-mercato come Timbuktu c Gao. 10. Tcodoro di Studion (759-826), monaco
bizantino, abate del monastero di Stu- dion a Costantinopoli, fu coinvolto
nella disputa sull’iconoclastia e assunse posizione favorevole al culto delle
immagini: scrisse tre Légoi antirretikoì, inni sacri e varie lettere. I ceti
originari sono la nobiltà e il clero. Il partito origina- rio è quello del
denaro e dello spirito, il partito liberale, il partito della grande città. Qui
risiede la giustificazione profon- da dei concetti di aristocrazia e di
democrazia, e ciò per tutte le culture. Aristocratico è il disprezzo per lo
spirito delle cit- tà, democratico è il disprezzo per il contadino, l’odio per
la campagna. È questa la differenza tra politica di ceto e politi- ca di
partito, tra coscienza di ceto e mentalità di partito, tra razza e spirito, tra
crescita e costruzione. Aristocratica è la cultu- ra compiuta, democratica è
l’incipiente civiltà in declino della metropoli, finché l’antitesi non viene
superata nel cesarismo. Come è certo che la nobiltà è :/ ceto, e che il terzo
stato non perverrà mai a essere realmente in forma in questa maniera, così è
certo che la nobiltà riuscirà sì a organizzarsi in partito, ma non a sentirsi
tale. Ma la rinuncia a ciò non le è consentita. Tutte le costituzio- ni moderne
rinnegano i ceti e sono organizzate sulla base del partito come l’ovvia forma
fondamentale della politica. Il seco- lo x1x, e nello stesso modo anche il n a.
C., è l’apogeo della politica di partito. Il suo carattere democratico impone
la for- mazione di partiti contrapposti, e mentre una volta — ancora nel secolo
xvi — il terzo stato si costituiva come ceto secon- do il modello della
nobiltà, ora invece la formazione difensiva del partito conservatore sorge in
base al modello del partito liberale ® completamente dominato dalle forme di
esso, borghe- sizzato senza essere borghese, costretto a una tattica i cui mez-
zi e i cui metodi sono esclusivamente determinati dal liberali smo. Esso ha
soltanto la scelta tra maneggiare questi mezzi meglio dell'avversario © o
soccombere. Ha però profonde radici a. Alla democrazia inglese e americana è
essenziale il fatto che in Inghilterra i contadini sono scomparsi e che in
America non sono mai esistiti. Il farmer è spiritualmente un abitante dei
sobborghi, e prati- camente esercita l'agricoltura come un'industria: in luogo
dei villaggi vi sono soltanto frammenti di metropoli. b. Ed essa sorge ovunque
tra i due ceti originari sussiste anche una antitesi politica, come in Egitto,
in India e in Occidente, e anche dove c'è un partito clericale, cioè non una
religione ma una chiesa, non dei fedeli ma un clero. c. E il suo più forte
contenuto di razza gliene dà tutte le prospettive. nell’essenza di un ceto il
fatto che esso non colga questa situa- zione e voglia combattere non il nemico,
ma la forma: di qui un appello ai mezzi estremi che ha devastato, all’inizio
del declinare di ogni civiltà, la politica interna di interi stati, conse-
gnandoli inermi all’avversario esterno. La necessità, propria di ogni partito,
di essere borghese nell’apparenza diventa caricatu- ra non appena, a fianco
degli strati cittadini forniti di cultura e di possesso, si organizza come
partito anche il resto del popo- lo. Così, per esempio, il marxismo, che in teoria
è una negazio- ne della borghesia, come partito è invece del tutto piccolo-bor-
ghese nel suo comportamento e nella sua guida. Vi è un conflit- to permanente
tra la volontà, che esce necessariamente fuori del quadro della politica di
partito e quindi di ogni costituzio- ne — entrambe sono esclusivamente liberali
— e che può venir designata in modo onorevole solo come guerra civile, e il suo
modo di presentarsi, al quale ci si crede obbligati e che in ogni caso bisogna
tenere per conseguire in quest'epoca qualche risultato durevole. Ma il modo di
presentarsi di un partito nobi- liare in parlamento è intimamente tanto poco
genuino quanto quello di un partito proletario. Qui soltanto la borghesia è a
casa propria. A Roma patrizi e plebei hanno combattuto essenzialmente come
ceti, dall’istituzione dei tribuni nel 471 a. C. fino al ricono- scimento del
loro pieno potere legislativo nella rivoluzione del 287 a. C. A partire da quel
momento l’antitesi ha un’importan- za soltanto più genealogica, e si sviluppano
partiti che si posso- no a buon diritto designare come partito liberale e
partito con- servatore: il populus che dava il tono al foro® e la nobiltà che
aveva il proprio sostegno nel senato. Intorno al 287 a. C. quest’ul- timo si
trasforma da consiglio di famiglia delle antiche stirpi in un consiglio di
stato dell’aristocrazia amministrativa. Vicini al populus .sono i comizi
centuriati, organizzati in base al pos- a. La plebs corrisponde al terzo stato
— borghesi e contadini — del secolo xvin, mentre il populus corrisponde alla «
massa » metropolitana del secolo xix. Questa differenza si esprime nel
comportamento nei confronti degli schiavi liberati, in gran parte di origine
non italica, che la plebs come ceto cerca di relegare nel minor numero
possibile di tribus, mentre nel populus come partito essi avranno ben presto
un'importanza determinante. sesso, e il gruppo dei grandi finanzieri, gli
equites; vicino alla nobiltà è invece la classe contadina, influente nei comizi
tribu- ti. Si pensi da un lato ai Gracchi e a Mario, dall’altro a Caio
Flaminio; e basta guardare un po’ più attentamente per osserva- re la posizione
del tutto mutata dei consoli e dei tribuni. Essi non sono più gli uomini di
fiducia nominati dal primo e dal terzo stato, il cui comportamento è determinato
da questo fat- to, bensì rappresentano e cambiano il partito. Vi sono consoli «
liberali» come Catone il Vecchio e tribuni «conservatori » come Ottavio,
l'avversario di Tiberio Gracco. Entrambi i parti- ti stabiliscono i loro
candidati per le elezioni e cercano di imporli con tutti i mezzi di
manipolazione demagogica; e se l’uso del denaro non ha avuto successo nelle
elezioni, avrà mi- glior sorte sugli eletti. In Inghilterra tories e whigs si
sono costituiti come partiti all’inizio del secolo x1x, borghesizzandosi nella
forma e assu- mendo entrambi alla lettera il programma liberale: in tal mo- do
l'opinione pubblica era, come sempre, completamente con- vinta e soddisfatta.
In virtù di questa conversione magistrale, e compiuta al tempo giusto, non si
arrivò alla formazione di un partito nemico del ceto, com’era avvenuto nella
Francia del 1789. I membri della Camera Bassa diventarono, da emissari del- lo
strato sociale dominante, rappresentanti del popolo che ne dipendevano d’ora in
poi finanziariamente; ma la guida rima- se nelle stesse mani e l’opposizione
tra i partiti, per la quale fin dal 1830 vennero spontaneamente coniati i
termini « libera- le» e «conservatore», poggiò su una questione di più o di
meno, non già su un alternata Sono i medesimi anni in cui l'aspirazione
letteraria alla libertà della « Giovane Germania » si trasformava in una
mentalità di partito; gli anni in cui nell’A- merica del presidente Jackson
" il partito repubblicano si orga- nizzava contrapponendosi a quello democratico,
e il principio che le elezioni sono un affare e che tutti gli uffici pubblici
sono bottino del vincitore veniva riconosciuto formalmente *. a.
Contemporaneamente la Chiesa cattolica passa silenziosa dalla poli- tica di
ceto alla politica di partito, con una sicurezza strategica che non 11. Andrew
Jackson (1767-1845), presidente degli Stati Uniti dal 1829 al 1837: sotto la
sua presidenza si consolidò la struttura bipartitica della vita politica
americana. 774 OSWALD SPENGLER Ma la forma della minoranza dirigente si
sviluppa izarresta- bilmente dal ceto, attraverso il partito, fino a diventare
un se- guito di individui. La fine della democrazia e il suo trapasso al
cesarismo si manifesta quindi nel fatto che non scompare tanto il partito del
terzo stato, il liberalismo, bensì il partito come forma in generale. La
mentalità, il fine popolare, gli ideali astratti di ogni genuina politica di
partito si dissolvono e in loro luogo subentra la politica privata, la sfrenata
volontà di potenza di pochi uomini di razza. Un ceto ha un istinto, un partito
ha un programma, un seguito ha un padrone: que- sta è la strada che dal
patriziato e dalla plebe, passando attra- verso ottimati e popolari, conduce ai
pompeiani e ai cesariani. L'epoca del genuino dominio dei partiti abbraccia a
malapena due secoli e presso di noi è, dopo la guerra mondiale, già in piena
decadenza. Che l’intera massa dell’elettorato mandi avan- ti, per un impulso
comune, uomini che devono sostenere la sua causa — come è detto ingenuamente in
tutte le costituzio- ni — era possibile soltanto all’inizio, e presuppone che
non siano presenti neppure le premesse dell’organizzazione di deter- minati
gruppi. Così era nel 1789 in Francia, e nel 1848 in Germa- nia. All’esistenza
di un’assemblea è però subito legata la forma- zione di unità tattiche la cui
coesione poggia sulla volontà di affermare la posizione dominante acquisita e
che non si conside- rano più affatto portavoce dei propri elettori, ma, al
contrario, li rendono docili con tutti i mezzi di propaganda per disporli ai
propri scopi. Una tendenza del popolo che si sia organizza- ta è con ciò già
diventata lo strumento dell’organizzazione, e sarà mai ammirata abbastanza. Nel
secolo xvi essa era stata comple- tamente aristocratica per ciò che riguardava lo
stile della sua diplomazia, l'assegnazione delle grandi cariche e lo spirito
dei suoi circoli più elevati. Si pensi al tipo di abate e ai principi della
chiesa che diventarono ministri e ambasciatori, come il giovane cardinale di
Rohan !?. Ora, in modo del tutto «liberale », alla nobiltà dell'origine si
sostituisce Ia mentalità, al gusto la capacità di lavoro, e i grandi mezzi
della democrazia — stampa, elezioni, denaro — vengono da essa manipolati con
un'abilità che il liberalismo vero e proprio ha raggiunto ben di rado, e mai
superato. 12. Louis René Edouard cardinale di Rohan (1734-1803), fu
ambasciatore speciale a Vienna dal 1771 al 1774, e in seguito arcivescovo di
Strasburgo dal 1779 al 1801. procede inarrestabilmente su questa strada finché
anche l’orga- nizzazione non è diventata strumento dei capi. La volontà di
potenza è più forte di ogni teoria. All’inizio, la guida e l’appa- rato sorgono
in funzione del programma; poi vengono difesi dai detentori a causa della
potenza e del bottino — come oggi avviene generalmente, dato che in tutti i
paesi migliaia di per- sone vivono del partito, degli uffici e degli affari che
esso of- fre; infine il programma scompare dal ricordo e l’organizzazio- ne
lavora soltanto a proprio profitto. Nel caso del più vecchio degli Scipioni e
di Quinto Flami- nio possiamo ancora parlare di amici che li seguono in guerra,
ma Scipione minore si è formata una colors amicorum — certa- mente il primo
esempio di un seguito organizzato — che lavo- ra poi anche davanti al tribunale
e nel corso delle elezioni * Analogamente, il rapporto di fedeltà tra patrono e
clienti, in origine del tutto patriarcale e aristocratico, si sviluppa fino a
diventare una comunità di interessi basata su un fondamento assai materiale; e
già prima di Cesare vi sono contratti scritti tra candidati ed elettori con la
precisa determinazione del com- penso e della prestazione corrispondente.
D'altra parte si costi- tuiscono — esattamente come nell’America odierna® — i
circo- li e le associazioni elettorali dei tribuni che dominano o spaven- tano
la massa elettorale del distretto per poter negoziare l’affa- re elettorale con
i grandi capi (i precursori dei Cesari) da poten- a. Per quanto segue cfr. M.
Getzer, Die Nobilitàt der ròmischen Republik, Leipzig, 1912, p. 43 sgg., e A.
Rosemsero, Untersuchungen zur ròmischen Zenturienverfassung, Berlin, 1911, p.
62 sgg. b. Universalmente nota è la Tammany Hall a New York; ma in tutti i
paesi governati da partiti la situazione si avvicina a questa. Il caucus
americano che distribuisce gli uffici pubblici tra i suoi aderenti costringendo
la massa degli elettori a confluire sui loro nomi, è stato intro- dotto in
Inghilterra da Chamberlain !* con il nome di National Liberal Federation, e
dopo il 1919 è in rapido sviluppo anche in Germania. 13. Sede di riunione della
Società di St. Tammany, fondata fin dal 1789, che co- stituì il primo nucleo
del partito democratico; per tutto l’Ottocento, e ancora nei pri- mi decenni di
questo secolo, fu un importante circolo e gruppo di pressione nella vita
politica degli Stati Uniti. 14. Joseph Chamberlain (1836-1914), uomo politico
inglese, fu tra l’altro segreta- rio alle colonie durante la guerra
anglo-boera; ebbe una parte importante nella questione irlandese. za a potenza.
Questo non è il naufragio, bensì il senso e il necessario risultato finale
della democrazia; e il lamento che gli idealisti estranei al mondo levano su
questa distruzione delle loro speranze indica soltanto la loro cecità di fronte
all’inesorabile divergenza tra verità e fatti e all’intima connessione tra
denaro e spirito. La teoria politico-sociale è soltanto un substrato, ma un
substrato necessario, della politica di partito. L’orgogliosa serie che da
Rousseau va fino a Marx ha il proprio corrispettivo nell'antichità in quella
che dai Sofisti giunge fino a Platone e a Zenone. In Cina si possono ancora
ritrovare nella letteratura confuciana e taoistica i tratti fondamentali di
dottrine corrispondenti: basti menzionare il nome del socialista Mo Ti”. Nella
letteratura bizantina e araba del periodo abasside, dove il radicalismo si
presenta sempre in una formulazione rigidamente ortodossa, esse occupano largo
spazio e agiscono come forze motrici in tutte le crisi del secolo rx; in Egitto
e in India la loro presenza è dimostrata dallo spirito degli avvenimenti del
periodo di Budda e degli Hyksos. Esse non hanno bisogno di una formulazione
letteraria; altrettanto efficace è la loro diffusione orale, la predicazione e
la propaganda da parte delle sette e delle leghe, come avviene generalmente
all'origine delle correnti puritane, nonché nell’Islam e nel Cristianesimo
angloamericano. Se queste dottrine siano «vere» o «false» è una questione senza
senso — si deve sottolinearlo sempre — per il mondo della storia politica. La
«confutazione » del marxismo, per esempio, rientra nell’ambito delle
discussioni accademiche o dei dibattiti pubblici, in cui ognuno ha ragione e
gli altri hanno sempre torto. Ciò che importa è se queste dottrine sono
efficaci, cioè da quando e per quanto tempo la fede nel miglioramento della
realtà mediante un sistema di idee costituisce, in generale, una potenza con
cui la politica deve fare i conti. Noi ci troviamo in un'epoca di fiducia
illimitata nell’ onnipotenza della ragione. I grandi concetti generali di
libertà, di giustizia, 15. Mo Ti (o Mo Tsc), filosofo cinese vissuto tra la
seconda metà del secolo v e i primi decenni del secolo 1v a. C., all’epoca
degli « stati combattenti », si distaccò dal Confucianesimo per elaborare,
nell'opera che da lui trac il nome — il Mo-tse — una teoria dell'amore
universale. di umanità, di progresso, sono sacri; le grandi teorie sono
vangeli. La loro forza di convinzione non poggia su motivi, poiché la massa di
un partito non possiede né l’energia critica né la distanza necessaria per
sottoporle a una prova seria, bensì sul crisma sacramentale delle loro parole
d’ordine. Ma questa magia si limita alla popolazione delle grandi città e
all’epoca del razionalismo, di questa « religione dei dotti ». Essa non agisce
però sulla classe contadina, e sulle masse cittadine ha influenza soltanto per
un certo periodo, con la violenza di una nuova rivelazione. Ci si converte, si
aderisce con fervore alle parole e ai loro annunciatori, si diventa martiri
sulle barricate, sui campi di battaglia, sul patibolo; allo sguardo si apre un
aldilà politico e sociale, e la critica spassionata sembra bassa e profana,
degna di morte. Ma con ciò scritti come il Contract social e il Manifesto
comunista diventano strumenti di potenza di prim’ordine nella mano di uomini
energici, che si sono affermati all’interno della vita di partito e che sanno
formare e utilizzare le convinzioni della massa da essi dominata. Ciononostante
questi ideali astratti hanno una potenza che si estende appena oltre i due
secoli — il periodo della politica di partito. Non che vengano confutati, ma
diventano noiosi. Rousseau lo è già da lungo tempo, tra breve lo sarà anche
Marx. Alla fine si abbandona non questa o quella teoria, ma la fede nelle
teorie in generale, e con questa anche l’ottimismo esaltato del secolo xvitI,
convinto di poter correggere i difetti della realtà mediante l’applicazione di
concetti. Quando Platone, Aristotele e i loro contemporanei definivano le forme
di costituzione antiche e le mescolavano per ottenere la costituzione più
saggia e più bella, tutto il mondo li ascoltava; ed è stato proprio Platone,
col suo tentativo di riformare Siracusa secondo una ricetta ideologica, a
rovinare questa città ®. Altrettanto sicuro mi sembra che gli stati meridionali
della Cina sono stati messi fuori forma a causa di esperimenti filosofici dello
stesso tipo, e si sono così posti alla mercè dell’imperialia. Sulla storia di
questo tragico esperimento cfr. E. MerEr, Geschickie des Althertums, Stuttgart,
1884-1902, vol. V, $ 987 sgg. 778 OSWALD SPENGLER smo Ch’in®!. I fanatici
giacobini della libertà e dell’eguaglianza hanno consegnato per sempre la
Francia, dopo il Direttorio, al mutevole dominio dell’esercito e della borsa, e
ogni rivolta socialista apre nuove vie al capitalismo. Ma al tempo in cui
Cicerone scrisse il suo De republica per Pompeo e Sallustio le sue esortazioni
a Cesare, più nessuno vi poneva attenzione. In Tiberio Gracco si può forse
ancora scoprire un'influenza di quello stoico entusiasta, Blossio, che morì più
tardi suicida dopo aver condotto alla rovina anche Aristonico di Pergamo";
ma nell’ultimo secolo prima di Cristo le teorie sono diventate un abusato tema
scolastico, e d’allora in poi conta soltanto la potenza. Nessuno deve
illudersi: l’epoca della teoria volge al termine anche per noi. I grandi
sistemi del liberalismo e del socialia. I « progetti degli stati combattenti »,
il Ch'un-ch'iu Fan lu e le biografie che si trovano in Ssu-ma Ch’ien sono pieni
di esempi di uno scolastico immischiarsi della « saggezza » nella politica !*.
b. Sulla sua «città del sole » formata di schiavi e di salariati giornanalieri
cfr. PauLy-Wissowa, Real-Encyclopidie der classischen Alterturmswissenschaft, vol. II, col. 962. In
modo analogo il rivoluzionario re Cleomene III di Sparta (235 a. C.) subì
l’influenza dello stoico Sfero!9. Si capisce perché il senato romano mise
ripetutamente al bando « filosofi e retori », cioè politicanti, acchiappanuvole
e mestatori. 16. Lo stato di Ch'in si affermò, alla fine dell’epoca degli «
stati combattenti », come nucleo di riunificazione dell’impero, sconfiggendo c
sottomettendo a sé gli stati meridionali: ciò condusse nel 249 a. C, alla
deposizione dell'ultimo imperatore Chou c, tre anni dopo, all'ascesa al trono
di Shih Huang Ti, che fondò la nuova dinastia Ch'in. 17. Blossio di Cuma,
filosofo stoico della seconda metà det secolo Il a. C., allievo di Antipatro di
Tarso, fu amico di Tiberio Gracco; dopo la sua morte si rifugiò a Pergamo, dove
nel 133 a. C. Aristonico, fratello del defunto re Attalo III (che aveva
lasciato i suoi domini in eredità a Roma), aveva rivendicato per sé il regno,
appoggiandosi sui proletari e sugli schiavi e vagheggiando la formazione di uno
stato socialista, detto MALéTOALE, « città del sole ». Nel 130 l'intervento
romano mise fine al tentativo di Aristonico, che fu fatto prigioniero, condotto
a Roma e giustiziato; Blossio si tolse invece la vita. 18. Il Ch'un-ch'iu Fan
lu è il titolo dell'opera principale di Tung Chung-shu (179104 2. C.), filosofo
confuciano del periodo Han. Ssu-ma Ch’ien (145-86 a. C.) fu autore, insieme con
il padre Ssu-ma T'an, della prima grande storia cinese, i SMik Chi. 19.
Cleomene III, re di Sparta dal 235 al 219 a. C., tentò una riforma
politico-sociale dello stato spartano estendendo la cittadinanza ai pericci e
redistribuendo le terre; combattè contro la lega achea e contro Antigono
Dosone, re di Macedonia, rimanendo però sconfitto. Suo ispiratore c consigliere
fu il filosofo stoico Sfero, discepolo di Clcante. OSWALD SPENGLER 779 smo sono
sorti nell’insieme tra il 17750 e il 1850. Quello di Marx è oggi vecchio quasi
di un secolo, ed è rimasto l’ultimo. Con la sua concezione materialistica della
storia esso rappresenta internamente l’estrema conseguenza del razionalismo, e
perciò anche una conclusione. Ma come la fede rousseauiana nei diritti
dell’uomo ha perduto la sua forza all’incirca nel 1848, così la fede in tale
concezione l’ha perduta con la guerra mondiale. Chi confronta la dedizione fino
alla morte, che le idee di Rousseau hanno incontrato nella Rivoluzione
francese, con il comportamento dei socialisti del 1918, costretti a conservare
di fronte ai loro seguaci e a se stessi una convinzione che non possedevano più
— e non in vista dell'idea, ma in vista della potenza che da essa dipendeva — può
vedere già tracciata in anticipo la via su cui cadrà alla fine ogni programma,
in quanto intralcia la lotta per il potere. La fede in un programma aveva dato
distinzione all’avo; per il nipote è una dimostrazione di provincialismo. Al
suo posto spunta già oggi, dal bisogno dell’anima e dal tormento della
coscienza, una nuova rassegnata pietà che rinuncia a fondare un nuovo mondo
terreno, e che in luogo di concetti acuti cerca il mistero, per trovarlo
finalmente nella profondità di una seconda religiosità. IV Questo è un aspetto,
l'aspetto linguistico, di quel grande fatto che è la democrazia. Rimane da
considerare l’altro fatto decisivo, quello della razza. La democrazia sarebbe
rimasta nelle teste e sulla carta se tra i suoi apostoli non vi fossero state nature
genuine di dominatori per cui il popolo non era che un oggetto e gli ideali non
erano che mezzi, anche se spesso non ne erano consapevoli. Tutti i metodi,
anche i meno sospetti, della demagogia, che è nel suo intimo la stessa cosa
della diplomazia dell’ancien régime — soltanto che si fonda sulle masse anziché
sui prìncipi e ambasciatori, su opinioni, disposizioni, esplosioni di volontà
disordinate anziché su spiriti eletti, e quindi sembra un'orchestra di ottoni
anziché antica musica da camera — sono stati elaborati da democratici onesti ma
pratici; e i partiti della tradizione li hanno appresi soltanto da loro. La via
della democrazia è però caratterizzata dal fatto che 780 OSWALD SPENGLER gli
autori delle costituzioni popolari non hanno mai avuto sospetto dell'efficacia
reale dei loro progetti; né l'hanno avuto il creatore della costituzione «
serviana » ? di Roma o l’Assemblea nazionale di Parigi. Poiché tutte queste
forme non sono cresciute come il feudalesimo, ma sono state escogitate, e non
già sulla base di una conoscenza profonda degli uomini e delle cose, bensì
sulla base di rappresentazioni astratte del diritto e della giustizia, un
abisso separa lo spirito delle leggi dalle consuetudini pratiche che si formano
silenziosamente, sotto la loro pressione per adattarle al ritmo della vita
reale o per tenerle distanti da questa. Soltanto l’esperienza ha insegnato — al
termine dell’intero sviluppo — che i diritti del popolo e l’influenza del
popolo sono cose differenti. Quanto più universale è il diritto di voto, tanto
più ristretto è il potere di un elettorato. Agli inizi di una democrazia il
campo appartiene soltanto allo spirito. Non c’è nulla di più nobile e di più
puro della seduta notturna del 4 agosto 1789 e del giuramento della pallacorda
o della mentalità presente nella chiesa di San Paolo a Francoforte?! dove,
avendo già in mano il potere, si discusse tanto a lungo su verità universali da
dare il tempo alle potenze della realtà di riunirsi e di spazzare via i
sognatori. Ciononostante, l’altra grandezza di ogni democrazia si annuncia
abbastanza presto e rammenta il fatto che si può far uso dei diritti
costituzionali soltanto se si ha del denaro ?. Il funzionamento approssimativo
del diritto di voto presuppone, qualsiasi cosa ne pensi l’idealista, che non
esista alcuna dirigenza organizzata la quaa. La democrazia primitiva,
caratterizzata da progetti costituzionali pieni di speranza e che per noi
giunge fino all’epoca di Lincoln, Bismarck e Gladstone, deve faure
quest'esperienza; la democrazia successiva — che per noi è quella del
parlamentarismo maturo — prende le mosse da essa. Da_allora, verità e fatti si
sono separati definitivamente nella forma dell'ideale di partito da un lato,
della cassa del partito dall’altro. Il parlamentare genuino si sente, in virtà
del denaro, svincolato dalla dipendenza che è contenuta nella concezione
ingenua che l’elettore ha dell’eletto, 20. Questa costituzione trac il proprio
nome da Servio Tullio, il sesto (secondo la tradizione) re di Roma, vissuto
probabilmente nel secolo vi a. C. 21. Luogo di riunione dell'Assemblea
costituente tedesca nel 1848. le agisce sugli elettori nel proprio interesse e
assumendo come criterio il denaro disponibile. Ma se questa esiste, il voto ha
ancora soltanto il significato di una censura che la massa esercita sulle
singole organizzazioni; sulla loro formazione essa non possiede però più la
minima influenza. Analogamente, il diritto ideale delle costituzioni
occidentali, cioè il diritto della massa di determinare liberamente i propri rappresentanti,
rimane mera teoria, poiché in realtà ogni organizzazione sviluppata si completa
da sé. Si desta infine il sentimento che il suffragio universale non contiene
alcun diritto reale, neppure quello della scelta tra i partiti, poiché le
formazioni di potere cresciute sul suo terreno dominano col denaro tutti i
mezzi spirituali del discorso parlato e scritto e così dirigono a piacimento
l’opinione dei singoli sui partiti, mentre questi allevano da parte loro,
attraverso la disponibilità dei pubblici uffici, l'influenza e le leggi, una
schiera di partigiani fedeli — cioè appunto il caucus che esclude tutti gli
altri individui inducendoli a una fiacchezza elettorale che alla fine non potrà
più essere superata neppure nelle grandi crisi. Apparentemente sussiste una
forte differenza tra la democrazia parlamentare occidentale e quella delle
civiltà egizia, cinese, araba, nel periodo del loro declino, a cui è
completamente estranea l’idea di elezioni condotte con il suffragio universale.
Ma per noi, in quest'epoca, la massa come elettorato è «in forma » nel medesimo
senso in cui lo era stata precedentemente come insieme di sudditi, cioè come
oggetto per un soggetto, e in cui lo era stata a Bagdad e a Bisanzio come setta
o come monacato, e altrove come esercito governante, come associazione segreta
o come stato particolare all’interno dello stato. La libertà è, come sempre,
semplicemente negativa. Essa consiste nel rifiuto della tradizione — della
dinastia, dell’oligarchia, del califfato. Ma l’esercizio della potenza trapassa
subito intatto da questi poteri ad altri nuovi, cioè a capi-partito, a
dittatori, a pretendenti, a profeti e ai relativi aderenti, e di fronte ad essi
la massa rimane ancor sempre incondizionatamente ogget?. Il « diritto del
popolo all’auto-determinazione » è un modo a. Se ciononostante si sente invece
liberata, ciò dimostra nuovamente la profonda incompatibilità tra spirito
metropolitano e tradizione, mentre di dire cortese: di fatto con ogni suffragio
universale — non organico — cessa anche il senso originario dell’eleggere in
generale. Quanto più vengono dissolte politicamente le articolazioni dei ceti e
delle professioni, tanto più priva di forma e inerme diventa la massa degli
elettori, tanto più incondizionatamente essa è alla mercé dei nuovi poteri,
cioè delle direzioni dei partiti, che dettano ad essa la loro volontà con tutti
i mezzi di coercizione spirituale, per decidere tra loro la lotta per il
dominio — cioè con metodi di cui in fondo la massa non vede né comprende nulla
— e che utilizzano ognuno a proprio vantaggio l'opinione pubblica come un’arma
da essi stessi forgiata. Ma proprio per questo una spinta irresistibile muove
la democrazia su tale via, che conduce alla propria auto-dissoluzione °. I
diritti fondamentali di un popolo antico ($fuog, populus) si estendevano fino
alla possibilità di occupare gli uffici pubblici più elevati e di amministrare
la giustizia®. A tal fine si era «in forma» nel foro — in modo del tutto
euclideo, come massa fisicamente presente riunita in un punto: qui si diventava
oggetto di una manipolazione di stile antico, effettuata cioè con mezzi fisici,
diretti, sensibili, con una retorica che agiva in tra la sua attività e
l'essere governata dal denaro sussiste un’intima relazione. a. La costituzione tedesca
del 1919, sorta quindi già sulla soglia di una democrazia declinante, contiene
in piena ingenuità una dittatura delle macchine di partito, che hanno
trasferito a sé ogni diritto e che non sono seriamente responsabili di fronte a
nessuno. Il famigerato voto proporzionale e la lista nazionale assicurano ad
esse l’auto-integrazione. In luogo dei diritti « del popolo» — come idealmente
li conteneva la costituzione del 1848 — esistono soltanto i diritti dei
partiti: ciò suona come innocuo, ma racchiude in sé il cesarismo delle
organizzazioni. In questo senso essa è però la più progredita costituzione di
quest'epoca; lascia giù riconoscere la fine; alcune piccolissime
trasformazioni, ed essa concederà ai singoli il potere illimitato. b. Al
contrario, la legislazione è connessa con un ufficio. Anche quando
l'accoglimento o il rigetto di una legge spettano formalmente a un'assemblea,
la legge può essere introdotta soltanto da un magistrato, per esempio da un
tribuno. Le aspirazioni della massa al conseguimento di un diritto — spesso
suggerite dai detentori del potere — si manifestano quindi in occasione delle
elezioni a qualche carica, come ci insegna l'età dei Gracchi. OSWALD SPENGLER
783 modo immediato sull’occhio e sull’orecchio di ognuno e che con i suoi strumenti,
a noi diventati in parte disgustosi e difficilmente sopportabili, con lacrime
studiate, con vesti stracciate =, con la lode spudorata dei presenti, con
menzogne insensate sull’avversario, con un repertorio fisso di brillanti
locuzioni e cadenze armoniose, con giochi e con doni, con minacce e percosse,
ma soprattutto con denaro — è sorta esclusivamente in questo luogo e a questo
scopo. Noi ne conosciamo gli inizi dall’Atene del 400° e la fine, in misura
spaventosa, dalla Roma ‘di Cesare e di Cicerone. È come sempre: le elezioni si
sono trasformate da nomina di rappresentanti di ceto in una lotta tra candidati
di partito. Ma con ciò è ormai data l’arena in cui penetra il denaro — e dopo
Zama con un enorme incremento di dimensioni. « Quanto maggiore era la ricchezza
che si poteva concentrare nelle mani dei singoli individui, tanto più la lotta
per la potenza politica diventava una questione di dena10 »°. Con ciò è detto
tutto. Ma in un senso più profondo sarebbe tuttavia falso parlare di
corruzione. Non è la degenerazione del costume, ma il costume stesso — quello
della democrazia matura — che assume con una necessità fatale forme del genere.
Il censore Appio Claudio (310) — senza dubbio un genuino ellenista e ideologo
della costituzione (come potevano essercene soltanto nel circolo di Madame
Roland ?) — ha sicuramente pensato nelle sue riforme ai diritti elettorali e
non all’arte di fare le elezioni; ma quei diritti preparano soltanto la a.
Ancora a cinquant'anni Cesare dovette recitare una commedia siffatta davanti ai
suoi soldati sul Rubicone, perché essi erano abituati a questo se si voleva
qualcosa da loro. Ciò corrisponde più o meno alla «voce sincera della
convinzione » nelle assemblee odierne. b. Ma il tipo Cleone era ovviamente
presente a Sparta come a Roma al tempo dei tribuni consolari. c. Cfr. M.
GELZER, op. cit., p. 94. Insieme al César di Eduard Merer, questo libro
fornisce il migliore sguardo d’insieme sul metodo della democrazia romana. 22.
Jcanne-Manon Phlipon (1754-1793), moglic dell'uomo politico Jean-Marie Roland,
ministro nel governo girondino: fu arrestata dopo la fuga del marito e in
seguito ghigliottinata nel 1793, durante il Terrore: nel carcere scrisse un
Appel è l'impartiale postérité. Le sue Mémoires furono pubblicate postume molti
anni più tardi, nel 1820. 784 OSWALD SPENGLER strada a quest'arte. La razza si
manifesta soltanto in essa, e ben presto si afferma completamente. All’interno
di una dittatura del denaro il lavoro del denaro non può però essere definito
come decadenza. La carriera dei pubblici uffici romani richiedeva, da quando si
svolgeva nella forma di elezioni popolari, un capitale che rendeva il futuro
uomo politico debitore verso tutto il suo ambiente. Ciò valeva soprattutto per
la carica di edile, nella quale si doveva superare in magnificenza i
predecessori attraverso l'offerta di pubblici giochi, per poter ottenere più
tardi i voti degli spettatori. Silla fallì la prima canditatura alla pretura
perché non era stato edile. C'era poi lo splendido seguito con cui ci si doveva
quotidianamente mostrare nel foro per far colpo sulla massa oziosa. Una legge
impediva la scorta dietro pagamento; ma ancora più costoso era obbligarsi i
nobili mediante i prestiti, mediante la raccomandazione agli uffici e agli
affari, mediante la difesa davanti al tribunale, che li impegnava a far da
scorta e alla visita quotidiana del mattino. Pompeo era patrono di mezzo mondo,
dai contadini del Piceno fino ai re orientali; egli rappresentava e proteggeva
tutti. Questo era il suo capitale politico, che poteva mettere in campo contro
i prestiti senza interesse di Crasso e contro l’« indoramento »° di tutti gli
ambiziosi da parte del conquistatore della Gallia. Si facevano servire agli
elettori colazioni estese all’intero circondario”, si concedevano posti
gratuiti per assistere ai giochi dei gladiatori o si mandava perfino
direttamente in casa del denaro — come faceva Milone. Cicerone chiama tutto ciò
«rispettare i costumi dei padri ». Il capitale elettorale assunse dimensioni di
tipo americano, raggiungendo talvolta la somma di centinaia di milioni di
sesterzi. Nel corso delle elezioni del 54 a. C. il tasso di interesse salì dal
4% all’8%, perché la maggior parte dell'enorme massa di liquido disponibile a
Roma fu investita nella propaganda. Cesare, quand'era edile, aveva speso tanto
che Crasso fu costretto a garantire per venti milioni affinché i creditori gli
consentissero di partire per la provincia, a. Inaurari: a questo scopo Cicerone
raccomandò a Cesare il suo amico Trebazio. b. Tributim ad prandium vocare
(Cicerone, Pro Murena, 72). OSWALD SPENGLER 785 e ancora nell’elezione a
pontefice massimo aveva talmente oltre: passato il suo credito che il suo
avversario Catulo poté offrirgli del denaro perché si ritirasse, dal momento
che in caso di sconfitta sarebbe stato perduto. Ma la conquista della Gallia —
che egli intraprese anche per questo motivo — e il relativo sfruttamento fecero
di lui l’uomo più ricco del mondo: così è stata realmente ottenuta la vittoria
di Farsalo *. Infatti Cesare ha conquistato tutti questi miliardi avendo di
mira la potenza, come Cecil Rhodes”, e non per il piacere di ricchezza, come
Verre e in fondo anche Crasso, il quale era un grosso finanziere che faceva
parallelamente anche il politico. Egli comprese che, sul terreno di una
democrazia, i diritti costituzionali non significano nulla senza denaro, tutto
col denaro. Mentre Pompeo ancora sognava di poter trarre legioni dalla terra,
Cesare le aveva da lungo tempo tradotte in realtà con il suo denaro. Egli aveva
trovato già pronti questi metodi: li padroneggiava, ma senza identificarsi con
essi. Si deve aver ben chiaro il fatto che, fin dal 150 a. C., i partiti
riuniti sulla base di princìpi si dissolvono in seguiti personali raccolti
intorno a uomini i quali avevano un fine politico privato e conoscevano bene le
armi del loro tempo. Tra di esse rientra, accanto al denaro, anche l'influenza
sui tribunali. Dato che le antiche assemblee popolari votavano solamente, ma
senza discutere, il processo di fronte ai rostra è una a. Si tratta di miliardi
di sesterzi, che passarono da allora per le sue mani. Le offerte votive dei
templi della Gallia, che egli fece vendere in Italia, provocarono un crollo nel
valore dell’oro. Cesare e Pompeo costrinsero il re Tolomeo a versare, per il suo
riconoscimento, 144 milioni (e altri 240 gliene fece versare Gabinio). Il
console Emilio Paolo (50 a. C.) fu comperato con 36 milioni, Curione con 60
milioni. Da ciò si possono inferire le invidiabilissime possibilità
dell'ambiente che circondava Cesare. Per il trionfo del 46 a. C. ognuno dei
suoi oltre centomila soldati ricevette 24.000 sesterzi, mentre agli ufficiali e
ai capi toccarono somme ben superiori, Ciononostante, alla sua morte il tesoro
pubblico era così ricco da garantire la posizione di Antonio. 23. Cecil John
Rhodes (1853-1902), uomo politico e finanziere sud-africano di origine inglese,
fu primo ministro della colonia di Città del Capo dal 1890 al 1896. Diede una
spinta decisiva allo sviluppo dell'industria diamantifera nel Sud-Africa,
soprattutto nella regione che da lui prese il nome. 50. STORICISMO TEDESCO. 786
OSWALD SPENGLER forma di lotta di partito e la scuola vera e propria di
eloquenza politica. Il giovane politico iniziava la sua carriera accusando e,
se possibile, annientando una grossa personalità ®, come fece Crasso a
diciannove anni contro il famoso Papirio Carbone, amico dei Gracchi, che era
passato più tardi dalla parte degli ottimati. Per tale motivo Catone fu
accusato quarantaquattro volte e sempre assolto. La questione giuridica passa
qui in secondo piano *. La cosa determinante è la posizione di partito del
giudice, il mumero dei patroni e l’ampiezza del seguito; il numero dei
testimoni serve propriamente a mettere in luce la potenza politica e
finanziaria dell’accusatore. Tutta l’eloquenza di Cicerone contro Verre vuol
convincere i giudici, sotto Ja maschera di un magnifico pathos etico, che la
sua condanna è nel loro interesse di ceto. Secondo la generale concezione
antica è ovvio che il seggio in tribunale debba servire agli interessi privati
e a quelli di partito. Ad Atene gli accusatori democratici erano soliti
avvertire i giurati popolari, al termine del loro discorso, che assolvendo
l’accusato ricco avrebbero messo in forse i loro onorari processuali ©. La
grande potenza del senato romano poggia in gran parte sul fatto che esso aveva
in mano, attraverso la nomina di tutti i tribunali, il destino di ogni
cittadino; su questa base si può misurare la portata della legge graccana del
122 a. C., che trasferiva i tribunali al a. Cfr. M. GELZER, op. cit., p. 68. b.
Si tratta in gran parte di concussione e di corruzione. Dal momento che ciò
faceva allora tutt'uno con la politica, che giudice e accusato avevano fatto la
stessa cosa e che tutti lo sapevano, l’arte consisteva nel tenere — nelle forme
di una ben recitata passione morale — un discorso di partito il cui scopo vero
e proprio era inteso soltanto dall’iniziato. Ciò corrisponde del tutto alle
moderne usanze parlamentari. Il « popolo » rimarrebbe molto stupito se vedesse
come, dopo gli accaniti discorsi durante la seduta (destinati alla stampa), gli
avversari di partito si intrattengono amabilmente tra di loro. Si pensi anche
ai casi in cui un partito scende in campo con passione a favore di una proposta
dopo averne assicurata, mediante un accordo con gli avversari, la
disapprovazione. A Roma la sentenza non importava affatto; bastava che
l’accusato abbandonasse in precedenza volontariamente la città, escludendosi
così dalla lotta di partito e dal concorso agli uffici. c. Cfr. R. von
Ponumann, Griechische Geschichte, Miinchen, 5° ed. 1914, pp. 236-37. OSWALD
SPENGLER 787 ceto dei cavalieri e metteva quindi la nobiltà, cioè le alte
cariche, alla mercé del mondo della finanza. Nell’82 a.C. Silla restituì al
senato, contemporaneamente alle proscrizioni dei grandi finanzieri, anche i
tribunali come arma politica, beninteso; e la lotta finale tra i detentori del
potere trova la sua espressione anche nel continuo mutare della scelta dei
giudici. Ma mentre l’antichità — e il foro di Roma in testa — raccoglieva la
massa popolare in un corpo visibile e compatto per costringerla a fare dei suoi
diritti l’uso che si voleva fosse fatto, « contemporaneamente » la politica
europeo-americana introduceva mediante la stampa un campo di forza di tensioni
spirituali e finanziarie esteso a tutta la terra, nel quale ogni individuo è
inserito senza averne coscienza e in modo da dover pensare, volere e agire come
ritiene opportuno da qualche parte, di lontano, una personalità dominante.
Questo è dinamica contrapposta alla statica, sentimento faustiano del mondo
contrapposto al sentimento apollineo, pathos della terza dimensione
contrapposto al puro presente sensibile. Non si parla da uomo a uomo; la stampa
e, collegato con essa, il servizio elettrico di informazioni mantengono
l’essere desto di interi popoli e di interi continenti sotto l’assordante fuoco
di fila di frasi, di parole d'ordine, di punti di vista, di scene, di
sentimenti, giorno per giorno, anno per anno, cosicché ogni io diventa mera
funzione di un'immensa entità spirituale. Il denaro prende la sua strada
politica non come metallo che passa di mano in mano; non si converte più in
giochi e in vino. Esso si trasforma invece in forza e determina, mediante la
sua quantità, l'intensità di questa manipolazione. Polvere da sparo e stampa
sono connesse l’una con l’altra, in quanto entrambe sono inventate nell'antico
periodo gotico e scaturite dal pensiero tecnico germanico, come i due grandi
strumenti della tattica faustiana della distanza. La Riforma conobbe all’inizio
dell'età successiva i primi manifesti e le prime artiglierie da campagna; la
Rivoluzione francese conobbe, all’inizio del declinare della civiltà, la prima
ondata di opuscoli a. In questo modo Rutilio Rufo poté essere condannato nel famigerato
processo del 93 a. C. perché come proconsole, aveva doverosamente proceduto
contro le concussioni delle società di appalto. 788 OSWALD SPENGLER
dell'autunno 1788 e a Valmy il primo fuoco di massa di un’artiglieria. Ma con
ciò la parola stampata impiegata in forma massiccia ed estesa su superfici
infinite diventa un’arma infida nelle mani di chi sa dirigerla. In Francia, nel
1788, si trattava ancora di un'espressione spontanea di convinzioni private, ma
in Inghilterra si era già al punto di suscitare intenzionalmente un'impressione
nei lettori. La guerra condotta contro Napoleone da Londra, su territorio
francese, con articoli, libelli, memorie inautentiche, ne costituisce il primo
grande esempio. I fogli isolati dell’età illuministica si trasformano nella «
stampa », come si dice con indicativa anonimità *. La campagna di stampa nasce
come la continuazione — o la preparazione — della guerra condotta con altri
mezzi, e la sua strategia fatta di scontri di avamposti, di diversivi, di
sorprese e di attacchi a ondate viene elaborata durante il secolo xix fino al
punto che una guerra può già essere perduta prima ancora che parta il primo
colpo, perché la stampa l’ha vinta nel frattempo. Oggi noi viviamo senza
possibilità di resistenza sotto l’azione di questa artiglieria spirituale, di
modo che quasi nessuno acquisisce la distanza interiore necessaria per rendersi
conto dell’enormità di tale spettacolo. La volontà di potenza in veste
puramente democratica ha compiuto il suo capolavoro facendo sì che il sentimento
di libertà degli oggetti venga addirittura adulato pur nella schiavitù più
completa che sia mai esistita. Il senso borghese liberale è fiero
dell’abolizione della censura, che costituiva l’ultimo limite, mentre il
dittatore della stampa — Northcliffe! * — assoggetta la folla di schiavi dei
suoi lettori alla frusta dei suoi articoli di fondo, dei suoi telegrammi e
delle sue illustrazioni. La democrazia ha completamente soppiantato il libro
con il giornale nella vita spirituale delle masse popolari. Il mondo dei libri,
con la sua ricchezza di punti di vista che costringevano il pensiero alla
selezione e alla critica, è un possesso reale ancora soltanto per circoli
ristretti. Il popolo legge l’unico giornale — il «suo» giornale — che
quotidiaa. E quasi in analogia con «l'artiglieria ». 24. Alfred Charles William
Harmsworth, visconte di Northcliffe (1865-1922), creatore del giornalismo
moderno: a lui si deve la fondazione del « Daily Mail » nel 1896 c del « Daily
Mirror » nel 1903. Nel 1908 si assicurò pure il controllo del « Times ». namente
penetra in ogni casa in milioni di esemplari, attraendo di buon mattino gli
spiriti nella propria orbita, facendo passare nel dimenticatoio i libri con i
propri supplementi e, se questo o quel libro compare ancora all’orizzonte,
eliminando la sua influenza con una critica che arriva prima di esso. Che cos'è
la verità? Per la massa è ciò che si legge e si ascolta continuamente. Può ben
esserci da qualche parte un povero minchione che se ne sta seduto e raccoglie
motivi per stabilire «la verità» — questa rimarrà sempre la sua verità. L’altra
verità, la verità pubblica del momento, che sola importa nel mondo reale degli
effetti e dei risultati, è oggi un prodotto della stampa. Ciò che essa vuole, è
vero. Coloro che la comandano producono, trasformano, cambiano Ja verità. Tre
settimane di lavoro di stampa, e tutto il mondo ha riconosciuto la verità*. I
suoi argomenti sono inconfutabili finché si dispone del denaro per ripeterli
senza interruzione. Anche la retorica antica faceva conto sull’impressione e
non sul contenuto — Shakespeare ha brillantemente mostrato, nell’orazione
funebre di Antonio, di che cosa si trattasse — ma essa si limitava al presente
e al momento. La dinamica della stampa esige effetti duraturi. Essa deve mantenere
durevolmente gli spiriti sotto pressione. I suoi argomenti vengono confutati
non appena una potenza finanziaria maggiore sposa gli argomenti contrari e li
pone ancora più spesso davanti a tutte le orecchie e a tutti gli occhi. Nello
stesso attimo l’ago magnetico dell’opinione pubblica si orienta verso il polo
più forte. Ognuno si convince subito della nuova verità: all'improvviso ci si
sveglia da un errore. Alla stampa politica si connette il bisogno di
un'istruzione a. L'esempio più forte sarà sempre, per le future generazioni, la
questione della «responsabilità » della guerra mondiale, vale a dire la
questione di chi possiede — attraverso il dominio della stampa e dei cavi
telegrafici di ogni parte della terra — il potere di stabilire davanti all'opinione
mondiale la verità di cui ha bisogno per i suoi scopi poli tici, e di
mantenerla in vita finché ne ha bisogno. Questione completamente diversa, che
soltanto in Germania viene confusa con la prima, è quella puramente scientifica
di sapere chi aveva interesse a provocare proprio nell’estate 1914 un
avvenimento, sul quale esisteva già allora un'intera letteratura. 790 OSWALD
SPENGLER scolastica generale, che mancava completamente all’antichità. È una
pressione del tutto inconsapevole per avvicinare le masse, in quanto oggetti
della politica di partito, a quello strumento di potere che è il giornale.
All’idealista degli inizi della democrazia ciò appariva come illuminazione
priva di intenzioni recondite, e ancor oggi vi sono qua e là degli sciocchi che
si entusiasmano al pensiero della libertà di stampa; ma proprio in questo modo
hanno via libera i futuri Cesari della stampa mondiale. Chi ha imparato a
leggere soccombe alla loro potenza, e la tarda democrazia si trasforma, dalla
sognata auto-determinazione, in una radicale determinazione dei popoli da parte
dei poteri a cui la parola stampata obbedisce. Oggi ci si combatte per
sottrarre agli altri quest'arma. Agli ingenui inizi della potenza
giornalistica, questa era ancora ostacolata dai divieti della censura, con la
quale i rappresentanti della tradizione si difendevano; la borghesia protestava
che la libertà dello spirito era in pericolo. Ora la massa percorre
tranquillamente la sua strada: ha finalmente conquistato questa libertà, ma
sullo sfondo le nuove potenze combattono, non viste, per comperare la stampa.
Senza che il lettore lo avverta, il giornale — e con esso anche il lettore —
cambia di padrone *. Anche qui il denaro trionfa costringendo al suo servizio
gli spiriti liberi. Nessun domatore ha mai avuto meglio in suo potere i propri
animali; si scatena il popolo come massa di lettori, ed esso si precipita per
le strade, si getta sull’obiettivo indicato, minaccia e spacca le finestre. Un
cenno all’apparato della stampa e il popolo tace e ritorna a casa. La stampa è
oggi un esercito con proprie armi accuratamente organizzate, con giornalisti
come ufficiali, con lettori in qualità di soldati. Ma anche qui accade come in
ogni esercito: il soldato obbedia. Durante la preparazione della guerra
mondiale la stampa di interi paesi cadde finanziariamente sotto il controllo di
Londra e di Parigi; e quindi i relativi popoli caddero sotto una rigorosa
schiavitù spirituale. Quanto più democratica è la forma interna di una nazione,
tanto più facilmente e completamente essa si espone a tale pericolo. Questo è
lo stile del secolo xx. Un democratico di vecchio stampo oggi non richiederebbe
più libertà per la stampa ma dalle stampa; nel frattempo i capi sono mutati in
«arrivati », costretti a garantire la propria posizione di fronte alla massa,
OSWALD SPENGLER 791 sce ciecamente, i mutamenti di obiettivi bellici e di piano
operativo si compiono senza che egli ne venga a conoscenza. Il lettore nulla sa
di ciò che si vuol fare con lui, e non deve neppure sapere quale sarà il suo
ruolo. Non esiste una satira più tremenda della libertà di pensiero. Un tempo
non si poteva osare di pensare liberamente; ora ciò è permesso, ma non è più
possibile. Si può pensare soltanto ciò che si deve volere, e proprio questo
viene percepito come libertà. L’altro aspetto di questa tardiva libertà è che a
ognuno è permesso di dire ciò che vuole, ma la stampa è libera di prenderne
conoscenza oppure no. Essa può condannare a morte ogni « verità » rifiutandosi
di comunicarla al mondo: una spaventosa congiura del silenzio, tanto più
onnipotente quanto più la massa servile dei lettori di giornale non si accorge
affatto della sua presenza*. Qui affiora, come sempre durante le doglie del
cesarismo, un frammento dell’epoca primitiva perduta. Il cielo del divenire è
in procinto di chiudersi. Come nelle costruzioni di cemento armato e di acciaio
ricompare ancora una volta la volontà espressiva del primo gotico — ora però
fredda, dominata, civilizzata — così qui la ferrea volontà di potenza della
chiesa gotica sopra gli spiriti si annuncia nella forma della «libertà della
democrazia ». L’età del « libro» è compresa tra la predica gotica e il giornale
moderno. I libri sono un’espressione personale; la predica e il giornale
obbediscono a uno scopo impersonale. Nella storia universale gli anni della
Scolastica offrono l’unico esempio di una disciplina spirituale in grado di
impedire in tutti i paesi la comparsa di scritti, di discorsi, di pensieri che
contraddicono l’unità voluta. Tutto ciò è dinamica spirituale. Gli uomini
antichi, indiani, cinesi avrebbero guardato inorriditi a tale spettacolo. Ma
proprio questo ritorna come risultato recessario del liberalismo
europeo-americano, quale l’intese Robespierre: « il dispotismo della libertà
contro la tirannide ». Al posto dei roghi subentra il grande silenzio. La
dittatura dei capi-partito si appoggia sulla dittatura della stampa. Mediante
il denaro si cerca di sottrarre schiere di lettori e popoli interi
all'influenza nemica, portandoli nella propria sfera di idee. Qui essi vengono
a conoscere soltanto ciò a. Al confronto i grandi roghi di libri dei Cinesi
sono cosa innocua. 792 OSWALD SPENGLER che devono sapere, e una volontà
superiore plasma l’immagine del loro mondo. Non occorre più obbligare i sudditi
al servizio militare, come facevano i principi dell’età barocca. Con articoli,
telegrammi, immagini — Northcliffe! — se ne fustigano gli spiriti, finché essi
stessi richiedono le armi e costringono i loro capi a una lotta a cui questi
volevano essere costretti. Questa è la fine della democrazia. Se nel mondo
delle verità la dimostrazione è l'elemento decisivo, nel mondo dei fatti lo è
il successo. Successo vuol dire il trionfo di una corrente dell’esistenza sopra
le altre. La vita ha affermato i suoi diritti; i sogni dei riformatori sono
diventati strumenti di nature dominatrici. Nella tarda democrazia la razza
irrompe asservendo gli ideali oppure gettandoli con scherno nel baratro. Così è
avvenuto nella Tebe egizia, a Roma, in Cina; ma in nessun’altra civiltà in declino
la volontà di potenza assume una forma tanto inesorabile. Il pensiero, e quindi
anche l’agire della massa, viene tenuto sotto una pressione ferrea. Per questo
motivo, e soltanto per questo, si è lettori ed elettori, sotto una doppia
schiavitù, mentre i partiti diventano seguiti obbedienti di pochi, sui quali il
cesarismo getta ormai la sua prima ombra. Come la monarchia inglese del secolo
x1x, così i parlamenti del secolo xx diventano a poco a poco spettacoli solenni
ma vuoti. Come là scettri e corone, così qui i diritti popolari vengono
presentati alla massa con un grande cerimoniale e rispettati tanto più
scrupolosamente quanto minore è la loro importanza. Questo è il motivo per cui
l’astuto Augusto non ha mai perduto occasione di celebrare le usanze avite
della libertà romana. Ma già oggi il potere si trasferisce dai parlamenti nei
circoli privati, e le elezioni si riducono inarrestabilmente a una commedia,
per noi come per Roma. Il denaro ne organizza il corso nell’interesse di coloro
che lo posseggono* e l’azione a. Qui risiede il mistero del perché tutti i
partiti radicali — e quindi poveri — diventano necessariamente gli strumenti
delle potenze finanziarie, a Roma degli equites, e oggi della borsa.
Teoricamente essi attaccano il capitale, ma in pratica attaccano non già la
borsa bensì, nell'interesse di questa, la tradizione. All'epoca dei Gracchi le
cose andavano né più né meno di oggi, e lo stesso vale per tutti i paesi. La
metà dei capi delle masse, e con loro l’intero partito, può essere comperata con
denaro, uffici, partecipazioni ad affari. elettorale diventa un gioco convenuto
in precedenza, inscenato sotto forma di auto-determinazione popolare. Se
originariamente un’elezione era una rivoluzione in forme legittime, questa
forma si è esaurita e, quando la politica del denaro diventa insopportabile, si
«elegge » nuovamente il proprio destino con i mezzi primitivi della violenza
sanguinaria. La democrazia annienta se stessa con il denaro, dopo che il denaro
ha annientato lo spirito. Ma proprio perché sono svaniti tutti i sogni di
migliorare la realtà mediante le idee di uno Zenone” o di un Marx, e si è
imparato che nel regno della realtà una volontà di potenza può essere piegata
soltanto da un'altra volontà — questa è la grande esperienza dell’epoca degli
stati in lotta — sorge alla fine una profonda nostalgia per tutto ciò che
ancora vive delle vecchie e nobili tradizioni. Si è stanchi fino al disgusto
dell'economia monetaria. Si spera in una liberazione da qualsiasi parte venga,
in una nota genuina di onore e di cavalleria, di nobiltà interiore, di rinuncia
e di senso del dovere. Viene allora il tempo in cui le potenze del sangue
ricche di forma si ridestano nel profondo, dopo essere state cacciate dal
razionalismo delle grandi città. Tutto ciò che si è conservato per il futuro
della tradizione dinastica e dell’antica nobiltà, tutto ciò che si è conservato
del costume superiore che si mantiene al di sopra del denaro, tutto ciò che è
in sé abbastanza forte per essere — secondo il detto di Federico il Grande —
servitore dello stato in un lavoro duro, pieno di rinunce, scrupoloso, anche
nel possesso del potere illimitato, tutto ciò che ho designato come socialismo
in contrapposizione al capitalismo® — tutto ciò diventa all'improvviso il punto
di raccolta di immense forze vitali. Il cesarismo cresce sul terreno della
democrazia, ma le sue radici affondano nel substrato del sangue e della
tradizione. L’antico Cesare deve il suo potere al tribunato, ma la sua dignità
e quindi anche la sua durata la possiede in quanto princeps. Anche qui si
ridesta l’anima del a. Cfr. O. SrencLER, Preussentum und Sozialismus, Miinchen,
1919, PP. 41-42. 25. Zenone di Cizio (336-264 a. C.), fondatore della scuola
stoica, autore di numerosi scritti pervenutici in forma frammentaria. 794
OSWALD SPENGLER gotico primitivo: lo spirito degli ordini cavallereschi supera
lo spirito vichingo avido di bottino. Per quanto i futuri detentori del potere
possano dominare il mondo come possesso privato, essendo ormai
irrimediabilmente caduta la grande forma politica della cultura, questa potenza
priva di forma e di limiti contiene tuttavia un compito: quello di
un’instancabile cura per questo mondo, che costituisce l’opposto degli
interessi propri dell’età del dominio del denaro e che richiede un elevato
sentimento dell’onore e un'alta coscienza del dovere. Ma proprio per questo si
scatena ora la lotta finale tra democrazia e cesarismo, tra le potenze
dominanti di un'economia monetaria dittatoriale e la volontà ordinatrice
puramente politica dei Cesari. Per intendere questa lotta finale tra economia e
politica, in cui la politica riconguista il suo regno, occorre uno sguardo alla
fisiognomica della storia economica. TROELTSCH nasce a Hauenstetten, presso
Augusta. Frequenta le università di Erlangen, di Goòttingen e di Berlino,
dedicandosi soprattutto — sotto la guida di Ritschl e Lagarde — agli studi
teologici. Conseguì il dottorato con la dissertazione Geschichte und Metaphysik
(Gòttingen). Dopo esser stato pastore luterano a Monaco, ottiene l’abilitazione
a Géttingen, con “Vernunft und Offenbarung bei Johann Gerhard und Melanchton” (Géòttingen).
Inizia la carriera accademica a Bonn, e viene chiamato a coprire la cattedra di
teologia sistematica a Heidelberg, impegnandosi anche nella vita politica e
sedendo per due legislature alla camera alta del Baden. I saggi di Troeltsch
mostrano chiaramente il prevalere degli interessi religiosi e teologici, i
quali si incontrano e si scontrano, talvolta in maniera drammatica, con la
consapevolezza della storicità della vita religiosa. Fin dall'inizio egli
prende posizione nei confronti della concezione idealistica della religione,
denunciando il carattere fittizio della «conciliazione » da essa operata tra il
processo storico e l’assolutezza della fede religiosa. Nel saggio Die
christliche Weltanschauung und ihre Gegenstromungen (1894) egli respinge
insieme l'idealismo e il positivismo, a causa della loro incapacità di
intendere la vita religiosa e di dare una giustificazione filosofica
dell'autonomia della religione. Al centro del pensiero di Troeltsch si colloca,
in questo periodo, il problema del rapporto tra storia e religione, concepiti
come termini antitetici: da una parte la coscienza storica ci mostra il
condizionamento di ogni forma di vita religiosa e la sua appartenenza a un
processo di sviluppo, dall'altra la religione avanza una pretesa di validità
assoluta. Quest'antitesi viene illustrata nei successivi scritti del periodo di
Hcidelberg, da Die Selbstindigkeit der Religion (1895) a Christentum und Religionsgeschichte
(1897) e a Uber historische und dogmatische Methode in der Theologie (1898), da
Die wissenschafiliche Lage und ihre Anforderungen an die Theologie (Tibingen,
1900) ai Grundprobleme der Ethik (1902; tr. it. Napoli, 1974) e al volume Die Absolutheit des
Christentums und die Religionsgeschichte (Tiibingen, 798 ERNST TROELTSCH 1902,
19127, 1929; tr. it. Napoli,
1968). L’urto della coscienza storica mette in crisi non soltanto la fede
religiosa, ma anche la teologia: da un lato la religione cristiana ha perduto
la sua fondazione soprannaturale, dall'altro lo sforzo di darne una
giustificazione teologica non può più prescindere dalla coscienza storica.
Questa giustificazione viene cercata da Troeltsch considerando il Cristianesimo
non come la religione assoluta, ma come la religione più alta, cioè come quella
in cui si realizza non già il possesso, bensì il grado maggiore di
partecipazione alla verità. Muovendo da questa prospettiva Troeltsch interviene
— con il saggio Was heisst « Wesen des Christentums »? (1903; tr. it. Napoli,
1974) — nel dibattito suscitato dalla pubblicazione dell’opera di Adolph von
Harnack, e successivamente prende parte alla discussione sul modernismo. Negli
scritti posteriori, dal volume Psychologie und Erkenntnistheorie in der
Religionswissenschaft (Tibingen, 1905, 19227) al saggio Wesen der Religion und
der Religionswissenschaft (1909), il problema della religione e della sua
validità viene ricondotto al quadro di un’impostazione neocriticistica,
modificata però attraverso l'assunzione di un fondamento 4 priori autonomo
della vita religiosa che viene individuato in un complesso di valori
irriducibili a quelli conoscitivi o etici o estetici. La ricerca delle
condizioni di possibilità della religione mette così capo alla determinazione
della sua autonomia nei confronti degli altri campi dell’attività umana. In
questo stesso periodo, a contatto con Max Weber, Troeltsch ha sviluppato il
proprio interesse per la religione anche sul terreno storiografico, studiando
le relazioni tra il Cristianesimo e lo sviluppo politico ed economico della
società europea. Il punto di partenza della sua analisi è la Riforma
protestante, considerata nel suo distacco dal Cristianesimo medievale e nel suo
rapporto con il processo di formazione del mondo moderno. Nel saggio
Protestantisches Christentum und Kirche in der Neuzeit (Leipzig-Berlin, 1906,
1922°) e nel volume Die Bedeutung des Protestantismus fiir die Entstehung der
modernen Welt (1906, poi Miinchen, 19112, 1924}; tr. it. Venezia, 1929) egli
prende in esame le differenze di orientamento che caratterizzano la religione
protestante e la cultura moderna; in seguito la sua attenzione si estende,
investendo tutto il processo storico del Cristianesimo, con particolare
riguardo alle origini della fede cristiana e alla figura di Cristo come termine
di riferimento dello sviluppo ulteriore — indagata nel volume Die Bedeutung der
Geschichtlichkeit Jesu fiir den Glauben (Tibingen, 1911) — o all’opera di
Agostino — studiata in Augustin, die christliche Antike und das Mittelalter
(Minchen, 1915; tr. it. Napoli, 1970). Ma il contributo storico di maggior
rilievo fornito da Troeltsch è l'ampia analisi delle dottrine politico-sociali
cristiane, condotta in Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen
(Tiùbingen, 1912; tr. it. Firenze, 1941-60). In quest'opera — la quale
raccoglie una serie di saggi apparsi dapprima nell'« Archiv fiir
Sozialwissenschaft und Sozialpolitik » —Troeltsch si propone di studiare le
dottrine che, dal Cristianesimo primitivo alla Riforma protestante,
caratterizzano sotto il profilo sociale lo sviluppo della religione cristiana,
ponendo in luce il rapporto di condizionamento reciproco che in tal modo si
instaura tra la vita religiosa e la vita economica che la religione intende
regolamentare, ma dalla quale viene nel medesimo tempo influenzata. Troeltsch
si accosta alle indagini weberiane sulla sociologia della religione,
riconoscendo l'appartenenza del Cristianesimo al processo di sviluppo di una
data civiltà e la dipendenza delle sue dottrine dalla struttura sociale che
questa è venuta creando. Ma, a differenza di Weber, egli fa valere il postulato
dell'autonomia della vita religiosa, avanzando l'esigenza di delimitare
l'ambito storico proprio della religione. Come risulta anche dal saggio
Religion, Wirtschaft und Gesellschaft (1913), che enuncia i presupposti
metodologici di questa impostazione, il condizionamento reciproco tra religione
e vita economico-sociale viene a configurarsi come l’incontro di serie causali
indipendenti — una delle quali è appunto la serie dei fenomeni religiosi. Nel
1915 Troeltsch lascia Heidelberg, chiamato all’Università di Berlino a
insegnarvi filosofia. Il mutamento di cattedra rispecchia il mutamento di
interessi che si determina, in questi ultimi anni, nel pensiero di Troeltsch, e
che lo spinge ad affrontare in termini generali il problema dello storicismo.
Fin dal 1904, del resto, egli aveva espresso la sua adesione di massima alla
posizione di Rickert nel saggio Moderne Geschichtsphilosophie (tr. it. Napoli,
1974). Ritornando sui problemi della storia e della conoscenza storica a
distanza di circa un decennio, in una serie di saggi che hanno inizio nel 1916
(e che saranno poi raccolti col titolo Der Historismus und seine Probleme,
Tiibingen, 1922), Troeltsch sottolinea le conseguenze relativistiche dello
storicismo, e quindi la crisi del pensiero storico che esso esprime. Lo
storicismo, inteso come relativismo storico, riduce i valori a prodotto storico
e porta quindi all’« anarchia dei valori ». Contro questo pericolo egli si
richiama alla teoria dei valori, e in particolare a Rickert, rivendicando il
rapporto di ogni momento del processo storico con valori assoluti, capaci di
dare un senso alla successione degli eventi. Ma questo rapporto non comporta —
come per Rickert — una trascendenza metastorica dei valori, bensì la loro
immanenza a ogni oggetto storico, considerato nella sua individualità. Il punto
di arrivo di Troeltsch è quindi il significato romantico di individualità,
recuperato attraverso il riferimento alla nozione leibniziana di monade. Questa
impostazione viene in parte ripresa nei saggi postumi Der Historismus und seine
Uberwindung (Berlin, 1924), nei quali è riaffermata l’esigenza della
restaurazione di un sistema di valori, da compiersi attraverso il richiamo a
una determinata tradizione culturale. Il dopoguerra vede Troeltsch intensamente
impegnato nella vita pubblica, come deputato al parlamento prussiano e come
sotto-segretario (dal 1919 al 1921) per gli affari evangelici presso il Ministero
dell'educazione. Egli partecipa alla fondazione del partito democratico, e nel
1920 difende la costituzione della repubblica di Weimar in una serie di lettere
pubblicate sulla rivista « Der Kunstwart» (e poi raccolte col titolo di
Spektator-Briefe, Tùbingen, 1924). Muore a Berlino il 1° febbraio 1923. NOTA
BIBLIOGRAFICA Le opere di Troeltsch sono state raccolte, anche se soltanto
parzialmente, nelle Gesammelte Schriften, edite dalla casa editrice Mohr in
quattro volumi, dal 1912 al 1925: dopo la guerra la Scientia Verlag di Aalen ne
ha dato una ristampa anastatica, apparsa tra il 1961 e il 1966. Il primo volume
(apparso nel 1912, e ristampato nel 1965) contiene Die Soziallehren der
christlichen Kirchen und Gruppen; il secondo (apparso nel 1913, e ristampato
nel 1962) raccoglie, sotto il titolo Zur religiòsen Lage, Religionsphilosophie
und Ethik, numerosi saggi di argomento religioso e storico-religioso, tra cui
Die theologische und religiòse Lage der Gegenwart, Die Kirche im Leben der
Gegenwart, Religion und Kirche, Die christliche Weltanschauung und ihre
Gegenstrimungen, Christentum und Religionsgeschichte, Was heisst « Wesen des
Christentums »?, Wesen der Religion und der Religionswissenschaft,
Grundprobleme der Ethik, Moderne Geschichtsphilosophie, Uber historische und
dogmatische Methode in der Theologie; il terzo (apparso nel 1922, e ristampato
nel 1961) racchiude Der Historismus und seine Probleme; il quarto (apparso nel
1925, e ristampato nel 1966) comprende, sotto il titolo Aufsitze zur Geistesgeschichte
und Religionssoziologie, diversi saggi di storia religiosa e intellettuale, tra
cui Religion, Wirtschaft und Gesellschaft, Epochen und Typen der
Sozialphilosophie des Christentums, Das stoisch-christliche Naturrecht und das
moderne profane Naturrecht, Das Verhdltnis des Protestantismus zur Kultur,
Luther, der Protestantismus und die moderne Welt, Renaissance und Reformation,
Das Wesen des modernen Geistes, nonché numerose recensioni a libri di argomento
analogo. Rimangono al di fuori di questa raccolta diversi volumi e saggi, i più
importanti dei quali sono stati menzionati nella nota biografica. Ad essi
occorre aggiungere le lezioni sulla G/aubenslehre, Miinchen-Leipzig, 1925, e la
raccolta di saggi Deutscher Geist und Westeuropa (a cura di H. Baron),
Tibingen, 1925. In epoca recente sono stati ristampati i seguenti volumi: Die
Absolutheit des Christentums und die Religionsgeschichte, Minchen, 1960;
Augustin, die christliche Antike und das Miztelalter, Aalen, 1963; Der
Historismus und seine Uberwindung, 51. STORICISMO TEDESCO. 802 ERNST TROELTSCH Aalen, 1966;
Spektator-Briefe, Aalen, 1966; Deutscher Geist und Westeuropa, Aalen, 1966. Dell’ampia letteratura critica concernente
l'opera e il pensiero di Troeltsch segnaliamo gli studi seguenti: E. Vermelt,
La pensée religieuse de Troeltsch, Strasbourg-Paris, 1922. A. Passerin
d’EnTrÈèvEs, Il concetto del diritto naturale cristiano e la sua storia secondo
E. Troeltsch, « Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino », LXI,
1925-26, pp. 664-704. O. Hintze, Troelisch und die Probleme des Historismus, «
Historische Zeitschrift», CXXXV, 1927, pp. 188-239, ora raccolto nel volume
Soziologie und Geschichte (a cura di G. Oestreich), Gòttingen, 1964 7, PP.
323-73. H. Liesricn, Die historische Wahrheit bei Ernst Troeltsch, Giessen,
1937. W. BracHmann, Ernst Troeltschs historische Weltanschauung, Halle, 1940. D. Frerssero, Das Problem der
historischen Objektivitàt in der Geschichtsphilosophie von Ernst Troeltsch,
Emsdetten, 1940. W. Koncer, Ernst Troeltsch, Tibingen, 1941. J. J. ScHaar,
Geschichte und Begriff (Eine kritische Studie zur Geschichtsmethodologie von
Ernst Troeltsch und Max Weber), Tiubingen, 1946. E. Fiuino, Geschichte als
Offenbarung (Studien zur Frage Historismus und Glaube von Herder bis
Troeltsch), Berlin, 1956, cap. 1v. W. Bopenstein, Neige des Historismus: Ernst
Troeltschs Entwicklungsgang, Giitersloh, 1959. H. G. DrescHer, Das Problem der
Geschichte bei Ernst Troeltsch, « Zeitschrift fir Theologie und Kirche », LVII,
1960, pp. 186-230. A. WAIsMann, E? historicismo contemporaneo: Spengler,
Troeltsch, Croce, Buenos Aires, 1960, parte II. I. E. ALserca, Gewinnung
theologischer Normen aus der Geschichte der Religion bei E. Troeltsch,
Miinchen, 1961. W. F. KascH, Die Sozialphilosophie von Ernst Troeltsch,
Tiibingen, 1963. E. Lessinc, Die Geschichtsphilosphie Ernst Troeltschs,
Hamburg-Bergstedt, 1965. B. A. Rest, Toward a Theology of Involvement: the
Thought of E. Troeltsch, Philadelphia, WincgeLHaus, Kirchengeschichte und
Soziologie im neunzehnten ]ahrhundert und bei Ernst Troeltsch, Heidelberg,
1965, capp. ir. G. von ScHLIppe, Die Absolutheit des Christentums bei Ernst
Troeltsch auf dem Hintergrund der Denkfelder des 19. Jahrhunderts, Neustadt
a.d. Aish, 1966. H. Henrno, Max Weber und Ernst Troeltsch als Geschichtsdenker,
« Kantstudien », LIX, 1968, pp. 410-34. L'elenco completo degli scritti di Troeltsch si trova nelle Gesammelte
Schriften cit., vol. IV, pp. 863-72. Manca invece una bibliografia aggiornata
degli scritti su Troeltsch: si vedano però le indicazioni contenute nei volumi
sopra menzionati di I. E. ALserca e di E. Lessinc, nonché nella traduzione de
L’assolutezza del Cristianesimo e la storia delle religioni (a cura di A.
Caracciolo), pp. LXI-LXIv. CRISTIANESIMO E STORIA DELLA RELIGIONE* Il carattere
più generale della situazione religiosa — che può essere riconosciuto da ognuno
e che si impone a ognuno — consiste in una decomposizione della religione
ecclesiastica la quale, nonostante il dominio esterno che all’occasione incide
assai profondamente, si è seriamente allentata nelle sue strutture interne e
non riesce più a dominare la vita interna degli ambienti che spingono
spiritualmente in avanti. La misura di devozione soggettiva e di bisogno
religioso non è oggi presumibilmente molto inferiore a un tempo. Sono soltanto
caduti i mezzi di coercizione esterna e il generale attaccamento alla chiesa
che suscitavano, nelle epoche di forte dominio esteriore delle chiese e di
rigorosa subordinazione della scienza alla teologia, la parvenza di una fede diffusa.
Là dove prima c’era semplicemente una sottomissione indifferente o una fede
consuetudinaria priva di sentimento, troviamo oggi un’antitesi aperta e una
consapevole emancipazione, oppure la medesima fede consuetudinaria in teorie
anti-religiose oppure la stessa indifferenza, soltanto diventata dominante e
che si ritiene interessante o progredita. La differenza importante consiste
piuttosto nella scossa subìta dalla fede anche presso i credenti e coloro che
vogliono credere, nella lotta risolutiva delle nuove grandi conoscenze e dei
nuovi metodi scientifici contro i concetti fondamentali e i metodi espositivi
della fede cristiana così come si era fin allora presentata. Certamente, questi
effetti sconcertanti * Christentum und Religionsgeschichte, « Preussische
Jahrbicher », LXXXVII, 1897, PP. 415-447, raccolto in Gesammelte Schriften,
Tibingen, Verlag von 1.C.B. Mohr, vol. II, 1913, pp. 328-363 (traduzione di
Sandro Barbera e Pietro Rossi). 806 ERNST TROELTSCH non procedono soltanto
dalla scienza, ma procedono in egual misura dalle reazioni etiche, e più spesso
anti-etiche, contro la morale qual è stata finora, dall’impulso precipitoso di
una felicità indirizzata in senso puramente intra-mondano e all’interno della
quale manca alla fede la risonanza corroborante nella coscienza complessiva e
in una tradizione avita universalmente venerata. Ma, ciononostante, in tutti
gli spiriti gravi € profondi le conseguenze della scienza costituiscono i
motivi autentici di questa situazione precaria, almeno per quanto riguarda il
Protestantesimo. Da quando nell’età illuministica si è creata una fondazione
completamente nuova del pensiero scientifico, e quindi una nuova forma di
cultura europea, il Protestantesimo ha concluso con la scienza — in parte per
un’intima concordanza, in parte a causa della sua minore chiusura ecclesiastica
— un’alleanza indissolubile, che lo ha legato ad essa in una lotta
perpetuamente oscillante, dove talora prevale l’influenza della scienza
moderna, talora quella della tradizione. Il Cattolicesimo ha invece, dopo
alcuni imbarazzi transitori, annientato la scienza moderna all’interno del suo
ambito di potere e — poiché anch'esso doveva naturalmente concludere un
compromesso con il mondo moderno — lo ha fatto non già con la scienza, ma con
le correnti politiche, giuridiche e sociali dell’età moderna, con le potenze
del suffragio universale; e a condizione di ottenere un franco riconoscimento
della sua esistenza, concede ai dotti una posizione privata molto differenziata
nei confronti delle sue dottrine. Il suo destino dipende in primo luogo dallo
sviluppo delle conseguenze che farà scaturire la politica che esso ha impostato
nel corso del nostro secolo. Il destino del Protestantesimo, invece, dipende in
primo luogo dallo sviluppo degli effetti che sono derivati e che derivano
tuttora dall’alleanza contratta con la scienza nel secolo xvi. Non si deve però
dimenticare che oggi l’interesse per la situazione religiosa non si esaurisce
affatto nell'interesse per il destino di queste due confessioni. Anche se ha
preso prevalentemente le mosse dal Protestantesimo, e se è possibile solamente
in base a questo, si è tuttavia venuto formando un ambito più ampio di persone
le quali — estranee alle chiese piuttosto che irreligiose — indagano
oggettivamente la questione religiosa nel suo rapporto con i problemi
scientifici e cercano di districare e, per quanERNST TROELTSCH 807 to è
possibile, di chiarire la situazione. Anche chi, come me, è fermamente convinto
che un risanamento delle condizioni religiose sia in definitiva possibile
soltanto muovendo dal terreno delle comunità religiose, deve tuttavia ammettere
che al presente il centro di gravità di tutte le trattazioni concernenti la
religione risiede in questo gruppo di persone, e non nella teologia corporativa.
Chi vuole ottenere chiarezza sulla situazione, deve cominciare l'indagine di
qui. Le pagine seguenti devono illuminare la situazione, appunto nel senso di
una considerazione nient’affatto corporativa, per un aspetto la cui importanza
diventerà ogni anno più chiara. Il fondamento della scossa critica non è la
nuova speculazione sorta con l’Illuminismo, la quale poneva al posto della
filosofia ecclesiastica costruita con elementi neoplatonici, aristotelici e
biblici una nuova metafisica che assumeva in modo autonomo la tradizione antica
ponendo al tempo stesso le premesse di una metafisica la quale preparava la
moderna scienza della natura e della storia. Speculazione e teologia sono
affini per natura. Entrambe scaturiscono dall’impulso della natura umana verso
l’infinito e il soprasensibile, che l’una cerca di cogliere scientificamente e
l’altra religiosamente. Laddove c’è un generale senso speculativo, si comprende
anche ciò che vuole la tcologia; e dove nell’uomo è presente un forte bisogno
religioso, vi è anche l'impulso più forte alla speculazione. Per quanto possano
divergere nei risultati — e ciò particolarmente a partire dall’Illuminismo,
dove la speculazione assunse elementi del tutto nuovi, sconosciuti
all’antichità e alla Bibbia — essi si ritrovano sempre e si rafforzano a
vicenda. L’Illuminismo si è imposto con una nuova speculazione proprio perché,
in base alla tradizione precedente, l'interesse religioso agiva come elemento
dominante; e proprio perché la speculazione e la teologia sono affini nonostante
qualsiasi antitesi, esso è pervenuto a soluzioni pacifiche e di compromesso,
che a molti tra gli uomini migliori del secolo xviti apparvero una soluzione
durevole del problema posto dall’epoca e l’inizio di un periodo magnifico.
L'epoca di Schleiermacher e di Hegel parve approfondire questa soluzione
pacifica, e porla su una base di principio. Il frutto principale della nuova
speculazione, la formulazione in termini di immanenza metafisica del rapporto
tra Dio e il mondo e la diffusio808 ERNST TROELTSCH ne etica del contenuto
spirituale sull’ambito complessivo della vita intra-mondana, sembrava debitore
della sua essenza a influenze cristiane, oltre che antiche, e suscettibile di
essere agevolmente assimilato dal principio cristiano. Pareva così aprirsi un
luminoso campo di nuove indagini teologiche e filosofiche, a cui — come
indicano le biografie di quel tempo — prendevano parte attiva uomini di ogni
professione. Questa pace e questo interesse sono scomparsi da tempo, in parte
perché la chiesa e la religione popolare non volevano accettare un compromesso
del genere, che incideva assai profondamente, preferendo isolarsi dalla vita
scientifica, ma in parte, e soprattutto, perché la speculazione fu sconfitta
dalla crescita autonoma degli elementi che all’inizio aveva saputo subordinare
a sé e tenere al proprio servizio. Le due nuove creazioni dell’Illuminismo, la
scienza matematico-meccanica della natura e la scienza critico-comparativa
della storia, si svincolarono e conobbero una diffusione straordinaria, che
assorbiva ogni attività e ogni interesse. La speculazione precedente non era
più in grado di affermarsi nei loro confronti. La conseguenza di ciò fu che —
nella cultura respinta dall’ortodossia rinnovata — insieme alla speculazione
andò perduto anche il senso del soprasensibile vissuto e insegnato dalla
religione, e un pensiero educato in modo completamente empiristico non seppe
più avvicinarsi a quei problemi. Ma ancora più importante fu l’altra
conseguenza, che ognuna delle due scienze suscitava un’enorme trasformazione
dell'immagine del mondo e della storia, la quale sembrava dover distruggere
passo a passo i concetti religiosi di Dio e dell'anima, e nello stesso tempo
minava i fondamenti storici su cui aveva poggiato la precedente intuizione che
il Cristianesimo aveva di se stesso. La lotta così scoppiata è molto più
violenta e pericolosa di quella con la speculazione nemica, ma pur sempre
affine: si tratta di una lotta con una conoscenza e una concezione dei fatti
differente, che penetra in tutti i campi della vita. La discussione richiesta
da questa situazione fa tutt'uno con esse. La speculazione compare soltanto in
secondo piano. Delle due nuove scienze, la scienza della natura sembra a molti
l'avversario autentico; essi si rallegrano o si dolgono dei trionfi che fanno
arretrare ogni giorno di più la fede. Il tentativo di generalizzare e di
trasferire conoscenze e metodi che hanno dimostrato nel loro campo una
straordinaria capacità di prestazione costituisce però una delle illusioni
maggiori tra quelle che di solito accompagnano i successi inattesi. Non c'è
dubbio che la legalità autonoma e la regolarità del processo naturale, poste in
luce dalla scienza della natura, hanno reso impossibili le vecchie
rappresentazioni antropomorfiche dell’azione divina. Ma queste rappresentazioni
sono già state scosse da altri motivi, e in parte proprio da motivi religiosi,
e possono ritrarsi dinanzi a una concezione approfondita del concetto di Dio.
Nello stesso tempo i tentativi di sottomettere la vita spirituale alle leggi
naturali hanno mostrato soltanto che essa possiede una sua propria legalità e
un suo proprio modo di agire, del tutto differente e nient’affatto coincidente
con quello della natura. Certamente, anche la scienza della natura ha
rafforzato l'impressione che la natura proceda insensibile soltanto in base
alle proprie leggi, senza curarsi affatto della vita spirituale, dei suoi scopi
e dei suoi beni, e che sembri capricciosamente talora prepararla e favorirla,
talora però anche annientarla brutalmente. Ma questa impressione è
antichissima, e proprio in essa la nostalgia religiosa si compiace soprattutto
di mettere radici nel fondamento più profondo della vita spirituale per non
rimanere soffocata da quei grandi enigmi e per diventare libera nei riguardi
della semplice natura. Del resto, ogni indagine seria ha mostrato che, per
quanto tutte le connessioni possano essere concepite come puramente meccaniche,
per quanto si escluda ogni derivazione e deviazione in vista di particolari
scopi arbitrari, nelle forme di questa connessione agiscono tuttavia idee
organizzatrici; che, almeno nella vita organica, il caso meccanico non spiega
nulla; che ogni spiegazione fondata su leggi naturali concerne soltanto
l’elemento di regolarità generale tratto dall'esperienza, ma non l’esperienza
stessa nella sua realtà concreta. Ciò che il mondo reale offre è, in verità, un
dualismo di elementi razionali e forniti di valore da un lato, di elementi
irrazionali e puramente fattuali dall’altro. Le leggi generali e i contenuti
forniti di senso si compenetrano. Le prime ricoprono ogni realtà con la rete
orientativa delle loro lince direttrici, i secondi stanno nelle maglie di
questa rete. Che uno di questi due aspetti sia parvenza, oppure che uno
soltanto sia veramente dominante, è cosa impossibile da dimostrare: decidere in
un senso o nell’altro è, e rimane sempre, una questione di fede. Che però la
fede secondo cui la natura e la materia sono tutto, e che da esse deriva tutto
il resto, sia impossibile da sostenere, lo mostra l’effettiva autonomia del
mondo spirituale. Questa soltanto è la questione che dobbiamo porre alla
scienza della natura — se il mondo spirituale, con il suo dover essere e i suoi
valori culturali, sia qualcosa di autonomo e fornito di una propria forza rispetto
alla natura; per il resto possiamo lasciare che essa percorra tranquillamente
il suo cammino, il quale resta precluso a chiunque si occupa di scienza dello
spirito. La risposta di tutti gli studiosi realmente importanti è affermativa,
anche se diverse sono le intuizioni più precise in merito a tale rapporto. Per
la ricerca naturale, i problemi particolari confluiscono nelle questioni
relative al rapporto tra cervello e anima e alla presenza di idee teleologiche
oganizzatrici nello sviluppo della natura, che mostrano una natura al servizio
— almeno in generale — degli scopi dello spirito. Entrambi i problemi possono
essere risolti soltanto da scienziati e filosofi uniti; essi sono ancora oggi,
come tutti sanno, straordinariamente dibattuti. Ma lo storico e l’indagatore
della vita spirituale non ha bisogno di attendere queste soluzioni. Per lui è
un punto fermo non soltanto ciò che costituisce al presente un patrimonio
comune nei confronti di ogni tipo di materialismo, cioè il fatto che lo spirito
è una forza autonoma inderivabile dalla natura, ma anche il principio più
importante che questa potenza autonoma non manifesta la sua forza specifica in
un adattamento formale alla natura, ma contiene piuttosto di per sé anche
contenuti spirituali, disposizioni e impulsi autonomi, dai quali sorge, in
un'azione reciproca con le esigenze della realtà sensibile, il ricco mondo
della storia. Nel suo campo l'autonomia, la legalità autonoma e la forza
creativa — meno familiari allo studioso della natura — dello sviluppo spirituale
nella religione, nella morale e nella cultura si presentano così chiaramente
che egli può applicarsi a questo campo considerandolo almeno relativamente
autonomo, e trattare i suoi problemi come problemi del mondo spirituale. In
questo nostro campo d’indagine risiede però anche il vero e proprio centro di
gravità della questione religiosa. Poiché la religione è un elemento
costitutivo della vita storica, le questioni principali che la riguardano si
collocano in campo storico. La scienza storica moderna, che si estende a epoche
e a regioni prima sconosciute, ha anche posto la fede cristiana di fronte a
problemi del tutto nuovi; e il sorgere di una storia comparativa delle
religioni l’ha scossa profondamente alla base. Fino al secolo xviri la teologia,
e la scienza in generale, conosceva soltanto — con eccezioni scarse e prive di
influenza — il presupposto rigorosamente soprannaturale del mondo cristiano,
cosicché il Cristianesimo riposava su una rivelazione comunemente ritenuta
soprannaturale e legittimata da miracoli che interrompevano il corso della
natura. Il pensiero scientifico si estendeva soltanto alla sua interpretazione,
non alla sua realtà di fatto. Di fenomeni concorrenti, non cristiani, si
conoscevano soltanto la mitologia greco-romana e l’Islam. La prima veniva però
considerata come la corruzione peccaminosa di residui di una conoscenza
risalente all’Eden, e il secondo come un’eresia del Cristianesimo. I suoi
miracoli erano, come quelli dell’eretico, scimmiottamenti del demonio. Al contrario,
la credenza in dio della filosofia greca non comportava alcuna concorrenza alla
rivelazione cristiana, ma rappresentava il frutto del « pensiero naturale », il
prodotto normale e canonico del lumen naturale, che costituiva nei confronti
della rivelazione un’analogia e un grado preliminare più o meno amichevolmente
apprezzato, di cui non si poteva fare a meno per la definizione € l’esposizione
del contenuto della rivelazione. Questo mondo angusto e ristretto, dai
presupposti storici semplici ed evidenti, fu distrutto dal secolo xvi.
Certamente, furono in primo luogo la moderna scienza della natura e la
metafisica moderna a porre in questione il miracolo e il soprannaturale, ma ben
presto questo effetto derivò in misura sempre crescente dalla ricerca storica.
Accanto al Cristianesimo, all’antichità e all’Islam si collocavano le altre
grandi religioni del mondo antico con le loro analoghe dottrine teologiche; e,
al di fuori del mondo cristiano, uno sterminato mondo « pagano» si apriva nelle
parti della terra recentemente dischiuse al commercio e descritte da resoconti
di viaggi molto ammirati. Ne venivano così posti doppiamente in dubbio gli
analoghi miracoli ed elementi soprannaturali della storia ebraica e cristiana,
e la pretesa unicità della Chiesa. Voltaire e Montesquieu amavano procedere
mediante questi paralleli tra religione cristiana e religione pagana.
L'applicazione dei nuovi metodi pragmatici e critici, approntati dal deismo ed
energicamente approfonditi dai teologi tedeschi del secolo xvi, si mostrava
possibile anche per la storia del Cristianesimo, e distruggeva sia la finzione
cattolica secondo cui la chiesa sarebbe la semplice prosecuzione del
Cristianesimo primitivo, sia la finzione protestante secondo cui la Riforma ne
costituirebbe la restaurazione. Tutte le impostazioni della precedente visione
confessionale della storia furono negate c sostituite da una nuova
impostazione, che inseriva la storia della rivelazione e della chiesa nel
generale pragmatismo storico. Ciò che il secolo xvilt aveva cominciato a fare
ancor sempre esitante, cercando in ogni cosa un’immutabile verità di ragione e
onorando in tutte le religioni, ma particolarmente nel Cristianesimo, la «
religione naturale », fu proseguito dal secolo xIxX con crescente successo e
con una smisurata estensio- ne. Esso ha dissolto la vita dell'umanità in una
corrente ininter- rotta di divenire storico, di trasformazioni continue,
mostrando- ne il frammento a noi accessibile nel suo movimento interno, e per
le parti a noi ignote — che si collocano prima e dopo tale frammento —
dispiegando agli occhi della fantasia l’immagine di trasformazione senza fine.
Ma esso ha soprattutto fornito sia ai singoli campi sia alla considerazione
complessiva della sto- ria metodi storico-filologici concreti — e in luogo del
metodo pragmatico quello genetico, che poggia sul presupposto di uno sviluppo
continuativo e omogeneo della vita spirituale, indaga le leggi di formazione
della tradizione presso i popoli antichi € proprio qui mostra come, muovendo da
queste tradizioni le quali offuscano ogni sviluppo e ogni condizionamento
naturale, si possa chiaramente ricostruire il corso reale delle cose. In quella
corrente impetuosa anche le religioni piccole e grandi — alle quali si
aggiungeva con l’inizio del secolo anche la religio- ne indiana appena
scoperta, insieme alle varie religioni ad essa imparentate — apparvero
nient'altro che onde che si alzano e si abbassano, infinitamente diverse e
senza quiete. Infatti dal nuovo metodo filologico scaturì naturalmente anche un’indagi-
ne del tutto nuova delle religioni antiche. E le « antichità reli- giose »
nella loro stretta connessione con il diritto, la politica, l'articolazione
della società, l’arte e la scienza dei popoli antichi, costituiscono il corpo
principale della tradizione. Miti e tradizioni, culti e leggi religiose vengono
sempre più riconosciu- ti nella loro connessione naturale con la vita
complessiva. Di qui scaturirono, alla fine, le indagini degli etnologi e degli
antropologi sui popoli « senza storia », le quali hanno mostrato la presenza
presso di questi di un gran numero di tratti molto prossimi alle tracce più
antiche dello sviluppo culturale e reli- gioso dei popoli civili e gettato
nuova luce sui loro inizi. Dalla cooperazione tra scienza dell’antichità,
filologia orientale ed et- nologia è così sorta una nuova grande disciplina, la
storia delle religioni, che è certamente elaborata in modo ancora molto
incompleto e diseguale, ma da cui provengono già ora, diretta- mente o
indirettamente, gli effetti più forti. I suoi metodi sono profondamente
penetrati nell’analisi della religione israeli- tica e cristiana. Nessuno
poteva più mettere in dubbio la sua splendida influenza nel campo profano ed
extra-cristiano; non appena la si applicò a fondo alla totalità della
tradizione cristia- na, si vide che questa chiave, capace di aprire tutte le
porte, si adattava anche qui alla serratura. La storia del Cristianesimo è così
stata inserita irrevocabilmente nella storia generale della religione, per
quanto si cercasse di nuovo di sottrarlo ad essa nei punti più importanti.
D'altra parte, anche l’indagine di principio sull’essenza e sulla verità delle
conoscenze religiose aveva bisogno di abbracciare con lo sguardo la
molteplicità storica delle religioni. Lo spirito del pensiero moderno, orienta-
to in senso storico, ha costretto in ogni campo filosofi e teologi a
considerazioni storiche, soppiantando il vecchio e più elemen- tare
procedimento, puramente logico-speculativo. In tal modo il cerchio della
considerazione storica religiosa si è chiuso da tutte le parti intorno al
Cristianesimo. Gli effetti di tutto ciò sono evidenti; ma essi sono più impor-
tanti di quel che si è in un primo tempo supposto e di quel che ancora oggi
spesso si suppone. La conoscenza prossima fu che tutti gli elementi
soprannaturali, e in particolare le relazioni causali asserite dal pensiero
giudaico-cristiano, sono scomparsi dalla concezione della storia del
Cristianesimo, e che questa storia è stata studiata secondo l’analogia con
altre tradizioni, mantenendo in pieno l’importanza che prima rivestiva. In tale
maniera il Cristianesimo ha però perduto la fondazione soprannaturale che lo
distingueva da tutte le altre religioni; la sua storia primitiva era solo più
la fonte, non più la sua prova. I suoi fondamenti storici, che avevano avuto
un’importanza deci- siva per la sua precedente concezione di se stesso, hanno
comin- ciato a vacillare, e ciò ha trasformato tutta la sua essenza. In tale
maniera, però, era minacciata non soltanto la sua sopranna- turalità, ma anche
— come presto è risultato — la sua singolari- tà e il suo valore esclusivo di
verità. Esso diventava solamente una delle grandi religioni universali accanto
all'Islam e al Bud- dismo, una religione che, al pari di queste, si è sviluppata
attraverso una lunga preistoria e che ha raccolto l'eredità di formazioni
storiche di larga portata. Dov'è rimasta allora la sua verità esclusiva o anche
soltanto la sua posizione di privile- gio, dov'è rimasta soprattutto la fede
nella sua rivelazione esclu- siva e unica? La questione dell’autenticità
dell’anello diventava ancora più grave di quanto era stata per la religione
razionale di Lessing. Ma la conseguenza va ancora più in là. Non soltan- to la
validità e la verità del Cristianesimo, ma anche quella della religione in
generale come campo autonomo e particolare della vita viene trascinata via da
questo vortice della molteplici- tà storica. Come può esserci comunque una
verità nella fede religiosa, la quale si manifesta in mille forme diverse, chiara-
mente dipendenti dalla situazione e dalle circostanze, e si ripor- ta a
rivelazioni che si presentano tutte come infallibili e univer- salmente valide,
o almeno come un'opera soprannaturale imme- diatamente procedente dalla
divinità, e che al tempo stesso si contraddicono completamente? Come può
esserci ancora una religione nell’infinita molteplicità e nelle profonde
differenze delle religioni, se la religione deve significare in verità una
comunità con la divinità? Non si dovrebbe almeno dire, con le note parole di
Schiller: «Quale religione riconosco? Nessuna di tutte quelle che mi nomini. —
E perché? per religione »'? Oppure con le parole di Goethe, che certamente non
esprimo- no tutta la sua autentica intuizione al riguardo: « Chi possiede
scienza ed arte ha anche la religione; 1. ScuitLer, Epigramme, Mein Glaube. chi
non ha né Vl’una né l’altra s'abbia la religione »?? Si tratta di una storia di
follia e di superstizione, nel miglio- re dei casi del rozzo precedente e del
surrogato popolare della filosofia e dell’arte, scaturito esclusivamente dal
pensiero e dal- l’errore umano, non dell’opera della divinità — per lo meno non
più e non diversamente di quanto lo sia qualsiasi altro evento — dal momento
che la divinità non può mettersi in dissenso con se stessa. Ma con ciò le
questioni riprendono da capo: perché allora queste innumerevoli vie traverse
delle reli- gioni per giungere alla verità della filosofia e dell’arte? perché
la necessità di un surrogato popolare? donde viene l’enigmatica autonomia e la
forza propria delle religioni, che ora si accorda- no con l’arte e la scienza
ispirandole alle più alte imprese, ora le annientano nel loro fiorire e ne
prendono il posto? donde viene il caratteristico contenuto interno di relazioni
coerci- tive e viventi con la divinità, che non può essere vissuto al- trove e
che la scienza e l’arte possono soltanto trarre dalla religione ? Qui stanno
infatti i problemi veri e propri per chi ha visto che la scienza naturale non
può decidere nulla in merito alla possibilità o impossibilità della religione,
o può decidere soltan- to le questioni preliminari più generali. Essi
costituiscono an- che la base più profonda della crisi attuale, sebbene la
cultura media continui ad attribuire questo progresso o questa sfortuna —
secondo il punto di vista — solamente alla scienza della natura. Come la
scepsi, che invade oggi tutti i campi, ha il suo fondamento principale nel
relativismo prodotto dal diffon- dersi degli studi storici, così ha qui la sua
radice, ora più con- sapevolmente, ora più inconsapevolmente, anche la
posizione contraddittoria della nostra migliore cultura nei confronti della
religione, che oscilla avanti e indietro tra un mezzo riconosci- mento e una
mezza contestazione, riconoscendo in qualche modo la verità e la necessità di
un fenomeno storico così potente e tuttavia non impegnandosi seriamente con
nessuna delle sue forme concrete. 2. GoetHE, Xenien. Ma le grandi crisi
storiche guariscono spesso — come Ja lancia di Odino — le ferite che hanno
inferto. Come la moder- na scienza della natura costringeva, proprio in virtù
della sua coerente elaborazione, a indagini gnoseologiche sulla causalità e
sulla sostanza, conducendo perciò al superamento del suo carattere
materialistico e naturalistico, così anche la nuova scien- za storica ha
costretto a cercare con maggiore profondità di prima le forze propulsive e
unitarie della storia. Se 1’Illumini- smo, ancora sottoposto all’influenza del
soprannaturalismo, ave- va riposto il contenuto della storia in una verità di
ragione sempre eguale, rigida, spiegando a partire da essa tutte le devia-
zioni e tutti i mutamenti in base a motivi puramente soggetti vi, la nostra
intuizione della storia procedeva all'indietro — sotto l’influenza delle nuove
idee poetiche di Lessing, Herder, Goethe — dai variopinti e molteplici fenomeni
esterni alle tendenze spirituali di fondo della natura umana che stanno alla
loro base e che sono in essi soltanto incorporate, e insegnava poi a
riconoscere di nuovo queste tendenze nella loro interna connessione come il
dispiegarsi della ragione umana complessi va, che nel corso dello sviluppo
dispiega il proprio contenuto spirituale — come un grande individuo —
attraverso la succes- sione delle generazioni. In tal modo è stata fondata la
grande intuizione moderna della storia, che costituisce il presupposto nuovo di
ogni scienza dello spirito: essa racchiude ancora in sé gravi problemi, ma si è
già dimostrata estremamente feconda. Da essa è sorta anche una nuova intuizione
della religione e del suo sviluppo storico. Anche nella religione si è
pervenuti, muovendo da forme fenomeniche infinitamente diverse, a un nucleo
interno, sempre presente e almeno formalmente identi- co, agli Er/ebnisse
interni della coscienza, che si cristallizzano e si ramificano a formare quelle
forme fenomeniche soltanto in virtù della cooperazione di varie condizioni
esterne. Era questo Erlebnis fondamentale ciò che occorreva comprendere e
analiz- zare. In base alle rivelazioni originarie e acquisite di questo
Erlebnis si doveva comprendere la formazione dei gruppi di religioni; e nel
sorgere di gruppi di religioni sempre più gran- di e comprensivi si doveva
riconoscere il dispiegarsi dell’idea religiosa. C'erano naturalmente vie molto
differenti per proce- dere a quest’analisi, e numerosi sono stati gli errori.
Il presupposto di un’indagine di questo tipo è naturalmente la conoscen- za
approfondita della storia empirica delle religioni, ma di tale conoscenza si
può finora parlare solo parzialmente. Nel complesso questa è la strada che si
accorda con la tendenza del pensiero scientifico, e che ha già condotto a molte
conoscenze fornite di valore. Dobbiamo soltanto imparare a considerare la
religione con occhio sempre più amorevole, sempre più libero da presupposti
dottrinali, razionalistici e sistematizzanti, e a studiarla in modo sempre più
penetrante proprio nei suoi carat- teristici e appariscenti fenomeni e
personalità specificamente religiosi, anziché nell'uomo comune. Allora ci si
disvela — co- me il nucleo più profondo della storia religiosa dell'umanità —
un Erlebnis non suscettibile di essere ulteriormente analizza- to, un fenomeno
originario ultimo che, al pari del giudizio etico e dell’intuizione estetica,
rappresenta un fatto ultimo e semplice della vita psichica, ma che è
caratteristicamente diver- so da entrambi. Noi riconosciamo leggi particolari —
proprie di questo campo della vita — nella formazione di idee e di norme, nella
produzione di simboli e di azioni religiose, nell’al- largamento, nella
crescita e nell’elaborazione, nella contrapposi- zione e nella lotta con forze
estranee o antitetiche; nell’aliena- zione e nell’approfondimento,
nell’intreccio con altri sistemi di vita e della concentrazione che ne viene di
nuovo fuori, nella formazione della tradizione e della comunità nonché nella
pro- duzione originale che continua sempre a sussistere accanto a queste, nel
rapporto degli spiriti produttivi con i fedeli ad essi subordinati. In tutte
queste formazioni diversissime vive pur sempre una realtà fondamentale unitaria,
ossia la religione, il contatto indeducibile, puramente fattuale, sempre
nuovamente vissuto, con la divinità. Si può passare da una religione all’al-
tra: anche le religioni tra loro più opposte possono comprende- re, con qualche
attenzione, il linguaggio religioso l'una dell’al- tra. Si tratta sempre della
stessa realtà, che viene colta in diver- si gradi e da diversi lati. Ma questa
unità non è l’unità rigida della religione naturale — come aveva ritenuto la
concezione della storia del secolo xvi — e non si basa sull’accordo tra ope-
razioni intellettuali coscienti; essa è invece fondata su una comu- ne tendenza
di movimento dello spirito umano, la quale spinge avanti in direzioni diverse e
si compie attraverso il movimento dello spirito divino che opera
misteriosamente nella profondità inconscia dello spirito umano unitario.
Incapace di raggiungere il suo fine nel breve tratto della vita individuale,
questo movi- mento si compie attraverso il lavoro in comune di innumerevo- li
generazioni che, afferrate e condotte dall’agire divino, si affidano ad esso
vivendone sempre più riccamente e profonda- mente l’intimo contenuto. Questo
movimento è uno sviluppo perturbato in vario modo, ma che in tutte le
perturbazioni si riprende sempre di nuovo, reca a realizzazione il contenuto
posto come possibilità e come nucleo nel sistema religioso di vita, mostra i
diversi gruppi di religioni nella loro relazione reciproca e nella loro
graduale successione, e nel corso stesso della storia porta alla luce — con la
contrapposizione di diverse religioni — il criterio della loro valutazione. In
tal modo si innalza davanti ai nostri occhi, anziché il caos, un cosmo di
religioni, a proposito del quale non si deve dimenticare che qui la successione
di gradi indica non soltanto una serie temporale, ma anche una contemporaneità.
Questo cosmo è stato spesso considerato un gioco che presenta in sfumature
quanto mai variopinte e ricche la realtà fondamentale comune, oppure co- me una
cooperazione di diverse verità parziali che costitui- scono la bella totalità.
Ma questa considerazione estetica, che faceva della storia delle religioni uno
spettacolo ricco e bello per la divinità, contraddice sia il vero senso
dell’idea di svilup- po sia l’essenza reale delle religioni. L'idea di sviluppo,
tratta attraverso diverse idee mediatrici dai fenomeni spirituali del movimento
di un fine unitario, si spinge fino al conseguimento di questo scopo finale a
cui sempre si tende e che sempre agisce; e le grandi religioni tanto meno si
arrestano in sé quanto più hanno compreso il loro fine, ma anzi tendono con
passione spesso struggente verso la verità totale e intera. Soltan- to dove
l’idea di sviluppo viene mantenuta nel suo senso pieno, essa non opera in modo
snervante e distruttivo; e soltanto dove le religioni sono animate da questa
passione, esse hanno una vitalità intima che le spinge in avanti. Perciò
occorre in ultima analisi, e soprattutto, rintracciare il fine o almeno la
tendenza al fine della storia delle religioni, la quale non può trovare il suo
termine nei sistemi della scienza e dell’arte ad essa prossi- mi oppure in un
concetto astratto di religione elaborato in base a varietà delle religioni, ma
soltanto in una religiosità concre- ta, particolarmente profonda e potente,
particolarmente forte e coniata in forma pura. Essa deve contenere i momenti di
verità delle altre o potersene appropriare, e deve in ogni caso incorpo- rare
in modo vivente l’idea centrale che emerge dal loro svilup- po. In quale misura
essa sia configurata unitariamente e in quale misura possa penetrare
universalmente, nessun postulato può stabilirlo 4 priori. Si tratta soltanto di
un postulato che deriva dallo stesso sviluppo religioso, in modo tale da
fornire una tendenza al fine e da fare sì che essa si renda riconoscibile,
almeno come avviamento e come tendenza verso il futuro. Il vecchio metodo della
teologia soprannaturalistica ne risul- ta pertanto capovolto. Essa muoveva dal
presupposto, assunto come ovvio, che il Cristianesimo costituisce — a causa del
suo carattere soprannaturale — l’unica verità, e si curava soltanto di porre le
altre poche religioni conosciute in un rapporto tollerabile con questa
religione soprannaturale, ed essa sola ve- ra. La sua filosofia della storia
collegava immediatamente il Cristianesimo, inteso come restaurazione
soprannaturale, al per- fetto e semplice inizio dell’umanità; la molteplicità
delle altre religioni non era che un prodotto dell’offuscamento successivo al
peccato, e i loro elementi di verità erano residui dell’antica perfezione dello
stato originario. Il Cristianesimo era non sol- tanto la suprema e più profonda
redenzione, ma l’unica reden- zione operata immediatamente da Dio, mentre tutte
le altre religioni nascevano esclusivamente dal pensiero e dall’errore umano, e
la loro fede di redenzione doveva essere stata soltanto auto-redenzione in base
a una forza naturale. La ricerca storica moderna costringe a percorrere il
cammino inverso. Essa mo- stra che questo soprannaturalismo e questa forma di
fondazio- ne costituiscono un modo, comune a tutte le religioni superio- ri, di
esprimere la loro convinzione della propria verità. Essa distrugge l’idea di un
semplice inizio soprannaturale dell’uma- nità, e mostra anche presso i devoti
dell’Indo e delle montagne persiane la forza profondissima e vivissima della
fede redentri- ce e della comunanza immediata con Dio. Essa percorre in tal
modo la via dall’universale al particolare, dall'indagine della religione come
contatto particolare con la divinità, che ha luo- go ovunque, all’indagine dei
particolari ambiti concreti di religione. Cercando di coglierli nel loro
rapporto interno, in una prospettiva storico-evolutiva, essa va alla ricerca
del prodotto supremo di questa storia, guidata dalla convinzione — certamen- te
indimostrabile, e che rappresenta essa stessa una fede etico-re- ligiosa — che
la storia non è un gioco di varianti senza fine, bensì il dispiegarsi del
contenuto più profondo e unitario dello spirito umano. Ai suoi occhi la storia
della religione è una storia di Dio con gli uomini, una storia della redenzione
che eleva l’umanità e l’uomo singolo al di sopra del legame con la mera natura
sensibile, con il bisogno e con l’aspirazione pura- mente naturale, fino alla
comunità con Dio e alla libertà dello spirito sul mondo e sulla mera, ottusa
fattualità dell’esistenza. In quanto la storia della religione raggiunge in
questo modo, o meglio realizza, la verità — in grado diverso secondo la situa-
zione e le condizioni — vincolando l’uomo con il fondamento più profondo della
sua esistenza e con l’insieme dei suoi beni spirituali, ne è nata la
convinzione che in essa, e in essa soltan- to, si raggiunge un reale progresso
della storia e che essa può credere, del tutto diversamente dalla storia degli
altri campi della vita, nel conseguimento di uno scopo definitivo e sempli- ce.
Mentre la morale, il diritto, la cultura, la scienza e l’arte si riferiscono a
una situazione mondana sempre mutevole e sono perciò sempre costrette a
comportare nuovi impercettibili adat- tamenti, innumerevoli dissoluzioni e
nuove formazioni, la reli- gione ha invece a che fare con il fondamento eterno,
sempre identico a se stesso, della vita. Penetrandolo sempre più profon-
damente, essa può ritenere possibile raggiungere quella misura di verità e di
unificazione interna che è in generale concessa al- l’uomo sulla terra —
certamente sempre intrecciata, in relazioni continuamente mutevoli, con la
situazione complessiva che si trasforma, in lotta con le potenze contrapposte
dell’inerzia, del peccato, dell’esteriorizzazione egoistica, e creando, in base
alla verità una volta raggiunta, una sempre nuova e più profon- da forza
vitale, ma pur sempre nella certezza di avere vissuto ed esperito il nucleo del
mondo soprasensibile. Si tratta di un postulato di cui nessuno, che abbia
riconosciuto nella religione un campo autonomo della vita, può fare a meno.
Certamente, a questo punto si aprono i problemi ultimi e più profondi, le
questioni fondamentali della storia: perché abbia luogo in generale una storia;
perché gli uomini debbano essere tratti fuori e liberati dalla balia della
natura e delle sofferenze da essa a noi inflitte, dall’inerzia e dall’egoismo,
soltanto in virtù della reli- gione; perché le condizioni di questo processo e
i suoi effetti siano talmente differenti e non si possa parlare di una
possibili- tà identica per tutti di partecipare al suo frutto; perché innume-
revoli generazioni e individui debbano venir consumati in esso, e pur sempre
rimanere differenze di grado; se, e come, tutta questa diseguaglianza potrà mai
essere appianata. Queste sono le questioni ultime e più profonde che un’epoca
fornita del coraggio della speculazione cercherebbe di illuminare mediante una
speculazione che muova dai fatti della vita interiore, e nelle quali un’epoca
stanca di speculazione come la nostra vene- ra invece rassegnata i limiti della
conoscenza umana; questioni a cui risponde in modo oscuro e logoro, ma profondo
e com- prensivo, la religione stessa attraverso la dottrina dell’amore creativo
di Dio e della vita dopo la morte, dell’auto-redenzione di Dio nell’elevazione
dei regni degli spiriti finiti alla comunità con lui. Non sono quindi queste
questioni ultime a dover essere ancora indagate se si deve risolvere il
problema posto dalla considerazione storico-religiosa. E neppure può trattarsi
di ga- rantire l'assunzione fondamentale qui presupposta — cioè che la
religione è un campo di vita autonomo, un contatto interio- re con la divinità
— contro le obiezioni che dalla pienezza delle particolarità storiche traggono l’occasione
per una spiega- zione di tipo illusionistico la quale deriva la religione,
intesa come prodotto secondario, da altri fatti fondamentali. Ogni D
spiegazione del genere naufraga sempre dinanzi al fatto che la religione non
può essere derivata dal pensiero causale o dall’im- pulso filosofico, e neppure
dalla fantasia e dal bisogno di felici- tà: ciò risulta particolarmente chiaro
nelle più eminenti perso- nalità religiose, in cui opera ancora la forza
completa dell’ispi- razione e la religione non si è ancora risolta in teologia,
in etica o in culto, ma anche ogni fedele può constatarlo in se stesso, nella
sua propria esperienza. Egli segue una coercizione che lo trascende, una
tendenza verso qualcosa che non trae origine dal mondo delle esperienze sensibili
e dai bisogni sensi bili, ma che doveva già essere contenuto nel sentimento
prima di poter essere manifestato o postulato. Per una spiegazione realmente di
tipo illusionistico resterebbe soltanto l’ipotesi — che è stata anche tentata e
che da molti punti di vista sarebbe ancora la più accettabile — che si richiama
a una follia conta- giosa, ad allucinazioni di visionari invasati, le quali poi
si sarebbero trasmesse, in forma più debole, ai comuni fedeli mantenendo sempre
un’enigmatica forza di contagio. Su un'ipo- tesi siffatta non si può
naturalmente discutere: essa significa soltanto il riconoscimento del fatto che
nella religione siamo sempre di fronte al fenomeno fondamentale ultimo — non
ulteriormente risolubile, che rimane sempre enigmatico e in- commensurabile —
della vita spirituale, e che in esso è presen- te un proprio autonomo principio
di sviluppo condizionato sì dal resto della vita, ma non esclusivamente
prodotto da essa. Si può quindi restare fermi, in generale, all’intuizione
fondamen- tale già ricordata, ossia alla filosofia della storia di Hegel, di
Schleiermacher e di Humboldt, che riconosce nella religione un fenomeno
universale della vita spirituale e applica alla sua sto- ria l’idea di
sviluppo, che può condurre soltanto a uno studio sempre più realistico e
impregiudicato dei fenomeni specifica- mente religiosi e che dev'essere
liberata dalla connessione trop- po stretta — e ancora dominante — della
religione con intuizio- ni complessive di carattere metafisico ed estetico. Le
questioni che scaturiscono da tale concezione sono piuttosto quelle che si
riferiscono, in modo particolare, al rapporto della molteplicità e relatività
storica con l’unità ultima e con la propria verità, postulato della fede
religiosa. E proprio per gli storici che si immergono nella pienezza della
realtà sorgono sempre di nuo- vo certi problemi: come si possa, da questo punto
di partenza, Spiegare o piuttosto sostenere, in rapporto a quella tendenza
all’assoluto, l'effettiva diversità delle concezioni religiose fonda- mentali,
la diversità di intensità e di purezza, la debolezza di vita religiosa che
caratterizza talvolta interi periodi e interi popoli. L’altra questione, che
tocca in maniera ancora più im- mediata l’interesse generale, è se realmente
una delle religioni concrete oppure — dal momento che esso rappresenta la gran-
de religione storica dell'ambito di cultura europeo-america- no, € può
praticamente costituire per noi il culmine dello svi- luppo religioso,
collocandosi sicuramente, per interiorità e attività religiosa, ali sopra del
Giudaismo, dell'Islam, del Buddi- smo e del Bramanesimo — se il Cristianesimo
possa essere real- mente considerato il punto di convergenza della vita religio
sa e il fondamento di ogni sviluppo ulteriore. Per rispondere alla prima
questione occorre riflettere che il concetto di religione è rimasto, con quanto
si è detto, ancora assai indeterminato e incompiuto. La storia della religione
mo- stra piuttosto chiaramente, per quanto è possibile, che la religio- ne non
può essere un’azione di Dio sul sentimento, chiusa internamente in sé a ogni
altra realtà, immediata e sempre ripro- ducentesi in modo spontaneo. Che essa
sia questo, lo afferma ovunque soltanto la teoria della mistica, cioè di quel
particola- re risultato di complicati sviluppi storico-religiosi che compare
ogni volta che si è smarriti dinanzi alle singole forme concrete della fede in
Dio e si ritorna a un'azione ineffabile e sempre eguale di Dio sull’anima,
oppure quando, rifuggendo paurosa- mente da ogni esteriorità e da ogni
mediazione, si aspira a una comunanza il più possibile interiore e immediata
con Dio. Il vuoto e l’auto-limitazione priva di rapporti comunitari di questa
devozione, la concentrazione artificiosa che si punisce con l’irritazione e la
spossatezza, il distacco dal mondo mostra- no fin dall’inizio quanto poco si
tratti di fenomeni normali. Una teoria del genere passa anzi sopra fatti di
importanza fondamentale. Quell’influenza divina non si compie cioè in ogni uomo
in maniera nuova e autonoma, e in modo puramen- te interiore come se fosse una
specie di magia dell'anima, ma si compie attraverso mediazioni di vario genere.
L'impressione religiosa o — per impiegare un’immagine tratta dalla psicolo- gia
empirica — lo stimolo religioso scaturisce sempre soltanto da avvenimenti e da
esperienze vissute di tipo esterno e inter- no, nella natura e nella storia,
nella coscienza e nel cuore. Per la grande maggioranza degli uomini l’elemento
mediatore del- lo stimolo religioso è la tradizione religiosa, accanto alla
quale stimoli religiosi indipendenti rivestono un'importanza solita- mente più
ristretta. L’enigma proprio dello sviluppo religioso individuale consiste nel
vedere come da tradizioni non compre- se, dapprima estranee e interpretate in
modo infantile, sorga gradualmente la devozione autonoma, interiore e
personale, la quale è cosciente, almeno nei punti più alti, della sua comunanza
interiore e della sua relazione reciproca con la vita divina. Se ci si
riferisce però all’origine di questi ambiti di tradizione — talvolta racchiusi
l’uno nell’altro © incrociantisi tra di loro — ci si imbatte, dove è possibile
risalire fino agli inizi di una religione, in personalità straordinariamente
originali che, legate meno strettamente alla mediazione della tradizione,
ricevono dai grandi avvenimenti della natura o della storia, dai destini della
vita individuale o dai processi della loro vita interiore lo stimolo a nuove
grandi intuizioni, attraendo le altre sotto la potenza della loro devozione e
della loro personalità. Quanto più queste concezioni fondamentali, che
compaiono in modo puramente fattuale e non possono venir derivate da altre,
sono profonde e personali, e collegate con avvenimenti grandi e importanti,
tanto più esse si presentano come nuclei di grandi contenuti di vita, come
princìpi che si dispiegano nel lavoro di molte generazioni. I visionari, gli
estatici e gli ispirati delle antiche religioni, i profeti, i riformatori e i
santi sono di solito personalità di questo genere, e la loro caratteristica
principale è un’enorme unilateralità che respinge tutto il resto, e mediante la
quale soltanto essi possono produrre tale effetto. Ma, una volta dischiusa da
essi in questo modo determinato, la comu- nanza con Dio crea un allargamento e
una diffusione straordi- naria dei rapporti fondamentali così dati. Essa si
sviluppa finché possiede una forza di sviluppo non ancora utilizzata e finché
non viene sopraffatta da impressioni più potenti. Il fatto che nel campo della
religione, come in tutti gli altri, le disposizioni e le capacità siano
diverse, che il con- tenuto e la portata di un principio religioso possano
essere sviluppati soltanto mediante il lavoro di appropriazione di mol- te
generazioni, che l’esperienza religiosa scaturisca da elementi diversi di una
realtà infinitamente varia, e che in tale maniera l’unica verità sia colta
diversamente in differenti concezioni fondamentali — tutto ciò è inerente
all’enigma stesso della storia, la quale distribuisce il contenuto della vita
spirituale nel lavoro di miliardi di uomini, e il cui mistero è noto soltan- to
a Dio. Ma tutto ciò non cancella la fede che in questa molteplicità sia vissuta
una verità unitaria. Procedendo dalle differenze condizionate dal luogo e dal
tempo, da particolarità personali e storico-culturali, dalla mescolanza dei
nomi di divinità e delle mitologie, da alienazioni e da deformazioni infanti-
li e rozze, o egoistiche e sacrileghe, fino al nucleo unitario, troviamo sempre
una verità molto affine. Osserviamo il grande terrore dinanzi al mistero di un
mondo soprasensibile che si introduce nel corso della vita quotidiana e che
desta l’uomo, ora spaventandolo ora consolandolo, dal sonno di un'esistenza
puramente intra-mondana; la manifestazione di forze divine nella natura, da cui
scaturisce in definitiva una sensibilità pan- teistica; l'autorizzazione di
norme etiche e giuridiche da parte della divinità, la quale si rivela come
sacra ed esige anzitutto purezza e verità, dirittura e rigore nell’agire. In
particolare, beni superiori e beatificanti si collocano al di sopra del mondo
sensibile, un elemento permanente ed eterno si eleva sul mutare del desiderio e
del bisogno, e da ciò sorge la fede nella reden- zione, che nella religione in
generale riconosce la redenzione dal dolore e dalla colpa, dal carcere
dell’insoddisfazione eterna- mente mutevole. Tutte queste cose possono essere
viste come oggettivamente connesse, come impulsi verso una concezione unitaria;
e la questione del perché gli individui prendano parte in modo così diseguale
alla piena verità oggettivamente connessa non può turbare questa conoscenza, in
quanto è una questione eternamente insolubile sulla terra. In base al medesimo
fatto fondamentale della mediazione di tutte le spinte religiose si spiegano
però, in collegamento con un secondo fatto fondamentale, anche gli altri
fenomeni che abbiamo menzionato: la diversa intensità e direzione dell’inte-
resse religioso, la debolezza della vita religiosa, che non sem- pre dipende
soltanto da ottusità e da rifiuto nei confronti dell’e- levazione ideale o da
una consapevole opposizione. Non parlere- mo qui, in quanto si tratta di cose
ovvie, di quest’ultimo condi- zionamento da parte dell’inerzia, dell’egoismo,
della rozzezza e dell’esteriorità, né degli effetti della lotta continua della
religio- ne contro gli impedimenti ad essa opposti dalla volontà. Occor- re
considerare piuttosto altre cose. L'intuizione di Dio non è isolata in sé, e
neppure è un'esperienza vissuta accolta passiva- mente. Essa è fin dall’inizio
rivestita di determinati tratti di simbolizzazione poetica, e opera mediante
riferimenti concreti a certi campi di fenomeni naturali o etici e con
determinati strumenti di espressione linguistica. Agendo come stimolo
sull’anima in virtù di questo contenuto concreto, essa suscita im- mediatamente
— al pari di ogni altro stimolo — una quantità di reazioni, cosicché non può
mai liberarsene in tutta la sua purezza, ma in ogni momento della sua influenza
è sempre indissolubilmente collegata con le più svariate reazioni psichi- che.
La connessione è qui più stretta e ramificata di quanto non avvenga per
qualsiasi altro stimolo, perché l’esperienza religiosa è l’esperienza
dominante, che attrae o respinge ogni cosa, e perché eccita più di ogni altra
il sentimento in tutte le sue sfumature. Esiste anche un'« appercezione »
religiosa in vir- tù della quale lo stimolo religioso penetra immediatamente
nel- la connessione di tutte le rappresentazioni e di tutti i sentimen- ti, e
ne viene influenzato nella sua direzione, nella sua forza e nel suo ambito,
anche se poi dà a sua volta nuove linee diretti- ve e nuove intonazioni
all’intera struttura. È noto che le natu- re specificamente religiose
intrecciano impetuosamente, nelle loro idee religiose fondamentali, tutto ciò
che è vicino e ciò che è lontano, oppure respingono tutto quanto si oppone, o
che non si connette immediatamente, come cose del mondo e cure quotidiane; allo
stesso modo coloro che hanno il loro centro di gravità in altre disposizioni,
adattano la religione a interessi scientifici, etici, estetici, cercando di
mediarla con il resto oppu- re, dove quest’adeguazione risulta impossibile, di
respingerla. Nelle condizioni di quest’appercezione, differente in ogni indi-
viduo, risiede per lo più il motivo delle enormi diversità indivi- duali
all’interno di ogni particolare ambito religioso, delle di- verse
rappresentazioni e sensazioni religiose, della diversa posi- zione e forza
dello stimolo religioso all’interno del contenuto psichico complessivo, della
prevalente dipendenza dalla tradizio- ne e dal simbolo, della prevalente
autonomia e reazione, della diversa misura di forza trascinante e di
appropriazione riflessi- va. Quanto più sviluppata e più ricca è la vita
spirituale, tanto più intricate e impenetrabili diventano le condizioni di quell’ap-
percezione, e tanto più energicamente la religione richiede quel raccoglimento
e quell’attenzione silenziosa allo stimolo religio- so, che si chiama devozione
e preghiera. Non si deve quindi dimenticare che gli individui non stanno soli,
ma innalzano, nella più stretta relazione reciproca, certe inclinazioni e certe
tendenze a potenze socialmente dominanti. Così anche dal punto di vista
religioso vi sono epoche prevalentemente conservatri- ci ed epoche
prevalentemente critiche, in cui ora la tradizione consolidata nel culto e
nella chiesa domina ogni cosa con il sentimento di una sacralità intangibile,
ora un'autonomia criti- ca suscitata da sconvolgimenti generali della vita
spirituale si ribella mettendo in questione la legittimità e la connessione di
ogni idea. Così può esserci alla fine, dopo violente lotte religio- se, un
periodo di fastidio che si rivolge alle cose del mondo e di più facile
acquisizione; può esserci, sotto l’influenza di gran- di movimenti materiali,
politici e sociali, o sotto l'influenza di conoscenze scientifiche, una
crescente ripugnanza di grandi masse nei confronti della religione, come
dimostrano per esem- pio la cultura dell’età imperiale romana, la morale
confuciana delle classi superiori della Cina — non areligiosa ma assai povera
dal punto di vista religioso — e le moderne condizioni della vita europea. In
modo analogo si devono intendere anche le situazioni di debolezza della vita
religiosa di alcuni popoli primitivi, a cui se ne contrappongono altri forniti
di un fervore molto più vivo e relativamente puro. Anche qui ci sorprende di
nuovo, naturalmente, la partecipazione misteriosamente dise- guale
dell'individuo al valore ultimo dell’esistenza e l’inevitabi- le unilateralità
di tutto cid che è umano; ma di per sé la religione è, e rimane, essenzialmente
la stessa. Non abbiamo nessun motivo di dubitare della sua essenziale unità
interna. Si tratta della medesima verità, che viene raggiunta da diverse parti
e in un diverso rapporto con gli altri elementi della vita spirituale. Con ciò
siamo di fronte alla seconda questione precedente- mente accennata: se cioè vi
sia un punto di convergenza, un culmine che emerga in modo visibile, tra queste
diverse conce- zioni parziali della verità o, più precisamente, se il Cristianesi-
mo — che vuole esserlo — possa anche realmente valere come tale. Il motivo che
ci induce a formulare in modo così determi- nato la questione non è la
propensione ad assolutizzare la reli- gione in cui siamo nati e siamo stati
educati, e che sola ci è completamente familiare, facendone l’essenza della
verità in ge- nerale. Infatti il suo dominio non è più così ovvio e ingenua-
mente immediato che si debba senz'altro sottostare a questo impulso di
universalizzazione. L'ottimismo del sentimento panteistico della natura che
sempre si sprigiona dall’arte antica e, dall’altro lato, l'impressione delle
religioni pessimistiche e pie- ne di mistero dell'Oriente agiscono tra di noi
in modo abbastan- za forte da costringerci a una decisione pienamente
consapevo- le. Da questa impostazione viene fuori anche non soltanto il
necessario postulato che la piena verità della religione deve pur rivelarsi in
qualche luogo. In sé e per sé, ciò potrebbe essere forse riservato solamente a
un lontano futuro. Se impo- stiamo così la questione, il motivo è che soltanto
il Cristianesi- mo nel suo sviluppo ha avanzato in modo sempre più netto e
penetrante questa pretesa. Sorretto dall’autorità del tutto inte- riore e
personale — ma che conteneva in sé un residuo di incommensurabilità — del suo
maestro, esso si rivolge esclusiva- mente al nucleo interiore dell'individuo,
ai bisogni più universa- li, più profondi e più semplici di quiete e di pace
del cuore, a un senso positivo, ultimo, definitivo dell’esistenza; si rivolge a
ogni individuo senza eccezione, poiché presuppone presente in ciascuno questo
nucleo essenziale ed è sicuro di poter educare tutti a tali bisogni. Pace
dell’anima con Dio, e quindi supera- mento della sofferenza del mondo e di
tutti i dolori della coscienza, ma anche viva e attiva realizzazione della
volontà divina; il comandamento dell’amore verso i fratelli, che sono fratelli
in virtù del Padre comune: ecco il suo vangelo. Da ciò scaturisce anche la
comunità più salda e comprensiva, in quan- to esso fa derivare l’origine
dell'essere umano dallo spirito divi- no e lo riconduce al fine della comunità
con Dio e con i fratelli, costringendo ogni credente a collaborare a quella
uni- versalità e al fine della perfezione comune. Esso è quindi l’uni- ca
religione che pretenda una universalità assolutamente incon- dizionata, l’unica
che abbia perciò prodotto dal proprio seno una filosofia della storia che
connetta inizio, metà e fine della storia dell'umanità, e che in questa storia
riconosca una realtà in sé internamente connessa, irripetibilmente specifica e
al servi- zio di fini incondizionatamente validi. Ma soprattutto si tratta di
una validità universale non asserita solamente in linea di fatto: essa
scaturisce per il suo sentimento dall’intima necessità dell'essenza di Dio, che
creando il mondo deve poi ricondurre a sé le sue creature traendole dal mondo e
dall’errore, dalla colpa e dallo scoramento. La sua grazia non è arbitrio, e i
suoi comandamenti non sono una mera statuizione; l’una e gli altri emanano
dalla sua essenza e si realizzano dall’interno median-te l’amore per Dio, che
per primo ha amato i suoi figli. Qui la tendenza della religione alla validità
universale ha raggiunto la sua vetta: tutto ciò che è particolare, proprio di
un popolo, condizionato dal mondo, è spazzato via; ogni dipendenza da una
situazione meramente data, sempre incoerente, è superata dall’universalità di
un fine ancora da raggiungere, ma già fon- dato nella sua determinazione e
nella sua essenza. Certamente, ciò mostra anche l’unilateralità del tipo di
vita determinato in modo prevalentemente religioso. Ma, secondo la legge — che
domina anche la religione — della differenziazio- ne dell’essenziale, questo
non costituisce nulla di sorprendente, e neppure costituisce un limite. Non si
può concepire come essenza dei gradi supremi un monismo di valori culturali che
non differenzia nulla, ma soltanto una costituzione dello spiri- to che
sviluppi coerentemente le singole tendenze riequilibran- do le tensioni che ne
sono derivate. Proprio in quella unilatera- lità il Cristianesimo raggiunge la
piena interiorità e l’universali- tà puramente umana. La tensione così
determinatasi, e ora più che mai aperta, nei confronti dei valori culturali
intra-monda- ni dà al tutto il carattere della vita spirituale superiore, si
riunifica sempre di nuovo nel lavoro vivente e consapevole. In tutte le sue
trasformazioni e le sue mescolanze, in tutte le caricature e gli abomini, in
tutte le stagnazioni e gli irrigidi- menti, il Cristianesimo annunciava
tuttavia questa tendenza — superiore a ogni cosa — verso ciò che è
individuale-personale, verso ciò che è universalmente umano, verso ciò che è
totale e ricco di tensione. Lo conferma anche lo sguardo alle altre grandi
religioni universali, che soltanto possono essere prese in considerazione
accanto al Cristianesimo. L'Islam, il fratello più giovane scaturito dal
Giudaismo insieme con il Cristianesimo, ha accolto da essi in modo puramente
estrinseco questo univer- salismo, insieme alla forma della rivelazione
scritturale e ai frammenti della sua filosofia della storia. Esso gli inerisce
sol- tanto per l’unità del suo dio e per la semplice intelligibilità dei suoi
pochi e poveri comandamenti morali, ma non discende dall’intima necessità
dell'essenza del suo dio, che anzi è un dio caratterizzato da un duro e
imprevedibile arbitrio. L'Islam rappresenta una regressione rispetto al
Giudaismo e al Cristianesi- mo, e non ha mai potuto nascondere del tutto il suo
carattere di religione guerriera nazionale araba. Il Buddismo — per vari
aspetti parallelo al Cristianesimo — è fin dall'inizio soltan- to la religione
di un ordine monastico, al quale possono e devono accostarsi tutti coloro che
hanno riconosciuto la nullità della volontà di vivere, e dal quale scaturisce
quindi un vivo impulso missionario. Ma la sua validità universale è conseguen-
za semplicemente della validità universale di questa conoscen- za, non già
dell’essenza di una divinità che chiami tutti a un fine comune — al cui posto
si presenta qui piuttosto un ordine impersonale di redenzione. L’ordine degli
illuminati presuppo- ne pur sempre la grande massa degli sprovveduti e dei
laici, che forniscono sostentamento al monaco. La grande maggioran- za ritorna
sempre nel circolo della migrazione delle anime e costituisce soltanto la massa
da cui i sapienti si separano e della cui carità vivono fin quando scompaiono
nel Nirvana uscendo dal cielo delle anime. Questo processo si ripete senza fine
e senza connessione in periodi cosmici che si susseguono all'infinito; ma
sempre alcuni illuminati si separano dal mondo della parvenza, e sempre la
massa rimane imprigionata in que- sto stesso mondo della parvenza. Come il
mondo non ha nes- sun fine positivo unitario, così non l’hanno la vita e la
devozio- ne. Si aspira all’ordine e si apprezza la pace della redenzione, ma
nessuna necessità interiore costringe tutta l’umanità a unir- si in vista di
essa. Per quanto l'universalità della religione possa farsi valere in esso,
così come nell’Islam, e per quanto venga talvolta reclamata, la pretesa
dell'uno e dell’altro è — per estensione di fatto e nella sua fondazione — meno
intensa che quella del Cristianesimo. Questo è l’unica religione che si
riconosce e si afferma incondizionatamente, in virtù della pro- pria forza
religiosa, come verità universalmente valida, e che perciò consegue di fatto
ciò che è insito nella tendenza della religione in generale. Esso è l’unica
religione che, in base al proprio impulso vitale, ottiene sempre la vittoria
sull’inclinazio- ne all’irrigidimento dogmatico e rituale; l’unica che non si
irrigidisce nella legge, né si fissa, nel concepire l’idea di reden- zione,
semplicemente nella negazione. Che essa sia veramente conclusiva, e immutabile
nella sua essenza per tutto il futuro, non si può certo dimostrare median- te
una semplice costruzione storico-filosofica. Per quanto con- vinti possiamo
essere che nella storia delle religioni ha luogo un progresso continuativo, il
quale poggia sul movimento inter- no dello spirito divino in quello umano, non
possiamo tuttavia proporre un concetto generale della religione come forza di
questo sviluppo, e presentare il Cristianesimo come il suo neces- sario
compimento. Quel concetto potrebbe essere proposto sulla base di un’esperienza
difettosa ed essere trasformato in modo sostanziale da sviluppi futuri. Né
possiamo indicare nel Cristia- nesimo la convergenza effettivamente realizzata
delle diverse serie di sviluppo, per quanto possiamo trovarvi la trascendenza
astratta del Giudaismo attenuata mediante l’assunzione degli inevitabili
elementi panteistici del paganesimo, e l’antitesi supe- rata mediante un'unità
superiore. Infatti soltanto ai nostri giorni si profila l’incontro tra gli
abitanti del nostro pianeta, e quindi una convergenza delle diverse linee di
sviluppo. La discussione e la convergenza del Cristianesimo con le religioni
orientali appartiene ancora al futuro, e accentuerà forse in modo sorpren-
dente nel Cristianesimo aspetti rimasti finora non sviluppati. Tutte le
costruzioni del genere poggiano su un’intuizione della storia che risulta
inevitabile — nella sua idea fondamentale — per ogni considerazione religiosa e
idealistica, ma non sono sufficienti a fornire una prova. Questa sarebbe forse
possibile soltanto alla fine dei giorni. L'unico elemento che può essere fatto
immediatamente vale- re a conferma della pretesa del Cristianesimo è la
circostanza che a questa sua singolare pretesa corrisponde anche un'effetti- va
singolarità del suo contenuto e della sua essenza, che si presenta chiaramente
a una ricerca storico-religiosa. D'altra par- te le religioni costituiscono
un'unità che progredisce nel suo complesso, e si può riconoscere una tendenza
generale diretta a una spiritualizzazione, interiorizzazione, eticizzazione e
indivi- dualizzazione crescente, e quindi — poiché questa è la necessa- ria
conseguenza — al formarsi di una fede sempre più profon- da nella redenzione: a
ciò si è già accennato sopra. In tutte le grandi religioni ha luogo uno
sviluppo caratterizzato in questo modo. Attraverso la liberazione dai fenomeni
naturali esso spiri- tualizza le divinità, fino al tramonto di tutte le
divinità particolari in un’essenza divina universale, in cui esse diventano
forme del suo agire; attraverso l’eticizzazione delle singole divinità e la
compenetrazione religiosa della morale esso traduce in forma etica la divinità,
facendone il nucleo e il custode delle leggi etiche, e subordina la fede negli
spiriti alla fede negli dèi in un’escatologia più o meno influenzata da motivi
etici, mentre le divinità che non si inseriscono in questo processo diventano
dèi locali, demoni e spiriti cattivi. Facendo sì che gli dèi si rivolgano alla
coscienza e alla volontà, anziché semplicemente all’obbedienza culturale e alla
scrupolosità cerimoniale, esso po- ne la divinità in relazione con l’individuo
in quanto tale, non più soltanto con la famiglia, la stirpe, lo stato e la
conclusione di un'alleanza. Con l’individualizzazione comincia infine a
emergere il carattere universalistico della religione. Ma pro- prio con questo
esso innalza Dio sopra il mondo e sopra la natura, facendone la fonte
originaria più profonda, che si fa valere al di là di ogni finitudine e di ogni
confusione, e con la divinità solleva al tempo stesso l’uomo dalla
frammentarietà, dalla dispersione e dall’inquietudine del finito, così come
dalla colpa e dal destino della vita terrena. Secondo la quantità di forza che
fin dall’inizio ha posto nella concezione fondamenta- le, questo processo va
più o meno avanti: qui si arresta prima, là più tardi. Ma anche dove le religioni
pervengono a una completa altezza e maturità, dove sboccano nella mistica e
nella fede nella redenzione, il limite inerente al fatto di essere sorte
dall’adorazione della natura non viene per lo più supera- to. Esse conservano
le tracce della loro origine particolaristi- ca e naturalistica, capovolgendosi
in speculazioni sacerdotali fantastiche, in una filosofia monistica, in una
mistica acosmisti- ca o — com'è il caso del Buddismo — in una metodica scettica
della redenzione. L’eticizzazione già conseguita sprofonda di nuovo nell’abisso
del panteismo, e la religione popolare decade in culti orgiastici o in una
rigogliosa superstizione sincreti- stica, che la riporta all'antico politeismo.
Soltanto «ra reli- gione ha rotto completamente l’incanto della religione
naturale e si presenta, in quanto tale, in forma singolare: la religione di
Israele e il Cristianesimo. Davanti all'imminente decadenza del suo popolo, la
religione di Israele si è sostanzialmente svin- colata dai suoi fondamenti
particolaristici e naturalistici, collegando la fede in Jahvè con la purezza
del cuore e con la certezza di una chiarificazione risolutiva del corso della
vita terrena alla fine dei giorni. Da questo nucleo è venuto fuori, nella
persona di Gesù, il Cristianesimo, che, pur sentendo Dio più prossimo ai
singoli cuori e immediatamente operante nel mondo, è però impedito da questo
fondamento di ricadere nel panteismo e nella mistica di una compiuta religione
della natu- ra e che, pur donando al cuore la beatitudine e la quiete in Dio,
si aspetta tuttavia nella certezza della transitorietà dell’esi- stenza
sensibile un mondo superiore ed esclude quindi un im- mergersi puramente
immanente in Dio. In quanto esso libera non soltanto dalla sofferenza della
finitudine e dalla pressione della natura, ma soprattutto dall’ostinazione e
dalla pusillanimità del cuore umano, dalla debolezza e dalla coscienza della
colpa, in quanto con questa liberazione del cuore e con la certezza di una
comunità con Dio che supera il tempo conferisce forza per agire e amare sulla
terra, il Cristianesimo rappresenta una reli- gione della redenzione di ordine
superiore che sovrasta in egual misura sia il pessimismo buddistico sia la
mistica neoplatonica — i due prodotti estremi della devozione extra-cristiana.
In virtù di questa rottura di principio con ogni specie di religione della
natura, esso porta a compimento — unico tra tutte le religioni — la tendenza
alla redenzione, nello stesso modo in cui ha recato a compimento, in
connessione con questa, la tendenza a una validità universale puramente
interiore. In virtù di questa specificità di fatto, di questo accordo intimo
tra esigenza ed essenza, noi riconosciamo nel profetismo e nel Cristianesimo il
culmine, o meglio un nuovo punto di partenza nella storia della religione — il
sorgere del sole dopo l'aurora, non conclusione e fine che porta alla quiete,
ma inizio di un nuovo giorno con nuovo lavoro e nuove lotte. Vi sono ancora
molti lati oscuri da chiarire, occorre ancora conoscere con maggiore purezza la
sua luce propria. Un lavoro stermina- to sta ancora di fronte ad esso, e dalla
sua forza interna risulte- rà, nel contatto con la mutevole situazione del
mondo e con le altre religioni, un'ulteriore crescita della religione,
certamente non costruibile 4 priori. Il fatto stesso che ne sia capace, che
possieda questa capacità di costante ringiovanimento e adatta- mento,
costituisce appunto un'ulteriore conseguenza della sua particolarità. In quanto
religione dello spirito che — a differen- za da ogni religione della natura,
sia essa approfondita in sen- so panteistico o configurata eticamente — si
riferisce al nucleo interno, spirituale ed etico, sempre vivente e attivo,
dell’essen- za degli uomini, il Cristianesimo possiede la forza dell’autocriti-
ca e della purificazione, dell’approfondimento e del rinnova- mento; esso può
sempre richiamarsi attraverso le scorze mitolo- giche alla sua essenza intima e
purificarsi sempre di nuovo dalle inevitabili contaminazioni con ambiti di
pensiero ad esso estranei, Il Cristianesimo non è vincolato a determinate
conce- zioni della natura e a formazioni sociali transitorie e particola- ri;
esso contiene un impulso di aspirazione, di attività e di perfezionamento che
manca a qualsiasi mistica che si immerga soltanto nell’unità data
dell’universo; contiene fini positivi che il quietismo buddistico volto solo al
pessimismo non conosce; abbraccia infine la fede universalistica con una
profondità ric- ca di impulso, di cui l'Islam ha potuto acquisire soltanto
l’aspet- to superficiale. Poniamo per esempio il caso — in sé possibile — che
l’astronomo Schiaparelli® ha ipotizzato per il nostro pianeta, traendo lo
spunto dai cosiddetti canali di Marte, che cioè con il raffreddamento della
terra e il restringersi dei mezzi di sussistenza che essa offre possa diventare
necessaria un’analo- ga enorme unificazione del lavoro umano; e che soltanto
tali lavori di protezione, intrapresi con un'estrema fatica collettiva, rendano
possibile ancora l’esistenza: in tal caso dovremmo pen- sare immediatamente a
infinite trasformazioni nel diritto, nel- la morale, nella società e nello
stato; e sicuramente anche nella religione. Non è verosimile che un'impresa del
genere possa svolgersi sotto la protezione della benedizione papale o sotto
l'impulso di disposizioni di istanze ecclesiastiche superiori, o che possa
essere disturbata da una disputa sul Simbolo apostoli- co. Nulla ci impedisce
però di pensare che la forza dello spiri- to comune, necessaria per
quest'opera, scaturisca da una viva 3. Giovanni Virginio Schiaparelli
(1835-1910), astronomo italiano, autore de Le stelle cadenti (1873), delle
Norme per le osservazioni delle stelle cadenti e dei bolidi (1896) e di varie
altre opere, studiò in particolare i pianeti intorno alla Terra e osservò per
primo i canali di Marte. I suoi ultimi studi furono dedicati a L'astronomia
nell'An- tico Testamento (1903). dzione teistica, quali che siano le forme che
potrebbe assu- mere in un’epoca siffatta, Come si è detto, è il significato
effettivo del Cristianesimo tra le religioni, l’elaborazione di una religione
della redenzione di tipo personalistico in antitesi a ogni religione della
natura, non già una costruzione storico-fi- losofica conclusa, che autorizza
questa fiducia. A tale fiducia non si può quindi obiettare il fatto che essa
indulga al caso, il quale ci fa appunto apparire il sole della verità sopra il
piccolo frammento di storia a noi noto, come sopra un'isola nel mare
sconfinato. Non si tratta perciò tanto di una determinata forma storica del
Cristianesimo, quanto piuttosto dell'idea della reli- gione personalistica
della redenzione, la cui forma odierna — essendosi formata nel tempo —
sicuramente non è nulla di eterno. Ma nel profetismo e nel Cristianesimo
quest'idea è di- ventata una forza storica e si svilupperà ulteriormente,
muoven- do da questa forma fondamentale, verso risultati che oggi non
conosciamo ancora, né abbiamo bisogno di conoscere. Basti il fatto che, così
come sono, essi significano il trapasso alla religio ne della redenzione di
tipo personalistico, e che possiamo senti- re l’eterno in questo elemento
temporale. Possiamo ben ammet- tere che l’origine delle grandi religioni in
generale avvenga nella giovinezza dell’umanità, quando la vita è più semplice e
più facile è l’incondizionato immergersi nella religione, quan- do le
connessioni dell’esistenza sulla terra sono ancora meno intricate e la pura
formazione di forze religiose è meno distur- bata. L’origine delle religioni
della natura si perde in oscure epoche primitive che si sottraggono all'indagine.
La religione di Israele con la sua duplice progenie — Cristianesimo e Islam — è
una religione giovane e ha impostato il tema del futuro, in base a cui il
Cristianesimo ha elaborato, come fondamento di ogni ulteriore sviluppo, la
decisiva e universale verità religiosa. A ciò si aggiunge un’altra
considerazione. Le variazioni della vita e del pensiero umano sono
imprevedibili nel particolare, assai limitate in una prospettiva ampia. Così
anche la fantasia rivolta al futuro potrà rappresentarsi non già un gioco
infinita- mente oscillante di contenuti di vita spirituale fondamentalmen- te
diversi, bensì un’elaborazione sempre più ardua e intricata, sempre più estesa
e complicata di idee fondamentali acquisite. Tra queste idee fondamentali la
più salda e la più forte sarà quella della devozione cristiana, poiché essa
sola collega l’uma- nità con il fondamento permanente ed eterno della vita
spiritua- le in maniera puramente interiore, e in questa connessione supera,
con un'attività redentrice, al tempo stesso la necessità e la sofferenza
dell’esistenza terrena. In questo modo l’intreccio della storia della religione
si rischiara, e viene in luce una tendenza di sviluppo in cui possiamo
riconoscere la direzione del futuro. Disperso e isolato, in lotta con la natura
per la vita, commosso da impressioni e da avvenimenti nella natura, nella vita
collettiva e nella vita individuale, il mondo primitivo dell’uomo produce
innumerevo- li religioni, esteriormente assai diverse, ma intimamente impa-
rentate, la maggior parte delle quali si sono indurite con la vita delle orde,
delle stirpi e dei popoli a cui appartengono, arrestandosi al loro livello. Qui
la natura e l’uomo vengono presi così come si presentano immediatamente, e da
questa situazione scaturiscono impressioni religiose fornite di una capa- cità
di sviluppo molto ristretta. Soltanto pochi grandi popoli realizzano, con la
loro più ampia coesione nazionale e linguisti- ca, una prosecuzione e un
approfondimento rispetto a questo grado di religione, in quanto i tratti
fondamentali suscettibili di sviluppo vengono estesi e approfonditi, la rozza
mitologia e il culto superstizioso vengono eliminati o depotenziati e tutti gli
impulsi religiosi che procedono dalle nuove impressioni di vita e di cultura
vengono fusi nella tradizione precedente. Essi sfociano nella religione della
moralità, nel panteismo, infine nel pessimismo e nella mistica, ma si arrestano
ancor sempre al mondo e all'uomo lasciandolo così come l’hanno trovato, senza
indicargli fini positivi che superino la natura. Soltanto la nostal- gia e il
presentimento accennano in essi a tali fini. Soltanto za religione ha
definitivamente sciolto il legame che la univa imme- diatamente con la natura
e, riconoscendo un dio creatore che, in quanto spirito, si distingue dalla
natura, ha indicato al tempo stesso all’uomo il fine di un’elevazione positiva
sulla natura materiale e la natura spirituale in esso innata. Questa è stata la
religione di Israele, che rappresenta uno dei fatti più importanti all'interno
della storia universale a noi nota. In quanto conclusione dello sviluppo
interno di Israele e congiun- zione con il monoteismo filosofico ellenico, il
Cristianesimo si è posto saldamente sul campo di rovine delle religioni
naziona- li distrutte dagli imperi universali, mentre in Israele il profeti-
smo si rattrappiva nel Giudaismo e accanto ad essi l'Islam racco- glieva i suoi
credenti, intorno a poveri frammenti di queste reli- gioni, sul campo di rovine
dell'Asia e dell’Africa. Con il sorgere di questi grandi princìpi religiosi, la
produzione religiosa è diventata sempre più ristretta, e si muove soltanto più
nella creazione di formazioni intermedie di tipo sincretistico o di varianti.
Il futuro appartiene alla lotta delle grandi formazioni religiose. Tra di queste
il Cristianesimo, in quanto punto di partenza di un grado sostanzialmente
nuovo, costituisce però la forza che — ricca di tensioni con la cultura più
elevata e tuttavia inscindibilmente legata ad essa — sta al centro della grande
lotta mondiale, non già come sistema finito e rigido, bensì come una potenza
vivente che forma il punto di riferi- mento di ogni ulteriore conoscenza e di
ogni ulteriore impulso religioso, sviluppandosi ancora nel futuro secondo la
legge im- prevedibile della vita religiosa. Una gran parte di questo proces- so
di sviluppo, che ha già prodotto mutamenti di grande rilie- vo, si trova alle
nostre spalle; mentre un momento importante di esso, cioè la progressiva
differenziazione, la dissoluzione dal legame immediato con lo stato e la
politica, con il diritto e la morale mondana, con la scienza e la spiegazione
del mondo, la concentrazione nel suo contenuto puramente religioso e la rin-
novata influenza di questo contenuto sulla situazione complessi- va, si compie
davanti ai nostri occhi. Il Cristianesimo si racco- glie in se stesso e si
tramuta in una nuova operosità. Perciò non deve indurci in errore la miseria
ecclesiastica della sua realtà momentanea e la ripugnanza morale per le lotte
interne al clero. Si tratta della tendenza al futuro che sempre ritorna di
nuovo alla luce, non già della sua attuale confusione confessio- nale. È
evidente che, come l’intera intuizione della storia fino ad oggi dominante
rimanda alla nostra letteratura e filosofia classi- ca, così questa intuizione
della storia delle religioni in particola- re ha stretti punti di contatto con
le idee di Lessing, Goethe, Herder, Kant, Hegel, Schleiermacher e di altri
pensatori affini. Essa cerca solamente di liberare la concezione della
religione dalla prossimità eccessiva in cui questi l'avevano collocata con
altre potenze spirituali. Lessing ha concepito il suo evangelium aeternum
secondo un “analogia troppo stretta con la libera scien- za dell’Illuminismo,
che si reggeva da sé pervenendo a dimo- strazioni in base alla propria
connessione interna. Herder ha accostato troppo la religione al concetto etico
di umanità e, iché vedeva questa umanità ovunque, ha troppo sfumato i confini
delle religioni, mentre Schleiermacher l’ha dissolta trop- po in uno spinozismo
romantico che nelle religioni vedeva soltanto i modi individualmente diversi in
cui si è consapevoli dell’immanenza in Dio. Analogamente, Hegel ha conformato
in modo eccessivo la religione al monismo metafisico e ha soprattutto derivato
in maniera dottrinaria e rigida il suo svi- luppo dalla necessità logica del
movimento delle idee, pregiudi- cando così l'originaria realtà di fatto dei
suoi diversi sviluppi e la sua misteriosa potenza. Anche Goethe — questo
spirito uni- versale — ha troppo commisurato la particolarità del Cristiane-
simo tra le altre religioni, da lui chiaramente riconosciuta, alla propria
concezione poetica e organica della matura, e ne ha invece respinto sullo
sfondo gli elementi pessimistici, nella sua avversione artistica per le rotture
e le catastrofi, le tensioni e le lotte. E tuttavia la saggezza della sua
vecchiaia ha una serie di visioni profonde, alle quali la fede e la miscredenza
attuale si richiamano volentieri come a indicazioni di uno sviluppo più
soddisfacenti. Ne è testimonianza, invece di molti altri, questo brano spesso
citato dei Warderjahre: « Ma quanto ci è voluto non solamente per lasciare la
terra sotto di sé e per richiamarsi a un luogo di nascita più alto, ma anche
per riconoscere come cose divine pure l’abiezione e la povertà, la beffa e il
disprez- zo, l’ignominia e la miseria, il dolore e la morte; per considera- re
il peccato e il delitto non già come ostacoli, ma per venerar- li e amarli come
incrementi del sacro! In tutte le epoche si trovano tracce di quest’atteggiamento;
ma una traccia non è il fine, e una volta raggiunto quest’ultimo l’umanità non
può più tornare indietro e si può dire che — una volta fatta la sua comparsa —
la religione cristiana non può più scomparire: una volta preso corpo divino,
non può più venir dissolta »*. I suoi « misteri » dovevano appunto diventare un
epos simboleggiante 4. Goetne, Wilhelm Meisters Lehr- und Wanderjahre, libro I,
cap. 1 la storia della religione, che doveva essenzialmente contenere le idee
fondamentali qui prospettate e che, in un frammento com- piuto, rappresenta —
con il simbolo della Croce circondata di rose — il Cristianesimo come scopo
finale, analogamente alle considerazioni dei Wanderjahre. Certamente, la
scienza « moderna » si è nel frattempo allon- tanata in larga misura — almeno
nella sua parte più cospicua — da questi fondamenti profondi della nostra
cultura. Determi- nanti ai fini di questo allontanamento sono state non tanto
le conseguenze scientifiche, quanto invece gli effetti di condizioni esterne
che procedono dalle enormi trasformazioni pratiche del nostro secolo. Le
operazioni della nuova tecnica, che tutto mo- dificano, le scottanti questioni
sociali che ne derivano, il risve- gliarsi dell’egoismo nazionale, non da
ultima la popolazione che si è accresciuta in queste condizioni pervenendo a un
sosten- tamento migliore, hanno distolto l’interesse verso questioni cul-
turali pratiche e posto al centro il problema della felicità intra- mondana. Il
dogma del progresso della cultura, l’ottimismo culturale, domina l’opinione
odierna, e tutte le conquiste scien- tifiche vengono viste alla luce di esso.
Si fa in fretta a trarre dal periodo di pensiero storicizzante, aperto dalla
nostra grande epoca, la conseguenza del relativismo, ma soltanto per togliere
valore alle potenze ideali finora operanti, e in particolare al Cristianesimo,
mentre si crede tranquillamente nel progresso e in una felicità assoluta del
futuro. Si applica con sollecitudine la scienza naturale allo scopo di
sottoporre ogni esistenza e ogni vita alle « leggi naturali », ma soltanto per
ridurre a favo- le tutti i valori spirituali che vanno oltre la felicità
intra-monda- na, mentre si attribuisce alla volontà umana — nei confronti della
medesima legalità naturale — un potere enorme, in grado di sottometterla
artificialmente alla felicità culturale. Ci si in- nalza molto al di sopra dei
sogni fantastici di una metafisica alla ricerca della connessione tra mondo
sensibile e mondo so- prasensibile, e si assume senza alcuna precauzione la
propria situazione come il logico fine ultimo della storia, contrapponen- do al
periodo della spiegazione religiosa, e quindi metafisica, del mondo il periodo
« positivo », al servizio di scopi pratici puramente intra-mondani. Contro
questi stati d'animo collettivi non si può fare nulla in modo diretto, tanto
meno indicando le loro contraddizioni. Essi devono dispiegare le loro
conseguen- ze pratiche ancor più chiaramente di quanto non sia avvenuto finora.
La devastazione e l’inaridimento della vita spiritua- le, la progressiva
decadenza della forza etica e della serietà religiosa, l’ottusità che si
consuma nel godimento di sempre nuovi desideri devono mostrarci dove ci stiamo
dirigendo in questo modo, nonostante tutti i progressi esteriori, e che una
completa felicità intra-mondana è la più illusoria delle chimere. Allora ci si
richiamerà di muovo al nostro migliore possesso spirituale, e in base ad esso
sapremo valutare i progressi scienti- fici. Allora i gravi pericoli impliciti
nella storicizzazione di ogni scienza, e anche della scienza della religione,
potranno essere superati più facilmente di adesso. Non è questa la sede adatta
per indagare in quale misura le intuizioni qui sviluppate possano e siano in
grado di influire sulla teologia ufficiale delle chiese e delle facoltà
universitarie. Finora esse agiscono in misura abbastanza forte nella configura-
zione delle ricerche di critica biblica o di storia del dogma, le cui
conseguenze di rado vengono tratte fino in fondo. D'altra parte esse hanno
appena modificato, più che trasformato real- mente, le loro strutture
sistematiche. Ma la teologia, per sua stessa natura, è qui di fatto costretta a
una maggiore prudenza, e deve imporsi un certo ritegno. Essa non è pura
scienza, e in ogni caso non è scienza libera; ma è piuttosto vincolata alle
determinazioni giuridiche, alla tradizione effettiva, ai rapporti e agli scopi
presenti, e costituisce pertanto più un compromesso con la scienza che una
scienza vera e propria. I suoi compiti sono in primo luogo compiti pratici,
posti dallo stato effettivo dell’istituto ecclesiastico; ed essa può rendere
operanti sulla sua materia le conoscenze scientifiche in modo soltanto indiret-
to, eliminando le antitesi troppo aspre, e per il resto mediando ed
equilibrando. Certamente i teologi possono, in quanto uomi- ni di cultura,
promuovere in modo significativo le grandi que- stioni; ma in quanto devono
servire scopi ecclesiastici, sono vincolati da compiti e da rapporti pratici.
In realtà, pur tenen- do conto dell'importanza della collaborazione dei
teologi, le grandi questioni scientifiche sono sempre state decise al di fuori
della teologia. Queste decisioni reagiranno poi sulla teolo- gia, dando luogo a
una specie di equilibrio delle temperature. Il singolo teologo potrà, in queste
condizioni di antitesi, distin- guere tra teologia essoterica e teologia
esoterica nella misura in cui è consapevole di volere in entrambe, in verità,
il medesimo scopo; ma non potrà spezzare il circulus vitiosus per cui ogni
chiusura della teologia rafforza l’avversione della scienza e ogni ostilità
della scienza rafforza la chiusura della teologia, almeno fin quando la
straordinaria importanza della questione ecclesia- stica rimane celata alla
vita complessiva di un’indifferenza illu- minata. All’interesse generale
importano cose ben diverse che non le indagini specificamente teologiche. Ciò
richiede che il relativi- smo storico, che in tutti i campi della vita
intellettuale cerca di soffocarci nell’erudizione e di paralizzare ogni forza
creati- va, venga riconosciuto come il nemico più pericoloso anche nel campo
della religione, e venga quindi superato. Da tutte le parti aumentano i segni
che si comincia a esserne stanchi. Si cerca di superarlo mediante l’entusiasmo
patriottico, mediante l'ideale della giustizia sociale, mediante le fantasie
del futuro, mediante un altruismo areligioso; si ha sete di ideali semplici,
assoluti e universalmente validi. Ma tutto ciò non sarà sufficien- te. Su tale
strada si riconoscerà che la patria autentica di tutti questi ideali è la
religione, e che quindi occorre riacquistare la fede sicura e gioiosa in un
fine assoluto soprattutto in seno ad essa. Certamente questo non può avvenire
ignorando di colpo la storia e rinnegando i suoi metodi. Può invece avvenire se
riprendiamo le grandi idee fondamentali della nostra letteratu- ra, filosofia e
storiografia classiche e se scorgiamo nella storia il dispiegarsi di un
contenuto spirituale unitario e semplice nel suo nucleo; se nelle religioni più
grandi e più potenti non cerchiamo semplicemente il fenomeno storico
interessante, ma la connessione con quel nucleo eterno della vita spirituale.
Allora si riconoscerà di nuovo che anche la storia delle religio- ni non ha
soltanto elementi, ma anche un legame spirituale, e che questo non è così difficile
da trovare come ritengono le persone prudenti le quali suppongono che la verità
storica sia accessibile soltanto allo studio specialistico. Non si avrà più
terrore della possibilità che il capo di questo filo stia in mano nostra e
richieda da noi soltanto di venire tirato in modo schietto e semplice. Se la
storia è, di fatto, soltanto la lotta infinitamente complicata per il
dispiegarsi di un contenuto spi- rituale semplice, ci sarebbe poi tanto da
stupirci se fossimo pervenuti nel Cristianesimo al nucleo di tale contenuto, e
doves- simo dar forma alla nostra realtà in base ad esso e nell’ambito della
sua forza? Ci resterebbe ancora abbastanza lavoro da com- piere per riempire
una dozzina di millenni. «Religione ed
economia» è un tema che tempo addietro sarebbe suonato assai strano. «
Filosofia ed economia », « musi- ca ed economia», « matematica ed economia» non
avrebbero suscitato stupore. Fin quando s’intendeva la religione in modo
puramente ideologico come dogma o come dottrina o come metafisica, o come una
morale vincolata a determinate rappre- sentazioni del cosmo, il tema non poteva
che essere privo di senso. I dotti dell’Illuminismo si sarebbero riferiti con
un sorri- so pieno di ironica intelligenza all'economia finanziaria dei papi,
agli interessi materiali degli ecclesiastici e dei principi devoti, e in questo
tema avrebbero scorto soltanto la questione dell'impulso assai comune che sta
sotto cose in apparenza tanto sublimi: così Hume ha considerato la Riforma come
conseguen- za di una polemica sul denaro per le indulgenze. Intorno alla metà
del secolo scorso, quando per la prima volta le conseguen- ze del sistema
capitalistico urtarono apertamente con le esigen- ze tecniche del
Cristianesimo, si aveva certamente una compren- sione più profonda del
problema. Ma qui esso si presentò come una questione puramente etico-pratica,
cioè come il problema del modo in cui si potevano superare, dal punto di vista
del senti- mento cristiano dell'amore e dell’educazione cristiana del carat-
tere, le conseguenze devastatrici del liberalismo economico man- chesteriano.
Kingsley'!, Maurice ?, Carlyle alzarono la bandiera di una riforma cristiana
della società; e ad essi fece seguito, in * Religion, Wirtschaft und
Gesellschaft (conferenza tenuta alla Gehe-Stiftung di Dresda, 1913), in
Gesammelte Schriften, Tibingen, Verlag von J.C.B. Mohr, vol. IV, 1925, pp.
21-33 (traduzione di Sandro Barbera e Pictro Rossi). Kingsley, sacerdote
anglicano, pocta e scrittore inglese, au- 844 ERNST TROELTSCH Germania, il
socialismo cristiano di Stòcker® e di Friedrich Naumann ‘. Ma neppure questo è
il senso del tema, quale oggi lo poniamo. Con questo tema si allude a una
questione pura- mente teorica di storia della religione e di storia della
cultura: l'impostazione scaturisce dalla teoria economica della storia della
cultura — per lo più designata erroneamente come materia- lismo storico — che
dalle grandi opere di Karl Marx si è diffusa a tutte le concezioni storiche
dell’epoca. Essa era stata già pro- posta da qualche storico, come per esempio
Karl Nitzsch', e aveva trovato rispondenza in particolare nella storia politica
e nella storia del diritto. Essa non ha quindi nessuna connessione necessaria
con il vero e proprio sistema del socialismo. Si tratta, in verità, di una
questione che in parte è scaturita dall’affina- mento e dall’ampliamento
avvenuto nella ricerca delle relazio- ni causali nella storia, e in parte ci è
imposta dalle influenze della struttura economica sulla vita complessiva —
ovunque percepibili nella nostra esperienza odierna. Nella storia poli- tica
essa è diventata oggi ovvia. Ma il suo significato è molto più profondo. La
connessione con i fondamenti economici ri- sulta particolarmente chiara
soltanto nella storia politica e nella storia del diritto. Ma essa sussiste di
fatto anche nel campo della cultura spirituale fino ad arrivare al suo centro,
cioè alle intui- zioni religiose e metafisiche del mondo. Essa è in massima
parte tore di numerosi romanzi, sermoni religiosi e saggi politici, fu uno dei
principa- li rappresentanti del socialismo cristiano in Gran Bretagna. 2. John
Frederick Denison Maurice (1805-1872), sacerdote anglicano e teologo in- glese,
autore della History of Moral and Metaphysical Philosophy (1850-60), dei TAco-
logical Essays (1853), delle Lectures on Ecclesiastica! History (1854), di What
is Re- velation (1859), di The Conscience (1868), di Social Morality (1869) e
di varie altre opere, svolse un'intensa azione educativa rivolta verso le masse
operaie e ispirò il movimento del socialismo cristiano. 3. Adolf Stòcker
(1835-1909), teologo protestante e uomo politico tedesco, autore di vari saggi
e discorsi, fondò la Berliner Bewegung, di ispirazione cristiano-sociale,
opponendosi alla politica bismarckiana e criticando pure la social-dernocrazia.
4. Friedrich Naumann (1860-1919), teologo protestante e uomo politico tedesco,
autore di Demokratie und Kaîisertum (1900), dci Briefe tiber Religion (1903),
di Mit- teleuropa (1915), nonché di numerosi altri scritti in parte raccolti
sotto il titolo Got- teshilfe (1896-1903), fu esponente di un socialismo
cristiano che aderiva ai principi di espansione imperialistica della politica
guglielmina; in seguito il suo pensiero si spostò verso posizioni liberali. Fu
amico di Weber e di Trocltsch. 5. Karl Wilhelm Nitzsch (1818-1880), storico
tedesco, allievo c continuatore di Nicbuhr, autore della Geschichte der
ròmischen Republik (pubblicata postuma nel 1884-85) e di altre opere. una
connessione inconscia e non intenzionale, ma le connessioni di questo genere sono
appunto le più forti e durature nella vita dello spirito. Proprio in questo
Karl Marx non ha imparato invano dalla fine arte di Hegel, che con
straordinaria acutezza sapeva portare alla luce gli intrecci e le mescolanze
del com- plesso dei contenuti dell'anima, e ricostruire le forze fondamen- tali
di quelle mescolanze. Non c’è dubbio che proprio una attenzione maggiore a
queste connessioni sia in grado di get- tare moltissima luce sulla comprensione
della religione come potenza pratica della vita. Forse non si esagera se si
afferma che soltanto in questo modo diventa possibile una compren- sione reale
della religione e del suo significato per la vita. Con ciò perviene alla
coscienza un aspetto di essa che naturalmente agiva anche prima di questa
chiarificazione teoretica, ma che si sottraeva alla coscienza scientifica, e se
ne sottrae in gran parte anche oggi. Finora la concezione della religione era,
soprattutto tra i Protestanti, puramente ideologica e dogma- tica. I Cattolici
avevano una comprensione più profonda alme- no per il suo aspetto culturale e
organizzativo. Il culto e l’ele- mento irrazionale in essa presenti sono stati
sottolineati in misu- ra sempre più forte dalla ricerca etnografica, e in tal
modo è stata sempre più delimitata l’intuizione puramente ideologico-dogma-
tica dell'oggetto. Ma la stretta connessione con la vita sociale e — poiché
questa è in gran parte condizionata da motivi eco- nomici — anche con la vita
economica è stata considerata troppo poco. Fa eccezione qui soltanto la brillante
opera di Fustel de Coulanges’ La cité antique, apparsa nel 1864, che però non
ha avuto il seguito che avrebbe meritato. Soltanto la storia socialistica della
cultura e le influenze da essa derivanti hanno recato il problema a un più
ampio — anche se non si può ancora dire più generale — riconoscimento. 6.
Numa-Denis Fustel de Coulanges (1830-1889), storico francese, autore de La cité
antique (1864), della Histoire des institutions politiques de l'ancienne France
(1875), poi rielaborata in una successiva edizione in tre volumi (La Gaule
romane del ’gr, L'invasion germanique et la fin de l'empire del *g1, La
monarchie frangaise dell'88), de L’Alleu et le domain rural pendant l'époque
mérovingienne (1889), de Les ori- gines du systeme féodal: le bénéfice et le
patronat (1890), de Les transformations de la royauté pendant l'épogue
carolingienne (1892), nonché di alcune raccolte di saggi, studiò in particolare
le basi religiose della struttura politico-sociale romana, aprendo la strada a
una considerazione antropologica della città antica. Di ciò è certamente
colpevole in larga misura il modo in cui tale compito è stato affrontato nella
letteratura socialistica, per esempio nelle opere di Kautsky” sulle origini del
Cristianesi- mo. Qui domina, nonostante alcune buone intuizioni particola- ri,
la più pedantesca dogmatica della ben nota costruzione della storia: i puri
rapporti economici sono la causa della strati- ficazione di classe; ogni classe
si rispecchia in una metafisica e in una religione che proteggono la sua
esistenza e i suoi interes- si; il Cristianesimo è il rispecchiamento
utopico-trascendente della plebaglia disorganizzata e inerme della tarda
antichità; questa organizzazione puramente religiosa, e quindi impotente, del
proletariato, in disaccordo con lo sviluppo sociale dell’epo- ca, fu poi
sottomessa dalle classi dominanti e assoggettata, attraverso certe
trasformazioni della sua dogmatica e della sua etica, agli interessi della
proprietà e del potere; soltanto a tratti si è manifestato — e si manifesta
ancor oggi — l’origina- rio carattere proletario del movimento cristiano.
Questa è certa- mente una ricostruzione del tutto fantastica dell’origine del
Cristianesimo. Ma anche nell’esposizione molto più raffinata ed esperta che
degli stessi processi ha fornito Maurenbrecher*, la derivazione della religione
cristiana dalla psicologia di massa proletaria viene trattata come un ovvio
principio di ricerca della causalità storica, e di conseguenza al Vangelo viene
attri- buito un significato proletario del tutto astorico. Anche qui appare,
come presupposto dogmatico, la teoria di una dipenden- za unilaterale
dell'elemento religioso dalle situazioni di classe 7. Karl Kautsky (1854-1938),
teorico socialista tedesco, fondatore della rivista « Die neue Zeit » nel 1883,
fu uno dei maggiori esponenti della Seconda Internazionale e critico aperto del
« revisionismo » social-democratico, contro il quale difese la tesi della
necessità della rivoluzione. Dopo il 1917 prese posizione contro la rivoluzione
sovietica e contro Lenin. È autore di numerose opere, come Das Erfurter
Programm in seinem grundsdtzlicheri Teil erldutert (1892), Bernstein und das
sozialdemokratische Programm (1899), Der Weg zur Macht (1909), Vorlàufer des
Sozialismus (1909-21), Der politische Massenstreil (1914), Die Internationale
und der Krieg (1915), Die Diktatur des Proleta- riats (1918), Ethik und
materialistische Geschichtsauffassung (1922), Materialistische
Geschichtsauffassung (1927). Troelisch si riferisce qui al volume Der Ursprung
des Christentums, Stuttgart, 1908. 8. Max Heinrich Maurenbrecher (1874-1930),
storico tedesco, autore di Von Na- sareth nach Golgota: Untersuchungen tiber
die weltgeschichtlichen Zusammenginge des Urchristentums, Berlin-Schéneberg,
1909 — a cui si riferisce qui Trocltsch — e di altri volumi di argomento
storico. ERNST TROELTSCH 847 condizionate economicamente: la religione è, nella
sua essenza, il rispecchiamento di situazioni di classe. Qui — e anche altro-
ve nella letteratura socialista — non si è tentato di illustra- re e di provare
questo principio in base al materiale generale della storia della religione.
Esso viene in fondo utilizzato soltan- to a scopo di polemica contro il
Cristianesimo. Ma soltanto con un’indagine che si estenda a tutta la storia della
religione si può mostrare il significato reale di questo principio, e anche la
trasformazione quanto mai diversa di tale significato ai diffe- renti gradi
della vita religiosa *. Il problema è molto più complicato. Non può esser fatto
coincidere con un problema così ampio quale quello dell’origi- ne della
religione. Infatti esso non può venir risolto in modo puramente storico e
psicologico, e conduce a costruzioni pura- mente astratte, ben distanti da ciò
che effettivamente ci mostra la realtà concreta e vivente. Esso dev'essere
riferito alla vita reale delle religioni a noi note, e qui trova sicuramente
abba- stanza materiale per la sua trattazione. La questione puramente
filosofico-religiosa della nascita e dell’origine può quindi essere risolta. Si
tratta piuttosto di chiederci: in quale misura la vita reale delle religioni ci
rivela un condizionamento interno ed essenziale dell’elemento religioso da
parte della vita economica, nonché da parte della struttura di classe e della
stratificazione sociale in larga misura determinata da essa? e viceversa, in
quale misura la vita economica ci rivela la presenza di effetti essenziali e
interni dell'elemento religioso sul lavoro economi- co? Occorre pertanto
lasciar da parte i contatti semplicemente accidentali e transitori, e piuttosto
considerarli soltanto nella a. Un sociologo acuto e sensibile come Simmel ha
cercato di acquisire e di fondare, in questa maniera più generale, le
conoscenze storico-reli- giose. Egli indica nel sentimento della dedizione dei
singoli membri di una connessione sociologica alla sua potenza presente in modo
non sen- sibile, onnipenetrante, la radice psicologica della religione,
derivando quin- di la fede nei miracoli dall’inafferrabilità di tale potenza,
percepita con stupore. Soltanto attraverso l’autonomizzazione dell’elemento
religioso so- prasensibile qui racchiuso nascerebbe la religione propriamente
detta. Ma anche questa è semplicemente una fantasia spiritosa, che oltre tutto
assu- me dal marxismo soltanto la sopravvalutazione delle connessioni dei grup
pi e delle masse, ma non il loro fondamento esclusivamente economico. misura in
cui ne scaturisce qualcosa di durevole e di intimo. Un tale significato di
accidentale, cioè quello dell’incontro di due direzioni di sviluppo del tutto
separate e tra loro indipen- denti, ma che s’incrociano in un determinato
punto, non è raro nella storia, e proprio nel nostro campo dobbiamo aspettarce-
lo, poiché le due forze che qui si toccano sono fin dall’inizio prevalentemente
estranee l’una all'altra. Ma proprio se si rico- nosce questo fatto occorre
escludere dalla nostra indagine que- gli clementi accidentali meramente
transitori che rimangono, per così dire, esteriori — e che il pragmatismo
illuministico collocava volentieri in primo piano — anche se essi costituisco-
no una parte pratica, tutt'altro che priva di importanza, del nostro problema.
Con questa impostazione si presuppone che nelle religioni considerate
storicamente l’elemento religioso presente nel mito e nel culto, nel mondo della
rappresentazione e del sentimento, sia qualcosa di relativamente autonomo ed
entri in connessione con tutti gli interessi economici, ma non coincida mai
piena- mente con essi. Tale è il caso di tutte le religioni evolute. La ricerca
etnografico-antropologica sulla religione è ancora assai poco orientata verso
questa impostazione, e non è perciò in grado di rispondere alla questione. Essa
deve quindi restare al di fuori della nostra considerazione. Ciò è possibile,
del resto, perché qui abbiamo di fronte cose che devono essere comprese non già
sulla base dell’originario sviluppo preistorico dello spiri- to, bensì in base
agli intrecci di una cultura in qualche misura ormai differenziata. In essa si
può riconoscere ovunque la ten- denza a un’autonomizzazione della vita e del
pensiero specifica- mente religioso e a un’analoga autonomizzazione del lavoro
economico, che diventa così comprensibile in base al suo scopo pratico. La
nostra questione può sorgere soltanto a partire dal- le influenze reciproche,
in parte consapevoli e in parte incon- scie, e dal compenetrarsi delle due
tendenze. Ma se queste due tendenze sono distinte nella loro essenza, il loro
contatto non può essere affatto diretto. Né le religioni sono ideali economici,
né le forme e gli interessi economici sono leggi religiose. I contatti sono
soltanto mediati. La questione consiste allora nel determinare in che cosa
consista quell’entità mediatrice; e la risposta è molto semplice. Essa consiste
nelle grandi forme ERNST TROELTSCH 849 sociologiche dell’esistenza, che da un
lato vengono continua- mente create dalla religione e, una volta assicuratesi
tale fonda- mento, incidono nel modo più profondo su ogni lavoro econo- mico,
dall’altro sorgono su fondamenti economici — tra gli altri — assorbendo nella loro
onnipotenza il mondo della rappre- sentazione religiosa. Già Fustel de
Coulanges aveva posto la questione in modo straordinariamente chiaro e
aderente. Egli mostra come tra gli Indiani, i Greci e i Romani la forza
organizzativa del culto religioso dei morti o degli antenati pone i fondamenti
della famiglia patriarcale, del diritto familiare e privato, della pro- prietà
privata del suolo, dell’economia domestica o familiare chiusa, della posizione
giuridica delle donne, dei figli e degli schiavi. Una volta consacrate e
vincolate religiosamente, queste regole conservano un potere enorme sulla vita
pratica. In base ai loro princìpi si compie l'associazione in curie e in
fratrie e infine, con forme di culto del tutto analoghe, il sinecismo verso la
città, mentre tutta la vita della polis rimane — nel diritto e nel costume, in
guerra e in pace — vincolata a un sistema rituale che ha la massima importanza
per tutta la vita politica, per tutto il diritto e, attraverso di questo, anche
per ogni lavoro economico. Qui è chiarissima l’iniziativa fortemente de-
terminante dell’idea religiosa e dell’organizzazione sociologica da essa
creata. A questo punto ci si può certamente domandare se, all’inverso, questa
configurazione del culto degli antenati non dipenda dall’acquisizione di una
dimora stabile e dalla transizione dell'agricoltura, cosicché l’iniziativa
sarebbe di nuo- vo dalla parte della vita economica e questa fornirebbe le
condi- zioni necessarie per la tendenza decisiva di sviluppo del culto
religioso degli antenati. Una comparazione con lo sviluppo del culto presso
popoli nomadi e semi-nomadi, come i Tartari e i Mongoli, dovrebbe dare qui un
chiarimento. In relazione agli Israeliti, il sociologo americano Wallis*® ha di
fatto mostrato come la venerazione religiosa del dio-clan della grande fami-
glia e la comunità nomade che stava sotto la sua protezione abbiano
durevolmente impresso al popolo di Israele il carattere 9g. Wallis, sociologo
americano, autore del volume Messiahs: Christian and Pagan, Boston, 1918 — al
quale allude qui Troeltsch — e di vari manuali di sociologia e di antropologia.
di una morale economica primitivo-conservatrice o di una reli- gione della
solidarietà tribale contrapposta a una religione citta- dina. Questa morale
primitiva della fratellanza, colorata di socialismo, che si pone in antitesi
alla cultura della città e del regno mondano, sarebbe poi stata sublimata e
interiorizzata dai profeti nella morale religiosa umanitaria che conosciamo
dalle più nobili leggi e profezie dell’Antico Testamento. A questi esempi si
potrebbe accostare la struttura delle caste indiane e la loro connessione con
il mondo della rappresentazione religio- sa, da cui è determinato il carattere
economico dell’India; © anche il culto familiare cinese, che possiede una
grandissima importanza per la struttura sociale dell'impero e quindi per ogni
modo e direzione di lavoro economico. In ogni caso è chiaro che abbiamo qui
davanti relazioni straordinariamente strette, ma sviluppate e mediate in modo
piuttosto vario, che incidono profondamente da entrambi i lati — da quello
della religione e da quello del lavoro economico — sulla totalità dello spirito
e del senso della vita. Si tratta — come ha posto giustamente in luce Fustel de
Coulanges — di un rapporto di azione reciproca che può essere determinato
sempre soltanto caso per caso e in cui è molto difficile, a causa del carattere
inconscio dei processi, stabilire l'iniziativa dell’uno o dell’altro elemento.
Il medesimo studioso indica però anche, in modo non meno chiaro e intuitivo, la
graduale rottura dell’ordinamento sociale, condizionato dalle originarie
potenze sociologico-culturali, da parte del razionalismo degli interessi
economici e politici — il quale impara a seguire i propri impulsi — non appena
vi siano masse sufficientemente vaste i cui bisogni non vengono più soddisfatti
nel vecchio sistema socio-culturale. In base all’esem- pio dei Greci e dei
Romani, egli descrive le rivoluzioni rivolte contro l’ordinamento e il legame
religioso della società, il razio- nalismo dei bisogni che in esse si sprigiona
e i tentativi di nuove ricostruzioni razionali della società che poi, reagendo
sull’etica e sulla dottrina sociale della filosofia, cercano di crear- si un
nuovo ideale etico. A ciò si può aggiungere che una rivoluzione siffatta si è
relativamente affermata ed è penetrata soltanto in Grecia e a Roma. Nel resto
dell’umanità dominano ancor oggi — prescindendo dagli ambiti delle religioni
universali di cui avremo occasione di parlare tra poco — quelle stesse situazioni
di vincolo sociologico-culturale della società e dell’e- conomia. Basta fare
riferimento, per esempio, al libro di viaggi dell'americano Henry Frank"
Peter the Hermit (New York, 1907), con le sue immagini della società colte dal
basso, per avere l'impressione immediata dell’effetto di queste cose sulla vita
economica pratica e, reciprocamente, prove stupefacenti della divinizzazione
religiosa degli ordinamenti esistenti. In questo consistono le difficoltà
politico-religiose del Giappone moderno, il quale ha scelto il razionalismo
dello stile economi- co europeo e non può conciliarlo con i fondamenti
sociologi- co-culturali della sua vita precedente. Da ciò derivano gli esperi-
menti religiosi che ora intendono creare artificialmente una nuova religione
statuale e imperiale, ora cercano un appoggio nel Cristianesimo, ora si
accontentano dell’indifferente ateismo europeo. Non è però possibile seguire
qui il tema in questa sua enorme estensione; si deve piuttosto fare riferimento
a un singo- lo punto determinato. A ciò siamo indotti anche dal fatto che la
religione etnica del culto degli antenati e dello stato — la sola che abbiamo
finora toccata — non è affatto dominante in modo esclusivo. Essa ha subìto
rotture in singoli punti, ad opera di religioni universali e spirituali, la cui
essenza consiste soltanto nell’idea di Dio, nell’ethos, nel sentimento,
nell’intui- zione religiosa del mondo, e che producono di conseguenza forme
sociologiche del tutto differenti. In luogo della comu- nità di culto coincidente
con determinati gruppi naturali, com- pare qui la comunità religiosa di idee e
di sentimenti — cioè una comunità universale e propagandistica. Pertanto anche
il rapporto tra religione ed economia è completamente diverso. Si tratta del
Buddismo e delle tendenze ad esso affini in Oriente, del Giudaismo con le sue
due grandi ramificazioni — Cristia- nesimo e Islam — in Occidente. Certamente,
anche queste nuove formazioni religiose non sono sorte senza una preistoria 10.
Henry Frank (1854-1933), predicatore prima metodista e poi congregaziona-
lista, passò infine a una forma di religione liberale con simpatie
positivistiche. Fon- datore della Rationalist Society di New York nel 1897,
scrisse tra l'altro numerosi romanzi filosofici (tra cui quello citato nel testo)
e un poema allegorico dal titolo The Last Enigma (1924). sociale, e quindi
anche economica, che le condizionasse. Qui però non possiamo approfondire
ancora quest’elemento: basti rile- vare che emerge ora un concezione e una
posizione in linea di principio nuova del nostro problema. Qui l’idea religiosa
è essa stessa un'idea etica e metafisica; essa comporta non più soltanto in
modo mediato, attraverso le sue conseguenze sociologiche, ma anche in modo
immediato, attraverso la sua valutazione religiosa della vita, una presa di
posizione nei confronti della vita sociale ed economica. Tuttavia essa è
diversa nelle diverse religioni che abbiamo elencato. Il Buddismo considera i
vecchi ordinamenti di casta conservati dal culto come indifferenti; li lascia comunque
sussistere e non crea affatto una propria auto- noma comunità religiosa. Così
esso agisce con la piena coerenza della sua idea — che consiste nella totale
assenza di proprietà — soltanto attraverso i suoi specifici portatori, i
monaci; per il resto lascia sussistere gli ordinamenti così come sono, e im-
pedisce solamente il sorgere di ogni vita razionalistica diretta al profitto,
che potrebbe distruggerlo. Tra le religioni occiden- tali il Giudaismo ha
acquistato notoriamente un’enorme impor- tanza economica, la quale in parte è
fondata sull’accettazione attiva del mondo implicita nella sua fede nella
creazione e sulla considerazione religiosa delle virtù della diligenza, del-
l’operosità, della sobrietà, ma per la maggior parte è scatu- rita dai suoi destini
storici? In verità, nel Giudaismo la religione rimane anzitutto legata a un
saldo contesto popola- re, e la sua etica economica e il suo atteggiamento
verso l’econo- mia sono influenzati da quest'idea fortemente terrena del futu-
ro e della destinazione del popolo eletto. Qui la frattura dell’e- lemento
religioso con l’elemento sociale — e quindi anche con quello economico — non si
è ancora compiuta. Ma essa non è avvenuta neppure nell'Islam, che rimane
internamente legato, attraverso il Corano e il suo specifico diritto, a gradi
primitivi di organizzazione della società e a livelli primitivi di economia. a.
Nel ben noto — e per molti versi illuminante — libro di Sombart!! quest'ultimo
elemento è sottovalutato, almeno quanto è sopravvalutato il primo. 11.
Troeltsch si riferisce qui alle tesi sostenute da Sombart in Die /uden und das
Wirtschaftsleben, Munchen. Ciò costituisce la base della forza e del successo
della sua missio- ne tra le razze inferiori, ma anche della sua debolezza e
della sua ostilità nei confronti dello stile economico europeo. Questo non è
infatti conciliabile già con la natura primitiva del diritto islamico e con i
suoi giudizi da cadì. La liberazione reale dell’interiorità religiosa e della
comunità religiosa separata da tutti gli elementi sociali ed economici ha avuto
veramente luo- go soltanto nel Cristianesimo, ma pur sempre in modo tale che
essa non significa una completa negazione ascetica del mondo, ma si richiama
nel medesimo tempo — insieme con il Giudai- smo — alla bontà della creazione e
al significato del mondo come luogo di lavoro. In ciò è però contenuta non già
una soluzione particolar- mente chiara del problema, ma piuttosto
un’impostazione più difficile e complicata del compito. In particolare si deve
bada- re ai seguenti punti di rilievo. In primo luogo, con questa totale
interiorizzazione e spiritua- lizzazione della religione, essa viene liberata
dalle sue implica- zioni con la vita sociale ed economica. Ma ciò significa
anche che influenze e determinazioni dirette su questo mondo profa- no della
vita possono svilupparsi dall'idea religiosa soltan- to con grande difficoltà.
Tale idea si muove sempre a un'altez- za ideale che si contrappone indifesa ai
concreti rapporti della vita e alle loro potenti formazioni di interesse. In
particolare ciò significa, reciprocamente, che il lavoro economico rimane ora
abbandonato a se stesso e può sviluppare, del tutto indistur- bato, il suo
razionalismo degli interessi e delle opportunità come un principio puramente
mondano. Ma dato che il razio- nalismo della vita economico-sociale si
configura, in ultima ana- lisi, come lotta economica per l’esistenza 0 come
concorrenza, questa etica religiosa si contrappone ovunque alla lotta raziona-
le per l’esistenza, che non può mai impedire direttamente. Il mondo delle idee
religiose non possiede nessun mezzo suo pro- prio e diretto per organizzare €
per interrompere tale lotta, e si rivolge ai mezzi razionali con cui la stessa
visione profana degli scopi si propone di regolarla. La santificazione
religiosa del carattere e l’amore fraterno non sono in grado di risolvere in
modo diretto, e di per sé soli, questi problemi. Il libro dell'inglese Benjamin
Kidd Social Evolution!" — a suo tempo oggetto di larga considerazione, e a
cui lo zoologo A. Weis- mann ha premesso un’introduzione — ha riconosciuto in
modo molto aderente questo stato di cose, contrapponendo il raziona- lismo
della lotta per l’esistenza, come principio puramente ra- zionale, al principio
religioso dell’autorità e dell’ordine sulla base dei sovrastanti princìpi
dell'amore. Se però le cose stanno in questo modo, allora la soluzione del
problema riposerà sem- pre su qualche mezzo atto a far tacere, o almeno a
regolare, la lotta per l’esistenza, ma che la religione non può mai sviluppa-
re semplicemente da se stessa. Essa dovrà sempre fare affida- mento su qualche
auto-regolamentazione razionale o accidenta- le di quella lotta per l’esistenza
che sia ad essa favorevole e che le venga incontro, ma che essa può soltanto
cogliere e fissare. Si tratterà però sempre di compromessi e di equilibri con
la vita reale. In secondo luogo, l’idea religiosa dominante sembra qui essere,
in sé e per sé, di natura puramente religiosa e ideologi- ca. Infatti il punto
di partenza non è un vincolo immediato della vita naturale da parte del culto,
una coincidenza tra cer- te forme naturali e le forme culturali della comunità,
bensì l'ideale etico. Ma la sua indipendenza è anche qui molto condi- zionata.
Il rapporto reale è molto più complicato di quanto non appaia a prima vista. In
verità, anche qui gli ideali fonda- mentali non sono affatto così liberi dal
sostrato reale e concre- to sul quale, e nei confronti del quale, si elevano.
Gli ideali di Gesù sono connessi con il grado di economia e con le situazioni
climatico-naturali della Galilea: non sarebbero potuti nascere in una grande
città moderna. In modo analogo, tutti i successi- vi ideali economici
dell’epoca cristiana recano, inconsapevol- mente e involontariamente,
l'impronta del suolo su cui sorgo- no. Essi contengono sempre qualcosa che
appartiene all’epoca e alla situazione, ma che non percepiscono come tale e che
fissa- no in forma di verità eterne, di comandamenti divini, di inter-
pretazioni della Bibbia. Come il mondo ideale della Bibbia lascia ovunque
trasparire il fondamento sociale ed economico 12. Social Evolution, London,
1894; tr. ted. col titolo Soziale Evolution, Jena, 1895. La prefazione di
Weismann è premessa a questa traduzione. su cui poggia, così tutte le
successive interpretazioni della Bib- bia sono da parte loro condizionate dalle
idee ovvie che le circondano e che esse presuppongono. Cattolicesimo,
Luteranesi- mo, Calvinismo, sette e mistici leggono la Bibbia in base a certi
determinati presupposti sociologici, considerati come ov-vi, che vogliono
vedere confermati e regolati dalla Bibbia. Al- l'inverso, anche i tipi di
azione in apparenza soltanto filosofici e razionalistici, o che si presentano
come costume e come pras- si, sono inconsciamente determinati da presupposti
cristiani, e nei sistemi che pretendono di essere completamente profani vi è
una ricchezza di spirito cristiano. Il rapporto deve qui essere ogni volta
illuminato e stabilito caso per caso. Qui non vi sono quelle leggi e formule
generali di sviluppo progressivo, tanto care al moderno bisogno di
generalizzazione. Si tratta di un gioco di forze che oscilla avanti e indietro,
il cui risultato dev'essere determinato in ogni caso particolare di un'idea
econo- mico-sociale che domina i grandi periodi. In terzo luogo, occorre
considerare che, proprio per la sua pura interiorità e per l’autonomia
dell'elemento religioso che viene qui elevata al massimo grado, l’idea
cristiana non possie- de alcun mezzo di influenza diretta, e che anche le
esigenze etiche molto idealistiche non sono, di per sé sole, un mezzo del
genere. Essa esercita le sue influenze principali — nonostan- te la pretesa
spesso avanzata di un condizionamento diretto puramente ideologico — non già
attraverso l’esigenza etica ma indirettamente, attraverso le forme di comunità
religiosa da essa create. Queste scaturiscono da idee dogmatiche, di culto e
puramente religiose, e non vengono mai progettate a scopi sociali profani;
tuttavia possiedono una potenza organizzatrice e vincolante, che nessuna
formazione sociale del puro raziona- lismo possiede. Con queste forti forme
sociologiche esse ab- bracciano però anche — analogamente a quanto ha mostrato
Fustel de Coulanges per gli antichi culti degli antenati e della città — la
vita complessiva, e costituiscono la sua ovvia base etico-spirituale. Nel
Cattolicesimo e nel Protestantesimo è certa- mente presente qualcosa del
terreno sociale da cui traggono la loro linfa vitale. Ma l’organizzazione
sociologico-religiosa del- l’autorità, dell’istituzione, dell’individualismo ha
determinato in misura ancora maggiore la generale atmosfera culturale, e
soltanto per il suo tramite è stata influenzata la vita profana nell'economia e
nella società. Nonostante l’apparente autono- mia dell’ideologia etica sussiste
anche qui il problema marxi- stico, ma in modo che esso non significa
semplicemente la dipen- denza dell’elemento religioso da quello sociale ma
anche, reci- procamente, la dipendenza dell'elemento sociale da quello reli-
gioso. Ciò che si presenta nel caso singolo non può venir chiari- to da una
teoria generale, ma soltanto da un’indagine condotta caso per caso. Partendo da
ciò risulta parimenti chiaro che il razionalismo economico, laddove perviene a
un'autonomia illi- mitata, si volgerà contro questi vincoli sociologico-religiosi
e cercherà di rendersene del tutto indipendente. Non sono dunque soltanto
l'impossibilità di abbracciare il pro- blema in tutta l'ampiezza della sua
realtà storico-religiosa, la limitazione della sua osservazione e della sua
conoscenza ai pochi punti finora accessibili, e la necessità di indagarlo sem-
pre concretamente caso per caso, che hanno in ultima analisi li- mitato
l’indagine all’unica religione che ci è, da questo punto di vista,
perfettamente familiare. E neppure è la sua importanza per la nostra cultura —
che ha peso pratico soltanto per noi. Si tratta piuttosto, in primo luogo,
della particolare importanza in- trinseca che, da questo punto di vista, il
Cristianesimo riveste. Esso si è sviluppato sulla linea di confine tra Oriente
e Occidente, dall’umanità religiosamente fondata e dalla speran- za di
redenzione dei profeti di Israele, e si è quindi configu- rato — svincolandosi
completamente da tutte le condizioni na- turali e sociali — nella forma della
più pura interiorità religio- sa e della fratellanza umana, e al tempo stesso
nella forma di una radicale speranza di redenzione, che si aspettava dal cielo
lo stato corrispondente ai suoi ideali come un’imminente fonda- zione
miracolosa del regno di Dio. Questo ethos e questa spe- ranza di redenzione si
sono uniti con la venerazione religiosa del nunzio del regno di Dio, dando così
luogo a una nuova comunità umana puramente religiosa e culturale ed essendo poi
costretti, per il mancato avvento del regno di Dio, ad applicare il loro ideale
— come regola di vita della Chiesa — alla vita pratica e duratura nella società
e nell’economia. In tal modo ha avuto immediatamente inizio il problema, che
perdura fino ai nostri giorni. STORIA E DOTTRINA DEI VALORI * Il problema è
quello della creazione della sintesi culturale contemporanea sulla base
dell’esperienza e della conoscenza sto- rica. Ciò ha condotto alla connessione
del comprendere storico- individuale con l’idea di un criterio. Questo criterio
si è però dimostrato complicato, in quanto racchiudeva in sé una duplice
applicazione all’accaduto e al futuro, assumendo un diverso significato nei due
casi. Esso comportava da un lato la misura- zione dell’accaduto in base agli
ideali ad esso di volta in volta propri, dall’altro la direzione verso il dover
essere da produrre nel presente, il quale non può scaturire da un’astratta
ragion pura, ma solamente in stretto contatto con le possibilità e le tendenze
effettive del momento. La connessione di questi due momenti del criterio
risultava infine nell’idea dell’indivi- dualità di ogni formazione presente di
un criterio, in quanto questa è anche, da parte sua, una formazione e creazione
della vita storica. Tale essa apparirà agli storici futuri, e fin da ora
dobbiamo comprenderla e sentirla in questo modo. Tutto pog- gia perciò anche
qui sull’idea di individualità; solo che ora in questa idea non compare
soltanto la fatticità del particolare e del singolare, come avviene
prevalentemente nella logica empi- rica della storia, ma l’individualizzazione
di volta in volta di un ideale, la concrezione di un dover essere. In questo
nuovo e più profondo senso dell’individualità idea e fattualità sono ora, già
nell’accaduto, una cosa sola; e lo sono l’una e l’altra anche, ® Der
Historismus und seine Probleme, 1. Uber Masstàbe zur Beurteilung histo- rischer
Dinge und ihr Verhdltnis zu cinem gegenwirtigen Kulturideal, sezione 5: Ge-
schichte und Werilehre, in Gesammelte Schriften, Tiùbingen von J. C. B. Mohr,
vol. III, 1922, pp. 200-221 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi). e
con un interesse pratico ben altrimenti rafforzato, nella forma- zione di un
criterio e nella sintesi culturale contemporanea; in tale senso poggia infine
anche la connessione delle tendenze ideali trascorse con quelle da creare
muovendo dal presente. La comprensione di questa connessione è però una
questione di azione e di creazione intuitiva, per la quale non esiste
nessun’al- tra oggettività al di fuori della coscienza del fatto che, essendo
creata da un tratto interno della storia stessa, si conferma nella coscienza
come vincolante e nell’esperienza come feconda. È chiaro — ed è stato più volte
sottolineato — che in questo modo si passa dal terreno della pura logica
storica al terreno di una nuova regione scientifica. È il terreno della dottrina
dei valori o assiologia, come oggi si usa dire. L’intestazione di questo
capitolo avrebbe quindi potuto anche essere « Storia e dottrina dei valori» —
esattamente come quello precedente avrebbe potuto anche intitolarsi «Storicismo
e naturalismo ». Se sono stati preferiti i titoli sopra segnati, lo si è fatto
per ottenere la massima prossimità ai problemi della vita di oggi e per evitare
un’astrattezza troppo esangue. Ma da un punto di vista puramente logico si è
compiuto, in questo capitolo, il trapasso dalla storia alla dottrina dei
valori; si è cioè entrati in questa nuova regione scientifica attraversando la
porta del con- cetto di individualità, che solo può condurre dall’una
all’altra. E lo può perché il concetto di individualità non significa soltan-
to la particolarità puramente fattuale di un complesso storico- spirituale dato
di volta in volta, ma significa al tempo stesso un’individualizzazione
dell’ideale o del dover essere, che certo non si realizza compiutamente in ogni
forma particolare, ma che aspira a realizzarsi e che in essa si incorpora,
secondo le circostanze, più o meno felicemente *. Entrare nella regione a.
Sulla.« progressiva scoperta del regno dell’individuale, che lo spi- rito
tedesco intraprese con focoso zelo », si veda F. MEINEcKE, Weltbiir- gertum und
Nationalstaat, Miinchen und Berlin, 1908, p. 277. Significa- tiva è anche
l'osservazione sulla duplicità dell’individuale che viene qui presupposto, cioè
il suo aspetto fattuale e l'aspetto della doverosità: si veda a p. 281, dove si
rimanda a Novalis! e a Ranke (nonché a Humboldt). 1. Friedrich Leopold von
Hardenberg, detto Novalis (1771-1801), uno dei mag- giori poeti romantici
tedeschi, autore degli Hymnen an die Nacht (1797), del romanzo incompiuto Die
Lekrlinge zu Sais (1798), di un altro romanzo anch'esso non condotto a della
dottrina dei valori per questa porta non costituisce la regola; e tuttavia ciò
è imprescindibile per una filosofia materia- le della storia, cioè per poter
pensare e porre il valore in base alla storia. Si tratta del primo grande
problema di ogni filoso- fia della storia, rispetto al quale tutti gli altri
passano in secon- da linea. Rimane da dire ancora qualche parola polemica in
merito alla consueta configurazione della dottrina dei valori nella filosofia
moderna. Che cos'è la teoria generale dei valori o assiologia? Come si coordina
con le scienze della natura e dello spirito — entram- be scienze del reale,
fortemente e coercitivamente determinate nel loro rapporto con l'oggetto — nel
g/obus intellectualis delle scienze? È una scienza empirica o @ priori, formale
o mate- riale? Questa impostazione influenzata dal neokantismo, e oggi così
predominante, è però troppo semplice ed esclusiva. In veri- tà nessuna scienza
è puramente empirica, ma ognuna è frammi- sta di princìpi di elaborazione @
priori; e d'altra parte nessuna scienza è puramente formale, ma comporta sempre
un'elaborazione dei fatti dell'esperienza e delle realtà vissute, con la cui
materialità sta al tempo stesso in stretta connessione — prescindendo
naturalmente dalla logica formale (si può qui trascurare l'ardua filosofia
della matematica, ossia la questione se sia puramente formale e 4 priori,
oppure anch'essa carica di sen- sibilità e di intuizione). In ogni caso la
dottrina dei valori non può quindi essere una scienza puramente 4 priori e
formale. An- ch’essa rivela princìpi di elaborazione della realtà vissuta che
stanno in stretta connessione con questa e che possono venir trovati soltanto
in base all’analisi della vita reale. La sua distin- zione dalle altre scienze
della realtà consiste soltanto nel diver- so significato e nella diversa
posizione che i princìpi di elabora- zione a cui essa fa riferimento hanno nei
confronti della realtà vissuta. Questi si propongono non già il collegamento
esisten- ziale e oggettivo del reale, ma la sua valutazione e formazione
soggettiva e normativa. Ma, come quelle forme di collegamen- to si connettono
strettamente con l’essenza del reale, così anche queste norme di valutazione e
di formazione si connetto- termine su Heinrich von Ofterdingen (1799) c di
Fragmente di argomento filosofico. Il suo pensiero storico-politico è esposto
in Die Clristenheit oder Europa (1799), roman- tico vagheggiamento dell'unità
del mondo cristiano medievale. no indissolubilmente con le tendenze di
contenuto già presenti nella vita reale. Perciò, come quelle forme possono
essere astrat- te soltanto dalle scienze già esistenti e reagiscono poi sulle
scienze in forma più raffinata e sistematizzata, così anche que- ste vengono tratte
da valutazioni e formazioni effettive. Ciò può accadere soltanto in virtù di
una fenomenologia comprensi- va, quale è stata oggi ormai intrapresa,
soprattutto da parte della scuola fenomenologica. Tutte le valutazioni, anche
quelle più soggettive, più accidentali e più legate ai sensi, vengono in tal
modo collocate su un terreno comune insieme con quelle più oggettive, più
ideali e più svincolate dalla sensibilità, per poter poi rintracciare su questa
base le diverse classi di valori e la loro legge essenziale, e per poter infine
ricondurre il rappor- to reciproco delle varie classi di valori a una legge
universale, che naturalmente è una legge concernente non l’essere ma il dover
essere, pur essendo, in quanto tale, sempre profondamen- te radicata nell’essere.
Non è qui il caso di inoltrarci in partico- lari assai spinosi. È necessario
sottolineare la cosa principale, cioè che questo inquadramento complessivo dei
valori ha il significato di mostrare fondamentalmente l’essere vivente non già
come un essere contemplativo e riflessivo, ma come un essere che agisce
praticamente, che sceglie, lotta e tende a qual- cosa, in cui ogni mera
intellettualità e ogni mera contemplazio- ne si pone, in ultima istanza, al
servizio della vita, sia essa animale o personale-spirituale. Ciò è importante,
nel suo signifi- cato assolutamente decisivo, anche per il nostro argomento.
Altrettanto importante è però mettere in rilievo che, a un’anali- si più
prossima, l’unitarietà di questi valori pratici — inizial- mente ammessa — si
articola immediatamente nei valori mera- mente animali e nei valori
personali-spirituali della cultura, ai quali appartiene il carattere formale
della doverosità e dell’im- pegno alla- realizzazione. Particolarmente
significativa è poi, sempre all’interno di questi ultimi, la scissione tra le
conse- guenze tratte dalla doverosità formale — le quali, in quanto doveri
individuali e doveri comunitari, designano l’elemento morale in senso stretto®
— e i contenuti culturali, di cui si a. Di questa scissione si dovrà ancora
parlare nell'analisi conclusiva sull’etica e sulla filosofia della storia.
tratta nelle scienze della cultura o nelle scienze sistematiche dello spirito
relative allo stato, al diritto, all'economia, all’arte, alla religione e alla
scienza (per lo meno nella misura in cui questa è bene culturale e non logica).
Il fine ultimo di quest’a- nalisi è perciò naturalmente, come ogni volta che si
confidi nell’unità e nel senso del reale, la sintesi in vista di una costru-
zione e di un sistema dei valori in cui il presupposto di questa fiducia — che
è, in ultima analisi, una fiducia religiosa — non dev'essere dimenticato, e in
cui anche l’intera questione dell’esi- stenza e dell’origine di questi valori
nell’essere vivente finito deve riportare al rapporto della coscienza assoluta
o Dio con la coscienza finita. La dottrina dei valori conduce necessariamente a
sfondi metafisici in cui dev'essere risolto, in particolare, anche il problema
del rapporto tra vita e materia della vita, tra dover essere ed essere ?, a.
Purtroppo lo sviluppo e la formazione storica della dottrina dei va- lori non
sono ancora stati studiati in maniera sufficiente. Sarebbe urgente un libro in
proposito del tipo della Geschichte des Materialismus di Lan- ge? o
dell’Erkenntnisproblem di Ernst Cassirer3. Le esposizioni attuali prendono
invece le mosse soprattutto da Lotze, che ha dato inizio al mu- tamento
propriamente moderno della metafisica in una dottrina dei valori e ha quindi
inserito, come in ultima istanza decisive per il contenuto della metafisica, le
idee della dottrina kantiana della ragion pratica su una base metafisica
alquanto più ampia. La dottrina dei valori costituisce di per sé un problema
molto più antico e comprensivo, e l’inserimento kantiano-lotziano nella metafisica
è soltanto una delle molte forme pos- sibili di collegamento con la metafisica.
Il suo problema ultimo, più ca- ratteristico e generale consiste quindi nella
permanente conversione dell’es- sere nell’aspirazione e nel dovere, e di questi
ultimi nuovamente nell'es- 2. F. A. Lance, Die Geschichte des Materialismus und
Kritik seiner Bedeutung in der Gegenwart, Iserlohn, 1866. — Friedrich Albert
Lange (1828-1875), filosofo tedesco di orientamento neokantiano, fu altresì
autore di Die Grundlagen der mathematischen Psychologie (1865), di Die
Arbeiterfrage in ihrer Bedeutung fiir Gegenwart und Zukunfe (1865), dei Neue
Beitrige zur Geschichte des Materialismus (1867) e delle postume Logi- sche
Studien (1877). 3. E. Cassirer, Das ErZenntnisproblem in der Philosophie und
Wissenschafe der neueren Zeit, Berlin, 1906-1920 (il quarto e ultimo volume
sarà pubblicato in inglese a New Haven, nel 1950). Cassirer, filosofo tedesco
di orientamento neokantiano, autore di Stbstanzbegrif und Funktionsbegriff
(1910), della Philo- sophie der symbolischen Formen (1923-1929), di Zur Logik
der Kulturwissenschaften (1942), di An Essay on Man (1944) e di altre
importanti opere di storia della filosofia, in particolare sul Rinascimento e
sull'Illuminismo, sviluppò l'impostazione neocritici- stica propria della
scuola di Marburg nel senso di una « filosofia della cultura ». In tal modo non
è stata ancora caratterizzata abbastanza la specificità di questa scienza, e
soprattutto non è stata illustrata la particolarità dell’attuale stato del
problema, sottoposto a oscillazioni così sensibili. Essa pure riesce a fare
completa chia- rezza sul metodo e sul fine soltanto se, anche qui, si ritorna
alle radici dei punti di vista e delle terminologie moderne, cioè alla svolta
cartesiana verso la filosofia della coscienza, da cui abbiamo già visto
scaturire il naturalismo e lo storicismo. Ciò che qui inganna è soltanto la
circostanza che l’equiparazione terminologica di tutte le reazioni pratiche,
sia del sentire sia del volere, in quanto valori, è dovuta alla filosofia
moderna successiva a Lotze e all’influenza dell'economia politica. In sé e per
sé, invece, l'impostazione è antica e coincide con il carte- sere — un problema
che non può venir risolto in base ai presupposti della logica puramente formale
e astratta della riflessione, ma che rimanda a quel piano meta-logico giù sopra
accennato. Se viene mantenuto sul piano della logica astratta della
riflessione, esso conduce sempre ad antinomie e a impossibilità, a semplici
accostamenti tra essere e dover essere, tra causalità e teleologia, tra
determinismo e libertà, tra immobilità e mo- vimento, tra rappresentazione e
volontà —- in breve, a un dualismo inso- stenibile, in cui alla fine rimane
soltanto l'essere come il più facile da rappresentare e da elaborare
logicamente. Tra le esposizioni storiche cfr. K. WieperHoLp, Wertbegriff und
Wertphilosophie (Erginzungs-Heft alle « Kantstudien », 52, Berlin, 1920); E.
HevpE, Grundlegung der Wertlehre, Leipzig, 1916 (dal punto di vista della
filosofia dell’immanenza di Grefs- wald); W. SrricH, Das Wertproblem und die
Philosophie der Gegen- wart (Diss.), Leipzig, 1909; G. Picx, Die
Ubergegensdtzlichkeit der Werte, Tibingen, 1921 (si richiama a Lask e a
Rickert). Accanto ai lavori più volte citati di Ehrenfels, Meinong,
Miinsterberg, Volkelt, si devono segna- lare E. von Hartmann, System der
Philosophie im Grundriss, vol. V: Grundriss der Axiologie, oder
Wertwigungslehre, Sachsa, 1908; E. von Srrancer, Lebensformen, Halle, 2° ed.
1921; M. ScHeLER, Der Forma- lismus in der Ethik und die materiale Wertethik,
Halle, 22 ed., 1921; D. von Hitpesranp, Sittlichkeit und ethische
Werterkenntnis, «Jahrbuch fiir Philosophie und phinomenologische Forschung »,
V, 1922, pp. 462-601 (trattazione di finissima psicologia cattolica da cura
dell'anima, intesa co- me «legge essenziale » dell'ordinamento dei valori); T.
Lessine, Studien zur Wert-Axiomatik, Leipzig, 2° ed. 1914 (di tendenza
anti-psicologi- stica e indifferente a ogni reale, con conseguenze
pessimistiche). Sono lar- gamente d’accordo con J. VoLkeLr, di cui si veda il
System der Asthetik, Miinchen, vol. III, 1914. Lo stesso problema ritornerà in
seguito dal punto di vista del concetto di sviluppo, e ci costringerà a
menzionare e a distin- guere le diverse scuole e i diversi gruppi: per ora
basti un accenno. sianesimo. Se il punto di partenza decisivo è la coscienza,
l'analisi dei suoi contenuti e dei suoi principi formali e la costruzione
filosofica della realtà in base agli clementi e ai princìpi in essa trovati,
allora le rappresentazioni, i sentimenti e le volizioni — vale a dire la
cosiddetta esperienza interna ed esterna — diventano il solido nucleo di ogni
pensiero, e i fatti teoretici e pratici della coscienza si accostano gli uni
agli altri come datità in larga misura omogenee, a partire dalle quali soltanto
si può procedere a un'articolazione e a una distinzio- ne. Le cose stavano in
modo completamente diverso nella filoso- fia antica e medievale. Qui non c’era
una dottrina della ragion pratica o dei valori, bensì una dottrina dei beni e
degli scopi, rispetto ai quali la vita affettiva sensibile apparteneva fin
dall’i- nizio all’aspetto finito e sensibile, inessenziale, dell’esistenza. In
Platone e Aristotele i beni erano scopi cosmici, contenuti nella ragione divina,
che si realizzavano nello sviluppo teleolo- gico attraverso la « partecipazione
» dello spirito finito alla ra- gione divina. Non diversamente stavano le cose
con la legge naturale dello Stoicismo, che era una legge cosmica e alla qua- le
la ragione umana partecipava in una maniera particolare. Anche l’edonismo, che
si esprimeva in forma collaterale, sfocia- va in un'imitazione dell'armonia e
della bellezza dell’universo, e per di più non riuscì ad affermarsi. La
dottrina cristiana fondava i beni su un ordine cosmico e su una gerarchia dei
beni, accogliendo così fondamentalmente le idee antiche, e svi- luppava il suo
sistema gerarchico dei beni come una copia dei gradi di realizzazione della
vita di Dio nel mondo. In ultima analisi essi non procedono più qui in base
alla mera « partecipa- zione » al sistema soprasensibile delle idee e delle
leggi, ma scaturiscono da una conciliante auto-partecipazione di Dio nella
creatura, che si esprime in valori umanitario-naturali e in valori
religiosi-soprannaturali. Identità e diversità tra spirito divino e spirito
finito vengono qui affermate contemporaneamente, e da questa coincidentia
oppositorum scaturisce il sistema dei beni come manifestazione di un movimento
di vita divino *. Soltan- a. Cfr. il mio Augustin. Die christliche Antike und
das Mittelalter, Miinchen, 1915, e H. Hemsòra, Die sechs grossen Themen der
abendlin- dischen Metaphysik und der Ausgang des Mittelalters, Berlin.to la
svolta cartesiana ha trasformato i beni in fatti esclusivi di coscienza.
L’empirismo inglese ne ha subito tratto la conseguen- za dell’equiparazione di
tutte le reazioni pratiche in quanto sensazioni di piacere e si è sforzato di
costruire l’etica e il sistema culturale sulla base del piacere. I grandi
razionalisti continentali si attennero certamente, anche nella filosofia prati-
ca, alla scissione tra sensibilità e ragione, ma nel complesso cercarono di
ricondurre i valori all’intelletto, e cioè di sviluppa- re l’etica in base al
fatto — immanente alla coscienza — dell’in- telletto e quindi della sua
antitesi rispetto alla sensibilità. An- che un metafisico dogmatico come
Spinoza non faceva eccezio- ne, poiché tutta la sua metafisica è, in
definitiva, il dispiega- mento dell’essenza formale del pensiero, e in quanto
tale proce- de da parte sua dalla coscienza. La terminologia si muove ancora
all’interno del linguaggio antico e cristiano, mescolata con la terminologia
del piacere — anch'essa del resto derivante dall’antichità. Ma il principio è
già quello dei «valori». La dottrina kantiana produsse infine i concetti
universali della ra- gione teoretica e della ragione pratica, distinguendo poi
all’in- terno di quest'ultima tra scopi ipotetici e scopi categorici e
sovra-ordinando in linea generale il pratico al teorico. Anche la speculazione
post-kantiana non è tanto distante come può sem- brare, poiché la sua dottrina
dell'identità procede ancora dalla conoscenza e cerca di derivare i valori
dall’essenza formale della ragione, non dalla ricchezza ontologica dell’idea di
Dio. I valori non sono partecipazione o derivazione della grazia, bensì
produzione e creazione umana in base all’impulso della ragio- ne. Infine le
dottrine del positivismo, che è assai vicino all’utili- tarismo inglese, fanno
egualmente sorgere nello sviluppo i valo- ri culturali dall’intelletto e dal
senso comune, cioè spiegano tutto sulla base di dati fondamentali psicologici e
delle loro implicazioni evoluzionistiche, per fondare in definitiva — con la
maggiore sobrietà possibile — una sistematica dei fini socia- li così posti
sulla base di una conoscenza positiva delle leggi della natura e della società.
La naturale conseguenza di ciò è stata alla fine la terminologia dei valori,
cioè la riunione — oggi consueta — di tutte le reazioni e formazioni pratiche
nella teoria dei valori; e l’indagine sistematica del significato del valutare
poteva ora essere intrapresa non soltanto per la coscien- ERNST TROELTSCH 865
za, ma per la filosofia nel suo complesso — come è accaduto 2 partire da Lotze,
fino a confluire oggi con la filosofia pratica di Kant. La « filosofia dei
valori » in senso stretto, sviluppatasi oggi in seguito a questa confluenza, la
quale edifica l’intera dottrina dei valori in base al valore teoretico o al
valore di validità dell’elemento logico e la pone in questa forma al posto
della metafisica — ci riferiamo in particolare alle teorie di Miinsterberg, di
Rickert e di Lask — rappresenta pertanto un tentativo di spremere dall’elemento
soggettivo o immanente al- la coscienza l’elemento oggettivo: tentativo che esprime,
con tutta la sua acutezza, soltanto la precarietà di un siffatto punto di vista
dell’immanenza. Queste teorie costituiscono, entro la dottrina dei valori,
soltanto una specificazione acuta ma poco feconda. Questo fondamentale
soggettivismo non costituisce però l’e- lemento decisivo per la connessione che
abbiamo ora di fronte. Esso non potrà venir mutato nel suo punto di partenza
analiti- co-coscienziale finché dura il pensiero moderno, e si potrà discu-
tere soltanto dei suoi risultati e del modo delle sue conclusioni metafisiche —
in quanto mutamenti siffatti non sono mai man- cati e vengono oggi ripresi in
modo sempre più pressante, senza dimenticare l'applicazione assai approfondita
di Male- branche alla conoscenza in Dio anche dei valori pratici *. Per il
nostro argomento è però decisivo un altro punto. Dato il carattere
immanente-soggettivo dell’utilitarismo, della ragione pratica e del
positivismo, il solo mezzo per distinguere i valori oggettivi, oggetto di
dovere, o i valori culturali etici dai valori animali e sensibili della vita e
dell’utilità diventa l’universalità a. In Spranger e in Scheler* i punti di
contatto con Malebranche sono innegabili. Sulla genesi dell'idea di
individualità in Leibniz cfr. H. ScHma- LENBACH, Leibniz, Mùnchen, 1921 — libro
molto istruttivo, anche se l’asse- rita connessione con il Calvinismo non mi
sembra abbastanza persuasiva. 4. Max Scheler (1874-1928), filosofo tedesco,
autore di Die transzendentale und die psychologische Methode (1900), di Der
Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik (1916), di Wesen und
Formen der Sympathie (1923), di Die Wissensformen und die Gesellschaft (1926),
della Philosophische Weltanschauung (1929) c di varie altre opere, appartiene
al movimento fenomenologico: egli si propose soprattutto di costruire un'etica
«materiale », fondata sulla determinazione di una gerarchia di valori e
contrapposta quindi all'etica «formale » kantiana. delle valutazioni — da un
lato l’uziversalità empirica e di fatto, dall’altro la validità universale ideale,
che dev'essere rico- nosciuta. La maggiore utilità possibile del maggior numero
possibile di persone oppure la validità universale formale della ragion pura,
libera dalla sensibilità, o ancora la vittoriosa diffu- sione riconoscibile nel
corso dello sviluppo: questi diventano gli strumenti di distinzione, e quindi i
criteri di valutazione. Ma con ciò viene scartato il concetto di individualità.
Esso diventa un insieme di punti d’intersezione accidentali di leggi
psicologiche generali da cui si deve estrarre, in modo faticoso e artificioso,
l’universale dover essere; o diventa intorbidimen- to, adattamento e
individualizzazione storica, che perviene alla norma in sé, atemporale e
universalmente valida. Nell’uno e nell'altro caso non c’è alcuna via verso
l’individuale, inteso come unità intima di fattuale e di ideale. Una via
siffatta non è stata ancora trovata neppure nelle odierne considerazioni fe-
nomenologiche, le quali prendono tutte quante le mosse da norme, dalla visione
dell'essenza e dalla legalità atemporale, per aggiungervi soltanto in seguito
il rattoppo dell’individualiz- zazione empirica. Proprio perciò queste dottrine
dei valori urta- no sempre, senza speranza, contro la storia. Esse disconoscono
l'autentica individualità presente nella storia, come stato parti- colare e
determinato di un intreccio reciproco di essere e dover essere, di fattuale e
ideale; disconoscono l’inesauribile e impre- vedibile produttività della
storia, la quale produce sempre nuo- vi elementi individuali e quindi non
individualizza leggi gene- rali, ma ci pone di fronte a formazioni di valori
sempre nuove e imprevedibili. Questo è il nucleo in cui, più che altrove, la
moderna dottrina dei valori ha bisogno di una riforma. Ciò che insegnarono i
Romantici, Schleiermacher, Wilhelm von Hum- boldt, Goethe, dev*essere sempre
riconosciuto di nuovo come il suo problema principale, e posto al centro® per
cacciare via gli a. Si veda il Politisches Gesprich di Ranke in Werke, voll.
XLIX.L: Zur Geschichte Deutschlands und Frankreichs im 19. Jahrhundert (a cu-
ra di A. Dove), Leipzig, 1887, p. 325: «Senza una tensione, senza un nuovo
inizio non si può pervenire dall’universale al particolare. Lo spiri- tuale,
che ti sta improvvisamente davanti nella sua imprevista realtà, non si lascia
derivare da nessun principio superiore. Partendo dal particolare puoi clevarti,
con cautela e risolutezza, all’universale; ma dalla teoria spettri di leggi
generali e atemporali, con le quali la storia e la vita non possono cominciare
nulla e che aprono sempre nuovi abissi immaginari tra storia e dottrina dei
valori, le quali tendo- no invece a unificarsi. Il fatto che le teorie
fenomenologiche, nella loro aspirazione ben consolidata a leggi generali di
essen- za, pervengano, nei diversi pensatori, a risultati diversi — nono-
stante la conclamata visione dell'essenza — costituisce la prova di questo
stato di cose assolutamente decisivo. È del tutto impossibile, partendo dalla
fragile, isolata e vuota coscienza — per quanto si possa attenuarla e dissolverla
mediante la teoria della non-sostanzialità o dell’inconoscibilità dell'io —
ottenere in virtù di una semplice psicologia delle reazioni la comprensione
dell’individualità, che dovrebbe ap- punto avere la sua sede principale nella
dottrina dei valori. Di qui si perviene sempre soltanto ad acuti sofismi o a
nullità tautologiche, alla disputa se il valore risieda nell’oggetto o nel
soggetto o nella relazione tra i due termini, se esso sia una sensazione e una
percezione oppure una disposizione e una reazione soggettiva, se sia fondato su
un giudizio di esisten- za o di non-esistenza, se sia semplicemente momentaneo
o co- stante, semplicemente relativo o se scaturisca dal sentire o dal volere o
dal rappresentare o da un elemento psichico ad esso proprio, se sia meramente
accidentale e personale oppure sovra- personale e oggettivo, e così via. Tutte
queste difficoltà artificio se e insolubili, oppure solubili soltanto
introducendo di soppiat- to valori dogmaticamente normativi (e proprio per ciò
oggetto di fede), cadono qualora si concepisca in modo diverso il pun- to di
partenza, cioè il cosiddetto io, qualora lo si consideri non più come qualcosa
di isolato e di vuoto, provvisto soltanto delle facoltà formali del
rappresentare, del sentire e del volere, ma come virtualmente comprensivo — e
ogni volta in un ambito assai diverso — della totalità della coscienza, oppure
si conside- ri quest’ultima come comprendente in sé l'io, qualora si ritorni
(in qualche forma oggi possibile) all'idea leibniziana della mo- nade, e in
particolare della monade umana, che assume in base generale non c'è strada che
conduca all’intuizione del particolare ». Si ve- da inoltre p. 327: « Natura
della cosa, opportunità, gezio e fortuna coope- Priz/e » OPp 6 P rano [al
sorgere di nuove forme] ». 868 ERNST TROELTSCH alle sue complicazioni una
posizione particolare. Allora è possi- bile intendere i valori nella loro ovvia
soggettività e nel loro carattere relazionale, che deriva dal carattere pratico
e dai fini pratici di ogni essere, cioè dalla vita che tutto riempie. Allora le
valutazioni estranee, passate e future, possono venir sentite come proprie,
perché portiamo al tempo stesso in noi gli io estranei. Allora possono esserci
coincidenze nelle valutazioni, in quanto noi tutti deriviamo dal medesimo
fondamento della totalità della vita, e possiamo quindi sentire allo stesso
modo. Allora è possibile distinguere i valori animali, cioè i valori meramente
vitali che derivano dalle relazioni ambientali, rispet- to ai valori oggettivi
o spirituali, poiché questi ultimi esistono per la totalità dello spirito
divino nella sua totalità che compren- de la finitudine, e poiché l’essere
individuale partecipa a questa totalità dello spirito. Allora possono esserci
medie e sedimenta- zioni sociologicamente condizionate di queste valutazioni,
oscu- rità, turbamenti e disordini dei conflitti tra motivi, da cui
scaturiscono alla fine sempre soltanto il rischio e l’auto-riflessio- ne, cioè
una propria disposizione la quale non è tuttavia inven- zione. Psicologia e
sociologia possono descrivere tutte queste forme di realizzazione, ma non
possono fondare alcun valore particolare e scoprirne le origini ultime. Ma,
soprattutto, soltan- to in questo modo si può cogliere il senso autentico
dell’indivi- dualità, così come i Romantici e i poeti, i filosofi e gli storici
— in primo luogo Wilhelm von Humboldt — lo hanno sottrat- to
all’intellettualismo leibniziano, ancora chiuso in sé senza finestre. Questo
essere individuale che partecipa alla totalità della vita rappresenterà e
realizzerà nella sua situazione, nel suo ambiente e nella sua influenza
particolare il fondamento comune della vita in una maniera ad esso propria —
sia sotto l'aspetto animale del soddisfacimento dei bisogni e della promo-
zione della vita, sia sotto l’aspetto della comprensione del mon- do delle idee
divine. L'uomo, nel suo grado di realizzazione della coscienza, diventerà
quindi un essere storicamente indivi- dualizzato, nonostante i mille aspetti di
omogeneità e di comu- nanza che ha con altri uomini, e possiederà in tal modo
non soltanto una determinatezza di fatto, ma anche un compito che è oggetto di
dovere, nella cui realizzazione crca e acquisisce la sua essenza. Rimangono
naturalmente le questioni ultime come Dio o l’assoluto o la totalità della vita
pervenga a questo movimento costante dell’essere verso i valori, che altro non
è se non la vita, e come questa totalità della vita pervenga all’au-
to-divisione nelle monadi finite. Si tratta di questioni a cui nessuno può
rispondere, ma che non possono neppure essere sostituite da altre impostazioni
più corrette e più facilmente suscettibili di risposta. Esse sono eterne come
il pensiero: sol- tanto l’auto-divinizzazione e l’auto-svuotamento dello
spirito moderno — due momenti strettamente connessi tra loro — hanno potuto
dimenticarle o considerarle mal poste. Si ritorne- rà ancora su di esse
trattando della teoria della conoscenza storica. Qui ci limitiamo per ora ad
accennare al significato decisivo di questa impostazione per l’individualizzazione
stori- ca di tutti i valori. Essa vale sia per gli individui particola- ri che
per gli individui collettivi, senza i quali non si potrebbe- ro concepire
neppure i primi e che, da parte loro, possono essere concepiti soltanto in base
ai presupposti indicati. In tal modo il concetto centrale della dottrina dei
valori diventa quello dell’individualità, nel senso di un’unificazione di
fattuale e di ideale, di dato naturalmente e in conformità alle circostanze e,
nel medesimo tempo, di eticamente imposto. In questo senso il concetto di
individualità coincide con quello della fondamentale relatività dei valori. Ma
relatività dei valo- ri non vuol dire relativismo, anarchia, caso o arbitrio,
bensì designa l’intreccio sempre mobile e creativo, e perciò mai deter-
minabile atemporalmente e universalmente, di ciò che esiste di fatto e di ciò
che dev'essere. Questo intreccio può e dev'essere colto ogni volta — sia che si
tratti dell’individualità singola di una persona, sia che si tratti
dell’individualità collettiva di un popolo e di una comunità culturale —
mediante l’auto-rifles- sione e l’approfondimento in se stessi, nonché mediante
la com- prensione e la conoscenza della situazione e del condizionamen- to
storico. Non è senz'altro a portata di mano, ma dev'essere creato; non si
tratta quindi di un naturalismo di tipo vegetale. Proprio perciò questo
intreccio non è qualcosa di estetico, che induca all’auto-godimento o alla
semplice curiosità — come viene spesso frainteso — ma è un compito e un dovere,
e al tempo stesso anche un orientamento universale, assai sobrio e pratico,
sulle possibilità e sui presupposti della situazione. Esso esige un sapere
spassionato, una volontà chiara, uno sguardo acuto. Tanto meno l’individuale,
inteso in questo senso, costitui- sce una mera categorica logica, che debba
essere applicata a qualsiasi oggetto in virtù di una coercizione logica, a
fianco di una considerazione dal punto di vista di leggi generali che derivi
dalla medesima coercizione. Esso è piuttosto una creazio- ne umana e una realtà
metafisica, l’intreccio di fatto e di spirito, di natura e di ideale, di
necessità e di libertà, di univer- sale e di particolare. Esso emerge con forza
e importanza mol- to diversa dagli sfondi nascosti dei processi storici. Vi
sono uomini e periodi, strati sociali e gruppi ricchi di individualità e poveri
di individualità; i primi sono sempre caratterizzati da una salda fede in
questo loro procedere dall’universale. Essi percepiscono la loro particolarità
come missione divina e come compito, e non badano all’interesse della propria
personalità, ma alla specificità del loro compito. Si apre così, muovendo
dall’individuale, lo sguardo verso la metafisica, del quale non si ritiene di
aver bisogno quando ci si attiene a ciò che è astrattamente generale, poiché
questo in apparenza sostituisce la metafisica. Il costante procedere
dell’individuale e dei suoi criteri da uno sfondo oggettivo e universale è però
un’idea che non si può formulare senza la metafisica, a meno di non farla
rientrare nell’ambito — del resto impossibile — del mero acci- dentale o
dell’interessante auto-compiaciuto. A questo punto si stabilisce la relazione
della dottrina dei valori con la metafisi- ca, che in altri punti appare meno
pressante. Ma la relatività dei valori ha senso soltanto se in questo relativo
c'è qualcosa di assoluto che vive e che crea; altrimenti essa sarebbe soltanto
relatività, non già relatività dei valori. Essa presuppone un processo vitale
dell’assoluto, nel quale questo può essere colto e formato in ogni punto nella
maniera corrispondente a tale pun- to. L’assoluto dev'essere colto ovunque e in
primo luogo dev’'es- sere anche formato. Infatti esso è una volontà di
creazione e di forme, la quale negli spiriti finiti diventa auto-formazione in
base a un fondamento e a un impulso divino. E questi diversi punti devono
connettersi e succedersi secondo una determinata regola, che costituisce
l’essenza del divenire dello spirito divino e che si afferma, nonostante tutto,
nelle vicende acciden- tali e negli erramenti o nei cedimenti della volontà.
Tutto ciò inerisce al concetto d’individualità, di relatività dei valori, di
criterio e di sempre nuova creazione. Questa connessione con l’assoluto può
essere un mito, com'era un mito la dottrina platonica della partecipazione Ia
quale conteneva già il nucleo di una dottrina dell’individualità, almeno nella
misura in cui lo consentiva lo spirito dell’antichità, che ipostatizzava i
valori e li considerava come affari generali dello stato. Anche la dot- trina
cristiana dell’auto-disvelamento di uno spirito divino vi- vente nello spirito
finito costituisce un mito; però essa ha con- dotto alle più fini e profonde
osservazioni psicologiche, che chiariscono gli enigmi dell'anima molto più
profondamente di quanto non possano farlo le aride teorie psico-genetiche o
aprio- ristiche con cui si sono sostituiti gli antropomorfismi e i duali- smi,
certamente sovente rozzi, di questo modo di pensare. Con mezzi semplici come la
derivazione psicologica dal piacere o da un altro principio analogo, o come
l’estrazione dei caratteri meramente formali, non si può cogliere il miracolo
dei valori, dell’individualità e della relatività, che la storia pone in mille
modi davanti ai nostri occhi?. a. Su tutta questa tematica si veda T. Lit, Geschichte
und Leben, Leipzig, 1918, assai vicino al punto di vista qui sviluppato.
Stimolante e per molti versi affine è pure R. MicLer-FrerenFELS, Philosophie
der Individualitàt, Leipzig, 1921. In questo libro si percorre energicamente
fino in fondo la strada, sovente tentata, della trasformazione del punto di
partenza cartesiano, sostituendo la coscienza con il concetto di incon- scio, e
con la correlazione tra soggetto e oggetto nell’universale corrente cosmica
della vita, che lampeggia nell’io singolo, nel singolo momento della coscienza.
Ma in tal modo il concetto di individualità viene dissolto in quello del
semplice io o dell'essere singolo, e quest'ultimo viene poi radicato
nell’universale corrente della vita, al di sopra o al di sotto della coscienza.
Si dissolve così l'intreccio di generale e di particolare, di asso- luto e di
relativo, che mi raffiguro; l’individuale diventa immediatamente caos e
turbine, e la valutazione diventa anche qui qualcosa di sempli- cemente
razionale-generale, che deve poi essere una « razionalizzazione » sempre
soltanto parziale e relativa, sempre fittizia, inevitabile per gli scopi della
vita. Nessuno sa da dove questa possa venire, in queste circo stanze, dal
momento che l’autore non vuole vedervi semplicemente delle finzioni utili sotto
il profilo biologico. — Analoghe obiezioni continuo a mantenere contro le idee
affini esposte da G. Simmer in Lebensanschauung, Miinchen und Leipzig, 1918.
Qui l’individuale diventa un felice caso di coincidenza della vita con una
forma che la penetra. Anch'egli conosce 872 ERNST TROELTSCH In tal modo siamo
ritornati alla storia. Di fatto l’uomo che agisce e la storia che parla di lui
non possono affatto essere compresi senza il concetto della relatività dei
valori. Per quan- to riguarda l’uomo che agisce basta fare riferimento a
Goethe, la cui dottrina dell'attività sempre nuova e vivente, che scaturi- sce
dall'esigenza quotidiana, che trova conferma nella sua fe- condità ed è, in
ultima analisi, fondata su un impulso divino, rappresenta addirittura il
vangelo della relatività dei valori. Da tutt'altro versante Kierkegaard ha
formulato, nelle sue di- scussioni estremamente istruttive con Hegel e con il
Romantici- smo, la stessa idea: « L'elemento storico è l’unità del metafisi- co
e dell’accidentale. Io divento a un tratto consapevole di me stesso, nella mia
necessità e nella mia finitudine accidentale (in quanto io, questo essere
determinato, nato in questa regio- ne e in quest'epoca, sono sotto l’influenza
molteplice di tutte queste mutevoli circostanze). E quest’ultimo aspetto non
può essere trascurato, anzi la vera vita dell'individuo è l’apoteosi quindi
nella storia soltanto le epoche di grazia, cioè le poche isole in cui si
raggiunge tale felice coincidenza. Per me l’individuale come fatticità è
distinto dali’individualità che dev’esserne formata come suo compito: risul- ta
così possibile vedere un’aspirazione e un travaglio continuo attraverso cui
queste isole si riuniscono a formare dei continenti. Le isole simmeliane sono
soltanto le vette di questo massiccio montuoso che le connette. — È facile
scorgere quanto la mia idea sia vicinissima alla concezione di Wil- helm von
Humboldt. Ma ja fondazione gnoseologica e la valutazione relativa all'etica e
alla filosofia della storia sono differenti. Su Humboldt si veda l'opera citata
di E. SpranceER e l’analisi (condotta da un punto di vista antitetico) di J.
GoLDFRIEDRICH, Die historische Ideenlehre in Deutsch- land, Berlin, 1902, che
costituisce del resto la sola analisi utilizzabile del libro. Per il modo in
cui il problema si configura presso un pensatore evoluzionista che rifiuta
l’individualismo storico, si può vedere Hans DriescH 5, Si svaluta la storia, e
si hanno criteri soltanto in base all'unico elemento che si sviluppa, cioè al
sapere, Driesch stesso (nella Wirklich- keitslehre, Leipzig, 1917, PP- 327 -34)
si riferisce a Schopenhauer e agli Indiani. Sui diversi concetti di
individualità cfr. H. ScHmaLENBACH, Indi vidualitit und Individualismus, «
Kantstudien », XXIV, 1920, pp. 365-88. 5. Hans Driesch (1867-1941), zoologo,
biologo e filosofo tedesco, autore di Der Vitalismus als Geschichte und als
Lehre (1905), della Philosophie des Organischen (1909), della Ordaungslehre
(1912), di Leib und Scele (1916), della Wirklichkeitslehre (1917), della
MerapAysik der Natur (1926) e di numerose altre opere, formulò una concezione
vitalistica della realtà in opposizione al punto di vista del meccanicismo.
ERNST TROELTSCH 873 della finitudine, la quale non consiste nel fatto che l’io
privo di contenuto esca di soppiatto da questa finitudine per volatiz- zarsi e
svaporare nella sua emigrazione celeste, ma nel fatto che il divino abita e si
trova nelle finitudine ». Dal lato dell’uo- mo questo divino individualizzato
non può essere colto, secon- do lo stesso Kierkegaard, solamente nel salto e
nel rischio esi- stenziale; non si tratta di una concrezione
estetico-panteistica, ma di un prodotto dell’azione e dell’auto-formazione che
si deve rischiare nel pericolo dell'errore e che ci si deve ogni volta riproporre
per acquisire, nella ripetizione, una connessio- ne e una consistenza *.
Interessanti sono anche le considerazio- ni con cui il generale von Radowitz®
guarda retrospettivamen- te al suo lavoro, e che si possono qui citare per le
osservazioni che vi aggiunge a commento uno dei nostri storici più significa-
tivi. Radowitz aveva combattuto per la realizzazione di un siste- ma di norme
religiose e razionali di politica e di cultura, e nei suoi Neue Gespriche
(1851), in genere veramente istruttivi, era pervenuto a questo risultato: «la
verità non è assoluta, bensì relativa allo spazio e al tempo » — ma, beninteso,
rimane pur sempre verità. Osserva in proposito Meinecke: « Tutte queste idee
erano onde nella corrente del movimento generale dell’epo- ca, che era diretto
a frantumare dogmi, speculazioni e costru- zioni astratte, e a sostituire
l'elemento di assoluta verità e gui- da nella vita con ciò che è storicamente
vero e vivente. Così Radowitz, nell’ultimo stadio del suo sviluppo, si
approssimava al moderno realismo storico »*. E alcune pagine prima: « Due a.
Cfr. H. Reuter, S. Kierkegaards religionsphilosophische Gedanken im Verhéltnis
zu Hegels religionsphilosophischem System, Leipzig, 1914, Pp. 42-43. Si veda
anche Ranke (Politisches Gespràch cit., pp. 337-39): « Ogni vita reca in sé il
proprio ideale: l'impulso intimo della vita spiri- tuale è il movimento verso
l'idea, verso una maggiore eccellenza. Questo impulso è innato, radicato nella
sua origine... Quante comunità spirituali terrene, tratte alla luce dal genio e
dall'energia morale, comprese entro uno sviluppo inarrestabile, ognuna a
proprio modo! Guarda a queste co- stellazioni nei loro corsi, nella loro azione
reciproca, nei loro sistemi! ». 6. Joscph Maria von Radowitz (1797-1853), uomo
politico tedesco, ebbe una parte importante nella politica prussiana dopo il
1848; nel 1858 fu per alcuni mesi ministro degli affari esteri, conducendo una
politica apertamente anti-austriaca. 7. F. Meinecge, Radowitz und die deutsche
Revolution, Berlin.compiti strettamente connessi tra loro si ponevano allo
spirito e alla volontà di quell’epoca: ricollegare alla realtà la sfera delle
massime ideali, minacciate di isolamento, e riunire organica- mente all’interno
di tale realtà le potenze vitali antiche e nuo- ve, passate e future »*. Si
tratta della fondamentale teoria del «realismo storico » di cui Meinecke parla
qui e in altri passi, e con cui si indica la trasformazione della storia ideale
di tipo hegeliano e della storia organicistica di tipo schellinghiano, ma anche
della storia politica troppo soggettivamente diretta agli scopi del presente,
nel realismo universale della metà del seco- lo xix. Questo realismo storico è,
almeno in Germania, qualco- sa di completamente diverso dall’equiparazione
della storia con le scienze della natura. Esso non si esaurisce affatto nel
forte rilievo dato agli elementi economici e sociologici nella comprensione
storica 0 nell’apprezzamento dell’accidentale, del- l’irrazionale e della
personalità. La sua essenza più propria non è altro che l’idea dominante della
relatività dei valori e dell’individuale, sia che si tratti di individualità
particolari o di individualità collettive. Esso risulta quindi completamente
autonomo dal realismo delle scienze naturali; e anche con la politica
realistica di Bismarck ha a che fare soltanto nella misu- ra in cui questa ha
contribuito a rendere diffidenti verso le risoluzioni troppo idealistiche del
reale e dei suoi conflitti in generalità ideali e in contraddizioni meramente
logiche. Per il resto, questo realismo è quanto mai lontano dalla concezione
amorale e cinico-scettica della storia: esso vede nelle formazio- ni storiche
il divino nelle sue concrezioni e nella sua lotta contro il caos e la
malvagità, come mette in rilievo lo stesso Meinecke. Certamente, esso è stato
finora troppo poco indaga- to sotto il profilo teoretico, ed è difficile
estrarre i suoi tratti fondamentali più generali dalla smisurata letteratura
storica. Esso è ancora molto insicuro nel cogliere l’assoluto nel relati- vo, e
perciò non trova o non cerca la via verso una sintesi culturale contemporanea®.
Non si può tuttavia disconoscere a. Sul relativismo storico si veda G. P.
Goocn, History and Historians in the Nineteenth Century, London, 1913, nonché
J. E. E.D. Acton, The 8. che proprio con la più stretta connessione tra storia
politica e storia della cultura — alla quale tende tutta la storia moderna — il
realismo storico si dirige soprattutto all’idea dell’individua- lità nel senso
qui descritto, e quindi anche all’idea della relativi- tà dei valori. Risulta
quindi chiaro che tutta questa storia non ha affatto rinunciato all'idea di una
connessione interna e di un profondo fondamento spirituale dello sviluppo, ma
anzi scorge — almeno in linea di principio — nell’individuale un universale e
nel relativo un assoluto, anche se, per il suo timo- re dinanzi alla filosofia,
di rado si arrischia a determinare in modo più preciso e concreto questo
rapporto. Anche qui si deve osservare che questo relativismo dei valori e
questo reali- smo appartengono in modo preponderante alla storia e all’eti-
German Schools of History, « English Historical Review », I, 1886, trad. ted.
col titolo Die neuere deutsche Geschichtswissenschaft (a cura di J. Imelmann),
Berlin, 1887, nonché E. RorHacger, Einleitung in die Gei- steswissenschaften,
Tùbingen, 1920, pp. 130-90 (la letteratura relativa si trova a pp. 163-64).
Rothacker riconosce giustamente in esso uno costitu- zione spirituale, un
atteggiamento di valore e una dottrina dello sviluppo, senza però mai giungere
a una caratterizzazione vera e propria che muova dal punto centrale. —
Un'indagine approfondita risulta qui impossibile. Basterà accennare a varie
osservazioni di Meinecke, che più di tutti accom- pagna il pensiero storico con
una riflessione su di esso e che spiega da parte sua il realismo storico come
uno specifico atteggiamento spirituale. Del suo Radowitz ho sopra riferito i
punti importanti. Da Weltbirgertum und Nationalstaat cit. prendo nota dei punti
seguenti: carattere decisivo del concetto di individualità (p. 138); il sorgere
dello spirito moderno e in particolare del passaggio dal pensiero costruttivo
al pensiero empi- rico, dal pensiero idealistico-speculativo a quello
realistico (p. 265); la rela- tività dei valori e tuttavia l’insostituibilità
dell’individuale (p. 271); il «panteismo ottimistico-realistico, che del
sentimento trapassa subito ai fatti » (p. 281). E ancora: « Alla fine si
pervenne alla giusta delimitazione, per cui ideale ed esperienza, oggetto
considerato e soggetto considerante furono distinti in modo da rendere a tutti
giustizia: una delimitazione — si può quasi dire — nello spirito di Kant, anche
se si trattava di un con- fine fluido e dileguantesi. Ma questo fluire del
particolare nel generale, dell'esperienza nella speculazione, era fondato sulla
natura vera e propria delle cose. L'elemento principale in tutto questo era che
il regno dell’espe- rienza veniva liberato, mentre veniva allontanato
ulteriormente quello dei tentativi di interpretazione universale e speculativa
» (p. 289). Noto poi da Preussen und Deutschland, Miinchen, 1918: « Ciò che
finora sembrava intelligibile soltanto come emanazione di determinati princìpi,
si tra- 876 ERNST TROELTSCH ca tedesca, che ci hanno insegnato con Kant la
separazione tra ciò che è dato naturalmente e ciò che è imposto idealmente, e
con il Romanticismo l'intreccio organico delle forze storiche in
un’individualità di volta in volta creativa, e che quindi cerca- no il loro
compito nell’unificazione delle due tendenze. La posi- zione di primario
rilievo attribuita allo stato e alla politica realistica costituisce perciò
soltanto 40 dei suoi tratti caratteri- stici, ma non quello decisivo. Anche
senza questa particolare inclinazione il relativismo dei valori è sempre il punto
più im- portante nel diritto, nell’economia, nella società, nella religio- ne e
nell’arte, anche nelle idee ultime e più generali di razze e di ambiti
culturali. Le idee del Politisches Gesprich di Ranke conservano tutta la loro
verità anche se le si applica non sola- mente o non prevalentemente allo stato.
Invece la storia del- sformò — agli occhi di una considerazione realistica
delle cose — nel risul- tato di necessità momentanee, in adattamenti alla
situazione » (p. It1); « quel flusso del divenire che lascia scorrere ciò che
nello spirito è saldo non già per farne gioco di onde, ma perché l’eterna e
aremporale natura divina venga riconosciuta nella ricchezza e nella connessione
interna delle sue produzioni semporali » (p. 114). Meinecke scorge molto chiara-
mente anche la stretta connessione della sintesi culturale contemporanea con la
conoscenza storica dell’individuale passato, dove un elemento determina
l’altro. « La fonte della luce che cade sul passato risiede negli ideali di
vita dell'osservatore: così la storia e la vita, l'io e il mondo confluiscono
in modo misteriosamente vivente, in un gioco di riflessi con- trapposti » (p.
104). « Il nostro pensiero storico e il nostro ideale culturale vivono e si
muovono nell’intuizione della molteplicità e dell’accostamento di stati,
nazioni, culture libere e forti... In questo specchio della divinità noi
guardiamo ancora oggi, affascinati e creduli come cent'anni or sono » (p. 502).
Certamente, da questa correlazione data insieme con l’idea della relatività dei
valori Meinecke si solleva — al pari di Ranke — a una con- cezione puramente
contemplativa, assoluta, della storia in sé: ma di ciò si parlerà in seguito. —
Sull’antitesi del realismo storico tedesco, che è al tempo stesso mistica,
rispetto al pensiero anglo-francese si veda l’acuto scritto di E. KaurMann,
Kritik der neukantischen Rechtsphilosophie, Ti- bingen, 1921, p. 92 sgg., dove
sono sottolineate anche le deficienze di realizzazione. Ma anche in quel campo
vi sono posizioni diverse. Cfr. anche il saggio di E.R. Curtius, Das
franzòsische Universitàtsleben, « Frank- furter Zeitung », 22 maggio 1918
(edizione serale), il quale scrive: « è inte- ressante che questi giovani
Francesi del 1918 vedano nella Germania di Goethe, del Romanticismo e dell’età
successiva un modello per la ‘ giusta sintesi tra speculazione ed esperienza”
». l’Europa occidentale vive piuttosto
nella prosecuzione dell’Illu- minismo, il quale tendeva a sviluppare il dover
essere dall’ele- mento « naturale » e quindi a rifarsi a fini astrattamente
univer- sali, mentre il suo realismo si faceva valere nella considerazio- ne
dei condizionamenti naturali e sociologici e l’individuale veniva per lo più
nascosto o assunto in maniera inconsapevole nell'inserimento dei propri ideali
in quei valori universali « na- turali ». Di qui è nata una vasta polemica: ciò
che agli uni appare insieme cinicamente brutale e mistico, agli altri appare
come superficialità e ipocrisia. Ma in verità il realismo privo di pregiudizi
risulta ovunque molto diffuso. Ciò appare chiara- mente dall’eccellente libro
di G. P. Gooch * — il quale si distin- gue per il limpido panorama dei
risultati conseguiti dai diversi studiosi — anche se nella storiografia inglese
e francese emer- ge innegabilmente una preponderanza dei valori nazionali, di
partito o « naturali » rispetto all’universale relatività dei valori. E non di
rado ciò accade anche da noi. È evidente che questa relatività storica dei
valori presenta una certa analogia con la dottrina della relatività fisica, che
oggi prevale in tutto il mondo nell’impostazione problematica così fortemente
potenziata da Einstein. Ciò non avviene a ca- so, né è privo di fondamento
oggettivo, anche se la relatività dei valori si è formata dall’epoca del
Romanticismo e del reali- smo storico senza alcuna relazione con la seconda. Il
fonda- a. G. P. GoocH rimprovera per esempio a Sismondi? « la mancanza di
relatività » (op. cit., p. 137), e a Carlyle che «egli non si rese mai conto
che il dovere principale di uno storico non è né l'apologia né l’invettiva, ma
l’interpretazione dei processi complessivi e degli ideali in conflitto, che
hanno costituito la varietà delle vita umana » (p. 339). Questo è il realismo
storico; certamente, nella formula interpretativa che spesso ri- corre in Gooch
vi sono problemi filosofici in cui egli non si addentra. b. Anche in me mancava
qualsiasi relazione del genere, e me ne sono reso conto solamente a fatto
compiuto. Altri l'hanno rilevato prima di me: A.C. Bouquet (Is Christianity the
Final Religion?, London, p. 241) mi 9. Jean-Charles Simonde de Sismondi
(1773-1842), storico ed economista svizzero, autore della Histoire des
républiques italiennes au Moyen dge (1807-1818), dei Nos- veaux principes
d'économie politique (1819), dell'Histoire des Frangais (1821-1844) e di numerosi
saggi raccolti negli Etwdes sur les constitutions des peuples libres (1836) e
negli Erudes sur l’économie politigue (1837), nonché di varie altre opere. mento
interno dell’incontro risiede nel fatto che la relatività fisica è la forma d’individualità
decisiva sul terreno della scien- za fisica, cioè è la particolarità della
posizione da cui si deve ogni volta stabilire e calcolare il sistema di
riferimento. Ciò accadeva già nel sistema galileiano-newtoniano, ma qui la
validi- tà universale del principio d’inerzia, considerato come una spe- cie di
assoluta verità di ragione, poteva nascondere le conse- guenze della relatività
della posizione. Se, come avviene in Ein- stein, l'inerzia viene dissolta e si
afferma una velocità crescente dei movimenti, la posizione stessa viene immessa
da ogni par- te in un movimento reciproco e mutevole, diventando così del tutto
singolare. Ma anche questa relatività non è un relativi- smo illimitato, bensì
— nella misura in cui il sistema di riferi- mento viene calcolato da ogni
posizione ed è possibile determi- nare matematicamente, nonostante la sua
mobilità, la relazio- ne con gli altri oggetti — permane l’assoluto nel
relativo, il carattere di sistema e di riferimento della realtà naturale, a cui
contribuisce anche la costanza della velocità maggiore di tutte, la velocità
della luce. Ma anche se non fosse possibile conserva- re quest’ultimo
principio, si potrebbe certamente stabilire attra- verso il calcolo il suo
mutamento e costruire in tal modo la possibilità di una sistematica, diversa
soltanto da una posizione all’altra. In tutto il resto le due dottrine della
relatività sono certo fondamentalmente diverse. Ma il punto principale del loro
ac- cordo è abbastanza importante: l’incontro del relativo e dell’as- soluto
nell’individuale — qui come fatto, lì come compito. Alla posizione particolare
corrisponde l’individualità della situa- zione storica; al sistema di
riferimento universale, diverso di caso in caso, corrisponde lo sviluppo
interno o la connessione del divenire storico, che dev'essere costruita di
nuovo a partire da ogni momento culturale e da ogni nuovo ideale. Questo
secondo punto, cioè l’immagine dello sviluppo stori- definisce «una specie di
Einstein del mondo religioso ». Cfr. anche A. Dierericn, Die neue Front,
Berlin, 1922, p. 168 sgg. In entrambi i casi si tratta del problema del
criterio, su cui ha attirato la mia atten- zione, subito dopo la conferenza,
uno dei più eminenti fisici. Invece il raffronto tra Einstein e Spengler, che
si trova spesso, è del tutto insen- x sato. Einstein non è un scettico!
co-universale che corrisponde alla sintesi culturale contempora- nea,
rappresenta quindi il secondo tema centrale della filosofia materiale della
storia, già presente da sempre nel primo tema, ma che adesso richiede una
considerazione a parte. Per chi proviene da Kant, Fichte, Schiller, Nietzsche
il primo punto è da tempo in posizione di rilievo; per chi proviene da Schel-
ling, Hegel, Ranke*, Comte e Spencer lo è invece il secondo. Ad esso sarà
dedicata un’analisi particolare nel prossimo capito- lo, dove avremo a che fare
con un'elaborazione letteraria mol- to più ricca del tema, e tratteremo in modo
più approfondito le teorie relative. a. Ranke sottolinea però entrambi gli
aspetti: « Ciò che importa è che si rimanga sempre fedeli a se stessi,
collegando il nuovo con il vecchio, la resistenza con il procedere in avanti,
incamminandosi sicuramente e grandiosamente sul cammino dello sviluppo»
(Reflexionen iiber die Theorie [ossia sul sistema dei valori assoluti della
ragione], in Werke, volumi XLIX-L, p. 237). Ma Ranke tende a privilegiare lo
sviluppo ri- spetto alla propria e contemporanea creazione sintetica. La forza
vera, storicamente fondata, è per lui identica con l'energia morale. « Potrai menzionarmi
poche guerre importanti per le quali non si possa dimo- strare che la vera
energia morale ha riportato la vittoria » (op. cit., p.- 327). Certamente, che
cosa voleva dire « energia vera »? Le due cita- zioni contengono entrambi i
temi di cui qui si tratta, e i loro sfondi devono essere presi in esame
separatamente. Quando assolutisti morali e di altro genere designano Ranke come
« adoratore del successo », que- sto non è del tutto sbagliato. Ma ciò dipende
dal prevalere del concetto di sviluppo che si può riscontrare in lui, in Hegel
e in molti alui. Ma anche questo non è propriamente corretto: infatti Ranke
conosceva la correlazione del concetto di sviluppo con il concetto di valore, e
se non ha determinato con precisione quest'ultimo, lo ha sempre coscientemente
presupposto. Tale correlazione costituisce il problema vero e proprio; e uno
degli scopi principali del mio libro è di chiarirla e di trarre le neces- sarie
conseguenze pratiche da questo chiarimento. Certamente soltanto il secondo volume
conterrà le conseguenze pratiche, vale a dire l’atteg- giamento che ne risulta
nei confronti della storia; ma già il quarto capi- tolo di questo primo volume
le prepara. MEINECKE nasce a Salzwedel, presso Magdeburgo. Si trasferì a
Berlino, dove Meinecke compe gli studi liceali e (eccetto per due semestri
passati a Bonn) anche quelli universitari, seguendo tra gli altri l’ultimo
corso di Droysen. Dopo aver conseguito il dottorato a Berlino con una
dissertazione sull’autenticità di un documento della storia tedesca entra
nell'amministrazione degli archivi prussiani. Alla morte di Sybel — che guida i
suoi primi passi di storico — Meinecke assume la direzione della Historische
Zeitschrift, destinata a diventare, sotto la sua guida, il maggiore organo
della storiografia tedesca. Risale a questi anni la preparazione della
monumentale biografia di un generale delle guerre napoleoniche, Das Leben des
Generalfeldmarschall Hermann von Boyen (Stuttgart, 1896-99). Nel 1896 ottiene
l’abilitazione a Berlino, con il primo volume di questa biografia, e nel 1901
viene chiamato all’Universi- tà di Strasburgo, da dove passerà nel 1906 a
Friburgo e nel 1914 a Berlino. Erede della tradizione storiografica prussiana
dell'Ottocento, ammira- tore di Bismarck e della sua costruzione politica,
Meinecke ha ben presto concentrato il proprio interesse sulla resistenza al
dominio napoleo- nico e sul processo di formazione della Germania come stato
nazionale. Rientrano in questo filone di ricerca il volume Des Zeitalter der
deu- tschen Erhebung (Bielefeld-Leipzig) e i saggi raccolti in Von Stein zu Bismarck
(Berlin, 1909), nonché il successivo volume Radowitz und die deutsche
Revolution (Berlin, 1913) e numerosi altri studi sui rap- porti tra Prussia e
Germania. Ma esso trova la sua maggiore espressione nella prima grande opera di
Meinecke, Weltbiirgertum und National stat (Miùnchen-Berlin, 1908; tr. it.
Firenze, 1930), dedicata all’esa- me del processo di traduzione in termini
politici dell'ideale nazionale tedesco, e del contemporaneo processo di
allargamento dell’atteggiamento politico prussiano che fa suo quell’ideale c
gli offre una base concreta di realizzazione. La « nazione culturale » tedesca
e la « nazione territoria- le» prussiana appaiono qui i termini dialettici di
una relazione in virtù della quale la Germania perviene a costituirsi come
stato nazionale. Il punto di arrivo di tale processo viene indicato nell'opera
di Bismarck, di cui Meinecke fornisce una giustificazione storico-politica,
riconoscen- do in essa la confluenza di uno sforzo storico secolare. Nel corso
di quest’analisi Meinecke enuncia una concezione dello stato che appare fondata
sull’attribuzione ad esso del carattere dell’individualità: in quan- to
individuo, lo stato possiede il diritto all'auto-determinazione, e il suo
compito è quello di provvedere alle condizioni che garantiscono la permanenza e
l’accrescimento della sua potenza. Il distacco dal cosmopo- litismo
illuministico appare quindi la premessa indispensabile per il riconoscimento
del valore autonomo dello stato, del suo diritto ad affer- marsi e a farsi
valere nei confronti degli altri stati. Questa prospettiva, al tempo stesso
politica e filosofica, è stata posta in crisi dalla guerra e dalla sconfitta
tedesca. Se già negli anni di Strasburgo, e soprattutto in quelli di Friburgo,
Meinecke aveva corretto in senso liberale il giovanile nazionalismo
conservatore di stampo prussia- no, dopo il 1918 egli appoggia la repubblica di
Weimar, pronunciandosi in favore della democrazia. Ciò lo spinge — sulle tracce
di Weber e di Troeltsch, suo collega a Berlino — ad assumere un atteggiamento
critico verso la soluzione bismarckiana del problema nazionale tedesco e a
ricono- scerne le insufficienze. Fin dai saggi raccolti nel volume Nach der
Revolution (Minchen-Berlin, 1919) egli intraprende così un'opera di revisione
delle prospettive storiografiche tradizionali, da lui stesso condi- vise negli
anni precedenti, la quale si tradurrà, sul piano politico, in una costante
opposizione al nazismo. Questo diverso orientamento di pensie- ro si rivela
chiaramente nella seconda grande opera di Meinekce, Die Idee der Staatsrison in
der neueren Geschichte (Minchen-Berlin, 1924; tr. it. Firenze, 1942), che ha il
suo motivo conduttore nell’antitesi tra krdtos ed éthos, tra potenza e spirito.
Quest’antitesi si presenta, agli occhi di Meinecke, come costitutiva del mondo
della politica; e nel prevalere della potenza sullo spirito — quale si è avuto
appunto nella storia tedesca da Bismarck in poi — egli addita il demone
intrinseco alla politica. Lo stato è nel medesimo tempo potenza e spirito; ma proprio
per questo motivo non deve smarrire la propria essenza spirituale, riducendosi
a mera potenza. In quanto condizionata da una situazione oggettiva, e quindi
inserita in una serie di rapporti causali, l’esistenza dello stato sorge su una
base naturale; ma lo stato è pure orientato verso la realizzazione di valori, e
perciò si eleva a una vita spirituale. La «ragion di stato» (che dà il titolo
all'opera) è il ponte gettato tra la potenza e lo spirito allo scopo di
risolvere la loro antinomia e di garantire la permanenza dello spirito
nell’ambito della politica. Ma tale antinomia non è altro che un caso specifico
di un contrasto più generale, quello tra il fondamento naturale della storia e
il compito, ad essa inerente, di realizzare valori culturali. In questi stessi
anni, attraverso la collaborazione con Troeltsch e lo studio dell'idea della
«ragion di stato », Meinecke approda anch'egli alla teoria dei valori. Fin dal
saggio Personlichkeit und geschichiliche Welt (1918), egli aveva rivendicato
l'autonomia della personalità, definendola in base al rapporto tra necessi- tà
e libertà, poi ripreso per qualificare la potenza e lo spirito nella loro
antitesi; in seguito, in Ernst Troeltsch und das Problem des Historismus (1923)
e in Kausalitàten und Werte in der Geschichte (1924), l’afferma- zione
dell'autonomia dei valori rispetto alle serie causali che costituisco- no il
processo storico lo conduce a doverne giustificare l’assolutezza, messa in
questione dalle conseguenze relativistiche dello storicismo. Dopo essersi
opposto all'avvento del nazismo, Meinecke è costretto al silenzio dopo il 1933,
e nel ’35 deve lasciare Ia direzione della « Histori- sche Zeitschrift ». Il
problema dello storicismo e del suo rapporto con i valori diventa, in questo
periodo, l'oggetto principale della riflessione e dell'analisi storica
meineckiana. Convinto che lo storicismo non conduca necessariamente al
relativismo, ma possa coesistere con la fede in valori assoluti — secondo
l'insegnamento che egli trova in Goethe e in Ranke — Meinecke traccia, in Die
Entstehung des Historismus (Minchen-Ber- lin, 1936; tr. it. Firenze, 1954), un
ampio quadro dello sviluppo dello storicismo dalle sue origini settecentesche
fino alla cultura romantica. Al suo inizio, lo storicismo si è affermato in
antitesi al giusnaturalismo e al suo presupposto di una ragione umana
immutabile, depositaria di un sistema di verità eterne: l'atteggiamento
giusnaturalistico appare così il grande antagonista dello storicismo. In
seguito lo storicismo ha fatto valere, nel pensiero tedesco della fine del
secolo xvitt, una diversa forma di considerazione della realtà, fondata su due
princìpi — il principio dell’individualità di ogni fenomeno storico e il
principio dello sviluppo. Ma questa concezione individualizzante ed evolutiva
del processo storico non riveste senz'altro un significato relativistico; e
proprio la lezione di Goethe e di Ranke ci dimostra che lo storicismo non
esclude la possibili tà di considerare ogni epoca, ogni momento della storia in
riferimento a valori assoluti. In vari saggi, poi raccolti in Vom
geschichtlichen Sinn und vom Sinn der Geschichte (Leipzig, 1939; tr. it.
Napoli, 1948) e negli Aphorismen und Skizzen zur Geschichte (Leipzig, 1942,
1953; tr. it. Napoli, 1962), Meinecke ha ribadito — richiamandosi soprattutto a
Ranke — la presenza dell’assoluto nella storia, e al tempo stesso la sua
irriducibilità al processo storico. Ma in tale maniera il rapporto tra
immanenza e trascendenza dei valori viene a configurarsi come un mistero, la
cui soluzione può essere fornita non già in termini razionali, ma soltanto dal
ricorso alla fede. Dopo la fine della guerra e il crollo del nazismo Meinecke
ha ripreso la critica dell’edificio politico bismarckiano, cercando — in Die
deutsche Katastrophe (Wiesbaden, 1946; tr. it. Firenze, 1948) — una spiegazione
del fenomeno nazista che ne individuasse le radici profonde nella storia
tedesca. Questa critica lo ha pure condotto a moderare l’entusiastico richiamo
a Ranke delle opere precedenti, e a rivalutare invece l’importan- za di
Burckhardt. In seguito ebbe gran parte nella costituzione della Freie
Universitit di Berlino-Ovest, di cui fu il primo rettore. Morì a Berlino-Dahlem
il 6 febbraio 1954, più che novantenne. Gli scritti di Meinecke sono stati
raccolti nei Werke, pubblicati per iniziativa del Meinecke-Institut della Freie
Universitit di Berlino, ad opera dell'editore Oldenbourg di Minchen, della
Toeche-Mittler Verlag di Darmstadt e della Koehler Verlag di Stuttgart. Il
primo volume (a cura di W. Hofer, Miinchen, 1957) contiene Die Idee der
Staatsrison in der neueren Geschichte; il secondo (a cura di G. Kotowski,
Darmstadt, 1958) racchiude le Politische Schriften und Reden dal 1910 al 1951,
ordinate cronologicamente; il terzo (a cura di C. Hinrichs, Miinchen, 1959)
comprende Die Entstehung des Historismus; il quarto (a cura di E. Kessel,
Stuttgart, 1959) raccoglie, sotto il titolo Zur Theorie und Philo- sophie der
Geschichte, i principali saggi metodologici e filosofici, tra cui
Persòonlichkeit und geschichiliche Welt, Kausalititen und Werte in der
Geschichte, Geschichte und Gegenwart, gli scritti minori sulla storia dello
storiciimo e in particolare su Goethe, Schiller, Schleiermacher, Ranke,
Dilthey, Troeltsch, Spengler ecc.; il quinto (a cura di H. Herzfeld, Miinchen,
1962) contiene Weltbirgertum und Nationalstaat; il sesto (a cura di L. Dehio e
P. Classen, Stuttgart, 1962) racchiude un'ampia scelta di lettere, col titolo
Ausgewdhlter Briefwechsel; il setti- mo (a cura di E. Kessel, Miinchen, 1968)
raccoglie, sotto il titolo Zur Geschichte der Geschichtsschreibung, numerosi
saggi su Ranke, Burck- hardt, Droysen, Sybel, Treitschke, Lehmann, Delbriick,
Baumgarten, Schmoller, Lamprecht, Dove, Below, Neumann ecc. Rimangono al di
fuori di questa raccolta diversi volumi, in particola- re la monografia su
Boyen, il volume Das Zeitalter der deutschen Erhebung, il volume Radowitz und
die deutsche Revolution, e altri già menzionati nella nota biografica. Ad essi
si devono aggiungere î due libri di memorie Er/ebtes 1862-1901, Leipzig, 1941,
e Strassburg-Freiburg- Berlin, 1901-1919, Stuttgart, 1949, poi raccolti in
unico volume col titolo Erlebtes 1862-1919, Stuttgart, 1964 (tr. it. Napoli,
1971). Dell’ampia letteratura critica concernente l’opera e il pensiero di
Meinecke segnaliamo gli studi seguenti: F. CHÙiasop, Uno storico tedesco
contemporaneo: Federico Meinecke, « Nuo- va rivista storica », XI, 1927, pp.
592-603. E. Seeserc, Zur Entstehung des Historismus: Gedanken zu Friedrich
Meineckes jiingstem Werk, « Historische Zeitschrift », CLVII, 1937, pp. 241-66.
W. Horer,
Geschichtsschreibung und Weltanschauung: Betrachtungen zum Werk Friedrich
Meineckes, Miinchen, 1950. W.
Goetz, Friedrich Meinecke: Leben und Persònlichkeit, « Historische Zeitschrift
», CLXXIV, 1952, pp. 231-50 (l’intero fascicolo è dedicato a Meinecke, ma
contiene anche saggi di altro argomento). L. Denio, Friedrich Meinecke: der Historiker in der
Krise, Berlin, 1953. H. Hottpack, Friedrich Meinecke: das Machiproblem in der
neuesten deutschen Geschichte, « Hochland », XLVI, 1953-54, pp. 437-51. F.
CuÙason, Federico Meineke, « Rivista storica italiana », LXVII, 1955, pp.
272-88. P. J. Wotrson, Friedrich Meinecke, « Journal of the History of Ideas »,
XIV, 1956, pp. 511-25. R. W. SterLIino, Ethics in a World of Power (The
Political Ideas of Friedrich Meinecke), Princeton, 1958. A. Neeri, Saggi sullo storicismo tedesco: Dilthey e
Meinecke, Milano, 1959, parte II. S. Pistone, Federico Meinecke e la crisi
dello stato nazionale tedesco, Torino, 1969. F. Tessitore, Friedrich Meinecke
storico delle idee, Firenze, 1969. Un'ampia bibliografia degli scritti di e su
Meinecke è fornita da A. M. Reinotp nel fascicolo speciale della « Historische
Zeitschrift » dedi- cato a Meinecke, CLXXIV, 1952, pp. 503-23; successive
indicazioni si pos- sono trovare nei volumi sopra menzionati di S. Pistone e F.
TESssITORE. Quando ho accettato di svolgere il tema della conferenza odierna,
ho subito chiarito a me stesso che le applicazioni pedagogiche (che ci si
attende forse in primo luogo da questa conferenza) potevano esaurirsi in breve
tempo, mentre i princì- pi e le convinzioni generali da cui esse devono
scaturire si affacciano su problemi che oggi toccano non soltanto lo storico,
ma ogni uomo che aspiri alla personalità. Parlare di questi problemi e prima
ancora confrontarmi con essi, mi stimolava tanto più fortemente quanto più le
tempeste di quest'epoca, nel mezzo della lotta e della preoccupazione senza
respiro a cui ci costringono, hanno ridestato in noi tutti una nuova pre-
potente nostalgia per il raccoglimento interiore e per l’auto-ri- flessione. La
questione principale sarà quindi la seguente: che cosa significa il mondo
storico per la formazione della persona- lità? Dalla risposta che ne seguirà si
potranno trarre subito, e facilmente, le conseguenze per lo spirito e il metodo
dell’inse- gnamento della storia. Ma che cos'è — dobbiamo chiederci anzitutto —
la persona- lità, che cosa vuole e deve essere? Il detto di Goethe, che la
personalità è la felicità suprema dei figli della terra, risuona * Die
Bedeutung der geschichtlichen Welt und des Geschichtsunterrichts fiir die
Bildung der Einzelpersonlichkeit, « Geschichtliche Abende im Zentralinstitut
fir Er- zichung und Unterricht », 2, Berlin, E.S. Mittler und Sohn, 1918, 2*
ed. col titolo Personlichkeit und geschichtliche Welt, 1922, poi raccolto in
Staat und Persònlichkeit, Berlin, E. S. Mittler und Sohn, 1933, pp. 1-27, e in
Schaffender Spiegel (Studien zur deutschen Geschichtsschreibung und
Geschichtsauffassung), Stuttgart, K. F. Kochler Verlag, 1948, pp. 211-228,
infine in Werke, vol. IV: Zur Theorie und Philosophie der Geschichte (a cura di
E. Kesscl), Stuttgart, K. F. Koehler Verlag, 1959, pp. 30-60 (traduzione di
Sandro Barbera e Pietro Rossi). all'orecchio come il suono di campana di una
chiesa che ci dà, nelle dispersive cure quotidiane, una promessa quieta e
regolar- mente ripetuta, una promessa che è però, al tempo stesso, una
richiesta. E invero essa promette e richiede da noi una certa costanza
interiore in mezzo a tutte le cose esterne che ci assedia- no e che ci pongono
in uno stato di attività o di compartecipa- zione, ossia un limite saldo che
possiamo e dobbiamo custodire tra l’interno e l’esterno, e che deve non già
chiudere ermetica- mente l’interno, ma regolare e guidare il suo rapporto con
il mondo esterno, un santuario interiore con vie di entrata e di uscita,
egualmente adatto per riposare tranquillamente e racco- gliere le forze in noi
stessi come per scaricare attivamente tali forze verso l’esterno; in breve, un
mondo autonomo e tuttavia organicamente connesso con il grande mondo, singolare
e inso- stituibile, e tuttavia soltanto configurazione particolare di forze
universali della vita, libero in sé e tuttavia dipendente dalla totalità, che
abbraccia contemporaneamente, al di là di tutto questo, l'elemento più reale e
vivente che abbiamo e che nessuna critica della conoscenza può sottrarci, vale
a dire l’io consapevole di se stesso. Questo elemento più vitale di ogni altro
ci è dato dalla natura come un dono miracoloso. Un miracolo altrettanto grande,
ma che richiede un’elaborazione attiva, è quello di costruire in base ad esso
la personalità e di elevarci in tal modo al di sopra della semplice natura. Si
comprende che la personalità dev'essere la felicità suprema dei figli della
terra soltanto quando si diventa consapevoli di que- sto duplice miracolo.
Mentre la natura costringe tutta la vita di altro genere che essa reca alla
luce nei ferrei vincoli della determinatezza, all’uomo essa lascia la
possibilità di sciogliere questi vincoli, di costruire in sé un mondo della
libertà, di curare in esso il bene supremo della libertà — peculiarità inimi-
tabile — senza però perdere la connessione con tutto il resto della vita. Non
si può essere felici nell’isolamento completo, ma non si può esserlo neppure
nella completa fusione con il mondo esterno. Per diventarlo si deve sentire
nella libertà il legame e la partecipazione alla totalità della vita e sentire
di nuovo in ogni legame e in ogni comunanza la libertà e l’unici- tà della
propria vita. In questo rapporto della personalità con il mondo è prefigurata
al tempo stesso la forma originaria di ogni buona e vitale costituzione dello
stato e della società. Il singolo e la totalità, l'io e l’ambiente — nella loro
azione reciproca, nella loro auto-conservazione reciproca all’interno di una
connessione inseparabile scorre anche la vita storica. Sorgono così due
problemi: che cosa significa la personalità per il mondo storico? e che cosa
significa il mondo storico per la formazione della personalità? Viene subito in
luce che il primo problema è stato trattato molto più di frequente, e in modo
manifestamente più interessato del secondo. Forse che in ciò si manifesta un
certo sentimento di fondo che la prima questione sia più importante della
seconda? Bisognerebbe am- mettere che la totalità ha maggior valore del singolo
e che si tratta anzitutto di indagare questa totalità del mondo storico nei
fattori in essa operanti? Non c’è dubbio che in questo privilegiamento del
primo problema si palesano sia lo spirito sto- rico del secolo x1x sia
l’allargamento della vita storica complessi- va che ha avuto luogo nel corso di
esso. Agli inizi e fino al culmine della filosofia idealistica si muoveva
ancora dai bisogni della personalità; in Kant e in Fichte era quindi dominante
il problema della libertà etica. Ma già in Hegel il processo stori- co
complessivo, che travolge gli individui — lo vogliano o no — nella sua
corrente, diventava il tema predominante. Con lo sviluppo della moderna scienza
storica e con l’importanza cre- scente delle masse si giunse quindi alla grossa
disputa tra ten- denza collettivistica e tendenza individualistica. Il
collettivi- smo e — in intimo accordo con esso — il positivismo e la nuova
scienza sociologica presero le mosse, nella loro imposta- zione dei problemi,
dall’importanza predominante delle colletti- vità rispetto agli individui. La
tendenza individualistica della scienza storica e la filosofia ad essa prossima
si sentivano, nei confronti di quelle tendenze, più in difesa che all'attacco,
e si sforzavano al tempo stesso coscienziosamente di riconoscere il nucleo di
legittimità presente nelle tesi dei collettivisti. In tal modo sulla nostra
immagine della storia è stata distesa una robusta rete di nozioni collettivistiche
e, di fronte alla pres- sione esercitata dalle grandi forze della vita storica
comples- siva sul singolo individuo, sempre più fievole è diventata la
questione del senso e dello scopo del mondo storico per la formazione delle
personalità libere e singolari. Quest'ultima minacciava di fatto di perdere
importanza e di recedere da scopo in sé a mezzo subordinato nei confronti del
corso complessivo. Dovremo ancora occuparci della situazione che ne risultava
per il rapporto della moderna personalità con il mondo storico. Una cosa è però
certa, cioè che le due questioni dell'importan- za della personalità per la
storia e dell’importanza della storia per la personalità sono connesse tra
loro, e che la risposta all'una pregiudica sempre la risposta all’altra. Coloro
che soste- nevano l’importanza della personalità per la storia lo facevano
proprio perché sentivano profondamente l’importanza del mon- do storico per la
loro propria vita personale. Essi nascon- devano con pudore il loro interesse
etico-pratico mascheran- dolo sotto un problema di pura conoscenza. Ora noi
torniamo a districarlo chiarendoci le conseguenze del collettivismo e del-
l’individualismo per il nostro problema. Il collettivismo nella sua forma più
netta vede nell’indivi- duo solamente un punto di intersezione e di passaggio
delle varie forze sociali. Le grandi istituzioni, i costumi e le opi- nioni —
diventati stabili — dei gruppi sociali e delle comunità dei popoli trascinano e
attraversano l’individuo inerte, che dal- la natura ha ricevuto il carattere di
un individuo da gregge. Pertanto progresso e sviluppo verso nuove istituzioni e
nuove intuizioni non sono l’opera di singoli uomini, ma l’espressione di mutati
rapporti di vita esterni. Gli individui, che sembrano rappresentare € realizzare
questi rinnovamenti, sono soltanto gli esponenti di rapporti e di tendenze più
generali. Il mondo storico, così come viene praticamente vissuto nella sua
pienezza di istituzioni tramandate e di forze vitali, ha quindi sì un’im-
portanza enorme e addirittura predominante per l’individuali- tà, ma non lascia
spazio né materia alla costruzione di una libera e singolare personalità da
parte dell'individuo. Ciò che appare sotto forma di personalità libera e
incomparabile viene costruito piuttosto dall'ambiente, e tutti i materiali
dell’edifi- cio derivano da questo. La composizione di tali elementi all’in-
terno del singolo individuo può essere singolare e individuale, ma soltanto
come la composizione dell'immagine multicolore nel caleidoscopio. Inoltre il mondo
storico, così come può esse- re vissuto teoricamente nell'indagine e
nell’intuizione del passa- to, darà alla testa pensante la seria e rigorosa
nozione fondamentale che l’uomo è fatto di materia comune e che l’abitudine è
la sua nutrice. Tuttavia un deprimente determinismo di tal genere non è rimasto
l’ultima parola delle teorie positivistiche e collettivisti- che. Piuttosto,
proprio dal loro centro risuona il richiamo al progresso e all’ascesa, alla
liberazione dell'umanità dalla gravo- sa pressione del passato. Ma la sua
speranza si collega in tal mo- do non alle forze etico-individuali, ma a quelle
etico-sociali. Esse credono alla presenza e alla crescita graduale di una
ragione collettiva, di una disposizione generale dell'umanità — o di certe razze
dell'umanità — a sollevarsi dallo stato di pura naturalità, attraverso lo
stadio di semi-civiltà, fino a uno stato di popoli compiutamente civili. E
questo processo di incivili- mento raggiunge poi anche il singolo individuo, lo
arricchisce e lo libera in qualche misura, crea il moderno uomo civile e il
moderno soggettivismo — ma sempre soltanto in virtù di un’or- ganizzazione
generale che sta al di sotto di esso e lo spinge in avanti. Anche ogni etica
pratica che si connetta a questo modo di vedere procede in maniera
caratteristica dall’affermazione di possibilità generali, di diritti
universali, di libertà e di migliora- menti della situazione sociale, economica
e politica che devono mettere l’individuo in grado di partecipare, secondo la
misura delle sue doti, a tutti i beni culturali elaborati dalla collet- tività.
Questo è il processo ideale della moderna democrazia occidentale, la quale
riposa ampiamente su presupposti positivi- stici e collettivistici. Ma con
questo tipo di costruzione teore- tica e pratica del mondo storico — dobbiamo
ora chiederci — si può sviluppare la piena felicità di ciò che Goethe intendeva
parlando di personalità? Ciò è possibile soltanto se essa dimenti- ca i tetri
presupposti di questa costruzione, se essa si sente non soltanto come prodotto
di uno sviluppo generale, come compar- tecipe dei suoi frutti — dei dividendi
da esso in certa misura versati — ma anche come portatrice di uno sviluppo
individua- le del tutto specifico, come detentrice di un grado elevato di
libera auto-determinazione, come proprietaria di una fonte na- scosta di vita
spontanea. Un positivismo intelligente si spinge anche fino ad ammettere che
una fede siffatta è utile per susci- tare nell’individuo il massimo di forza e
di felicità, perché l'illusione di essere liberi ha lo stesso effetto di
esserlo veramente. Quest'illusione può poi aggirarsi nella luce crepuscolare
del dubbio e della fede, come ama fare il moderno uomo di cultu- ra,
spiritualmente differenziato e soggettivisticamente eccitabi- le. Su tale via
si possono ottenere molteplici sensazioni e im- pressioni sul rapporto tra io e
mondo, un raffinato auto-godi- mento, anche uno slancio ostinato verso uno
stato di superuo- mo con prove svariate e perfino eroiche: spesso incontriamo
queste disposizioni nei profili dei nostri giovani in uniforme, e la nostra
poesia e la nostra arte più recenti ne sono piene. Ma una quieta e profonda
chiarezza sul rapporto del mondo stori- co con la personalità, un’armonica
sicurezza della personalità, un vittorioso superamento del dubbio paralizzante
e distruttivo sul valore della vita storica non possono essere ottenuti in que-
sto modo. Per sciogliere tale dubbio occorre partire da un’altra conce- zione
della personalità — proprio da quella che sviluppavo in apertura. Essa non si
fonda soltanto sul fatto che ci è gradita e forse ci aiuta nella lotta della
vita, ma sul fatto che viene richiesta sia da un’auto-osservazione immediata
sia da una con- siderazione impregiudicata della vita storica.
L’auto-osservazio- ne ci insegna che la ferrea legge causale, entro cui vediamo
incatenata senza eccezioni la vita storica, ha tuttavia la sua radice ultima
solamente nella profondità dello spirito umano, e che da questa stessa
profondità scaturiscono anche altri bisogni, altrettanto costrittivi, che non
permettono di considerare il mondo storico soltanto come una sezione dalla
generale connes- sione causale della natura. Lo spirito umano crea, ed è
costretto a creare — in base a un impulso spontaneo e a una disposizio- ne
originaria — un mondo di valori spirituali ed etici i cui destini sono sì
sottoposti nella vita alla legge causale e al mutare delle cose, ma la cui
esîstenza in sé rivela nell'uomo una sfera superiore alla connessione naturale
e causale. Costrui- re questa sfera non vuol soltanto dire creare la cultura e
la storia, ma vuol dire anche creare la personalità; poiché alla personalità
spetta conservare e continuare i valori della cultura una volta creati — questa
è la sua funzione storica. Tali valori culturali non sono solamente, come vuole
il positivismo, puri prodotti causali di rapporti e di forze generali —
certamente, questi vi cooperano potentemente e devono essere assolutamente
riconosciuti — ma sono affidati, per mantenere la loro vitali- tà ed essere
incrementati, al lavoro comune di innumerevoli individui singoli. Non è
soltanto la grande personalità domi- nante, l’eroe nel senso di Carlyle, che fa
la storia e produce la cultura; ogni singolo uomo in cui si è destata una vita
spiritua- le, liberata dal vincolo naturale, vi coopera e può contribuire ad
essa con qualcosa di originale e di proprio. In tutte le nuove formazioni della
vita storica la ricerca deve sempre, quando vi riesce, indagare più a fondo la
loro genesi; deve sentire il respiro della vita individuale e personale —
uomini che non erano soddisfatti di sopportare ancora pazientemente il passa-
to, di essere mera impronta dell'ambiente e di rimanere un numero nella massa
oscura, ma che aspiravano inquieti, con nostalgia e desiderio, ad acquistare per
sé un frammento di libertà e il dominio sull’ambiente, di imprimere
nell'ambiente un frammento del proprio io, creando il bene come il male ma
diventando con ciò fermento della storia. Certamente, si deve subito aggiungere
che ogni elemento di novità che la personali- tà singola può imporre alla vita
storica si trova nella più stretta continuità e connessione causale con
l’antico, con ciò che è tramandato, e ne è a ogni passo condizionato e
delimita- to. La libertà di movimento e il carattere specifico della persona-
lità possono sì apparire talmente piccoli che si capisce che si sia voluto
eliminarli dalla storia considerata come fattore essen- ziale; ma sono
abbastanza grandi per poter comprendere il miracolo per cui lo spirito si è
sollevato al di là dei limiti della natura, nonostante ogni legame con essa, e
ha potuto produrre un mondo storico. Soltanto a questo punto possiamo dare una
risposta all’altro aspetto, oggi dominante, del duplice problema e cercare di
chiarire l’importanza del mondo storico per la costruzione del- la personalità.
Fin dal principio esso assume ora, per l’indivi- duo, colori più chiari e
gioiosi che in una concezione rigorosa- mente positivistica del mondo storico.
E gli fa cenno dicendo: entra in me, io non ti soffocherò se ti farai coraggio
e se vorrai guardarmi nel cuore. Io non sono per te un ferreo desti- no che non
ti lascia scelta alcuna nel pensiero e nell'azione, ma sono un compito alla cui
soluzione sei chiamato a collabora- re. Devi servirmi, ma non come schiavo,
bensì come uomo libero; poiché solamente in quanto innumerevoli altri prima di
te l'hanno fatto, sono diventato ciò che sono e sono in grado di offrirti la
mano per liberarti dall’oppressione della legge naturale. Guardami inoltre
nella pienezza delle mie confi- gurazioni, nessuna delle quali è eguale
all’altra e che pure sono tessute tutte insieme da me. Da ciò trai la speranza
che anche il tuo elemento più proprio € più peculiare sarà conserva- to in me,
anche se costituirà soltanto un piccolo filo nel mio manto regale. E perciò ti
dico: diventa libero, diventa te stesso. Il mondo storico pone quindi alla
singola personalità una richiesta generale e una richiesta individuale. Essa
deve compie- re qualcosa di universalmente valido, impiegando tutto ciò che di
soltanto istintivo è in essa presente come materia e mezzo per scopi etici e
spirituali ed erigendo così in sé il dominio di ciò che è ideale. Anche questi
scopi ideali compaiono anzitutto come qualcosa di universale, imposti alla
personalità dall’ester- no. Tutti i doveri e i compiti — la famiglia, il
lavoro, la società, la patria, lo stato e la cultura — rientrano in questo
ambito. In essi si nasce e non si può sceglierli a piacimento, perché fin
dall’inizio ci assalgono imperiosamente. Se dalla per- sonalità non si
richiedesse altro se non che, opprimendo i suoi impulsi egoistici, essa si
elevasse — in virtù dell’auto-determina- zione etica nel senso kantiano — a
organo degli interessi uni- versali e agisse soltanto secondo massime di una
legislazione universale, non si sarebbe ancora fatto abbastanza. Si otterreb-
be soltanto una libertà formale, non ancora riempita di contenu- to; poiché il
contenuto di questo agire eticamente libero ci sarebbe fornito dal mondo
esterno. E all’osservatore critico gli uomini che volessero accontentarsi di
questa specie di libertà non potrebbero ancora apparire come personalità
compiute, ma soltanto come inservienti volontari di scopi oggettivi forse molto
grandi, ma pur sempre formati dall’esterno. Inoltre que- sti scopi storici
sfocerebbero facilmente in una rigidità priva di vita, e diventerebbero simili
a quel carro degli dèi indiano il qua- le stritola le masse dei fedeli che si
buttano davanti ad esso. In questa maniera i nostri nemici hanno rappresentato,
durante la guerra, il rapporto del Tedesco con il suo stato tramandato e ci
hanno attribuito un cieco, fanatico servilismo verso lo stato, che per fortuna
è lungi da noi ma che — comunque lo Friedrich Meinecke intorno si consideri —
può essere ammesso come possibilità estrema di certi germi di sviluppo presenti
in noi. La personalità stessa e il mondo storico che la circonda soffrirebbero
di questa specie di rapporto, perché dalla personalità non si potrebbe trarre
fuori tutto quanto c’è in essa, tutto ciò che potrebbe servire e contribuire al
mondo storico. La dottrina dell’imperativo cate- gorico — questa legge
fondamentale di formazione della perso- nalità — dev'essere quindi integrata,
così come la legge del Vecchio Testamento ha trovato il suo compimento nel
Nuovo Testamento. Diventa te stesso — dice questa legge del Nuovo Testamento
alla personalità. Coltiva la tua peculiarità non con l’amore animale, senza
capacità di scelta, per tutto ciò che ti spinge verso la peculiarità e vorrebbe
affermarsi contro il mon- do esterno, poiché ciò conduce soltanto alla
soggettività vana o all’ostinata eccentricità. Riconosci invece la legge
organica in base a cui le tue forze individuali e i beni vitali tratti dal tuo
ambiente possono connettersi in un mondo unitario, in sé con- cluso; cerca un
principio direttivo, un’idea della tua vita in te stesso che possa valere
solamente per te e per nessun altro allo stesso modo, perché a ogni passo
decisivo nella vita devi interro- gare solo te stesso e la tua coscienza in
merito al tuo dovere. Questa formazione in noi di un’idea individuale della
vita per- mette anche — come lo permetteva già l'imperativo categorico — la
lotta contro gli impulsi inferiori, sensibili, non già per reprimerli bensì per
ordinarli ed educarli, per dare anche al bisogno presente in noi, indifferente
e gregario, una nota parti- colare, un valore consono con la totalità della
vita. Nel concet- to di individualità non è possibile infatti conservare la
divisio- ne netta tra spirito e materia. La dote naturale della natura
sensibile-spirituale complessiva è e rimane il terreno che alimen- ta la
personalità; e soltanto in base all’armonia, alla reciproca compenetrazione e
illuminazione dei sensi e dell'anima cresce la sua peculiarità, la sua bellezza
e la sua forza. È un’acquisi-zione della sensibilità moderna che essa non
pretenda più di dividere questa connessione data e vivente con un atto di
violen- ta ascesi dello spirito nei riguardi del mondo sensibile. In tal modo
le svolte storiche del secolo xtx penetrano nella formazio- ne del moderno
ideale di personalità. Il carattere rigoristico 5 dell’etica kantiana tradisce
ancora la sua origine dall’ascesi cristiana. Ma contemporaneamente già nasceva,
con Rousseau e Goethe, un nuovo sentimento della vita — la coscienza dell’uni-
tà ultima di natura e spirito, dello stretto e misterioso intreccio di forze
sensibili e forze spirituali, dell’accresciuta pienezza vi- tale dell’uomo, che
si immerge gioioso in questo sentimento di unità. In stretta connessione con
tutto ciò Herder, Goethe, Wil- helm von Humboldt e i Romantici scoprivano il
valore insosti- tuibile dell'individuale, di ciò che è cresciuto in modo
origina- le e singolare nella storia e nella vita. Lo spirito realistico del
secolo x1x fece uso pratico di queste nuove sensazioni e cono- scenze in
quanto, distruggendo dottrine e pregiudizi, riconob- be il diritto alla propria
esperienza e osservazione della vita, colse e sfruttò ovunque ciò che c’è di
attivo, di naturalmente dato e di potente, e cercò così anche di dispiegare in
pieno la forza dell’individuale e della personalità. Ne è derivata — certa-
mente con alcune riserve che dobbiamo ancora avanzare — una più robusta ondata
di sangue vitale per il nostro ideale di personalità. La situazione storica che
si presenta di volta in volta ha quindi un’importanza enorme per la formazione
della persona- lità. La disposizione e l’impulso a diventare personalità è uni-
versalmente umano e opera a tutti i livelli dello sviluppo, an- che a quelli
più bassi, sebbene la pressione del mondo esterno e della tradizione permetta
che su questi si dispieghino soltanto pochi germi, particolarmente forti.
Inoltre la specificità dell’am- biente storico agisce in modo da destare in
primo luogo le disposizioni che hanno una corrispondenza con esso e da la-
sciar cadere altre disposizioni, non circondate dal favore della costellazione.
Intere pleiadi di pittori o di dotti, di teste politi- che o di nature
religiose possono prosperare stupendamente in un'epoca, mentre l’epoca
successiva ricopre nuovamente quelle strade già aperte alla personalità. Un
Goethe potrebbe diventa- re ancor oggi Goethe? Appartiene alla tragicità della
vita stori- ca che la vocazione di un’epoca — si potrebbe dire la sua
predestinazione — tocchi sempre soltanto alcuni lasciando inve- ce altri, che
in epoca diversa avrebbero potuto attingere una grandezza umana, nell'esercito
sonnolento della massa. Ma un'autentica natura gocthiana metterebbe in moto i
suoi cle- menti e mediterebbe la propria ascesa anche in epoca sfavorevole.
Perciò anche le masse non possono mai essere considerate nella storia come
masse del tutto morte. Esse sono piene di personalità potenziali che, se anche
non possono risplendere, gettano tuttavia un barlume di luce sul loro ambiente.
Anche i guerrieri dell'esercito sonnolento sognano la vittoria e la glo- ria. —
Buona e cattiva stagione per la personalità si alternano quindi nel corso della
storia. I tempi più favorevoli al suo sviluppo sono quelli dell’albeggiare tra
vecchie e nuove epo- che, quando forme vitali, idee e istituzioni da tempo
dominan- ti si rilassano e si trasformano, perdendo la loro forza vincolan- te.
Allora il bisogno sociale, politico e spirituale procede incer- to alla ricerca
di nuove vie; ma presto, come in un'alta marea, spumeggia il coraggio di un
pensiero e di un agire nuovo, fresco e perfino rivoluzionario, e brulicano d’un
tratto teste vitali e originali. Così avvenne quando la Grecia passò dall’epo-
ca arcaica a quella delle guerre persiane: le rigide costituzioni aristocratiche
delle sue città-stato furono turbate dal nuovo fer- mento della democrazia, e
contemporaneamente si destò il dub- bio verso l’antica fede negli dèi. La
stessa cosa accadde nel mondo romano-germanico alle soglie tra Medioevo ed età
mo- derna, anzitutto nella vivace Italia del Rinascimento, ma an- che sul
pesante e più duro terreno della Germania agli inizi dell’Umanesimo e della
Riforma. Sarebbe però errato cercare in queste epoche l’esigenza e la capacità
di produrre nuova vita personale esclusivamente presso i rinnovatori e le loro
nuo- ve idee riformatrici. Si potrebbe piuttosto azzardare la tesi che, con
quanta maggiore forza e personalità irrompe la nuo- va vita, tanto più forza
vitale dev’esserci ancora in ciò che è vecchio. Le nuove idee non scaturiscono
mai da situazioni total- mente marce e senili. La Chiesa romana non era marcia
e senile quando Lutero se ne distaccò. Proprio ciò che vi era ancora di vitale
nel Cristianesimo medievale gli ha dato un infinito travaglio, e Lutero non si
è mai completamente sottrat- to al suo dominio. Tutte le grandi personalità
riformatrici so- no state uomini di transizione, la cui interiorità era «campo
di battaglia tra due epoche » e il cui mondo ideale di penetran- te ricerca
mostra spesso una continuità sorprendente con la tra- dizione dalia quale si
sono liberati. Di regola il rinnovatore respinge consapevolmente soltanto una
parte di ciò che è vecchio, e non ne abbandona mai completamente il terreno. Ma
i conflitti che ne derivano sono adatti, come nessun altro, ad agitare
l’assopita profondità dell’uomo, spingendolo a raccoglie- re saldamente e a
organizzare gli elementi della sua natura per poter affrontare la lotta con il
passato e il mondo esterno — e costruire così la personalità. Allora anche
nature di media forza e di medio talento possono innalzarsi al di sopra di se
stesse. Ulrico di Hutten' non era affatto un pensatore profon- do né un
carattere armonico, e probabilmente in tempi norma- li non sarebbe andato oltre
una certa varietà problematica di impieghi del suo focoso impulso vitale; nella
sua nuova missio- ne crebbe nel volgere di pochi anni, quasi di colpo, fino a
diventare una personalità orgogliosa, libera e sicura di sé. Con un grande
senso delle condizioni di vita della personalità Con- rad Ferdinand Meyer? ha
contrapposto allo Hutten morente il giovane Loyola?, uno dei massimi maestri
della storia universa- le per quanto riguarda la costruzione della propria
personalità. Anche il vecchio mondo può infatti mostrare, in queste epo- che
rivoluzionarie, di che cosa sia ancora capace, e gettare con- tro l'epoca nuova
potenti caratteri rappresentativi. Quando un secolo fa la Prussia muoveva i
primi passi decisivi da stato organizzato in base a ceti a stato
borghese-nazionale e tutta una serie di importanti personalità si sollevava
storicamente all'altezza di questo compito, era al tempo stesso uno spettaco-
lo magnifico vedere lo Junker Marwitz* impegnarsi in una lotta cavalleresca, da
antico gentiluomo della Marca, come in 1. Ulrico di Hutten, umanista tedesco,
autore dell’Ars versificandi (1511), del Mordus gallicus (1519) e di vari altri
scritti, fu coinvolto nella vita poli- tica c nelle polemiche letterarie della
Germania del primo Cinquecento; fu tra i mag- giori collaboratori della
raccolta di Epistelae obscurorum virorum (1517). Allo scoppio della Riforma
prese posizione contro la Chiesa romana, cd ebbe un'aspra polemica con Erasmo.
2. Conrad Ferdinand Meyer (1825-1898), poeta c romanziere svizzero, autore di
Balladen (1867), di Romanzen und Bilder (1870), del poema Muttens letzte Tage e
di un altro pocma su Engelberg, nonché di numerose altre poesie e di romanzi,
soprattutto di argomento rinascimentale, come /iirg Jenatsch (1876) c Der
Heilige (1880). Mcinccke si riferisce qui, ovviamente, al pocma su Hutten. 3.
Ignazio di Loyola (1491-1556), fondatore della Compagnia di Gesù, una delle più
cminenti figure della Controriforma cattolica. 4. Friedrich August Ludwig von
der Marwitz (1777-1837), generale dell'esercito prussiano dal 1817, vagheggiò
la restaurazione della vecchia società organizzata in base ai «ceti »: le sue
opere sono apparse postume nel 1852. un’armatura sferragliante, contro l’epoca
nuova. Anche il conte- nuto vitale della vecchia epoca può essere spesso
toccato dalle nuove idee, nonostante la sua resistenza esterna, e presentarsi
quindi in modo particolarmente ricco d’interiorità e raffinato. I colti amici
di Federico Guglielmo IV, accesi di entusiasmo per l’autorità di diritto divino
e per il vecchio stato patrimonia- le, vedevano nel soggettivismo e nel
panteismo dei moderni un peccato mortale; tuttavia non sempre potevano, alla
luce di una sottile indagine psicologica, assolversi l’un l’altro da que- sto
peccato. Per comprendere tale gioco riflesso di idee la sem- plice storia delle
idee non è sufficiente, perché essa non può non cedere alla tentazione di
vedere l’individuale come qualco- sa di soltanto ideale. Solamente la domanda
relativa all’effetto che questi intrecci di idee hanno avuto sulla formazione
della personalità conduce nel cuore dell’uomo. Ogni epoca produce anche i suoi
particolari tipi di personali- tà. Nei periodi di ampio e inarrestato
dispiegamento delle for- ze nazionali, quando le lotte di liberazione e di
unificazione gloriosamente condotte a termine, la fine dei disordini cittadi-
ni, la prosperità economica elevano il sentimento di sé, risve- gliano la
fiducia in sé e nell’epoca, stimolano il senso impren- ditoriale, la
personalità si sviluppa in modo diverso che nei tempi di lotta e di
transizione. L'Atene di Pericle, la Roma augustea, l’Inghilterra nell’epoca di
Elisabetta e l'Olanda nel suo secolo d’oro hanno vissuto periodi del genere.
Allora rece- dono le tensioni interne e le lotte psicologiche, in cui il singo-
lo cerca se stesso seguendo la sua legge; si appianano le rughe dei volti e gli
uomini ci appaiono più armonici e pacifici, più ricchi e rigogliosi. Allora
spiriti grandi, medi e piccoli possono dispiegarsi l’uno accanto all’altro in
una pienezza brulicante e recare alla luce tutto quanto è in essi presente. Un
Sofocle e un Orazio, uno Shakespeare e un Rembrandt crebbero in que- ste
condizioni. Anche i caratteri politici possono, in queste epo- che che scorrono
tranquille o — il che è assai simile — alla testa di piccoli stati non scossi
fortemente dalle lotte per la potenza, perdere qualcosa della rigida
unilateralità della loro 5. Federico Gugliclmo IV (1795-1861), re di Prussia
dal 1840 alla morte, amante dell'antichità e delle arti. volontà, e apparire
più rilassati, più inclini al compromesso e più disposti al godimento e a una
cultura più varia. Pericle non ha sviluppato la sua poliedrica personalità
durante le guer- re persiane e neppure in quelle peloponnesiache, ma negli opu-
lenti decenni intermedi. E le repubbliche cittadine italiane e tedesche, i
piccoli e medi stati tedeschi, la Svizzera, hanno prodotto non pochi uomini di
stato forniti di una certa forza mite, di costante avvedutezza e di equilibrio
spirituale — dal borgomastro strasburghese Jakob Sturm ai moderni uomini di
stato del Baden all’epoca della fondazione dell'Impero. Non si deve certo
dimenticare che un'epoca di lotta e di transizione non è mai esclusivamente
tale, c che non vi sono neppure epoche e situazioni di pura fioritura e
raccolta. Ogni epoca storica ha sopra di sé diversi strati atmosferici disposti
l’uno sull’altro, tempestosi o sereni, e i contemporanei cercano ora nell’uno
ora nell’altro la collocazione della loro personalità. Spesso però i caratteri
più grandi e più ricchi possono muover- si contemporaneamente con eguale
energia in tutti questi stra- ti. Occorre ancora una volta pensare al
Rinascimento italiano, in cui si vedono sovrapposti immediatamente gli strati
di una forza che erompe rigogliosamente, di una contemplazione di- mentica del
mondo, di conflitti appassionati di idee e di tenza. Nella sua qualità di uomo
di stato in esilio Machiavel- li racconta come passava il tempo nel suo
villaggio giocando per alcune ore al giorno con gente del popolo, per poi
ritorna- re nel suo santuario e alzare con venerazione lo sguardo alle opere
degli antichi. Contemporaneamente, però, scriveva il li- bro sul Principe, che
conteneva una forza la quale avrebbe mosso il mondo. In questa doppia vita di
passione politica e di godimento spirituale egli ebbe un precursore nell’imperatore
Federico II”, certamente la personalità più colta del Medioevo. 6. Jakob Sturm
(1489-1553), giurista e uomo politico tedesco, fu uno dei capi della Riforma
protestante in Germania. Avviato alla carricra ecclesiastica c poi a quella
diplomatica, studiò diritto a Liegi c a Porigi; rientrato nel 1524 a
Strasburgo, fece parte del Senato c quindi, a partire dal 1526, del Consiglio
dei Tredici; in seguito fu varie volte presidente del Senato. Convertitosi alla
dottrina luterana, prese parte alle controversie religiose dell'epoca, e svolse
un'intensa attività diplomatica, rappre- sentando Strasburgo alla prima dicta
di Spira e in varie altre occasioni. 7. Federico Il di Svevia (1194-1250), re
di Germania c, dal 1220, imperatore del Sacro Romano Impero, viene qui
ricordato per i suoi interessi culturali, che fecero Anche questi viveva in un
secolo intimamente duplice, in cui c'era la compenetrazione e l'accostamento di
vecchie e nuove idee, il rigoglioso dispiegamento della vita e lo scontro più
violento; in tutte queste sfere Federico II si muoveva con egua- le
virtuosismo, artista nella vita e uomo di volontà a un tem- po, e di durezza
diamantina nel nucleo del suo essere. Emerge qui la personalità, per alcuni
aspetti comparabile, di Federico il Grande, che dal suo secolo prese sia gli
ideali filantropici e i gusti spirituali della filosofia illuministica sia il
lavoro di formazione dello stato e della potenza che disprezza gli uomi- ni,
mescolando eroicamente queste contraddizioni nelle prove imposte dal destino
alla sua personalità. Attraverso l’irradiarsi della sua natura e delle sue
azioni egli diventò uno degli elementi di formazione delle personali tà della
nostra epoca classica. Nulla agisce in modo così imme- diato sul destarsi della
personalità nell’uomo come il modello di una personalità estranea. Tutta la
vecchia concezione della storia e la vecchia etica della storia non conoscevano
consiglio migliore che quello di fare — come ha detto Machiavelli — come
l’arciere che dirige il suo arco più in alto del bersaglio, e di scegliersi a
modelli della propria condotta di vita i maggio- ri eroi, i grandi eroi
irraggiungibili del passato. Da allora noi sappiamo che con la semplice
imitazione di tratti estranei non si è fatto ancor nulla, e che non basta
l’imitazione da sola a mediare le influenze di una personalità sull’altra.
Tutti i mate- riali e gli stimoli del mondo storico, che l’individuo trae da
esso per formare la sua personalità, equivalgono agli elementi del terreno che
la pianta estrae scegliendo secondo il bisogno della propria legge di
formazione organica e respingendo ciò che non le si confà. Federico il Grande
aveva tratti quanto mai estranei, addirittura antipatici, a Goethe, Schiller,
Kant e Fichte: non si appassionavano per lui, anzi lo rifiutavano in vari modi,
ma lo rivivevano. Non potevano fare a meno del miracolo che aveva reso
possibile un uomo del genere — eroe e filosofo al tempo stesso — nella loro
epoca, che ritenevano della sua corte palermitana uno dei maggiori centri della
vita intellettuale della prima metà del secolo xt. Fu egli stesso uomo esperto
di matematica e di scienza naturale; le sue liriche ne fanno uno dei primi
pocti italiani, esponente della scuola siciliana. Alla sua iniziativa si deve
il codice. troppo colta e raffinata. Sicché Federico il Grande non ha sola-
mente rafforzato la loro coscienza nazionale e l'orgoglio di essere Tedeschi,
ma ha anche consolidato — cosa ancor più necessaria per loro — la fede che la
loro vocazione e il loro dovere consisteva nel rompere i limiti della
convenzione, i pre- giudizi dell’epoca, e diventare uomini seguendo la propria
legge. Anche dai tempi in cui vissero essi e le altre personalità della loro
generazione attinsero la linfa di cui avevano biso- gno, secondo le leggi della
più individuale affinità elettiva. Essi vissero successivamente un’epoca di
dispiegamento, un’epo- ca di lotta e poi ancora una pacifica età di
dispiegamento nei giorni dell’ancien régime al tramonto, della Rivoluzione
france- se e di Napoleone, e poi della Restaurazione — una molteplici- tà
d’impressioni di incomparabile vantaggio non soltanto per coloro che da esse
furono chiamati ad agire e ad affrontare la vita, ma anche per coloro che
vollero accoglierle in sé soltanto con anima silenziosa e indipendenza interiore.
Dapprima si vinse con uno sviluppo interiore la pressione esercitata sulla vita
personale dalle invecchiate articolazioni di ceto della socie- tà e dalla
tutela da parte dello stato assistenziale; si edificò in sé un autonomo mondo
spirituale, così saldamente fondato sul- l'essenza dello spirito umano da poter
affrontare tutte le scosse e i rivolgimenti successivi delle situazioni
storiche senza suscita- re alcun dubbio sulla giustizia e sulla fecondità dei
suoi princì- pi fondamentali. La vita interiore dei nostri grandi poeti e
pensatori procedette regolare e potente senza mai deviare, pur in mezzo a tutte
le esperienze dell’epoca, dalla convinzione che lo spirito si costruisce il
corpo ed è in grado di riedificare secondo il proprio bisogno qualsiasi forma
distrutta. Perciò, non appena questo compito si presentò allo stato prussiano
do- po il 1806,.le forze erano immediatamente disponibili. Ora essi non avevano
altro pensiero se non quello di risollevare lo stato caduto in basso
risvegliando nella nazione una nuova vita perso- nale. Non già che si
immaginassero di poter creare delle perso- nalità ad opera dello stato: ciò che
si voleva creare era soltan- to la possibilità, per l'individuo, di diventare
una personalità, liberandolo dalle catene di un mondo storico invecchiato, of-
frendogli nuove forme di azione e confidando per il resto nell’alito dello
spirito. E per quanto la distruzione delle vecchie forme di stato e di società
e la costruzione di quelle nuove non giungessero allora neppure a metà cammino,
questa fiducia con- servò tuttavia la sua legittimità. Anche nell’ibrido mondo
dell’e- tà della Restaurazione, che da alcuni fu sentito e vissuto come
prospero dispiegamento, come «bonaccia alcionesca », da altri come indegna
vittoria delle forze del passato sulle forze del futuro, le personalità
eruppero trovando in essa sia il sereno silenzio di cui gli uni avevano
bisogno, sia la lotta turbinosa di idee che per gli altri costituiva l’aria
vitale. Fin dopo la metà del secolo x1x l’idealismo e l’individualismo classico
han- no così fecondato, attraverso l’influenza immediata delle loro idee
originali, lo sviluppo dell’individuo a personalità. Anche la rappresentazione
dell’essenza della personalità in generale, di cui si è detto all’inizio, si è
sviluppata su questo terreno. Ma prima essa dovette essere riconquistata perché
— come ab- biamo visto — correva il pericolo di venir svalutata da un nuovo
modo di pensare dannoso alla personalità. Questa crisi non era però altro che
l’aspetto parziale di una svolta di tutta la nostra vita storica, che da una
considerazione puramente teoretica ci conduce sempre più ai problemi pratici
del nostro tempo e ci ripropone una duplice questione: che cosa significa il
mondo odierno, così com’è storicamente divenuto, e che cosa significa il mondo
storico del passato, così come esso ci si rappresenta oggi, per la formazione
della personalità moder- na? Queste due questioni sono ancora una volta
strettamente connesse tra loro. Paragoniamo i vantaggi e gli svantaggi della nostra
situazio- ne storica odierna con quella in cui Goethe e Wilhelm von Humboldt
poterono formarsi come personalità. Anzitutto si mostrano alcuni parallelismi.
Come quell’epoca dopo la pace di Hubertusburg *, così anche noi abbiamo vissuto
dopo il 1871 un'epoca di indisturbato e rigoglioso dispiegamento delle forze
nazionali. Ciò che per quell’epoca fu la personalità di Federi- co il Grande,
per noi è stato — con un'influenza ancor più 8. È la pace che conclude, nel
febbraio 1763, la guerra dei Sctte anni, assicu- rando fino allo scoppio della
Rivoluzione francese — pur con alcune interruzioni — un lungo periodo di pace
in Europa. costrittiva e più ampia — la personalità di Bismarck. Come
quell’epoca fu risvegliata dalla sua pace dalla catastrofe mondia- le delle
guerre rivoluzionarie, così noi siamo stati risvegliati dalla catastrofe della
guerra mondiale. Alcune somiglianze più sottili potranno un giorno svelarsi,
sulla base di questi fatti comparabili, allo sguardo dello storico. Oggi ancora
non riuscia- mo a vederle; abbiamo l’impressione che prevalgano le differen- ze
interne. Molti degli impedimenti esterni che allora ostacola- vano lo sviluppo
della vita individuale sono scomparsi — soprat- tutto le barriere sociali e i
legami della società organizzata in ceti dell’ancien régime. Il nobile non
opprime più il borghese, i contadini sono da un secolo liberi dal giogo. Nella
vita stata- le ed economica l’impulso produttivo dell’individuo, fecondato
dagli impulsi di una grande e potente esistenza nazionale, può agire in modo
incomparabilmente più libero e più ricco. An- che il costume e la condotta
della vita si sono da allora allenta- ti in modo che ogni forte bisogno
personale può manifestarsi liberamente. Le possibilità esterne di dispiegamento
della perso- nalità sembrano quindi essersi moltiplicate, mentre l’ambiente che
avrebbe potuto ostacolarlo sembra diventato più pieghevo- le e flessibile.
Abbiamo messo un individualismo di massa al posto dell'individualismo della
nostra epoca classica, limitato a piccoli strati e a piccole cerchie; e nelle
masse del quarto stato, da poco comparse sulla scena, si è oggi largamente
diffuso l’im- pulso a prender parte a tutti i beni culturali secondo la misura
della propria possibilità e del proprio desiderio. E tuttavia, nonostante tutte
queste facilitazioni e moltiplicazioni di possibi- lità, la nostra epoca non
può competere con la grandezza dell’o- pera di quella, che pur in mezzo a tutti
gli ostacoli esterni e all’angustia della vita nazionale e sociale era in grado
di costruire l’autonomo mondo spirituale della personalità. Forse che, in
presenza di un’accresciuta fecondità esterna, siamo di- ventati interiormente
più piccoli e infecondi? Può essere; ma solamente le generazioni successive
potranno giudicare in mo- do definitivo. Possiamo tuttavia forse dire, acuendo
lo sguar- do, che il compito di diventare personalità è per l’uomo moder- no
non già più facile, ma più difficile; che lo sviluppo moder- no non soltanto ha
liberato la strada da vecchi ostacoli, ma ha ammassato ostacoli nuovi e forse
maggiori. L’ideale classico di umanità e di personalità fu creato con la
risoluzione di ignora- re l’ambiente storicamente divenuto con i suoi ostacoli
e con la sua meschinità, di collocarsi al di sopra di esso, di metterlo in
disparte per potersi accingere indisturbati alla costruzione del mondo
interiore e della libera personalità. Questa risoluzio- ne fu allora possibile
perché nell’ancien régime al tramonto lo stato e l’individuo potevano ignorarsi
reciprocamente e fare a meno l’uno dell’altro, perché non avevano ancora nulla
di es- senziale da offrirsi. Altrettanto poco sviluppati erano lo scam- bio e
l’azione reciproca tra il concreto mondo economico-socia- le e il mondo
spirituale. Questa distanza dalla vita e dalla realtà, in cui da noi si
dispiegò all’inizio la libera personalità propria dell’ideale di umanità, non
poteva però durare. La per- sonalità stessa si spinse ben presto nel calore e
nella pienezza della vita che a sua volta aveva bisogno di essa, la invocava e
le poneva compiti grandi e fecondi nello stato, nella società e nell’economia.
Questa prossimità vitale tra personalità e am- biente concreto, acquisita nella
prima metà del secolo x1x e da allora ancor sempre accresciuta, rappresentava
per la personali- tà — come sempre avviene — tanto un guadagno quanto una
perdita. Essa acquistò in fini creativi e in impulso creativo, sviluppando un
gran numero di forze e di capacità prima son- nolenti, che non ci si sarebbe
mai aspettato dai Tedeschi; per- dette in indipendenza interiore, in
auto-riflessione e in auto-de- terminazione interiore e quindi, in ultima
analisi, anche in inti- ma forza spontanea e rigenerativa. Essa correva ora, di
fatto, il rischio di diventare mera funzione al servizio dei nuovi com- piti
sui quali si gettava, di cessare di essere scopo autonomo e di diventare mezzo
per altri scopi, certo assai grandi ma pur sempre impersonali. Tutte le
istituzioni che spingono gli uomi- ni a raccogliersi in una massa — pensava il
giovane Wilhelm von Humboldt — sono oggi più dannose che mai per la forma-
zione degli individui, e l’uomo non dovrebbe essere sacrificato al cittadino.
Humboldt non poteva immaginare fino a qual punto il secolo xrx avrebbe riunito
gli uomini in masse e li avrebbe trasformati in cittadini. E non soltanto la
vita politica borghese contribuiva a raccogliere gli uomini in masse, ma anche
le diverse professioni cominciavano a impegnare la perso- nalità con forza
maggiore che nell’epoca classica. La divisione del lavoro agevolava il lavoro
collettivo e in apparen- za anche il lavoro individuale, ma danneggiava le
radici della loro forza. Essa costringeva l'individuo a scomporsi in se stes-
so, a restringere la sfera della pura vita personale — il rifugio dell'anima in
sé — per soddisfare le accresciute pretese del mondo esterno. Ne sono nate
tensioni spesso assai feconde per la formazione del carattere, perché si voleva
ora bastare insie- me a se stessi e al compito di vita oggettivo, e nel
complesso la vita tedesca è risultata più ricca di tipi di personalità profes-
sionalmente differenziati. Il moderno imprenditore, il moder- no politico di
professione, e inoltre i vecchi tipi del funziona- rio amministrativo,
dell’ufficiale, del dotto tedesco — adattati ai nuovi tempi — presentano nel loro
insieme un quadro in- comparabilmente più ricco di varie forme di personalità
oggi possibili che non quello, per esempio, della società nobiliare dei ceti
superiori che compare nel Wilhelm Meister di Goethe. Ma ora è anche facile che
il tipico sopraffaccia il singolare e l’individuale. È chiaro che queste
difficoltà, con cui deve combattere la formazione della personalità moderna,
sono prodotte da essa in virtù del suo proprio lavoro storico, Costruendo a
poco a poco le singole sfere della cultura moderna, consacrando loro il proprio
sangue vitale, accrescendo il loro contenuto e la loro importanza, essa fece sì
che queste diverse sfere ottenessero per sé anche individualità e personalità,
che entrassero in lotta tra loro per il proprio potere, per la propria
auto-affermazione. Procedendo dalla comunità spirituale-mondana ancora origina-
riamente unificata nel corpus christianum del Medioevo, venne- ro dapprima a
separarsi tra loro una sfera statuale e una sfera ecclesiastica; ma anche la
scienza, l’arte, l'economia, le classi sociali ecc. si costruirono a poco a
poco sedi proprie, e tale processo si è moltiplicato nel secolo x1x. Queste
diverse sfere culturali crescono — come gli atolli corallini — in virtù del
lavoro di milioni di personalità grandi e piccole; ciò che pri- ma era vivente
opera personale diventa ben presto opera rigi- da, inflessibile, convenzionale,
costringendo sotto il suo domi- nio la personalità che per la prima volta si
presenta al posto di lavoro. Proprio una considerazione unilaterale di questo
proces- so fu quella che produsse la dottrina positivistica della personalità.
AI contrario, noi dicevamo che le diverse sfere culturali e i beni culturali
che in esse hanno la loro sede possono conser- varsi e accrescersi soltanto
attraverso l’opera delle personalità. È chiaro però che l’epoca più favorevole
per il pieno, libero, vivente manifestarsi della personalità nel mondo
culturale è ap- punto quella in cui quest’ultima viene costruita per la prima
volta e non è ancora edificata troppo compiutamente. Dov'è possibile scoprire
un nuovo territorio, là compaiono in gran numero i grandi costruttori di
cultura. Ma la nostra situazione è simile a quella di una città vecchia e
densamente abitata che esige sì, anche nelle sue parti antiche, parecchie
trasformazioni e muove costruzioni, ma con compromessi continui, travagliati,
che paralizzano il libero volo dei progetti. Oggi il mondo stori- co è
costruito tutto intorno alla personalità — questo è il no- stro destino. Guai a
te se sei un nipote! Oppure c'è una possibilità di liberarsi dalla pressione
del passato, dalle opera operata, e di dispiegare di nuovo liberamen- te l’ala
della personalità? Forse che ci affanniamo troppo intor- no a questo passato,
che sappiamo troppo di esso e lo rispettia- mo con eccessivo timore? è forse il
cosiddetto storicismo a tor- mentarci e a renderci deboli? Ne deriva la
questione di ciò che significa per la formazione della personalità la
conoscenza, l'intuizione del mondo storico passato e l’immergersi in esso con
amore — forse con troppo amore — di cui ci vantiamo come di una delle grandi
conquiste del secolo xrx. È noto che Nietzsche cominciò la sua carriera di
sovvertitore dei valori con un attacco appassionato allo storicismo, quando nel
1873-74 scrisse la dissertazione sull’utilità e sullo svantaggio dello stu- dio
della storia’. La moderna formazione storica — egli asseri- va — indebolisce
gli istinti creativi della personalità perché la forza plastica riposa sul
dimenticare, sul poter dormire. La sa- zietà della storia condurrebbe a una
fede da epigoni, rende l'individuo spaurito: la storia è sopportata soltanto
dalle forti personalità, mentre dissolve completamente quelle deboli, poi- ché
essa confonde il sentimento dove questo non è abbastanza 9g. Meinecke si riferisce
qui alla dissertazione Vom Nutzen und Nachteil der Historie fiir das Leben, che
costituisce la prima delle Unscitgemasse Betrachtungen, Leipzig. forte da
commisurare a sé il passato. I Greci sono stati un popolo eminentemente
astorico. Nietzsche avrebbe anche potu- to fare riferimento alle generazioni
della nostra epoca classica, che hanno prodotto la maggiore ricchezza in fatto
di personali- tà. Anch’esse erano in alto grado astoriche; o almeno esse co-
minciarono come tali. Come tennero il più possibile distanti lo stato e
l’ambiente sociale concreto, così esse trascurarono, anche nella formazione dei
loro ideali, il passato storico. Esse fecero eccezione solamente per la
Grecità, elevandola a proprio cano- ne — ma non per la Grecità storica, bensì
per la Grecità pla- smata secondo i loro propri ideali, la quale diventò così
un’ipo- stasi di questi ideali. Agiva qui un potente istinto plastico che non
si sottometteva al passato, ma che sottometteva a sé il passato trasformandolo
in leva della propria volontà di vita. Ma — miracolosamente — in questa lotta
tra la personalità e il passato accadde che anche il passato acquistò forza, la
sua ombra si riempì di sangue vitale, acquistò forma e linguaggio e cominciò a
dare testimonianza di sé. Dal movimento di pen- siero dell’idealismo tedesco e
dal Romanticismo, che ad esso si collega, sono infatti scaturite la nuova
concezione della storia e la nuova ricerca storica culminata in Ranke. Questo
movi- mento di pensiero era nello stesso tempo strettamente connesso con quelle
grandi svolte che condussero le personalità più in profondo nella vita concreta
dello stato e della società. La con- templazione storica e Ja creazione
politico-sociale del secolo xIx non devono essere separate nella loro origine,
e si sono pure continuamente fecondate tra loro. Potenti e istintivi biso- gni
fondamentali spinsero la personalità dapprima ad acquista- re la propria
libertà e autonomia in una distanza vitale priva di storia e di stato, per
inserire in seguito nel mondo storico, con l’azione e il pensiero, la forza
così acquisita. Nietzsche ha completamente trascurato il fatto che lo storici-
smo, il quale uccide — a suo parere — gli istinti creativi, era in ultima
analisi scaturito proprio da istinti creativi quali quel- li che egli esigeva.
Si è a buon diritto obiettato a Nietzsche, anche sul piano personale, che lui,
il critico amaro della cultu- ra storica, ha poi tratto la sua forza da una
cultura storica di inconsueta finezza. Una delle conoscenze più sottili che la
cul- tura storica potesse fornire era appunto la capacità di apprezzare anche
la forza e il significato degli istinti non storici nella vita storica. Nessuno
che abbia spinto lo sguardo fin dentro i suoi abissi potrà negarlo. E neppure
si potranno negare i pericoli dello storicismo che Nietzsche ha scoperto. Si
può tuttavia por- re in dubbio la possibilità di liberarsi dalla cultura
storica una volta che la si è accolta in sé. Si può definire un paradiso il
mondo degli istinti creativi non gravati dal sapere storico; ma una volta che
si sia mangiata la mela della conoscenza stori- ca, non possiamo più far
ritorno in questo paradiso. Come nel volgersi della personalità verso la vita
produttiva, anche qui c'è una necessità storica che ha prodotto dal suo seno
gli irrobu- stimenti e gli indebolimenti della nostra vita. Noi veniamo in-
deboliti dalla cultura storica quando ci lasciamo ridurre a puri suoi
recipienti, quando ci lasciamo sopraffare da un’erudizione massiccia che però
non riusciamo a penetrare del tutto spiritual- mente. Noi veniamo ancora
seriamente indeboliti nella nostra intima forza produttiva quando non osiamo
più svincolarci dal- le dande della tradizione storica e dei modelli storici o
quando ci immaginiamo di poter padroneggiare spiritualmente la no- stra
erudizione con quel relativismo rapido e virtuosistico che crede di comprendere
tutta la realtà storica, al pari del presen- te, attraverso un’elegante
illustrazione della sua necessaria cau- salità e quindi attraverso la sua
giustificazione. A chi crede di poter in questo modo chiudere le questioni, a
chi non è capace di tacere di fronte agli enigmi e agli abissi spaventosi
dell’uma- nità storica, e anche di fronte ai miracoli divini che in essa si
manifestano, la cultura storica ha di fatto tolto dalle ossa ogni midollo.
Nietzsche ha allora ragione: essa è veleno per il debo- le, e nutrimento per il
forte. In definitiva ogni cultura, e quin- di anche ogni educazione, deve in
primo luogo pensare ai forti e non ai deboli. Ma spesso la forte personalità
trova oggi pro- prio nel mondo storico la consolazione e il sostegno minacciati
dal gravoso e opprimente presente. Essa trova consolazione € sostegno
partecipando interiormente alle lotte del passato, la- sciandosi scuotere dagli
oscuri destini e dai poteri sotterranei che irrompono nella vita dello spirito,
lasciandosi sollevare dal- l’immortale volontà dello spirito, per sconfiggere
il destino e costruire un proprio mondo in mezzo al mondo della ferrea
connessione causale. Allora si riconosce che il problema della vita individuale
non è diverso da quello della storia universale — cioè la contrapposizione tra
libertà e necessità. Ma si ricono- sce pure che libertà e necessità non
soltanto si contrappongo- no, ma al tempo stesso si intrecciano, e che senza il
fecondo impulso coercitivo della necessità non è possibile alcuna liber- tà.
Ciò che importa è penetrare il necessario con la libertà. Quelle potenze
storiche vitali dello stato, della società, delle sfere culturali e delle
professioni, che oggi sembrano minaccia- re più fortemente che mai la libertà e
la specificità della perso- na, hanno quest’effetto, ossia sprofondano nel
regno della rigi- da necessità, solamente quando la personalità rinuncia a
traspor- re in esse il suo elemento più proprio, sia sfuggendole codarda-
mente, sia sottomettendovisi ciecamente. Ma la pressione e la coercizione
dell’ambiente storico cedono e diventano una benefi- ca atmosfera vitale se la
personalità comprende la sua posizione organica e il suo compito nel processo
storico complessivo, e riconosce la possibilità di rimanere libera e se stessa
anche al servizio della totalità. Tuttavia lo stesso processo storico
complessivo è il grande modello e la camera del tesoro dell’individualità.
L'aspetto di ricchezza infinita di forme umane ch’esso offre dischiude spes- so
nell’osservatore — come una bacchetta magica — forze af- fini, scioglie
impedimenti e pregiudizi interni, lo rende indul- gente e comprensivo. E per
quanto il senso affinato della multi- formità individuale della vita storica
possa indurre nature più deboli a perdersi in essa, il bisogno dell’individuo
più forte non si acquieterà finché non scopre la struttura interna di que- sta
pienezza brulicante, finché non scorge nella loro lucentez- za dorata i più
alti tra tutti i fenomeni individuali — le idee — sorretti da personalità. Ma
allora scocca la scintilla dentro la vita personale, destando anche in essa
l’infinita esigenza di venir governata dalle idee. Questa via alla personalità,
che passa attraverso la cultura storica, è quindi diversa, più faticosa e più
minuziosa di quel- la che indicano gli istinti elementari di una vita tutta
immersa nel presente. Qui la riflessione deve per più versi sostituire ciò che
la fresca natura non è più in grado di fare. Essa lotta continuamente con la
zavorra del materiale storico. Prima di essere in grado di diventarne signore,
lo spirito deve sottoporsi alla pressione di un’educazione rigorosa e faticosa,
la quale deve renderlo capace di creare la vita passata dalla fonte stes- sa,
anziché da torbide derivazioni. Questo tipo di educazione rischia a sua volta
di snaturarsi in mero addestramento, perché il carattere di massa della vita
moderna lo spinge a rivolgersi più alla media degli uomini che alla
individualità. Tutte le difficoltà e le contestazioni con cui deve oggi
combattere l’inse- gnamento storico-umanistico, tutti i tormenti e le
manchevolez- ze dell'esame devono qui essere presi in considerazione. In defi-
nitiva, però, il valore o disvalore di questo processo di formazio- ne può
venir riconosciuto soltanto dai frutti che matura; e qui, ancora una volta,
decide non la quantità, ma la bellezza e la dolcezza del frutto. E presso di
noi esso continua pur sem- pre a crescere verso una nobile perfezione. Chi tra
noi, che l’abbia gustato, potrebbe rinunciarvi? Tra noi, se non voglia- mo
diventare più poveri e ritornare in basso, non può scompari- re quel tipo di
personalità che nel mondo storico si allarga fino all’infinità dello spirito e
del senso, fino a una dolce e forte sensibilità per tutto ciò che è umano.
Anche la vita moderna si preoccupa che altri tipi si ponga- no a fianco di
questo e lo conservino vivo con la loro concorren- za reciproca. È emerso,
senza vincoli e risoluto, il moderno uomo di volontà e di potere, che aspira a
governare con mano salda le leve rafforzate della civiltà, dell'economia e
della tecni- ca odierna, apprezzando tutti i valori culturali in base alla
utilità ed effettualità immediata. Non è solamente un utilitari- smo
sensibile-egoistico quello che fa qui la sua comparsa e che, se pervenisse al
dominio, minaccerebbe nel modo più pesante la vita della personalità. Anche
l’utile della comunità può di- ventare un motivo che spinge la personalità; e
per sua fortu- na lo diventa in larga misura, perché i bisogni della moderna
vita comunitaria sono cresciuti così infinitamente e sono diven- tati talmente
prepotenti che nessuno può più sottrarvisi del tut- to; essi sono in grado di
sollevare al di sopra di sé anche chi all’inizio perseguiva soltanto il proprio
utile. Questa socializza- zione della nostra vita, che è rapidamente cresciuta
nel corso della guerra e che crescerà ancor di più per le sue conseguen- ze,
minaccia certamente anche la personalità — come abbiamo osservato — con il
destino di perdersi nella totalità e di diventare una semplice funzione di
essa. Ma meno di tutti ne sono minacciati proprio i più forti tra gli uomini di
volontà e di azione. Lo ha dimostrato già Bismark, che sotto vari aspetti
prefigurava questo tipo. Certamente egli aveva ancor sempre un sentimento di
partecipazione alla cultura storica più vivo di quel che possiede di solito il
moderno uomo di volontà. Que- sto tipo si trova ancora in fase di sviluppo, ed
è ancora troppo presto per valutare le possibilità di una umanità superiore che
sono in esso presenti. Ma qui e là si manifesta in lui la buona volontà di
ricostruire i ponti spezzati con la cultura storica, di diventare al tempo
stesso uomo di volontà e di spirito. Allora da un istinto veramente plastico
nascerebbe tra noi qualcosa di nuovo e di grande. Si vorrebbe concedere la
stessa fiducia anche a un terzo tipo di aspirazione moderna alla personalità,
che condivide con il corso della cultura storica il bisogno di un contenuto
culturale interiore e con l’utilitarismo il rifiuto di una formazio- ne storica
rigorosa. Si tratta del soggettivismo moderno che, adirato contro la rigida
disciplina di questa formazione, si ab- bandona, seguendo Nietzsche, agli
innati istinti originari della natura e dell’individualità e — «il giorno
innanzi a me, la notte alle mie spalle »1! — esce allo scoperto. Ad esso si
affida- no soprattutto le nature dotate artisticamente. La loro mancan- za di
rispetto per la cultura storica e il mondo storico ha le proprie radici, in
ultima analisi, nelle esperienze storiche del secolo x1x e nella situazione
tragica che esso ha creato per lo spirito artistico. In esso sono state
distrutte e lacerate le salde forme di vita della vecchia società al pari dei
saldi stili della creazione artistica. Il nuovo, ciò che ne prese il posto
nella società e nell’arte, assomigliò a edifici a scopo di utilità o di moda,
rapidamente costruiti per i bisogni della massa, senza quella patina dignitosa,
senza un gusto delle forme, ma sfigura- ti piuttosto dal gusto rozzo degli arricchiti.
La vecchia forma irrevocabilmente perduta e il ritorno ad essa afflitto dalla
male- dizione propria degli epigoni; la nuova forma insufficiente e ripugnante,
e in verità l'assenza di forma — accompagnata tuttavia da un insopprimibile
bisogno di forma: non c’era da 1o. Goetne, Faust, v. 1087 (tr. it. di F.
Fortini), meravigliarsi che il soggetto dotato di sensibilità artistica, sen-
za sostegno nel mondo storico e rigettato su di sé, si abbando- nasse a
un’irrequieta sperimentazione e all’escogitazione di nuo- ve forme arbitrarie,
trovando la libertà della personalità nella mancanza di legami. Ogni volta ci
viene assicurato di nuovo che ora il tempo della ricerca è finalmente passato e
che è stata trovata la nuova sintesi della vita con la nuova forma artistica. E
quando ci avviciniamo pieni di aspettative, ogni volta ci accorgiamo di una
lotta di nature altamente dotate, che però sembra condannata a una tragica
mancanza di radici e all’artificiosità. Noi comprendiamo il fatto che la loro
perso- nalità tormentata si rivolta contro la pressione che viene dal-
l’ambiente odierno non soltanto socializzato, ma anche utilitari- stico e
meccanizzato; e a questo proposito non si deve neppure dimenticare la pressione
del falso storicismo, scolasticamente meccanizzato. Ma i mezzi di difesa a cui
ricorre lo spirito soggettivistico ci sembrano violenti e spasmodici. La
distanza dalla vita e dalla realtà, in cui esso ritorna in varie guise a
perdersi, non è comparabile a quella in cui vivevano gli uomi- ni della nostra
epoca classica, perché viene soltanto artificiosa- mente estorta a una vita
alle cui potenti correnti complessive nessuna personalità sana e forte può più
sottrarsi. Spesso in luogo dell’interiorità cercata e preesistente emerge
soltanto una nuova esteriorità dall’acconciatura moderna, una mera mo- da
culturale. Nel moderno espressionismo ci si sottrae nel modo più coerente a
tutti i diritti e a tutte le catene della tradizio- ne e della realtà. Ma ancor
più immediatamente la cultu- ra storica è minacciata dalle esigenze di riforma
educativa e scolastica avanzate dal movimento giovanile. Invece noi chiedia-
mo: è realmente impossibile pensare al tempo stesso in modo moderno e
storicamente? ed è impossibile tuffarsi nella corren- te della vita moderna
senza perdere la solitudine sacra della vita interiore? Occorre anzitutto
riconoscere liberamente e coraggiosamen- te la difficile situazione in cui oggi
si trova la personalità. Noi viviamo in una cultura vecchia, ma probabilmente
ancora lonta- na dall’essere decrepita. Proprio perché oggi sentiamo di nuo- vo
con tanta passione il problema della personalità, possiamo aver fiducia che
sotto la lava irrigidita degli strati culturali del passato, che sovrastano la
nostra vita, esso arde ancora poten- temente. Noi viviamo altresì in un’epoca
di rivolgimenti inau- diti delle condizioni di vita esterna, e come potevamo
già definire una rivoluzione ciò che avevamo vissuto nei decen- ni prima della
guerra, così possiamo farlo per ciò che è ac- caduto dopo di allora e per ciò
che dobbiamo ancora aspet- tarci. Si susseguono nuove libertà e nuove
estensioni, ma an- che nuove forme di dipendenza e nuove restrizioni della vita
individuale. Affermare il carattere aristocratico del tipo tede- sco di
formazione della personalità, come si è configurato fino- ra, è inevitabile, ma
anche infinitamente faticoso. Noi abbia- mo vissuto la successione e la
mescolanza di epoche di rigoglio- so dispiegamento e di epoche di transizione e
di lotta. Questi possono essere — come abbiamo già chiarito — tempi in cui le
personalità prosperano, ma noi percepiamo soprattutto la pres- sione e la
minaccia a cui siamo esposti. Contemporaneamente sentiamo però ancora il
potente appello che la nostra epoca rivolge alla personalità. Intorno a noi si
è accumulato un vec- chio vivente, un vecchio irrigidito, un vecchio distrutto
— un mondo insieme di vita e di ruderi, oggi scosso più fortemente che mai
dalle tempeste distruttrici e purificatrici del nuovo. Qui l’individuo deve
scegliere e distinguere, secondo la propria coscienza e il proprio impulso, ciò
che vuol affermare, ciò che vuol lasciar andare, ciò che vuol riprendere di
nuovo. Egli può farlo solamente se si conserva libero dalla coercizione gravosa
del passato, ma in profonda compartecipazione con tutti i valo- ri vitali del
passato. Pensare al tempo stesso in modo moderno e storicamente è, in una
situazione del genere, non soltanto possibile ma necessario. Soltanto così
all'impeto dall'esterno è possibile opporre la più possente — ma nello stesso
tempo sem- pre elastica. — forza interna, e conservare il nerbo vitale della
personalità, l’auto-determinazione interiore. Mai è stata più im- pellente
l’esortazione rivolta ad essa: « diventa libera, diventa te stessal ». Possiamo
adesso trarre le conseguenze per l'odierno insegna- mento della storia.
S'intende che qui non parlo soltanto dell’in- segnamento della storia in senso
stretto, ma di tutte le discipline che tramandano un contenuto storico, delle
lingue antiche e moderne così come dell’insegnamento della religione. Esse
costituiscono un’unità in cui un elemento deve integrare l’altro e in tutti
quanti devono essere presenti le stesse idee direttrici. In primo piano si
colloca il desiderio che l’insegnante di disci- pline storiche abbia egli stesso
l'impulso alla personalità. Fin dall’inizio il mondo storico può diventare vivo
ai nostri occhi soltanto attraverso la mediazione di una personalità estranea,
che sta con esso in un rapporto immediato. A ciò si collega l’ulteriore
desiderio che questo rapporto immediato con le fon- ti del passato, a cui
l'insegnante di storia si è accostato durante i suoi studi, non lo abbandoni
durante la sua professione peda- gogica. Non già che pretenda dall’insegnante
di storia un lavo- ro produttivo di ricerca, per quanto questo sia benvenuto
quan- do deriva dall’impulso del talento. Ma desidero che l’insegnan- te di
storia si faccia un diletto personale non soltanto del legge- re, ma anche del
gustare le fonti del passato in cui si rispec- chiano in modo particolarmente
individuale lo spirito e la situa- zione propri di un'epoca. Un’influenza
particolarmente fecon- da mostrano qui le opere dei pensatori dominanti dei
secoli precedenti. La cultura storica si rafforza fino a diventare forma- zione
della personalità per colui che, durante tutta la sua vita, non può fare a meno
di Platone e di Agostino, di Lutero, Machiavelli e Montaigne, di Federico il
Grande e Rousseau, dei grandi idealisti tedeschi e di Bismarck. In una lettura
siffat- ta, derivante sempre da una scelta guidata dal bisogno più inti- mo,
ripongo maggior valore che nell’attenzione che l’insegnan- te di storia dedica
alla letteratura specialistica e alle controver- sie scientifiche. Egli non
potrà mai evidentemente sottrarsi del tutto a quest'ultime; ma per conservarsi
interiormente fresco, per poter riempire l'insegnamento con fermenti di vita
persona- le, non esiste miglior mezzo della familiarità con i grandi. L'allievo
ben dotato sa distinguere con precisione l'insegnante colto da quello che è
soltanto ben informato. Se nell’insegnan- te l'impulso ad arricchirsi
interiormente con la materia che tratta, ad acquistare nell’umanità storica la
propria umanità, non diventa visibile attraverso tutto il suo sapere, l’effetto
del- l'insegnamento della storia per il destarsi della personalità futu- ra
dell’allievo può ridursi a niente. Ai fini della formazione della personalità
non mi aspetto nulla da una preparazione intenzionale e sistematica
all’insegna- mento della storia. Ciò significherebbe voler ottenere frutti dal-
l’oggi al domani attraverso un’irradiazione violenta. Si diventa una
personalità mediante la vita, non già mediante la scuola; attraverso il lavoro
su di sé, non attraverso l’influenza da parte di altri. L'insegnamento può
soltanto gettare i primi semi in un terreno di cui egli stesso non conosce
affatto le possibilità di sviluppo, le capacità e i bisogni. Ma egli dev'essere
pieno di questa intenzione magnanima del seminatore della parabola, e quando il
suo cuore è pieno del valore delle personalità stori- che, può anche esprimersi
in parole. Egli sa bene che nulla prende l’animo dell’allievo quanto lo
spettacolo dei grandi uo- mini e degli eroi che lottano con se stessi e con la
loro epoca. Il senso storico dell’individuale si avvinghia in generale all’in-
tuizione della loro peculiarità. Nel complesso l’insegnamento della storia
rappresenterà più ciò che vi è di concluso e di compiuto nelle personalità
storiche, e non potrà evitare una certa stilizzazione. La psiche non ancora
sviluppata dell’allievo richiede anche una tale raffigurazione semplice e
monumenta- le. Ai gradi superiori dell’insegnamento l'insegnante può an- che
osare di fargli gettare uno sguardo sui problemi del diveni- re, delle antitesi
insolute, dello Sturm und Drang: gliene offri- ranno l’occasione gli anni dello
sviluppo di Lutero, di Federico il Grande, di Bismarck. Ma nel complesso alcune
parole signifi- cative, che il maestro lascia cadere, possono spesso
trasportare lo spirito dell’allievo in uno stato di vibrazione più forte di
quan- to non possa una psicologia portata avanti con minuzia. Ciò vale in modo
particolare anche per la trattazione delle grandi poesie classiche
nell’insegnamento del tedesco e delle lingue straniere. Esse sono piene di
problemi della personalità; ma tutti sappiamo anche quanto si pecca di
pedantesca prolissità nell’affrontare la materia, e quanto spesso l’allievo non
soltan- to non viene introdotto alle fonti di vita personale che ne scatu-
riscono, ma ne viene distolto con spavento. E non lo si tormen- ti con
componimenti su conflitti psicologici per la cui valutazio- ne egli dispone
soltanto di mezzi primitivil Un'unica parola accortamente allusiva
dell’insegnante, che lo induca a riflettere in maniera autonoma, lo aiuta qui
molto di più della riproduzione maldestra di interi processi di pensiero che
l’insegnante cerca di inculcargli. Soprattutto, però, si inciti l’allievo alla
lettura personale e lo si incoraggi a fondare comunità di lettu- ra con amici e
compagni. Questi tentativi costituiscono spesso il primo moto della personalità
dell’allievo, il suo incontro più peculiare con il mondo storico.
All’insegnante di storia è affidata una professione particola- rissima, che
richiede al tempo stesso piena dedizione e rigoro- sa sobrietà. Egli sta come
nessun altro immediatamente in mez- zo tra il mondo storico e le personalità
del futuro. Spesso si domanderà, guardando i suoi scolari negli occhi: quale
vita storica avvenire dorme dentro di voi? Soltanto questa doman- da può
suscitare ritegno e rispetto, in modo da non fare violen- za alle radici di ciò
che può dispiegarsi unicamente secondo la propria legge. Lo stesso timore
contenuto si confà anche di fronte al mondo storico e ai suoi miracoli.
Individuum est ineffa- bile. Soltanto la venerazione e l’amore possono saldare
il lega- me spirituale tra le personalità del passato e quelle del futuro.
Nell’odierno stadio di sviluppo delle scienze storiche credia- mo di poter
percepire due grandi tendenze che non operano però isolatamente, ma ognuna
delle quali reca con sé, in misu- ra maggiore o minore, anche elementi
dell’altra tendenza. Nes- suna di queste tendenze può essere perseguita in modo
unilate- rale: per ottenere il suo fine, ognuna ha bisogno dell'altra. Ciò che
per l’una appare come fine, per l’altra costituisce una via, una guida verso il
fine. Una tendenza vuol indagare rela- zioni causali; l’altra vuol comprendere
e rappresentare valori. Non è possibile una ricerca di relazioni causali nella
storia senza far riferimento ai valori, ma neppure è possibile una comprensione
dei valori senza un'indagine sulla loro origine causale. Che cosa sono le
relazioni causali? che cosa sono i valori? Noi ci poniamo, a torto o a ragione,
dal punto di vista dell’osservazione storica immediata, e distinguiamo tre differen-
ti tipi di causalità: quella meccanica, quella biologica e quella
etico-spirituale. La causalità meccanica poggia su un’equivalen- za completa di
causa ed effetto (causa aequat effectum); la ® Kausalititen und Werte in der
Geschichte, in «Historische Zeitschrift », CXXXVII, 1927-28, pp. 1-27, poi
raccolto in Staa und Persònlichkeit, Berlin, E. $. Mittler und Sohn, 1933, pp.
28-53, c in Schaffender Spiegel (Studien zur deutschen Geschichtsschreibune und
Geschichtsauffassung), Stuttgart, K. F. Kochler Verlag, 1948, pp. 56-93, infine
in Werke, vol. IV: Zur Theorie und Philosophie der Geschichte (a cura di E.
Kesscl), Stuttgart, K.F, Kochler Verlag, 1959, pp. 61-89 (traduzione di Sandro
Barbera e Pietro Rossi). causalità biologica lascia apparentemente che
l’effetto oltrepas- si la causa, mediante il pieno dispiegamento dei germi
della vita a esseri viventi forniti di una propria struttura, di una propria
conformità a uno scopo e di una propria legalità; ma soltanto la causalità
etico-spirituale spezza la connessione causa- le puramente meccanica,
rappresentando impulsi spontanei del- la personalità, diretti a determinati
scopi, che non possono esse- re spiegabili né in termini meccanicistici né in
termini biologi- ci, che influenzano l’agire umano e incidono quindi anche sul-
la connessione causale di tipo meccanico — la quale tuttavia, d’altra parte, si
presenta di nuovo al nostro pensiero come onni- potente e continua, escludendo
ogni frattura. Miracolo su mira- colo. Infatti, nella sua profondità ultima,
ognuno dei tre tipi di causalità rimane enigmatico. Il nostro pensiero viene
così po- sto di fronte a contraddizioni che non può risolvere o che può
risolvere soltanto in modo illusorio e apparente. Nella vita stori- ca, ognuno
dei tre tipi di causalità si impone, in modo indimo- strabile, come operante
agli occhi del ricercatore impregiudica- to. Egli ha continuamente a che fare
con tutti e tre i tipi di causalità. Se indaga le cause della povertà e della
ricchezza dei popoli, delle vittorie e delle sconfitte nelle battaglie, egli
incon- trerà e dovrà indagare una serie di cause operanti in modo puramente
meccanico, e comprensibili in quanto tali. La sua attenzione aumenterà allorché
nei fenomeni studiati sembra compiersi un processo interno di crescita, allorché
ai suoi occhi si manifestano determinate forme e figure di vita della comuni-
tà umana che si dispiegano, si organizzano, fioriscono in pie- no e poi di
nuovo decadono secondo un proprio processo di crescita. Ogni esistenza umana,
ogni fenomeno della vita stori- ca gli appare, in definitiva, determinato
morfologicamente — ma non soltanto determinato morfologicamente: infatti al di
là di quelle relazioni causali meccaniche, operanti spesso in maniera
accidentale, intervengono anche le azioni spontanee degli uomini, le quali
possono quindi interrompere, stornare, rafforzare o indebolire l’accadere
morfologico, conferendo così alla vita storica quel carattere intricato e
singolare che si fa beffa di tutti i tentativi di spiegarla secondo leggi prive
di eccezioni. Su di essa si imprimono perciò successivamente tre diversi
sigilli: a ogni lettera, a ogni immagine che uno di essi imprime, si sovrappone
quella degli altri. Soltanto il dilettante crede di poter distinguere tra loro
in modo agevole e non sog- getto a obiezioni questi scritti e queste immagini.
Più sempli- ci e chiare, meno discutibili possono essere le impressioni del
primo sigillo, ossia della causalità meccanica. Ma quando si tratta di
distinguere il secondo e il terzo, è fin troppo facile incorrere nell’errore di
leggerne soltanto uno e di trascurare l’altro. La più antica concezione della
storia, fino all’Illumini- smo, vide in essa prevalentemente l'impronta di
decisioni e azioni individuali e cercò quindi — in quanto era una trattazio- ne
cosiddetta « pragmatica » della storia — di ordinare razional- mente la
confusione di queste azioni con il filo rosso di scopi razionali o irrazionali
dell'agire. La moderna concezione della storia, che ha scoperto le relazioni
causali e le formazioni so- vra-individuali della vita storica, poteva
nuovamente inclinare — se applicata in maniera dilettantesca e sbrigativa — a
sotto- valutare l’influenza autonoma dell’individuo e a considerarlo soltanto
come organo di grandi potenze e forze collettive della vita che si potevano
rappresentare come più o meno viventi, co- me sorte e operanti in modo
prevalentemente meccanico oppu- re prevalentemente organico. Il positivismo
inclinava a una con- cezione piuttosto, anche se non certo esclusivamente,
meccani- ca delle forze collettive; la tendenza più moderna, orientata invece
verso l’elemento organico — che ha raggiunto il suo culmine con Spengler —
presumeva di spiegare tutti i fenome- ni storici particolari in base alle
differenti leggi biologiche di formazione delle grandi culture. La trattazione
scientifica del- la storia, che procede da Ranke, rinunciava invece a qualsiasi
spiegazione causale univoca e generale, e di conseguenza doveva sopportare il
rimprovero di fare a meno della scientificità vera e propria; ma così vedeva in
modo più fresco e immediato l’in- treccio delle tre impronte della causalità
meccanica, della causa- lità biologica e della causalità individuale-personale.
Anch’essa non poteva rinunciare al tentativo di distinguerle tra loro e di mostrare
la prevalenza dell’azione ora dell’una ora dell’altra; ma aveva un timore
naturale di opprimere e di risolvere l’una nell'altra. Nella spiegazione dei
singoli fenomeni e nella loro disposizione i in grandi serie e formazioni essa
si lasciò guidare più da un istinto indefinibile che da un atteggiamento
consapevole, assunto in linea di principio. Essa considerava l’intuizio- ne
artistica e la raffigurazione artistico-intuitiva dell’accadere non soltanto
come un ornamento bello, ma in ogni caso super- fluo, della sostanza della
storia — indagata secondo un procedi- mento puramente causale — ma come uno
strumento di lavo- ro essenziale e indispensabile di fronte all’intreccio delle
tre impronte — intreccio che si può sciogliere solo in parte, mai del tutto. La
scienza assume qui dunque come strumento l’arte. Essa vuol completare la
conoscenza con mezzi che si pongono al di fuori della sfera del conoscere vero
e proprio. In altre parole, essa non rimane pura scienza che vuol spiegare
soltanto causal- mente, ma si trasforma in qualcosa d’altro. Perciò il
rimprove- ro di non-scientificità che il positivismo muove alla scienza sto-
rica condotta nello spirito di Ranke non è, dal punto di vista formale, del
tutto ingiusto. Ma questa non- “scientificità può giu- stificarsi in base al
fatto che proprio la matura delle cose, e in certa misura la complicata
situazione delle fonti storiche nel suo complesso, spinge verso tale
procedimento, che ogni tentati- vo di padroneggiare il materiale storico con
mezzi conoscitivi esclusivamente causali conduce, se portato avanti con
radicale immodestia, a violentare la materia, a cancellare un’impronta causale
con un’altra, mentre se viene intrapreso con una mode- stia rispettosa deve ben
presto arrestarsi, perplesso, di fronte alla Ayle della realtà. Soltanto una
via non più puramente scien- tifica, cioè non più puramente causale, ci conduce
d’un sol tratto nelle sue profondità; e anche se non può certo dischiuder- cela
completamente può tuttavia darci, attraverso un’intuizio ne vivente, un senso
partecipante di essa. Alla scienza è più utile ricorrere a uno strumento
sopra-scientifico dove lo stru- mento scientifico vien meno, anziché applicare
questo anche dove una sua applicazione conduce necessariamente a falsi risul-
tal. Ma il diritto di applicare strumenti sopra-scientifici nelle scienze
storiche può essere fondato ancora più profondamente che attraverso la semplice
indicazione dell’intreccio, non padro- neggiabile in altro modo, delle tre
impronte causali. Se queste scienze volessero rimanere pure, cioè scienze che
spiegano in modo esclusivamente causale, sarebbero costrette a considerare come
proprio campo di ricerca e a rivolgersi, almeno in linea di principio, alla
totalità dell’accadere umano. È noto che non lo fanno; esse scelgono invece da
questa massa enorme e ster- minata soltanto una parte assai piccola, quella che
si ritiene essere essenziale, e giustamente ritengono un’oziosa micrologia
occuparsi di processi umani inessenziali. Ma che cosa significa qui essenziale?
soltanto ciò che è casualmente essenziale? sol- tanto ciò che ha influenzato in
modo particolarmente incisivo e potente i destini degli uomini e dei popoli? A
volte lo si intende così, e si ritiene che soltanto ciò che è diventato
partico- larmente « efficace » meriti l’attenzione dello storico. Ma — di- ce
con ragione Rickert — «l'efficacia non può mai fornire da sola il criterio di
ciò che è storicamente essenziale » ®. Da un punto di vista puramente causale,
le condizioni e i bisogni della vita di carattere fisico — suolo e sole, fame e
amore — sono i fattori « più efficaci » dell’accadere umano; mentre lo storico
— almeno lo storico non materialista — li considera di regola soltanto come un
ovvio presupposto causale di quei pro- cessi che propriamente lo interessano, e
li ritiene degni di atten- zione soltanto laddove essi incidono in misura
particolare e non comune. Dal punto di vista causale sono pure particolarmente
« effica- ci», accanto a questi fattori originari della vita umana, anche le
grandi decisioni nelle lotte di potenza dei popoli e degli stati, alle quali da
sempre — fin dalla storiografia più primiti- va — è andata l’attenzione degli
storici, e perciò anche l’intero ambito delle istituzioni dello stato e della
società, che a ragio- ne attrae l'interesse comune di tutte le tendenze della
moderna ricerca storica, di quella positivistica come di quella idealistica,
della storia della cultura come della storia politica. Ma se qui si suole porre
in rilievo in quanto «essenziale » ciò che è «ef- ficace », mettendo da parte
come inessenziali altre masse di processi umani, di regola si combinano due
diverse accezioni del termine « efficace ». Da un lato con esso si intende ciò
che a suo tempo ha esercitato effetti causali sulla vita dell'umanità — e qui
si rimane nell’ambito della pura ricerca di relazioni a. H. Ricgerr,
Kulturiwvissenschaft und Naturwissenschaft, Tubin- gen, 1899, p. 97. causali.
Ma con esso si intende anche ciò che agisce in modo durevole e che anche oggi
opera su di noi che viviamo. E questa specie di influenza su di noi ha un
significato insieme causale e sovra-causale ®. Ha un significato causale in
quanto i grandi e potenti avvenimenti del passato — per esempio la fondazione
dell'Impero romano — determinano ancora causal- mente, attraverso mille
influenze secondarie, la nostra esisten- za odierna; ha un significato
sovra-causale in quanto la catena delle relazioni causali non ci interessa da
un punto di vista puramente scientifico, ma perché ne vogliamo trarre un
vantag- gio particolare per la nostra propria vita. Questo vantaggio può essere
soltanto di tipo pratico, tale da renderci atti a incide- re con maggiore
efficacia nella vita attiva, oppure può consiste- re in una pura
contemplazione, libera da scopi pratici immedia- ti; ma in entrambi i casi si
tratta di valori, di valori vitali che vogliamo ricavare dalla storia; in
entrambi i casi essa ci forni- sce — dovremo ritornarci sopra con maggiore
precisione più avanti — contenuto, insegnamento e guida per la nostra vita. E
questo bisogno è quello che ci spinge in fondo da sempre, ma in modo
particolarmente forte nell'epoca moderna — accan- to e dietro al puro impulso
conoscitivo rivolto alle relazioni causali — verso la storia. Soltanto a questo
punto comprendia- mo del tutto che la ricerca delle relazioni causali, in
quanto tentdi svelare l'intreccio delle tre impronte — in fondo diret- a. «
Storico — dice Eduard Meyer nella Geschichte des Altertums, vol. 1-1, 3* ed.
1910, p. 188 — è quel processo del passato la cui efficacia non si esaurisce
nel momento della sua comparsa, ma che agisce ancora in modo riconoscibile in
periodo successivo, producendovi nuovi pro cessi ». In questo passo decisivo si
fa purtroppo riferimento soltanto all’ele- mento causale, e non all'elemento di
valore, nella determinazione con- cettuale di ciò che è « storico ». Tuttavia
un paio di pagine dopo viene menzionato anche il « valore interno », cioè la
maggiore formazione di una specificità individuale, come criterio di selezione
di ciò che è storico. Si tratta di una discrepanza interna che è caratteristica
dello stato del pensiero che domina la scienza specialistica. Si scorge sì
l’intreccio di causalità e di valore presente nell'interesse storico, ma non lo
si affronta in modo intrinseco soggiacendo così, dove si fornisce la
definizione prin- cipale, a una pura idea di causalità. Per una critica a Meyer
si veda anche H. Ricgert, Probleme der Geschichtsphilosophie, Heidelberg, 3?
ed. 1924, P. 59. ta dal più personale
impulso vitale — oltrepassa la ricchezza degli strumenti conoscitivi puramente
causali e cerca di avvici- narsi allo stesso modo dell’artista, con
l’intuizione e la raffigura- zione vivente, ai fenomeni storici. È il suo
valore per noi e per la nostra propria vita che cerchiamo di conquistare per
questa strada. Il bisogno teoretico di conoscenza causale e il bisogno di
valori vitali si sono sviluppati in modo strettamente, anzi inse- parabilmente
connesso, nell'interesse storico. Forse che il biso- gno teoretico non è già in
sé anche il bisogno di un valore vitale, del valore di verità? Certamente, ogni
scienza deve servi- re in modo coerente e rigoroso, senza lasciarsi disturbare
da intenti pratici collaterali, alla ricerca della verità, delle vere relazioni
causali. Ma per noi servitori della scienza la nostra vita non sarebbe una vita
completa se non fosse riempita da questa pura aspirazione alla verità. Per
questo motivo noi l’ac- cresciamo e l’approfondiamo, e la nostra teoria si
trasforma in prassi vivente e in formazione della vita. La tendenza pratica non
può introdursi troppo presto in essa, e influenzare la ricer- ca di relazioni
causali. Prima la via delle relazioni causali de- V’essere percorsa con
sicurezza fino all’ultimo punto raggiungi- bile, e solamente allora si può,
anzi si deve ricorrere a quei mezzi sovra-causali per soddisfare il bisogno di
valori vitali che opera dal profondo. Che l’« essenziale » nella storia
comprenda però non soltan- to relazioni causali, ma anche valori vitali, può
essere illustra- to con un esempio ipotetico. Poniamo il caso che si scopra
l'opera di un autore sconosciuto del passato, di grande forza e profondità
spirituale ma rimasta completamente ignota agli stes- si contemporanei e quindi
completamente priva di influenza causale sul suo tempo: la dichiareremo perciò
storicamente ines-senziale e inefficace? Essa potrebbe agire nel modo più forte
su di roi e comincerebbe quindi ad agire ora causalmente tra di noi, ma
soltanto perché rappresenta per noi un valore vita- le. Questo è perciò
l'elemento primario per il nostro interesse, e si realizza in noi — né potrebbe
avvenire altrimenti — attra- verso la causalità. Ma il nostro interesse storico
non è diretto qui alla ricerca di questa causalità, bensì alla comprensione e
alla rianimazione di un grande valore spirituale del passato. Questa
comprensione deve naturalmente applicare ancora stru- menti causali e tentare
di mediare l’origine storico-temporale dell’opera in questione; ma la ricerca
causale è qui soltanto un mezzo diretto allo scopo del pieno ripristino di un
valore spiri- tuale. Un fanatico della causalità potrebbe obiettare che si può
e si deve certo indagare quell’opera rimasta causalmente ineffica- ce nella sua
epoca, ma per il fatto che essa vale come effetto di relazioni causali, e
riporta alla luce forze impulsive di quell’e- poca finora ignote, le quali
soltanto potevano produrre una tale opera. Ma queste relazioni causali — si
risponderà subito — non ci interesserebbero affatto se qui non fosse appunto
presente un grande valore, che ci avvince di per sé arricchendo così la nostra
vita. No: sotto ogni ricerca di relazioni causali sta, mediatamen- te o
immediatamente, la ricerca di valori, la ricerca di quella che si chiama
cultura nel senso più alto — irruzioni e manife- stazioni dello spirituale
all’interno della connessione causale della natura. La terza delle tre impronte
del corso storico è quella che produce questi valori. La piccola selezione di
ciò che consi- deriamo degno di indagine nella sterminata massa dell’accade- re
si compie — come ha mostrato Rickert — in conformità alla relazione che questo
accadere ha avuto con i grandi valori culturali. Egli ci insegna che lo storico
indaga soltanto fatti in relazione a valori; e aggiunge che lo storico deve
soltanto inda- garli e rappresentarli, non già valutarli, se vuol rimanere
entro i limiti della sua scienza. La seconda tesi scaturisce dalla preoc-
cupazione per la conservazione del carattere scientifico della ricerca storica,
dalla preoccupazione verso la penetrazione di tendenze soggettive. Ma è
possibile rispettare tale prescrizio- ne? Essa è irrealizzabile *. Già soltanto
la selezione di fatti in a. H. Ricgerr (Probleme der Geschichtsphilosophie
cit., p. 67) am- mette sì l’« inseparabilità psicologica del valutare dalla
designazione di valore », ma vuol separare il valutare dall’essenza /ogica
della storia. Ora, ciò che è psicologicamente inseparabile dall’attività dello
storico dev'essere riconosciuto anche dal logico — per quanto egli possa sepa-
rarlo con i suoi strumenti — come psichicamente connesso con tale attività in
modo essenziale. E il valutare non è una funzione accessoria superflua
nell'attività dello storico. Io concedo a Rickert che «lo storico riferimento a
valori non è possibile senza una valutazione. Lo sarebbe solamente se i valori
a cui i fatti si riferiscono consistes- sero — come ritiene Rickert — in
categorie tanto generali quanto lo sono la religione, lo stato, il diritto. Ma
lo storico non sceglie il suo materiale soltanto secondo queste categorie
generali, ma anche in base all'interesse vivente per il loro conte- nuto
concreto. Egli lo concepisce come più o meno fornito di valore, cioè lo valuta.
La rappresentazione e l'illustrazione di fatti culturalmente importanti non è
affatto possibile senza la più viva sensibilità per i valori che in essi si
manifestano. Per può astenersi da ogni giudizio valutativo sui suoi oggetti »,
ma una siffatta storiografia, libera da valutazioni, o è soltanto raccolta di
mate- riale e lavoro preparatorio per la vera e propria storiografia oppure, se
ha la pretesa di essere storiografia, appare del tutto insulsa — a meno che il
temperamento dell'autore non la colori e la renda viva di nuovo con valutazioni
non arbitrarie, come avviene per esempio nelle stra- ordinarie ricerche ed
esposizioni storiche di Max Weber. — Anche Hein- rich Maier (Das geschichiliche
Erkennen, Gòttingen, 1914, p. 34) ritiene, pur discostandosi fortemente da
Rickert, che « cadere in giudizi di valore non è affare della storia »; ma
spiega contemporaneamente che vietare giudizi di valore allo storico pieno di
temperamento è soltanto noiosa pedanteria. Egli distingue cioè tra una
posizione propriamente storica, la quale esclude i giudizi di valore, e
un'altra posizione di fronte alla storia, anch'essa legittima, di carattere
etico-estetica e quindi valutativa. Deve lo storico assolvere
contemporaneamente entrambi i compiti nello spazio della stessa opera, anche se
il primo — il compito propriamente storico — esclude il secondo? Ciò è
impossibile e ibrido, una specie di doppia morale professionale che rompe
l’intima connessione psichica pre- sente nell'attività dello storico. Una
logica della storia che voglia raggiun- gere il suo fine deve partire da
questa, deve analizzare lo storico reale, vivente, non lo storico costruito
logicamene — ed egli di regola si com- porta, anche se non lo vuole, in maniera
valutativa. Chi sta dentro la prassi ininterrotta della storiografia percepisce
questo elemento in modo completamente differente dal filosofo — G. von Below
(Die deutsche Geschichtschreibung von den Befreiungskriegen bis zu unseren
Tagen: Geschichtschreibung und Geschichtsauffassung, Miinchen und Berlin)
scrive: « una connessione di fatti non può essere effettuata senza giudizi di
valore ». Quest'affermazione si spinge forse troppo in là. Certe connessioni
causali di tipo semplice possono essere effettuate anche senza giudizi di
valore; quelle di tipo più complesso — per esempio la constatazione delle cause
della Riforma, della Rivoluzione francese e, ora, del crollo del 1918 — vengono
sempre determinate insieme da giudizi di valore. quanto lo storico possa,
almeno formalmente, anche sospende- re il proprio giudizio di valore su di
essi, questo è tuttavia presente tra le righe, e in quanto tale influenza il
lettore. Sovente esso agisce quindi — particolarmente in Ranke — in modo più
profondo e incisivo di quanto non accadrebbe se fosse rivestito della forma di
una censura immediata, ed è per- ciò da raccomandare come espediente. Il
giudizio di valore sol- tanto implicito dello storico stimola l’attività
valutativa pro- pria del lettore in maniera più forte di quello apertamente
dispiegato. Nella misura in cui si presentano in apparenza sol- tanto relazioni
causali, tanto più immediatamente e creativa- mente lampeggia in esse l'elemento
di valore, la manifestazio- ne di una potenza spirituale all’interno della
connessione causa- le. Ma spesso il giudizio diretto di valore non dev'essere
evita- to, per recare a piena chiarezza il valore di ciò che è accaduto.
Avviene qui come in quelle forme di culto divino in cui il silenzio sacro e la
parola del sacerdote si alternano nella venera- zione del divino. E la ricerca
storica è precisamente culto del divino, preso nel senso più ampio. Si vuole
vedere confermato nel mondo, attraverso la sua rivelazione, ciò che si
percepisce per sé come fine spirituale della vita. Si vuol diventare consape-
voli della forza e della continuità della corrente spirituale del- la vita, che
per l'individuo sfocia sempre in lui stesso; si vuol trovare la via per cui
l'uomo è venuto, per indovinare quella che percorrerà. Si vuol venerare le
potenze che consentono di innalzare la nostra esistenza dal vincolo naturale
alla libertà dell’elemento spirituale. In qualsiasi modo si rappresenti la
divi- nità, si vuol cercarla nella storia. Anche il ricercatore che fa valere
soltanto la connessione causale spogliata del carattere divino, e che nella
storia cerca quindi soltanto relazioni causali, è spinto — come abbiamo
chiarito — dal bisogno di un valore superiore e comprensivo, anche se si tratta
soltanto del valore della verità in sé. Certa- mente anche lo scienziato
naturale è spinto dal valore della verità, e può tuttavia lavorare libero da
tutti gli altri valori. Ma delle tre funzioni del «distinguere, scegliere e giudica-
re »', che costituiscono il compito specifico dell’umanità, egli 1. Allusione a
una coppia di versi di Goetne, Das Gòtiliche. deve esercitare nel suo ambito di
lavoro soltanto quella del distinguere. Lo studioso della cultura deve invece
esercitarle tutte e tre, perché i processi che indaga scaturiscono dalla natu-
ra umana nel suo complesso, si sono costituiti in virtù di un « distinguere,
scegliere e giudicare » e sono comprensibili soltan- to attraverso le medesime
operazioni. Se lo scienziato naturale può lavorare libero da valori, lo
studioso della cultura deve lavorare vincolato ai valori, anche quando vuol
trattarla secon- do il metodo dello scienziato naturale — e perfino al semplice
raccoglitore di materiale ciò viene risparmiato di rado. Diventa ora chiaro che
nella storiografia possono esserci due tendenze principali: la prima è attratta
dalle relazioni causali, anche se non può mai spogliarsi dei valori e quasi mai
dei propri valori; la seconda si sente attratta dai valori, pur senza potersi
sottrarre alle relazioni causali. Ognuna di esse presenta dunque una duplice
polarità, e in entrambe sono possi- bili e presenti sfumature e transizioni,
mescolanze diverse dei due elementi. La distinzione delle due tendenze è
risultata più chiara soltanto quando la storia cominciò a venir esercitata se-
condo metodi rigorosamente scientifici, e si approfondirono le questioni
riguardanti l’essenza della storia e i compiti dello storiografo. La più antica
storiografia politica mescolava, nar- rando gli eventi in forma epica, valori
ingenuamente sentiti e relazioni causali®. La storia illuministica voleva porre
in luce i a, Il punto di vista valutativo come criterio di selezione del
materiale storico fa la sua comparsa in modo significativo in Machiavelli. Nella
pre- fazione alle /storie fiorentine egli biasima i suoi predecessori Leonardo
Bruni? e Poggio Bracciolini* per aver narrato soltanto la storia esterna, e non
la storia interna, della città di Firenze, con tutte le sue lotte movimentate:
« Né considerarono come le azioni che hanno in sé gran- dezza, come hanno
quelle de’ governi e degli stati, comunche elle si trattino, qualunque fine
abbino, pare sempre portino agli uomini più onore che biasimo ». BRUNI
(vedasi), filosofo, uomo politico c umanista italiano, è cancelliere della
Repubblica fiorentina; traduttore di Platone c di Aristotele, autore degli
Episcolarum libri VIII, del De studtis et litteris e del trattato di ctica
Isagogicon moralis disciplinae, nonché di duc importanti opere storiche, gli
Historiarum florentini populi libri XII e il Commentarius rerum suo tempore
gestarum. 3. BRACCIOLINI (vedasi), filosofo, uomo politico e umanista italiano.
È dapprima segretario apostolico e in seguito, cancelliere della Repubblica
valori della cultura progressiva dell'illuminismo come l’unico oggetto
veramente degno della storiografia, ma non fu in grado di penetrare con essi lo
spessore dell’accadere politico — che pure non osò mettere da parte — e in tal
modo accostò i due elementi in maniera disorganica. La storia politica di
tendenza vuole proprio porre in luce dei valori, cioè i valori dei suoi ideali
politici, ma dev'essere completamente esclusa dalla nostra considerazione
perché il concetto di valore storico, nel senso in cui lo intendiamo, non
abbraccia soltanto i nostri propri ideali politici o apolitici, ma ogni forte
manifestazione di vita propriamente spirituale, e quindi anche gli ideali
dell’avversario. Humboldt è stato forse il primo a richie- dere una
storiografia del genere, rivolta a tutti i valori spiritua- li dell'umanità —
questo sono infatti le sue /deen — e fondata sull’indagine di tutte le
relazioni causali conoscibili. Ranke ha realizzato questa storiografia riunendo
tra loro organicamente, in maniera ideale, la ricerca delle relazioni causali e
la rappre- sentazione dei valori, in ultima analisi cercando quindi Dio nella
storia; cosicché lo si può far rientrare in quella tendenza che, nel suo
fondamento ultimo e decisivo, si lascia attrarre dai valori. Il positivismo del
tardo Ottocento scatenò la controf- fensiva e pretese una trattazione
avalutativa e puramente causa- le della storia: esso riuscì soltanto
sporadicamente a farla pene- trare in pieno nel lavoro della storiografia
scientifica, tuttavia rafforzò in essa la tendenza a porre in primo piano la
ricerca delle relazioni causali. Ne conseguì una ricerca sterminata e
specializzata del particolare, che è in auge ancor oggi. Nei fatti indagati
causalmente lampeggiavano sì nuovi valori scono- sciuti del passato, ma la loro
indagine fu eccessivamente mecca- nizzata dall’inevitabile divisione del
lavoro, e la loro massa diventò troppo grande per poter essere padroneggiata e
gusta- ta spiritualmente. Ne derivò quindi — e ne deriva ancor oggi — un
contraccolpo che spinge a più forti e appassionate sensa- zioni di valore, la
tendenza alla raccolta e al vaglio dei valori, al rifiuto dei valori minori,
all’accentuazione (e anche alla so- fiorentina; infaticabile scopritore di
codici, autore di saggi filosofici come il De gvaritia, il De varietate
fortunae, i! De nobilitate, il De infelicitate principum – cf. Grice on Wilde
on The Happy Prince -- , il De miseria humanae conditionis. Redatta gli
Historiarum florentini populi libri VII. pravvalutazione) dei valori
culturalmente superiori. Ciò consente, in linea di principio, la fondazione
mediante una solida indagine di relazioni causali, ma qua e là, nella prassi
degli storici più giovani, si comincia a trascurarla in modo preoccupante. La
sintesi è la parola d’ordine con cui dall’angusto lavoro dell’inda- gine
causale si aspira ai grandi valori dominanti della vita e del passato. Si
mettono in moto sensazioni soggettivistiche e mistiche le quali premono, senza
la strada faticosa della ricer- ca del particolare, verso la riunificazione
immediata con l’ani- ma del passato. Si vuol trarre da essa — come ci si
esprime volentieri — soltanto l’« eterno» e l’« atemporale », lasciando- ne
cadere i presupposti storico-temporali. Si costruisce senza molta induzione, in
base ad alcune vestigia impressionanti del- la tradizione e con l’aggiunta
esorbitante dei propri ideali, e poi si abbraccia l’immagine fantastica che ci
si è creati da sé. Quest’aspirazione agli alti e supremi valori culturali
contrasse- gna in modo peculiare la scuola dei cosiddetti « georgiani », cioè i
seguaci di Stefan George* — anche perché essa si pone pretese rigorose,
rimanendo nelle sue opere migliori intatta da- gli errori di un modo di lavoro
negligente e attingendo varie volte un'alta perfezione formale, ma con una
tendenza all’ecces- siva raffinatezza e all’assottigliamento dell’atmosfera
spiritua- le, in cui si dissolvono le rozze relazioni causali terrene. Il
lavoro di ricerca della corporazione vera e propria degli storici è ancora
relativamente poco toccata da queste tendenze, ma chi conosce i bisogni della
giovane generazione sa che qui spesso si agita, in modo prepotente, qualcosa di
esse. È la costellazione spirituale complessiva della nostra epoca che ha
prodotto queste tendenze — la reazione di ciò che si può chia- mare anima
contro la minacciosa meccanizzazione civilizzatri- ce della vita e contro gli
sterminati poteri delle masse, che si sono manifestati nella guerra mondiale e
durante il crollo. Es- si si gonfieranno presumibilmente in misura ancora più
forte, diventando un fattore importante nel futuro delle scienze stori- 4.
Stefan George (1863-1933), pocta lirico tedesco, autore di numerosi volumi di
versi come gli Hymnen (1890), Algabal, Das Jahr der Scele (1897), Der Teppichk
des Lebens und die Lieder von Traum und Tod (1899), Der siebente Ring (1907),
Stern des Bundes (1913), Das neue Reich (1928), raccolse intorno a sé un
cenacolo letterario che prese il nome di George-Kreis e in seguito di
George-Bund. che. E dato che anche i miei tentativi si muovono in questa direzione,
posso ben parlarne in base alla mia propria esperien- za, poiché avverto
personalmente la loro grande necessità inter- na al pari dei loro pericoli. Da
un lato calcificazione corporati- va, dall’altra imbarbarimento
soggettivistico, sono i due scogli su cui potrebbe frantumarsi la nostra
scienza nel corso della prossima generazione. La bussola può essere sempre e
soltanto questa: nessuna causalità senza valori, nessun valore senza rela-
zioni causali. Senza una robusta fame di valori l’indagine del- le relazioni
causali si trasforma, anche se condotta con tecnica virtuosistica, in mestiere
triviale. Senza il piacere immediato della realtà concreta e delle sue
connessioni causali, rozze o raffinate, la rappresentazione di valori ideali
perde il suo terre- no naturale, diventando vuota e arbitraria. L'equilibrio
tra le due tendenze non si realizzerà — stando così le cose — in modo ideale
com'era possibile in Ranke, perché la problematici- tà della situazione moderna
e del pensiero moderno ha distrut- to le armonie in cui egli viveva
interiormente ed esteriormen- te. Oggi sembra che solamente una certa
unilateralità possa proteggere l’uomo spirituale dallo sconcertante predominio
del- l'ambiente. Ma l’aspirazione all’armonia deve restare operante e potrebbe
estinguersi soltanto con la decadenza o il crollo completo della nostra
cultura. II Quando Rickert ha aperto il cammino con la sua teoria dei valori
culturali e ha collocato questo concetto al centro della dottrina della storia,
Alfred Dove ha parlato con diffidenza e sospetto della sua « anguillesca
elusività » ®. Un diretto scolaro di Ranke qual egli era, abituato a porre
l'intuizione al di sopra della comprensione concettuale, e che per giunta
viveva e si muoveva familiarmente tra i valori culturali, non aveva bisogno di
un nome per ciò che già recava in sé. Ma il pensie- ro concettuale segue da
vicino il pensiero intuitivo e non può a. A. Dove, Ausgewàhlte Aufsitze und
Briefe (a cura di F. Meinecke ce O. Damman), Miinchen, 1925, vol. II, p. 279. rinunciare al tentativo di delimitare in modo
più preciso ciò che ci stava dapprima davanti agli occhi soltanto in modo
intui- tivo e vivente. Se — come in questo caso — di chi pensa piuttosto in
modo intuitivo si deve dire che non raggiunge il suo scopo e che rende non già
più chiaro, ma più confuso l'oggetto di cui si tratta, ci si può sì scusare
della povertà dello strumento linguistico che costringe anzitutto all’uso di
una parola equivoca, ma si deve anche tentare di sanare l’indi- stinzione del
nuovo concetto con più precise determinazioni particolari. Tentiamone alcune.
Come spesso avviene, una nuo- va parola d'ordine, nata dalla vita e all’inizio
assai cangiante, non sviluppa una fecondità inaspettata, in quanto induce
piutto- sto a unificare in connessioni determinate i fenomeni particola- ri che
erano dispersi. Chiarimento e delimitazione, nella misu- ra in cui sono
possibili, seguono sempre soltanto gradualmen- te. Umanità, umanesimo,
nazionalità, nazionalismo, storici- smo, individualismo e così via non sono che
parole d’ordine e concetti familiari, equivoci e sfuggenti ma tuttavia fecondi,
in- dispensabili, che si chiariscono e si approfondiscono a poco a poco, anche
se mai in modo definitivo, attraverso l’uso. Determinare l’essenza dei valori è
l'impegno scottante della filosofia moderna. Lo storico tenterà di imparare da
essa, ma non per questo può e deve rinunciare a formare in base alle sue
esperienze più proprie la sua immagine dell’essenza dei valori, che dal punto
di vista del filosofo apparirà molto som- maria, equivoca e perciò lacunosa, ma
che proprio perché crea- ta dalla prassi della ricerca storica possiede forse
una maggiore sicurezza di istinto rispetto a quella che nasce da sforzi di
carattere più logico-astratto. Con Troeltsch noi distinguiamo i valori
inferiori della vita, puramente animali — che lo storico può prendere in
considera- zione soltanto sotto forma di relazioni causali — dai valori
superiori della vita, dai valori spirituali o culturali * che costitui- a. Non
posso condividere picnamente le distinzioni di H. Rickert (Le- bensiwerte und
Kulturwerte, « Logos », II, 1911-12, pp. 131-66, e Philoso- phie des Lebens,
Tiibingen, 1920, p. 156 sgg.), secondo cui non esistereb- bero in fondo valori
che siano soltanto valori vitali, e i valori culturali sarebbero più o meno
distanti o anche opposti alla vita — per quanto scono la sfera d'interesse
propria dello storico, e la cui compren- sione è il suo fine supremo. Con il
termine «spirito» non intendiamo semplicemente l’elemento psichico bensì —
secon- do il significato antico — la vita psichica altamente sviluppata, ossia
appunto ciò che « distingue, sceglie e giudica », producen- do in tal modo
cultura. La cultura è pertanto rivelazione e irruzione di un elemento
spirituale all’interno dell’universale connessione causale. Tra la vita
culturale e la vita naturale dell’uomo sta un campo intermedio che partecipa di
entrambe, che designiamo con il termine (oggi sempre più impiegato in questo
senso) di civiltà e che distinguiamo dalla cultura superio- re, spirituale in
senso pieno — mentre un uso linguistico più vago, ma anche molto più diffuso,
confonde tra loro i due concetti *. La civiltà si innalza al di sopra della
mera natura, la quale viene trasformata dall’intelletto spinto dalla volontà
vitale e rivolto all’utile. In essa rientra anzitutto l’intero ambi- to delle
scoperte tecniche. Come scoperte, come realizzazioni di una mente
spiritualmente produttiva e originale, sono an- che opere di cultura. Ma esse
possono venir spiegate anche biologicamente, in base a ciò che si chiama «
adattamento ». L’atto stesso delle scoperte ha quindi un aspetto biologico e un
aspetto culturale. Una volta compiute, applicate ed estese, esse minacciano, se
non le sorregge una vita spirituale autonoma, di sprofondare di nuovo
nell’elemento meramente naturale — e infatti una tecnica applicata si trova
anche presso gli anima- li. Ho cercato di illustrare questo campo intermedio
dell’utilita- rio con un esempio, quello della ragion di stato. Lo storico
dovrà avere continuamente a che fare con esso, non soltanto perché la parte di
gran lunga maggiore delle relazioni causali mi senta vicino, anche nel
contenuto, alla sua concezione dell'essenza della cultura. In fondo, qui ci
separa più la terminologia che non una differenza sostanziale. a. Si dovrebbe
una buona volta indagare l'origine e la storia delle distinzione tra cultura e
civiltà. A quanto mi risulta, essa è stata espressa per la prima volta da Kant
nella sua /dee 2u ciner allgemeinen Geschichte in weltbitrgerlicher Absicht.
Nella settima tesi si legge: « L'idea di mo- ralità rientra ancora nella
cultura; ma l’uso di questa idea, che riguarda soltanto ciò che è conforme al
costume nell'amore dell'onore e nella cor- rettezza esteriore, costituisce
semplicemente la civiltà ». che deve indagare appartiene a questo ambito, ma
anche per- ché i processi in esso presenti possono diventare, in virtù di un
incremento spesso non percettibile, opere di cultura. Se ciò che è soltanto
utile deve diventare bello e buono, l’anima deve vibrare — non abbiamo davvero
altro termine; altrimenti esso rimane appunto prestazione intellettuale
senz'anima e senza spi- rito, mera civiltà e non cultura. La cultura compare
soltanto dove l’uomo intraprende la lotta con la natura impegnandovi tutta la
sua interiorità, non soltanto la volontà e l’intellet- to, dove agisce
valutando nel senso più alto, ossia dove crea o cerca qualcosa di buono o di
bello in quanto tale, oppure cerca il vero in quanto tale*. Tutto quanto l’uomo
compie valutan- do in tal senso, è fornito di valore anche per lo storico”, e
gli offre conferma della continuità e fecondità dell’elemento spiri- tuale
nella storia, gli indica la via che il suo dispiegarsi ha preso fino a lui. Ma
per poterlo comprendere completamente, lo storico deve — come abbiamo detto —
indagare l’intero campo in cui si radicano processi causali che in gran parte
non hanno nulla a che fare con la cultura. All’interno della sua
rappresentazione — se questa procede onestamente — ciò che è legato ai valori e
fornito di valore risplenderà quindi soltan- to qua e là, al pari che nella
vita, come una gemma rara tra ciò che cresce. Ma quanto sono rari in confronto
alla massa di processi umani in generale, altrettanto incomparabilmente
numerosi so- no all’interno della storia queste realizzazioni e questi valori
a. Pongo qui a fondamento l'antica tripartizione dei beni ideali, anche se essa
non esaurisce il loro ambito e il loro contenuto. Ma essa può venir utilizzata
a scopo di abbreviazione. b. Identifico quindi realizzazione culturale e valore
culturale. I valori culturali non soltanto « aderiscono » — come ritiene
Rickert — alle realtà storiche senza essere essi stessi realtà, ma
costituiscono un fattore inte- grante delle realtà storiche, poiché queste
possono venire alla luce soltanto in virtù della cooperazione della causalità
etico-spirituale, realizzatrice di valori, con la causalità meccanica e
biologica. Si veda anche la critica che E. TroeLTscH ha rivolto (in Der
Historismus und seine Probleme, Tibin- gen, 1922, p. 153) alla dottrina
rickertiana della mera «aderenza » dei valori culturali ai fenomeni storici
reali. La questione se al di là della realtà storica esista un sistema di
valori oggettivi, è un problema metafi- sico che lo storico deve lasciare al
filosofo. culturali. Ogni anima umana individuale è infatti in grado di
produrre valori culturali — si tratti anche soltanto dei valori del semplice
adempimento del dovere a causa del bene. Secon- do quali princìpi si compie qui
la selezione dello storico? Anzi- tutto, certamente, secondo il principio
dell’efficacia causale. Tutte le realizzazioni culturali che hanno influenzato
con mag- gior forza e permanenza la conservazione e l'ulteriore svilup- po
della cultura sono degne d’indagine e di rappresentazione. Il confine tra ciò
che è importante e ciò che non è importante risulta quindi fluido, e dipende
dalla sensibilità e dalla posizio- ne dello storico. Dipende dalla posizione
perché, a seconda che si riferisca a formazioni storiche più limitate o più comprensi-
ve, egli deve vagliare in modo diverso il materiale dei fatti: ad esempio, per
l’esposizione della storia di una città assumerà come importanti fatti che su
un piano superiore, come in una storia nazionale, devono essere senz’altro
ritenuti non importan- ti*. Altrettanto fluida e dipendente dalla sensibilità è
l’applica- zione del secondo criterio di selezione delle realizzazioni cultu-
rali, del quale abbiamo già parlato prima in un altro contesto: quello del
valore culturale proprio dei fenomeni storici. Mai e poi mai le grandi
realizzazioni culturali e le manifestazioni di un elemento spirituale possono
essere valutate esclusivamente in base al grado della loro influenza causale
sul progresso del- la cultura. Esse poggiano — del tutto indipendentemente dal
fatto che abbiano influito o no sulla loro epoca — anche su se stesse, e sono
di per sé degne di indagine, di rappresentazione e di venerazione. Di esse vale
ciò che il poeta dice dell’antica lampada, che non ha più nessuna utilità ma
che lo incanta: « ma ciò che è bello, sembra felice in se stesso » 5. Questo è
il punto che le abituali intuizioni degli storici su ciò che è degno di
indagine non sono ancora giunte a decidere. Ho spesso di- scusso con Troeltsch
in merito alla « sopravvalutazione delle re- a. Heinrich Mater ha richiamato
l'attenzione, in modo molto istruttivo, su questa specie di procedimento
cartografico: si veda Das geschichiliche Erkennen cit., p. 33. s. Eduard
Mòrire, nella lirica Auf cine Lampe, in Werke in drei Binden, Miinchen, 1951,
vol. I, p. 82, v. 10. lazioni causali » che ancor oggi domina la scelta del
materia- le* Si sopravvalutano le relazioni causali particolarmente quan- do si
disconosce il momento individuale dell’origine dei valori culturali e si
trascurano quindi quelle relazioni causali che sca- turiscono dalla spontaneità
dell’agire etico-spirituale personale e che non sono perciò così facili da
inserire nella connessione causale come le relazioni causali di natura
meccanica e biologi- ca. I valori culturali nascono sempre soltanto
dall’irruzione di una forza spirituale specifica entro le serie causali
meccanica- mente o biologicamente determinate. Ogni elemento spiritua- le, ogni
valore culturale è specifico, individuale, insostituibile da altri. Chi gusta
l’individuale in esso presente proverà anche subito il senso del suo valore e
lo apprezzerà quindi non soltan- to come un elemento importante della catena
causale, ma an- che di per se stesso. Certamente c’è pure un’individualità
indif- ferente e libera da valori — ogni oggetto ne ha una. Individua- lità
storiche sono però soltanto quei fenomeni che hanno in sé qualche tendenza al
bene, al bello o al vero, e che perciò diven- tano per noi fornite di
significato e di valore. Esse lo diventa- no tanto più quanto più fortemente
questa tendenza si aggiun- ge, nobilitandola, alla mera tendenza
all'affermazione della vi- ta e all’auto-affermazione delle formazioni umane.
La comprensione più profonda dell’individualità, sia della personalità singola
sia delle formazioni umane sovra-personali, fu la grande acquisizione
realizzata in Germania dall’ideali- smo e dal Romanticismo, e che creò lo
storicismo moderno. Soltanto in virtù di questa comprensione anche l’idea di
svilup- a. Tale era anche il pensiero di Alfred Dove. Alludo alla sua bella
lettera a Rickert del 2 gennaio 1899 (in Ausgewahlte Aufsitze und Briefe cit.,
vol. II, p. 208). Lo storico — in essa si dice — dedica alla vita passata «un
interesse- che è del tutto indipendente dalla questione relativa alla misura in
cui ha preparato la nostra vita presente. E perché vuol far questo? La
relazione che essa ha con noi è presente anche senza una causa- lità del
genere: se appena la vita passata che si prende in considerazione è in sé
significativa, essa desta il nostro sentimento di partecipazione, in quanto
fornita di valore dal punto di vista umano in generale. Noi non ci poniamo in
relazione con il passato in modo meramente causale, anzi saltiamo l’intero
spazio causale intermedio in virtù della semplice sim- patia ». po — che a
torto viene spesso considerata criterio principale dello storicismo moderno, ma
che è troppo versatile ed equivo- ca per poterlo essere — trovò il suo retto
cammino *. Lo svilup- po del feto umano è uno sviluppo biologico, non uno
sviluppo storico. Uno sviluppo storico ha luogo soltanto dove compare il
fattore spontaneo dell’uomo che agisce in base a valori e che produce quindi
qualcosa di specifico e di singolare. Perciò l’in- dividualità storica si «
sviluppa» e ciò che si sviluppa storica- mente sono sempre soltanto
individualità, le quali si manifesta- no nello sviluppo *. Anche la storia
universale intesa per esem- pio nel senso rankiano — che possiamo ancor sempre
difende- re, con alcune correzioni e riserve — è soltanto un'unica gran- de individualità,
piena di innumerevoli individualità grandi e piccole. Tutti i valori culturali
di questa storia sono al tempo stesso individualità storiche, fino
all’individualità suprema del- la storia universale, e quindi pienamente
comprensibili sempre soltanto in connessioni storico-universali. Tutto nella
vita lotta per avere forma e figura, e viene sospinto da leggi di formazione.
Questa conoscenza morfologi- ca — che per quanto riguarda la storia è stata
sostenuta nel modo estremo e più unilaterale da Spengler — domina sempre più il
pensiero moderno. Storicamente fornite di valore diventa- no però soltanto
quelle forme e figure della vita umana che a. H. Ricgert ha potuto distinguere
ben sette diversi tipi di sviluppo! Cfr. Die Grenzen der naturwissenschlichen
Begriffsbildung, Tùbingen, 1896-1902, cap. V, $ 5. — Contro la
sopravvalutazione dell'idea di sviluppo si rivolge anche la lettera sopra
citata di Alfred Dove a Rickert, ma con una motivazione che non posso
condividere. Egli scrive: « dall’indivi- duale all’individuale non c'è sviluppo
». Qui si dimentica che ogni indi- vidualità è inserita in un’individualità di
grado superiore, e che lo sviluppo che ha luogo entro questa individualità
superiore collega tra di loro, con filo spirituale, anche le individualità più
concrete che si sviluppano sepa- ratamente le une dalla altre. Così esiste di
fatto, per esempio, uno sviluppo dall’individuo Lutero all'individuo Kant,
ossia lo sviluppo che si è compiu- to nel mondo dello spirito
tedesco-protestante. In merito al modo di vedere la storia proprio di Dove, si
vedano le mie osservazioni nella « Historische Zeitschrift », CXVI, 1916, p.
83. b. « Gli sviluppi storici non sono altro che individualità storiche con-
cepite nel loro divenire e nel loro crescere » (H. Ricxert, Probleme der
Geschichtsphilosophie cit., p. 47). servono non soltanto alla sua necessità
vitale, ma anche a un qualsiasi ideale e a valori etico-spirituali. Non appena
dalla forma traspare qualcosa di individuale-spirituale, essa desta l’in- teresse
dello storico; altrimenti rimane circoscritta alla sfera biologica della
semplice affermazione della vita, e lo storico può considerarla soltanto da un
punto di vista causale, per spiegare altri valori e non come valore in sé.
Però, almeno per l’occhio umano, la sfera biologica e la sfera dei valori
etico-spirituali non sono tra loro separate chiara- mente e univocamente, ma
spesso si sovrappongono in modo impercettibile. È quanto abbiamo mostrato — mi
riferisco di nuovo al mio libro sulla Idee der Staatsrison — a proposito del
campo intermedio dell’utilitario. Questa impossibilità di de- terminare confini
netti tra le due sfere è propriamente ciò che ha prodotto tutte le differenze
presenti nel moderno pensiero relativo alle scienze dello spirito. Ognuno può
infatti interpreta- re e tracciare in modo diverso questi confini, riconoscerli
o non riconoscerli. Questa è la questione più tormentosa che per- seguita lo
storico. Troppo spesso egli deve lottare con l’incertez- Za se questo o
quell’elemento che egli indaga debba essere spie- gato in base alla mera
necessità vitale e naturale, oppure facen- do anche ricorso a fattori
etico-spirituali, a fattori di valore. Le necessità vitali e naturali, le
relazioni causali di tipo biologi- co, attraversano da capo a piedi anche colui
che agisce in base a valori e lo minacciano di intorbidare i valori, di far
passare valori apparenti per valori autentici. La cosa più inquietante è che
spesso un vincolo causale strettissimo unisce tra loro le due sfere, che spesso
valori culturali grandi e benefici hanno un’ori- gine comune e sporca, vengono
su faticosamente dalla notte e dalla profondità — cosicché sembra, in certo
senso, che Dio abbia bisogno del diavolo per realizzarsi. Se poi si è d'accordo
nel credere — di nuovo nel senso goethiano — all’unità della natura-dio, una
luce più confortante cade anche su queste con- nessioni. Dove i processi
naturali della vita umana non entra- no in contraddizione con i precetti
dell'etica, e quindi non diventano peccato, essi possono apparire come lo
sfondo natura- le indispensabile, gentilmente alimentante, per la produzione
delle più splendide fioriture. Anche Goethe ha ben sfogato la sua sensibilità
nella sua arte così elevata — poco importa se ciò sia avvenuto con o senza peccato.
È caratteristico il fatto che proprio in tale questione anche la ricerca
storica che è abitualmente più rivolta alle relazioni causali dimentichi la
causalità operante sui valori, cioè ignori o nasconda le grandi acquisizioni
della cultura rispetto alla sua origine spesso spaventosa e disgustosa.
Soltanto pochi stori- ci hanno l’acuta sensibilità posseduta da Burckhardt
quando scoprì i presupposti politici e sociali della cultura del Rinasci- mento
in tutto il loro orrore, rimanendo egli stesso turbato da questa connessione
demoniaca. Soltanto allora si cominciano a registrare con una certa equanimità
i successi della politica di potenza che hanno trasformato e rifecondato la
vita culturale, e a considerarne i presupposti e gli effetti collaterali più
machia- vellici come una conditio sine qua non. E in apparenza essi lo sono
anche — ma con ciò va perduto il sentimento della tragici- tà della storia. La
cultura che si fonda sulla spontaneità, sulla causalità la quale produce valori
etico-spirituali ed è quindi di nuovo stret- tamente connessa alle relazioni
causali di tipo biologico e mec- canico — questo è l’enigma che lo storico non
può risolvere. Cultura e natura — possiamo anche dire Dio e natura — costi-
tuiscono sì un’unità, ma un’unità scissa in sé. Dio si solleva al di sopra
della natura con lamenti e gemiti, e carico di peccati; e perciò si trova ogni
momento in pericolo di ricadere nella natura. Questa è l’ultima parola per
colui che osserva le cose spregiudicatamente e onestamente — ma non può essere
l’ulti- ma parola in generale. Soltanto una fede che è però diventata sempre
più generale nel suo contenuto e che deve lottare in permanenza col dubbio può
offrire il conforto che esista una soluzione trascendente del problema — per
noi insolubile — della vita e della cultura. Ma noi abbiamo perduto la fiducia
che qualche filosofo abbia fornito o possa ancora fornire que- sta soluzione
trascendente. Il valore di verità dei sistemi filosofici e delle ideologie è
quindi dubbio; indubbio rimane invece il loro valore culturale. Le formazioni
ideali dei grandi pensatori sono quasi le più alte vette dello spirito in mezzo
alla natura che lo sorregge, quasi sempre le realizzazioni supreme del misero
essere umano, assetato di verità e sempre errante: soltanto l’opera della
grande religiosità e l’opera d’arte stanno più in alto di esse. Se si riflette
su quanto si è detto, ne risultano due specie di valori culturali. Gli uni
vengono intenzionalmente elaborati in uno sforzo già prima diretto a tale
scopo: formazioni ideali di tipo religioso e filosofico, politico e sociale,
opere d’arte, scien- za. Gli altri fioriscono mediatamente, e non secondo un
inten- to precedente, dalle necessità della vita concreta, indirizzata in senso
pratico. Con i primi l’uomo cerca il cammino più diret- to e rapido dalla
natura alla cultura; con i secondi rimane sul terreno della natura, ma con lo
sguardo rivolto alle alte vette dei valori che lo guidano. Soddisfacendo le
necessità della vita, egli cerca alla fine di soddisfarle in modo che si
realizzino contemporaneamente i valori del vero o del bene o del bello. Vale
quindi a questo proposito quanto ha detto Aristotele a proposito dello stato: è
stato costituito per poter vivere, ma esiste per vivere bene. Ed è in primo
luogo nello stato che la natura diventa in questo modo, capovolgendosi,
cultura. Nel lavoro immediato o mediato entro la cultura sorgono così ovun- que
degli esseri spirituali, individualità storiche, delle quali lo storico indaga
contemporaneamente l’origine e l’efficacia causa- le al pari del valore. La
soggettività, che è ora connessa a tutti i valori, viene posta almeno in
secondo piano per il fatto che si apprezza in primo luogo il valore del
fenomeno che essa reca in sé, come rivelazione specifica e insostituibile di
vita spirituale *. Occorre inoltre trasferirsi nell'anima stessa di chi agisce
per poterne osservare l’opera e la realizzazione culturale in base ai
presupposti che gli sono propri, e in ultima analisi per rianimare con
l'intuizione artistica la sua vita passata — il che non è possibile senza la
trasfusione del proprio sangue vitale. Solamente un senso aperto con amore e
tolleranza a tutto quanto è umano raggiungerà quindi quel grado di ogget- a. In
ciò consiste anche la protezione contro la pericosa tendenza dei moderni «
sintetici » a considerare il fenomeno individuale soltanto come elemento e
rappresentante dello sviluppo universale, vale a dire — nella prassi — soltanto
come punto di incrocio di tanti « ismi » astratti. In tal modo si arriva
nuovamente a una pericolosa vicinanza con il positivismo, che pure si crede di
aver superato. Nella più recente storia della letteratura e dell’arte questa
tendenza spadroneggia ormai in modo inquietante. tività che è possibile. Qui si
inserisce allora anche la teoria della relatività dei valori, che Troeltsch ha
formulato ?. « Relati- vità dei valori non vuol dire relativismo, anarchia,
caso o arbi- trio, bensì designa l’intreccio sempre mobile e creativo, e perciò
mai determinabile atemporalmente e universalmente, di ciò che esiste di fatto e
di ciò che dev'essere ». Ciò significa che la relatività dei valori non è altro
che l’individualità in senso stori- co, l’orma, in sé fornita di valore, di un
assoluto ignoto — poiché esso varrà per la fede come il fondamento creativo di
tutti i valori — in ciò che è relativo e legato alla natura tempo- rale. Dal
valore proprio delle individualità storiche si deve logica- mente distinguere
il valore che esse hanno per noi e per la nostra vita. Nella determinazione di
questo valore deve natural- mente agire con forza maggiore il bisogno
soggettivo. Trarre dalia storia un insegnamento, un modello e un’esortazione
rien- tra quindi tra i motivi ineliminabili che hanno da sempre con- dotto alla
storiografia. Di qui i pericoli più gravi che minaccia- no il suo carattere
scientifico: la distorsione tendenziosa, l’idea- lizzazione o la deformazione.
Un senso storico purificato, che riconosca la legittimità sia del carattere
scientifico sia di quello sopra-scientifico della storiografia, concederà che
noi vogliamo imparare dalla storia anche per la nostra vita. Già lo studio
delle relazioni causali offre insegnamenti pratici in gran quanti- tà. Tutte le
cause generali e ricorrenti in modo tipico, che operano nella storia, possono
ripetersi anche nel presente ed essere quindi considerate in base alle
esperienze compiute nel passato ®. Ciò che nel corso storico è individuale,
inimitabile, a. Cfr. Der Historismus und seine Probleme cit., p. 211. În questo
contesto rinunciamo ad approfondire quelli che si chiamano i pericoli dello
storicismo, cioè gli effetti relativizzanti del pensiero storico nei ri- guardi
di tutti i valori, e ci limitiamo a quest'unica osservazione: che sol- tanto
anime deboli e di poca fede possono scoraggiarsi e fallire sotto il peso di
questo storicismo relativizzante. La fede in un assoluto ignoto non può venir
scossa da esso. Ma la pretesa che questo assoluto ignoto si sveli, in modo da
poter essere toccato con mano, è un residuo di rappresentazione antropomorfica
della divinità. b. Hegel ha sì negato che popoli e governi abbiano mai appreso
qual- cosa dalla storia e abbiano agito secondo gli insegnamenti che se ne
pote- vano trarre. Ma è più giusto dire che di rado essi hanno imparato ciò che
insostituibile, non sopporta invece una tale applicazione prati- ca. Può però
diventare contenuto spirituale, modello ideale per coloro che possiedono
un’individualità affine e rispondente, e contribuire in tal modo alla loro più
profonda e più ricca for- mazione. Epoche e generazioni intere possono anche
nutrirsi dei valori culturali di un determinato passato, ad esse particolar-
mente affine. Le culture tarde di regola hanno bisogno di soste- gni siffatti.
Ma sempre incombe allora il pericolo di una man- canza di autonomia da epigoni,
il pericolo di soccombere inte- riormente agli spiriti del passato. Al
contrario, uno spirito for- te come Max Weber poteva motivare il suo disegno
immagi- nario di indagare la storia in modo avalutativo con uno scopo altamente
carico di valori: «voglio vedere fino a qual punto posso resistere.
L'insegnamento più raffinato e più alto che la storia ci dà è però quello che
scaturisce senza essere cercato — come lo abbiamo descritto sopra — dalla pura
valutazione delle individualità storiche in sé. Il suo valore proprio è allo-
ra ciò che diventa valido anche per noi. Esso non consiste in altro che nella
conferma dell’infinita forza creativa dello spiri- to, la quale non ci
garantisce certamente un processo rettili neo, bensì — all’interno dei limiti
della natura — un’eterna rinascita di individualità storiche fornite di valore.
In quanto queste individualità sono tutte causalmente connesse tra loro e
l'osservatore desidererebbe che avessero imparato. Bene o male, Bismarck lo ha
riconosciuto: « Per me la storia è servita anzitutto a imparare da essa
qualcosa. Anche se gli avvenimenti non si ripetono, si ripetono tuttavia le
situazioni e i caratteri, in base al cui spettacolo e al cui studio si può
stimolare e formare il proprio spirito » (Gesprich mit Memminger, 1890, in Die
gesammelten Werke, Berlin, vol. IX, 3° ed. 1926, p. 90). a. Marianne Weser, Max
Weber. Ein Lebensbild, Tibingen, 1921, p. 690. b. A questo proposito si veda
l'acuta osservazione di G. von BeLOw, Deutsche Geschichtsschreibung cit., p.
113, nota. — Non posso quindi considerare, con Troeltsch, la « comprensione del
presente sempre come il fine ultimo di ogni ricerca storica » (cfr. Die
Bedeutung des Protestan- tismus fiir die Entstchung der modernen Welt, Minchen,
1911, p. 6). Essa è certo un fine assai giustificato e necessario, ma non è né
l’unico né il più alto. Ho spesso polemizzato con Troeltsch su questo punto; e
anche nel suo Historismus (p. 696) egli mi rimprovera la « tendenza a evadere
verso una contemplazione oggettiva e pura ». formano nel loro insieme la grande
individualità complessiva della storia universale, anche l’individualità
storica della nazio- ne, dello stato, della società, della chiesa ecc. — entro
le quali viviamo storicamente e alle quali cooperiamo — diventa co- sciente del
proprio radicarsi nel processo complessivo. Proprio questa consapevolezza può,
a sua volta, sviluppare le più robu- ste forze etiche. La tradizione, che per
conto proprio e inconsa- pevolmente — si potrebbe dire naturalmente — opera
come legame tra le generazioni, come custode dei valori culturali acquisiti,
soltanto ora si spiritualizza veramente, diventando va- lore culturale in senso
pieno: « E così il vivente acquista di passo in passo nuova forza »°. Da quanto
abbiamo detto risulta che la storia non è al- tro che storia della cultura,
dove cultura significa produzio- ne di valori spirituali di volta in volta
specifici, ossia di in- dividualità storiche. La polemica tra gli orientamenti
storio- grafici della storia politica e della storia della cultura ha potuto
aver luogo soltanto perché da entrambe le parti non si era chiarito il rapporto
tra relazioni causali e valori nel- la storia. La storiografia politica vedeva
nello stato il fat- tore centrale della vita storica — e, dal punto di vista
causa- le, con pieno diritto, perché le influenze causali più forti an- che
sulla vita culturale provengono sempre dallo stato. E in quanto ogni
comunicazione di valori culturali ha bisogno della più ampia fondazione
causale, già per questo motivo anche lo stato dovrà rimanere sempre al centro
della ricerca storica. Ma esso è anche il valore culturale più alto possibile?
Una certa inclinazione a elevarlo a valore supremo era presente fin da Hegel,
anche se trovò sempre un limite nel giusto sentimento che, come valore, la
religione gli è superiore. Lo stato non può essere quindi il valore supremo,
perché è vincolato in modo più forte di quasi tutte le altre individualità
storiche a necessi- tà naturali, biologiche, che gli impediscono di
spiritualizzarsi e di eticizzarsi completamente. La religione nelle sue forme
più pure e l’arte nelle sue realizzazioni più alte costituiscono i 6. GorrHE,
Zur Logenfeier des 3. September 1825, Zuwischengang. valori culturali supremi.
Solamente dietro di esse la filosofia e la scienza possono reclamare la loro
posizione. Ma — ci si chiederà immediatamente — la vita attiva e produttiva
dell’uo- mo non viene con ciò sminuita nel suo valore a profitto delle attività
meramente contemplative e spirituali dell’uomo? Forse che la fuga dalla vita,
la quale è sempre in qualche misura connessa con queste, deve porsi più in alto
della formazione della vita? La risposta a tale interrogativo non può essere
semplicemen- te un sì o un no. Si manifesta qui il peculiare incrociarsi dei
valori. Se si chiede in quali sfere l’uomo può maggiormente innalzarsi al di
sopra della natura, occorre indubbiamente indi- care le sfere della religione,
dell’arte, della filosofia e della scienza. La vita produttiva lega l’uomo più
fortemente alla natura: i valori culturali che l'uomo produce in essa recano su
di sé più polvere terrena, sono più torbidi e impuri di quelli delle sfere
contemplative che rifuggono dal mondo. Il compito di produrli non è soltanto
più difficile, ma è anche più pressan- te e inevitabile che quello di portare
alla luce i valori culturali delle sfere puramente spirituali. Il compito
stesso di creare il valore culturale della religione acquista la sua piena
urgenza e inevitabilità se essa non rimane auto-godimento mistico del divi- no,
ma penetra nella vita produttiva e ne diventa fermento. Analogamente, dagli
altri valori culturali elaborati in modo contemplativo — cioè l’arte, la
filosofia, la scienza — si preten- de a buon diritto che essi fecondino non
immediatamente, ma mediatamente, la vita produttiva. Tutti i valori culturali
supre- mi sono tenuti a servire questa vita. Possiamo anche dire che la vita
produttiva non crea certamente di per sé i valori cultura- li supremi, ma che
il compito primo e più urgente è di creare in essa valori culturali. La vita
contemplativa forma soltanto immagini della vita, non la vita stessa. Per
questo motivo essa può creare qualcosa di più spirituale e di più perfetto di
quan- to non possa fare la vita produttiva. Queste immagini devono e possono
servire come guida alla vita produttiva nella sua lotta per i valori culturali.
Lo storico deve quindi rivolgere la massima attenzione a questo problema: fino
a qual punto e in quale grado la vita connessa alle necessità naturali venga in
tal modo trasformata e mutata in cultura. Attraverso queste considerazioni
l’importanza centrale del- la storiografia politica all’interno delle scienze
storiche risulta fondata più profondamente — riteniamo — che non mediante gli
argomenti finora addotti a tale scopo. Essa ha a che fare con valori culturali
più imperfetti che non la storia della reli- gione, dell’arte ecc. Ma non
invidia certamente a queste la fortuna di muoversi sulle vette dell'umanità.
Indagando lo sta- to, il fattore causalmente più efficace della vita storica, e
al tempo stesso cercando i valori che questo è in grado di produr- re, essa
deve sempre guardare contemporaneamente alle profon- dità e alle vette della
vita, e per farlo è costretta a porsi penso- sa nel centro della vita stessa.
Essa è la più prossima alla vita tra le scienze storiche. Si può discutere — in
base al concetto che si ha della vita storica — se la storia economica o la
storia sociale non siano ancora più vicine alla vita. Per vita storica noi
intendiamo però l’intreccio di natura e cultura; quanto più accanita è quindi
la loro lotta fecondatrice, tanto più è presen- te la vita storica. Noi vediamo
questo dualismo agire, nella sua forma più intensa, nello stato. Esso non lo
conduce ai supremi trionfi della cultura, ma allo spettacolo più memorabi- le e
più commovente della sua lotta con la natura. Spiritualizza- re ed eticizzare
lo stato in cui si vive, anche se si sa che non ci si può riuscire del tutto,
costituisce — insieme all’esigenza di elevare spiritualmente ed eticamente la
propria personalità — la più alta delle pretese che si possano porre all’agire
etico; perché lo stato costituisce la comunità di vita più influente e
comprensiva e perché l’uomo che aspira alla perfezione può respirare
liberamente soltanto in uno stato che aspiri anch'esso alla perfezione. E
proprio l’elemento problematico, l'elemento di insicurezza e di precarietà
presente nei valori culturali dello stato è ciò che attira con forza magnetica
lo storico politico, per lo più in modo a lui stesso inconsapevole, verso i grandi
uomini di stato della storia universale, nei quali il conflitto tra natura e
cultura diventa grandioso. C'è poi ancora un campo intermedio tra la storia
politica, che rappresenta la lotta per i valori culturali nella vita statale, e
la storia dei valori culturali creati contemplativamente: il campo delle idee
politiche. Qui vita attiva e vita contemplativa si fondono. Dalle necessità
della vita politica attiva scaturisco- no gli impulsi diretti a formare
immagini di questa vita nelle quali si mescolano tra loro realtà e ideale.
Secondo il desiderio di chi le forma, esse devono reagire sulla vita
immediatamente — e non soltanto mediatamente, come accade per le immagini
formate dall’arte e dalla scienza. Quando vi riescono, esse di- ventano preludi
di processi storici reali e sono già per questo motivo degne di essere
indagate, in quanto rappresentano rela- zioni causali importanti. Con quanto
zelo si è andati alla ricer- ca degli inizi dell'idea di sovranità popolare e
dell’ideale sociali- stal Ma esse derivano il loro valore culturale peculiare
dal fatto di rappresentare tentativi — rettilinei e ardui come quelli compiuti
dagli uomini dediti alla vita contemplativa — di ele- varsi al di sopra di ciò
che è meramente naturale e di spiritua- lizzare lo stato, almeno nel desiderio.
Esse devono perciò venir considerate, rivissute e rappresentate di per sé, nel
loro specifi co valore individuale, e non solamente nella loro efficacia causa-
le, con tanto sangue vitale quanto sarebbe necessario per infon- derlo di nuovo
in loro. Altri possono essere presi in misura più forte da altri tratti della
vita storica concreta; io sono sem- pre stato profondamente commosso dallo
spettacolo delle idee individuali che — nell’urto delle rozze forze terrene
della vita statale — si destano e lottano per sottrarsi alla loro pressione.
Anche queste idee sono ancor più vincolate all’elemento terre- no, più
fortemente intrecciate con le realtà effettive che non le formazioni spirituali
della pura vita contemplativa. Per questo motivo, a contatto con esse si
diventa più consapevoli dell’indi- spensabile terreno della realtà naturale,
senza il quale non è possibile nessuna formazione culturale, neppure la più
alta. Esse riuniscono l’odore della terra e il profumo dello spirito. È quanto
fanno anche gli stati concreti quando si elevano — come ci ha insegnato Ranke —
a esseri spirituali forniti di realtà. Dove poi cresca il valore culturale più
alto — se nello stato stesso oppure nell’idea del pensatore che lo percorre, se
nella città-stato greca o nell’ideale platonico dello stato che da quella è
sorto — sarebbe pedantesco volerlo decidere ogni vol- ta. Talvolta è senza
dubbio lo stato, altre volte è invece l’idea politica che ne è scaturita,
accettandolo o negandolo, a rappre- sentare la realizzazione spirituale più
alta; in molti altri casi, come nell’esempio indicato, ci si asterrà dal
giudizio di valore. La disposizione dei valori culturali in un ordine
progressivo può essere in genere effettuato soltanto in modo sommario: lo esige
il loro carattere individuale, che si fa gioco di un criterio generale univoco.
In quanto tutti i valori culturali vengono concepiti come individualità, ci si
accorge sommariamente che in essi è presente una misura maggiore o minore di
potenza spirituale o di vincolo naturale, senza però poterlo valutare con
precisione. Bastano già a impedirlo quelle impenetrabili zone intermedie tra
natura e cultura. Individuum est ineffabi- le. Il fascino infinito del mondo
storico consiste appunto nel fatto che esso produce, in modo insieme misterioso
e manife- sto, sempre muove entità spirituali, senza tuttavia ordinarle in una
serie progressiva con una successione ascendente. Infatti ogni epoca, come
insegnava Ranke, è in rapporto immediato con Dio. Vogliamo chiudere con le parole
che egli fa seguire in que- sta frase, poiché — esattamente intese — esse
dicono la stessa cosa che abbiamo cercato di illustrare in polemica con un’opi-
nione ampiamente diffusa nella corporazione degli storici: «# loro valore non
sta affatto in ciò che da esse scaturisce, ma nella loro stessa esistenza, nel
loro proprio io »*. a. Ùber die Epochen der neueren Geschichte (a cura di A.
Dove), Leipzig. Storia e presente costituiscono un’unità, che viene concepita
dallo storico come fornita di una duplice polarità. Un polo definisce la
rigorosa concentrazione ascetica sulla conoscenza del passato umano, con tutti
gli strumenti di comprensione storica e di ricerca critica, la quale può
condurre fino all’ascesi entusiastica che Ranke ha espresso con la frase, molto
spesso richiamata, che egli voleva dissolvere il proprio io per poter vedere le
cose nella loro purezza. L’altro polo — cioè la sfera in cui lo storico vive —
definisce al contrario la rinnovata consapevolezza di questo io, non però del
proprio piccolo io egoistico, ma dell'io nutrito dal passato, riempito e
allargato dai grandi compiti del presente. La scienza storica è perciò sempre,
al tempo stesso, scienza e più che scienza. Abbiamo imparato più volte — e ciò
rientra nei caratteri fondamentali della moderna impostazione delle scienze
dello spirito — a guardare al di là delle ristrette delimitazioni concettuali
con cui dobbiamo sempre orientarci in via preliminare. In ogni formazione
storica — si chiami essa scienza o stato, arte o religione, Germania o
Occidente — c’è una forza motrice che spinge oltre i confini che sembrano
esserle imposti nella realtà. Si potrebbe quasi dire che ogni essere storico
desidera essere qualcosa di diverso da ciò che realmente è. Questa è la dinami-
* Geschichte, Staat und Gegenwart, in « Logos », XXII, 1933, pp. 161-170, poi
raccolto in forma mutata e col titolo Geschichte ind Gegenwart nel volume Vom
geschichtlichen Sinn und vom Sinn der Geschichte, Leipzig, Kochler und Ameland,
1939, pp. 7-22, c infine in Werke, vol. IV: Zur Thcorie und Philosophie der
Geschichte, Stuttgart, K.F. Kochler Verlag, 1959, pp. 90-91 (traduzione di
Sandro Barbera e R.). ca della vita storica, per cui avviene che le cose della
storia trapassano tutte le une nelle altre, cosicché noi vediamo sussiste- re
tra di esse zone più o meno larghe di confine anziché linee nette di
separazione, e il singolo fenomeno storico può spesso apparire tanto
contradditorio in sé, e tuttavia quanto mai pie- no di vita. È ciò che
chiamiamo coincidentia oppositorum, e su cui fondiamo, a partire da Ranke e da
Hegel, la moderna immagine della storia. Essa è molto più complicata, molto più
difficile da intendere che non l’immagine che del passato si erano fatte tutte
le generazioni precedenti e che ancora oggi sta dinanzi al pensiero inesperto
quando questo tratta di uomi- ni, tendenze, situazioni e idee come di entità
circoscritte e facil- mente calcolabili. Dobbiamo quindi avere ben chiaro che
esiste un pensiero storico, una forma di trattazione delle realizzazio- ni
della cultura umana che devia dall’abitudine ingenua e quoti- diana di
considerare le cose nella loro cosalità e come qualcosa di immutabile anziché
di fluido, cioè fuse tra loro e determina- te da innumerevoli relazioni
enigmatiche. Si può qui ricordare il rivolgimento avvenuto nel moderno pensiero
naturalistico: quanto più la materia diventava oggetto di un’indagine affina-
ta, tanto più si risolveva in funzioni e in relazioni enigmati- che. Il
rivolgimento avvenuto nel pensiero storico, che ci ha condotto da una visione
meccanica a una visione dinamica del- le cose, ha avuto luogo molto prima
dell’analogo rivolgimento nel pensiero naturalistico — cioè oltre un secolo e
mezzo fa, all’epoca dello Sturm und Drang, dello scoppio della Rivoluzio- ne
francese. Di quell’epoca Goethe ha così riferito, più tardi, in Dichtung und
Wahrheit: «Un sentimento che prevaleva violentemente in me, e che non poteva
esprimersi in modo abbastanza meraviglioso, era la sensazione dell’unità di
passato e presente»! Qui abbiamo l’inizio del processo di fusione nel pensiero,
la coincidentia oppositorum, l'influenza dinamica dell'elemento storico sul
presente e viceversa. All’inizio si tratta- va soltanto del sentimento, della
sensazione dell’uomo geniale, non ancora di un principio che trasformasse tutta
l’immagine del mondo. Del resto questa trasformazione è avvenuta soltan- to
gradualmente, allargandosi da cerchie ristrette a cerchie più 1. GoerHt,
Dichtung und Wakrheit. ampie, ed è ancora ben lontana dal termine dei suoi
effetti. Ma di fronte a tutte le altre trasformazioni della vita — di tipo
politico, sociale, economico e tecnico — che abbiamo vissu- to dall'epoca della
Rivoluzione francese, questo nuovo modo di pensare dello storicismo dinamico
ricorda il raffinato moti- vo melodico di una sinfonia gigantesca, che spesso
può scompa- rire nel tumulto degli ottoni e dei tamburi ma che, riproposto da
un nobile violino, penetra nell'intimità del cuore. Non c’è più nulla di saldo
e di concluso in sé, tutto è divenire. « Chi sa dove si va? si ricorda appena
da dove si è venuti » — per riferir- ci ancora a Dichtung und Wahrheit e alle
sue parole conclusi- ve?: tale è la parola d’ordine che da allora risuona nel
mondo. Si rimane sempre scossi da capo quando si riflette profonda- mente su
questo mutamento e sulle sue conseguenze. Qui vo- glio parlare soltanto delle
conseguenze che toccano il rapporto tra storia e presente. Mi riferisco ancora
una volta alla frase di Goethe, secondo cui nella sua sensazione passato e
presente confluivano in un'u- nità. Goethe aggiungeva che questa intuizione
aveva introdot- to nel presente qualcosa di spettrale. Essa è stata benefica
per la sua poesia. In altre parole, egli ne presagiva la meravigliosa forza
vivificatrice. Ma agli altri — aggiungeva — sarebbe ap- parsa, nel momento in
cui si esprimeva immediatamente zella vita, strana, inspiegabile, fors’anche
sgradevole. Qui Goethe ha di nuovo avvertito, con geniale presentimento — anche
se coglieva soltanto un aspetto del nuovo potente problema — il carattere a
doppio taglio degli effetti del nuovo sentimento del- la vita e della storia.
Questo nuovo storicismo dinamico, che superava i limiti interni frapposti tra
passato e presente e rove- sciava entrambi, con tutti i loro contenuti,
nell’eterno crogiolo di un divenire, di un’influenza e di una conversione
reciproca, ci ha dischiuso i mondi incantati di una nuova comprensione storica
per tutto ciò che reca sembiante umano; ma ha anche scosso in lungo e in largo,
non tutto di un tratto ma gradual- mente, il saldo terreno di determinati
ideali assoluti su cui l'umanità aveva creduto fin allora di poggiare. Basterà
ricorda- re — per accennare soltanto all’elemento più importante — 2. GoetHE,
Dichtung und Wahrheit, libro XX. quanto difficile è diventata la posizione del
Cristianesimo rivela- to dopo che la critica storica ha scoperto il divenire
delle reli- gioni, le loro influenze reciproche e le molteplici forme di
transizione delle religioni orientali della redenzione. Se poi ci si rende
conto del modo in cui tutto questo prolunga i suoi effetti fino ai problemi
religiosi del presente e quanto oscuro sia il futuro religioso che ci sta
dinanzi, allora può ben riassalir- ci quella sensazione di spettrale che Goethe
aveva provato al primissimo balenare della nuova visione della storia. Lo
storici- smo ha suscitato un relativismo che viene a considerare ogni singola
formazione storica, ogni istituzione, ogni idea e ogni ideologia soltanto come
un momento transitorio nell’infinito corso del divenire. Tutte le cose hanno
perciò solamente valore relativo. Come può prosperare la fede salda e la
fiducia in colui che crea di tendere a qualcosa di fornito di valore in sé? La
parola d’ordine dovrebbe essere simile a quella degli uomi- ni di affari in
epoca di inflazione: «rimanerne fuori! ». Ciò può condurre a effetti che
dissolvono e minano in mo- do pericoloso: infatti può un giorno scaturirne uno
scetticismo sfiduciato e stanco, un dubitare del senso di questo eterno dive-
nire e passare, dal momento che il senso di ogni formazione storica particolare
viene immediatamente posto in questione dal senso — che appare altrettanto
giustificato — delle forma- zioni in lotta con essa; tanto più se, come abbiamo
già detto, queste diverse formazioni che si succedono l’una all’altra non si
distinguono tra loro in modo preciso e determinato, ma tra- passano l’una
nell’altra. Può inoltre scaturirne un opportuni- smo svelto e privo di
princìpi, che non conosce nessun saldo vincolo superiore, e acchiappa perciò
veloce la preda dell’atti- mo soddisfacendo l’interesse momentaneo. Non già che
intenda ricondurre tutti i fenomeni sgradevoli della nostra vita alla causa
ideologica dello snervante modo di pensare relativistico. Questo modo di
pensare è anzi connesso causalmente, a sua volta, con tutte le altre
trasformazioni, in gran parte assai elementari e materiali, della nostra
esistenza. Esso rientra però nel motivo melodico di quel potente processo che
minaccia di sradicare gli uomini e di farne mere funzioni nella dinamica
complessiva della vita storica. Ma l’uomo non vuole lasciarsi sradicare, non
vuole diventare una mera funzione, vuol rimanere un individuo di per sé, an-
che se sa che la sua individualità è sempre intrecciata con tutto ciò che è
sovra-individuale. Egli non è soddisfatto neppure del punto di vista secondo
cui ogni cosa agisce sull’altra e trapassa in essa, ma vuole « distinguere,
scegliere e giudicare ». Alla co- noscenza eraclitea che « tutto scorre » deve
immediatamente su- bentrare l’esigenza di Archimede: « dammi un punto di appog-
gio ». Ma in tal caso anche i compiti per i quali lavora, anche le idee per cui
combatte devono acquistare di nuovo qualcosa di stabile. Possiede lo storicismo
— questa è la grande questione — e il particolare tipo di relativismo da esso
prodotto la forza di guarire da solo le ferite che ha inferto? Soltanto chi
abbia avuto realmente una volta nella sua piena profondità origina- ria — come
in passato Goethe — quella sensazione meraviglio- sa dell'unità di passato e
presente, risponderà senza esitare di sì prima ancora di aver disposto tutti
gli argomenti in un ordi- ne logico. Ciò che ci rende interiormente più ricchi,
che ci porta a un contatto vitale immediato con gli uomini e i tesori del
passato, che ci insegna a comprendere — o per lo meno a scorgere — attraverso
il ritmo dell’eterno divenire e trasformar- si le profondità dei destini degli
uomini e dei popoli, non può recare in sé soltanto una forza distruttiva, ma
deve anche posse- dere una forza costruttiva. Ma come si dovrà definire questa
forza costruttiva? com'è possibile — per dirla in modo sempli- ce e rozzo —
mostrare l'utilità della storia e del pensiero stori- co per il presente? Non
voglio importunare il lettore con le consuete trivia- li verità o mezze verità
con le quali si cerca di solito di dimostrare l’utilità della storia per la
vita produttiva. Nel- la situazione spirituale odierna si deve cercare di
assumere un punto di vista più elevato. Non si deve mai perdere di vista il
fatto che nello storicismo, il quale relativizza ogni cosa, è cer- tamente
presente un veleno corrosivo, il cui effetto può essere eliminato solo mediante
altri forti ingredienti. E non si deve neppure dimenticare che nei
centocinquant’anni durante i qua- li il pensiero storico è fiorito nella
cultura tedesca gli effetti di quel veleno non sono stati riscontrati, e sono
stati tenuti indie- tro dagli effetti positivi e creativi del pensiero
storico-genetico. Esso diventò un’arma anzitutto per i creatori dello stato
nazio- nale tedesco. Da Dahlmann® e da Droysen fino a Treitschke, furono gli
storici politici a preparargli il cammino, e Bismarck era pieno di intuizioni
storiche che ricordano la saggezza di Ranke. Per Ranke come per Hegel e per
Droysen la storia rappresentava il corso del divenire che tutto muove,
trasforma e forma in modo nuovo. Come sono essi riusciti — dobbiamo chiederci —
a far fronte, nonostante tutto, ad esso e a non naufragarvi dentro, ma
piuttosto a trarne forze positive e co- struttive? Dobbiamo perciò formulare la
questione in termini ancor più generali: dove si può cercare, in generale,
l'antidoto al veleno del relativismo? Vi sono stati tre diversi modi di coprire
la prospettiva relati- vistica del puro divenire e fluire delle cose mediante
principi che tendano all’assoluto, cioè mediante valori che possano resi- stere
alla transitorietà temporale e fecondare così più profonda- mente la vita
produttiva. Prendiamoli sommariamente in esa- me e chiediamoci quindi se, e in
quale misura, possiamo ancor oggi adottarli. Il primo modo è quello romantico,
la fuga nel passato. Si trasfigura e si idealizza un determinato momento di
esso, lo si trasforma per quanto è possibile in un’età dell’oro, lo si pone in
contrasto con l’oscuro presente; e nel caso che non ci distol- ga da questo
trasognati o mal contenti, si può agevolmente acquisire da un grande passato
anche impulsi creativi per il proprio tempo. Allorché il barone von Stein‘
diede quell’ordi- namento cittadino che fece epoca e concepì la grande idea,
rivolta verso il futuro, dello stato nazionale tedesco, a tale im- presa
cooperarono i ricordi romantici della libertà municipale Dahlmann, storico e
uomo politico tedesco, autore della Quellenkunde der dentschen Geschichte
(1830), delia Politik, auf den Grund und das Mass der gegebenen Zustinde
zuriickgefiihrt, della Geschichte von Dinemark, della Geschichte der englischen
Revolution, della Geschichte der franzòsischen Revolution e di altri scritti,
appartiene alla storio- grafia liberale del primo Ottocento. Fece parte
dell'assemblea nazionale di Franco- forte, cd ebbe gran parte nell'elaborazione
del progetto di costituzione tedesca. Karl barone von Stein, uomo politico
tedesco, diede un contributo decisivo alla riforma dello stato prussiano prima
nel 1807-1808 e poi nel 1813-14, dopo la sconfitta di Napolcone; sostenne la
necessità dell'unione nazionale tedesca su base prussiana. Meineckc sì
riferisce qui alla riforma municipale del novembre 1808, che concedeva
l'autonomia locale alle città della Prussia. delle antiche città tedesche della
potenza imperiale del Medioe- vo. L'intero mondo conservatore vive
spiritualmente, in misu- ra non piccola, di valori del passato idealizzati. In
generale, a un popolo pervenuto alla coscienza di se stesso è indispensabile un
frammento di culto del passato e degli antenati. Comprende- re la storia del
proprio popolo non soltanto con visione storica, ma anche con l’animo, è un
processo salutare e profondamente giustificato. La mancanza di pietà verso il
proprio passato è innaturale e dannosa. Ma pietà senza critica non dovrebbe
esi- stere, allo stesso modo in cui non dovrebbe esistere critica sen- za
pietà. Rispondo così alla questione se sia possibile sottrarsi agli effetti
sgretolanti del relativismo con la fuga romantica nel passato, dicendo che in
ogni caso la vita dell’uomo moderno è povera e triste senza qualcosa del senso
romantico della storia, in generale del Romanticismo. Ma non appena si sviluppa
in modo eccessivo, esso ostacola la vita anziché promuoverla. Pas- sato e
presente non confluiscono più in unità: il passato uccide allora il presente. E
se ci interroghiamo soltanto sul valore conoscitivo del senso romantico della
storia, anche in questo caso dovremo dire che tale elemento ci dischiude
profondità del passato che non sarebbero accessibili alla mera conoscenza
causale. Ma non appena un qualsiasi momento del passato vie- ne elevato a norma
e a criterio di valore dell’intero processo storico e del presente in
particolare, sorge un dogma arbitrario che crolla immediatamente sotto la
critica corrosiva del re- lativismo. Cerchiamo dunque ancora il punto saldo che
ci permetta di far fronte al relativismo. Si può anche procedere al contrario
del Romanticismo e cercare il valore non già nel passato bensì nel futuro,
cercarvi cioè il fine della storia, che deve dare un senso al corso —
altrimenti privo di significato — del divenire. Emerge qui una quantità di
volti di filosofi della storia, tutti tesi a riconoscere nella storia un
progresso reale verso un idea- le determinato e assoluto. Alcuni credono che
questo ideale sia raggiungibile e conduca a uno stato duraturo di perfezione
dell'umanità, mentre altri si accontentano di avvicinarsi a que- sto fine in
un’approssimazione infinita. Ma nell’uno come nel- l’altro caso è stato questo
ottimismo del progresso ad agire potentemente nei secoli xvi e xix, diventando
la bandiera dell’umanità in marcia. Molte sarebbero le cose da dire a que- sto
proposito; ma qui mi limito a quest’unica domanda: abbia- mo oggi ancora questa
fede nell’ascesa continua dell’umanità verso gradi superiori? Possiamo
possederla ancora? A molti di noi il coraggio qui viene meno di colpo, e
all'orizzonte si levano le ombre della moderna problematica culturale. In Ger-
mania abbiamo sentito parlare, nel periodo successivo alla guer- ra, del tramonto
dell’Occidente. Ritengo queste profezie di de- cadenza altrettanto precarie e
soggettive quanto le prognosi di ascesa. Una volta colto il loro sfondo
psicologicamente soggetti- vo e legato a uno stato d’animo, scompare anche il
loro fasci- no. E di nuovo siamo di fronte alla corrente infinita del diveni-
re e del trasmutare storico. «Chi sa dove si va? non ci si ricorda neppure da
dove sì è venuti ». Questa corrente del divenire, che tutto relativizza e tut-
to dissolve nel suo movimento, relativizza appunto anche i due tentativi
compiuti dall’aspirazione umana a padroneg- giarlo spiritualmente, cioè il
Romanticismo rivolto al passa- to e l’ottimismo del progresso. È loro
caratteristica — ed è pure la loro debolezza — di immergersi essi stessi nella
corren- te, per nuotare sia contro di essa sia insieme ad essa. Ciò è
possibile, e non dev’essere respinto senza appello; si può ben pro- cedere in
avanti, praticamente, di un pezzetto. Ma la corrente ha la meglio sul
nuotatore. In altri termini, entrambe queste visioni della storia procedono in
direzione orizzontale e soccom- bono perciò alla corrente del divenire, che si
muove orizzontal- mente. Ma si può considerare la questione anche in senso
verti- cale e tentare di costruire un solido ponte al di sopra della corrente?
Non si può forse guardare la corrente dall’alto di questo ponte e scorgere ciò
che c'è di saldo e di sicuro nel mutamento? Non vedo nessun’altra via. Ed essa
è stata percorsa da pro- fondi pensatori. Proprio in Goethe si trovano le
indicazioni più precise in tal senso, e Ranke l’ha imboccata, dopo essersi
immerso nella vita storica ancor più profondamente di quel che era stato
possibile a Goethe. L'ha poi di nuovo ritrovata, con i più moderni strumenti
filosofici, Ernst Troeltsch, e nella medesima direzione si lavora oggi da
parecchie parti. Per accen- nare la direzione in cui dev'essere trovata la
soluzione del no- stro problema voglio qui mettere a confronto due espressioni,
l’una di Goethe e l’altra di Ranke. Nella tarda poesia di Goe- the che egli
stesso chiama Vermdchtnis e che comincia con le parole « Nulla può mai
distruggersi, annullarsi », si dice: «Ed il passato è allora duraturo, il
futuro previve nel presente, l'attimo è eternità » 5. Anche qui si esprime di
nuovo il senso universale della storia proprio di Goethe, che percepiva l’unità
di passato e presente. Ma l’elemento di spettralità è scomparso e nella pie- na
coscienza della corrente infinita del divenire, che unisce tra loro passato e
futuro, un’idea di eternità prevale sull’infinito meramente temporale; e non si
tratta di un’idea di eternità soltanto trascendente e speculativa, bensì di
un’idea radicata nel cuore della realtà e dell’esperienza vissuta. L'attimo è
eternità. Veniamo ora alla famosa frase di Ranke: «ogni epoca è in rapporto
immediato con Dio ». Anche questa frase ci sottrae alla mera corrente del
diveni- re e ci spinge a cercare ciò che nella storia è affine a Dio
nell’attimo — nell’impulso all’eccelso di volta in volta presente nel singolo
uomo, nei singoli popoli e stati in ogni loro epoca e momento. Verticalmente,
non già orizzontalmente, la vita storica tende a quell’altezza di cui è capace.
In ogni epoca, in ogni formazione individuale della storia si muovono forze
spiri- tuali che aspirano a elevarsi al di sopra dell’ottusa natura e del mero
egoismo, verso un mondo superiore. Il loro volo si com- pie più in alto o più
in basso, ma ciò che esse realizzano è ogni volta qualcosa di interamente
individuale, distinto da tut- te le realizzazioni precedenti e successive della
storia; ed esse raggiungono tale scopo anche quando esteriormente falliscono.
Il loro valore consiste nella loro stessa esistenza e azione, indi-
pendentemente dal loro successo temporale — si tratti pure di S. GorrHe,
Verméchtnis, vv. 28-30 (trad. it. di F. Amoroso). un andare a fondo con la
bandiera che sventola. In ultima analisi opera qui la convinzione che, almeno
per noi, l’elemen- to spirituale non è qualcosa di universalmente valido nel
sen- so delle verità matematiche, ma si concreta sempre e soltan- to in
individualità. Questa prospettiva ci spinge a cercare e a creare l’eterno
nell’attimo, nella costellazione individuale del- la vita. Possono certamente
sorgere dubbi se sia giusto fare dell’ele- mento più fuggevole, l’attimo, il
portatore dei valori dell’eterni- tà. Ma proprio questa paradossalità ci libera
dalla pressione paralizzante della transitorietà, dando a ogni momento e a ogni
formazione ricca di spirito della corrente del divenire stori- co la sua
particolare dignità e il suo valore peculiare e svilup-pando un impulso etico
più profondo della nostalgia di un passato più bello o della speranza di un
regno millenario. In qualsiasi modo pensiamo la divinità, sia che ce la
rappresentia- mo in forma personale o in forma impersonale, sia che osiamo
cancellarne la parola stessa e parlare soltanto di valori supremi — in ogni
attimo ognuno può sentirsi in rapporto immediato con tali valori, e quanto più
fortemente si sente in rapporto, tanto più sicuramente troverà la sua strada e
tanto più gioiosa- mente compirà il dovere che l’attimo gli impone. Egli può
infatti abbandonarsi a una stella che lo protegge infallibilmente dallo
sviamento di una visione della vita pura- mente relativizzante — vale a dire,
per usare le parole di Dilthey, alla « mirabile facoltà presente in noi che
chiamiamo coscienza »: e la coscienza è, per dirla con Fichte, «il raggio con
cui proveniamo dall’infinito ». Ma qui noi ne parliamo in una prospettiva di
teoria della storia, poiché una concezione storica priva di un saldo fondamento
etico diventa gioco di onde. Nella voce della coscienza tutto quanto è fluido e
relati- vo diventa, d’un sol tratto, saldo e assoluto nella sua forma. «
Soltanto la propria coscienza — è detto nell’Historik di Droy- sen — è per
ognuno l’assolutamente certo, è per lui la sua verità e il centro del suo mondo
». Il contenuto di ciò ch’essa dice al singolo uomo dovrà essere, sotto vari
punti di vista, 6. J.G. Droysen, Historik - Vorlesungen liber Enzyklopidie und
Methodologie der Geschichte (a cura di R. Hiibner), Miinchen und Berlin, 1937,
p. 178. individuale e temporalmente condizionato. Ma ogni esame con- dotto su
di sé mostra che la coscienza traccia ogni volta limiti esatti nei confronti
della mera soggettività, dell’arbitrio e di tentatori ancora peggiori. Per
bocca della coscienza parlano agli individui anche le potenze storiche
superiori — il popolo, la patria, lo stato, la religione e così via — e accanto
a ciò che esse dicono c'è di nuovo, nonostante l’essenza individuale di tali
potenze, quel mirabile carattere assoluto e vincolante che protegge anche la
vita comunitaria dal rischio di precipita- re nell’anarchia del volere
individuale. Se si arriva poi a conflit- ti di coscienza tra il volere
individuale e il volere delle forme superiori di comunità, la coscienza è
ancora l’unica istanza che decide interiormente in proposito e che deve quindi
porre fon- damentalmente il bene comune al di sopra del bene dell’indivi- duo.
Così la coscienza è il potente mezzo connettivo della socie- tà umana, e al
tempo stesso l’autentica sorgente metafisica pre- sente nell'uomo. Nella
coscienza l’individualità si fonde con l'assoluto, e l'elemento storico con il
presente. E così mediante la coscienza è dato all’attimo quel contenuto di
eternità, di cui abbiamo parlato. Tutti i valori di eternità della storia
scaturisco- no, in ultima analisi, dalle decisioni della coscienza degli uomi-
ni che agiscono. Il senso della storia nella totalità dell'universo ci è
ignoto. La coscienza, in quanto costituisce l’elemento più affine a Dio
presente in noi, ci mostra per così dire soltanto un’orlatura dorata al cui
interno esso deve risiedere. Da questo senso assolu- to della storia
distinguiamo il senso che può avere per noi. Esso non si esaurirà nel
soddisfacimento del nostro bisogno causale, ma culminerà nell’accogliere e nel
rivivere in noi, com- prendendola, la rivelazione dell'elemento affine a Dio
che è presente nell’umanità. Qualcosa di questo vive — come abbia- mo chiarito
parlando del fatto della coscienza — in innumere- voli anime, in lotta continua
con tutto ciò che le trascina verso il basso e che spesso può sembrare
preponderante. Anche nelle formazioni individuali che cerchiamo di comprendere
storica- mente scegliendole dalla pienezza della vita complessiva, ciò che è
affine a Dio — cioè la cultura nel senso più alto — equivarrà in una
prospettiva spaziale a una sottile vena d’oro in mezzo a masse di minerale,
mentre dal punto di vista temporale rappresenterà spesso soltanto degli attimi
fuggevolissimi della storia universale. Ma nella misura in cui abbiamo guardato
verticalmente verso l’alto, abbiamo anche potuto dare all’attimo storico e alla
sua individualità un contenuto di eternità. Chi sa dove si va? - diciamo di
nuovo pensando a tutti gl’abissi della storia. E tuttavia non ci è consentito
di spaventarci. Pietro Rossi. Rossi. Keywords: lo storicismo, la critica della
ragione storica, la storia della filosofia – l’antichita – filosofia romana,
filosofia antica, gl’antichi, la filosofia romana, filosofia italica – indice
al volume ‘L’antichita’ nella ‘Storia della filosofia” – “L’antichita” –
storiografia filosofica – l’origine della filosofia italica, l’origine della
filosofia romana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Rossi” – The Swimming-Pool
Library.
No comments:
Post a Comment