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Thursday, January 23, 2025

LUIGI SPERANZA -- "GRICE E ROSSI"

 

Luigi Speranza -- Grice e Rossi: la ragione conversazionale di Romolo; o lo storicismo – la scuola di Torino. filosofia piemontese -- filosofia italiana – l’astuzia della ragione converszionale di Weber e Grice -- Luigi Speranza (Torino). Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Torino, Piamonte. Studia  a Torino sotto ABBAGNANO, Napoli, e Milano. Insegna a Cagliari e Torino. Studia lo storicismo, l’illuminismo, e il positivismo. Saggi: Lo storicismo, Einaudi, Torino; “Storia e storicismo, Lerici, Milano; La storiografia Saggiatore, Milano; “Oltre lo storicismo, Saggiatore, Milano; “Storia della filosofia”, Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Cf. Grice, “Speranza e l’opera di Grice in Italia.” CLASSICI DELLA FILOSOFIA COLLEZIONE FONDATA D’ABBAGNANO DIRETTA DA GREGORY CLASSICI UTET, Tipografia ‘Toso, via Capelli, Torino. È difficile isolare, nell'àmbito della filosofia contemporanea, un indirizzo che possa essere caratterizzato in maniera univoca, e al tempo stesso esaustiva, con la designazione di « storicismo ». Ciò dipende in primo luogo dal fatto che il termine « storicismo » — così come si è venuto diffondendo a partire dagli anni ’20, dapprima in Germania e poi in Italia — è stato impiegato per indicare posizioni filosofiche (e anche non filosofiche) disparate, recando con sé quasi sempre una carica polemica o, al contrario, elogiativa che gli ha impedito per lungo tempo di essere assunto a contrassegno di un’impostazione di pensiero o di diventare una designazione storiografica comunemente accettata. Nella cultura tedesca lo storicismo è stato infatti identificato originariamente con una considerazione storica dei diversi campi della vita e della cultura fondata su un atteggiamento relativistico, che comportava quindi una relativizzazione dei valori alla particolare cultura o al particolare periodo storico nel quale si sono formati. Nella cultura italiana esso è invece servito a indicare soprattutto, almeno fino alla seconda guerra mondiale, una concezione della storia (di derivazione hegeliana) che affermava la fondamentale storicità di tutto il reale, e di conseguenza la riduzione di ogni conoscenza a conoscenza storica. In altri paesi, eccetto in quelli di lingua spagnola, il termine ha avuto scarso successo: nella cultura francese è rimasto sostanzialmente assente — tant'è vero che il primo studio organico del movimento storicistico tedesco, cioè il libro di Raymond Aron del 1938, è intitolato alla « filosofia critica della storia » anziché allo storicismo — mentre nella cultura anglosassone ha acquistato, in virtù della polemica di Karl Popper contro la « miseria dello storicismo », un significato quasi sempre negativo. In epoca più recente, cioè nel corso degli anni ’60, è subentrata una tendenza piuttosto diffusa a identificare lo storicismo con la concezione marxistica della storia, vale a dire con il materialismo storico: tendenza chiaramente connessa con il processo di rinnovamento del marxismo contemporaneo, operato attraverso il recupero di autori come il Lukdcs di Geschichte und Klassenbewusstsein e il Gramsci dei Quaderni del carcere, nonché attraverso l’incontro con altri orientamenti del pensiero contemporaneo, in primo luogo con l'’esistenzialismo. AI di lì di queste considerazioni relative al significato del termine, e ben più importanti di esse, vi sono però altri due ordini di motivi i quali spiegano la difficoltà di cui si diceva. Il primo ordine di motivi consiste in una caratteristica intrinseca allo storicismo, ossia nel fatto che esso non è soltanto, né principalmente, una dottrina o un complesso di dottrine filosofiche, ma è pure un movimento che ha avuto larga influenza sulla ricerca storica e sulle scienze sociali, e che presenta connessioni tutt'altro che irrilevanti con le vicende politiche europee del secolo xx. Le formulazioni più propriamente teoriche dello storicismo contemporaneo — come la teoria della conoscenza storica e l’analisi della struttura storica del mondo umano e della relazione dell'uomo con i valori — sono quindi aspetti di un fenomeno più vasto, al quale continuamente rimandano. Il secondo ordine di motivi risiede invece nel legame ricorrente dello storicismo con altri indirizzi della filosofia contemporanea: per un verso con l’idealismo — in tutte le versioni che si richiamano, direttamente o indirettamente, alla concezione hegeliana della storia — e per l’altro verso con il neocriticismo o con l’esistenzialismo o con il marxismo o con il pragmatismo, magari (in qualche caso) perfino con il neopositivismo. Risulta così impossibile determinare un nucleo dottrinale al quale siano riconducibili le diverse manifestazioni dello storicismo contemporaneo, e che sia più o meno presente in tutte: al contrario, le varie forme di storicismo divergono anche su questioni d'importanza fondamentale. La possibilità di individuare lo, storicismo come un indirizzo a sé stante della filosofia contemporanea appare perciò problematica sia per quanto concerne i rapporti tra pensiero filosofico e altri campi culturali, sia all’interno dello stesso pensiero fiosofico. Sarà opportuno soffermarci più da vicino su questi nessi. Già dal punto di vista biografico gli esponenti dello storicismo contemporaneo che siano filosofi di professione, e nient'altro che filosofi, sono assai rari, e non certamente i più importanti. Dilthey, pur insegnando filosofia, è stato però insieme studioso di psicologia e di pedagogia, e ha soprattutto dedicato gran parte della propria attività all’analisi e alla ricostruzione storica di alcuni momenti centrali di sviluppo della cultura moderna, dal Rinascimento alla Riforma, dall’Illuminismo al mondo romantico. Georg Simmel e Max Weber occupano un posto di grande rilievo nella sociologia contemporanea; inoltre, mentre il primo è autore di numerosi saggi di argomento artistico, letterario ed estetico, e ha ripetutamente affrontato i problemi concernenti la fisionomia e il significato della cultura moderna, il secondo è pervenuto all'analisi metodologica delle scienze sociali muovendo da studi sulle società commerciali del Medioevo, sul diritto agrario romano, sulle condizioni dei contadini nella Germania e, infine, sulla scuola storica di economia. Ernst Troeltsch è stato in primo luogo un teologo, e tutta la prima fase della sua attività speculativa è ispirata da preoccupazioni tipicamente teologiche: la sua successiva riflessione sulla storia e sulla conoscenza storica è anch’essa radicata in una problematica religiosa, e prende le mosse dalla consapevolezza dell’urto della coscienza storica moderna sulla validità della fede cristiana. Friedrich Meinecke è giunto ai problemi dello storicismo attraverso l’analisi del processo di formazione dello stato nazionale tedesco e della struttura della «ragion di stato » nell'età moderna; anche professionalmente, egli è stato uno storico, e solo in secondo luogo un filosofo, In quanto a Benedetto Croce, anch'egli è stato all'inizio — com'è noto — soprattutto studioso di storia e di critica letteraria, e il suo sforzo di elaborazione filosofica è proceduto di pari passo con l’approfondimento di temi di storia etico-politica, dî estetica e di linguistica. E l’esemplificazione potrebbe agevolmente continuare. Ma la connessione con altri campi culturali non è soltanto un dato biografico; essa è pure una dimensione intrinseca dello storicismo contemporaneo. Da un lato, infatti, la consapevolezza del fondamentale carattere storico dell’uomo e della realtà sociale ha condotto all’analisi dei momenti decisivi della storia culturale europea, nel duplice intento di delineare — secondo il programma indicato da Dilthey — la vicenda dello « spirito europeo » e di porre in luce le relazioni reciproche tra settori diversi del processo storico, c contemporaneamente ha promosso il ricorso alle prospettive concettuali che erano offerte dalle scienze sociali, in particolare dalla sociologia. Dall'altro lato il riconoscimento della storicità della filosofia, del suo legame con le altre manifestazioni culturali di un’epoca, della sua dipendenza dai risultati della ricerca condotta dalle scienze particolari, ha mostrato l'impossibilità di una filosofia che pretenda di configurarsi come una forma autosufficiente di sapere, fornita di validità incondizionata. Non meno arduo è discriminare lo storicismo dai diversi indirizzi della filosofia contemporanea con i quali è quasi sempre intrecciato. Ciò vale sia per il legame con l’idealismo, che risulta essenziale al pensiero di Croce (o del suo discepolo inglese R. G. Collingwood), sia per il nesso con l’esistenzialismo o con il marxismo o ancora con il pragmatismo, allorché la problematica storicistica s’innesta su una piattaforma dottrinale diversa e rispondente ad altri interessi. È vero che Croce si è proposto — fin dal saggio Ciò che è vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel (1906) e dalla Logica come scienza del concetto puro (1909) — di differenziare la propria impostazione filosofica da quella di Hegel, eliminando la distinzione hegeliana tra idea, natura e spirito e risolvendo quindi i primi due momenti nel terzo, che viene così fatto coincidere con la realtà intera, in maniera da identificare il processo di realizzazione dello spirito con lo sviluppo storico e da interpretare ogni fatto come fatto storico. Cionondimeno il crociano «storicismo assoluto » si configura come una ripresa intenzionale della concezione della storia formulata dall’idealismo del primo Ottocento e soprattutto da Hegel, dal quale deriva il postulato fondamentale della razionalità dello sviluppo storico e l'affermazione del suo carattere progressivo. Del resto, la stessa qualificazione di «storicismo » è stata adottata da Croce molto tardi, nel corso degli anni ’30, durante il trapasso dal « sistema » della filosofia dello spirito alla posizione de La storia come pensiero e come azione e degli scritti successivi: il saggio /! concetto della filosofia come storicismo assoluto è, difatti, del 1939. Nel pensiero di Croce lo storicismo sorge quindi sulla base di un’impostazione chiaramente idealistica, ed è inseparabile da questa. La stessa definizione della filosofia come metodologia della storiografia ha ben poco in comune con una concezione metodologica della filosofia (quale si è sviluppata partendo da una prospettiva neocriticistica), ma poggia su una concezione idealistica — anzi,neoidealistica — del sapere la quale nega il carattere conoscitivo delle scienze naturali, interpretandole come prodotto della forma economica dello spirito, e perciò riduce la conoscenza a conoscenza storica, vale a dire a conoscenza dello sviluppo dello spirito nella serie infinita delle sue manifestazioni finite. Anche in vari altri autori lo storicismo si presenta come un approccio ai problemi della storia e della conoscenza storica condizionato dall’assunzione di presupposti propri di orientamenti di pensiero eterogenei, ed è lungi dal configurarsi in modo autonomo. Per esempio, la concezione heideggeriana della storicità dell’esserci è strettamente dipendente dalla teoria diltheyana della storicità; ma questa viene ricondotta a un quadro ontologico del tutto estraneo alla filosofia di Dilthey, risolvendosi in un elemento dell’analitica esistenziale di Sein und Zeit. Analogamente, se è vero che Karl Jaspers si è richiamato con insistenza a Max Weber (fino ad asserire che egli « non ha insegnato una filosofia, ma era una filosofia », anzi la filosofia per eccellenza del suo tempo), la problematica storicistica occupa un posto del tutto secondario nell’esistenzialismo jaspersiano. Né le cose stanno in maniera diversa nel caso del marxismo. Molte delle categorie interpretative di Geschichte und Klassenbewusstsein, in primo luogo quella di « possibilità oggettiva », sono di origine weberiana; ma il rinnovamento del marxismo intrapreso da Lukdcs poggia non già su un’accettazione dell’impostazione metodologica di Weber, bensì su uno sforzo di replica a Weber, cioè sullosforzo di sottrarre il materialismo storico alla critica a cui egli lo aveva sottoposto. Anche la recezione di posizioni storicistiche nel clima filosofico-culturale francese degli anni ’60, caratterizzato in misura prevalente dall'incontro tra esistenzialismo e marxismo — basti pensare alla Critigue de la raison dialectigue di Jean-Paul Sartre, apparsa nel 1960 — non può certo essere scambiata per una forma vera e propria di storicismo. Al di fuori della cultura europea, poi, l'affermazione dell'identità tra esperienza e storia e del carattere problematico dell’esperienza in quanto sequenza di eventi storici, formulata da John Dewey in Experience and Nature (1925), sviluppa in modo originale temi propri del pragmatismo americano, € può caso mai essere ricondotta a una matrice hegeliana filtrata attraverso un’interpretazione naturalistica, non già a una piattaforma storicistica. In tutti questi casi ci troviamo di fronte a forme d'incontro tra storicismo e altri indirizzi filosofici (se non addirittura, come nell’ultimo, a un'affinità piuttosto remota), in cui esso perde inevitabilmente qualsiasi specificità. Se si vuole individuare, nell’ìmbito della filosofia contemporanea, un movimento storicistico che abbia proprie caratteristiche distintive, e che non sia subordinato ad altre impostazioni teoriche, occorre cercarlo nella cultura tedesca degli ultimi due decenni del secolo xix e dei primi decenni di questo secolo, fino alla vigilia della seconda guerra mondiale. Soltanto entro tale contesto si può legittimamente parlare di uno storicismo contemporaneo, cioè di uno storicismo che non sia la ripresa o la rielaborazione di una concezione della storia formulata nel primo Ottocento (quale quella hegeliana), e che d'altra parte non costituisca un semplice elemento di una costruzione filosofica fondata su presupposti eterogenei. Con ciò non si vuol dire affatto che esso esaurisca il panorama dello storicismo nella filosofia contemporanea, in cui rientrano a buon diritto anche le altre forme a cui si è accennato; si vuol piuttosto affermare che è la sola forma di storicismo che possegga una sua caratterizzazione autonoma rispetto ad altri indirizzi filosofici, che cioè sia sorto fin dall’inizio come un movimento indipendente. Anche se lo storicismo tedesco appare legato, soprattutto nella sua fase iniziale di sviluppo, con il neocriticismo sviluppatosi — a partire dal 1860 — sulla base del programma di « ritorno a Kant» avanzato da Kuno Fischer, da Otto Liebmann e da Hermann von Helmbholtz, il suo rapporto con questo è un rapporto non tanto di derivazione o di dipendenza, quanto di differenziazione, che comporta quindi un crescente distacco dai presupposti e dall'impostazione gnoseologica del neocriticismo. E in seguito, già a partire dal primo decennio di questo secolo, tale legame appare come un'eredità del passato, che sopravvive soltanto in figure piuttosto marginali del movimento storicistico (per esempio nel vecchio Rickert). Perciò la scelta presentata in questo volume si limita ai principali esponenti dello storicismo tedesco, lasciando da parte autori che trovano la loro collocazione primaria in altri orientamenti della filosofia contemporanea. II. Lo storicismo tedesco contemporaneo prende le mosse dal dibattito metodologico sulla conoscenza storica, cioè dalla discussione sul carattere peculiare, sul metodo e sull’oggetto delle discipline che studiano l’uomo e la realtà sociale nella loro dimensione storica. Alla base di tale dibattito c'è chiaramente un'esigenza critica in senso kantiano, vale a dire l'esigenza di determinare le condizioni che rendono possibile la conoscenza e che ne garantiscono la validità. Se quest’esigenza è comune pure al movimento neocriticistico nelle sue varie manifestazioni, è invece caratteristico dello storicismo il proposito di estendere l’ìmbito dell’indagine critica a un campo del sapere che era rimasto estraneo sia alla considerazione di Kant sia agli interessi propri del neocriticismo, Agli occhi di Dilthey, ma anche di Windelband o di Rickert o di Simmel, il limite della critica kantiana consiste nel fatto che essa si riferisca esclusivamente alle scienze naturali, alla conoscenza fisico-matematica nella sistemazione datane da Newton, senza rendersi ancora conto che un analogo problema di fondazione critica si pone pure per la conoscenza scientifica dell’uomo e del mondo umano, considerato nel suo sviluppo storico. Questo limite trova certamente una base di giustificazione nella situazione del sapere all’epoca di Kant, cioè in un’epoca in cui le scienze storico-sociali facevano appena i primi passi. Ma a distanza di un secolo — il primo (e unico) volume dell’Einleitung in die Geisteswissenschaften di Dilthey compare nel 1883, poco più di cent'anni dopo la pubblicazione della Kritik der reinen Vernunft — e cioè dopo i progressi decisivi che queste discipline hanno compiuto nella prima metà dell’Ottocento, soprattutto ad opera della scuola storica, esso risulta ormai privo di fondamento. Dilthey si trova dinanzi a un edificio concettuale nuovo, che si è venuto in larga misura costituendo dopo Kant, e che non trova posto nel quadro categoriale della « critica della ragion pura »; perciò si propone di affiancare ad essa una «critica della ragione storica », vale a dire un'indagine concernente le condizioni di possibilità della conoscenza storica. Al problema kantiano della possibilità della natura (e della conoscenza scientifica della natura) fa riscontro il problema della possibilità della storia (e delle scienze storico-sociali). Questa è l'ispirazione comune, pur nella diversità di formulazioni e anche di presupposti, alla prima fase di sviluppo del movimento storicistico. Su tale base Io storicismo prende posizione contemporaneamente nei confronti del positivismo e del neocriticismo. Sorto in un periodo in cui il positivismo veniva diffondendosi anche nella cultura tedesca, soprattutto nell’àmbito degli studi psicologici e psico-sociologici — particolarmente importante è, a questo proposito, l’opera di Wilhelm Wundt — esso accoglie l’esigenza positivistica di un’analisi scientifica dei fenomeni del mondo umano, e quindi il rifiuto di una considerazione metafisica dell’uomo e della storia. Da ciò la sua diffidenza, se non l'ostilità, nei confronti della concezione idealistica della storia; da ciò la polemica sotterranea ma non meno accentuata verso Hegel e la visione hegeliana del processo storico come realizzazione progressiva dello « spirito del mondo », che soltanto molto più tardi cederà il posto a un tentativo di recupero dell'eredità dell’idealismo — condotto da Dilthey sul terreno storiografico — attraverso lo studio degli scritti giovanili di Hegel, e da Windelband piuttosto sul piano teorico, attraverso la proclamazione della necessità di un «rinnovamento dell’hegelismo » (come suona il titolo di un saggio del 1910). Ma lo storicismo respinge, al tempo stesso, la riduzione dello spirito a natura che gli sembra implicita nel positivismo classico; e soprattutto respinge il tentativo di ricondurre la conoscenza dell’uomo e del mondo umano a un modello di spiegazione comune a tutto il sapere, che comportava l’assimilazione delle scienze storico-sociali al procedimento delle scienze naturali. Il distacco dal positivismo — nella versione che ne avevano dato Auguste Comte nel Cours de philosophie positive o John Stuart Mill nel System of Logic, Ratiocinative and Inductive — si esprime proprio nella rivendicazione dell'autonomia metodologica della conoscenza storica, nell’affermazione della sua irriducibilità alla conoscenza della natura, e quindi nella tesi di una fondamentale dicotomia del sapere: scienze della natura e scienze dello spirito in Dilthey, scienze nomotetiche e scienze idiografiche in Windelband, conoscenza naturale e « scienze storiche della cultura » in Rickert. Il modello milliano di spiegazione causale è valido, secondo Dilthey, per le scienze della natura: così per Windelband e per Rickert la conoscenza è, e dev'essere, orientata in vista della determinazione di leggi generali organizzate in un sistema di leggi, a cui possano venir ricondotti i fenomeni. Ma quel modello non è applicabile alla conoscenza dell’uomo e della realtà, che ha per Dilthey un diverso fondamento e si serve di altre categorie; e le leggi non trovano diritto di cittadinanza nelle scienze storico-sociali, o per lo meno non possono costituirne il fine ultimo. Ma attraverso la critica al positivismo si compiva anche un netto distacco dalle prospettive neocriticistiche. Come nella Kritik der retnen Vernunft, così nelle opere dei neocriticisti della fine dell’Ottocento — in particolare in quelle della scuola di Marburg, rappresentata soprattutto da Hermann Cohen e da Paul Natorp — non trovava posto la dicotomia del sapere che il nascente movimento storicistico sosteneva: nella permanente identificazione della conoscenza con la conoscenza fisico-matematica questo non poteva non scorgere una sostanziale incapacità di adeguazione al mutamento di orizzonte scientifico intervenuto dopo Kant. Anche in Windelband e in Rickert, che rimangono più legati all’impostazione gnoseologica generale del neocriticismo, questa divergenza è esplicita: a un secolo di distanza dalla critica kantiana il compito della teoria della conoscenza è quello di estendere il proprio ambito alla conoscenza storica, determinando anche per questa il fondamento che ne garantisce la validità. Ben più nettamente, nell’Einleitung in die Geisteswissenschaften Dilthey si propone di fare per le scienze storico-sociali ciò che Kant aveva fatto per le scienze della natura; e, al pari di Kant, muove dal riconoscimento dell’esistenza di un complesso di discipline organizzate, dinanzi alle quali non ha senso chiedersi se siano valide oppure no, ma occorre invece andare alla ricerca del fondamento della loro validità, cioè chiedersi come siano possibili e di quali princìpi si avvalgono nell’organizzare concettualmente il dato empirico. È un decennio dopo, in Die Probleme der Geschichtsphilosophie (1892), Simmel affronterà il compito di determinare le categorie della conoscenza storica e i suoi rapporti con le scienze sociali. Tuttavia l'allargamento o — se si vuole — il completamento della teoria della conoscenza formulata da Kant costituisce soltanto un aspetto, e forse neppure il più importante, del distacco dal neocriticismo. L'altro aspetto, diversamente presente nei singoli autori, riguarda la stessa impostazione gnoseologica del neocriticismo, vale a dire il tipo e i presupposti dell'indagine critica. Come si è accennato, Windelband e Rickert rimangono sostanzialmente fedeli a questa impostazione: nei primi saggi teorici windelbandiani — a partire da Was ist Philosophie? e da Normen und Naturgesetze (entrambi del 1882) e dagli altri scritti che compongono la prima edizione dei Pràludien (apparsa l’anno successivo) — il distacco dal neocriticismo avviene nella direzione di una teoria dei valori che attribuisce alla filosofia il compito di individuare i princìpi a priori dell'attività umana in tutti i campi, e quindi anche nell’ambito conoscitivo, e che li interpreta appunto come « valori » forniti di una loro intrinseca validità indipendente dall’esperienza, sulla base della distinzione tra essere e dover essere, tra la necessità empirica (propria delle leggi naturali, oggetto della scienza) e la validità ideale delle norme (di esclusiva pertinenza della filosofia). Il soggetto del conoscere rimane quindi il soggetto trascendentale, capace di pervenire a una verità incondizionata sulla base della conformità alle norme proprie dell’attività conoscitiva; rimane il soggetto trascendentale sottratto — come Rickert ribadisce in Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung (1896-1902) — a ogni determinazione empirica. La conoscenza storica trova il fondamento della propria validità, di una validità altrettanto universale e necessaria di quella della conoscenza naturale, nella presenza di valori incondizionati che costituiscono i princìpi della sua elaborazione concettuale. Le cose stanno ben diversamente per Dilthey, e anche per Simmel. Entrambi respingono infatti il postulato di un soggetto trascendentale per rivendicare il carattere empirico dell'io che indaga la storia; perciò respingono anche l’attribuzione alla conoscenza storica di una validità indipendente dall'esperienza. Per Dilthey la conoscenza — quella delle scienze dello spirito ancor più di quella delle scienze della natura — è inseparabile dal complesso della vita umana, è cioè una funzione dell’esistenza concreta dell’uomo in quanto individuo empirico e della situazione storico-culturale in cui egli vive: di conseguenza la validità di ogni sapere è condizionata dalla struttura complessiva della coscienza, dal suo radicarsi nell’esperienza vissuta. Perciò negli anni ’go, e ancora nei suoi ultimi scritti, Dilthey sarà condotto ad affrontare appunto l’analisi di questa struttura, nell'intento di mostrare come da essa scaturisca il procedimento conoscitivo proprio delle scienze storico-sociali e come in essa siano presenti le condizioni che ne fanno una forma oggettivamente valida di sapere. Nello stesso periodo Simmel opera una netta riduzione della conoscenza storica alla comprensione psicologica, assumendo così un punto di vista radicalmente opposto a quello del neocriticismo: dal momento che i fenomeni a cui si riferisce tale conoscenza hanno la loro radice nella vita psichica degli individui, essa deve sempre risalire da certi dati esterni, oggetto di osservazione empirica, all’interiorità spirituale degli individui che in questi si manifesta. La conoscenza storica si riassume quindi nell'atto psicologico dell’intendere, cioè in un atto che comporta la proiezione di un processo psichico vissuto dal soggetto conoscente a un'altra personalità, alla quale esso viene attribuito. E le categorie di cui si avvale nell'organizzare concettualmente il dato empirico non sono princìpi 4 priori, eterogenei a questo dato, ma INTRODUZIONE 19 sono semplici presupposti psicologici, forniti di una validità puramente ipotetica: anch’esse derivano, seppure in maniera indiretta, dall'esperienza. AI di là del limite rappresentato dall’esclusiva considerazione delle scienze naturali, l'impostazione gnoseologica del neocriticismo appariva perciò scarsamente idonea al compito di fondazione della conoscenza storica, che il movimento storicistico si proponeva. Il mutamento di àmbito dell’indagine critica trascinava con sé anche un mutamento dei presupposti di quest’'indagine. E qui entra in gioco un’altra componente, non meno essenziale, dello storicismo tedesco: il richiamo all’opera della scuola storica, alla quale viene attribuito — secondo le parole di Dilthey — il merito di una « definitiva costituzione della scienza storica e, mediante questa, delle scienze dello spirito ». Si può anzi rilevare una correlazione precisa tra tale richiamo e il distacco dal neocriticismo. In Windelband e in Rickert, che accolgono l'impostazione gnoseologica del neocriticismo, l'eredità della scuola storica è sostanzialmente assente: anche quando, nel primo decennio del Novecento, essi cercheranno nelpassato le premesse di una concezione della storia coerente con la teoria dei valori, queste saranno rintracciate piuttosto nell’orientamento storico dell’idealismo post-kantiano, nella visione storica della realtà presente nei successori di Kant e particolarmente in Hegel. In Dilthey, invece, l’abbandono dei presupposti neocriticistici si accompagna alla consapevole recezione dei risultati e della stessa impostazione di ricerca della scuola storica. Tra questa e il programma di una «critica della ragione storica » non esiste, per Dilthey, una soluzione di continuità: lo storicismo accoglie il lavoro compiuto dalla scuola storica e il suo edificio concettuale per indagarne criticamente le condizioni di possibilità, in maniera analoga a quella in cui Kant si era rifatto alla sistemazione newtoniana. Dilthey compie così una scelta esplicita tra le due grandi direzioni di sviluppo della concezione della storia che si possono individuare nella cultura tedesca della prima metà del secolo — quella rappresentata dall’idealismo post-kantiano, che era culminata nella filosofia della storia di Hegel, e quella rappresentata dalla scuola storica, che trova il suo approdo nella Weltgeschichte di Leopold von Ranke; ed è una scelta in favore della seconda, cioè opposta alla scelta di Windelband e di Rickert. Tuttavia il richiamo all'opera della scuola storica non va disgiunto da uno sforzo diretto a metterne tra parentesi i presupposti più tipicamente romantici. Nello stesso modo in cui recupererà in seguito il concetto hegeliano di spirito oggettivo, ma interpretandolo come il prodotto dell’oggettivazione della vita, cioè come il complesso delle manifestazioni dell’attività umana nel mondo sensibile, fin dagli scritti precedenti all’Einleitung in die Geisteswissenschaften Dilthey lascia cadere la nozione di « spirito del popolo » di cui Savigny e altri esponenti della scuola storica si erano serviti per indicare il principio creativo unitario della vita di un popolo, considerata nel suo sviluppo storico. E anche l’individualità di ogni epoca storica, lungi dall’esprimere — come per Ranke — il suo rapporto diretto con Dio, verrà a designare, nella fase conclusiva del pensiero diltheyano, il suo carattere di autocentralità, vale a dire l'orizzonte entro il quale si collocano tutte le manifestazioni culturali, politiche, sociali di un’epoca, derivando da esso il loro significato specifico. Polemica contro il positivismo e contro il « riduzionismo » metodologico implicito nell’assunzione di un modello unitario di spiegazione dei fenomeni; distacco dal neocriticismo e dalla sua stessa impostazione gnoseologica; richiamo all’opera della scuola storica, ma contemporaneo abbandono dei suoi presupposti romantici — queste sono le coordinate del movimento storicistico nella sua prima fase di sviluppo. E in relazione ad esse si determina la posizione che i principali esponenti dello storicismo assumono nel tentativo di pervenire a una fondazione critica della conoscenza storica. La stessa polemica tra Dilthey e Windelband, che ha inizio nel 1894, dev’essere collocata su questo sfondo. La rivendicazione dell’autonomia della conoscenza storica si configura, in Dilthey, nella forma di una distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito. Fin dal 1875, nel saggio Uber das Studium der Geschichte der Wissenschaften vom Menschen, der Gesellschaft und dem Staat, Dilthey aveva sostenuto il carattere peculiare di queste discipline e l’inapplicabilità al loro sviluppo della legge di progresso scientifico enunciata da Comte nel Cours de philosophie positive. Da tale punto di vista le scienze dello spirito costituiscono una totalità caratterizzata — in contrapposizione alle scienze della natura — dall’appartenenza del soggetto conoscente allo stesso mondo, cioè al mondo umano, che è oggetto della loro indagine. La distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito è quindi fondata, in ultima analisi, su un diverso rapporto del soggetINTRODUZIONE 21 to conoscente con il loro oggetto: un rapporto di estraneità nel primo caso, un rapporto dall’interno — e quindi di fondamentale identità — nel secondo caso. Da questa differenza derivano le varie antitesi mediante le quali Dilthey ha cercato, nell’Einleitung in die Geisteswissenschaften, di definire la fisionomia rispettiva delle scienze della natura e delle scienze dello spirito. Dal punto di vista dell’oggetto, le prime studiano una realtà esterna all’uomo, mentre le seconde si riferiscono al mondo umano considerato nella sua dimensione storica. Dal punto di vista della « fonte » da cui proviene il dato empirico, le prime muovono dall’esperienza esterna, cioè dall’osservazione sensibile, mentre le seconde si radicano nell’esperienza vissuta che l’uomo ha di sé, della propria vita interiore e dei propri rapporti con gli altri. Dal punto di vista del procedimento, le prime tendono a fornire una spiegazione causale dei fenomeni, mentre le seconde si propongono di «intenderli », avvalendosi di categorie eterogenee a quelle della conoscenza naturale. Così caratterizzato, l’edificio delle scienze dello spirito si presenta come un complesso di discipline che abbracciano lo studio dell’individuo al pari di quello della società, l’analisi delle strutture del mondo umano (sistemi di cultura e sistemi di organizzazione esterna della società) al pari dell’analisi del suo sviluppo storico, cioè delle sue varie epoche. « Universale » e « particolare », studio comparativo delle uniformità presenti nella struttura psichica o nella struttura del mondo umano e studio delle sue manifestazioni singole, considerate nella loro individualità, costituiscono perciò i due scopi conoscitivi, tra loro inscindibili, delle scienze dello spirito. Proprio contro questa conclusione si rivolge la polemica di Wildelband, allorché egli affronta, undici anni dopo — nel saggio Geschichte und Naturwissenschaft (1894) — il problema della conoscenza storica. Anche Windelband intende garantire l’autonomia della conoscenza storica rispetto alla scienza naturale, ma il criterio di distinzione tra di esse viene cercato sul terreno puramente metolologico, vale a dire nella diversità del loro orientamento. Da un lato vi sono scienze che mirano alla costruzione di leggi generali (le scienze nomotetiche), dall’altro vi sono invece scienze che mirano alla determinazione della fisionomia di un fenomeno nella sua individualità (le scienze idiografiche). Le prime costituiscono, nel loro insieme, la conoscenza naturale; le seconde costituiscono la conoscenza storica. Una distinzione siffatta risulta perciò indifferen22 INTRODUZIONE te al carattere « naturale » o « spirituale » dei fenomeni studiati, su cui aveva insistito Dilthey; anzi, la distinzione diltheyana tra scienze della natura e scienze dello spirito non poteva non apparire, agli occhi di Windelband, come l’eredità di un’antitesi metafisica. Le scienze naturali sono tali non già in quanto studino fenomeni ontologicamente distinti da quelli spirituali, ma in quanto sono orientate verso la conoscenza di rapporti generali, esprimibili sotto forma di leggi; e la conoscenza storica si differenzia da esse in quanto cerca in ogni fenomeno ciò che gli è proprio, vale a dire la sua individualità. Quando Windelband criticava il criterio di distinzione formulato da Dilthey, questi era ormai impegnato in uno sforzo di approfondimento della posizione dell’Einleitung in die Geisteswissenschaften. In un saggio apparso nello stesso anno, cioè nelle Ideen dider cine beschreibende und zergliedernde Psychologie (1894), egli muoveva dal rapporto tra scienze dello spirito ed esperienza vissuta per affrontare l’analisi della struttura della vita psichica: se il compito di queste discipline è un compito non già di spiegazione, ma di comprensione dei fenomeni, e se la comprensione riposa sulla conoscenza che l’uomo ha di sé, ossia sull’introspezione, allora lo studio di tale struttura assume un'importanza centrale per la fondazione delle scienze dello spirito. L'analisi della struttura della vita psichica, condotta dalla psicologia, viene perciò a coincidere con l’indagine critica delle condizioni di possibilità delle scienze dello spirito. Dilthey perviene così — in significativa consonanza con le tesi espresse due anni prima da Simmel — a privilegiare la psicologia come scienza «fondamentale », facendone la base e il punto di partenza di ogni conoscenza dell’uomo e del mondo umano. Ma la psicologia capace di assolvere questa funzione non è la psicologia associazionistica della tradizione herbartiana, diffusa nella cultura tedesca di fine Ottocento, che Dilthey respinge in quanto « esplicativa e costruttiva»: è una nuova psicologia « descrittiva e analitica » che deve porre in luce la struttura della vita psichica, analizzarne i diversi elementi e i loro rapporti, senza pretendere di offrirne una spiegazione che avrebbe inevitabilmente carattere naturalistico. L'attribuzione alla psicologia di un compito di fondazione critica era esposta alle obiezioni di Windelband in misura ancora maggiore di quanto non lo fossero le formulazioni dell’Einleitung in die Geisteswissenschaften. Di ciò Dilthey era consapevole: e difatti egli abbandonerà ben presto tale strada, per affrontare direttamente la polemica con Wildelband nei Beitràge zum Studium der Individualitit (1895-96). Nel respingere la distinzione windelbandiana tra scienze nomotetiche e scienze idiografiche Dilthey è condotto non soltanto a lasciar cadere la pretesa di assegnare alle scienze dello spirito un fondamento psicologico, ma anche ad approfondire l'analisi del loro procedimento di ricerca. Se nell’Einlestung in die Geisteswissenschaften uniformità e individualità rappresentavano due aspetti distinti della struttura del mondo umano, ai quali corrispondevano due scopi conoscitivi diversi delle scienze dello spirito, ora il secondo termine acquista un’importanza preminente. Il problema centrale dell'analisi metodologica diltheyana diventa quello del sorgere dell’individuazione sulla base dell’uniformità, vale a dire del configurarsi in forma singolare di fenomeni che pur presentano caratteristiche analoghe. Dilthey lo risolve inserendo tra uniformità e individuazione un termine medio, il «tipo», che costituisce al tempo stesso l’elemento comune a una molteplicità di fenomeni e la loro norma intrinseca. L’uniformità deriva dal legame con la realtà naturale, con il mondo fisico e biologico che condiziona il sorgere dei fenomeni spirituali; sulla sua base si realizza l'individuazione, resa possibile da un insieme di forme fondamentali che sono appunto i vari tipi di questi fenomeni. Il compito delle scienze dello spirito viene riposto non più nello studio separato dell’uniformità e dell’individuazione, ma nello studio del loro rapporto: ma in tal modo il tipo diventa il termine di riferimento del processo dell’intendere, il quale cessa di identificarsi con l’introspezione — o di essere riconducibile ad essa — per configurarsi soprattutto come comprensione degli altri individui e delle loro manifestazioni di vita. Il procedimento delle scienze dello spirito viene quindi a coincidere con la comprensione, vale a dire con la «riproduzione» di stati interiori altrui, i quali vengono « rivissuti » dall’individuo sulla base della propria esperienza. Alla distinzione tra conoscenza delle leggi e conoscenza dell’individuale, formulata da Windelband, Dilthey contrappone pertanto l’antitesi tra spiegazione causale e comprensione; ma all’interno di questa impostazione confluisce una nuova esigenza, quella di affermare il carattere individuale — in ultima analisi — del mondo umano. Spetterà però a un allievo di Windelband, Heinrich Rickert, concludere, per quanto provvisoriamente, questo dibattito in Die 24 INTRODUZIONE Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung e nella contemporanea, più breve trattazione di Kulturwissenschaft und Naturwissenschaft (1899): due opere scolastiche che avranno però larga fortuna, e che saranno più volte ripubblicate con modifiche e ampliamenti (di particolare rilievo saranno, per i Grenzen, la seconda edizione del 1913 e la terza del ’21). Rickert riprende la distinzione windelbandiana, cercando di ricondurla a un quadro sistematico. Il procedimento della conoscenza storica e la sua autonomia vengono « dedotti» attraverso un'analisi dei limiti propri della scienza naturale, cioè mostrando che l’ideale di quest’ultima — l'ideale di un’integrale spiegazione meccanica della realtà, da conseguire mediante la costruzione di un sistema di leggi di sempre maggiore generalità — si lascia sfuggire l’individualità di ogni fenomeno nella sua immediatezza empirica. Da ciò la necessità di un’altra forma di conoscenza che si riferisca proprio a questa individualità, e che risulta irriducibile alla scienza naturale e al suo tipo di elaborazione concettuale del dato. In questa prospettiva la distinzione tra le due forme di conoscenza — scienza naturale e conoscenza storica — rimane fondata su una differenza di metodo: la medesima realtà può essere oggetto di entrambe, indipendentemente dall’eventuale determinazione ontologica dei fenomeni, ed anzi si presenta come natura quando è considerata in riferimento a leggi generali e come storia quando è considerata in riferimento al particolare. Ma l’individualità storica non coincide con l'immediatezza empirica del dato; anch’essa è infatti il risultato di un procedimento di elaborazione concettuale, sebbene differente da quello della scienza naturale. Rickert indica la base di tale procedimento nella relazione ai valori, vale a dire nel rapporto con valori forniti di validità incondizionata, i quali presiedono alla scelta del dato empirico e alla costruzione un «individuo » storico. L’individualità di un oggetto risulta così fondata sul suo riferimento ai valori, che ne costituisce il significato. In tal modo la conoscenza storica viene a differenziarsi dalla scienza naturale anche ‘per quanto riguarda il campo di ricerca; e questo è identificato con la «cultura», cioè con una realtà che abbraccia tutti i possibili fenomeni a cui viene attribuito un significato in virtù della relazione a qualche valore. Il dibattito metodologico degli ultimi due decenni dell’Ottocento mette perciò capo a un approfondimento di rilievo delle posizioni iniziali degli studiosi che vi hanno preso parte. Dinanzi alla critica INTRODUZIONE 25 di Windelband, Dilthey è condotto ad accentuare l’importanza dell'individualità e a riformulare la distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito nei termini di un’antitesi tra spiegazione e comprensione, dalla quale prenderà le mosse l’elaborazione conclusiva del suo pensiero, contenuta negli scritti del periodo 1905-1911. D'altra parte la distinzione enunciata da Windelband nel °94 trova in Rickert uno sviluppo sistematico nell’ambito della teoria filosofica dei valori; e in questo quadro Rickert è costretto a riconoscere all’antitesi tra scienza naturale e conoscenza storica anche una dimensione oggettiva, che il suo maestro aveva inteso escludere. Anzi, la conoscenza storica risulta nient'altro che il complesso delle « scienze della cultura », cioè il complesso delle discipline che hanno per oggetto fenomeni forniti di significato, di un significato che può essere stabilito — com’egli dirà nel 1913, richiamandosi esplicitamente a Dilthey — mediante l’«intendere ». Erano così poste le premesse perché venisse messa in disparte la questione se l’autonomia della conoscenza storica abbia un fondamento oggettivo oppure una base puramente metodologica, mentre d’altra parte nuovi problemi, suscitati dal costituirsi di nuove discipline e dall'incontro con altri indirizzi di pensiero, si affacciavano ormai all'orizzonte dello storicismo tedesco. III. Quando Dilthey scriveva l’Einleitung in die Geisteswissenschaften, la sociologia era ancora una scienza estranea all'ambiente culturale tedesco. In un capitolo di quell’opera egli conduce una critica radicale dell’impostazione sociologica comtiana, coinvolgendo la sociologia nella medesima condanna della filosofia della storia. Filosofia della storia e sociologia rappresentano, ai suoi occhi, due espressioni di un medesimo atteggiamento metafisico nei confronti del processo storico, cioè di un atteggiamento che pretende di fare a meno del paziente lavoro delle discipline particolari per attingere di colpo la totalità della storia, per determinarne le leggi costitutive, le fasi e la direzione di sviluppo. È vero che alla base della filosofia della storia c'è una prospettiva teologico-religiosa, esplicita da Agostino a Bossuet e poi implicita da Vico e da Lessing fino a Hegel, mentre la sociologia poggia su una concezione naturalistica; ma anch'essa non è altro che una forma di metafisica, e precisamen26 INTRODUZIONE te una «metafisica naturalistica della storia» che presuppone la « subordinazione dei fenomeni spirituali all'insieme della conoscenza della natura ». Contro la sociologia nella formulazione datane da Comte — ma la critica vale, in fondo, per tutta la sociologia positivistica — Dilthey fa valere la tesi che il processo storico può essere conosciuto soltanto attraverso l’analisi dei suoi diversi aspetti, compiuta da una pluralità di discipline particolari, non già attraverso la pretesa illusoria di abbracciarlo nella sua totalità. Anche in seguito lo storicismo tedesco manterrà la posizione critica verso la sociologia positivistica, enunciata da Dilthey. Ma pochi anni dopo, nel 1887, un giovane studioso di formazione filosofica, Ferdinand Ténnies, pubblicava un libro destinato a inaugurare un tipo di sociologia svincolato dai presupposti del positivismo, dal titolo Gemeinschaft und Gesellschaft. Esso si proponeva di mostrare l’esistenza di due diverse forme di organizzazione, designate appunto la prima come « comunità » e la seconda come « società », e fondate rispettivamente su rapporti di carattere organico e su rapporti di carattere meccanico tra gli individui che ne fanno parte. Attraverso l’analisi comparativa delle due forme di organizzazione Tonnies perveniva a delineare due modelli differenti di relazioni tra gli uomini e, al tempo stesso, due momenti storicamente successivi nello sviluppo dell'umanità. Il modello della comunità è quello di una relazione organica tra i membri del corpo sociale, la quale riposa su un’unità fondamentale delle volontà individuali e si esprime dapprima nell’ambito della parentela, del vicinato e dell’amicizia: è la forma originaria di organizzazione, che comporta il possesso e il godimento in comune dei beni, nonché l’azione solidale del gruppo nella difesa come nell’offesa. Il modello della società è invece quello di una relazione meccanica, e quindi «arbitraria », la quale riposa sull'incontro e sulla somma di volontà individuali separate e sulla stipulazione di un contratto che le vincola all’osservanza di determinate norme: è una forma derivata di organizzazione, che si esprime soprattutto nei rapporti di scambio. La comunità è universalmente diffusa, e caratterizza in modo esclusivo ogni tipo di associazione primitiva: è propria del villaggio, ma si ritrova anche nella città antica e in quella medievale, organizzata sulla base di un'economia corporativa. La società è, al contrario, la forma specificamente capitalistica di associazione tra gli individui: essa è definita dalla divisione del lavoro, dall’equivalenza tra lavoro e merce, dalla proprietà privata, dal sorgere di un’economia monetaria, dallo sviluppo del capitalismo e dall’allargamento del mercato fino a dimensioni mondiali. In quest’analisi Tònnies proseguiva indubbiamente lo sforzo della sociologia positivistica di individuare le caratteristiche strutturali della società industriale moderna, distinguendola dalle precedenti forme di organizzazione sociale: sotto tale profilo il suo rapporto con Comte (e in qualche misura anche con Spencer) è esplicito, ancorché non privo di sostanziali riserve. Ma egli si richiamava soprattutto ad altri due filoni culturali, dai quali desumeva gli elementi per determinare la fisionomia rispettiva della comunità e della società. Nel caratterizzare la comunità egli si rifaceva infatti — per il tramite di Otto von Gierke e della sua opera Das deutsche Genossenschaftsrecht, apparsa tra il 1868 e il 1881 — alla scuola storica: la «comunità » tònnesiana non è altro, in fondo, che la trasposizione in termini analitici dell'ideale romantico di una società organica, fondata sull’unità dello « spirito del popolo ». Ma in tal modo questo ideale veniva per così dire storicizzato, e le categorie di cui la scuola storica si era servita per costruire la propria concezione della società venivano utilizzate per definire una forma specifica di organizzazione sociale. Nel caratterizzare la società Ténnies si rifaceva, assai più che alla sociologia positivistica, per un verso a Hobbes e per l’altro verso a Marx. Dal primo egli derivava la visione di un’organizzazione su base contrattuale, a cui gli individui partecipano in quanto individui, mossi dalla duplice aspirazione alla potenza e al guadagno; dal secondo traeva gli strumenti per individuare il contenuto economico della società moderna e per identificarla quindi con il capitalismo. Sul rapporto con la scuola storica — che tanta importanza riveste in Dilthey — si innestava così il riferimento a Marx e alla sua interpretazione della società moderna come società capitalistica. Bisognerà tuttavia attendere l’ultimo decennio del secolo perché il materialismo storico, fin allora rimasto un indirizzo « eterodosso» ed emarginato dagli ambienti accademici, entri nella cultura tedesca. Nel 1894, annunciando la pubblicazione del terzo e ultimo volume di Das Kapital (a cura di Engels), Werner Sombart richiamava gli studiosi tedeschi a una diversa considerazione dell’opera di Marx, e insisteva sulla necessità di tener conto dell’analisi che questa offriva del processo capitalistico di produzione. E proprio sul28 INTRODUZIONE terreno dell'interpretazione del capitalismo e della sua struttura economica doveva compiersi l’incontro tra il pensiero marxistico e la storiografia economica ufficiale, rappresentata soprattutto dalla suola di Gustav von Schmoller. In un paese che, seppur parecchi decenni dopo l’Inghilterra e anche dopo altre nazioni continentali come il Belgio c la Francia, aveva conosciuto un rapido e fiorente sviluppo capitalistico — fino a diventare ormai una delle potenze dominatrici del mercato mondiale — il problema delle origini del capitalismo e dei suoi caratteri distintivi rispetto ad altre forme di economia, nonché dei rapporti tra l'economia capitalistica e gli altri aspetti fondamentali della società moderna, acquistava un rilievo preminente. Ed esso costituirà, all’inizio del nuovo secolo, il terna centrale delle maggiori opere di Sombart, a partire da Der moderne Kapitalismus (1902), e delle contemporanee ricerche di Max Weber sul condizionamento reciproco tra religione e sviluppo economico. Nell'ultimo decennio dell’Ottocento lo storicismo tedesco si trova perciò inserito in un panorama culturale in rapida trasformazione. Esso non deve più fare i conti soltanto con l’eredità della scuola storica e con l’edificio concettuale che essa aveva costruito, ma ha davanti a sé una sociologia che sta sorgendo sulla base di presupposti diversi da quelli della sociologia positivistica, ha davanti a sé altre scienze sociali che si propongono di sviluppare un’analisi empirica di particolari settori della società; e sullo sfondo comincia a profilarsi l'ombra scomoda del materialismo storico. Nuovi problemi si impongono quindi alla sua riflessione: non più quello dell’autonomia della conoscenza storica e della sua distinzione dalle scienze della natura — che appaiono ormai cosa acquisita — ma i problemi dei rapporti tra la sociologia e le altre discipline, tra le scienze sociali e la ricerca storica, tra l’interpretazione economica della storia e altre direzioni di analisi. Ad essi rivolge la propria attenzione Georg Simmel, dal saggio Uber soziale Differenzierung (1890) al volume Die Probleme der Geschichtsphilosophie (1892) e alla contemporanea, ampia E:nleitung in die Moralwissenschaft (1892-93), dalla Philosophie des Geldes (1900) alla Soziologie (1908). Simmel muove dal presupposto del compito descrittivo delle scienze sociali. In esso si manifesta il suo atteggiamento ambivalente verso il positivismo, dal quale accoglie il postulato della possibilità di una descrizione empirica dei fenomeni sociali ma di cui respinge, al tempo stesso, l’assunzione di una struttura legale della INTRODUZIONE 209 realtà alla quale la conoscenza scientifica debba, in ultima analisi, riferirsi. Con ciò Simmel non giunge a negare l’esistenza di una struttura del genere, ma la considera inattingibile alla conoscenza, e quindi irrilevante. Le leggi dei fenomeni sociali — questa tesi è formulata fin dal 1890 — sono leggi non macroscopiche ma microscopiche, e regolano non già il comportamento e il processo evolutivo delle varie forme di associazione e di organizzazione, bensì i rapporti tra gli individui che ne costituiscono gli elementi ultimi. Non esistono quindi o, se anche esistono, non si possono determinare — il che è la medesima cosa — leggi di sviluppo della società in quanto tale, considerata nella sua totalità: al massimo, esistono leggi psicologiche a cui si conforma l’azione degli individui. All’antitesi diltheyana tra spiegazione e comprensione Simmel sostituisce così la distinzione tra un procedimento esplicativo, fondato su leggi generali, e un procedimento rivolto alla descrizione dei fenomeni; e questo gli appare l’unico legittimo nell’ambito delle scienze sociali come nella ricerca storica. Tuttavia la descrizione non costituisce la semplice riproduzione di una realtà oggettivamente sussistente: essa comporta un’elaborazione del dato empirico che può avvenire solo sulla base di categorie. Queste rappresentano l’elemento formale della conoscenza, distinto dal contenuto: la loro funzione è di organizzare il dato, e quindi di determinare la direzione di ricerca delle varie discipline. Ma l’apriorità delle categorie, la loro differenza rispetto al contenuto della conoscenza, non significa affatto che esse siano forme universali e necessarie dell’intelletto: al contrario, anch'esse derivano dall'esperienza e sono diverse da una disciplina all’altra. Compito dell'indagine critica è perciò quella di individuare tali categorie, di stabilirne la funzione, di accertare il modo in cui operano nelle varie scienze sociali, attraverso un’analisi del procedimento concreto € del campo di ricerca di ogni disciplina. Simmel ha condotto quest'analisi non tanto in termini generali, quanto in riferimento a problemi specifici; né è possibile rintracciare nelle sue varie opere una linea coerente e unitaria di sviluppo. In Die Probleme der Geschichtsphilosophie egli affronta l'esame dei rapporti tra psicologia e ricerca storica, cercando di determinare i presupposti psicologici sui quali poggia il procedimento di comprensione di quest’ultima, per giungere infine alla negazione del carattere scientifico delle leggi storiche — a cui viene riconosciuto un valore puramente ipotetico e anticipatorio — e al rifiuto dei vari tentativi di scoprire un « senso » della storia scientificamente valido. Nell’Einleitung in die Moralwissenschaft egli si propone di dimostrare la possibilità di una conoscenza scientifica della vita morale e di individuarne il campo di ricerca, ai confini tra psicologia, scienze sociali e ricerca storica. Nella Philosophie des Geldes egli prende in considerazione un concetto economico fondamentale, quello di denaro, per analizzare il processo attraverso il quale il valore economico diventa un'entità misurabile e trova quindi la propria unità di misura appunto nel denaro. Più tardi, nel 1908, Simmel perverrà ad affrontare il problema dell'autonomia della sociologia nei confronti delle altre scienze sociali, proponendone una concezione svincolata sia dai presupposti positivistici sia dall’impostazione storico-tipologica ch’essa aveva trovato nell’opera di Tònnies, La concezione simmeliana è fondata sull’affermazione del carattere puramente formale della sociologia. Dal punto di vista del contenuto non è possibile differenziare la sociologia dalle altre scienze sociali: i fenomeni che esse studiano sono pur sempre i medesimi, e sono riconducibili a processi psichici individuali. Ma la sociologia rappresenta un nuovo tipo di considerazione di questi fenomeni, in quanto essa li studia non già come fenomeni morali o economici o politici, e via dicendo, bensì nei modi di relazione — in certa misura permanenti — tra gli individui, da cui hanno origine i processi di « associazione ». La sociologia prescinde dal contenuto dei fenomeni sociali, che sono sempre variabili, per limitarsi all'analisi delle forme di associazione; essa è la « dottrina dell’essere-società dell'umanità ». In altri termini, mentre le singole scienze sociali studiano i fenomeni sociali in quanto qualificati nel loro contenuto, la sociologia indaga i processi in cui i rapporti reciproci tra gli uomini dànno luogo alle strutture della società. Il suo oggetto specifico consiste perciò nelle forme di associazione, che costituiscono l’elemento formale onnipresente nella vita sociale e che, pur essendo anch'esse sottoposte a un mutamento e a una trasformazione, posseggono tuttavia un grado di permanenza superiore al ritmo della vita individuale. Quando Simmel pubblicherà la Soziologie, questa disciplina avrà ormai trovato una piena legittimazione nella cultura tedesca; e lo stesso Dilthey — in contrasto soltanto apparente con la posizione assunta nell’Einl/eitung in die Geisteswissenschaften — avrà parole di apprezzamento per la prospettiva simmeliana. Nel corso degli INTRODUZIONE 3I anni ’90 e nei primi anni del nuovo secolo la sociologia aveva cercato non soltanto di definire teoricamente il proprio compito e i propri metodi, ma si era impegnata in uno sforzo di analisi empirica di diversi aspetti della realtà tedesca contemporanea, Molto tempo era trascorso da quando Heinrich von Treitschke aveva sbrigativamente asserito che la conoscenza della società si esaurisce nella scienza politica, in quanto ogni aspetto della vita sociale è riconducibile allo stato: i problemi della struttura economico-sociale della Germania post-bismarckiana richiedevano un altro tipo di considerazione, che era appunto offerto dalla nuova scienza. In questo contesto si viene compiendo la formazione di una delle più importanti personalità del movimento storicistico, cioè di Max Weber. Partito da studi a cavallo tra storia del diritto e storia economica, il giovane Weber prende ben presto parte a un'inchiesta sulla situazione del lavoro agricolo in Germania, promossa dal « Verein fir Sozialpolitik », analizzando — nel volume Die Verhaltnisse der Landarbeiter im ostelbischen Deutschland (1892) — il processo di trasformazione dell’agricoltura tedesca nelle regioni orientali e i problemi, anche politici, che ne derivavano; in seguito altri aspetti dell’economia capitalistica contemporanea attraggono la sua attenzione, finché nel ’97 una grave crisi nervosa non lo costringe a interrompere per vari anni ogni attività. Ma già in questo primo, intenso periodo di lavoro intellettuale viene a delinearsi il posto centrale che, negli studi successivi di Weber, assumerà il problema del capitalismo moderno e della sua individualità storica, cioè della sua specificità rispetto alle altre forme di economia. Nel medesimo tempo l’emergere di sempre più marcati interessi metodologici lo spinge a seguire da vicino la discussione sul materialismo storico, che proprio verso la metà degli anni ’go si estende dalla Germania verso altri paesi europei, e ad avvertire l’esigenza di definire il procedimento delle scienze sociali. Così egli si accosta alla problematica dello storicismo, al cui sviluppo offrirà poi un contributo decisivo agli inizi del nuovo secolo. IV. Nel 1905, dopo quasi un decennio dedicato prevalentemente all'analisi dei principali momenti di sviluppo della cultura moderna, Dilthey riprendeva il progetto di una «critica della ragione 32 INTRODUZIONE storica », formulato nell’Einleitung in die Geisteswissenschaften. Egli si rendeva certamente conto — ne sono prova i tentativi piuttosto disparati di prosecuzione, compiuti negli anni ’90 — di non essere riuscito a realizzare quella fondazione delle scienze dello spirito che si era proposto. Anzi, si rendeva anche conto che la soluzione prospettata nel 1883 rischiava di vanificare la validità oggettiva di tali discipline, riducendole all’immediatezza dell’esperienza vissuta. Infatti, se le scienze dello spirito hanno la propria base nell’esperienza vissuta che l’uomo ha di sé e degli altri, e se la comprensione degli altri poggia sulla capacità di «rivivere» gli stati interiori altrui — com'era asserito nei Beitràge zum Studium der Individualitit — è chiaro che la validità della conoscenza storica e delle discipline che la costituiscono rimane confinata al piano psicologico. Per dare alle scienze dello spirito un fondamento conoscitivo adeguato era necessario abbandonare questo piano, e garantire in qualche modo l’oggettività dell’intendere, la partecipabilità dei suoi risultati. Ancora una volta il punto di partenza era offerto dall'analisi della struttura della vita psichica, alla quale sono dedicate in massima parte le tre Studien zur Grundlegung der Geisteswissenschaften (1905-10). Ma in quest’analisi Dilthey non soggiace più, come nelle Ideen tiber eine beschreibende und zergliedernde Psychologie, alla tentazione di risolvere il compito di fondazione critica delle scienze dello spirito in una descrizione psicologica del loro procedimento. Un’impostazione del genere non poteva ormai non apparirgli inficiata di psicologismo, cioè di una confusione arbitraria tra determinazione delle condizioni di validità del conoscere e analisi delle sue condizioni psichiche; e proprio lo psicologismo era stato sottoposto pochi anni prima a una critica spietata da parte di Edmund Husserl nelle Logische Untersuchungen (1900-1901), l’opera che segna l'inizio del movimento fenomenologico. Come aveva rilevato Husserl, la psicologia è una scienza sperimentale, che non può avanzare alcuna pretesa di fondazione; anzi, essa stessa richiede di esser fondata nella sua validità, Dilthey, che aveva letto attentamente le Logische Untersuchungen, recepisce questa critica: se il punto di partenza della fondazione delle scienze dello spirito consiste nell’analisi della struttura della vita psichica, essa non è tuttavia riducibile a quest’analisi. L'indagine critica concerne la validità delle scienze dello spirito: al di là della descrizione delle varie operazioni conoscitive, sulla cui base si costituiscono le singole discipline, si pone appunto un altro problema, quello della fondazione del loro metodo e dei loro risultati. In questo contesto anche l’esperienza vissuta viene in qualche modo ridimensionata nella sua importanza. Certamente, ogni manifestazione della vita psichica ha la sua radice in essa, cioè nel corso ininterrotto dell’ErleZer, nella successione di stati interiori da cui questo è formato. Ma l’Erleben possiede una sua struttura, rappresentata dalla relazione tra atto e contenuto; e dai diversi modi di questa relazione sorgono le varie forme di atteggiamento della vita psichica, i suoi «sistemi» — cioè l'apprendimento oggettivo, il sentimento e la volontà. La conoscenza coincide appunto col primo di questi sistemi, nel quale è presente una tendenza verso l’oggetto, verso un oggetto concepito — e qui è evidente la suggestione di Husserl — come « parzialmente trascendente » rispetto all’esperienza vissuta. Perciò essa si sviluppa su un piano ulteriore rispetto all’Erleben: su questo piano sorgono le operazioni comuni a ogni specie di apprendimento oggettivo, da quelle elementari (come la comparazione, la distinzione, la relazione) a quelle proprie del pensiero discorsivo (come la riproduzione memorativa di uno stato passato, il rapporto tra espressione e ciò che è espresso, il giudizio, il concetto, il sillogismo), e si compie altresì la differenziazione tra i metodi delle varie discipline, in particolare tra scienze della natura e scienze dello spirito. In tale prospettiva Dilthey affronta, nell’ultima delle Studier zur Grundlegung der Geisteswissenschaften e, più ampiamente, in Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften (1910), il duplice problema della delimitazione delle scienze dello spirito e della loro fondazione critica, Esso viene impostato individuando il fondamento di queste discipline non più nell’esperienza vissuta, ma nel nesso tra esperienza vissuta, espressione e intendere — comune sia all’introspezione sia alla comprensione storica, vale a dire sia alla conoscenza di sé sia alla conoscenza degli altri. Ogni elemento del mondo umano è infatti, per Dilthey, l’espressione di un'esperienza vissuta, l’espressione della vita di un individuo. Ma questa espressione, la quale comporta la realizzazione dell’esperienza vissuta all’esterno, in forme sensibili, è una realtà oggettiva e osservabile: a questa realtà, non alla vita psichica nella sua immediatezza, si rivolge il processo dell'intendere. L’intendere non si riduce 3. STORICISMO TEDESCO. 34 INTRODUZIONE quindi a un atto di «penetrazione simpatetica », al rivivere un certo stato interiore proprio o di un altro individuo; tanto meno si riduce all’introspezione, poiché — come Dilthey afferma esplicitamente — «l’uomo si conosce soltanto nella storia, mai mediante l’introspezione ». Tuttavia intendere un elemento della realtà spirituale vuol dire pur sempre riportarlo all’esperienza vissuta da cui è scaturito, ossia considerarlo come espressione della vita: l’intendere non è altro che «un ritrovamento dell’io nel tu», la scoperta, in tutte le manifestazioni storiche, della vita psichica dalla quale procedono. Il nesso tra esperienza vissuta, espressione e intendere viene quindi a configurarsi come un nesso circolare: come l’espressione deriva dall’esperienza vissuta e l’intendere si riferisce all’espressione, così l’intendere deve anche risalire — per il tramite dell’espressione — all’esperienza vissuta. Essendo fondate su tale nesso, le scienze dello spirito risultano caratterizzate da un «riferimento retrospettivo» all’esperienza vissuta. Come già nell’Ein/eitung in die Geisteswissenschaften, così anche nell'ultima fase del pensiero diltheyano esse poggiano dunque sul presupposto di un’identità fondamentale tra soggetto e oggetto, e la loro possibilità deriva appunto dal fatto che «la vita coglie qui la vita». La loro certezza non è più immediata ma mediata, in quanto trova una garanzia nel rapporto tra esperienza vissuta, espressione e intendere; tuttavia anche questa garanzia trae origine, in ultima analisi, dall’appartenenza dell’uomo allo stesso mondo studiato dalle scienze dello spirito, vale a dire dalla struttura dell’uomo come essere storico. Perciò le categorie della ragione storica, i modi di apprendimento del mondo umano, coincidono con le forme strutturali di tale mondo: esse ne costituiscono la semplice traduzione concettuale. Dilthey rimaneva così legato, anche nell’ultima fase del suo pensiero, all’eredità metodologica della scuola storica. L’insistenza sull’esperienza vissuta come radice di tutta la vita psichica, sul costante « riferimento retrospettivo » ad essa delle scienze dello spirito, e nel medesimo tempo il privilegiamento della vita considerata come la dimensione fondamentale del mondo umano — che ha fornito lo spunto a un’interpretazione metafisica della filosofia di Dilthey, senza dubbio arbitraria ma tuttavia sintomatica — ne sono una chiara dimostrazione. Non del tutto a torto Husserl estendeva allo storicismo diltheyano, nel saggio Philosophie als strenge Wissenschaft (1910), la critica rivolta allo psicologismo. La « costruzione INTRODUZIONE 35 del mondo storico » delineata negli scritti del periodo 1905-11 rimane sempre in un difficile, precario equilibrio tra lo sforzo di svincolarsi dal piano dell’immediatezza, dalla tendenziale riduzione della conoscenza storica all’esperienza vissuta, e il permanente legame con la scuola storica e con i suoi presupposti metodologici. Ma nei medesimi anni in cui il vecchio Dilthey esponeva all'Accademia delle Scienze di Berlino i risultati conclusivi della sua analisi delle scienze dello spirito, quei presupposti subivano una critica radicale e definitiva da parte di Max Weber — di trent'anni più giovane — sulle colonne prima dello « Schmollers Jahrbuch » e poi del rinnovato « Archiv fir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik ». Se per Dilthey la conoscenza storica coincideva pur sempre con l’edificio concettuale della scuola storica, per Weber s’identificava ormai con un complesso di discipline che si erano costituite — la sociologia in primo luogo, ma anche la scienza economica nella versione marginalistica — distaccandosi da tale edificio e respingendone sia l’impostazione generale sia la pretesa di onnicomprensività. A queste discipline, al loro procedimento concreto e ai loro rapporti si riferisce l’analisi metodologica di Weber, che non a caso prende le mosse dalla polemica contro la scuola storica di economia. Quando Weber ritorna agli studi nel 1901, il suo interesse è attratto soprattutto dal problema — largamente dibattuto in quel periodo — del metodo della scienza economica; e a questo è dedicato il suo primo saggio metodologico, Roscher und Knies und die logischen Probleme der historischen Nationalbkonomie (1903-06). Da circa mezzo secolo la scuola storica dominava gli studi di economia negli ambienti accademici tedeschi: essa si proponeva, in opposizione all'economia classica di Smith o di Ricardo, di indagare i fenomeni economici nel loro sviluppo, come parte integrante della totalità della vita di un popolo. Ciò facendo Roscher, Hildebrand, Knies avevano in realtà trasferito all'ambito economico l’impostazione organicistica della scuola storica, la visione del processo storico come prodotto di uno « spirito del popolo » che garantisce, in ogni momento di sviluppo, la connessione dei diversi aspetti della realtà sociale. Questa impostazione era stata criticata fin dal 1883 da Karl Menger nelle Untersuchungen ùiber die Methode der Sozialwissenschaften und der politischen Oekonomie insbesondere, un’opera che aveva dato inizio a una celebre disputa. Weber riprende le obiezioni di Menger, respingendo la pretesa di determinare 36 INTRODUZIONE leggi di sviluppo economico, cioè tendenze evolutive dei fenomeni economici fornite di significato legale. Ma la sua critica si estende subito all’intera eredità metodologica della scuola storica, all’edificio concettuale che essa aveva costruito. E a tal fine egli si richiama a un’altra opera apparsa da poco, ai Grenzen di Rickert, accogliendo la distinzione che egli aveva formulato tra scienze naturali e scienze della cultura, Rickert gli offriva infatti gli strumenti per condurre una duplice polemica: da un lato contro l’oggettivismo storico, cioè contro la dottrina che ripone il fondamento dell’autonomia della conoscenza storica in una determinazione oggettiva del campo di ricerca, cioè in una presunta specificità ontologica dei fenomeni storici, dall’altro contro l’intuizionismo storico, cioè contro la dottrina che cerca tale fondamento in qualche forma di comprensione intesa come intuizione immediata. Se Dilthey non è nominato, cadono invece sotto i colpi della polemica di Weber autori come Wundt, Miinsterberg, Lipps, come il Simmel dei Probleme der Geschichtsphilosophie e il Croce dell’Estetica. Il richiamo a Rickert aveva però anche una portata positiva. Accogliendo un criterio puramente metodologico di distinzione tra scienze naturali e scienze storico-sociali Weber lasciava da parte l’antitesi — di origine diltheyana — tra spiegazione e comprensione, e poteva rivendicare anche alla conoscenza storica un compito di spiegazione causale. Soltanto che questa assumeva una connotazione particolare. Nelle scienze naturali, infatti, la spiegazione consiste nel riportare un fenomeno a leggi generali, di cui esso costituisce un semplice caso particolare: tra l'avvenimento da spiegare e le leggi vi è un rapporto di « sussunzione ». Nelle scienze storico-sociali la spiegazione riveste invece un carattere individuale: essa è rivolta alla determinazione del rapporto causale specifico che intercorre tra due o più fenomeni individuali, ossia tra momenti successivi di uno stesso processo individuale di sviluppo. Sulla strada indicata da Rickert era quindi possibile attribuire un compito esplicativo anche alle scienze storico-sociali, ma asserirne al tempo stesso la diversità da quello delle scienze naturali. La metodologia storiografica di origine romantica e — al pari di essa — anche il positivismo avevano identificato la causalità con la legalità; rifiutando tale identificazione Weber affermava, al contrario, la specificità della spiegazione causale-individuale e la sua compatibilità con il processo dell’intendere. Egli perveniva così a recuperare un elemento centrale delINTRODUZIONE 37 l'impostazione diltheyana: la conoscenza storica deve, a differenza delle scienze naturali, comprendere il proprio oggetto. Ma questa comprensione è inseparabile dalla spiegazione causale. Più precisamente, la comprensione consiste nella formulazione di ipotesi interpretative concernenti il « senso » degli avvenimenti, che occorre poi verificare attraverso il ricorso alla spiegazione causale. Si compie in tal modo l’incontro tra due orientamenti di analisi metodologica, che nel corso degli anni ’90 erano apparsi inconciliabili: da una parte la spiegazione causale viene svincolata dal riferimento esclusivo a leggi generali, e si riconosce la possibilità di un tipo di spiegazione proprio della conoscenza storica, orientato in senso individualizzante; dall’altra l’intendere acquista una propria autonomia metodologica nei confronti dell'esperienza vissuta, e il suo procedimento viene ricondotto a regole oggettive. Su questa base Weber affronta, nel saggio Uber die « Objektivitàt» sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntis (1904) e nelle Kritische Studien auf dem Gebiet der kulturwissenschaftlichen Logik (1906), il problema dell’oggettività delle scienze storico-sociali — che rimarrà centrale nella sua riflessione metodologica. Le condizioni di tale oggettività vengono determinate per un verso nell’esclusione dei giudizi di valore, per l’altro verso nel ricorso alla spiegazione causale. Weber accoglie infatti la distinzione rickertiana tra giudizio di valore e relazione ai valori, per affermare l’estraneità del primo a ogni forma di conoscenza e per individuare nella presenza o nell’assenza di quest’ultima la differenza principale tra conoscenza storica e scienze naturali. Le scienze storico-sociali poggiano su una relazione ai valori che designa il riferimento a certi criteri di scelta del dato rilevante per la loro indagine, i quali presiedono quindi alla sua elaborazione concettuale. Ma nell’analisi di questa relazione Weber si distacca nettamente da Rickert, lasciando cadere il presupposto della validità incondizionata dei valori. Egli muove, al contrario, dall’affermazione della relatività dei criteri di scelta impiegati dalle scienze storico-sociali, e perciò dalla constatazione del carattere inevitabilmente « soggettivo » delle loro premesse, cioè del loro condizionamento culturale. Si pone così il problema di stabilire come, date queste premesse soggettive, le scienze storico-sociali possano tuttavia pervenire a risultati validi oggettivamente. La garanzia di tale validità è rintracciata nel principio di causalità, che vale — seppure in forma diversa — sia nelle 38 INTRODUZIONE scienze naturali sia nelle scienze storico-sociali. Ma la relatività dei criteri di scelta incide, in realtà, sullo stesso procedimento di spiegazione causale. Essa rende impossibile in linea di principio, e non solamente di fatto, determinare tutti gli elementi del processo causale da cui scaturisce un certo evento: ogni spiegazione è sempre parziale, in quanto individua una particolare serie di antecedenti e mai la totalità degli antecedenti di un fenomeno. Ciò implica che il rapporto tra una certa condizione o un certo complesso di condizioni (considerate come cause del fenomeno) e il fenomeno da spiegare non è esprimibile in un giudizio di necessità, cioè in un giudizio il quale asserisca che, data quella condizione o quel complesso di condizioni, ne deriva immancabilmente come suo effetto quel fenomeno; esso deve venir formulato su una diversa base categoriale, cioè in un giudizio di possibilità oggettiva, La spiegazione di un avvenimento consiste perciò nella determinazione delle condizioni che lo hanno reso oggettivamente possibile, nonché del grado di rilevanza di ognuna di queste condizioni; tant'è vero che i giudizi di possibili tà oggettiva si dispongono lungo una scala i cui estremi sono costituiti dalla « causazione adeguata » e dalla « causazione accidentale », cioè dalla determinazione rispettivamente dell’indispensabilità o della non-indispensabilità di una certa condizione per il verificarsi del fenomeno da spiegare. Un oggetto storico, considerato nella sua individualità, non è soltanto — come si è visto — indeducibile da un sistema di leggi generali, ma non è neppure suscettibile di una spiegazione esaustiva. Le scienze storico-sociali possono spiegarlo sempre in maniera parziale, riportandolo a una o più serie particolari di condizioni; e i giudizi che enunciano tale rapporto sono appunto giudizi di possibilità oggettiva. Affermando l’orientamento individualizzante della spiegazione storica Weber non ha però inteso escludere il riferimento a leggi generali, o per lo meno a uniformità di comportamento dei fenomeni sociali : il sapere nomologico è anzi presupposto indispensabile per la stessa formulazione di giudizi di possibilità oggettiva. Ma esso ha una funzione puramente strumentale, nel senso che quelle che Weber chiama «regole generali dell’esperienza » intervengono nel procedimento esplicativo soltanto come supporto per la costruzione di processi tipico-ideali con i quali comparare il processo reale, e sono impiegate in vista della determinazione di un nesso causale tra fenomeni individuali. La relazione tra generale e individuale si INTRODUZIONE 39 presenta così in maniera inversa nelle scienze naturali e nelle scienze storico-sociali. Nelle prime il fenomeno viene ridotto a caso particolare di una legge, e anche il rapporto di causa ed effetto tra due fenomeni viene considerato come una semplice specificazione di un rapporto esprimibile in forma generale, cioè in forma di legge. Nelle seconde il riferimento a regole empiriche generali serve invece come mezzo: il sapere nomologico di cui la conoscenza storica si avvale è costituito del resto da tipi ideali, cioè da concetti formati attraverso un processo di astrazione dalla realtà empirica e di accentuazione unilaterale di alcuni suoi elementi. Weber non si è però limitato a fornire una caratterizzazione del procedimento esplicativo delle scienze storico-sociali in termini individualizzanti, sulla linea tracciata da Rickert; gli ha anche dato una struttura categoriale diversa da quello delle scienze naturali. Lo schema di spiegazione della conoscenza storica, definito in termini di giudizi di possibilità oggettiva, si presenta infatti come uno schema « condizionale ». Sotto questo profilo — che è probabilmente il più importante — la teoria weberiana della spiegazione rappresenta un radicale rifiuto del postulato di una struttura legale della realtà sociale, che il positivismo ottocentesco aveva sovente associato al modello di spiegazione su base deduttiva formulato da John Stuart Mill. Per Weber la realtà sociale non è il dominio di leggi necessarie: in esse si possono ritrovare soltanto uniformità di comportamento verificabili empiricamente, la cui elaborazione concettuale dà luogo alle leggi che costituiscono l'apparato teorico delle scienze storico-sociali. Perciò il procedimento esplicativo di queste discipline poggia non già su relazioni invariabili, bensì su possibilità oggettive; e i rapporti che esso pone in luce sono rapporti di condizionamento i quali esprimono il grado maggiore o minore di probabilità del verificarsi, sulla base di condizioni date, di un determinato fenomeno. Mentre Dilthey concludeva una fase del dibattito metodologico dello storicismo tedesco, Weber ne apriva contemporaneamente un’altra. Ci troviamo qui di fronte a una svolta decisiva nello sviluppo del movimento storicistico, a una svolta caratterizzata non soltanto dalla consapevole rottura con l'eredità della scuola storica, ma anche dallo sforzo di risolvere l'indagine critica nell’analisi metodologica del procedimento concreto delle scienze storico-sociali e del loro tipo di spiegazione, abbandonando le ambizioni di una loro « fondazione » filosofica. L'impostazione weberiana avrà conseguenze durature, e di ampia portata, sullo sviluppo di queste discipline, in primo luogo della sociologia. Del resto lo stesso Weber simpegnerà in seguito, sulla linea tracciata nei suoi primi saggi metodologici, nella definizione del compito e delle categorie della « sociologia comprendente », indicando il suo oggetto specifico nelle uniformità dell'agire umano dotate di senso e affermandone l’autonomia, anzi l’antitesi relativa, nei confronti della ricerca storica. Su questa base egli giungerà a fornire, in quella che è rimasta fino ad oggi l’opera più importante della sociologia novecentesca — cioè in Wirtschaft und Gesellschaft, pubblicata postuma nel 1921 — una sistemazione organica della teoria sociologica e dei principali campi d’indagine della nuova scienza. V. La problematica dello storicismo tedesco non si esaurisce tuttavia nel dibattito metodologico al quale abbiamo finora limitato la nostra attenzione. Al contrario, alla discussione sul metodo della conoscenza storica, sulla sua autonomia rispetto alle scienze naturali e sui suoi rapporti con le scienze sociali si affianca, fin dall’inizio, la consapevolezza che lo sviluppo di questo nuovo tipo di sapere non può non incidere sull'immagine dell’uomo e della realtà, la consapevolezza che la dimensione storica deve in qualche modo trovare diritto di cittadinanza in una concezione filosofica generale. Molti anni prima dell’Etz/eitung in die Geisteswissenschaften, in una lettera che risale al 1860, Dilthey aveva individuato la caratteristica fondamentale di questa nuova concezione filosofica nello sforzo di « comprendere l’uomo come un essere essenzialmente storico, la cui esistenza si realizza soltanto nella comunità». E in base a questo egli assumeva fin da allora una duplice posizione critica: da una parte nei confronti di ogni metafisica la quale pretenda di cogliere il significato della storia ancorandolo a un piano provvidenziale divino, dall’altra nei confronti di qualsiasi tentativo di ricondurre il processo storico a un principio assoluto ad esso immanente, Il rifiuto dell’interpretazione teologica della storia diventerà esplicito nell’Einleitung in die Geisteswissenschaften, in cui il sorgere delle scienze dello spirito viene collegato al processo di liberazione del sapere dalla metafisica tradizionale; ma era già implicito negli INTRODUZIONE 4Iscritti precedenti, nella stessa adesione del giovane Dilthey ai presupposti metodologici della scuola storica. Ad esso si accompagna però l'atteggiamento polemico verso Hegel, il rifiuto del postulato della razionalità della storia e di una visione del processo storico come successione razionalmente ordinata di incarnazioni dello « spirito del mondo ». Fin dal 1864, affrontando il problema dell’essenza della storia, Dilthey la identificava con il puro e semplice « movimento storico », inteso come «il lavorare di una generazione per la successiva, il concretarsi dell'individuo in rapporti sociali ricchi di contenuto, per cui egli lavora ». Questa presa di posizione anti-metafisica, sorretta dal richiamo alle prospettive neocriticistiche, verrà poi chiaramente in luce nell’Einleitung in die Geisteswissenschaften, in cui è asserita in modo esplicito la storicità dell’individuo e del mondo umano nel suo complesso, e in cui viene compiuto il tentativo di dare una definizione della storia che prescinda dal riferimento a princìpi speculativi. La vita dell’uomo si risolve nel processo storico, nell’instaurazione di rapporti con gli altri individui e nella costruzione dei sistemi di cultura e dei sistemi di organizzazione esterna della società; e ogni stato sociale è inserito in questo processo, per cui risulta « uno stato storico ». La storicità viene in tale maniera assunta a dimensione costitutiva non soltanto dell’uomo in quanto individuo, ma dello stesso mondo umano che è oggetto delle scienze dello spirito. Dilthey ritornerà più tardi, nell’ultima fase del suo pensiero, su queste implicazioni più generali della propria filosofia, cercando di darne una sistemazione organica. Ma già prima esse erano ben percepibili. Che lo storicismo avesse conseguenze di ampia portata — e soprattutto conseguenze negative — sulla considerazione di tutti gli aspetti della vita umana, che non soltanto richiedesse nuove prospettive di analisi ma mettesse contemporaneamente in crisi credenze e sistemi tradizionali, appariva chiaro già pochi anni dopo la pubblicazione dell’Einleitung in die Geisteswissenschaften. Ed era quasi inevitabile che il primo terreno a venirne investito dovesse essere quello religioso. La consapevolezza delle implicazioni filosofiche dello storicismo poneva infatti in questione il postulato del valore assoluto della fede cristiana e, insieme ad esso, la possibilità di una teologia. Dalla coscienza di questa crisi prende le mosse la speculazione di Ernst Troeltsch. Erede della teologia liberale, allievo di Albrecht Ritschl, Troeltsch avverte il carattere antinomico del rapporto tra storia e religione: se ogni forma di vita religiosa è storicamente condizionata, se può esser compresa soltanto in relazione ai diversi aspetti di una certa cultura o di una certa epoca, nessuna religione può aspirare a una validità incondizionata. E quindi anche il Cristianesimo diventa una religione come le altre, ossia un prodotto dello sviluppo storico, privo perciò di quel fondamento soprannaturale che doveva distinguerlo dalle religioni non cristiane. In questa prospettiva Troeltsch affronta — a partire dal saggio Christentum und Religionsgeschichte (1897) — il problema della specificità e della validità del Cristianesimo. Di questo problema Troeltsch ha dato soluzioni oscillanti e non sempre coerenti, dapprima indicando nel Cristianesimo non già la religione assoluta ma la religione più alta alla quale l’umanità sia pervenuta nel suo sviluppo storico, e recuperando così un quadro storico-evolutivo che aveva respinto nella sua polemica contro il tentativo di «conciliazione » tra storia e religione compiuto dalla concezione romantica, poi andando in cerca di un «@ priori proprio della vita religiosa che ne garantisca l’irriducibilità alle altre forme di attività umana e affermando la presenza di valori assoluti all’interno del processo storico. Pur nel variare delle soluzioni, l'orientamento del suo pensiero rimane abbastanza determinato. Esso muove infatti dal riconoscimento che, con il sorgere della coscienza storica moderna, anche la considerazione della religione e quindi la costruzione di una teologia devono collocarsi sul terreno della storia. Che cosa sia il Cristianesimo, quale sia la sua origine, se sia giustificata la sua pretesa di validità universale, se abbia ancora senso una teologia — tutte queste sono questioni da affrontare sulla base di una prospettiva storica, facendo rientrare il Cristianesimo nell’ambito di una storia generale della religione. Nel volume Die Absolutheit des Christentums und die Religionsgeschichte (1902) Troeltsch lascia cadere il tentativo di ricondurre tutte le religioni a un nucleo comune o a una linea unitaria di sviluppo, per guardare invece al Cristianesimo come a un fenomeno storico individuale, nel quale si realizza non già il possesso — impossibile in linea di principio — ma il grado più elevato di partecipazione alla verità religiosa. Il Cristianesimo è interpretato quindi come una religione storicamente condizionata, da indagare nel suo sviluppo e nelle sue diverse manifestazioni: qualsiasi fondazione della fede cristiana deve procedere ormai da questo riconoscimento, senza di cui essa è destinata a INTRODUZIONE 43 naufragare di fronte alla coscienza storica. Tuttavia la storia non costituisce, per Troeltsch, una realtà autosufficiente e chiusa in se stessa: al contrario, può riferirsi a valori assoluti, a una realtà trascendente che si colloca al di fuori del processo storico e che è accessibile soltanto in maniera parziale e in forme differenti. Troeltsch trova così nella teoria dei valori il punto di partenza di una giustificazione della vita religiosa. Fin dal saggio Die Selbstdindigkeit der Religion (1895) egli si era richiamato al neocriticismo; cercando il fondamento della religione e della sua autonomia in un principio trascendentale distinto da quelli che presiedono alla conoscenza o alla moralità o all'arte: ma un fondamento del genere rimaneva puramente formale, e non garantiva affatto la validità oggettiva delle credenze religiose, tanto meno quella di una determinata forma storica di religione. Anche in seguito il compito della filosofia della religione è additato nella determinazione della possibilità della vita religiosa come sfera a sé stante dell’attività umana; ma questa viene individuata non tanto nella struttura della vita psichica — come farà Dilthey nei saggi dedicati alla teoria dell’intuizione del mondo e, in particolare, nel breve saggio Das Wesen der Religion (1911) — quanto nella relazione con valori trascendenti. In tal modo il rapporto tra coscienza religiosa e valori si configura come un caso specifico di un rapporto più generale, cioè del rapporto tra l’uomo nella sua esistenza storica e un mondo al di là della storia, dal quale egli deve trarre i propri criteri normativi. La posizione assunta da ’Troeltsch negli scritti di filosofia della religione degli anni ’90 e dei primi anni del nuovo secolo era, per molti aspetti, emblematica. Nell’intento di salvaguardare la vita religiosa dall’urto della coscienza storica e dalle conseguenze relativizzanti che essa sembrava comportare, Troeltsch iniziava un processo di recupero di prospettive metafisiche all’insegna della teoria dei valori, che sarebbe stato ripreso con maggior coerenza dall'ultimo Windelband e dal Rickert del dopoguerra (oltre che da lui stesso, nei successivi scritti di filosofia della storia). Egli si rendeva ben conto che il riconoscimento della storicità dell’uomo e del mondo umano era un'acquisizione definitiva, e che per ritrovare nuove certezze occorreva pur sempre muovere da tale base. Il tentativo idealistico di conciliare storia e religione — comune a Schleiermacher e allo Hegel delle Vorlesungen tiber die Philosophie der Religion — gli appariva una sostanziale mistificazione della vita religiosa e della 44 INTRODUZIONE sua storia, arbitrariamente interpretata come la manifestazione progressiva di un’ipotetica «essenza» della religione. Agli occhi di Troeltsch la realtà storica era una realtà finita, distinta dal mondo trascendente dei valori e in un rapporto problematico con questi; di conseguenza, il divino gli si presentava come qualcosa di lontano, di accessibile soltanto parzialmente e con fatica, in una dimensione diversa da quella del sapere scientifico. La concezione romantica della storia, la concezione del processo storico come sede di realizzazione di un piano provvidenziale, era così respinta esplicitamente: tanto la filosofia hegeliana della storia, che nella successione dei singoli «spiriti dei popoli» scorgeva la marcia incessante dello « spirito del mondo », quanto la visione rankiana che in ogni epoca ritrovava un rapporto immediato con la divinità, appartenevano per lui a un passato ormai concluso. Il nuovo storicismo veniva perciò a differenziarsi nettamente, nella sua concezione della storia, da quello della prima metà del secolo XIX; e questa eterogeneità traspariva con chiarezza dalla presa di posizione nei confronti di Hegel, Esso era così destinato a incontrarsi — in un dialogo che non cesserà mai di essere più o meno polemico — con il materialismo storico, il quale pure aveva preso le mosse dalla crisi della filosofia idealistica della storia e dalla critica dei suoi presupposti. Negli anni in cui l'emergere del problema del capitalismo moderno, della sua origine e delle sue caratteristiche distintive costringeva la cultura accademica tedesca a fare i conti con l’analisi marxiana (ed engelsiana) del sistema capitalistico e del suo sviluppo, il materialismo storico si trovava da parte sua impegnato in un difficile compito di revisione delle proprie prospettive. Il crollo del capitalismo, che nel 1848 era potuto sembrare imminente, si allontanava sempre più nel tempo, trasformandosi in un obiettivo di lungo periodo; il sistema capitalistico si rivelava in grado di assorbire le spinte del movimento operaio e di sopravvivere ai periodi di depressione economica; la previsione di un progressivo accentuarsi della divisione della società in due classi contrapposte appariva priva di fondamento. Lo stesso Engels era costretto a riconoscere, nel 1895, la discrepanza tra teoria e realtà, tra le aspettative rivoluzionarie e il consolidamento del capitalismo. In questa situazione uno dei maggiori esponenti della socialdemocrazia tedesca, Eduard Bernstein, avviava tra il 1896 e il 99 un processo di revisione dei princìpi dottrinali del marxismo, i cui risultati — pubblicati dapprima sulla rivista INTRODUZIONE 45 « Neue Zeit » — confluiranno in seguito nel volume Die Voraussetzungen des Sozialismus und die Aufgaben der Sozialdemokratie (1889). La polemica di Bernstein si rivolge contro le interpretazioni del materialismo storico in chiave deterministica, contro la trasformazione della teoria materialistica della storia in una dottrina della necessità storica, esprimibile in presunte «leggi» di sviluppo. A tale polemica si accompagna lo sforzo di sottrarre il materialismo storico al postulato della riconducibilità di ogni fenomeno a cause (in ultima analisi) economiche, di cui gli altri aspetti della vita sociale sarebbero semplici manifestazioni sovra-strutturali, Contro la distinzione tra struttura economica e sovrastruttura Bernstein fa valere infatti la tesi della molteplicità dei « fattori » del processo storico, rivendicando quindi l’autonomia della sfera politica e soprattutto della sfera ideologica rispetto ai processi economici. Ogni fenomeno dev'essere spiegato come il risultato dell'incontro e della cooperazione di cause diverse, tra cui quelle economiche rivestono certamente un’importanza essenziale, ma in nessun modo esclusiva e determinante. Questa riformulazione del materialismo storico, che tendeva chiaramente a presentarlo non più come una concezione generale ma come una teoria scientifica della storia, era destinata ad avere larga risonanza — fin dai primi anni del nuovo secolo — anche nell’ambito del movimento storicistico. Certo non in Dilthey, concentrato nella realizzazione del programma di una «critica della ragione storica », e neppure in Windelband o in Rickert, che si proponevano di sviluppare una filosofia della storia sulla base della teoria dei valori; ma piuttosto nei suoi esponenti più giovani, da Max Weber allo stesso Troeltsch. E ancora una volta la religione diventava il terreno principale di questa discussione, il terreno sul quale lo storicismo, impegnato in un’interpretazione storica dei fenomeni religiosi, doveva però evitare al tempo stesso la loro riduzione a processi puramente economici e assicurarne in qualche modo l'autonomia. Fin dal 1904 Max Weber, ritornato al lavoro dopo una parentesi di alcuni anni, affrontava il problema dell’origine del capitalismo e dello «spirito capitalistico », e formulava la celebre tesi della derivazione di quest’ultimo dalla ricerca calvinistica di una «conferma» della salvezza individuale attraverso il successo conseguito nell’agire mondano, in particolare nell’attività professionale. In questa prospettiva il rapporto tra fenomeni economici e fenomeni religiosi risultava 46 INTRODUZIONE rovesciato: lungi dal determinare lo sviluppo della religione, il capitalismo è esso stesso condizionato all’origine — in uno dei suoi elementi costitutivi — da un fenomeno religioso qual è l’etica calvinistica. Tuttavia Weber era ben lontano da una concezione spiritualistica della storia, del tipo di quella enunciata da Rudolf Stammler in Wirtschaft und Recht nach der materialistischen Geschichtsauffassung (1896) — nei cui confronti egli assumerà anzi una posizione aspramente critica in un saggio del 1907. Weber concepiva piuttosto la relazione tra economia e religione (al pari di quella tra l’economia e qualsiasi altra sfera della realtà sociale) come un nesso di condizionamento reciproco, del quale si deve di volta in volta indagare la direzione e la portata. Riconducendo l’origine non già del capitalismo ma di una sua particolare componente, cioè dello spirito capitalistico, all’etica calvinistica, Weber respingeva il materialismo storico come concezione generale della storia, ma riconosceva la sua validità (e fecondità) in quanto principio euristico, in quanto ipotesi interpretativa. In una sostanziale convergenza con Bernstein — anche se muovendo da una posizione di critica al materialismo storico, non già di revisione interna — egli rifiutava di ammettere un condizionamento univoco dei processi storici, e quindi anche di quelli religiosi, da parte di una presunta struttura economica della storia, e affermava l’impossibilità di ricondurre qualsiasi fenomeno a cause solamente economiche; ma rivendicava l’importanza di un’indagine diretta ad accertare il peso del condizionamento economico sulle diverse sfere della vita sociale. L’unilateralità del materialismo storico gli appariva nient’altro che un caso specifico della unilateralità di ogni criterio di interpretazione: non la sua limitatezza, ma la sua assolutizzazione è da respingere. E difatti nei successivi saggi sull’etica economica delle religioni universali — che confluiranno nei Gesammelte Aufsitze zur Religionssoziologie (1920) — Weber allargherà il proprio ambito di considerazione, affrontando lo studio sia delle influenze che la situazione economica e i rapporti di classe e di ceto esercitano sulla formazione e sullo sviluppo delle dottrine religiose, sia del modo in cui queste orientano l’attività economica di determinati gruppi sociali, il loro atteggiamento tradizionalistico o razionalistico nei confronti del guadagno e del lavoro professionale. In quei medesimi anni anche Troeltsch si accingeva a un’analisi storica delle dottrine economico-sociali sorte sul terreno del Cristiane INTRODUZIONE 47 simo. Lo separava da Weber non soltanto un’originaria diversità di interessi, ma anche una differente valutazione della Riforma protestante, che questi considerava un elemento decisivo per la formazione dello spirito capitalistico e quindi della civiltà moderna, mentre Troeltsch vi scorgeva piuttosto — nel volume Die Bedeutung des Protestantismus fiir die Entstehung der modernen Welt (1906) — la continuazione di una cultura su base teologica quale quella medievale. Ma la lunga consuetudine degli anni di Heidelberg, dove Troeltsch insegnò dal 1894 al 1915, lo portò ad attenuare questo giudizio e a riconoscere le possibilità di sviluppo in senso liberale e democratico del Calvinismo, contrapposto al Luteranesimo conservatore. Così, mentre Weber estendeva la propria analisi alle religioni della Cina e dell’India, oltre che alla religiosità ebraica, Troeltsch dedicava alla sociologia del Cristianesimo un’opera di ampio respiro, Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen (1908-12). Anch’egli si proponeva di indagare lo sviluppo del Cristianesimo, dall’epoca primitiva al Cattolicesimo medievale e poi alla Riforma, nei suoi mutevoli rapporti con la vita economica e con l’organizzazione della società, ponendo in luce il trapasso dall’originario atteggiamento di indifferenza rispetto al « mondo » a uno sforzo sistematico di subordinarlo a fini religiosi. E in quest’impresa si trovava a dover fare i conti con il materialismo storico, a rivendicare nei suoi confronti quell’autonomia della religione che costituiva la preoccupazione dominante degli scritti degli anni '90. Ma la posizione di Troeltsch veniva a divergere in maniera significativa — al di là delle dichiarazioni di principio — da quella di Weber, in quanto egli postulava l’esistenza di una causalità autonoma della vita religiosa e concepiva così il condizionamento reciproco tra i vari tipi di fenomeni storici come incontro di serie causali indipendenti. Se la critica di Weber si collocava sullo stesso versante metodologico di Bernstein, quella di 'Troeltsch era piuttosto assimilabile alla concezione spiritualistica di uno Stammler, in quanto si richiamava a una definizione ontologica della struttura del processo storico. Questa divergenza, ancora celata negli anni fino al 1915, verrà chiaramente in luce più tardi, condizionando l’elaborazione della filosofia della storia di Troeltsch e orientandola verso un esito assai diverso da quello a cui era pervenuto Weber. 48 INTRODUZIONE VI. Allargando la propria considerazione dal metodo della conoscenza storica alla struttura oggettiva della realtà studiata dalle scienze storico-sociali, il movimento storicistico si trovava impegnato nella critica delle concezioni della storia prodotte dalla cultura filosofica della seconda metà del Settecento e della prima metà dell’Ottocento, In tale maniera si compiva, da un lato attraverso il rifiuto della visione del processo storico come manifestazione o realizzazione di un principio assoluto, dall’altro attraverso la riduzione del materialismo storico in termini metodologici, la dissoluzione della « storia universale ». Il processo storico tendeva ad articolarsi in una molteplicità di processi particolari, in una molteplicità di rapporti e di direzioni di sviluppo non riconducibili a una matrice unitaria — sia essa il cammino dello « spirito del mondo » o la presenza della divinità o anche soltanto l’azione determinante della struttura economica. Non più la storia come totalità, ma la storicità dell’uomo e del mondo umano nelle sue dimensioni concrete diventava il centro di riferimento di una considerazione filosofica della storia. Il problema del «senso» della storia, di un senso inerente al processo storico in quanto tale ed esprimibile in una direzione di sviluppo o in un termine ultimo, lasciava perciò posto alla ricerca del significato dei singoli avvenimenti, delle singole epoche e dei loro rapporti reciproci. Questo mutamento di impostazione non rivestiva soltanto un carattere negativo: al contrario, esso dava luogo a un'analisi strutturale del mondo umano e della sua storicità, alla determinazione dei modi concreti in cui questa permea la vita degli individui e della società. Tale sforzo speculativo accomuna, al di là delle differenze, autori come Dilthey o Simmel o lo stesso Weber, e costituisce — accanto al dibattito sul metodo della conoscenza storica — il secondo nucleo problematico dello storicismo tedesco.L'analisi strutturale dell’uomo e del mondo umano viene condotta lungo tre direttrici principali. La prima è rappresentata da Dilthey, il quale tende sempre più chiaramente — dopo l’Einleitung in die Geisteswissenschaften — a trasformare la critica della ragione storica in una filosofia dell’uomo come essere storico, riportando le categorie delle scienze dello spirito alla struttura del mondo umano che costituisce il loro oggetto complessivo. La seconda è rappresentata da Simmel che, dopo il 1910, compie il trapasso dalla prospettiva relativistica formulata nel periodo precedente a una metafisica di tipo immanentistico, la quale individua nel rapporto tra la « vita » e le sue « forme » la struttura fondamentale dell’esistenza. La terza è rappresentata da Weber, il quale muove dall’analisi della relazione ai valori per definire su tale base l’esistenza dell’uomo, e con essa il significato da un lato della scienza e dall’altro della politica. Le tre direttrici di analisi si distinguono, già a prima vista, per il diverso atteggiamento che assumono nei confronti del relativismo. Dilthey afferma la relatività di ogni fenomeno storico e l'immanenza dei valori alla storia; ma il suo relativismo è enunciato soprattutto in chiave negativa, e viene a coincidere con il riconoscimento della finitudine dell’uomo e del mondo umano — in sostanza, esso non è altro che il rifiuto di una concezione metafisica della storia la quale pretenda di determinarne il senso attraverso il riferimento a qualche principio assoluto. In Simmel lo storicismo viene invece identificato col relativismo, e la conseguenza di ciò è che l’affermazione della relatività della vita si trasforma nella sua assunzione a fondamento di ogni realtà: dal relativismo, teorizzato in forma positiva, si sviluppa così una filosofia della vita di stampo chiaramente romantico. Un esplicito atteggiamento anti-relativistico caratterizza invece il pensiero di Weber: ai suoi occhi il relativismo poggia su una teoria organicistica, che egli respinge per sostenere l’irriducibilità dei valori al processo storico e per qualificare il rapporto dell’uomo con i valori come una presa di posizione che comporta una scelta tra i diversi valori e le diverse sfere di valori. Il riferimento ai valori perde quindi quella funzione di garanzia della validità incondizionata della conoscenza e dell’agire umano, che Windelband e Rickert gli avevano attribuito. Fin dall’Einleitung in die Geisteswissenschaften Dilthey si è proposto di determinare, sia pure in maniera sommaria, la struttura del mondo umano come realtà storica. Questa struttura è caratterizzata dalla polarità tra l'individuo e i «sistemi» costituiti in virtù delle relazioni che si instaurano tra gli individui. L'individuo è il nucleo fondamentale, il Grundkòrper del mondo umano, e quindi della storia. Ma l’individuo assume un’esistenza storica soltanto nella misura in cui entra in rapporto con altri individui, cercando di soddisfare i propri bisogni attraverso la divisione del lavoro e nel corso delle generazioni. Da quest’azione reciproca, da queste relazioni che acquistano una loro consistenza autonoma rispetto ai singoli uomini, sorgono due tipi di sistemi, i sistemi di cultura e i sistemi di organizzazione esterna della società. I sistemi di cultura — vale a dire l’arte, la religione, la filosofia, la scienza e così via — nascono da una comunanza di scopi presenti in una molteplicità di individui, che vi trovano la base della loro cooperazione. I sistemi di organizzazione sociale — cioè le varie istituzioni, dalla famiglia allo stato e alla chiesa — si reggono invece non soltanto su interessi comuni, ma anche su rapporti di dominio e di subordinazione, e hanno quindi sempre un carattere più o meno coercitivo. Gli uni e gli altri si sviluppano nel corso temporale della vita, hanno cioè una dimensione storica: anche se il grado della loro permanenza nel tempo è assai superiore a quello dell’esistenza individuale, non per questo acquistano un’esistenza metastorica. Questa struttura del mondo umano si riflette nell’edificio delle scienze dello spirito, il quale comprende da un lato due discipline — la psicologia e l’antropologia — che studiano in modo specifico l’individuo, dall’altro la ricerca storica e le scienze dei vari sistemi di cultura e di organizzazione sociale. In seguito, negli scritti del periodo 1905-1911, Dilthey è pervenuto a concepire le categorie delle scienze dello spirito come la traduzione delle forme strutturali del mondo umano. La vita, la temporalità, l'essenza e lo sviluppo, il valore, lo scopo, il significato non sono categorie astratte, applicabili a un oggetto qualsiasi; esse sono radicate nella struttura stessa del mondo umano, la quale condiziona perciò il procedimento conoscitivo delle scienze dello spirito. Su questa base il mondo umano viene inteso come il prodotto del processo di oggettivazione della vita, vale a dire come « spirito oggettivo» — anche se in senso del tutto differente da quello hegeliano, ossia come il complesso delle manifestazioni storiche dell’attività umana — e la sua struttura è definita facendo ricorso alla nozione di « connessione dinamica ». Questa nozione, introdotta dapprima per caratterizzare la struttura della vita psichica e in seguito estesa a ogni espressione della vita, designa un insieme organizzato di elementi che ha il proprio centro in se stesso, che si prefigge scopi suoi propri e che produce valori peculiari. È quindi una connessione dinamica sia il mondo umano nel suo complesso sia ogni suo elemento singolo, dall’individuo ai sistemi di cultura e ai sistemi di organizzazione sociale; anzi, il mondo umano è una connessione dinamica la quale si articola, al suo interno, in una INTRODUZIONE SI molteplicità di connessioni che ne ripetono i caratteri strutturali. Non soltanto la vita storica è orientata in vista di determinati scopi e crea valori, ma ogni connessione dinamica è contraddistinta da scopi e valori particolari, che la differenziano da tutte le altre. Riprendendo i risultati dell'analisi strutturale condotta nell’Ein/eitung in die Geisteswissenschaften, Dilthey riconduce i vari elementi del mondo umano al concetto unificante di connessione dinamica. Ma accanto ai sistemi di cultura e ai sistemi di organizzazione sociale si collocano ora anche le epoche storiche, che vengono a costituire la struttura diacronica del mondo umano: se i due tipi di sistemi rappresentano le forme permanenti di relazione tra gli individui, le epoche storiche dànno alla loro attività una fisionomia diversa nel tempo. E difatti ogni epoca, pur essendo collegata da molteplici rapporti sia con quelle precedenti sia con quella che la segue — come Dilthey pone in luce analizzando l’esempio dell’Illuminismo — è caratterizzata da un proprio orizzonte, nel quale rientrano tutte le sue manifestazioni. Di conseguenza, queste traggono il loro significato dall’appartenenza a una data epoca, e possono essere comprese soltanto in relazione ai suoi scopi e ai suoi valori peculiari. La tesi dell’autocentralità delle epoche storiche sfocia quindi nell’affermazione della relatività di ogni fenomeno storico. Questa conclusione vale anche per il sapere, e più specificamente per la filosofia. Negli ultimi anni di vita Dilthey ha cercato di porre in luce le implicazioni che il riconoscimento della fondamentale storicità dell’uomo e del mondo umano comporta per la filosofia e per la sua tradizionale aspirazione a una validità universale. Dapprima nel saggio Das Wesen der Philosophie (1905), in seguito in Das geschichtliche Bewusstsein und die Weltanschauungen e in Die Typen der Weltanschauung und ihre Ausbildung in den metaphysischen Systemen (entrambi del rgri), Dilthey ha tracciato le linee di una «filosofia della filosofia » impostata sulla considerazione della filosofia come una forma non già di sapere scientifico, bensì di intuizione del mondo. La filosofia, infatti, non è in grado di offrire alcuna conoscenza oggettiva: il suo sforzo di affrontare il mistero del mondo e della vita è accostabile più a quello dell’arte e della religione che non al procedimento d'indagine delle scienze della natura o delle scienze dello spirito. Arte, religione e filosofia trovano così la loro unità non nello « spirito assoluto » a cui Hegel le aveva ricondotte, bensì nell’intuizione del mondo, cioè in un atteggiamento di fronte alla vita che è caratterizzato da un complesso di conoscenze, di modi di sentire e di princìpi di condotta. Tutte e tre sorgono su questa base, proponendosi di dare per vie diverse unarisposta al mistero del mondo e della vita: l’arte lo fa in forma intuitiva, la religione andando in cerca di un rapporto con l’invisibile, la filosofia formulando soluzioni che aspirano a una validità universale. Perciò la filosofia risulta anch’essa condizionata dal tipo di intuizione del mondo che esprime, e la sua pretesa di dare una soluzione del problema della realtà che valga per sempre è contraddetta dalla stessa molteplicità delle dottrine filosofiche. Questo condizionamento è però duplice, in quanto procede per un verso dalla struttura della vita psichica e per l’altro verso dal processo storico. In quanto esprime concettualmente un'intuizione del mondo, ogni dottrina filosofica rientra in un tipo particolare di visione della realtà, caratterizzata dall’importanza preminente accordata a un certo aspetto della struttura psichica; rientra cioè nell’ambito o del naturalismo o dell'idealismo oggettivo o dell'idealismo della libertà, che corrispondono alle tre possibili forme di atteggiamento dell’uomo nei confronti del mondo. Nel medesimo tempo ogni dottrina filosofica, appartenendo a una data epoca storica, ne riflette i problemi e le caratteristiche peculiari. La storia della filosofia viene perciò a configurarsi come lo sviluppo e la lotta reciproca di tre tipi fondamentali di metafisica, che ricorrono in veste nuova nelle varie epoche. Da quest’analisi Dilthey trae la conclusione che la filosofia deve abbandonare la pretesa metafisica di determinare un principio incondizionato della realtà. Anch’essa deve, in altri termini, riconoscere la propria storicità, accogliendo i risultati della coscienza storica moderna. Dilthey riprende così, a proposito della filosofia, le considerazioni che Troeltsch aveva formulato in riferimento alla religione. Ma, a differenza di Troeltsch, egli si guarda bene dal proporsi una « fondazione » della filosofia che ne ristabilisca la validità universale, rivelatasi ormai illusoria: egli intende piuttosto costruire una « filosofia della filosofia » intesa come «l’autoriflessione storica della filosofia sopra di sé», che si sviluppa in primo luogo attraverso l’approfondimento del significato storico delle diverse dottrine filosofiche. In questa prospettiva si inquadrano i molteplici studi che Dilthey è venuto conducendo, soprattutto dopo il 1890, sulla concezione dell’uomo nel Rinascimento e nella Riforma, sull’età di Leibniz e sulla cultura illuministica tedesca, e infine sulla concezione INTRODUZIONE 53 filosofica romantica e sull’influenza che questa ha esercitato sulla formazione di Hegel. La relatività della filosofia è considerata non già come la conseguenza negativa della coscienza storica moderna, come una conclusione paralizzante a cui ci si debba sottrarre, ma come la condizione indispensabile di una nuova impostazione di ricerca filosofica. Nei medesimi anni — a partire dalla Philosophie des Geldes (1900) fino agli Hauptprobleme der Philosophie (1910) e alla raccolta di saggi PAilosophische Kultur (1911) — anche Simmel era impegnato nel delineare una prospettiva rigorosamente relativistica. Ma il relativismo di Simmel aveva una base più psicologica che storica, ed era alimentato dal richiamo ad autori di matrice romantica come Goethe, Schopenhauer e soprattutto Nietzsche. Il suo punto di partenza era infatti rappresentato da un’interpretazione psicologica delle categorie: anche se le forme del conoscere assolvono una funzione distinta dal contenuto, e servono anzi a organizzarlo, non per questo sono eterogenee rispetto ad esso. Le categorie derivano dall’esperienza, e hanno quindi un'origine psicologica, non già un carattere trascendentale. Questa impostazione — che comportava un netto distacco dal neocriticismo e dal suo sforzo di distinguere il piano della validità del conoscere da quello del procedimento psicologico con cui lo si attinge — conduceva Simmel ad affermare la relatività non soltanto della conoscenza, ma di ogni attività umana. La verità scientifica è relativa all'assunzione di determinati presupposti, i quali rivestono carattere psicologico e non posseggono alcuna validità universale; analogamente, il valore di un'azione morale o di un atto economico dev'essere commisurato a criteri che sono anch'essi sempre relativi. La stessa filosofia può pervenire a una verità soltanto relativa, la quale consiste nella capacità di esprimere l'elemento tipico di una certa persona e di renderlo comunicabile ad altri individui. In questo relativismo Simmel individuava l’essenza della civiltà moderna, il risultato di un secolare processo di distacco dalla fede in una verità universale e in valori incondizionati. Lo stesso «rovesciamento dei valori » proclamato da Nietzsche era interpretato — in maniera storicamente discutibile — come l’affermazione della relatività di ogni criterio di condotta etica. Ma il relativismo simmeliano del primo decennio del secolo era pur sempre definito in modo prevalentemente negativo; e in ciò stava la sua genericità e 54 INTRODUZIONE insieme la sua ambiguità. Infatti il riconoscimento della relatività di tutti gli aspetti della vita umana tendeva a trasformarsi in un principio assoluto, ed esprimeva né più né meno che l’impossibilità di trascendere la vita, considerata come l’orizzonte onnicomprensivo di ogni attività umana. Erano così poste le premesse per il passaggio da una prospettiva relativistica a una metafisica della vita, che Simmel compie negli anni successivi al 1910 e che si manifesta soprattutto nei saggi apparsi su « Logos», nel volume Kan: und Goethe (1916) e infine nella Lebensanschuung (1918). Di questa metafisica egli rintraccia i presupposti remoti nella concezione romantica della realtà, in particolare nell’organicismo di Goethe; e da Goethe, l’antitesi del razionalismo kantiano, trae la visione della vita come un processo continuo che si realizza in una molteplicità di forme, le quali si distaccano dal divenire per acquistare una propria autonoma consistenza. La dialettica tra la vita e le forme diventa così il tema centrale dell'ultima fase del pensiero simmeliano. La vita è intesa come un corso infinito e ininterrotto, che produce forme finite e che, dopo averle create, tende a distruggerle. Le forme nascono così dal divenire della vita ma nel medesimo tempo gli si contrappongono, e devono quindi resistere allo sforzo incessante che la vita fa per riassorbirle in sé e per produrre altre forme. La vita è per Simmel contemporaneamente « più-vita » (Me4rLeben) e « più-che-vita » (Me4r-als-Leben): è « più-vita » nel senso che è continuo superamento di ogni limite che essa stessa pone; è « più-che-vita » nel senso che si auto-trascende producendo una molteplicità di forme finite le quali diventano indipendenti da essa. Da questa dialettica emergono i « mondi ideali », prodotto dell’organizzazione sistematica delle forme, che nel loro insieme costituiscono lo «spirito»: ognuno di questi mondi è trascendente rispetto al puro e semplice divenire della vita, e ha la propria base in un principio fondamentale comune a tutte le sue forme, Tra questi mondi ideali vi è anche il mondo della storia, nel cui ambito gli avvenimenti acquistano un proprio significato elevandosi al di sopra del divenire della vita. In tal modo la storicità, lungi dall'essere un attributo o una dimensione della vita, viene a qualificare un piano di realtà trascendente rispetto ad essa, in cui la temporalità del divenire — non dissimile dalla «durata reale» di Bergson, un filosofo verso il quale Simmel nutriva una non casuale simpatia — lascia posto al tempo propriamente storico. Ben diverso è l’esito a cui perviene Weber riprendendo in esame, durante e dopo la guerra, il problema del rapporto con i valori, e dando ad esso una portata più generale. Dopo i grandi saggi metodologici degli anni 1903-06 Weber aveva concentrato i suoi interessi da un lato sull’analisi dell'etica economica delle religioni universali, in riferimento al problema dell'individualità del capitalismo moderno, dall’altro sulla determinazione delle categorie sociologiche (alla quale è dedicato il saggio Uber einige Kategorien der verstehenden Soziologie del *13). Lo scoppio del conflitto aveva poi accentuato — come vedremo — il suo impegno politico, che farà di lui, fino alla morte, uno dei maggiori protagonisti del dibattito post-bellico in Germania. Sollecitato da questo impegno, egli ritorna nel 1917, in un saggio dal titolo Der Sinn der « Wertfreiheit » der soziologischen und òkonomischen Wissenschaften, sul tema della « avalutatività » delle scienze storico-sociali, per ribadire la differenza di principio tra il compito di queste discipline e la funzione dei giudizi di valore. Ma il discorso si allarga ben presto a un tentativo di enucleare le implicazioni filosofiche della propria impostazione metodologica, che Weber sviluppa sia in quel saggio sia in due conferenze tenute a Monaco nel 1919 sulla « scienza come professione » e sulla « politica come professione ». Diversamente da Dilthey (c anche da Simmel), Weber non si propone di fornire un'analisi strutturale del mondo umano muovendo dall’analisi del procedimento delle scienze storico-sociali: il campo di ricerca di queste discipline non può essere per lui oggetto di un tipo di considerazione distinto da quella metodologica, ma può essere individuato nelle sue relazioni interne soltanto nell’ambito di questa, In altri termini, non esiste una struttura oggettiva del mondo umano o della realtà storica a cui la filosofia possa riferirsi prescindendo dal — o pretendendo di andare oltre il — lavoro delle varie discipline, in un tentativo di unificarne i molteplici (e anche variabili) punti di vista. Tuttavia la relazione di valore inerente al procedimento conoscitivo delle scienze storico-sociali offre la base per un discorso più ampio, che assume il rapporto con i valori come fondamento di un’analisi dell’esistenza umana e della sua stessa storicità. Come si è visto, Weber si era avvalso della nozione rickertiana di relazione ai valori per distinguere le scienze storico-sociali per un verso dalle scienze naturali, per l’altro verso dalla presa di posizione pratica che è costitutiva della politica e dai giudizi di valore in 56 INTRODUZIONE cui questa si esprime. Le scienze storico-sociali si differenziano dalle scienze naturali in quanto hanno a loro fondamento una relazione con certi valori i quali presiedono alla selezione del dato empirico, orientando la ricerca in una determinata direzione; si differenziano dall’agire politico in quanto sono neutrali nei confronti dei fenomeni che esse studiano. L’oggettività delle scienze storico-sociali è perciò garantita, in primo luogo, dal fatto che il loro rapporto con i valori è eterogeneo rispetto a quello implicito nei giudizi di valore. Ne deriva una duplice conseguenza, e cioè che — prescindendo dalle scienze naturali, a proposito delle quali Weber accoglie acriticamente l’interpretazione che ne aveva dato il positivismo ottocentesco — l’attività umana è qualificata, in generale, da un rapporto con i valori, ma che questo rapporto assume una configurazione diversa nelle sue varie sfere. Si pone così a Weber il problema, fin allora rimasto in ombra, di determinare le forme di tale relazione e di ricondurle eventualmente a una comune modalità. La risposta a questo problema segna il distacco definitivo di Weber dalla teoria dei valori qual era stata elaborata da Windelband e da Rickert, e soprattutto dal suo sviluppo in senso metafisico, verso cui Rickert si avviava in quello stesso periodo, Per Weber il rapporto con i valori non rappresenta più in alcun modo un fondamento assoluto, capace di garantire la validità incondizionata del sapere o dell’agire umano: al contrario, in ogni momento della propria esistenza l’uomo si trova a dover compiere una scelta tra valori e tra sfere di valori in conflitto reciproco. I valori cessano infatti di apparire come un mondo organizzato sistematicamente, fornito di una propria coerenza interna: le sfere di valori sono molteplici e non riconducibili a un ordine gerarchico, così come i valori che appartengono a ogni sfera possono essere non soltanto diversi, ma addirittura inconciliabili tra loro. Nel suo rapporto con i valori l’uomo è obbligato a una scelta incessante, poiché l'assunzione di determinati valori come criterio di orientamento del processo conoscitivo o dell’agire politico comporta nel medesimo tempo la negazione o il rifiuto di altri. La relazione tra l’uomo e i valori viene perciò a configurarsi sempre come una relazione problematica, definita in termini di scelta da parte dell’uomo. Su questa base Weber ha cercato di individuare il senso della scienza e, parallelamente ad esso, il senso della politica. La scienza riveste ovviamente un'importanza tecnica, in quanto consente l’elaborazione di determinati strumenti suscettibili di uso pratico. Ma il suo significato non si esaurisce in questo; anzi, la stessa funzione tecnica della scienza — si tratti di scienze naturali oppure di scienze storico-sociali — rimanda alla questione se si debba o no dominare tecnicamente la vita, e in vista di quali scopi. Muovendo da quest’analisi Weber ha indicato, nel saggio Wissenschaft als Beruf (1919), il senso della scienza nella sua capacità di fornire all’uomo la «chiarezza », vale a dire la consapevolezza del proprio agire e soprattutto del rapporto tra gli scopi che si prefigge e i mezzi dei quali si serve per conseguirli, In tal modo la scienza, pur non potendo formulare giudizi di valore, assolve una funzione critica nei confronti dei valori, in quanto pone in luce le condizioni e le conseguenze della loro realizzazione: se non la validità, almeno la realizzabilità dei valori cade quindi sotto la sua considerazione. Ma anche il senso della politica risulta definito in base a un rapporto con i valori, seppure di diverso genere. Nel saggio Politik als Beruf (anch’esso del ’19) Weber muove dalla constatazione che la politica consiste sempre in rapporti di forza, in quanto ogni agire politico è diretto all’acquisizione o al mantenimento di un potere garantito coercitivamente; ma perviene a riconoscerne il senso nella dedizione a una «causa», a un compito che dev'essere assolto appunto attraverso la conquista e l’esercizio del potere. Il semplice dominio sugli altri non costituisce lo scopo ultimo dell’agire politico più di quanto l’utilizzazione tecnica di certi strumenti non costituisca il fine principale della scienza: anch'esso acquista significato soltanto se vien posto in rapporto con i valori. E infatti la dedizione a una « causa », che dà all’agire politico la sua coerenza interna, coincide sempre con una presa di posizione in favore di determinati valori e contro altri. Così stando le cose, l’agire politico non può non entrare in una relazione positiva o negativa con l’etica. E infatti il rapporto tra etica e politica diventa un tema centrale nell'ultima fase della riflessione filosofica di Weber — fin dall'articolo Zwischen zwei Gesetzen del 1916 — intrecciandosi strettamente con l’analisi del rapporto dell’uomo con i valori. Weber muove dalla distinzione tra due forme fondamentali di etica, che obbediscono a criteri del tutto differenti: l’etica della « coscienza » o dell’intenzione e l’etica della responsabilità, La prima è caratterizzata dall'assunzione di un certo valore come scopo assoluto, da perseguire sempre e in ogni caso, senza tener conto dei mezzi che occorrono per la sua realizzazione; la seconda è caratterizzata invece dalla considerazione del rapporto tra il valore assunto come fine e le sue condizioni o, una volta che sia realizzato, con le sue conseguenze. L'etica dell’intenzione si esprime in norme incondizionate, le quali prescrivono un determinato comportamento prescindendo dalla possibilità di attuarlo di fatto: la sua manifestazione più elevata è indicata da Weber nel Sermone della montagna, nell’etica evangelica indifferente alle condizioni del « mondo ». Essa è un'etica irrelativa, che non tiene conto dell’esistenza di altre sfere di valori o, al massimo, pretende di subordinarle tutte al proprio imperativo assoluto: come tale, è indifferente anche alla politica, se non addirittura ostile ad essa. Al contrario, l’etica della responsabilità si esprime in norme le quali tengono presenti sia le condizioni di realizzazione dei valori a cui l'agire si riferisce, sia le conseguenze che questa comporta: il suo interesse è rivolto non soltanto al perseguimento, ma anche all’attuazione effettiva di tali valori. Essa riconosce quindi l’esistenza di altre sfere di valori, e in particolare l'importanza dell’agire politico. Tra queste due forme di etica non c'è possibilità di conciliazione e neppure d’incontro, ma c’è piuttosto un contrasto permanente. Non diversamente dalle altre sfere di valori, anche quella etica contiene in sé una scissione che le impedisce di offrire agli individui delle regole univoche e incontrovertibili di comportamento. Così l’uomo risulta sempre coinvolto nel conflitto tra i valori, e questi vengono a loro volta a dipendere dall’assunzione o dal rifiuto che di essi compiono, in una situazione concreta, i singoli individui. La stessa storicità dell’esistenza umana viene a coincidere con questa presa di posizione di fronte ai valori, mediante la quale l’uomo è impegnato a dare un senso al mondo. D’altra parte la validità dei valori è definita dal loro rapporto con la storicità, in quanto lo sviluppo storico è il terreno della loro possibile realizzazione. In tale maniera i valori perdono quella trascendenza ontologica che aveva loro attribuito Rickert, ma mantengono una trascendenza che si può dire normativa, nel senso che assolvono una funzione di orientamento e di guida per l'agire umano. La loro validità, se da un lato non è certo incondizionata, dall’altro non è neppure circoscritta a una singola epoca o a un particolare ambito culturale. Ciò spiega perché Weber abbia sempre respinto il relativismo, scorgendo in esso il prodotto di una concezione organicistica che conduce a INTRODUZIONE 59 eliminare la relazione problematica dell’uomo con i valori. Se la filosofia dei valori ne postulava arbitrariamente la validità per tutte le epoche e per tutte le culture, il relativismo presuppone non meno arbitrariamente un legame necessario tra i valori e l'orizzonte storico di una singola epoca o di una singola cultura: in entrambi i casi i valori cessano di essere il termine di riferimento di una scelta da parte dell’uomo, per configurarsi come una struttura determinante della sua esistenza. Coerentemente, perciò, il distacco definitivo da un’interpretazione metafisica dei valori si accompagnava negli ultimi saggi filosofici di Weber con la polemica anti-relativistica, e con l’esplicito richiamo alla dottrina platonica secondo cui «l’anima sceglie il suo proprio destino — e cioè il senso del suo agire e del suo essere ». VII. Nel corso del conflitto mondiale il panorama dello storicismo tedesco si trasforma rapidamente. Scompaiono intanto, in breve volger di tempo, i maggiori rappresentanti della sua prima generazione. Nel 1grr era morto Dilthey, dopo aver dedicato la sua lunga esistenza al tentativo sempre rinnovato di costruire una «critica della ragione storica» e dopo averne dato negli ultimi anni la formulazione più compiuta. Nell'ottobre 1915 moriva Windelband e tre anni dopo, nel settembre 1918, lo seguiva Simmel. Weber e Troeltsch, che appartenevano ormai a una generazione successiva — in quanto erano nati rispettivamente nel 1864 e nel 1865 — sopravviveranno ancora per qualche anno, il primo fino al 1gzo e il secondo fino al 1923; e saranno per entrambi anni di intensa attività intellettuale e di impegno politico. Rickert vivrà invece più a lungo, fino al 1936; ma le sue opere, a partire da Die Philosophie des Lebens del ’20, sono sempre più caratterizzate dallo sforzo di affermare l’autonomia ontologica dei valori e di fornirne un’elaborazione sistematica, e si collocano ormai al di fuori del movimento storicistico. Accanto a questi elementi biografici, un altro fattore interviene a modificare in maniera profonda il panorama dello storicismo tedesco: l’importanza decisiva che la politica e i suoi problemi assumono nel dibattito filosofico. Dilthey, Windelband, Rickert, in fondo lo stesso Simmel (pur così attento allo sviluppo delle scienze sociali) 60 INTRODUZIONE avevano prestato scarsa attenzione alle vicende della Germania bismarckiana e post-bismarckiana, o per lo meno i loro interessi politici non si erano mai tradotti in uno sforzo di formulazione teorica. La stessa esaltazione del passato tedesco, che si può trovare nel lavoro di ricostruzione storica di Dilthey, e il risalto da lui dato alle peculiarità della tradizione culturale tedesca rispetto a quella francese o inglese esprimevano assai più il richiamo retrospettivo al mondo romantico anziché un'adesione al processo di unificazione politica della Germania, Del resto, la formazione di Dilthey si era compiuta prima dell'avvento di Bismarck al potere, in un ambiente ancora permeato di motivi liberali su cui aleggiava il recente ricordo dell'assemblea di Francoforte. Più in generale, il prevalere del problema dell’autonomia e delle condizioni di validità della conoscenza storica e la connessione tra analisi metodologica e analisi strutturale avevano contribuito a dare allo storicismo tedesco un’impronta sostanzialmente apolitica; e i suoi esponenti erano stati difatti filosofi accademici, inseriti nella vita universitaria tedesca ma scarsamente partecipi a ciò che avveniva al di fuori. Questo stato di cose cambia del tutto con la prima guerra mondiale: anche Windelband, poco prima di morire, dedica il suo ultimo scritto, la « lezione di guerra » sulla Geschicktsphilosophie (apparsa postuma nel 1916), alla ricerca di un senso razionale della storia, impostandola in riferimento allo scoppio del conflitto e alla rottura della solidarietà morale tra i popoli che esso comporta. Il richiamo all’idea di umanità, intesa come principio regolativo del processo storico, rappresenta la sua risposta al venir meno della fiducia in uno sviluppo ordinato e pacifico del genere umano, che la guerra aveva drammaticamente messo in questione. Sarebbe tuttavia errato far coincidere l'emergere degli interessi politici in seno al movimento storicistico con la crisi del 1914-18. Già prima, infatti, il processo di unificazione politica della Germania e la soluzione bismarckiana erano stati oggetto della riflessione sia di Weber che di uno storico a lui quasi coetaneo, Friedrich Meinecke. Figlio di un deputato liberale, Weber aveva esordito sulla scena politica tedesca da posizioni nazionalistico-conservatrici, ma ben presto se ne era distaccato per avvicinarsi al gruppo dei « socialisti della cattedra ». Nei saggi del periodo 1893-95, che traevano le conclusioni dell'inchiesta condotta sulla situazione del lavoro agricolo nella Germania orientale, egli poneva in rilievo il decadere dell’aristocrazia fondiaria prussiana in un ceto di imprenditori capitalistici, ormai incapace di assolvere la funzione politica di un tempo. Negli anni successivi la sua opposizione al regime personale di Guglielmo II e alla politica imperialistica divenne sempre più aperta; e con essa maturava anche una valutazione più positiva del sistema parlamentare, favorita dallo studio e dall’esperienza diretta della democrazia americana. Meinecke muove anch'egli da una sostanziale adesione a posizioni conservatrici, condividendo il giudizio della scuola storica prussiana sul modo in cui la monarchia degli Hohenzollern e Bismarck avevano realizzato l’unità politica della Germania. Allievo di Droysen, di Sybel, di Treitschke, egli è il continuatore della loro impostazione storiografica e al tempo stessso l’erede della loro visione politica; anzi, le sue indagini si ispirano a un preciso obiettivo di giustificazione storico-politica del processo di formazione dello stato nazionale tedesco. Fin dalla biografia dedicata a uno degli eroi delle guerre anti-napoleoniche, il maresciallo Hermann von Boyen (pubblicata nel 1886-99), l’analisi di questo processo è diretta a mostrare il carattere positivo, e storicamente inevitabile, della soluzione prussiana, in contrapposizione alla vanità dei tentativi compiuti dal liberalismo riformatore del ’48. Non soltanto l’edificio politico bismarckiano, ma in generale il concretarsi delle aspirazioni nazionali tedesche in un’organica struttura statale diventa — dal volume Das Zeitalter der deutschen Erhebung (1906) ai saggi raccolti sotto il titolo Von Stein zu Bismarck (1909) e a Radowitz und die deutsche Revolution (1913) — il centro di riferimento delle successive ricerche di Meinecke. Bisognerà attendere la guerra e la sconfitta tedesca perché egli avverta finalmente i limiti della costruzione di Bisrmarck e si impegni in una sostanziale revisione delle prospettive della scuola storica prussiana. La prima grande opera di Meinecke, Weltbirgertum und Nationalstaat (1908), costituisce infatti il tentativo più compiuto di giustificare l’edificio politico bismarckiano, considerato come il punto di confluenza e d’incontro tra la «nazione culturale » tedesca e la « nazione territoriale » prussiana. Meinecke si propone qui di mostrare come da una parte le aspirazioni della cultura tedesca al conseguimento dell'unità nazionale si siano gradualmente svincolate dalle idee universalistiche di origine settecentesca, e come dall'altra lo stato prussiano sia diventato, dopo il 1848, l’interprete di tali aspirazioni e abbia saputo realizzarle concretamente. Da Wilhelm von 62 INTRODUZIONE Humboldt a Novalis, a Friedrich Schlegel, a Fichte, a Miiller, a Savigny, e infine a Ranke — momento conclusivo di questo processo — la «nazione culturale » tedesca acquista coscienza della propria individualità e del proprio diritto di costituirsi in una struttura statale unitaria; e tale coscienza comporta appunto il progressivo abbandono della visione cosmopolitica dell'Illuminismo e del suo astratto ideale di umanità. Contemporaneamente la Prussia subordina i propri interessi particolari a quelli della causa nazionale tedesca, assumendo l’egemonia del processo di unificazione politica della Germania. Dopo il fallimento del ’48 Bismarck dà così esistenza storica all’ideale nazionale che la cultura romantica aveva proclamato, innestandolo sulla struttura dello stato prussiano. Questa giustificazione dell’edificio politico bismarckiano era però destinata a rivelare la sua intrinseca debolezza al momento della sconfitta tedesca. Già prima e durante il conflitto Weber aveva denunciato i limiti della costruzione di Bismarck, imputando ad essa la mancanza di una classe politica in grado di dirigere il paese e di controllare il potere della burocrazia. In numerosi saggi scritti nel corso della guerra, e soprattutto nel volume Parlament und Regierung im neugeordneten Deutschland (1917), egli insisteva sulla necessità di tener distinti i compiti del funzionario e del politico, ossia di non ridurre la vita politica ad amministrazione; e ciò lo conduceva a sottolineare la funzione dei partiti e del parlamento come sede di formazione di una classe politica. La situazione della Germania guglielmina, con la sua dipendenza diretta della burocrazia dal potere monarchico, gli appariva caratterizzata da uno « pseudo-costituzionalismo » che sottraeva al parlamento la direzione e il controllo dell'amministrazione pubblica. Se in Weber la critica a Bismarck e all’eredità politica bismarckiana si innestava su una linea di sviluppo che risaliva all’ultimo decennio dell'Ottocento, in Meinecke la sconfitta tedesca aveva invece un effetto traumatico, e lo costringeva a un profondo processo autocritico. Il suo originario conservatorismo lasciava posto alla rivendicazione del regime democratico, la quale si accompagnava alla denuncia del militarismo prussiano e del fallimento dei suoi sogni imperialistici. Venivano così in luce i difetti insanabili, già indicati da Weber, di una costruzione che non era riuscita a modificare il vecchio ordinamento economico-sociale di origine feudale né a rendere le masse popolari partecipi alla vita politica. Quella che un decennio prima era INTRODUZIONE 63 potuta sembrare una felice sintesi tra « nazione culturale » e « nazione territoriale », tra le aspirazioni della cultura romantica all’unità nazionale e gli interessi della monarchia prussiana, si rivelava ora a Meinecke come una soluzione debole, come un compromesso instabile realizzato all’insegna di una « politica di potenza» che avrebbe condotto al fallimento del 1918. Avanzata per la prima volta nel saggio Kultur, Machtpolitik und Militarismus (1915), sviluppata più ampiamente nei saggi di Nach der Revolution (1919), questa critica sfocierà in seguito — in Das preussisch-deutsche Problem im Jahre 1921 — nella revisione del quadro storiografico tracciato in Weltbiirgertum und Nationalstaat. Più tardi ancora, nel 1924, Meinecke ne trarrà spunto per affrontare il problema dell’antitesi tra potenza e spirito, considerati come i momenti antinomici della vita politica. Mentre Weber e Meinecke si portavano (al pari di Troeltsch) su posizioni apertamente democratiche, appoggiando la repubblica di Weimar e prendendo parte alla sua travagliata esistenza, la coscienza della sconfitta tedesca trovava un'espressione emblematica in un’opera destinata ad avere larghissima fortuna — in Der Untergang des Abendlandes di Oswald Spengler, apparsa tra il '18 e il ’22. A differenza degli altri esponenti del movimento storicistico, Spengler viveva ai margini della cultura accademica: dopo aver conseguito il dottorato aveva dapprima insegnato in liceo, e si era quindi dedicato all'attività pubblicistica. La sua stessa formazione filosofica non era priva di aspetti dilettanteschi: i suoi « autori » prediletti erano Goethe e Nietzsche, ma l’uno e l’altro subivano nell’opera spengleriana un sostanziale travisamento. Accanto alla loro presenza non è difficile cogliere alcuni temi caratteristici dell’ultimo Dilthey e di Simmel: anzi, i presupposti fondamentali di Der Untergang des Abendlandes mostrano chiaramente la loro derivazione da Dilthey, anche se si tratta di un Dilthey interpretato (e il più delle volte frainteso) in senso relativistico. Spengler accoglie infatti la distinzione diltheyana tra scienze della natura e scienze dello spirito, trasformandola nell’antitesi tra il « mondo come natura» e il « mondo come storia » e affermando l’irriducibilità della conoscenza storica al metodo della scienza naturale; analogamente, egli fa propria la tesi dell’autocentralità delle epoche storiche, traducendola nel postulato della radicale eterogeneità delle culture e della loro reciproca incomunicabilità. Su questa piattaforma s'innesta il richiamo alla 64 INTRODUZIONE prospettiva organicistica di Goethe, in virtù del quale ogni cultura viene interpretata come un organismo biologico che deve necessariamente percorrere il ciclo vitale proprio della specie alla quale appartiene. Dalla visione della storia come sviluppo di una molteplicità di culture chiuse in se stesse, destinate a morire dopo aver esaurito il complesso di possibilità che le caratterizza al momento della nascita, deriva la profezia spengleriana dell’imminente « tramonto dell'Occidente », nella quale il crollo della potenza della Germania si trasfigura nell’inevitabile destino di morte di un'intera civiltà. L’impianto dottrinale di Der Untergang des Abendlandes si regge in primo luogo, come si è accennato, sull’antitesi tra il «mondo come natura » e il « mondo come storia »; e questa vien fatta coincidere con la contrapposizione goethiana tra divenuto e divenire. Il « mondo come natura » è infatti il mondo del divenire, caratterizzato dall’estensione spaziale e dalla necessità causale, che trova la propria formulazione nella legge matematica; il « mondo come storia » è il mondo del divenire, caratterizzato dalla direzione del corso temporale e dalla necessità organica, che si esprime nella forma vivente. La loro conoscenza comporta perciò due specie differenti di logica: la natura può essere appresa avvalendosi di una logica meccanica, che si regge sul principio di causalità e sulla determinazione di rapporti matematici, mentre la storia può essere colta soltanto attraverso la logica organica, che si regge sull’intuizione della forma vivente. Spengler riprende quindi da Dilthey la distinzione tra spiegazione e comprensione, ma riduce al tempo stesso quest’ultima — procedendo in senso opposto a Weber — a un atto intuitivo, all’immediatezza dello « sguardo storico ». Il rifiuto del metodo naturalistico e della spiegazione causale mette così capo all’antitesi tra due tipi di conoscenza, che vengono rispettivamente designati come sistematica e come fisiognomica. C'è però ancora un’altra differenza, non meno importante. I due tipi di conoscenza non si pongono più sullo stesso piano, come avveniva in Dilthey: dal momento che ogni divenuto procede dal divenire, il «mondo come storia » acquista una preminenza ontologica rispetto al « mondo come natura », e l’immagine della natura viene a dipendere dalla concezione del mondo, storicamente condizionata, delle singole culture. Su questa base Spengler si propone di realizzare una « morfologia della storia universale », concepita come studio delle forme INTRODUZIONE 65 viventi del divenire storico. Ma la « storia universale » si articola, ai suoi occhi, in una molteplicità di forme non riconducibili a una superiore unità. Il divenire storico non è il progressivo dispiegamento di un principio unitario, ma coincide con la ripetizione necessaria di una medesima vicenda, che è poi il ciclo biologico delle culture. La struttura portante del « mondo come storia » è perciò non il singolo individuo e neppure l'umanità nel suo complesso, ma la singola cultura, nel suo sorgere attraverso il distacco dall’umanità primitiva — astorica per definizione — e nel suo successivo sviluppo fino alla morte inevitabile, a una morte cui non può sottrarsi come non può sottrarvisi nessun altro organismo. La storia è quindi storia di culture, e l’esistenza storica dell’individuo è definita dalla sua appartenenza a una cultura e al suo particolare mondo simbolico. Infatti, se è vero che tutte le culture percorrono uno stesso ciclo, esse si differenziano d’altra parte tra loro per quanto riguarda la concezione del mondo. Ogni cultura è infatti caratterizzata, fin dalla nascita, da un complesso di possibilità, da una propria eredità biologica che è diversa da quella delle altre culture. La visione organicistica della storia e l'affermazione della relatività delle culture e dei loro rispettivi mondi simbolici rappresentano così i due aspetti — strettamente connessi — dell’impostazione di Der Untergang des Abendlandes. "Tra le varie manifestazioni delle culture vi è sì una corrispondenza formale, che consente di stabilire analogie e di dar luogo a uno studio comparativo, ma c’è anche una radicale eterogeneità di contenuto: la matematica occidentale e la matematica indiana, tanto per fare un esempio, non hanno alcun rapporto tra loro. Non soltanto non esiste alcuna verità assoluta, ma ogni prodotto storico — e quindi anche ogni teoria scientifica, ogni dottrina filosofica o religiosa, ogni norma etica — non è altro che l’espressione di una data cultura in un particolare momento del suo sviluppo. Di conseguenza, la sua validità è circoscritta all'ambito della cultura che l’ha prodotta, ed è ulteriormente limitata a una certa fase del suo processo evolutivo. Ogni cultura ha un proprio orizzonte che abbraccia tutte le sue manifestazioni, e che le rende perfino incomunicabili alle altre culture. Spengler perviene in tal modo a preannunciare l'imminente tramonto dell’Occidente. L'analisi del processo evolutivo della cultura occidentale rivela infatti che essa non soltanto ha da tempo concluso la sua fase creativa, ma è ormai prossima alla fine. Anzi, essa non è pro3. STORICISMO TEDESCO. 66 INTRODUZIONE priamente più una cultura, ma è una cultura meccanizzata e « divenuta», una « cultura-in-declino » (Zivilisation): ne è prova il rovesciamento dei valori che caratterizza l’epoca moderna, al pari di qualsiasi epoca di declino di una cultura. Spengler accoglie così la diagnosi che della civiltà contemporanea avevano dato i critici aristocratici della seconda metà dell'Ottocento, da Burckhardt a Nietzsche, i quali avevano guardato con timore e preoccupazione all’avvento della democrazia e del socialismo, all’irrompere delle masse sulla scena storica, all’importanza crescente del sapere scientifico e della tecnica. La stessa contrapposizione tra Kultur e Zivilisation esprime per un verso la predilezione, tipicamente romantica, per i valori originari e « primitivi » della cultura, per l’altro verso la valutazione negativa dell’azione uniformante della civiltà industriale moderna e delle tendenze egualitarie che tendono a eliminare le differenze di ceto. Anche per Spengler la dissoluzione del vecchio ordine sociale, il mutamento dei rapporti tra le classi, il declino dell’aristocrazia e l’ascesa della borghesia, la preminenza dell’economia sulla politica, l’onnipotenza del denaro sono aspetti di una crisi che investe non soltanto la Germania, ma l’intero Occidente. A questa crisi è impossibile sottrarsi, in quanto essa è il portato inevitabile del ciclo biologico delle culture e si colloca quindi sotto il segno del destino. L'individuo può soltanto riconoscerne la necessità, e cercare di disporsi nella direzione del processo storico anziché pretendere vanamente di opporglisi. L’opera di Spengler esprimeva la crisi politico-culturale della Germania sconfitta, ma rivelava altresì l'incapacità di analizzarne i motivi storici concreti e la tendenza a trasporla su un piano metafisico. Attraverso la polemica contro la democrazia e il socialismo, attraverso l’esaltazione degli aspetti primitivi della storia e il rifiuto della civiltà industriale moderna, Spengler forniva elementi preziosi all'elaborazione dell’ideologia nazista. In una serie di volumi di più immediato intento politico — da Preussentum und Sozialismus (1919) a Der Mensch und die Technik (1931) e a Jahre der Entscheidung (1933) — egli avanzava infatti la proposta di un « socialismo prussiano » capace di restaurare l’autorità dello stato, e concepito come la continuazione dell’ideale germanico della subordinazione dell'individuo alla volontà collettiva del corpo sociale. Anche se Spengler guarderà sempre con diffidenza a Hitler, rifiutando di riconoscersi nel movimento che andava al potere nel °33, non per questo si può negare l’affinità profonda tra la sua posizione anti-democratica (e anti-marxista) e l’ideologia del nazismo. La stessa affermazione del dovere etico di accettare il destino poteva facilmente tradursi in un atteggiamento di convinta adesione al nuovo regime, esaltato come il segno dei tempi nuovi e lo strumento della riscossa tedesca. Su un versante diverso, le conclusioni relativistiche di Der Untergang des Abendlandes ponevano in luce un’altra crisi, quella dello storicismo; ponevano cioè in luce il pericolo di una vanificazione dei valori a cui questo era esposto. Non a caso lo stesso Weber, e con lui Troeltsch e Meinecke, si affrettarono a prendere le distanze da Spengler e a denunciare le aporie della sua opera. Dopo di allora l'ombra del relativismo graverà sempre minacciosa sulla cultura filosofica tedesca, spingendola verso una restaurazione dei valori che ne salvaguardasse, in qualche modo, la validità oltre l'ambito della singola cultura o della singola epoca storica. VIII. Toccherà a ‘Troeltsch e a Meinecke tentare una risposta alla crisi dello storicismo. Partiti da interessi e da esperienze culturali differenti, essi si trovano alla fine del conflitto impegnati in una comune battaglia contro le conseguenze relativistiche dello storicismo e contro l’« anarchia dei valori » che questo sembra comportare. Lasciata Heidelberg nel 1915, Troeltsch si era trasferito a Berlino passando contemporaneamente dall’insegnamento della teologia sistematica a una cattedra di filosofia; e qui egli incontrava Meinecke, che era approdato alla capitale l'anno precedente. S’inizia così tra loro un periodo d’intensa collaborazione filosofica a cui porrà termine, nel febbraio 1923, la morte di Troeltschj; e la piattaforma dottrinale definita in questi anni continuerà a ispirare per lungo tempo l’elaborazione teorica di Meinecke, ancora sotto il regime nazista e negli anni successivi alla seconda guerra mondiale. Comune a entrambi è la consapevolezza della crisi dello storicismo, intesa — secondo la formulazione di Troeltsch, che Meinecke sostanzialmente condivide — non già come una crisi della ricerca storica ma come una crisi del « pensiero storico », e cioè del significato che la storia riveste per la concezione del mondo. Lo storicismo si configura ai loro occhi come una concezione generale della realtà, che procede « dalla fondamentale storicizzazione del nostro sapere e del nostro pensiero»: non tanto uno sforzo di analisi metodologica delle scienze storico-sociali o di analisi strutturale del mondo umano, quanto una visione complessiva del mondo e della vita. Comune a Troeltsch e a Meinecke è pure l’intento di sottrarsi alla crisi dello storicismo attraverso una restaurazione dei valori che ne recuperi l’assolutezza — un’assolutezza senza la quale l’uomo rimane privo di criteri di orientamento per il proprio agire. La riduzione dei valori a prodotto storico, nella quale Dilthey aveva visto una conquista positiva dello storicismo, appare invece una sua conseguenza negativa, che mette in pericolo la stessa possibilità di norme etiche. Perciò essi cercano nella teoria dei valori un punto di appoggio per opporsi all’esito relativistico dello storicismo, che l’opera di Spengler esprimeva in modo emblematico. Già nel 1904, al suo primo approccio ai problemi della filosofia della storia, Troeltsch si era richiamato alla definizione rickertiana dell’oggetto storico, indicandone il fondamento nella relazione ai valori. Anche nel periodo berlinese — in Der Historismus und seine Probleme (1922) e poi nei saggi postumi raccolti sotto il titolo Der Historismus und seine Uberwindung (1924) — la teoria dei valori costituisce lo sfondo dell’elaborazione filosofica di Troeltsch. Il punto di partenza del suo tentativo di restaurazione dei valori è rappresentato infatti dalla caratterizzazione dell'oggetto storico come una «totalità individuale », a cui è inerente una connessione di senso che la distingue in maniera radicale dall'oggetto della conoscenza naturale. A differenza dei processi naturali, l’oggetto storico è costituito da un rapporto con i valori che ne garantisce l’unità, anzi un'unità di significato la quale abbraccia i molteplici elementi che lo compongono. Troeltsch afferma così la presenza nell’oggetto storico di un senso immanente, il quale viene identificato con il valore (individuale) di tale oggetto. Ciò comporta un mutamento rilevante, ancorché non esplicito, rispetto alla posizione di Rickert. Mentre per quest'ultimo il senso dell’oggetto storico consisteva nel riferimento a valori incondizionati che si realizzano storicamente ma che sussistono indipendentemente dalla storia, per Troeltsch senso e valore coincidono: il mondo dei valori non è più un mondo fornito di autonomia ontologica, ma diventa la connessione significativa inerente allo sviluppo storico. Al pari del singolo oggetto storico nella sua individualità, anche lo sviluppo storico nel suo complesso risulta costituito dalla presenza immanente dei valori. Questi diventano perciò la struttura assiologica della storia, la sua struttura per così dire « assoluta ». Il recupero dell’assolutezza dei valori avviene postulandone non più la trascendenza metafisica ma l'immanenza, e quindi ‘attraverso il ritorno alla nozione romantica di individualità. In questa impostazione Meinecke poteva trovare una sostanziale continuità rispetto al punto di vista espresso in Welrbirgertum und Nationalstaat. Quando nel 1918, nel saggio Persònlichkeit und geschichiliche Welt, egli affronta per la prima volta il problema del rapporto tra storia e valori, è proprio la nozione romantica di individualità che gli permette di riconoscere da un lato l’autonomia della singola persona e dall’altro la presenza nella storia di forze sovra-personali che s'intrecciano dando vita ai fenomeni storici. Lo sviluppo storico gli appare un processo nel quale l'uomo, pur essendo inserito in una molteplicità di serie causali, produce tuttavia un mondo di valori spirituali che, collocandosi oltre il livello dell’esistenza naturale, si contrappongono alla causalità della natura. Si ripropone così, sul terreno della storia, il problema kantiano del rapporto tra necessità e libertà, concepito in termini per un verso di antitesi e per l’altro verso di connessione. Per Meinecke lo sviluppo storico è infatti un intreccio indissolubile di necessità e di libertà, dove il primo termine è identificato con l’azione causale delle condizioni naturali e il secondo con la capacità di creare valori culturali. Ma quest’intreccio è tutt'altro che una coesistenza armonica: al contrario, la realizzazione dei valori comporta una lotta costante contro le condizioni naturali e quindi lo sforzo di rompere il quadro della loro causalità. La drammaticità di questo rapporto è stata posta in luce da Meinecke soprattutto a proposito del mondo della politica e, in particolare, dell’esistenza dello stato. Nella sua seconda grande opera storica, Die Idee der Staatsrison in der neueren Geschichte (iniziata durante la guerra ma pubblicata soltanto nel ’24), egli ha additato nell’antitesi tra potenza e spirito la struttura fondamentale della politica e l’essenza stessa della « ragion di stato ». Ma quest’antitesi non è altro che una manifestazione del contrasto tra necessità e libertà. Da una parte la politica è legata a condizioni naturali: al pari di ogni organismo, lo stato tende all’autoconservazione e, per conservarsi, deve affermare la propria potenza nei confronti degli altri stati e, occorrendo, in conflitto con essi, Dall'altra parte la 70 INTRODUZIONE politica è in rapporto con i valori: anche lo stato si propone di produrre o quanto meno di salvaguardare i valori culturali, procedendo oltre la propria base naturale e abbracciando in sé la vita etica, giuridica, religiosa, artistica di un popolo. Lo stato ha così un'essenza in qualche modo duplice: esso è insieme necessità e libertà, natura e spirito, o più precisamente krdtos e é:h05 — vale a dire aspirazione alla potenza e aspirazione alla realizzazione di valori culturali. La sua esistenza si svolge tra due poli, tra il polo della naturalità da cui prende le mosse e il polo della spiritualità verso cui si eleva. Questo contrasto intrinseco al mondo della politica costituisce l’antinomia della «ragion di stato », nel suo sempre rinnovato tentativo di conciliare due termini tra loro inconciliabili. Che questo tentativo sia aleatorio, e dia luogo soltanto a sintesi provvisorie, è dimostrato soprattutto dalla tendenza del primo termine a prevalere sul primo, cioè dalla tendenza dell'impulso alla potenza a subordinare a sé i valori culturali. La potenza è infatti indifferente ai valori culturali e alla loro realizzazione, è « indifferente rispetto al bene e al male». Ma quest'amoralità della potenza trapassa di continuo — come dimostra la storia dell'idea di « ragion di stato », da Machiavelli fino a Treitschke — nell’immoralità, ossia nel rifiuto o nella soppressione dei valori culturali, Il diritto dello stato alla propria conservazione e al proprio accrescimento lo spinge verso una politica di potenza di stampo bismarckiano, nella quale l'autonomia dei valori va inevitabilmente perduta. L’antinomia tra &rdtos e éthos appare quindi, in sostanza, un aspetto particolare dell’antitesi tra il fondamento naturale della storia e l’aspirazione a valori culturali; e l'esigenza di garantire l’autonomia di questi ultimi nei confronti dell’opposta aspirazione alla potenza coincide con l’esigenza di salvaguardarne l’assolutezza che, essa sola, può evitare che la « relatività dei valori» degeneri in un «relativismo dei valori ». In Der Historismus und seine Probleme (apparso due anni prima di Die Idee der Staatsrison) Troeltsch si proponeva di offrire una via di uscita da questa difficoltà attraverso la formulazione di una filosofia « materiale » della storia. Compito della filosofia della storia è, in generale, quello di elaborare una « sintesi culturale » adeguata a una certa situazione storica, e capace perciò di indicare agli individui la direzione di sviluppo da percorrere in riferimento ad essa. Anche per l’epoca contemporanea si pone un problema del genere: non diversamente dal passato, la filosofia deve oggi proporre agli uomini un ideale di civiltà costruito attraverso una critica immanente del processo evolutivo della cultura occidentale e la determinazione delle sue possibilità di sviluppo. Perciò la « sintesi culturale » contemporanea non può non essere condizionata dai valori specifici di un certo ambito di civiltà, ed anzi esprimere questi valori assumendoli a criterio direttivo per il futuro. Ancora una volta, quindi, i valori rivelano la loro intrinseca relatività; e il rapporto con l'assoluto, lungi dal configurarsi come un dato incontrovertibile, si presenta piuttosto come un compito da realizzare. Il divenire storico, con la molteplicità e la variabilità delle sue forme, si incontra e si scontra con il bisogno insopprimibile di trovare delle norme in grado di fornire un orientamento sicuro all’agire umano. Ma allora — come risulta chiaramente dai saggi postumi di Der Historismus und seine Uberwindung — la conciliazione tra relatività storica e assolutezza rimane sempre problematica. Essa è fondata, in ultima analisi, su una convinzione personale, su un atto di fede. Una posizione del genere era senza dubbio assai debole; né i tentativi di approfondimento compiuti in quegli stessi anni da Meinecke — nei saggi Ernst Troeltsch und das Problem des Historismus (1923) e Kausalitàten und Werte in der Geschichte (1924) — riuscivano a darle una base più solida. La stessa distinzione tra causalità naturale e causalità etico-spirituale, che riposava sull’identificazione di quest'ultima con lo sforzo umano di realizzazione dei valori culturali, si richiamava sempre alla nozione romantica di individualità, mettendo capo all’affermazione dell’individualità del valore e della sua inerenza al processo storico. Non a caso, un decennio più tardi, l’adesione allo storicismo e lo sforzo di sottrarlo alle spire mortali del relativismo si compongono non tanto sul terreno teorico, quanto in un nostalgico quadro retrospettivo delle origini dello storicismo. In Die Entstehung des Historismus (1936) Meinecke muove dalla convinzione che lo storicismo costituisca la maggiore «rivoluzione » culturale dell’età moderna, in virtù della quale la fede giusnaturalistica in una ragione eterna e atemporale ha lasciato il posto al duplice riconoscimento dell’individualità dei singoli momenti del mondo umano e della loro appartenenza a un processo di sviluppo che tutti li comprende. Il diritto naturale — elemento costante della tradizione filosofica occidentale, dal pensiero antico al Cristianesimo, dal Rinascimento all'Illuminismo — è consi72 INTRODUZIONE derato da Meinecke il grande antagonista dello storicismo, e al tempo stesso il suo immediato antecedente storico. Sorto attraverso un secolare distacco dall’impostazione giusnaturalistica, che ha avuto inizio con il trapasso dal razionalismo seicentesco alla cultura illuministica, lo storicismo è giunto alla sua piena maturità nel pensiero tedesco di fine Settecento con Herder, con Mîser, con Goethe. In questa prospettiva il rapporto tra Illuminismo e storicismo si presenta come un rapporto di opposizione, ma anche di continuità: la cultura illuministica ha messo in crisi, dall’interno, la fiducia nell’esistenza di norme razionali immutabili, creando così le premesse di un nuovo senso della storia. Perciò lo storicismo di cui Meinecke delinea il processo genetico è pur sempre identificato con la concezione romantica della storia e con l’elaborazione dottrinale che questa ha subìto da parte della scuola storica tedesca, in particolare ad opera di Ranke. E nel richiamo a Ranke, il quale concepisce « Dio al di sopra del mondo, il mondo creato da lui, ma anche percorso dal suo spirito, e perciò affine a Dio e al tempo stesso anche sempre imperfetto in quanto terreno », Meinecke cerca il modo di sottrarre lo storicismo al suo esito relativistico. Contro l’idealismo post-kantiano e contro la filosofia della storia di Hegel egli ribadisce — in polemica con Croce, che aveva sostenuto l’ascendenza hegeliana dello storicismo e la sua identità col «razionalismo concreto» — l'impossibilità di ricondurre il processo storico a un principio razionale; contemporaneamente egli rivendica nei confronti del movimento storicistico degli ultimi decenni l’assolutezza dei valori, un’assolutezza operante nell’ambito della storia che designa (rankianamente) la presenza di Dio in ogni epoca storica. Questa impostazione, esplicitamente formulata in una serie di saggi poi raccolti in Vom geschichtlichen Sinn und vom Sinn der Geschichte (1939) e negli Aphorismen und Skizzen zur Geschichte (1942), segnava la conclusione dello sforzo speculativo dello storicismo tedesco contemporaneo. Ma ne segnava anche, in larga misura, il fallimento. L'ombra del relativismo dava luogo a un tentativo di restaurazione dei valori che si risolveva, in fondo, nel ritorno alla visione romantica della storia, a quella visione da cui il movimento storicistico aveva cercato — a partire da Dilthey — di svincolarsi. E significativamente l’affermazione della presenza dell’assoluto in ogni momento del processo storico veniva a coincidere proprio con quella relativizzazione dei valori che Troeltsch e Meinecke si erano proposti di evitare. La via di uscita dal relativismo era trovata in un vago e generico rinvio al senso ignoto della storia, alla possibilità di conciliare immanenza e trascendenza su un piano inaccessibile alla logica umana. Caratteristico prodotto di un’epoca che aveva guardato alla storia con fiducia, di un’epoca che aveva visto il consolidarsi del capitalismo industriale e l’affermazione della potenza del nuovo stato nazionale tedesco, di un’epoca che aspirava a penetrare scientificamente i processi storici senza però ridurli naturalisticamente a processi biologici o psicologici, il movimento storicistico non ha retto al trauma della guerra e della sconfitta. Anche se i rapporti tra la crisi politico-culturale della Germania post-bellica e la crisi dello storicismo tedesco sono tutt'altro che diretti, e sfuggono in ogni caso a troppo facili semplificazioni — del tipo di quelle predilette dal Luk&cs della Zerstorung der Vernunft — non si può negarne né la sostanziale contemporaneità né la correlazione. Intorno al 1920 il movimento storicistico ha ormai esaurito la sua carica produttiva; e la morte di Weber può essere assunta come data emblematica di questa svolta. Da allora esso guarda al futuro con timore, con il timore che il processo storico porti non già all’accrescimento ma alla perdita del patrimonio culturale che la storia precedente ha trasmesso. Da ciò il ripiegamento sul passato che spinge Troeltsch e Meinecke a idealizzare l’eredità del pensiero romantico e a cercarvi un rifugio. Il grandioso quadro storiografico di Die Enzstehung des Historismus è sì un esame di coscienza dello storicismo, ma ne costituisce anche — quasi inconsapevolmente — l’elogio funebre. In una Germania dominata dal nazismo, la quale si apprestava a tentare una rivincita che avrebbe condotto a un nuovo più grave disastro, in unclima culturale ormai caratterizzato dalla presenza di altri orientamenti filosofici — in primo luogo la fenomenologia e l’esistenzialismo — non c’era più posto per lo sforzo di analisi metodologica e di analisi strutturale che lo storicismo aveva perseguito. Il ritorno alla concezione romantica, al senso di uno sviluppo pervaso da forze irrazionali mai completamente eliminabili, rappresentava la resa dinanzi al presente, e insieme un tentativo di fuga dalla sua opprimente e disperata realtà. Non per questo, tuttavia, l’eredità del movimento storicistico 74 INTRODUZIONE andava perduta. Nella breve e travagliata stagione della repubblica di Weimar esso aveva fecondato per vie diverse il sorgere dell’esistenzialismo, il rinnovamento del pensiero marxistico, lo sviluppo lella sociologia del sapere. Dalla Psychologie der Weltanschauungen (1919) di Jaspers a Sein und Zeit (1927) di Heidegger, da Geschichte und Klassenbewusstsein (1923) di Luk&cs a Ideologie und Utopie (1929) di Mannheim, esso ha contribuito in maniera decisiva al delinearsi di nuove prospettive filosofiche e di nuove direzioni d'indagine storico-sociologica. Anche più tardi, quando il nazismo sarà pervenuto al potere, il movimento storicistico continuerà ad agire soprattutto fuori dei confini tedeschi, e un'intera generazione di studiosi più giovani — educati nell'immediato dopoguerra e costretti all'esilio all’inizio degli anni ’30 — recherà all’estero l'insegnamento di Dilthey, di Simmel e soprattutto di Weber, Così lo storicismo tedesco è sopravvissuto in forme molteplici alla propria crisi, mostrando la sua non ancora cessata capacità di trasfigurazione. NOTA BIBLIOGRAFICA Vengono qui indicate soltanto opere di carattere generale, che si riferiscono in tutto o in parte allo storicismo tedesco contemporaneo e ai suoi rapporti con la cultura filosofica otto-novecentesca. Le monografie dedicate a singoli autori sono menzionate nelle rispettive note bibliografiche. R. Aron, Essai sur la théorie de l'histoire dans l’ Allemagne contemporaine (La philosophie critique de l’histoire), Paris, 1938, 19502. M. ManpeLsaum, The Problem of Historical Knowledge, New York, 1938, parte I. C. Antoni, Dallo storicismo alla sociologia, Firenze, 1939 (ristampa 1973). H. R. von SrBik, Geist und Geschichte vom deutschen Humanismus bis zur Gegenewart, Miinchen, 1950-51. G. Luracs, Die Zerstorung der Vernunft, Berlin, 1953; tr. it. Torino, 1959. P. Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, Torino, 1956, 1971?. H. Stuart HucHes, Consciousness and Society (The Reorientation of European Social Thought), New York, 1958; tr. it. Torino, 1967. P. Rossi, Storia e storicismo nella filosofia contemporanea, Milano, 1960. I. S. Kon, Die Geschichtsphilosophie des 20. Jahrhunderts Kritischer Abriss (tr. dal russo), Berlin, 1964. G. ScHmipr, Deutscher Historismus und der Ùbergang zur parlamentarischen Demokratie: Untersuchungen zu den politischen Gedanken von Meinecke, Troeltsch, Max Weber, Liùbeck-Hamburg, 1964. M. C. Branps, MHistorisme als Ideologie: Het « onpolitieke » en « anti-normative » Element in de Duitse Geschiedwetenschap, Assen, 1965. G. G. Iccers, The German Conception of History: The National Tradition of Historical Thought from Herder to Present, Middletown (Conn.), 1968; tr. tedesca col titolo Deussche Geschichtswissenschaft, Miinchen, 1971. 76 NOTA BIBLIOGRAFICA F. Tessitore, Lo storicismo, nella Storia delle idee politiche, economiche e sociali, Torino, vol. IV, 1972, pp. 27-126. Sulla storia e sui significati del termine « storicismo » si rimanda ai seguenti studi: E. RorHacger, Historismus, « Schmollers Jahrbuch », LXII, 1938, pp. 388-99. D. E. Lee e R. N. Beck, The Meaning of « Historicism », « American Historical Review », LIX, 1953-54, pp. 568-77. C. G. Ranp, Two Meanings of Historicism in the Writings of Dilthey, Troeltsch and Meinecke, « Journal of the History of Ideas», XXV, 1964, pp. 503-18. P. Rosst, Storicismo, nella Enciclopedia Feltrinelli-Fischer, vol. XIV : Filosofia, Milano, 1966, pp. 446-72. M. ManpeLBAUM, Historicism, in The Encyclopedia of Philosophy, New York, 1967, vol. IV, pp. 22-25. G. G. Iccers, Historicism, nel Dictionary of the History of Ideas, New York, 1973, vol. II, pp. 456-64. La presente edizione I testi compresi in questo volume sono stati tradotti ex mzovo anche quando ne esisteva un'altra traduzione italiana. Si è fatta eccezione soltanto per gli scritti filosofici di Dilthey e per i saggi metodologici di Weber, a suo tempo tradotti dal curatore in due volumi della « Biblioteca di cultura filosofica» di Einaudi, nonché per il primo capitolo della Soziologie di Simmel, del quale si è utilizzata la traduzione (non ancora pubblicata) di Giorgio Giordano per i « Classici della sociologia » delle Edizioni di Comunità, e per l’altro saggio weberiano Wissenschaft als Beruf, del quale si è utilizzata l'ottima traduzione di Antonio Giolitti. Anche in questi casi, però, la traduzione è stata sottoposta a una revisione accurata, e in diversi passi modificata a scopo di uniformità terminologica. Il curatore desidera ringraziare pubblicamente Sandro Barbera, che ha prestato la sua valida opera di traduttore, nonché Claudio Magris, Massimo Mori ed Enzo Randone, che lo hanno aiutato a rintracciare alcune citazioni. Un particolare ringraziamento va a Massimo Mori, che ha contribuito alla correzione delle bozze. DILTHEY nasce a Biebrich am Rhein, nel ducato di Nassau, figlio di un pastore calvinista. Dopo aver compiuto gli studi liceali a Wiesbaden, si iscrive a Heidelberg e quindi a quella di Berlino. A Heidelberg è allievo dello storico della filosofia Fischer, a Berlino di alcuni dei maggiori maestri della scuola storica come il filologo classico Boeckh, lo storico Ranke, il geografo Ritter, nonché di un altro illustre storico della filosofia, Trendelenburg. In virtù del loro insegnamento la partecipazione di Dilthey al mondo della cultura romantica, soprattutto alla poesia e alla musica da un lato e alla religiosità dall’altro — partecipazione di cui è testimonianza il diario, pubblicato dalla figlia Clara Misch Dilthey col titolo Dilthey (Leipzig-Berlin; Gottingen) — si traduce nell’interesse storico per la concezione del mondo e per le manifestazioni artisticoletterarie, religiose, filosofiche del Romanticismo tedesco. Da questo interesse prese le mosse una serie di studi su Hamann e su Schleiermacher, che metteranno capo — dietro suggerimento di Trendelenburg — prima alla dissertazione di dottorato De principiis ethices Schleiermacheri (Berlin, 1964; tr. it. Napoli, 1974) e poi al primo volume di un'ampia biografia rimasta incompiuta, il Leben Schleiermachers (Berlin, 1867-70; 2° ed. a cura di H. Mulert, Berlin-Leipzig, 1922; 3* ed. a cura di M. Redeker, Berlin, 1970). Dopo aver ottenuto l'abilitazione a Berlino, Dilthey diventa professore di filosofia a Basilea nel 1867, per poi trasferirsi a Kiel nel 1868 e a Breslau nel 1871. In quest'ultima città egli stringe amicizia col conte Paul Yorck von Wartenburg, con il quale egli avrà un intenso e fecondo scambio intellettuale fino alla morte di lui: testimonianza di questo scambio sono le lettere pubblicate postume (nel Briefwechsel zwischen Wilhelm Dilthey und dem Grafen Paul Yorck von Wartenburg, Halle, 1923). Nel 1882, infine, Dilthey fu chiamato a succedere a Hermann Lotze all’Università di Berlino, dove insegnò fino al 1906. Priva di avvenimenti esteriori di rilievo (Dilthey non partecipò mai alla vita politica tedesca), la vita di Dilthey coincide sostanzialmente con la sua carriera accademica e con la sua attività intellettuale. Morì a Siusi (Bolzano) il 1° ottobre 1911. Negli anni dal 1864 (in cui scrive il VersucA einer Analyse der moralischen Bewusstsein, presentato come lavoro di dissertazione) al 1875 (in cui pubblica il saggio Uber das Studium der Geschichte der Wissenschaften vom Menschen, der Gesellschaft und dem Staat) Dilthey ha elaborato i presupposti della propria impostazione filosofica, staccandosi gradualmente dalle posizioni romantiche della sua gioventù e avvicinandosi al movimento neoccriticistico. L'Habilitationsschrift del 1864, dedicata a un'analisi della coscienza morale che riflette da vicino l'insegnamento di Trendelenburg, vuol rivendicare nei confronti dell'etica kantiana il carattere storico delle prescrizioni in cui si esprime l’imperativo categorico, e quindi la variabilità del contenuto della morale. In seguito, la prolusione con la quale Dilthey dà inizio nel 1867 al suo insegnamento a Basilea (Die dichterische und philosophische Bewegung in Deutschland 1770-1800), se da un lato pone in rilievo l’importanza del contributo che la cultura tedesca di fine Settecento, da Lessing a Hegel, ha dato alla comprensione delle manifestazioni storiche del mondo umano, dall’altro fa valere l'esigenza di estendere l’indagine critica alle scienze che studiano la realtà storico-sociale. Il saggio del 1875 riprende questi temi impostando per la prima volta in termini espliciti il problema della fondazione critica di queste discipline, ossia delle « scienze dello spirito ». Questo problema costituisce il punto di partenza di tutta la successiva produzione filosofica diltheyana del periodo berlinese. Nel 1883 compare il primo (e anche unico) volume dell’Ein/eitung in die Gersteswissenschaften (tr. it. Firenze, 1974), in cui Dilthey si propone di rivendicare l'autonomia delle scienze storico-sociali nei confronti delle scienze naturali, determinandone le caratteristiche specifiche e quindi le condizioni che ne garantiscono la validità. Le scienze della natura e le scienze dello spirito si differenziano — secondo l'analisi diltheyana — in primo luogo per il loro oggetto, in quanto le prime studiano un complesso di fenomeni esterni all'uomo, mentre le seconde studiano invece un dominio di cui l’uomo è parte integrante e di cui possiede una coscienza immediata. A questa differenza di oggetto si accompagna perciò una differenza di carattere gnoscologico, dal momento che i dati delle scienze della natura provengono dall'osservazione esterna e i dati delle scienze dello spirito derivano, in primo luogo, dall'esperienza interna, dall'esperienza vissuta (Er/ebnis) che l'uomo ha di sé e dalla comprensione che può avere degli altri uomini; inoltre, mentre le prime si propongono di fornire una spiegazione causale, le seconde si avvalgono di categorie peculiari come quelle di significato, di scopo, di valore ecc. Entrambi questi criteri di distinzione riconducono però a una differenWILHELM DILTHEY 8I za di rapporto tra soggetto e oggetto: nelle scienze della natura i due termini sono eterogenei tra loro, mentre nelle scienze dello spirito il soggetto conoscente appartiene allo stesso mondo umano che costituisce l'oggetto dell'indagine. Ma non soltanto il rapporto tra soggetto e oggetto, bensì la stessa struttura del mondo umano presenta un proprio carattere specifico. Il mondo umano ha il suo nucleo elementare, il suo Grundkéòrper (come Dilthey lo chiama), nell’individuo, e appare costitui to da un complesso di rapporti storicamente condizionati, dai quali sorgono i sistemi di cultura e i sistemi di organizzazione sociale. Gli uni e gli altri devono essere compresi nella loro esistenza storica, in quanto la struttura del mondo umano è appunto storica. Da ciò deriva l’articolazione sistematica dell’edificio delle scienze dello spirito. Da una parte la ricerca storica indaga le manifestazioni del mondo umano nella loro individualità; dall’altra le discipline di tipo generalizzante cercano di scoprire le uniformità del mondo umano. E di queste fanno parte sia la psicologia e l’antropologia, che hanno per oggetto l'individuo, sia le scienze dei sistemi di cultura e le scienze dell’organizzazione esterna della società, le quali studiano rispettivamente le forme culturali (arte, religione, filosofia, scienza ecc.) e le istituzioni politiche, economiche, giuridiche in cui si strutturano i rapporti tra gli uomini. L'Einleitung in die Geisteswissenschaften segna così la data d'inizio, per così dire, del movimento storicistico tedesco. Le due direzioni di ricerca che in essa si intrecciano, cioè l’analisi metodologica delle scienze dello spirito e l’analisi della struttura del mondo umano come mondo storico-sociale, vengono riprese da Dilthey in una serie di saggi successivi, particolarmente nelle /deen tiber eine beschreibende und zergliedernde Psychologie (1804) e nei Beitrige zum Studium der Individualitit (1895-96). Nel primo, partendo dalla determinazione della struttura della vita psichica, Dilthey formula il programma di una psicologia descrittiva e analitica che si contrappone alla psicologia esplicativa e costruttiva di impostazione positivistica, e attribuisce ad essa un compito di fondazione rispetto alle altre scienze dello spirito — compito che verrà in seguito messo in disparte. Nel secondo egli addita nella spiegazione e nella comprensione i procedimenti caratteristici propri rispettivamente delle scienze della natura e delle scienze dello spirito e, respingendo la distinzione tra scienze nomotetiche e scienze idiografiche che Windelband aveva formulato (come vedremo) nel 1894, determina il compito delle scienze dello spirito nello studio dell’individuazione storica, quale essa sorge sulla base dell'uniformità attraverso la mediazione del tipo. Negli scritti del periodo 1905-1911 (cioè, all'incirca, del periodo successivo alla conclusione dell’insegnamento berlinese) il problema della fondazione delle scienze dello spirito trova la sua più matura formulazio 6. STORICISMO TEDESCO. 82 WILHELM DILTHEY ne. Soprattutto nelle Studien zur Grundlegung der Geisteswissenchaften (1905-10), in Der Aufbau der geschichilichen Welt in den Geisteswissenschaften (1910) e negli appunti manoscritti che ne costituiscono il Plan der Fortsetzung (1910-11) Dilthey realizza nella sua forma definiti va il progetto, perseguito fin dalla gioventù, di una «critica della ragione storica » (tr. it. Torino, 1954). Attraverso l’analisi delle scienze dello spirito egli perviene a individuare il fondamento della loro validità nel nesso tra l’Erleben (ossia il divenire della vita, di cui il soggetto è immediatamente consapevole), l’espressione della vita e l’intendere: la vita si realizza in un complesso di manifestazioni oggettive o di « oggettivazioni » che devono essere intese, cioè che devono costituire il termine di riferimento dello sforzo umano di comprensione. La conoscenza del mondo umano, fornita dalle scienze dello spirito, si configura pertanto come una conoscenza dall’interno, che è opera dell’uomo stesso; però questa conoscenza non è data immediatamente nell’introspezione, ma può essere ottenuta soltanto attraverso lo studio dei prodotti storici dell'attività umana. L’intendere implica un riferimento retrospettivo all’Erleben, il quale è mediato dall'espressione; esso esprime la consapevolezza dello scaturire di tutte le manifestazioni storiche dal processo produttivo della vita. D'altra parte il mondo umano si configura come l’oggettivazione dello spirito, cioè come « spirito oggettivo » — anche se in senso ben diverso da quello hegeliano. E l’analisi di questa struttura pone in luce che ogni fenomeno del mondo umano è una connessione dinamica, la quale produce valori e realizza scopi, avendo il proprio centro in se stessa. Di tale specie sono non soltanto i sistemi di cultura e i sistemi di organizzazione sociale, ma anche le epoche storiche, le quali si differenziano per i loro valori e fini particolari e sono caratterizzate ognuna da un proprio orizzonte; cosicché ogni epoca deve essere compresa in base al suo sistema di valori, il quale costituisce il criterio di valutazione di ogni sua manifestazione. Attraverso quest'analisi della struttura del mondo umano Dilthey perviene, negli scritti del periodo 1905-1911, a riconoscerne la fondamentale storicità: già l'individuo in quanto tale è un essere storico, e storicamente condizionati sono tutti i fenomeni del mondo umano. La critica della ragione storica sfocia così in una critica « storica » della ragione, vale a dire in una filosofia dell’uomo come essere storico. La storicità del mondo umano coinvolge la stessa filosofia, che risulta qualificata come una forma particolare di intuizione del mondo. Nel saggio Das Wesen der Philosophie (1907; tr. it. Torino, 1954) e negli altri due saggi dedicati al medesimo tema, Das geschichtliche Bewusstscin und die Weltanschauungen e Dice Typen der Weltanschauung und ihre Ausbildung in den metaphysischen Systemen, Dilthey ha definito il rapporto tra filosofia e intuizione del mondo. Arte, religione e filosofia sono tutti e tre modi di esprimere un'’intuizione del mondo che non è soltanto una forma di conoscenza della realtà, ma anche un complesso di valori, di fini e di regole di condotta, ossia un atteggiamento di fronte alla vita; e la filosofia si distinguedall’artee dalla religione per la sua aspirazione a una validità incondizionata — un’aspirazione che è però contraddetta dalla coscienza storica, la quale pone in luce il condizionamento storico di tutte le dottrine filosofiche. Su questa base Dilthey individua le forme tipiche di intuizione del mondo (e quindi anche di filosofia) nel naturalismo, nell’idealismo oggettivo e nell’idealismo della libertà, e interpreta la storia della filosofia come una lotta tra questi tre tipi ricorrenti. Tra la pretesa di validità incondizionata della filosofia e la coscienza storica si determina quindi un’antinomia, la quale trova la propria soluzione in una « filosofia della filosofia » intesa come indagine critica sulla possibilità e sui limiti della filosofia. Essa deve porre in luce il carattere illegittimo della pretesa metafisica di offrire una spiegazione globale della realtà, e richiamare la ricerca filosofica alla consapevolezza della propria relatività storica. Questa concezione della filosofia e della sua storia ispira anche le numerose opere di storiografia filosofica a cui Dilthey ha dedicato gran parte della sua attività. Dai primi studi su alcune figure del mondo culturale romantico e dalla biografia di Schleiermacher egli è venuto allargando il proprio campo di ricerca al Rinascimento, alla Riforma, all’Illuminismo, per poi ritornare all’analisi del Romanticismo tedesco e dell’idealismo post-kantiano. Un primo gruppo di saggi, pubblicati per la maggior parte negli anni 1891-94 e quindi raccolti sotto il titolo generale Weltanschauung und Analyse des Menschen seit Renaissance und Reformation (tr. it. Firenze, 1927), è dedicato al Rinascimento e alla Riforma, nonché al processo di fondazione del « sistema naturale delle scienze dello spirito » nel secolo xvi. Un secondo gruppo concerne invece la cultura filosofica del Settecento, con particolare riguardo a Leibniz e a Federico Il: particolarmente importante tra di essi è quello dedicato alla concezione illuministica della storia, Das achtzehnte Jahr hundert und die geschichiliche Welt (1901; tr. it. Milano, 1967). Un terzo gruppo riguarda invece gli aspetti poetici e musicali della cultura romantica tedesca, considerati nel loro rapporto con l'intuizione del mondo propria del Romanticismo: essi sono raccolti in Das Erlebnis und die Dichtung (Leipzig, 1906; tr. it. Milano, 1947) e nel volume postumo Von deutscher Dichtung und Musik (Leipzig, 1933). A questo filone di studi si collega l’ultimo dei lavori storici di Dilthey, cioè l'ampia biografia del giovane Hegel tracciata in Die Jugendgeschichte Hegels (1905-6), nella quale la formazione del pensiero hegeliano viene studiata nei suoi 84 WILHELM DILTHEY legami con l’ambiente culturale del Romanticismo tedesco e indagata nei suoi motivi « teologici ». Al centro di tutti questi scritti sta la connessione tra la filosofia e l'intuizione del mondo propria delle varie epoche, analizzata nel ripresentarsi di certe posizioni fondamentali — corrispondenti ai vari tipi di intuizione del mondo — che fanno della successione delle diverse dottrine un processo storico unitario. Le opere di Dilthey sono state raccolte nelle Gesammelte Schriften, edite dalla casa editrice Teubner in undici volumi (vol. IIX e XI-XII) dal 1914 al 1936. Dopo la guerra, la casa Vandenhoeck und Ruprecht di Géttingen ha ristampato più volte le opere di Dilthey, aggiungendovi nuovi volumi: la raccolta è tuttora da completare. Il primo volume (a cura di B. Groethuysen) comprende l'Einlcitung in die Geisteswissenschaften; il secondo (a cura di G. Misch) racchiude gli studi sul Rinascimento e sulla Riforma, sotto il titolo Weltanschauung und Analyse des Menschen seit Renaissance und Reformation; il terzo (a cura di P. Ritter) raccoglie gli studi sull’età di Leibniz, sull'età di Federico il Grande e il saggio Das achtzehnte Jahrhundert und die geschichtliche Welt, sotto il titolo Studien zur Geschichte des deutschen Geistes; il quarto (a cura di H. Nohl) comprende la Jugendgeschichte HRegels und andere Abhandlungen zur Geschichte des deutschen Idealismus; il quinto e il sesto (a cura di G. Misch, che vi ha premesso un ampio e importante Vorbericht) raccolgono, sotto il titolo complessivo Die geistige Welt: Einleitung in die Philosophie des Lebens, alcuni saggi fondamentali tra cui Uber das Studium der Geschichte der Wissenschaften vom Menschen, der Gesellschaft und dem Staat, i Beitrige zur Lòsung der Frage vom Ursprung unseres Glaubens an die Realitàt der Aussenwelt und seinem Recht, le Ideen iiber eine beschreibende und zergliedernde Psychologie, i Beitrige zum Studium der Individualitit, Das Wesen der Philosophie, nonché diversi altri saggi di poetica e di estetica; il settimo (a cura di B. Groethuysen) racchiude, sotto il titolo Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften, le tre Studien zur Grundlegung der Geisteswissenschaften, l'ampio saggio che dà il titolo al volume e il relativo Plan der Fortsetzung; l'ottavo (a cura di B. Groethuysen) comprende i saggi dedicati alla Weltanschauungslehre, e cioè Das geschichtliche Bewusstsein und die Weltanschauungen e Die Typen der Weltanschauung und ihre Ausbildung in den metaphysischen Systemen; il nono (a cura di O. F. Bollnow) è dedicato alla Pidagogik; il decimo (a cura di H. Nohl, e apparso nel 1958) racchiude il System der Ethik; l'undicesimo (a cura di E. Weniger) raccoglie, sotto il titolo complessivo Vom Ausgang des geschichtlichen Bewusst86 WILHELM DILTHEY sein, numerosi saggi giovanili su storici tedeschi dell'Ottocento; il dodicesimo (a cura di E. Weniger) comprende vari saggi Zur politischen Geschichte, a cui fa seguito l'elenco completo degli scritti di Dilthey fino al 1883 (pp. 208-12); il quattordicesimo (a cura di M. Redeker, e apparso nel 1966, su licenza dell’editore de Gruyter) contiene il vol. II del Leben Schleiermachers; il sedicesimo (a cura di U. Herrmann, e apparso nel 1972) raccoglie, sotto il titolo complessivo Zur Geistesgeschichte des 19. Jahrhunderts, una serie di articoli e di recensioni del periodo 1859-74. Rimangono al di fuori delle Gesammelte Schriften i seguenti volumi, già menzionati nella nota biografica: Der junge Dilthey. Ein Lebensbild in Briefen und Tagebiichern (1852-1870), Leipzig-Berlin, 1933, e Gòttingen, 1960?; Das Erlebnis und die Dichtung, Leipzig-Berlin, 1906, 1907”, 1g1o3, e Géttingen, 1965 4; Von deutscher Dichtung und Musik, Leipzig-Berlin, 1933, e Gòttingen, 19572. Il Leben Schleiermachers è stato completato con la pubblicazione del secondo volume, Schleiermachers System als Philosophie und Theologie (a cura di M. Redeker), Berlin, 1966; lo stesso Redeker ha in seguito dato una nuova edizione critica del primo volume, Berlin, 1970? Rimangono inoltre al di fuori delle Gesammelte Schriften varie raccolte di lettere, e precisamente: il Briefwechsel zwischen Wilhelm Dilthey und dem Grafen Paul Yorck von Wartenburg (1877-1897), Halle, 1923; i Briefe Wilhelm Diltheys an Beyrnhardt und Luise Scholz (1859-1864), « Sitzungsberichte der Preussischen Akademie der Wissenschaften », Philosophisch-historische Klasse, 1933, n. 10, pp. 416-71; i Briefe Wilhelm Diltheys an Rudolf Haym (1861-1873), « Abhandlungen der Preussischen Akademie der Wissenschaften », Berlin, 1936. Si veda inoltre W. Biemel, Einleitende Bemerkung zum Briefwvechsel Dilthey-Husserl, « Man-World », I, 1968, pp. 428-46. Tra l'ormai vasta letteratura critica dedicata all'opera e al pensiero di Dilthey segnaliamo gli studi seguenti: B. GroetHursen, Wilhelm Dilthey, « Deutsche Rundschau », CLIV, n. 4, 1913, pp. 69-92, € n. 5, 1913, pp. 24970. A. 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Dilthey y el problema del mundo histérico, cit., pp. xrx-Lv. Del medesimo autore si veda però ora il saggio Bibliografia de W. Dilthey, « Pensamiento », XXIV, 1968, pp. 195-258. Ma il lavoro più completo è quello di U. Herrmann, Bibliographie Wilhelm Diltheys: Quellen und Literatur, Wernheim/Bergstr.-Berlin-Basel, 1969. SCIENZE DELLO SPIRITO E SCIENZE DELLA NATURA * I. LE SCIENZE DELLO SPIRITO: UN COMPLESSO AUTONOMO ACCANTO ALLE SCIENZE DELLA NATURA Il complesso delle scienze che hanno come loro oggetto la realtà storico-sociale viene qui compreso sotto la designazione di scienze dello spirito. Il concetto di queste scienze, in virtù del quale esse costituiscono un complesso unitario, e la delimitazione di tale complesso nei confronti delle scienze della natura potranno essere spiegati e fondati in maniera definitiva soltanto nel corso dell’analisi; all'inizio ci limitiamo a stabilire il significato in cui impiegheremo l’espressione e a indicare provvisoriamente l'insieme dei fatti sul quale si fonda la delimitazione di tale complesso unitario delle scienze dello spirito nei confronti delle scienze della natura. L’uso linguistico comprende sotto il nome di «scienza» un insieme di proposizioni i cui elementi sono concetti, cioè perfettamente determinati, costanti in tutta la connessione di pensiero e forniti di validità universale, i cui legami sono fondati, in cui infine le parti sono reciprocamente connesse in una totalità allo scopo di poter comunicare, cosicché un elemento della realtà può essere concepito nella sua compiutezza in virtù di questa connessione di proposizione oppure un ramo dell'attività umana può esser regolato in base ad essa. Indichiamo perciò * Einleitung in die Geisteswissenschaften, libro I: Ubersicht tiber den Zusammenhang der Einzelwissenschaften des Geistes, Leipzig, Duncker und Humblot, 1883, capitoli u-vir, pp. 5-35, ora in Gesammelte Schriften, Leipzig und Berlin, vol. I, 1914, PP. 4-28 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi). qui col termine «scienza» ogni insieme di fatti spirituali in cui si ritrovano le caratteristiche sopra indicate e a cui dunque generalmente viene applicato il nome di «scienza»: in modo corrispondente presentiamo provvisoriamente il nostro compito. Questi fatti spirituali, quali si sono storicamente sviluppati nell’umanità, e ai quali è stata tramandata — secondo un comune uso linguistico — la denominazione di scienze dell’uomo, della storia, della società, costituiscono realtà che noi non vogliamo dominare, ma anzitutto comprendere. Il metodo empirico esige che anche in questo settore delle scienze venga determinato in modo storico-critico il valore dei singoli procedimenti di cui il pensiero qui si serve per la soluzione dei suoi compiti, e che venga chiarita, nell’intuizione di questo grande processo che ha per soggetto l’umanità stessa, la natura del sapere e del conoscere relativi a questo campo. Un tale metodo sta in antitesi a quell'altro — di recente troppo di frequente praticato dai cosiddetti positivisti — che deriva il contenuto del concetto di scienza da una determinazione concettuale del sapere sorta per lo più sul terreno delle attività proprie delle scienze della natura, e che in base ad essa decide quali siano le attività intellettuali a cui spetta il nome e il rango di scienza. In tal modo alcuni, prendendo le mosse da un concetto arbitrario di sapere, hanno con miopia e presunzione negato alla storiografia, qual è stata praticata da grandi maestri, il rango di scienza; altri hanno creduto di dover trasformare in conoscenza della realtà quelle scienze che hanno a loro fondamento imperativi, e non già giudizi sulla realtà. L'insieme dei fatti spirituali che ricadono sotto questo concetto di scienza viene di solito suddiviso in due rami. L’uno è designato col nome di « scienza naturale »; per quanto riguarda l’altro non si dispone, abbastanza stranamente, di una designazione universalmente riconosciuta. Aderisco qui all’uso linguistico di quegli studiosi che indicano quest'altra metà del globus intellectualis con l’espressione di «scienze dello spirito». Da una parte questa designazione è diventata — e non poco lo deve all’ampia diffusione del System of Logic di John Stuart Mill! — abituale e universalmente intelligibile. D’al1. Il System of Logic, Ratiocinative and Inductive di Mill tra parte, confrontata con tutte le altre designazioni inadeguate tra cui è possibile scegliere, essa appare la meno impropria. ‘È pur vero che essa esprime molto incompiutamente l’oggetto di questo studio, giacché in esso i fatti della vita spirituale non sono separati dalla vivente unità psico-fisica della natura umana. Una teoria che voglia descrivere e analizzare i fatti storico-sociali non può prescindere da questa totalità della natura umana e limitarsi all'elemento spirituale. Ma l’espressione ha in comune questo difetto con tutte le altre che si sono applicate: scienza della società (sociologia), scienze morali, scienze storiche, scienze della cultura — tutte queste designazioni soffrono del medesimo errore, di essere cioè troppo ristrette in rapporto all’oggetto che devono esprimere. Il nome che qui si è scelto ha per lo meno il vantaggio di designare adeguatamente l'ambito centrale di fatti a partire dal quale è stata vista in realtà l’unità di queste scienze, abbozzato il loro ambito, compiuta — benché ancora in maniera assai incompleta — la loro delimitazione rispetto alle scienze della natura. Il motivo di cui è derivata l’abitudine di delimitare queste scienze rispetto a quelle della natura, intendendole come una unità, è radicato nella profondità e nella totalità dell’autocoscienza umana. Ancor prima di procedere a indagini sull’origine del mondo spirituale, l’uomo trova in questa autocoscienza una sovranità del volere, una responsabilità delle sue azioni, una capacità di sottoporre tutto al pensiero e di opporsi a tutto nella libertà della sua persona, mediante cui si distingue da tutta la natura. Egli si ritrova infatti, in questa natura — per impiegare un'espressione spinoziana — come un Imperium in imperio®. E poiché per lui esiste solamente ciò che è fata. Pascal esprime in modo molto geniale questo sentimento della vita nelle Pensées: « Tutte queste miserie provano la sua grandezza: sono miserie da gran signore, miserie di un re spodestato » (I, 3). « Noi abbiamo fu pubblicato a Londra nel 1843 e tradotto in tedesco da I. Schiel nel 1849. Questa traduzione utilizza appunto il termine Geistessvissenschaften per rendere l'espressione milliana moral sciences: così, per esempio, il titolo del sesto libro (On the Logic of Moral Sciences) risulta tradotto Logik der Geisteswissenschaften. Dilthcy fa ricorso per la prima volta al termine Geistestvissenschaften proprio in riferimento a Mill, nel saggio Uber das Studium der Geschichte der Wissenschaften vom Menschen, der Gesellschaft und dem Staat (1875), ora raccolto in Gesammelte Schriften, vol. V, pp. 31-73. 94 WILHELM DILTHEY to della sua coscienza, ogni valore e ogni scopo della vita risiede in questo mondo spirituale che agisce in lui in maniera autonoma, e ogni fine delle sue azioni risiede nella costruzione di fatti spirituali. Così egli distingue dal regno della natura un regno della storia, nel quale — in mezzo alla connessione di una necessità oggettiva, che costituisce la natura — la libertà emerge in innumerevoli punti. In antitesi al corso meccanico dei mutamenti naturali, il quale già contiene fin dall’inizio tutto ciò che in esso ha luogo, i fatti della volontà producono realmente qualcosa in virtù del loro impiego di forza e dei loro sacrifici, del cui significato l'individuo è consapevole nella propria esperienza; essi suscitano lo sviluppo, sia nella persona sia nell’umanità — attraverso e oltre la vuota e desolata ripetizione del corso della natura nella coscienza, della cui rappresentazione come ideale di progresso storico si compiacciono gli adoratori dello sviluppo intellettuale. Invano l’epoca metafisica, per la quale questa differenza nelle basi di spiegazione si configurava immediatamente come una differenza sostanziale inerente alla struttura dell’universo, ha lottato per stabilire e giustificare formule in vista della fondazione di questa differenza dei fatti della vita spirituale da quelli del corso naturale. Tra tutte le trasformazioni che la metafisica antica ha conosciuto presso i pensatori medievali, nulla è stato più ricco di conseguenze del fatto che in questo periodo, in connessione con tutti i movimenti religiosi e teologici dominanti in cui erano inseriti questi pensatori, s’introdusse nel nucleo centrale del sistema la determinazione della differenza tra mondo degli spiriti e mondo dei corpi, e quindi la relazione di entrambi questi mondi con la divinità. La principale opera metafisica del Medioevo, la Summa de veritate catholicae fidei di Tommaso, abbozza—a partire dal secondo libro — una struttura del mondo creato in cui l’essenza (essentia quidditas) è distinta dall’essere (esse), mentre in Dio i due momenti sono una sola cosa*. Essa dimostra che nella gerarchia del un'idea così grande dell'anima umana che non possiamo sopportare di esserne disprezzati, di non esserne stimati » (I, 5) (Oeuvres complètes, Paris, 1866, vol. I, pp. 248-49). a. Summa contra Gentiles, libro I, cap. xxt1; cfr. pure libro II, cap. LIV. WILHELM DILTHEY 95 creato c'è un elemento necessario superiore, costituito dalle sostanze spirituali che non risultano dall’unione di forma e materia ma sono incorporee per sé — gli angeli — e dalle quali si distinguono le sostanze intellettuali o forme incorporee che, per il completamento della loro specie (cioè della specie « uomo »), abbisognano dei corpi. Su tale base essa elabora —in polemica con la filosofia araba — una metafisica dello spirito umano la cui influenza può venir seguita fino agli ultimi scrittori metafisici nei giorni nostri*; da questo mondo di sostanze imperiture si distingue la parte del creato che ha la propria essenza nell’unione di forma e materia. Questa metafisica dello spirito (psicologia razionale) fu posta poi da altri eminenti metafisici in relazione con la concezione meccanicistica della natura e con la filosofia corpuscolare, non appena queste ultime diventarono dominanti. Ma ogni tentativo di elaborare sul fondamento di questa dottrina delle sostanze, e con i mezzi della nuova concezione della natura, una rappresentazione sostenibile dei rapporti tra spirito e corpo naufragò. Quando Descartes sviluppò sulla base delle proprietà chiare e distinte dei corpi in quanto grandezze spaziali la sua rappresentazione della natura come un immenso meccanismo, considerando costanti le grandezze di movimento presenti in questo complesso, si introdusse nel sistema — insieme con l’ipotesi che una sola anima imprime dall’esterno un movimento in questo sistema materiale — la contraddizione. L’impossibilità di rappresentare un'influenza da parte di sostanze non-spaziali su questo sistema esteso non veniva certo diminuita dal fatto che Descartes raccolse in un punto il luogo spaziale di tale azione reciproca — come se potesse con ciò far scomparire la difficoltà. L’avventurosità della concezione secondo cui la divinità sorreggerebbe con ripetuti interventi questo gioco di azioni reciproche, oppure di quell’altra, secondo cui invece Dio avrebbe, come il più abile degli artefici, predisposto fin dall’inizio i due orologi del sistema materiale e del mondo degli spiriti in modo tale che un avvenimento naturale produca una sensazione e un atto di volontà realizzi una trasformazione del mondo esterno, dimostrano nel modo più chiaro l’inconciliabilità della nuova metafisica della natura con a. Summa contra Gentiles, libro II, cap. xvi. la precedente metafisica delle sostanze spirituali. Cosicché tale problema operò come pungolo sempre stimolante, favorendo la dissoluzione del punto di vista metafisico in generale. Questa dissoluzione si completerà nella conoscenza — che si svilupperà più tardi — che l’Erlebnis dell’autocoscienza è il punto di partenza del concetto di sostanza, che questo concetto sorge dall’adattamento di tale Erlebris alle esperienze esterne — prodotto dal conoscere che procede secondo il principio di ragion sufficiente — e che in tal modo questa dottrina delle sostanze spirituali altro non è che un riportare il concetto, formatosi in tale metamorfosi, all’ErleBnis entro cui era originariamente dato il suo presupposto. In luogo dell’antitesi tra sostanze materiali e sostanze spirituali subentrò quella tra il mondo esterno dato nella percezione esterna (sensation) mediante i sensi, e mondo interiore, dato primariamente in virtù dell’apprendimento interno degli eventi e delle attività psichiche (reffection)?. Il problema assume in tal modo un aspetto più modesto, che implica però la possibilità di un'impostazione empirica. Di fronte al nuovo e migliore metodo si fanno ora valere gli Erlebrisse che avevano trovato un'espressione scientificamente insostenibile nella dottrina delle sostanze propria della psicologia razionale. Per la costituzione in forma autonoma delle scienze dello spirito occorre anzitutto che — in base a questo punto di vista critico — da quei processi i quali sono formati mediante un collegamento concettuale sulla base del dato sensibile, e soltanto di questo, si distinguano, come un ambito particolare di fatti, quegli altri processi che sono invece dati primariamente nell’esperienza interna, cioè senza alcuna cooperazione dei sensi, e sono quindi formati sulla base del materiale dell’esperienza interna, dato in modo primario, in occasione di processi naturali esterni, per esser sottoposti a questi mediante un procedimento equivalente, per la sua funzione, al ragionamento analogico. Nasce così un particolare dominio di esperienze che ha la sua origine autonoma e il suo materiale nell’Erlebnis interiore, e che diventa quindi spontaneamente oggetto di una partico2. Dilthey si riferisce qui alla distinzione tra sensazione e riflessione formulata da Locke. WILHELM DILTHEY 97 lare scienza di esperienza. E finché qualcuno non asserirà di essere in grado di derivare dalla struttura del cervello di Goethe e dalle qualità del suo corpo — e di rendere così meglio conoscibile — l'insieme di passioni, di figure poetiche e di invenzione concettuale che noi indichiamo come la vita di Goethe, non sarà neppure contestata la posizione autonoma di una scienza siffatta. Orbene, ciò che per noi qui esiste, ed esiste in virtù di questa esperienza interna, ciò che per noi ha valore o costituisce uno scopo ci è dato soltanto nell’Er/ebnis del nostro sentimento e della nostra volontà: in questa scienza sono così contenuti i princìpi del nostro conoscere, che determinano in quale misura la natura può esistere per noi, e i princìpi del nostro agire, che spiegano l’esistenza di scopi, di beni, di valori su cui è fondato ogni commercio pratico con la natura. Una fondazione più approfondita della posizione autonoma delle scienze dello spirito accanto alle scienze della natura, che costituisce qui il nucleo della costruzione delle scienze dello spirito, sarà compiuta più avanti, gradualmente, nella misura in cui si procederà nell’analisi dell’Erlebnis complessivo del mondo spirituale nella sua incomparabilità con ogni esperienza sensibile concernente la natura. Mi limito qui a chiarire il problema, facendo cenno al duplice senso in cui si può asserire l’incompatibilità dei due ambiti di fatti: corrispondentemente, anche il concetto dei limiti della conoscenza della natura acquista un duplice significato. Uno dei nostri maggiori scienziati ha intrapreso la determinazione di questi limiti in un trattato assai discusso, e ha di recente illustrato questa determinazione dei limiti della sua scienza®. Supponiamo di aver tutte le trasformazioni del mondo corporeo in movimenti di atomi, causati dalle loro forze centrali costanti: in questo caso la totalità del mondo sarebbe conosciuta in base alle scienze della natura. « Uno spirito — a. E. Du Bors-ReyMonp, Uber die Grenzen des Naturerkennens, Leipzig, 4° ed. 1872: dello stesso autore si veda pure Die sieben Weltritsel, Berlin, 18813. 3. Emil Du Bois-Reymond (1818-1896), fisiologo positivista, autore delle due opere citate da Dilthey, sostenne l'impossibilità per l’uomo di risolvere gli enigmi « trascendenti » e la necessità di attenersi al principio dell’ignorabimus. egli prende le mosse da quest'immagine di Laplace — che per un dato istante conoscesse tutte le forze operanti della natura, e la reciproca posizione degli esseri di cui essa consta, € che inoltre fosse anche abbastanza sapiente da sottomettere ad analisi questi dati, sarebbe in grado di comprendere in una medesima formula i movimenti dei massimi corpi celesti come dell’atomo più leggero » ®. Siccome l'intelligenza umana nella scienza astronomica è una « debole copia di uno spirito di tal fatta», Du Bois-Reymond indica la conoscenza di un sistema materiale prospettata da Laplace come conoscenza astronomica. Partendo da tale immagine si approda di fatto a una concezione assai chiara dei limiti entro cui è racchiusa la tendenza dello spirito proprio delle scienze naturali. Ci sia ora concesso di introdurre in questa considerazione del problema una distinzione relativa al concetto di limite della conoscenza naturale. Dal momento che la realtà, in quanto correlato dell’esperienza, ci è data nella cooperazione della struttura dei nostri sensi con l’esperienza interna, dalla differenza di provenienza dei suoi elementi costitutivi che ne deriva scaturisce un'incomparabilità tra gli elementi del nostro calcolo scientifico, la quale esclude la derivazione dei fatti di una determinata provenienza da quelli di provenienza diversa. Dalle qualità dell'elemento spaziale perveniamo così attraverso la fatticità del senso del tatto — nel quale viene esperita la resistenza — alla rappresentazione della materia; ogni senso è racchiuso entro il suo specifico ambito di qualità; e se dobbiamo apprendere uno stato della coscienza in un momento determinato, siamo costretti a passare dalla sensibilità alla percezione degli stati interni. Pertanto noi possiamo soltanto accogliere i dati nell’incomparabilità in cui essi si presentano a seguito dela. P. S. LarLace, Essai philosophique sur les probabilités, Paris, 1814, p. 3°. 4. Pierre-Simon Laplace (1749-1827), matematico e astronomo francese, autore dell'Exposition du système du monde (1796), del Traité de mécanique céleste (1798-1825), della TAéorie analytique des probabilités (1812) e del saggio citato da Dilthey, diede un contributo decisivo alla formulazione della teoria — già enunciata da Kant — dell'origine del sistema solare da una massa gassosa. L'Essai sviluppa le implicazioni filosofiche del calcolo delle probabilità. la loro diversa provenienza; la loro esistenza di fatto rimane per noi priva di giustificazione; ogni nostro conoscere è limitato alla constatazione di uniformità nella successione e nella contemporaneità, secondo le quali esse sono in relazioni reciproche nella nostra esperienza. Si tratta di limiti inerenti alle condizioni stesse del nostro esperire, cioè di limiti che sussistono in ogni punto della scienza della natura, non già di barriere esterne in cui urti la conoscenza della natura, bensì di condizioni immanenti allo stesso esperire. La presenza di questi confini immanenti della conoscenza non costituisce però impedimento alcuno per la funzione del conoscere. Se col termine comprendere si designa una completa trasparenza nell’apprendimento di una connessione, allora ci troviamo di fronte a barriere contro cui urta il comprendere. Ma, sia che la scienza sottometta al suo calcolo, riconducendo i mutamenti della realtà a movimenti di atomi, delle qualità oppure dei fatti della coscienza — sempre che questi si lascino sottomettere — l’inderivabilità non costituisce impedimento alcuno alle sue operazioni. È tanto poco possibile trovare un passaggio da una determinatezza meramente matematica o da una grandezza di movimento a un colore o a un suono, quanto a un evento della coscienza: non posso spiegare la luce azzurra mediante il corrispondente numero di oscillazioni più di quel che possa spiegare il giudizio negativo mediante un processo che accade nel cervello. Come la fisica cede alla fisiologia il compito di spiegare la qualità sensibile dell’« azzurro », così la fisiologia — che nel movimento di parti materiali non possiede neppur essa un mezzo per far apparire d’incanto l'azzurro — trasmette alla psicologia il suo compito, che rimane in definitiva, come in un gioco di specchi magici, affidato alla psicologia. Ma l’ipotesi che le qualità sorgano dal processo della sensazione è di per sé solamente un mezzo ausiliario di calcolo, che riconduce le trasformazioni della realtà — quali si dànno nella mia esperienza — a una certa classe di trasformazioni al suo interno che costituisce un contenuto parziale della mia esperienza, per poterle collocare in certo modo su uno stesso piano a scopo di conoscenza. Se fosse possibile sostituire a fatti definiti in maniera determinata, che nel contesto della considerazione meccanicistica della natura occupano un posto stabilito, fatti di coscienza definiti in modo costante e determinato, e con ciò stabilire — conformemente al sistema di uniformità in cui si trovano i primi — il presentarsi dei processi della coscienza in un accordo completo con l’esperienza, allora questi fatti di coscienza sarebbero inseriti nella connessione della conoscenza naturale allo stesso modo di un qualsiasi suono o colore. Ma proprio a questo punto l’incomparabilità tra processi materiali e processi spirituali assume un diverso senso, e pone alla conoscenza naturale limiti di tutt'altro genere. L’impossibilità di derivare i fatti spirituali da quelli dell'ordine meccanico della natura, che si fonda sulla diversità della loro provenienza, non impedirebbe l’inserimento dei primi nel sistema dei secondi. Soltanto quando le relazioni tra i fatti del mondo spirituale si presentano incomparabili nella loro specie con le uniformità della natura, viene esclusa una subordinazione dei fatti spirituali a quelli accertati dalla conoscenza meccanica della natura: infatti qui non ci si trova di fronte a confini immanenti al conoscere empirico, bensì a limiti in cui la conoscenza naturale finisce e ha invece inizio un’autonoma scienza dello spirito, che si costituisce intorno a un proprio centro. Il problema fondamentale consiste pertanto nello stabilire quella data specie di incomparabilità tra le relazioni dei fatti spirituali e le uniformità dei processi materiali che esclude la subordinazione dei primi e una loro interpretazione come qualità e aspetti della materia, e che dev'essere di tutt’altro genere della differenza sussistente tra i diversi ambiti particolari di leggi della materia — così come queste si presentano nella matematica, nella fisica, nella chimica e nella fisiologia, sotto forma di un rapporto di subordinazione che si sviluppa in modo coerente. L’esclusione dei fatti spirituali dalla connessione della materia, delle sue qualità e delle sue leggi presupporrà sempre un contrasto che si manifesta, in qualsiasi tentativo di subordinazione siffatta, tra le relazioni dei fatti di un campo e quelle di un altro. E ciò appare chiaro quando l'incomparabilità della realtà spirituale viene ricondotta ai fatti dell’autocoscienza e dell’unità della coscienza ad essa inerente, alla libertà e ai fatti della vita normale ad essa collegati, in antitesi all’organizzazione spaziale e alla divisibilità della materia nonché alla necessità meccanica a cui soggiace il comportamento di ogni sua parte. Vecchi WILHELM DILTHEY IOI quasi quanto la riflessione rigorosa sulla posizione dello spirito rispetto alla natura sono i tentativi di formulare questo tipo di incomparabilità dell’elemento spirituale con qualsiasi ordine naturale, sulla base dei fatti dell’unità della coscienza e della spontaneità del volere. Nella misura in cui nell'esposizione di questo illustre scienziato viene introdotta la distinzione tra i confini immanenti dell’esperire e i limiti della subordinazione dei fatti alla connessione della conoscenza naturale, i concetti di limite e di inesplicabilità acquistano un senso esattamente definibile, e scompaiono quindi difficoltà che si sono fatte ampiamente rilevare nella polemica intorno ai limiti della conoscenza naturale provocata da questo scritto. L'esistenza di confini immanenti all’esperienza non è affatto decisiva rispetto alla questione riguardante la subordinazione di fatti spirituali alla connessione della conoscenza della materia. Se ci si propone — come nel caso di Haeckel5 e di altri scienziati — di inserire i fatti spirituali nella connessione della natura, assumendo l’esistenza di una vita psichica negli elementi in base ai quali si costituisce l'organismo, tra un tentativo del genere e la conoscenza dei confini immanenti di ogni esperienza non sussiste assolutamente alcun rapporto di esclusione; su di esso decide soltanto il secondo tipo di indagine sui limiti del conoscere naturale. Per questo anche Du Bois-Reymond ha proseguito nel secondo tipo di indagine, e nella sua dimostrazione si è servito dell’argomento dell’unità della coscienza così come dell’argomento della spontaneità del volere. La dimostrazione della tesi «che gli elementi spirituali non possono mai essere compresi sulla base delle Ioro condizioni materiali »° viene condotta come segue. Anche nel caso di una conoscenza compiuta di tutte le parti del sistema materiale, della loro reciproca posizione e del loro movimento, a. E. Du Bors-RexMonD, op. cit., p. 28. 5. Ernest Heinrich Hacckel (1834-1919), biologo e filosofo positivista, autore di numerose opere di argomento zoologico e di una Generelle Morphologie der Organismen (1866), nonché di vari volumi sulla teoria dell'evoluzione, fu uno dei maggiori esponenti del darwinismo in Germania. Il libro Die Welrétse! (1899), scritto in polemica con Du Bois-Reymond, rappresenterà un tentativo di risposta in chiave positivistica a quelli che Du Bois-Reymond aveva indicato come gli enigmi insolubili del mondo. rimane però del tutto incomprensibile perché a un certo numero di atomi di carbonio, d’idrogeno, di azoto, di ossigeno, non dovrebbe essere indifferente in qual modo essi sono collocati e si muovono. L'impossibilità di spiegare l'elemento spirituale rimane tuttavia immutata anche se ognuno di questi elementi è corredato di coscienza al pari delle monadi; in base a quest’ipotesi non si può spiegare la coscienza unitaria dell’individuo*. a. E. Du Bois-RerMonD, op. cit., pp. 29-30; cfr. anche Die sieben Weltritsel cit., p. 7. Quest'argomentazione ha del resto valore conclusivo soltanto se alla meccanica atomistica si attribuisce una validità per così dire metafisica. Alla sua storia, accennata da Du Bois-Reymond, si può avvicinare anche la formulazione che troviamo nel classico della psicologia razionale, Moses Mendelssohn? Leggiamo per esempio in Schriften, Leipzig, 1880, vol. I, p. 277: « 1) Tutto quanto distingue il corpo umano da un blocco di marmo può essere ricondotto a movimento. Ma il movimento non è altro che il mutamento del luogo o della posizione. È evidente che tutti i mutamenti di luogo possibili al mondo, per quanto possano essere raccolti insieme, non comportano affatto la percezione di questi mutamenti di luogo. — 2) Tutta la materia è costituita da più parti. Se le singole rappresentazioni fossero isolate nelle parti dell'anima così come gli oggetti lo sono nella natura, non si incontrerebbe mai la totalità. Noi non potremmo paragonare tra loro le impressioni dei vari sensi, confrontare le rappresentazioni, percepire rapporti, riconoscere relazioni. Ne deriva chiaramente che non soltanto nel pensiero, ma anche nella sensazione la molteplicità deve convergere nell'unità. Dal momento però che la materia non è mai un soggetto singolo ecc. ». Kant sviluppa questo « tallone d'Achille di ogni conclusione dialettica della dottrina pura dell’anima » come il secondo paralogismo della psicologia trascendentale. In Lotze? questi « atti del sapere relazionante » sono stati svilupppati in vari scritti (da ultimo nella Metaphysik, Leipzig, 1841, p. 476) come «il fondamento insuperabile, su cui può riposare con sicurezza la convinzione dell'autonomia dell'anima », e costituiscono la base di questa parte del suo sistema metafisico. 6. Moses Mendelssohn (1729-1786), autore dei P/ilosophische Gespriche (1755), dei Briefe tiber die Empfindungen (1755), del Phédon (1767), delle Morgenstunden (1785) c di varie altre opere, fu uno dei maggiori esponenti della « filosofia popolare » di ispitazione illuministica; amico di Lessing, lo difese dall'attribuzione di spinozismo sostcnuta da Jacobi. Dilthey si riferisce qui al tentativo di dimostrazione dell'immortalità dell’anima, criticato da Kant nella Critica della ragion pura. 7. Rudolph Hermann Lotze (1817-1881), autore della MetapAysik (1841), della Logi% (1843), del Mikrokosnus (1856-58), del System der Philosophie (1874-79) e di numerose altre opere, alcune delle quali pubblicate postume, fu il maggiore rappresentante dello spiritualismo ottocentesco tedesco: il suo pensiero ebbe larga diffusione, influenzando la cultura filosofica della seconda metà del sccolo in senso anti-positivistico c antipsicologistico. WILHELM DILTHEY 103 Già la sua tesi contiene in quel « non possono mai essere compresi » un doppio senso che ha come conseguenza l'emergere, nella dimostrazione stessa, di due argomenti di portata ben differente. Da un lato egli afferma che il tentativo di derivare fatti spirituali da trasformazioni materiali (attualmente caduto in oblio in quanto rozzo materialismo, e compiuto ancora soltanto attraverso l’ipotesi dell’esistenza di proprietà psichiche negli elementi) non può eliminare i confini immanenti di ogni esperienza: il che è certo, ma non decisivo contro la subordinazione dello spirito alla conoscenza naturale. Egli afferma allora che tale tentativo deve naufragare davanti alla contraddizione tra la nostra rappresentazione della materia e il carattere di unità che è proprio della nostra coscienza. Nella sua posteriore polemica con Haeckel, a quest'argomento aggiunge quell’altro che, se si mantiene tale ipotesi, si ha un’ulteriore contraddizione tra il modo in cui un elemento materiale è meccanicamente condizionato nella connessione naturale e l’Er/ebnis della spontaneità del volere; una « volontà » presente negli elementi della materia che « deve volere, voglia o non voglia, e ciò in rapporto diretto al prodotto delle masse e in rapporto inverso al quadrato delle distanze » è una contradictio in adiecto. In un ambito più ampio, però, le scienze dello spirito comprendono in sé fatti naturali, hanno a fondamento la conoscenza della natura. Se si concepissero esseri puramente spirituali in un regno di persone costituito soltanto da essi, il loro venire alla luce, la loro conservazione e il loro sviluppo, al pari della loro scomparsa (in qualsiasi modo ci si rappresenti lo sfondo da cui provengono e a cui sono destinati a fare ritorno), sarebbero legati a condizioni di tipo spirituale; il loro benessere sarebbe fondato sulla loro posizione rispetto al mondo spirituale; la loro connessione reciproca, le loro origini si compirebbero con mezzi puraa. E. Dv Bois-Revmonp, Die sieben Weltritsel. mente spirituali e gli effetti durevoli di tali azioni sarebbero anch'essi di tipo puramente spirituale; lo stesso loro ritrarsi dal regno delle persone avrebbe il suo fondamento nell’elemento spirituale. Un sistema composto da individui siffatti potrebbe venir conosciuto da pure scienze dello spirito. In realtà un individuo nasce, si conserva e si sviluppa sulla base delle funzioni dell’organismo animale e delle sue relazioni col corso naturale dell'ambiente; il suo sentimento vitale è, almeno in parte, fondato su queste funzioni; le sue impressioni sono condizionate dagli organi di senso e dalle influenze del mondo esterno; la ricchezza e la mobilità delle sue rappresentazioni, la forza e la direzione dei suoi atti di volontà dipendono sovente dalle modificazioni del suo sistema nervoso. L'impulso della sua volontà comporta un accorciamento delle fibre muscolari, cosicché l’agire verso l’esterno è connesso ai mutamenti di posizione delle particelle dell’organismo, e le conseguenze durevoli delle sue azioni volontarie esistono soltanto nella forma di trasformazioni all’interno del mondo materiale. La vita spirituale di un uomo è perciò una parte — separabile solo in virtù di un’astrazione — della vivente unità psico-fisica in cui si manifesta un'esistenza e una vita umana, Il sistema di queste unità viventi è la realtà che costituisce l’oggetto delle scienze storicosociali. In virtù del duplice punto di vista del nostro apprendimento, l'uomo come unità vivente è per noi (quale che sia il suo stato metafisico) una connessione di fatti spirituali fin dove giunge la consapevolezza interiore, ed è invece un complesso corporeo nella misura in cui apprendiamo per mezzo dei sensi. La consapevolezza interiore e l'apprendimento esterno non si compiranno mai nello stesso atto, e quindi il fatto della vita spirituale non ci è mai dato contemporancamente a quello del corpo. Ne derivano necessariamente per la coscienza scientifica che voglia cogliere i i fatti spirituali e il mondo corporeo nella loro connessione, di cui è espressione la vivente unità psico-fisidue punti di vista differenti, e tra loro irriducibili. Se procedo dall’esperienza interna, troverò l’intero mondo esterno dato nella mia coscienza: le leggi di questo complesso naturale sottostanno alle condizioni della mia coscienza e dipendono quindi da esse. Questo è il punto di vista che la filosofia tedesca a cavallo tra il secolo xvi e il nostro designava come filosofia trascendentale. Se invece assumo la connessione della natura quale essa mi si offre come realtà nel mio apprendimento naturale, e percepisco i fatti psichici come inseriti nella successione temporale di questo mondo esterno nonché nella sua suddivisione spaziale, troverò che le trasformazioni della vita spirituale dipendono dall’intervento della natura o dell’esperimento, consistente in trasformazioni materiali provocate agendo sul sistema nervoso: un'osservazione dello sviluppo della vita e degli stati morbosi allarga queste esperienze in un quadro complessivo del condizionamento dell’elemento spirituale da parte dell’elemento corporeo. Sorge allora il modo di concepire proprio dello scienziato che procede dall’esterno ver-so l’interno, dalle trasformazioni materiali alle trasformazioni spirituali. Così l’antagonismo tra il filosofo e lo scienziato è condizionato dall’antitesi dei loro rispettivi punti di partenza. ‘Procediamo ora dal tipo di considerazione proprio della scienza naturale. Finché questo tipo di considerazione rimane consapevole dei propri limiti, i suoi risultati sono incontestabili. Essi ricevono una più precisa determinazione del loro valore conoscitivo soltanto dal punto di vista dell'esperienza interna. La scienza della natura analizza la connessione causale del corso naturale. Laddove quest’analisi ha raggiunto il punto in cui una situazione o una trasformazione materiale è legata in maniera regolare con una situazione o una trasformazione psichica, senza che sia possibile rinvenire tra loro un ulteriore elemento intermedio, allora si può soltanto constatare questa relazione regolare, ma non si può applicare a tale relazione il rapporto di causa ed effetto. Noi scopriamo che le uniformità di un ambito di vita sono regolarmente collegate con uniformità dell’altro, e l’espressione di questo rapporto è dato dal concetto matematico di funzione. Una concezione di tale rapporto, che consenta di paragonare il corso delle trasformazioni spirituali e di quelle corporee alla marcia di due orologi caricati in modo identico, è in accordo con l’esperienza tanto quanto una concezione che assuma come base esplicativa uno solo dei due orologi, considerando entrambi gli ambiti di esperienza come manifestazioni diverse di uno stesso fondamento. La dipendenDI za dell’elemento spirituale dalla connessione della natura è 106 WILHELM DILTHEY quindi il rapporto secondo il quale la connessione universale della natura condiziona causalmente quelle situazioni e trasformazioni materiali che sono per noi collegate regolarmente, e senza un’ulteriore mediazione, con situazioni e trasformazioni spirituali. In tal modo la conoscenza naturale vede la concatenazione delle cause spingere i suoi effetti fino alla vita psico-fisica; qui sorge una trasformazione in cui la relazione tra materiale e psichico si sottrae alla concezione causale, e questa trasformazione ne richiama a sua volta una nel mondo materiale. In questo contesto l’importanza della struttura del sistema nervoso si rivela all’esperimento del fisiologo. I confusi fenomeni della vita vengono dipanati in una chiara rappresentazione dei rapporti di dipendenza, nella cui successione il corso naturale spinge le sue trasformazioni fino all’uomo; queste poi penetrano, attraverso le porte degli organi di senso, nel sistema nervoso: sorgono la sensazione, la rappresentazione, il sentimento e il desiderio, che hanno poi un’azione retroattiva sul corso della natura. La stessa unità vivente, che ci riempie col sentimento immediato della nostra inscindibile esistenza, viene risolta in un sistema di relazioni tra i fatti della nostra coscienza e la struttura e le funzioni del sistema nervoso che possono essere empiricamente accertate: infatti ogni azione psichica si mostra collegata con una trasformazione all’interno del nostro corpo soltanto attraverso il sistema nervoso, e da parte sua la trasformazione corporea è accompagnata da un mutamento del nostro stato psichico soltanto attraverso l’effetto che ha sul sistema nervoso. Da quest’analisi delle viventi unità psico-fisiche sorge ora una più chiara rappresentazione della loro dipendenza dalla connessione complessiva della natura, all’interno della quale esse compaiono e operano, e dalla quale nuovamente si ritraggono, nonché dalla dipendenza dello studio della realtà storico-sociale dalla conoscenza della natura. Su questa base si può stabilire il grado di attendibilità delle teorie di Comte e di Spencer in merito alla posizione di queste scienze all’interno della gerarchia della scienza nel suo insieme, da essi formulata. Poiché questo scritto si propone di fondare la relativa autonomia delle scienze dello spirito, esso deve pure sviluppare — in quanto aspetto complementare della loro posizione nel complesso delle WILHELM DILTHEY 107 scienze — il sistema delle dipendenze in virtù del quale esse sono condizionate dalla conoscenza naturale e costituiscono quindi il momento ultimo e supremo della costruzione che ha inizio con la fondazione matematica. I fatti dello spirito sono i limiti superiori dei fatti della natura; i fatti della natura costituiscono le condizioni inferiori della vita spirituale. Proprio perché il regno delle persone, cioè la società umana, è la manifestazione suprema del mondo dell’esperienza terrena, la sua conoscenza ha bisogno in innumerevoli punti della conoscenza del sistema di presupposti che risiedono, per il suo sviluppo, nella natura. E invero l’uomo, in virtù della sua posizione entro la connessione causale della natura, è condizionato da questa secondo una duplice relazione. Come abbiamo visto, l’unità psico-fisica riceve continuamente influenze, per il tramite del sistema nervoso, dal corso universale della natura, e a sua volta agisce su di esso. È tuttavia proprio della sua natura che le influenze che da essa procedono assumano principalmente la forma di un agire diretto da scopi. Per questa unità psico-fisica il corso della natura e la sua qualità da un lato determina la formazione degli scopi, dall'altro contribuisce al raggiungimento di questi scopi come un sistema di mezzi. E perciò noi stessi esistiamo là dove vogliamo, dove operiamo sulla natura, appunto perché non siamo forze cieche, bensì volontà che stabiliscono riflessivamente i loro scopi indipendenti dalla connessione della natura. Pertanto le unità psico-fisiche si trovano in una duplice dipendenza rispetto al corso naturale. Da una parte questo condiziona, in quanto sistema di cause — a partire dal posto della terra nell'insieme del cosmo — la realtà storico-sociale, e il grande problema del rapporto tra connessione naturale e libertà all'interno di tale realtà si scompone, per lo scienziato empirico, in innumerevoli questioni particolari riguardanti il rapporto tra fatti dello spirito e influenze della natura. D'altra parte, dagli scopi di questo regno di persone scaturiscono effetti retroattivi sulla matura, sulla terra — che l’uomo considera in questo senso come propria abitazione, e in cui agisce per accomodarvisi; anche questi effetti retroattivi sono legati all’utilizzazione della connessione legale della natura. Tutti gli scopi si presentano in definitiva all'uomo soltanto all’interno del processo spirituale, giacché solo in esso esiste qualcosa per lui; ma lo scopo cerca i suoi mezzi nella connessione della natura. Quanto poco percepibile è spesso la trasformazione prodotta nel mondo esterno dalla potenza creatrice dello spirito! E tuttavia soltanto su di essa poggia la mediazione in virtù della quale il valore così creato esiste anche per gli altri. I pochi fogli che, come residuo materiale di un più profondo lavoro intellettuale degli antichi nella direzione dell’ipotesi di un movimento della terra, pervennero nelle mani di Copernico, sono diventati il punto di partenza di una rivoluzione nella nostra visione del mondo. A questo punto si può intuire quanto sia relativa la reciproca delimitazione di queste due classi di scienze. Polemiche come quelle condotte a proposito della posizione della linguistica generale sono infruttuose. In entrambi i luoghi di trapasso che conducono dallo studio della natura a quello dello spirito, nei punti in cui la connessione della natura influenza lo sviluppo dell’elemento spirituale e negli altri in cui invece riceve l’influenza dell'elemento spirituale oppure costituisce il luogo di passaggio per l’influenza su un altro elemento spirituale, le conoscenze relative alle due classi di scienze si mescolano sempre. Le conoscenze delle scienze naturali si mescolano con quelle delle scienze dello spirito. E infatti in questa connessione — in conformità alla duplice relazione con cui il corso naturale condiziona la vita dello spirito — la conoscenza dell'influenza formativa della natura si intreccia spesso con la constatazione dell’influenza che essa esercita come materiale dell’agire. Così dalla conoscenza delle leggi naturali di formazione dei suoni deriva una parte importante della grammatica e della teoria musicale, e il genio del linguaggio o della musica è a sua volta legato a queste leggi naturali: lo studio delle sue funzioni è quindi condizionato dalla comprensione di tale dipendenza. A questo punto si può inoltre intuire che la conoscenza delle condizioni presenti nella natura, e formulate dalla scienza naturale, costituisce in larga misura il fondamento dello studio dei fatti spirituali. Come lo sviluppo ‘dell’uomo singolo, così anche la diffusione del genere umano sulla terra e la formazione dei suoi destini nella storia sono condizionate dall’intera connessione cosmica. Per esempio, le guerre costituiscono un elemento fondamentale di ogni storia: in quanto storia politica, essa ha a che fare con la volontà di stati, ma questa si presenta in armi e si impone per mezzo loro. La teoria della guerra dipende però in primo luogo dalla conoscenza dell’elemento fisico, che offre terreno e mezzi alle volontà in conflitto: la guerra persegue infatti lo scopo di imporre al nemico la nostra volontà con i mezzi della violenza fisica. Ciò implica che l’avversario dev'essere costretto, fino a essere privo di difesa — che è lo scopo teorico di quell’atto di violenza designato come guerra — cioè fino al punto in cui la sua situazione diventa più svantaggiosa del sacrificio che gli si richiede, e può essere scambiata soltanto con una situazione ancor più svantaggiosa. In questo grande calcolo, dunque, i numeri che risultano più importanti per la scienza, e di cui essa si occupa in primo luogo, sono le condizioni e i mezzi fisici, mentre c'è assai poco da dire circa i fattori psichici. Le scienze dell’uomo, della società e della storia hanno dunque a loro fondamento le scienze della natura, anzitutto perché le stesse unità psico-fisiche possono essere studiate soltanto con l’aiuto della biologia, e inoltre perché il mezzo in cui ha luogo il loro sviluppo e la loro attività teleologica, e al cui dominio tale attività si riferisce in gran parte, è la natura. Sotto il primo aspetto, il loro fondamento è costituito dalle scienze dell’organismo, sotto il secondo prevalentemente da quelle della natura inorganica. La connessione che si deve spiegare in questi termini poggia da una parte sul fatto che queste condizioni naturali determinano lo sviluppo e la distribuzione della vita spirituale sulla superficie terrestre, dall'altra sul fatto che l’attività teologica dell’uomo è legata alle leggi della natura e quindi condizionata dalla loro conoscenza e utilizzazione. Il primo rapporto indica pertanto solo una dipendenza dell’uomo dalla natura, mentre il secondo contiene questa dipendenza soltanto come aspetto complementare della storia del suo crescente dominio sulla terra. Quella parte del primo rapporto che racchiude in sé le relazioni dell’uomo con la natura circostante è stata sottoposta da Ritter al metodo comparativo. Brillanti intuizioni, e in particolare la sua valutazione comparativa dei continenti in base alla struttura dei loro contorni, lasciavano intravvedere una predestinazione della storia universale fissata II10 WILHELM DILTHEY nei rapporti spaziali della terra. I lavori successivi non hanno però confermato quest’intuizione, concepita da Ritter" come una teleologia della storia universale, e poi posta da Buckle® al servizio del naturalismo: al posto della rappresentazione di una dipendenza uniforme dell’uomo dalle condizioni naturali è subentrata la rappresentazione più prudente secondo cui la lotta delle forze etico-spirituali contro le condizioni della morta spazialità ha continuamente diminuito nei popoli storici — a differenza dai popoli privi di storia — il rapporto di dipendenza. Anche qui si è affermata una scienza autonoma della realtà storico-sociale, che utilizza a scopo di spiegazione le condizioni naturali. L’altro rapporto mostra invece — con la dipendenza inerente all’adattamento alle condizioni naturali — che il dominio della spazialità è così legato al pensiero scientifico e alla tecnica che l'umanità nella sua storia riesce a prevalere proprio in virtù della subordinazione. Natura enim non nisi parendo vincitur®. Il problema del rapporto delle scienze dello spirito con la conoscenza della natura può quindi esser considerato risolto soltanto se si risolve l’antitesi, dalla quale siamo partiti, tra il punto di vista trascendentale, secondo cui la natura è sottoposta alle condizioni della coscienza, e il punto di vista oggettivo-empirico, secondo cui lo sviluppo dell’elemento spirituale è sottoposto alle condizioni della totalità della natura. Questo compito costituisce un aspetto del problema della conoscenza. Se si isola questo problema per le scienze dello spirito, non appare impossibile una soluzione convincente per tutti. Le sue condizioni sarebbero la dimostrazione della realtà oggettiva dell’esperienza interna e la comprova dell’esistenza di un mondo esterno; pera. Bacone, De interpretatione naturae et regno hominis, aforisma 3. 8. Karl Ritter (1779-1859) fu uno dei maggiori gcografi tedeschi della prima metà dell'Ottocento: la sua opera principale è Die ErdAunde im Verhiltnis zur Natur und Geschichte des Menschen (1817-18, 2° cd. 1822-58), che offre una descrizione sistematica del Vecchio Mondo, ispirata al presupposto (di origine herderiana) dell’individualità dei continenti e alla considerazione dell'azione trasformatrice dell'ambiente da parte dell’uomo. 9. Henry Thomas Buckle (1821-1862), storico inglese, autore di una History of Civilization in England (1857-61) di ispirazione positivistica. tanto in questo mondo esterno fatti ed esseri spirituali esistono in virtù di un processo di trasposizione della nostra interiorità in essi. Come l'occhio accecato dal sole ne ripete in modo variopinto l’immagine nei luoghi più vari dello spazio, così il nostro apprendimento moltiplica l’immagine della nostra vita interiore e la colloca in svariate maniere nei più diversi luoghi della natura circostante: questo processo può essere però esposto e giustificato logicamente come un’inferenza analogica da questa vita interiore originaliter data in modo immediato soltanto a noi, attraverso le rappresentazioni delle manifestazioni ad essa concatenate, a qualcosa di affine corrispondente a manifestazioni affini del mondo esterno, che sta a loro fondamento. Qualunque cosa sia la natura in se stessa, lo studio delle cause della realtà spirituale può accontentarsi del fatto che in ogni caso i suoi fenomeni possono venir concepiti e utilizzati come segni del reale, e le uniformità presenti nei suoi rapporti di coesistenza e di successione possono venir concepite come segni di uniformità presenti nel reale. Se però ci si introduce nel mondo dello spirito e si indaga la natura o in quanto contenuto dello spirito o in quanto scopo o mezzo intessuto nelle volontà, per lo spirito la natura è appunto ciò che essa è in lui, e qui è del tutto indifferente quale possa essere in sé. È sufficiente che lo spirito possa far conto nel suo agire, comunque la natura gli sia data, sulla sua legalità, e possa gustare la bella apparenza della sua esistenza. III. PROSPETTIVE SULLE SCIENZE DELLO SPIRITO Le scienze dello spirito non si sono ancora costituite a complesso unitario; esse non sono ancora in grado di stabilire una connessione in cui le singole verità siano ordinate secondo i loro rapporti di dipendenza da altre verità e dall'esperienza. Queste scienze sono cresciute nella prassi stessa della vita, sviluppandosi in base alle esigenze della formazione professionale, e la sistematicità delle facoltà al servizio di tale formazione è quindi la forma spontanea della loro connessione. I loro primi concetti e le loro prime regole sono state quindi trovate per lo più nell’esercizio delle funzioni sociali. Jhering!® ha dimostrato che il pensiero giuridico ha prodotto i concetti fondamentali del diritto romano mediante un cosciente lavoro spirituale compiutosi nella stessa vita del diritto. Anche l’analisi delle più antiche costituzioni greche indica in esse i precipitati dell’ammirevole forza di un pensiero politico consapevole fondato su concetti e princìpi chiari. L'idea fondamentale in base alla quale la libertà dell’individuo viene riposta nella sua partecipazione al potere politico, ma questa è regolata dall’ordinamento statale in conformità alla funzione che l’individuo assolve per il tutto, è stata dapprima decisiva per l’arte politica, e soltanto in seguito è stata elaborata in forma scientifica dai grandi teorici della scuola socratica. Il progredire verso teorie scientifiche comprensive si appoggiava quindi prevalentemente sul bisogno di una formazione professionale dei ceti dirigenti. Così già nella Grecia, dai compiti di un insegnamento politico superiore sorsero, nell’età dei Sofisti, la retorica e la politica; e la storia della maggior parte delle scienze dello spirito nei popoli moderni mostra l’influenza dominante del medesimo rapporto fondamentale. La letteratura dei Romani riguardo alla loro comunità ricevette la sua struttura più antica dal fatto di essersi sviluppata in forma di istruzioni per i sacerdoti e per i singoli magistrati®. Perciò la sistematica di quelle scienze dello spirito che contengono la base per la formazione professionale degli organi dirigenti della società, come anche l’esposizione di tale sistematica in veste enciclopedica, è emersa in definitiva dal bisogno di un compendio su quanto occorre a tale propedeutica; e la forma più naturale delle enciclopedie sarà sempre — come Schleiermacher ha magistralmente mostrato a proposito della teologia — quella che si articola con la coscienza di tale scopo. Con queste condizioni limitative, chi penetri nelle a. Cir. T. Mommsen, Romisches Staatsrecht, Leipzig, vol. I, 1871, p. 3 SBg10. Rudolph von Jhering (1818-1892), giurista c filosofo del diritto tedesco, autore di Der Geist des ròmischen Rechts (1852-65), di Der Kampf ums Recht (1872), di Der Zweck im Recht (1877-84) c di numerose altre opere, alcune delle quali pubblicate postume, diede un contributo fondamentale alla considerazione storico-istituzionale del diritto c, in particolare, all'analisi del diritto romano. scienze dello spirito troverà nelle opere enciclopediche uno sguardo d’insieme sui singoli gruppi importanti di queste scienze?. Vari tentativi — che vanno al di là di queste funzioni — di scoprire la struttura complessiva delle scienze che hanno per oggetto la realtà storico-sociale hanno preso le mosse dalla filosofia. In quanto cercavano di derivare questa connessione da princìpi metafisici, essi sono ricaduti nel destino che tocca a ogni metafisica. Già Bacone si servì di un metodo migliore, ponendo le scienze dello spirito allora esistenti in relazione con il problema di una conoscenza della realtà sulla base dell’esperienza, e commisurò a questo compito le loro funzioni e i loro difetti. Comenio" si propose, con la sua « pansofia», di derivare dal rapporto di reciproca dipendenza interna delle verità la successione di gradi in cui esse devono presentarsi nell’insegnamento; e poiché in tal modo, opponendosi al falso concetto di una istruzione formale, scoprì il principio fondamentale di un’educazione futura (purtroppo al di là da venire ancor oggi), con il principio della dipendenza reciproca delle verità preparò anche una struttura appropriata delle scienze. Comte, sottoponendo a indagine la relazione tra questo rapporto logico di dipendenza in cui stanno tra loro le verità e il rapporto storico di successione in cui esse compaiono, creò il fondamento per un'autentica filosofia delle scienze. Egli consia. Per uno sguardo d'insieme di questo tipo su particolari campi delle scienze dello spirito, si rimanda alle seguenti enciclopedie: R. von MoHI, Enzyklopidie der Staatswissenschaften, Tubingen, 1859, 2° ed. non riveduta 1873; 3* ed. 1881 (si veda inoltre la panoramica e la valutazione di altre enciclopedie nella sua Geschichte und Literatur der Staatswissenschaften in Monographien dargestellt, Erlangen, vol. I, 1855, pp. 111-46); L. A. WarNnKONIG, /uristische EnzyKlopéidie oder organische Darstellung der Rechtswissenschaft, Erlangen, 1853; F. E. D. ScHLErERMAcHER, Kurze Darstellung des theologischen Studiums, Berlin, 1810, 2° ed. riveduta 1830; A. Bòcgn, Enzyklopidie und Methodologie der philologischen Wissenschaften (a cura di E. Bratuschek), Leipzig, 1877. 11. Jan Amos Komensky, lat. Comenius (1592-1670), filosofo e pedagogista moravo, autore della Didactica magna (1631) e di varie altre opere, appartenne alla comunità dei Fratelli Boemi e fu coinvolto nelle guerre di religione, che lo costrinsero all'esilio. Il suo pensiero, ispirato all'ideale della « pansofia », ha ispirato un largo movimento di riforma educativa, in Germania e fuori. derò la costituzione delle scienze delle realtà storico-sociali come il fine del suo grande lavoro, e di fatto la sua opera diede luogo a un forte movimento in questa direzione: John Stuart Mill, Littré!”, Herbert Spencer hanno ripreso il problema della connessione delle scienze storico-sociali®. Questi lavori assicurano a colui che si introduca nelle scienze dello spirito uno sguardo d'insieme di tipo completamente diverso da quello che offre la sistematica degli studi professionali. Essi collocano le scienze dello spirito nella connessione della conoscenza, ne colgono il problema nel suo ambito complessivo e ne intraprendono la soluzione entro una costruzione scientifica che comprende tutta la realtà storico-sociale. Però, pieni della smania temeraria di costruzione scientifica oggi dominante in Inghilterra e in Francia, privi dell’intimo sentimento della realtà storica che si forma solamente in base a una consuetudine pluriena. Uno sguardo d'insieme sui problemi delle scienze dello spirito, secondo la connessione interna in cui stanno tra loro in rapporto sotto il profilo metodologico e in cui si può quindi ottenerne una coerente soluzione, si trova abbozzata in A. Comte, Cours de philosophie positive, Paris, 182042 (nei volumi IV-VI). Le sue opere successive, che contengono un punto di vista modificato, non possono servire a questo scopo. Il più importante abbozzo di sistema delle scienze ad esso opposto è quello di Herbert Spencer. Al primo attacco a Comte (in Essays, prima serie, London, 1858) Spencer faceva seguire un'esposizione più precisa in The Classification of the Sciences, London, 1864 (cfr. la difesa di Comte in E. Lirtré, Auguste Comte et la philosophie positive, Paris, 1863). Ma la più compiuta esposizione del complesso delle scienze dello spirito è ora offerta dal suo System of Synthetic Philosophy, del quale sono apparsi per primi, nel 1855, i Principles of Psychology, e poi a partire dal ’76 i Principles of Sociology (in relazione all'opera Descriptive Sociology); la parte conclusiva, i Principles of Ethics — e Spencer stesso dichiara di «ritenerli quelli per cui tutti i precedenti costituiscono soltanto il fondamento » — tratta nel primo volume, apparso nel 1879, i « fatti dell'etica » [The Data of Ethics, London, 1879]. Accanto a questo tentativo di delineare una teoria della realtà storico-sociale, merita ancora di essere menzionato quello di John Stuart Mill, contenuto nel sesto libro di A System of Logic, Ratiocinative and Inductive, London, 1851 (che tratta della logica delle scienze dello spirito o scienze morali), e nello scritto August Comte and Positivism, London, 1866. 12. Maximilien-Paul-Emile Littré (1801-1881), scienziato e filosofo francese, fu allievo e divulgatore del pensiero di Comte, a cui dedicò vari scritti; si distaccò tuttavia dal maestro, rifiutando l'esito religioso della filosofia comtiana, WILHELM DILTHEY 115 nale con questa realtà nella ricerca particolare, i positivisti non hanno trovato quel punto di partenza per i loro lavori che avrebbe dovuto corrispondere al loro principio della connessione delle scienze particolari. Essi avrebbero dovuto cominciare il loro lavoro studiando l’architettonica dell'immenso edificio delle scienze positive, continuamente ampliato da aggiunte, sempre trasformato dall'interno, sorto a poco a poco attraverso i millenni, renderlo comprensibile attraverso l’approfondimento del suo piano di costruzione e così render giustizia — con un’intuizione feconda per la ragione della storia — alla molteplicità di aspetti con cui si sono effettivamente sviluppate queste scienze. Essi hanno invece innalzato un edificio provvisorio che non è sostenibile più di quanto lo siano le temerarie speculazioni di Schelling o di un Oken” sulla natura. È così accaduto che le filosofie dello spirito tedesche — sviluppate sulla base di un principio metafisico — di Hegel, di Schleiermacher e del tardo Schelling impieghino l’acquisizione delle scienze positive dello spirito con una penetrazione più profonda dei lavori di questi filosofi positivi. Dall’approfondimento dei compiti delle scienze dello stato hanno preso le mosse in Germania altri tentativi di fornire una struttura comprensiva nel campo delle scienze dello spirito, provocando però ovviamente un'unilateralità del punto di vista ?. Le scienze dello spirito non costituiscono un complesso fornito di una costituzione logica analoga alla struttura della conoa. Il punto di partenza è rappresentato dalle discussioni sul concetto di società e sul compito delle scienze sociali, nelle quali si è cercata un'integrazione alle scienze dello stato. La spinta è stata data da L. von STEIN, Der Sozialismus und Communismus des heutigen Frankreichs, Leipzig, 2° ed. 1848, e da R. von Mont, Gesellschafts-Wissenschaften und Staats-Wissenschaften, « Zeitschrift fr die gesamte Staatswissenschaft », VII, 1851, PP. 3-71, ripreso nella sua Geschichte und Literatur der Staatswissenschaften, Erlangen, vol. I, 1855, pp. 67-110. Indichiamo come particolarmente rilevanti due tentativi di articolazione, cioè quelli di L. von STEIN, System der Staatswissenschaft, Stuttgart, 1852-56, e di A. ScHarrLe, Bau und Leben des sozialen Kòrpers, Tùbingen, 1875-78. 13. Lorenz Oken (1779-1851), naturalista, autore di numerose opere di filosofia della natura che si ispirano all’organicismo schellinghiano. scenza naturale. La loro connessione si è sviluppata diversamente e deve quindi essere considerata ora così come è storicamente cresciuta. IV. IL MATERIALE DELLE SCIENZE DELLO SPIRITO Il materiale di queste scienze è costituito dalla realtà storico-' sociale in quanto essa è conservata nella coscienza dell’umanità come un insieme di conoscenze storiche, ed è stata resa accessibile alla scienza sotto forma di una conoscenza sociale che va al di là della situazione attuale. Per quanto sterminato sia questo materiale, salta tuttavia agli occhi la sua incompiutezza. Interessi in nessun modo corrispondenti all'esigenza della scienza e condizionati dalla tradizione — pure privi di qualsiasi relazione con quest’esigenza — hanno determinato lo stato della nostra conoscenza storica. Fin dall'epoca in cui, raccolti intorno al fuoco dell’accampamento, i compagni di tribù e d’arme narravano le gesta dei loro eroi e l’origine divina della loro stirpe, il forte interesse della vita in comune ha salvato e conservato alcuni fatti dall’oscuro fluire della vita umana abituale. L'interesse dell’epoca successiva e la vicenda storica hanno deciso che cosa di questi fatti dovesse giungere fino a noi. La storiografia come libera arte espositiva accoglie una parte di questo sterminato complesso, cioè quella che appare fornita di interesse da un qualche punto vista. Ne consegue che la società odierna vive, per così dire, sugli strati e sulle rovine del passato; i precipitati del lavoro culturale presenti nel linguaggio e nella superstizione, nel costume e nel diritto, come pure nelle trasformazioni materiali che vanno oltre le testimonianze, contengono tutti una tradizione che sorregge le testimonianze in modo inestimabile. Anche per la loro conservazione ha deciso la mano della vicenda storica. Soltanto in due punti si trova uno stato del materiale che corrisponde alle esigenze della scienza. Il corso dei movimenti spirituali nell'Europa moderna è conservato con sufficiente compiutezza negli scritti che ne sono parte costitutiva. Così pure i lavori della statistica consentono — per il breve periodo e il ristretto ambito di paesi WILHELM DILTHEY II7 in cui sono stati applicati — di gettare uno sguardo numericamente fondato nei fatti della società che quei lavori accolgono: essi permettono di fornire alla conoscenza dello stato attuale della società un fondamento esatto. L’impossibilità di penetrare nella connessione di questo materiale sterminato conduce a tale lacunosità; anzi ha contribuito non poco a rafforzarla. Non appena lo spirito umano cominciò a sottoporre la realtà ai suoi principi, esso si rivolse anzitutto, preso dallo stupore, al cielo; questa vòlta al di sopra di noi, che sembra poggiare sul cerchio dell’orizzonte, lo occupò tutto: una totalità spaziale in sé conclusa che sempre e dovunque avvolge gli uomini. Così l’orientamento nell'edificio del mondo fu il punto di partenza della ricerca scientifica, nei paesi orientali come in Europa. Il cosmo dei fatti spirituali non si offre invece alla vista nella sua immensità, ma si offre soltanto allo spirito raccoglitore del ricercatore; esso emerge in alcune parti singole, dove uno studioso collega dei fatti, li esamina e li accerta: allora esso si costituisce nell’interiorità dell'animo. Un vaglio critico delle tradizioni, l'accertamento dei fatti e la loro raccolta costituiscono quindi un primo lavoro comprensivo delle scienze dello spirito. Dopo che la filologia elaborò una tecnica esemplare sulla materia più difficile e bella della storia, l’antichità, questo lavoro in parte viene condotto in innumerevoli ricerche particolari, in parte viene a costituire un elemento di indagini ulteriori. La connessione di questa pura descrizione della realtà storico-sociale — in quanto si propone, sulla base della fisica della terra, con l'ausilio della geografia, di descrivere la distribuzione dell’elemento spirituale e delle sue differenze sulla terra, nel tempo e nello spazio — può acquistare la sua capacità di penetrazione sempre soltanto se la riconduce a chiare misure spaziali, a rapporti numerici, a determinazioni temporali, con strumenti di rappresentazione grafica. La semplice raccolta e il semplice vaglio del materiale si trasformano qui gradualmente in una sua elaborazione e articolazione concettuale. Le scienze dello spirito, così come esse sono e operano, in virtù della ragione immanente che agisce nella loro storia — non già nel modo che desiderano alcuni architetti temerari, i quali vorrebbero costruirle su nuova base — congiungono in sé tre distinte classi di asserzioni. Le asserzioni della prima classe esprimono un reale che è dato nella percezione: esse contengono l’elemento storico della conoscenza. Le asserzioni della seconda classe enunciano il comportamento uniforme delle parti di questa realtà, isolate mediante un’astrazione: esse formano l'elemento teorico di essa. Le asserzioni dell’ultima classe esprimono giudizi di valore e prescrivono regole: in esse è racchiuso l'elemento pratico delle scienze dello spirito. Fatti, teoremi, giudizi di valore e regole — da queste tre classi di proposizioni sono costituite le scienze dello spirito. E la relazione tra orientamento storico, orientamento teorico astratto e orientamento pratico si presenta come un rapporto fondamentalmente comune a tutte queste discipline. La comprensione del singolare, dell’individuale rappresenta in esse uno scopo ultimo — e in ciò esse sono la costante confutazione del principio spinoziano omnis determinatio est negatio — al pari della formulazione di uniformità astratte. Dalla sua prima radice nella coscienza fino alla vetta suprema, la connessione dei giudizi di valore e degli imperativi è indipendente dalla connessione delle prime due classi. La relazione reciproca di questi tre compiti nella scienza pensante può essere sviluppata soltanto nel corso di un'analisi di teoria della conoscenza (o, in senso più ampio, dell’auto-riflessione). In ogni caso le osservazioni concernenti la realtà rimangono separate dai giudizi di valore e dagli imperativi anche alla radice: sorgono così due tipi di proposizioni, che sono distinte in linea di principio. Al tempo stesso si deve riconoscere che questa distinzione all’interno delle scienze dello spirito ha come conseguenza una loro duplice connessione. Una volta sviluppate, le scienze dello spirito contengono, accanto alla conoscenza di ciò che è, la coscienza della connessione dei giudizi di valore e degli imperativi, nella quale si congiungono WILHELM DILTHEY 119 valori, ideali, regole, nonché la tendenza alla formazione del futuro. Un giudizio politico che respinge un'istituzione non è né vero né falso, ma è giusto o ingiusto, in quanto se ne valuta la tendenza, il fine; vero o falso può essere invece un giudizio politico che illustri le relazioni di questa istituzione con altre istituzioni. Soltanto se si assume questa prospettiva per interpretare la proposizione, l’asserzione, il giudizio, si può fondare una teoria della conoscenza che non comprima la realtà oggettiva delle scienze dello spirito nei limiti ristretti di una conoscenza di uniformità, secondo l’analogia con le scienze della natura, venendo pertanto a mutilarle, ma che le comprenda e dia loro un fondamento così com’esse si sono sviluppate. Gli scopi delle scienze dello spirito — cogliere l’aspetto singolare e individuale delle realtà storico-sociale, conoscere le uniformità operanti della sua formazione, determinare fini e regole per il suo ulteriore sviluppo — possono essere conseguiti soltanto mediante gli strumenti del pensiero, cioè mediante l’analisi e l’astrazione. L'espressione astratta in cui si prescinde da determinati aspetti della situazione, mentre se ne sviluppano altri, non è il fine ultimo esclusivo di queste scienze, ma è il loro mezzo indispensabile. Come il conoscere che procede per astrazione non può risolvere in sé l’autonomia degli altri scopi di queste scienze, così né la conoscenza storica né quella teorica né lo sviluppo delle regole che dirigono di fatto la società possono far a meno di tale conoscere. La disputa tra la scuola storica e la scuola astratta è sorta in quanto la scuola astratta ha commesso il primo di questi errori, e la scuola storica l’altro. Ogni scienza particolare sorge soltanto mediante l’artificio dell'isolamento di una parte dall’insieme della realtà storico-sociale. La storia prescinde da quei caratteri della vita di un particolare uomo o di una particolare società che si presentano identici, nell’epoca da essa indagata, con quelli di tutte le altre epoche; il suo sguardo è diretto a quel che c’è di distintivo e di singolare. In ciò il singolo storico può ingannarsi, in quanto da 120 WILHELM DILTHEY tale direzione del suo sguardo già deriva la selezione di certi aspetti nelle sue fonti; ma chi mette a confronto il procedimento effettivo dello storico con il complesso della realtà storico-sociale, dovrà ben riconoscerlo. Da ciò deriva l'importante principio che ogni scienza particolare dello spirito conosce la realtà storico-sociale solo relativamente, in quanto ha coscienza della propria relazione con le altre scienze dello spirito. L’organizzazione di queste scienze e il loro corretto sviluppo nella loro particolarità dipendono pertanto dalla capacità di tener presente la relazione di ognuna delle loro verità con il complesso della realtà della quale fanno parte, nonché della costante consapevolezza dell’astrazione in virtù della quale queste verità sussistono e del limitato valore conoscitivo che ad esse spetta a causa di questo loro carattere astratto. Tre diversi compiti deve assolvere la fondazione delle scienze dello spirito. Essa determina il carattere generale della connessione in cui, sulla base del dato, sorge in questo campo un sapere universalmente valido: si tratta qui della struttura logica generale delle scienze dello spirito. Occorre poi illustrare la costruzione del mondo spirituale nei suoi campi particolari, quale avviene nelle scienze dello spirito attraverso l’intreccio delle loro operazioni. Questo è il secondo compito, e nel corso della sua soluzione verrà gradualmente in luce, per astrazione dal loro stesso procedimento, la dottrina del metodo delle scienze dello spirito. Infine si cercherà quale sia il valore conoscitivo di queste operazioni delle scienze dello spirito e in quale misura sia possibile, mediante la loro cooperazione, un sapere oggettivo intorno ai fenomeni spirituali. Tra questi due ultimi compiti c'è una stretta connessione interna. La distinzione delle varie operazioni rende possibile provarne il valore conoscitivo, e questo esame mostra in quale misura sia possibile, in virtù di esse, tradurre in sapere la realtà che è oggetto delle scienze dello spirito e la connessione reale in essa sussistente: in tale maniera si otterrà un fondamento autonomo della conoscenza per il nostro campo, mentre * Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften, parte III: Allgemeine Sitze fiber den Zusammenhang der Geisteswissenschaften, « Abhandlungen der kSniglich Preussischen Akademie der Wissenschaften » (Philosophisch-historische Classe), 1910, pp. 49-123, ora in Gesammelte Schriften, Leipzig und Berlin, vol. VII, 1927, pp. 120-188 (La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito, tr. it. di Pietro Rossi, in Critica della ragione storica, Torino, Einaudi, 1954, pp. 200-289). si apre la possibilità di una connessione generale della teoria della conoscenza, il cui punto di partenza risieda nelle scienze dello spirito. Il carattere generale della connessione nelle scienze dello spirito è dunque il nostro prossimo problema. Il punto di partenza è la dottrina della struttura dell’apprendimento oggettivo in genere. Essa mostra in ogni apprendimento una linea progressiva dal dato ai rapporti fondamentali della realtà, che al di lù di quello si rivelano al pensiero concettuale. Le medesime forme di pensiero e le medesime classi di operazioni di pensiero, ad esse subordinate, rendono possibile la connessione scientifica nelle scienze della natura e nelle scienze dello spirito. Su questa base sorgono poi, nell’applicazione di quelle forme e di quelle operazioni di pensiero ai compiti particolari e sotto le condizioni particolari delle scienze dello spirito, i metodi specifici di queste. E poiché i compiti delle scienze producono i metodi di soluzione, i singoli procedimenti costituiscono una connessione interna, condizionata dallo scopo del sapere. L'apprendimento oggettivo costituisce un sistema di relazioni, nel quale sono contenuti percezioni ed Er/ebnisse, rappresentazioni della memoria, giudizi, concetti, deduzioni, insieme alle loro forme composte. A tutte queste operazioni nel sistema dell'apprendimento oggettivo è comune la presenza in esse soltanto di relazioni di fatto: così nel sillogismo sono presenti soltanto i contenuti e le loro relazioni senza che lo accompagni alcuna coscienza di operazioni di pensiero. Il procedimento che suppone al di sotto del dato, come sue condizioni di coscienza, singoli atti che vengono concepiti come corrispondenti alle relazioni di fatto, derivando dalla loro cooperazione la realtà dell'apprendimento oggettivo, contiene un'ipotesi che non può mai essere verificata. I vari Erlebnisse entro questo apprendimento oggettivo sono elementi di una totalità determinata dalla connessione psichica. In questa connessione psichica la conoscenza oggettiva della realtà è la condizione per l’esatta constatazione dei valori e per l’agire conforme allo scopo. Così il percepire, il rappresentare, il giudicare, il dedurre sono operazioni che collaborano nella teleologia della connessione dell’apprendimento, la quale assume quindi il suo posto nella connessione della vita. 1. La prima operazione dell’apprendimento oggettivo sul dato eleva a coscienza distinta ciò che in esso è contenuto, senza far subire un mutamento alla forma della datità. Io chiamo primaria questa operazione, in quanto l’analisi che muove dal pensiero discorsivo non ritrova nessuna operazione più semplice. Essa sta al di là del pensiero discorsivo, il quale è legato al linguaggio e si svolge nei giudizi; poiché gli oggetti, su cui si giudica, presuppongono già operazioni di pensiero. Comincio qui con l’operazione della comparazione. Io trovo il simile e il dissimile, concepisco gradi di distinzione. Davanti a me stanno due foglioline di diverso colore grigio: si osserva la diversità e il grado di diversità nel colore non in base a una riflessione sul dato ma come un elemento di fatto, poiché il colore stesso è uno stato di fatto. Del pari distinguo, nella mia esperienza immediata, gradi di piacere, quando passo dal tocco di un tono determinato e della sua ottava a una completa armonia. Questa operazione di pensiero, con cui soltanto la logica ha che fare, è semplice. E il suo risultato, in rapporto al suo valore di verità, non è diverso dall’osservare un colore o un suono; qualcosa che esiste diventa osservabile. Identità e differenza non sono qualità delle cose come l’estensione o il colore: esse sorgono in quanto l’unità psichica reca a coscienza rapporti che sono contenuti nel dato. E poiché l’affermazione dell’identità e l'affermazione della differenza trovano soltanto ciò che è dato, così come sono dati l'estensione e il colore, esse costituiscono un analogo della percezione stessa; ma in quanto creano concetti di rapporti logici come quelli di identità, di differenza, di grado, di affinità, contenuti nella percezione ma non dati in questa, esse appartengono al pensiero. Sulla base della comparazione sorge un’altra operazione. Quando separo due stati di fatto siamo di fronte, dal punto di vista logico — e non si tratta affatto di processi psicologici — a un'operazione di pensiero diversa dalla distinzione. Nel dato sono contenuti separatamente due stati di fatto, e viene colta la loro estraneità. Così in un bosco una voce umana, il rumore del vento, il canto di un uccello vengono colti non solo come distinti tra di loro, ma anche come una pluralità. Quando un suono della stessa qualità, cioè della stessa altezza, dello stesso timbro, della stessa intensità e della stessa durata, ritorna una seconda volta in un altro punto del corso temporale, in questa seconda operazione di pensiero sorge la coscienza che il secondo suono è altro dal primo. Un ulteriore rapporto è concepito in un secondo caso di separazione. In una foglia verde posso separare tra loro colore e forma, e allora ciò che coerisce nell’unità dell’oggetto, e che non può venir realmente separato, diventa tuttavia separabile idealmente. Anche quando le condizioni preliminari di quest'operazione di separazione sono molto complesse, l'operazione stessa è tuttavia semplice. Essa è determinata, al pari della comparazione, dal contenuto di fatto che reca a conoscenza. E qui si apre la prospettiva sul processo di astrazione, così importante per la costruzione della logica. La distinzione delle membra di un corpo inerisce alla realtà concreta del corpo; in ognuna delle sue parti è mantenuta questa realtà concreta, ma quando estensione e colore vengono tra loro separati, e il pensiero si rivolge al colore, allora da tale distinzione sorge l’operazione dell’astrazione: di ciò che è stato idealmente separato viene posto in evidenza un aspetto. L'unione di vari elementi distinti si può compiere solo sulla base di una relazione tra questi vari elementi. Noi cogliamo il rapporto spaziale tra stati di fatto distinti,o gli intervalli in cui i processi si susseguono temporalmente. Anche questo collegare e questo unire portano soltanto a coscienza rapporti che già sussistono; ma ciò avviene mediante operazioni di pensiero che hanno a base relazioni, come quelle di spazio e di tempo, di fare e subire. Questo prendere insieme è la condizione perché si costituisca l'intuizione del tempo. Quando il battito di un orologio si succede varie volte, davanti a me sta soltanto il susseguirsi di tali impressioni, ma solo prendendole insieme diventa possibile comprendere questa successione. Questo prendere insieme dà luogo al rapporto logico di una totalità con le sue parti. Sulla base dei rapporti di separazione e della graduale differenza delle relazioni contenute nel sistema di suoni sorge, in questo collegamento, un complesso così condizionato che viene però in luce soltanto nel collegamento stesso, e cioè l'accordo o la melodia. Qui appare particolarmente chiaro come il prendere insieme avviene entro ciò che è contenuto nell’Erlebnis di percezione o di ricordo, e come tuttavia sorge in esso qualcosa che non esisteva senza quel prendere insieme. Noi ci troviamo qui ai limiti che conducono al di sopra della constatazione di ciò che è contenuto in tali rapporti, nella regione della libera fantasia. Questi esempi — e non si tratta di nulla di più — dimostrano che le operazioni elementari del pensiero spiegazo il dato. Precedendo il pensiero discorsivo, esse ne contengono le premesse, in quanto nella comparazione si preparano la formazione dei giudizi e dei concetti generali e il procedimento comparativo, nella separazione le astrazioni e il procedimento analitico, e infine nelle relazioni ogni specie di operazioni sintetiche. Così un’interna connessione fondante va dalle operazioni elementari di pensiero al pensiero discorsivo, dall’apprendimento del contenuto di fatto degli oggetti ai giudizi su di essi. Ciò che è percepito sensibilmente o immediatamente vissuto trapassa, a un ulteriore grado di coscienza, nella rappresentazione della memoria. In essa si compie un'ulteriore operazione dell'apprendimento oggettivo, a cui corrisponde un particolare rapporto della nuova formazione con il suo fondamento. Questo rapporto della rappresentazione della memoria con il contenuto dell’apprendimento sensibile e dell’Erlebnis è un rapporto di riproduzione. Infatti la libera mobilità delle rappresentazioni è, nel campo dell’apprendimento oggettivo, limitata dall’intenzione di adeguarsi alla realtà e tutti i modi di formazione delle rappresentazioni sono determinati da questo orientamento verso la realtà. In esso sorgono rappresentazioni totali e rappresentazioni generali, preparando un nuovo grado della coscienza. Questo nuovo grado viene alla luce nel pensiero discorsivo: il rapporto di riproduzione cede qui il posto a un’altra relazione entro l'apprendimento oggettivo.Il pensiero discorsivo è legato all’espressione, in primo luogo al linguaggio. In ciò consiste la relazione dell’espressione con ciò che è espresso, mediante la quale sorgono forme linguistiche sulla base dei movimenti degli organi linguistici e delle rappresentazioni dei loro prodotti. La relazione con ciò che in esse viene espresso costituisce la loro funzione: esse hanno un significato come elementi della proposizione, mentre la proposizione medesima ha un senso. La direzione dell’apprendimento va dalla parola e dalla proposizione all'oggetto che esse esprimono: in tal modo sorge la relazione tra Gi proposizione grammaticale, o l’espressione effettuata mediante altri segni, e il giudizio che produce tutte le parti del pensiero discorsivo. Qual è ora il rapporto tra il dato o il contenuto rappresentativo, condizionato dalle precedenti operazioni degli Erlebnisse di apprendimento, e il giudizio? In questo uno stato di fatto viene predicato di un oggetto: da ciò deriva che non si può qui parlare di una riproduzione del dato o del contenuto rappresentativo. Dalla connessione di pensiero procedo alla determinazione positiva del rapporto. Ogni giudizio è analiticamente contenuto in essa, e viene inteso come suo elemento. Nella connessione dell’apprendimento oggettivo ogni sua parte si riferisce, per il tramite della connessione in cui è inserito, al fatto di essere contenuto nella realtà. Questa è infatti la regola suprema a cui sottostà ogni giudizio: esso deve essere contenuto nel dato secondo le leggi formali del pensiero e secondo le forme del pensiero. Anche giudizi che esprimono qualità o azioni di Zeus o di Amleto sono riferiti nella connessione del pensiero a un dato. Così tra il giudizio e le forme finora illustrate dell’apprendimento oggettivo sorge un nuovo rapporto, il quale mostra due aspetti. Questa duplicità è determinata dal fatto che il giudizio da una parte è fondato nel dato, ma dall'altra rende esplicito ciò che in questo è contenuto solo implicitamente, ma in forma esplicitabile. Nella prima relazione sorge il rapporto di rappresentazione: il giudizio rappresenta per mezzo di contenuti di fatto, racchiusi nel dato, elementi del pensiero che soddisfano le esigenze di costanza, chiarezza, distinzione, legame stabile con i segni verbali che sono inerenti al sapere. D'altro lato, i giudizi realizzano l’intenzione dell’apprendimento oggettivo di avvicinarsi dal condizionato, dal particolare e dal mutevole ai rapporti fondamentali della realtà. Il rapporto di rappresentazione si estende all’intera connessione del pensiero discorsivo entro l'apprendimento oggettivo, in quanto questo si compie mediante il giudicare. Il dato nella sua concreta intuitività e il mondo di rappresentazioni che lo riproduce sono in ogni forma del pensiero discorsivo rappresentati da un sistema di relazioni tra elementi stabili del pensiero. E a ciò corrisponde, nella direzione inversa, che quando si ritorna all’oggetto questo conferma e verifica, nella pienezza della sua esistenza intuitiva, il giudizio o il concetto. Proprio per le scienze dello spirito è particolarmente importante che l’intera freschezza e l’intera forza dell’Er/ebris ritornino poi direttamente, o nella direzione dall’intendere all'Erleden. Il rapporto di rappresentazione implica che, in determinati limiti, il dato e il pensato discorsivo siano scambiabili. Se si sottopone ad analisi la connessione del pensiero discorsivo, si presentano in questa dei modi di relazione, i quali ritornano regolarmente prescindendo dal mutamento dei contenuti del pensiero e sussistono al tempo stesso in ogni luogo della connessione del pensiero, nonché in rapporto interno tra di loro; tali forme del pensiero sono il giudizio, il concetto e il sillogismo, che si presentano in ogni parte della connessione del pensiero discorsivo e formano la sua intelaiatura. Ma anche le classi di operazioni del pensiero discorsivo, subordinate a queste forme elementari — la comparazione, l'analogia, l’induzione, la partizione, la definizione, e infine la connessione fondante — sono indipendenti dalla delimitazione dei singoli campi del pensiero, in particolare dalla reciproca delimitazione delle scienze della natura e delle scienze dello spirito. Esse si distinguono secondo i compiti dell’intera connessione del pensiero, che la realtà pone secondo i suoi rapporti generali, mentre sono le forme particolari del metodo a esser condizionate dalle qualità dei singoli campi. Alla regolarità di queste forme corrisponde la validità del loro lavoro concettuale, e di questa acquistiamo certezza mediante la coscienza dell’evidenza. E le qualità più generali a cui è legata la validità di queste diverse forme, indipendente dal mutare degli oggetti e costante nel venire e nell’andare degli Erlebnisse di pensiero e dei loro soggetti, si esprimono nelle leggi del pensiero. Noi non abbiamo bisogno di superare il rapporto di rappresentazione, quando passiamo dai giudizi di realtà ai giudizi necessari. Un assioma di geometria è necessario in quanto esso esprime i rapporti fondamentali ovunque constatabili con l’analisi dell’intuizione spaziale, e del pari il carattere di necessità delle leggi del pensiero è abbastanza spiegato dal fatto che esse sono ovunque contenute analiticamente nella connessione del pensiero. Un metodo scientifico sorge in quanto le forme e le operazione generali del pensiero vengono collegate in un tutto composto mediante lo scopo racchiuso nella soluzione di un determinato compito scientifico. Se si presentano problemi simili a questo compito, allora il metodo applicato a un campo limitato si rivelerà fecondo anche per un campo più ampio. Spesso un metodo, nello spirito del suo scopritore, non è ancora legato alla coscienza del carattere logico e della portata che lo caratterizzano: questa coscienza sorge soltanto in seguito. Essendosi il concetto di metodo sviluppato per secoli particolarmente nell’uso linguistico dello studioso della natura, anche il procedimento che tratta una questione di dettaglio, ed è quindi assai più complesso, può venir designato come metodo. Quando si aprono differenti vie per la soluzione dello stesso problema, esse vengono differenziate come metodi diversi. Dove le forme di procedere di uno spirito mostrano qualità comuni, la storia delle scienze parla di un metodo di Cuvier! nella paleontologia o di un metodo di Niebuhr? nella critica storica. Con la dottrina del metodo entriamo nel campo in cui comincia a farsi valere il carattere particolare delle scienze dello spirito. 1. Gcorges-Léopold-Chrétien-Frédéric Dagobert barone di Cuvier (1769-1832), naturalista frapcese, autore del Tableau élfmentaire de l'histoire naturelle (1798), delle Legons d’anatomie comparée (1800), delle Recherches sur les ossements fossiles des quadrupèdes (1812), de Le règne animal distribué après son organisation (1817) e di numerose altre opere, si dedicò a studi di zoologia, con particolare riguardo all'analisi della struttura dci molluschi e dei pesci, e di paleontologia. Le sue indagini hanno aperto la strada all'esplorazione degli animali fossili. 2. Barthold Georg Niebuhr (1776-1831), storico tedesco, autore di una fondamentale Rémische Geschichte (1811-32), impostò la propria analisi del mondo antico sulla base di una critica sistematica delle fonti; il suo « scetticismo » mise capo a una radicale svalutazione delle testimonianze antiche sulla storia romana. Tutti gli Erlebnisse dell’apprendimento oggettivo sono, entro la sua connessione teleologica, diretti alla penetrazione di ciò che è, vale a dire della realtà. Il sapere forma una gradualità di operazioni: il dato è spiegato nelle operazioni elementari del pensiero, riprodotto nelle rappresentazioni, tradotto nel pensiero discorsivo e così rappresentato in differenti modi. Perciò la spiegazione del dato mediante le operazioni elementari del pensiero, la riproduzione nella rappresentazione rammemorata e la traduzione nel pensiero discorsivo possono venir racchiuse entro il più ampio concetto di rappresentazione. Tempo e ricordo liberano l'apprendimento della dipendenza dal dato e compiono una scelta di ciò che è significativo per l’apprendimento; il particolare viene sottoposto agli scopi dell’apprendimento della realtà mediante la relazione col tutto e mediante la subordinazione sotto il generale; la mutabilità del dato intuitivo viene elevata a rappresentazione universalmente valida in una relazione concettuale; mediante l’astrazione e il procedimento analitico il concreto viene inserito in serie uniformi che consentono asserzioni di regolarità, oppure penetrato nella sua articolazione attraverso un’opera di suddivisione. L’apprendimento tende così a esaurire sempre di più ciò che ci è accessibile nel dato. 2. In due direzioni sono logicamente collegati gli Er/ebnisse che appartengono all’apprendimento oggettivo: nell’una gli Erlebnisse sono in rapporto tra loro in quanto, come gradi nell’apprendimento del medesimo oggetto, cercano di esaurire mediante esso ciò che è contenuto nell’Erlebez o nell’intuire, e nell'altra l'apprendimento collega un elemento di fatto con l’altro mediante le relazioni reciproche che vengono colte. Là si ha un approfondimento nell’oggetto particolare e qui un’estensione universale: approfondimento ed estensione che sono in dipendenza reciproca. Intuizione, ricordo, rappresentazione totale, denominazione, giudizio, subordinazione del particolare all’universale, collegamento delle parti in un tutto — queste sono forme dell’apprendimento: senza che l’oggetto debba mutare, cambia il modo e la forma di coscienza in cui esso esiste per noi, quando si passa dall'intuizione al ricordo o al giudizio. La direzione verso lo stesso oggetto, che è loro comune, le collega in una connessione teleologica, in cui hanno posto solo quegli Erlebnisse che compiono qualche operazione nella tendenza a cogliere questo determinato elemento oggettivo. Questo carattere teleologico della connessione, che qui si presenta, condiziona il passaggio da un elemento all’altro entro di essa. E finché l’Erlebnis non è pienamente esaurito, o l’oggettività data parzialmente e unilateralmente nelle intuizioni particolari non è ancora pervenuta a pieno apprendimento e a compiuta espressione, vi è sempre un clemento di insoddisfazione, e questo esige che si proceda oltre. Le percezioni che riguardano lo stesso oggetto sono tra loro legate in una connessione teleologica, in quanto procedono riferendosi al medesimo oggetto. Così una particolare osservazione sensibile ne richiede sempre più altre, che vengono a completare l'apprendimento dell’oggetto; e in questo processo di completamento si esige già il ricordo, come ulteriore forma di apprendimento. Esso sta, entro la connessione dell'apprendimento oggettivo, in un saldo rapporto con il fondamento intuitivo, in maniera che ha la funzione di riprodurre, ricordare e mantenere così utilizzabile questo fondamento per l'apprendimento oggettivo. Qui appare assai chiaramente la distinzione tra l'apprendimento dell’Erlebris della memoria che studia il processo che sta a base di esso nelle sue uniformità, e la nostra considerazione della memoria secondo la sua funzione nella connessione dell’apprendimento, per cui esso riproduce ciò che è immediatamente vissuto o appreso. La memoria può accogliere in sé, sotto un’impressione o sotto l'influenza di uno stato d'animo, molteplici contenuti distinti dal loro fondamento, e proprio qui hanno la loro origine le immagini estetiche della fantasia: ma la memoria presente in tale connessione teleologica, basata sulla penetrazione dell’oggetto, possiede la tendenza verso l’identità con il contenuto intuitivo o vissuto dell’apprendimento oggettivo. E che la memoria abbia compiuto la sua funzione nell’apprendimento oggettivo risulta dalla possibilità di constatare la sua somiglianza con il fondamento percettivo dell’apprendimento. In questa tendenza degli Erlebnisse conoscitivi verso un oggetto particolare è già presente il procedere verso qualcosa di sempre nuovo. I mutamenti nell’oggetto mostrano la connessione dinamica in cui esso si trova, e, in quanto il contenuto di fatto può venir spiegato solo mediante nomi, concetti, giudizi, è richiesto un ulteriore passaggio dall’intuizione particolare all’universale. A questa tendenza verso la totalità, l’elemento attivo, l’universale, corrisponde il procedere delle relazioni rintracciabili nel singolo oggetto a quelle che hanno luogo in più grandi connessioni oggettive. In tal modo la prima tendenza delle relazioni conduce alla seconda. Nella prima tendenza erano tra loro collegati quegli Erlebnisse di apprendimento che tendono a cogliere in maniera sempre più adeguata lo stesso oggetto mediante diverse forme di rappresentazione. Nella seconda sono invece collegati gli Er/ebnisse che si estendono a sempre nuovi oggetti e penetrano leloro relazioni reciproche, sia nella stessa forma di apprendimento sia attraverso l’unione di diverse sue forme. Sorgono così rapporti complessi, i quali risultano particolarmente chiari nei sistemi omogenei, che rappresentano cioè rapporti di spazio, di suono o di numero ®. Ogni scienza si riferisce a un’oggettività suscettibile di delimitazione, in cui risiede la sua unità, e la connessione del campo scientifico dà ai principi che esso racchiude la loro coerenza reciproca. Il completamento di tutte le relazioni contenute in ciò che è immediatamente vissuto o intuito costituirebbe il concetto di mondo: in esso è racchiusa la pretesa di esprimere tutto ciò che può venir immediatamente vissuto o intuito mediante la connessione delle relazioni di fatto in esso racchiuse. Questo concetto di mondo è l’esplicazione che è data anzitutto nell'orizzonte spaziale. Spiegazione, riproduzione e rappresentazione sono gradi della relazione col dato, in cui l’apprendimento oggettivo si approssima al concetto di mondo. Essi sono gradi, poiché in ognuna di queste posizioni dell’apprendimento oggettivo quella precedente costituisce la base di quella successiva. a. Ideen tiber eine beschreibende und zergliedernde Psychologie, « Sitzungsberichte der kòniglich Preussischen Akademie der Wissenschaften », 1894, p. 1352 (ora in Gesammelte Schriften, vol. V, p. 132]. b. Qui lo sguardo si dirige anche al compito logico di riduzione delle forme del pensiero discorsivo a forme di espressione dei rapporti presenti nel dato, così come vengono posti in luce dalle operazioni elementari del pensiero. Dai fatti contenuti nel campo dell’apprendimento sensibile noi Allorché questa connessione dell’apprendimento oggettivo sottostà alle condizioni contenute nelle scienze dello spirito, viene a delinearsi la particolare struttura di tali discipline. Sulla base delle forme e delle operazioni generali del pensiero si fanno qui valere compiti specifici, che trovano la loro soluzione nell’intreccio di metodi propri. Nell’elaborazione di queste forme di procedimento le scienze dello spirito sono state ovunque influenzate dalle scienze della natura; e poiché queste hanno elaborato prima i loro metodi, si è avuto in larga misura un adattamento di essi ai compiti delle scienze dello spirito. In due punti ciò risulta particolarmente evidente: nella biologia sono stati scoperti per siamo condotti a considerare l’immanenza dell'ordine entro la materia della nostra esperienza sensibile, e la distinzione della materia delle impressioni dalle forme di collegamento si rivela un mero strumento di astrazione. Il principio di identità dice che ogni proposizione vale indipendentemente dal posto mutevole che essa occupa entro la connessione del pensiero e dal mutamento che avviene nei soggetti delle asserzioni; e il principio di contraddizione ha a suo fondamento quello di identità. In questo al principio di identità si aggiunge la negazione, che è soltanto il rifiuto di un'assunzione che si presenta in noi o al di fuori di noi, e si riferisce sempre a un’asserzione già formulata, sia questa contenuta in un atto cosciente del pensiero o in un'altra forma. Il principio di identità esige per la proposizione una validità costante; e perciò viene esclusa l'eliminazione di tale proposizione. Noi non possiamo al tempo stesso affermarla e negarla, in quanto viene alla coscienza il rapporto di contraddizione. E quando dichiaro falso il giudizio negativo, io rifiuto di eliminare la proposizione, e ne risulta confermata l’'asserzione affermativa: il principio del terzo escluso esprime questo fatto. Così le leggi del pensiero non designano alcuna condizione aprioristica per il nostro pensiero; e i rapporti racchiusi nella comparazione, nella separazione, nell’astrazione, nella relazione, si ritrovano poi nelle operazioni del pensiero discorsivo e nelle categorie formali, di cui si parlerà poi. Non è necessario ritenere che il giudizio presupponga il subentrare del rapporto categoriale tra cosa e qualità, poiché questo può venir inteso in base alla relazione tra l'oggetto e ciò che da esso è predicato. la prima volta i metodi comparativi poi sempre maggiormente applicati alle scienze sistematiche dello spirito, e i metodi sperimentali elaborati dall’astronomia e dalla fisiologia sono stati trasferiti alla psicologia, all'estetica e alla pedagogia. Anche oggi, nello sforzo di soluzione di compiti particolari, lo studioso di psicologia di pedagogia, di linguistica o di estetica si chiederà spesso se i mezzi e i metodi scoperti nelle scienze della natura per la soluzione di problemi analoghi possano venir sfruttati nel proprio campo. Ma, nonostante tali punti particolari di contatto, la connessione delle forme di procedimento delle scienze dello spirito è, fin dal suo inizio, diversa dalla connessione delle scienze della natura. Qui vengono considerati soltanto i principi generali necessari per la penetrazione della connessione delle scienze dello spirito, mentre la trattazione dei metodi appartiene allo studio della costruzione delle scienze dello spirito. Due spiegazioni terminologiche devono essere qui anticipate: per unità della vita psichica intendo gli elementi del mondo storico-sociale, e con struttura psichica designo la connessione in cui, nelle unità della Vita psichica, sono tra loro legate diverse operazioni. 1. La vita. Le scienze dello spirito poggiano sul rapporto di Erledn:s, espressione e intendere. Così il loro sviluppo dipende sia dall’approfondimento degli Erlebnisse sia dalla crescente tendenza all'esaurimento del loro contenuto, ed è nel medesimo tempo condizionato dall’estensione dell’intendere all'intera oggettiva zione dello spirito e dalla capacità di cogliere in modo sempre più compiuto e metodico il contenuto spirituale delle diverse manifestazioni della vita. Il complesso di ciò che ci si rivela nell’Erleden e nell’intendere è la vita come connessione che comprende il genere umano. E quando per la prima volta ci troviamo di fronte a que134 WILHELM DILTHEY sto grande fatto, che per noi è il punto di partenza non soltanto delle scienze dello spirito ma anche della filosofia, occorre andar oltre la sua elaborazione scientifica e penetrare il fatto stesso nella sua costituzione grezza. Infatti, dove la vita ci si presenta come uno stato di fatto proprio del mondo umano, noi incontriamo le sue determinazioni nelle varie unità della vita; incontriamo rapporti vitali, presa di posizione, l’atteggiamento, la creazione effettuata sulle cose e sugli uomini e la sofferenza che ne deriva. Nello sfondo permanente da cui emergono le operazioni differenziate, non c'è nulla che non contenga un rapporto vitale dell'io. Come tutto ha qui una posizione di fronte ad esso, altrettanto viene però a mutare la situazione dell’io secondo il rapporto che le cose e gli uomini hanno con esso: non esistono nessun uomo e nessuna cosa che siano soltanto oggetti per me, e che non racchiudano una pressione o un vantaggio, il fine di una tendenza o un’obbligazione del volere, un'importanza, una pretesa di esser preso in considerazione, una vicinanza interna o una resistenza, una distanza e una estraneità. Il rapporto vitale, sia esso limitato a un dato momento o duraturo, fa sì che tali uomini e tali oggetti mi rechino felicità, estendano la mia esistenza, accrescano la mia forza, oppure vengano a limitare in questo rapporto lo spazio della mia esistenza, a esercitare una pressione su di me, a diminuire la mia forza. E ai predicati che le cose acquistano soltanto nel rapporto vitale con me corrisponde il mutare degli stati in me stesso che ne scaturisce. Su questo sfondo della vita emergono poi l'apprendimento oggettivo, la valutazione, la posizione di scopi, come tipi di atteggiamento che hanno luogo in innumerevoli sfumature che passano l’una nell'altra: essi sono legati nel corso della vita in interne connessioni, le quali comprendono e determinano ogni occupazione e ogni sviluppo. Se illustriamo ciò con il modo in cui il poeta lirico reca a espressione l’Erlebnis, si vede che egli muove da una situazione e raffigura uomini e cose nel rapporto vitale con un io ideale, in cui la sua esistenza e entro di essa il corso della sua esperienza vengono accentuate nella fantasia; questo rapporto di vita determina ciò che il vero lirico vede ed esprime degli uomini e delle cose e di se stesso. Anche il poeta epico può dire soltanto ciò che emerge in un rapporto di vita da lui raffigurato. Oppure, quando lo storico descrive situazioni e persone storiche, egli desterà un'impressione della vita reale, tanto più forte quanto meglio raffigura tali rapporti di vita. Egli deve porre in luce le qualità degli uomini e delle cose che scaturiscono e operano in tali rapporti di vita — e, si potrebbe dire, dare alle persone, alle cose, ai processi, la forma e il colore in cui essi hanno dato forma, dal punto di vista del rapporto di vita, a percezioni e a immagini di memoria nella vita stessa. 2. L'esperienza della vita. L'apprendimento oggettivo scorre nel tempo, e così in esso sono già contenute immagini di memoria. E in quanto ciò che è immediatamente vissuto cresce continuamente e sempre più svanisce con il progredire del tempo, sorge il ricordo del corso della propria vita. Parimenti, sulla base della comprensione di altre persone, si formano i ricordi dei loro stati e le immagini esistenziali delle diverse situazioni; e certo in tutti questi ricordi la situazione è sempre legata con il suo ambiente di contenuti di fatto, di avvenimenti e di persone. Dalla generalizzazione di ciò che in tal modo si presenta insieme sorge l’esperienza di vita dell’individuo. Essa sorge in forme di procedimento equivalenti a quelle dell’induzione. Il numero dei casi, in base ai quali questa induzione decide, cresce di continuo nel corso della vita; e le generalizzazioni che si formano vengono sempre corrette. La sicurezza che spetta all'esperienza personale della vita è distinta dalla validità universale di tipo scientifico: infatti queste generalizzazioni non sono compiute metodicamente e non possono venir racchiuse in formule rigorose. Il punto di vista individuale, inerente all’esperienza personale della vita, si corregge e si amplia nell’esperienza generale della vita: con questa io intendo i princìpi che si formano in qualsiasi ambito di persone in rapporto reciproco e che sono comuni ad esse. Si tratta di asserzioni sul corso della vita, di giudizi di valore, di regole della condotta di vita, di determinazioni di scopi e di beni: il loro contrassegno sta nel fatto che esse sono creazioni della vita collettiva, le quali riguardano tanto la vita dell’uomo singolo quanto la vita delle comunità. 136 WILHELM DILTHEY Sotto il primo aspetto, in quanto costume, abitudine e, in riferimento alla persona individuale, come opinione pubblica, esse esercitano, per il prevalere del numero e per il sopravvivere della comunità alla persona singola, un potere su di questa e sulla sua esperienza o forza di vita, che sovrasta di solito la volontà di vita dell’individuo. La sicurezza di questa esperienza generale della vita rispetto a quella personale è maggiore, in quanto i punti di vista individuali pervengono in essa a un equilibrio e cresce il numero dei casi che stanno a base dell’induzione. D'altra parte in questa esperienza generale si rivela, in modo ancor più forte che in quella individuale, l’incontrollabilità dell'origine del suo sapere dalla vita. 3. La distinzione delle forme di atteggiamento nella vita e le classi di asserzioni nell'esperienza della vita. Nell’esperienza della vita si presentano ora diverse classi di asserzioni, le quali si rifanno alla distinzione di atteggiamento nella vita. Infatti la vita non è solo la fonte del sapere, considerata nel suo contenuto d'esperienza; le tipiche forme di atteggiamento dell’uomo condizionano pure le diverse classi di asserzioni. Qui si deve soltanto constatare per adesso il fatto di questa relazione tra la diversità di atteggiamento della vita e le asserzioni dell’esperienza della vita. Nei singoli rapporti di fatto della vita, che si presentano tra l'io da un lato e le cose e gli uomini dall’altro, sorgono i diversi stati della vita: situazioni differenziate dell’io, sentimenti di pressione o di accrescimento dell’esistenza, desiderio di un oggetto, timore o speranza. E come cose o uomini esercitanti una pretesa sull'io assumono uno spazio nella sua esistenza, come sono portatori di vantaggi o di impedimenti, come sono oggetti di desiderio, di aspirazione, di distacco, così da questi rapporti vitali derivano le determinazioni a essi relative, che si aggiungono all’apprendimento oggettivo di uomini e di cose. Tutte queste determinazioni dell’io e degli oggetti o delle persone, quali scaturiscono dai rapporti della vita, vengono elevate a riflessione ed espresse nel linguaggio: così nascono in esso di-stinzioni come asserzioni di realtà, desiderio, esclamazione, imWILHELM DILTHEY 137 erativo. Se si prendono ora in esame le espressioni che si riferiscono alle forme di atteggiamento, cioè alle varie prese di posizione dell'io di fronte agli uomini e alle cose, risulta che esse rientrano in certe classi supreme. Esse constatano una realtà, valutano, designano una posizione di scopo, formulano una regola, esprimono il significato di un fatto in base alla più ampia connessione in cui esso è inserito. Inoltre vengono in luce Je relazioni tra queste forme di asserzione contenute nell’esperienza della vita: gli atti di penetrazione della realtà formano uno strato sul quale poggiano le valutazioni, e questo strato è a sua volta la base per le posizioni di scopo. Le forme di atteggiamento contenute nei rapporti vitali e i loro prodotti vengono oggettivati nelle asserzioni che constatano tali forme in quanto stati di fatto; analogamente vengono rese indipendenti le predicazioni di uomini e di cose, che scaturiscono dai rapporti vitali. Questi stati di fatto sono nell’esperienza della vita elevati a sapere universale mediante un procedimento equivalente all’induzione: così sorgono le molteplici proposizioni, poste in luce nella saggezza generalizzante del popolo e nella letteratura sotto forma di proverbi, di regole di vita, di riflessioni sulle passioni, sui caratteri e sui valori della vita. Anche in queste ritornano le differenze che si sono osservate nell’espressione delle nostre prese di posizione o delle nostre forme di atteggiamento. Ancora nuove distinzioni si fanno valere nelle asserzioni dell’esperienza della vita. Già nella vita medesima la conoscenza della realtà, la valutazione, l’elaborazione di regole, la posizione di scopi si sviluppano in differenti gradi, di cui ognuno è il presupposto del successivo. Essi sono stati indicati per l’apprendimento oggettivo; ma sussistono del pari nelle altre forme di atteggiamento. Così la stima dei valori dinamici di cose o di uomini presuppone che siano state constatate le possibilità di recar utile o danno racchiuse negli oggetti, e una decisione diventa possibile solo mediante la ponderazione del rapporto delle rappresentazioni di fine con la realtà e i mezzi, in essa dati, di realizzare tali rappresentazioni. Le unità ideali come sostegni della vita e dell'esperienza della vita. Un’infinita ricchezza di vita si sviluppa nell’esistenza indivi duale delle varie persone, attraverso i loro rapporti con l’ambiente, gli altri uomini e le cose. Ma ogni singolo individuo è nel medesimo tempo un punto di incrocio di connessioni che pervadono gli individui e sussistono in essi, ma sovrastano la loro vita e posseggono un'esistenza autonoma e un proprio sviluppo per il contenuto, il valore, lo scopo che vi si realizza. Sono cioè soggetti di tipo ideale: a essi è intrinseco qualche sapere intorno alla realtà; in essi si sviluppano punti di vista di valutazione; in essi si realizzano scopi; per cui acquistano e mantengono un significato nella connessione del mondo spirituale. Ciò avviene già in alcuni sistemi di cultura nei quali non c'è un’organizzazione che racchiuda i suoi elementi, come in generale nell'arte e nella filosofia. Altrove sorgono però unioni organizzate. Così la vita economica crea le sue associazioni, e nella scienza nascono centri per la realizzazione dei suoi compiti, e le religioni dànno vita alle organizzazioni più salde tra tutti i sistemi di cultura. Nella famiglia, nelle varie forme intermedie tra questa e lo stato, nello stato medesimo si trova poi la suprema elaborazione di un’unitaria posizione di scopi entro una comunità. Ogni unità organizzata di uno stato sviluppa una conoscenza di se stesso e delle regole, a cui è legata la sua sussistenza, così come della sua situazione di fronte al tutto. Essa gode dei valori sviluppatisi nel suo grembo; essa attua gli scopi che riposano sul suo essere e che servono alla conservazione e alla promozione della sua esistenza. Essa stessa è un bene dell’umanità, realizza beni e acquista un significato specifico entro la connessione dell'umanità. Arriva ora il punto in cui si presentano al nostro sguardo la società e la storia. Sarebbe però erroneo voler limitare la storia al cooperare degli uomini in vista di scopi comuni. L'uomo singolo, nella sua esistenza individuale che poggia su se stessa, è un essere storico. Egli è determinato dalla sua posizione nella linea del tempo, dal suo luogo nello spazio, dalla sua situazioWILHELM DILTHEY 139 ne nell’azione reciproca dei sistemi di cultura e delle comunità. Lo storico deve quindi intendere l’intera vita degli individui com’essa si manifesta in un determinato tempo e in un determinato luogo. Proprio l’intera connessione che va dagli individui, in quanto orientati verso lo sviluppo della propria esistenza, ai sistemi di cultura e alle comunità, e infine all’umanità, costituisce la natura della società e della storia. I soggetti logici, a cui ci si riferisce nella storia, sono tanto gli individui particolari quanto le comunità e le connessioni. 5. Lo scaturire delle scienze dello spirito dalla vita degli individui e delle comunità. La vita, l’esperienza della vita e le scienze dello spirito stanno dunque in una costante connessione interna e in un costante scambio reciproco. Non un procedimento concettuale costituisce il fondamento delle scienze dello spirito, ma la consapevolezza di uno stato psichico nella sua totalità e il suo ritrovamento nel rivivere. La vita coglie qui la vita, e la forza con cui vengono compiute le due operazioni elementari delle scienze dello spirito è la condizione preliminare della loro compiutezza in ogni parte di esse. Così anche in questo punto si nota una differenza decisiva tra le scienze della natura e le scienze dello spirito. In quelle la distinzione del nostro rapporto con il mondo esterno avviene sulla base del pensiero naturalistico, le cui operazioni produttive hanno un riferimento esterno, mentre in queste si mantiene una connessione tra vita e scienza, per cui il lavoro della vita nell’elaborazione del pensiero costituisce la base per la creazione scientifica. L’approfondimento in se stesso perviene nella vita, sotto certe circostanze, a una perfezione a cui neppure Carlyle? è pervenuto, e la comprensione degli altri viene qui condotta a un livello di virtuosismo che neppur Ran3. Thomas Carlyle (1795-1881), storico e filosofo romantico inglese, autore del Sartor Resartus (1833-34), della History of the French Revolution (1838), di On Heroes, Hero-Worship, and the Heroic in History (1841) c di varie altre opere, contribuì in misura rilevante all’introduzione dell'idealismo tedesco, in particolare del pensiero di Schelling, nella cultura inglese. La sua concezione della storia mette in risalto l’importanza decisiva degli « eroi ». 140 WILHELM DILTHEY ke' ha raggiunto. Da una parte le grandi nature religiose, come Agostino e Pascal, sono gli eterni modelli per l’esperienza che si nutre del proprio Erlebnis, e dall’altra, nella comprensione delle altre persone, la corte e la politica educano a un'arte che guarda al di là di ogni apparenza; un uomo di azione come Bismarck, al quale sono sempre presenti per natura i suoi fini in ogni lettera che scrive e in ogni colloquio, non può venir eguagliato da nessun interprete di atti politici e da nessun critico di narrazioni storiche per ciò che riguarda l’arte di leggere le intenzioni che stanno al di là dell’espressione. Tra la penetrazione di un dramma da parte di un ascoltatore di forte sensibilità poetica e la più eccellente analisi di storia letteraria non c’è, in parecchi casi, alcuna distanza. E anche l’elaborazione concettuale è continuamente determinata, nelle scienze storico-sociali, dalla vita medesima: mi riferisco alla connessione che conduce continuamente dalla vita, dall’elaborazione concettuale intorno al destino, ai caratteri, alle passioni, ai valori e agli scopi dell’esistenza, fino alla storia come disciplina scientifica. Nell’epoca in cui, in Francia, l’azione politica era fondata più sulla conoscenza degli uomini e delle personalità eminenti che su uno studio scientifico del diritto, dell'economia e dello stato, e la posizione nella vita di corte poggiava su tale arte, anche la forma letteraria delle memorie e degli scritti sui caratteri e sulle passioni è pervenuta a un’altezza non più raggiunta in seguito, ed è stata coltivata da persone poco influenzate dallo studio scientifico della psicologia e della storia. Una connessione interna unisce qui l'osservazione della società illustre, i letterati e i poeti che da essa imparano, i filosofi sistematici o gli storici scientifici che si formano sulla base della poesia e della letteratura. Si è visto, agli inizi della scienza politica in Grecia, che lo sviluppo dei concetti relativi alle costituzioni e alle funzioni politiche ha preso le mosse dallo stesso 4. Leopold von Ranke (1795-1886), storico tedesco, autore della Geschichte der romanischen und germanischen Vélker von 1494 bis 1535 (1824) seguita dalla celebre dissertazione Zur Kritik neuerer Geschichtsschreiber, di Die ròmischen Pùpste, ihre Kirche und ihr Staat im 16. und 17. Jahrhundert (1834-36), della Deutsche Geschichte im Zeitalter der Reformation (1839-47) e di numerose altre opere, è la principale figura della scuola storica tedesca. La sua attività storiografica culmina nelle conferenze dedicate alle Epochen der neueren Geschichte (1854) e nella Weltgeschichte (1881-1885), rimasta incompleta. sviluppo della vita statale, e che muove creazioni in questa hanno poi condotto a nuove teorie. Questo rapporto risulta quanto mai evidente nei più antichi stadi della scienza giuridica tanto romana quanto germanica. 6. La connessione delle scienze dello spirito con la vita e il loro compito di validità universale. Così il sorgere dalla vita e la perdurante connessione con essa costituisce il primo tratto fondamentale della struttura delle scienze dello spirito; esse poggiano infatti sull’Er/eden, sull’intendere e sull’esperienza della vita. Questo rapporto immediato, in cui stanno tra loro la vita e le scienze dello spirito, conduce in tali discipline a un’antitesi tra le tendenze della vita e il loro fine scientifico. Dal momento che gli storici, gli economisti, i teorici del diritto pubblico, gli studiosi della religione sono inseriti nella vita, vogliono anche influire su di essa. Essi sottopongono al loro giudizio persone storiche, movimenti di massa, tendenze, ma tale giudizio è condizionato dalla loro individualità, dalla nazione a cui appartengono, dal tempo in cui vivono. Anche quando credono di procedere senza presupposti, essi sono determinati da questo loro orizzonte: ogni analisi intrapresa sui concetti di una generazione passata mostra che in questi sono contenuti elementi, i quali derivano dai presupposti dell’epoca. Però nel medesimo tempo in ogni scienza come tale è contenuta l'esigenza della validità universale. Se debbono esserci scienze dello spirito nel significato ristretto del termine, esse debbono porsi questo fine in maniera sempre più cosciente e più critica. Sull’antitesi di queste due tendenze si basa gran parte dei contrasti scientifici che si sono manifestati, negli ultimi tempi, nella logica delle scienze dello spirito. Tale antitesi si esprime nella maniera più forte entro la scienza storica, che è diventata il punto centrale in questa discussione. La soluzione di questa antitesi si compie soltanto nella costruzione delle scienze dello spirito; gli ulteriori principi generali sulla connessione delle scienze dello spirito già contengono il principio di tale soluzione. Il risultato finora da noi conseguito permane. La vita e l’esperienza della vita sono le fonti 142 WILHELM DILTHEY sempre nuove della comprensione del mondo storico-sociale; la comprensione procede dalla vita verso sempre maggiori profondità; e soltanto nella reazione sulla vita e sulla società le scienze dello spirito pervengono al loro più alto significato, che è in continuo accrescimento. Ma la strada verso questa azione deve passare attraverso l’oggettività della conoscenza scientifica. La coscienza di ciò era già operante nella grande epoca creatrice delle scienze dello spirito. In seguito a vari disturbi che si possono riscontrare nel corso del nostro sviluppo nazionale, ma anche nell’applicazione di un ideale culturale unilaterale dopo Burckhardt®, noi cerchiamo ora di elaborare questa oggettività delle scienze dello spirito in maniera sempre più priva di presupposti, più critica, più rigorosa. Io trovo il principio per la soluzione dell’antitesi che si presenta in queste scienze nella comprensione del mondo storico come una connessione dinamica, la quale è centrata in se stessa, in quanto ogni connessione dinamica particolare in essa contenuta ha in sé, in virtù della posizione e della realizzazione di valori, il proprio centro, ma tutte sono strutturalmente unite in una totalità nella quale il senso della connessione del mondo storico-sociale deriva dalla significatività delle singole parti; cosicché ogni giudizio di valore e ogni posizione di scopi diretta verso il futuro, devono essere fondati esclusivamente su questa connessione strutturale. A questo principio ideale ci avviciniamo ora nei seguenti princìpi generali sulla connessione delle scienze dello spirito. La connessione delle scienze dello spirito è determinata dal suo fondamento nell’Erlebden e nell’intendere, e tanto nell’uno 5. Jacob Burckhardt (1818-1897), storico svizzero, autore di Die Zeit Constantins des Grossen (1853), di Die Cultur der Renaissance in Italien (1860) e di una postuma Griechische Kulturgeschichte (1898-1902), nonché di varie altre opere, è uno dei maggiori esponenti della storiografia post-romantica; il suo libro sulla civiltà del Rinascimento ha rinnovato l'interpretazione di questo periodo storico. Le sue idee sulla storia sono esposte nel corso di lezioni Uber das Studium der Geschichte, pubblicato postumo col titolo Weltgeschichiliche Betrachtungen (1905). WILHELM DILTHEY 143 quanto nell’altro si fanno subito valere importanti differenze rispetto alle scienze della natura, le quali dànno un carattere proprio alla costruzione di tali discipline. 1. La linca delle rappresentazioni che procede dall’Erlebnis. Ogni immagine ottica è diversa da un’altra, che si riferisca al medesimo oggetto, per il punto di vista e le condizioni dell’apprendimento: queste immagini sono legate in un sistema di relazioni interne in virtù dei vari modi di apprendimento oggettivo. La rappresentazione totale, che così sorge dalla serie delle immagini secondo i rapporti fondamentali racchiusi nel contenuto di fatto, è qualcosa di rappresentato e di pensato in aggiunta. Gli Erlebrisse sono invece legati tra loro in un’unità di vita entro il corso temporale; e ognuno di essi ha così il suo posto in un corso i cui elementi sono uniti reciprocamente nella memoria. Non parlo qui ancora del problema della realtà di questi Er/ebrisse, e tanto meno delle difficoltà inerenti all’apprendimento di un Er/ebnis: basta che il modo in cui l’Erlebnis esiste per me sia del tutto diverso dal modo in cui stanno davanti a me le immagini. La coscienza di un Erlebnis e della sua qualità, il suo esistere-per-me e ciò che in esso esiste per me, sono la stessa cosa: l’Er/ebrnis non si contrappone a chi lo apprende come un oggetto, ma la sua esistenza per me non è distinta da ciò che in esso esiste per me. Non vi sono diverse posizioni spaziali da cui possa venir visto ciò che in esso esiste; e differenti punti di vista, da cui esso può venir appreso, possono sorgere soltanto in seguito, mediante la riflessione, e non incidono sul suo carattere di Erlebris. Esso è sottratto alla relatività di ciò che è dato sensibilmente, per cui le immagini si riferiscono all'elemento oggettivo soltanto nella relazione con il soggetto conoscente, con la sua posizione nello spazio e con ciò che sta in mezzo tra lui e gli oggetti. Dall’Erlebris una linea diretta di rappresentazioni procede fino all’ordine dei concetti in cui esso viene appreso pensando. Esso viene anzitutto spiegato mediante le operazioni elementari del pensiero; e qui trovano il loro significato specifico i ricordi, in cui esso viene poi appreso. E che cosa accade quando l’Erlebnis diviene oggetto della mia riflessione? Io sto sveglio di notte, mi preoccupo 144 WILHELM DILTHEY della possibilità di terminare nella mia vecchiaia i lavori iniziati, rifletto su ciò che vi è da fare. In questo Erlebris c'è una connessione strutturale di coscienza: l’apprendimento oggettivo costituisce il suo fondamento, su questo poggia una presa di posizione come preoccupazione e come sofferenza provocata dall'elemento soggettivamente appreso, e come tendenza a andare oltre di esso. E tutto ciò esiste per me in questa sua connessione strutturale. Io reco a coscienza distinta un certo stato, pongo in luce ciò che in esso è strutturalmente collegato, lo isolo: ma tutto ciò che vengo in tal modo a trarne fuori è contenuto nell’Erlebris stesso e viene in tal modo solo spiegato. Il mio apprendimento dell’Erlebris stesso viene però sviluppato, sulla base dei momenti in esso contenuti, in Er/ebrisse che, sebbene separati da un lungo spazio di tempo, sono legati strutturalmente nel corso della vita con tali momenti: io ho coscienza dei miei lavori in virtù di un esame precedente, e con questo stanno in relazione, in un passato ancor più lontano, i processi da cui sono sorti tali lavori. Un altro momento si dirige verso il futuro; ciò che ora sussiste richiederà ancora un lavoro incalcolabile da parte mia; io ne sono preoccupato e mi oriento internamente a tale operazione. Tutto questo s, di e a, tutte queste relazioni di ciò che è immediatamente vissuto con ciò che è ricordato e anche con il futuro, mi spinge — indietro e avanti. Essere trascinato in questa serie poggia sull’esigenza di sempre nuovi elementi, richiesti, dall’Erleden; a ciò può cooperare pure un interesse che deriva dalla forza emotiva di questo. È un essere trascinato, non una volizione, tanto meno quell’astratta volontà di sapere a cui si è fatto ricorso dopo la dialettica di Schleiermacher. Nella serie, che in tal modo sorge, tanto il passato quanto il futuro o il possibile sono trascendenti rispetto al momento riempito dall'Erlebnis: ma entrambi, il passato e il futuro, sono legati all’Er/ebris in una serie che si articola mediante tali relazioni in una totalità. Ogni passato è legato strutturalmente come riproduzione a un Er/ebnis trascorso, in quanto il suo ricordo implica un riconoscimento. Anche il possibile da venire è legato a tale serie mediante l’ambito di possibilità da essa determinate. Così in questo processo sorge l’intuizione della connessione psichica nel tempo, la quale costituisce il corso della vita, in cui ogni singolo Erlebnis è legato a una totalità. E tale connessione della vita non è una somma o un complesso di momenti successivi, ma un’unità costituita da relazioni che uniscono tutte le parti. Muovendo dal presente noi percorriamo indietro una serie di ricordi fin dove il nostro piccolo, debole e informe io si perde nel crepuscolo, e ci spingiamo innanzi, da questo presente, verso possibilità in esso racchiuse, che assumono vaghe ed ampie dimensioni. Da ciò deriva un risultato importante per la connessione delle scienze dello spirito. Gli elementi, le regolarità, le relazioni che costituiscono l’intuizione del corso della vita, sono insieme contenuti nel corso della vita; e al sapere relativo al corso della vita spetta quindi lo stesso carattere di realtà proprio dell’Er/ebnis. 2. Il rapporto di reciproca dipendenza nell’intendere. Se negli Erlebnisse cogliamo la realtà della vita nella molteplicità dei suoi rapporti, quel che ci appare, in questa prospettiva, è sempre soltanto qualcosa di singolare, cioè la nostra propria vita di cui siamo coscienti nell’Erleden. Tale sapere resta un sapere relativo a qualcosa di irripetibile, e nessun strumento logico può superare la limitazione alla singolarità contenuta nella forma di esperienza dell’Erleden. Soltanto l’intendere elimina tale limitazione dell’Erlebnis individuale, come d’altro lato conferisce agli Erlebnisse della persona il carattere di esperienza della vita. Estendendosi a più uomini, a varie creazioni spirituali e a varie comunità, esso amplia l’orizzonte della vita individuale e apre nelle scienze dello spirito la via che reca, attraverso ciò che è comune, al generale. L’intendersi reciproco ci assicura del rapporto di comunazza che sussiste tra gli individui: questi sono infatti tra loro legati da una comunanza in cui sono intrecciate appartenenza reciproca o connessione, uniformità o affinità. La stessa relazione di connessione e di uniformità pervade tutte le cerchie del mondo umano. Questa comunanza si esprime nell’identità della ragione, nella simpatia presente nella vita affettiva, nell’obbligazione reciproca del dovere e del diritto, accompagnata dalla coscienza di ciò che deve essere. La comunanza delle unità viventi è il punto di partenza per tutte le relazioni tra particolare e universale nelle scienze dello spirito. L'esperienza fondamentale della comunanza pervade l’intero apprendimento del mondo spirituale, collegando la coscienza dell’io unitario e la coscienza dell’uniformità con gli altri, l'identità della natura umana e l’individualità. Essa costituisce il presupposto dell’intendere. Dall’interpretazione elementare, che richiede soltanto Ia conoscenza del significato delle parole e delle regolarità con cui esse sono legate in proposizio-ni dotate di senso, cioè la comunanza del linguaggio e del pensare, l'ambito di ciò che è comune si estende di continuo, rendendo possibile il processo di comprensione nella misura in cui il suo oggetto è costituito da nessi superiori di manifestazioni della vita. Dall'analisi dell’intendere risulta però un secondo rapporto fondamentale, che è determinante per la struttura della connessione delle scienze dello spirito. Noi abbiamo visto come le verità delle scienze dello spirito poggiano sull’Erlede e sull’intendere: ma l’intendere presuppone d'altra parte l’utilizzazione delle verità delle scienze dello spirito. Per illustrare ciò con un esempio si prenda il compito di comprendere Bismarck: una straordinaria quantità di lettere, di documenti, di narrazioni e di racconti su di lui costituisce il materiale che si riferisce al corso della sua vita. Lo storico deve ampliare il confine di questo materiale, per cogliere ciò che ha influito sul grande uomo di stato e ciò che egli ha prodotto. Fin quando dura il processo dell’intendere, la delimitazione del materiale non è ancora conclusa. Già per conoscere uomini, avvenimenti, situazioni come appartenenti a questa connessione dinamica, egli ha bisogno di princìpi generali, i quali stanno anche a base della sua comprensione di Bismarck, estendendosi dalle qualità comuni dell’uomo alle qualità di classi particolari. Lo storico darà a Bismarck un posto tra gli uomini d’azione in base alla psicologia individuale, seguendo in lui la specifica combinazione dei tratti che sono loro comuni. Da un altro punto di vista si ritroveranno nella sovranità del suo essere, nell’abitudine a comandare e a dirigere, nell’inflessibilità del volere, le qualità fondamentali del nobile prussiano latifondista. E, in quanto la sua lunga vita ha occupato un posto determinato nel corso WILHELM DILTHEY 147 della storia prussiana, ecco di nuovo un altro gruppo di princìpi generali da cui sono determinati i tratti comuni agli uomini di questo tempo. L'enorme pressione che si esercitava, secondo la situazione dello stato, sulla consapevolezza politica produceva naturalmente le più diverse forme di reazione. La comprensione di queste esige princìpi generali sulla pressione che una certa situazione esercita su una totalità politica e sui suoi elementi, nonché sulle sue ripercussioni. I gradi di sicurezza metodica nella comprensione dipendono dallo sviluppo delle verità generali mediante cui tale rapporto consegue il suo fondamento. Risulta ora chiaramente che questo grande uomo di azione, il quale ha avuto le sue radici completamente nella Prussia c nel suo regno, dovrà sentire in modo particolare la pressione che si esercita su di essa dall’esterno. Egli dovrà pure valutare le questioni interne della costituzione di questo stato principalmente dal punto di vista del potere statale. In quanto poi è il punto di incontro di comunità quali lo stato, la religione, l'ordine giuridico, e in quanto ha pure, come personalità storica, determinato e mosso în modo eminente una di queste comunità, e nel medesimo tempo opera in esse, egli richiede da parte dello storico una conoscenza generale intorno a queste comunità. In breve, il suo intendimento giungerà a compimento solo in virtù della relazione col complesso di tutte le scienze dello spirito. Ogni relazione, che deve essere elaborata nella rappresentazione di questa personalità storica, acquista la massima sicurezza e distinzione solo attraverso la sua determinazione mediante i concetti scientifici relativi ai vari campi. E il rapporto reciproco di questi campi è fondato infine su una intuizione totale del mondo storico. Così il nostro esempio ci illustra la duplice relazione insita nell’intendere: l’intendere presuppone l’Erleben, e l’Erlebnis si eleva a esperienza della vita solo in quanto l’intendere conduce al di fuori della ristrettezza e della soggettività dell’Erleben, nella regione della totalità e dell’universale. Inoltre, la comprensione della personalità singola esige per la sua compiutezza il sapere sistematico, come d'altra parte il sapere sistematico dipende dalla viva penetrazione della singola unità vitale. La conoscenza della natura inorganica si compie in una costru148 WILHELM DILTHEY zione scientifica nella quale il grado sottostante è sempre indipendente da quello che esso fonda: invece nelle scienze dello spirito tutto, a partire dal processo dell’intendere, è determinato dal rapporto di reciproca dipendenza. A ciò corrisponde il corso storico di queste discipline. La storiografia è in ogni punto condizionata dalla conoscenza delle connessioni sistematiche che si intrecciano nel corso storico, e la cui profonda investigazione determina il progredire dell’intendere storico. Tucidide si fondava sul sapere politico sorto nella prassi dei liberi stati greci, e sulle dottrine intorno allo stato sviluppatesi nel periodo sofistico. Polibio ha riunito in sé l'intera saggezza politica dell’aristocrazia romana, che in questo tempo era al culmine del suo sviluppo sociale e spirituale, con lo studio delle opere politiche greche da Platone fino allo Stoicismo. L’unione della saggezza politica fiorentina e veneziana, sviluppatasi in una élite assai evoluta e piena di vivaci dibattiti politici, con il rinnovamento e la prosecuzione delle dottrine antiche ha reso possibile la storiografia di Machiavelli e di Guicciardini. La storiografia ecclesiastica di Eusebio”, dei sostenitori e degli avversari della Riforma, come Neander” e Ritschl*, è piena di concetti sistematici riguardanti il processo religioso e il diritto ecclesiastico. E infine la fondazione della storiografia moderna nella scuola storica e in Hegel aveva dietro di sé da un lato il legame della scienza giuridica moderna con le esperienze dell’età rivoluzionaria e dall’altro l’intera sistematica delle scienze dello spirito sorte da poco. Quando Ranke sembra avvicinarsi alle cose con ingenua gioia di narra6. Eusebio di Cesarca (265-339), padre della Chiesa ispirato dal neoplatonismo, autore del Chronicon, della Historia ecclesiastica, della Praeparatio evangelica, della Demonstratio evangelica, del De ecclesiastica theologia e di vari altri scritti, è una delle fonti principali per la storia del Cristianesimo primitivo. Scrisse parecchi pampAlets di polemica anti-pagana, e prese parte alla controversia tra Ario e Alessandro sull’interpretazione della trinità. 7. Johann August Wilhelm Neander (1789-1850), storico della chiesa e teologo tedesco, autore di diversi volumi sull’imperatore Giuliano, su Bernardo di Chiaravalle, su Giovanni Crisostomo, su Tertulliano, nonché di una Allgemeine Geschichte der christlichen Religion und Kirche (1825-45) rimasta incompiuta. 8. Albrecht Ritschl (1822-1889), teologo protestante tedesco, autore di Die Ent stehung der altkatholischen Kirche (1850), di Die christliche Lehre von Rechifertigung und Versohnung (1870-74), della Geschichte des Pietismus (1880-86), di Theologie und Metaphysik (1881) e di varie altre opere. WILHELM DILTHEY 149 tore, la sua storiografia può venir tuttavia intesa solo se si ripercorrono le molteplici fonti di pensiero sistematico, che si sono incontrate nella sua formazione. E questa reciproca dipendenza dell’elemento storico e dell’elemento sistematico cresce sempre di più avvicinandoci al presente. Proprio la critica storica, nei suoi lavori fondamentali, ha mostrato la sua dipendenza non solo dallo sviluppo formale dei metodi ma anche dalla più profonda penetrazione delle connessioni sistematiche, dai progressi della grammatica, dallo studio della connessione del discorso, quale si è sviluppato dapprima nella retorica, e inoltre dalla nuova concezione della poesia — come ci appare sempre più chiaramente nel caso dei precursori di Wolf° che hanno derivato le loro conclusioni su Omero da una nuova poetica — e dalla nuova cultura estetica nel medesimo F. A. Wolf, dalle considerazioni economiche, giuridiche e politiche in Niebuhr, dalla nuova filosofia congeniale con Platone in Schleiermacher, e in Baur!° dalla comprensione del processo in cui si sono formati i dogmi, come l’avevano sviluppata Schleiermacher e Hegel. E, viceversa, il progresso nelle scienze sistematiche dello spirito è stato sempre condizionato dal movimento dell’Er/ebez verso nuove profondità, dall’allargarsi dell’intendere in un maggiore ambito di manifestazioni della vita storica, dalla scoperta di fonti storiche fin allora ignote o dall’emergere di grandi masse di esperienze in nuove situazioni storiche. Ciò è già dimostrato dalla formazione delle prime linee di una scienza politica nell’età dei Sofisti, di Platone e di Aristotele, così 9. Friedrich August Wolf (1759-1824), pedagogista e filologo tedesco, autore della Geschichte der ròmischen Literatur (1787), dei Prolecomena ad Homerum (1794), di una Enzyklopidie der Philologie pubblicata postuma (1830), nonché di diversi altri volumi di argomento classicistico 0 pedagogico, occupa un posto importante nella storia della critica omerica. 1o. Ferdinand Christian Baur (1792-1860), storico e teologo tedesco, autore di Das manichdische Religionssystem (1831), di Die christliche Gnosis oder die christliche Religionsphilosophie in ihrer geschichtlichen Entwicklune (1835), del LeArbuch der christlichen Dogmengeschichte (1837), di Paulus der Apostel Jesu Christi (1845), di Die Epochen der kirchlichen Geschichtsschreibung (1852-55) e di numerose altre opere, tra cui le postume Vorlesungen ùber die christliche Dogmengeschichte (1865-67), è il maggiore esponente dell'atteggiamento razionalistico nella storiografia religiosa della prima metà dell'Ottocento, La sua concezione della religione e della storia della religione si ispira in larga misura a Hegel. 150 WILHELM DILTHEY come dall’origine di una retorica e di una poetica in quanto teoria della creazione spirituale nella medesima epoca. Sempre tale intreccio dell’Erleben con la comprensione di persone singole o di comunità come soggetti sovra-individuali è stata determinante nei grandi progressi delle scienze dello spirito. I geni dell’arte narrativa come Tucidide, Guicciardini, Gibbon, Macaulay ", Ranke producono anche nella loro limitazione opere storiche non soggette al tempo; e nella totalità delle scienze dello spirito vi è dunque un progresso, in quanto viene gradualmente conquistata alla coscienza storica la penetrazione delle connessioni che cooperano nella storia, la storiografia si immerge nelle loro relazioni che costituiscono una nazione, un'epoca, una linea di sviluppo storico, e di qui si dischiudono poi profondità della vita, quali sono esistite nelle varie situazioni storiche, che vanno al di Îà di ogni intendere precedente. Come potrebbe venir comparata quella passata con la comprensione che uno storico odierno ha di artisti, poeti, scrittori? 3. La spiegazione graduale delle manifestazioni della vita attraverso la costante azione reciproca deî due orientamenti scientifici. Il rapporto di condizionamento reciproco ci appare dunque come rapporto fondamentale tra l’Erleden e l’intendere. Più da vicino, esso viene a determinarsi come rapporto di spiegazione graduale nella costante azione reciproca tra le due classi di verità. L’oscurità dell’Erlebris viene chiarita, gli errori derivanti dalla ristretta comprensione del soggetto vengono corretti, l’Erlebnis medesimo è ampliato e completato nell’intendimento di altre persone, come d’altra parte le altre persone sono intese mediante i propri Erlebnisse. L'intendere allarga sempre più l'ambito del sapere storico mediante la più intensa utilizzazione delle fonti, mediante il ritorno indietro nel passato finora non compreso, e infine mediante il progredire della storia medesima, che produce sempre nuovi avvenimenti estendendo così 11. Thomas Babington Macaulay (1800-1859), uomo politico e storico inglese, autore della History of England from the Accession of James II (1849-61), nonché di numerosi Essays e Biographical Essays, recò nella sua storiografia un'impostazione liberale: Dilthey si riferisce qui soprattutto alle suc grandi qualità narrative. WILHELM DILTHEY ISI l'oggetto dell’intendere. In tale procedere l'ampliamento di ambito richiede sempre nuove verità generali per la penetrazione di questo mondo della singolarità; e l’estensione dell’orizzonte storico rende nel medesimo tempo possibile l'elaborazione di concetti sempre più generali e sempre più fecondi. Così in ogni punto e in ogni tempo si presenta, nel lavoro delle scienze dello spirito, una circolarità di Erleden, di intendere e di rappresentazione del mondo spirituale in concetti generali. E ogni grado di questo lavoro possiede un’unità interna nel suo apprendimento del mondo spirituale, poiché la conoscenza storica del singolare e le verità generali si sviluppano in un'azione reciproca e quindi appartengono alla stessa unità dell’apprendimento. A ogni grado l’intendimento del mondo spirituale è qualcosa di omogeneo e unitario, dalla concezione del mondo spirituale ai metodi di critica e di indagine particolare. Qui possiamo rivolgere ancora uno sguardo all’epoca in cui è sorta la moderna coscienza storica. Essa è stata realizzata quando l'elaborazione concettuale delle scienze sistematiche si è coscientemente fondata sullo studio della vita storica, e la conoscenza del singolare è stata coscientemente fecondata dalle discipline sistematiche dell'economia politica, del diritto, dello stato, della religione. A questo punto poteva sorgere la comprensione metodica della connessione delle scienze dello spirito: il medesimo mondo spirituale diventa, secondo la diversità del punto di vista da cui è considerato, oggetto di due classi di discipline. La storia universale come connessione singolare, il cui oggetto è l’umanità, e il sistema di scienze dello spirito indipendenti che si riferiscono all’uomo, al linguaggio, all’economia, allo stato, al diritto, alla religione e all’arte, si completano reciprocamente. Esse sono distinte dal fine e dai metodi che questo determina, ma al tempo stesso cooperano nel loro costante legame alla costruzione del sapere relativo al mondo spirituale: Erleben, rivivere e verità generali sono legati dall’operazione fondamentale dell’intendere. L'elaborazione concettuale non è fondata su norme o valori che si presentano al di lì dell’apprendimento oggettivo, ma sorge dal carattere dominante di ogni pensiero concettuale, cioè dalla tendenza a porre in luce ciò che è stabile e duraturo entro il corso del divenire, Il metodo si muove così in una duplice direzione: nella tendenza verso il singolare procede dalla parte al tutto e da questo di nuovo alla parte, e nella tendenza verso il generale tra questo e il particolare ha luogo la medesima azione reciproca. III. L’OGGETTIVAZIONE DELLA VITA 1. Se abbracciamo l’insieme di tutte le operazioni dell’intendere, allora appare in esso, di fronte alla soggettività dell'Er/ednis, l’oggettivazione della vita. Accanto all’Erlebris l’intuizione dell’oggettività della vita, e del suo manifestarsi in molteplici connessioni strutturali, diventa il fondamento delle scienze dello spirito. L'individuo, le comunità e le opere in cui si sono trasposti la vita e lo spirito, costituiscono il dominio esterno dello spirito. Queste manifestazioni della vita, quali si presentano nel mondo esterno alla comprensione, sono per così dire inserite nella connessione della natura. Questa grande realtà esterna dello spirito ci circonda sempre: essa è una realizzazione dello spirito nel mondo sensibile, a partire dall’espressione fuggevole fino al dominio secolare di una costituzione o di un testo giuridico. Ogni manifestazione particolare della vita rappresenta, nel campo di tale spirito oggettivo, ur elemento comune. Ogni parola, ogni proposizione, ogni gesto e ogni formula di cortesia, ogni opera d’arte e ogni impresa storica sono comprensibili solamente in quanto un rapporto di comunanza unisce chi in essi si esprime con chi li intende; l’individuo vive, pensa e agisce di continuo in una sfera di comunanza, e solo in questa può intendere. Tutto ciò che viene inteso reca, per così dire, il marchio della sua conoscibilità in base a questa comunanza: noi viviamo in questa atmosfera, che ci circonda costantemente, e siamo immersi in essa. Noi siamo ovunque a casa in questo mondo storico che intendiamo, ne penetriamo il senso e il significato, siamo coinvolti in questi rapporti di comunanza. Il mutare delle manifestazioni della vita, che agiscono su di Noi, ci spinge di continuo a una nuova comprensione; ma nel medesimo tempo anche nell’intendere si ha, poiché ogni manifestazione della vita e la sua comprensione sono legate ad altre, un movimento che progredisce secondo i rapporti di WILHELM DILTHEY 153 affinità dal singolo individuo dato verso il tutto. E, crescendo le relazioni tra ciò che è affine, aumentano nel medesimo tempo le possibilità di generalizzazione già racchiuse nella comunanza come determinazione di ciò che è inteso. Nell’intendere si fa valere anche un'ulteriore qualità dell’oggettivazione della vita, che determina tanto l'articolazione secondo affinità quanto la tendenza della generalizzazione. L’oggettivazione della vita contiene in sé una molteplicità di ordini articolati. Dalla distinzione delle razze fino alla diversità delle forme di espressione e dei costumi in una stirpe, in una città, vi è un'articolazione di differenze spirituali condizionata su base naturale. Differenze di altro tipo si presentano nei sistemi di cultura, altre separano tra loro le epoche — in breve, molte linee che delimitano da qualche punto di vista ambiti di vita affine attraversano il mondo dello spirito oggettivo e si incrociano in esso. La pienezza della vita si manifesta in innumerevoli sfumature e viene compresa mediante il ricorrere di tali differenze. Mediante l’idea dell’oggettivazione della vita noi perveniamo per la prima volta a gettare uno sguardo sull’essenza di ciò che è storico. Tutto è qui sorto dall’attività spirituale e reca quindi il carattere della storicità: perfino nel mondo sensibile esso si inserisce come prodotto della storia. Dalla distribuzione degli alberi in un parco, dalla disposizione delle case in una strada, dallo strumento appropriato di un artigiano fino alla sentenza del tribunale, tutto è intorno a noi, a ogni ora, storicamente divenuto. Ciò che lo spirito immette oggi del proprio carattere nella sua manifestazione di vita, è domani, quando ci sta dinanzi, storia. Col procedere del tempo noi siamo attorniati dalle rovine di Roma, da cattedrali, dai castelli della monarchia assoluta. La storia non è nulla di separato dalla vita, nulla di staccato dal presente a causa della sua distanza nel tempo. Guardiamo il risultato: le scienze dello spirito hanno, come loro datità complessiva, l’oggettivazione della vita. Ma in quanto l’oggettivazione della vita diventa per noi qualcosa di inteso, essa racchiude sempre, in quanto tale, la relazione dell’esterno all’interno. Perciò tale oggettivazione è ovunque legata nell’intendere all’Er/eben, in cui all'unità della vita si dischiude 154 WILHELM DILTHEY il suo contenuto, permettendo così ad essa di interpretare quello di tutte le altre. Dal momento che qui stanno i dati delle scienze dello spirito, risulta pure che tutto ciò che è stabile ed estraneo, in quanto proprio alle immagini del mondo fisico, deve venir eliminato dal concetto del dato proprio di questo campo. Tutto il dato è qui venuto alla luce, e quindi è storico; è inteso, e quindi contiene in sé un elemento comune; è noto in quanto è inteso, e contiene in sé un raggruppamento del molteplice, poiché già l’interpretazione del manifestarsi della vita nell’intendere superiore poggia su un raggruppamento. Anche il procedimento di classificazione di tali manifestazioni è quindi già presente nei dati delle scienze dello spirito. E qui viene a completarsi il concetto delle scienze dello spirito. Il loro ambito si estende quanto l’intendere, e l’intendere ha il suo oggetto unitario nell’oggettivazione della vita. Così il concetto di scienza dello spirito è determinato, in base all’ambito dei fenomeni che rientrano in essa, mediante l’oggettivazione della vita nel mondo esterno. Lo spirito intende soltanto ciò che esso stesso ha creato. La natura, cioè l’oggetto della scienza naturale, comprende la realtà prodotta indipendentemente dall’opera dello spirito. Tutto ciò in cui l'uomo ha impresso, operando, la sua impronta, costituisce l’oggetto delle scienze dello spirito. E anche l’espressione « scienza dello spirito » riceve a questo punto la sua giustificazione. Si è nel passato discorso dello spirito delle leggi, del diritto, della costituzione: ora possiamo dire che tutto ciò in cui lo spirito si è oggettivato, rientra nell’ambito delle scienze dello spirito. 2. Io ho finora designato questa oggettivazione della vita anche con il nome di spirito oggettivo: tale termine è stato profondamente e felicemente coniato da Hegel. Debbo però indicare anche con precisione il senso in cui lo uso, distinguendolo da quello che Hegel gli attribuisce. Tale distinzione riguarda tanto il posto sistematico del concetto quanto la sua finalità e il suo ambito. Nel sistema hegeliano il termine designa un grado nello sviluppo dello spirito, un grado posto tra lo spirito soggettivo e lo spirito assoluto. Il concetto di spirito oggettivo ha pertanto presso di lui il suo posto nella costruzione ideale dello sviluppo dello spirito, la quale trova il suo substrato reale nella realtà storica e nelle relazioni che in essa sussistono e si propone di comprenderla speculativamente, lasciando così alle sue spalle le relazioni temporali, empiriche, storiche. L'idea, la quale nella natura si manifesta nel suo essere altro, estraniandosi da sé, ritorna in se stessa nello spirito, sul fondamento di tale natura. Lo spirito del mondo ritorna alla sua pura idealità, realizzando la sua libertà nel suo sviluppo. Come spirito soggettivo esso è la molteplicità degli spiriti individuali; e poiché in questa il volere si realizza sulla base della conoscenza dello scopo razionale attuantesi nel mondo, nello spirito individuale si compie il passaggio alla libertà. In tal modo è dato il fondamento per la filosofia dello spirito oggettivo. Questa mostra come la volontà libera razionale, e quindi in sé universale, viene a oggettivarsi in un mondo etico: «questa libertà, che ha il contenuto e lo scopo della libertà, è anzitutto soltanto concetto, principio dello spirito e del cuore, ed è destinata a svilupparsi come oggettività, come realtà giuridica, etica e religiosa e come realtà scientifica » *. In tal modo è posto lo sviluppo dallo spirito oggettivo allo spirito assoluto: «lo spirito oggettivo è l’idea assoluta, ma solo come idea che è in sé; e in quanto esso è sul terreno della finitudine, la sua razionalità reale conserva in sé l’aspetto dell’apparenza esterna » È. L'oggettivazione dello spirito si compie nel diritto, nella moralità e nell’eticità. L’eticità realizza la volontà razionale universale nella famiglia, nella società civile e nello stato; e lo stato realizza nella storia universale la sua essenza, in quanto realtà esterna dell'idea etica. In tal modo la costruzione ideale del mondo storico ha raggiunto il punto in cui i due gradi dello spirito, la volontà razionale universale del soggetto singolo e la sua oggettivazione nel mondo etico come sua superiore unità, rendono possibile a. Hecet, Werke, vol. VII, parte II (1845), p. 375 [EnzyK/opadie der philosophischen Wissenschaften, parte III, $ 482]. b. Op. cit., p. 376 [EnzyKWopidie der philosophischen Wissenschaften, parte III, $ 483]. l’ultimo e massimo grado: il sapere che lo spirito ha di se stesso come forza creatrice di ogni realtà nell’arte, nella religione e nella filosofia. «Lo spirito soggettivo e oggettivo devono esser considerati il cammino su cui si» costituisce la suprema realtà dello spirito, lo spirito assoluto. Qual è stata la posizione e l’importanza storica di questo concetto dello spirito oggettivo, scoperto da Hegel? L’Illuminismo tedesco, troppo spesso disconosciuto, aveva posto in luce il significato dello stato come il più ampio ente collettivo che realizza l’eticità intrinseca degli individui. Mai dopo i giorni dei Greci e dei Romani la comprensione dello stato e del diritto è stata più fortemente e profondamente espressa come in Carmen, Svarez, Klein, Zedlitz, Herzberg, i massimi funzionari dello stato federiciano!. Questa intuizione dell’essenza e del valore dello stato si è unita in Hegel con le idee antiche di eticità e di stato, e con la penetrazione della realtà di queste idee nel mondo antico: egli ha fatto così valere il significato dei rapporti di comunanza nella storia. La scuola storica perveniva nello stesso tempo, sulla strada della ricerca storica, alla scoperta dello spirito collettivo, a cui Hegel era giunto mediante una propria specie di intuizione storico-metafisica. Anch'essa perveniva a una comprensione, che andava oltre i filosofi idealistici greci, dell’essenza della comunità, quale si manifesta nel costume, nello stato, nel diritto e nella fede, e che non può venir derivata dal cooperare degli individui. In tal modo sorgeva in Germania la coscienza storica. Hegel ha raccolto il risultato di tutto questo movimento in un solo concetto — nel concetto di spirito oggettivo. Ma i 12. Johann Heinrich Casimir barone von Carmer (1720-1801), fu dal 1779 al 1795 gran cancelliere e presidente della Commissione Icgislativa dello stato prussiano; sotto la sua direzione fu pubblicato, nel 1780-81, il primo volume del Corpus iuris Friedericianum. — Karl Gottlieb Svarez (1746-1798), collaborò alla redazione del codice prussiano, — Ernst Ferdinand Klein (1744-1810), anch'egli collaboratore di Carmer nella redazione del codicc prussiano, autore dei Grundsùtze des gemeinen deutschen peinlichen Rechts (1799) e di mumerose altre opere giuridiche, soprattutto di carattere penalistico. — Karl Abraham barone von Zedlitz (1731-1793), ministro di Federico II, ebbe gran parte nella riforma del sistema scolastico prussiano. — Ewald Herzberg (17251795), anch'egli ministro sotto il regno di Federico II, autore del Mémoire raisonné con cui il sovrano cercò di giustificare nel 1756 l'invasione della Sassonia, che diede inizio alla Guerra dei sette anni. presupposti sui quali Hegel ha fondato questo concetto non possono più venir mantenuti. Egli ha costruito le comunità sulla base della volontà universale della ragione: noi dobbiamo oggi muovere dalla realtà della vita, poiché nella vita opera la totalità della connessione psichica. Hegel ha costruito metafisicamente; noi analizziamo il dato. E l’analisi attuale dell’esistenza umana suscita in tutti noi la coscienza della fragilità, della forza dell'impulso oscuro, della sofferenza derivante dalle tenebre e dalle illusioni, della finitudine presente in tutto ciò che è vita, anche dove da essa derivano le supreme forme della vita della comunità. Non possiamo quindi intendere lo spirito oggettivo sulla base della ragione, ma dobbiamo rifarci alla connessione strutturale delle unità viventi che si continua nelle comunità. E non possiamo costringere lo spirito oggettivo entro una costruzione ideale, ma dobbiamo piuttosto porre a base la sua realtà nella storia. Noi cerchiamo di intendere e di rappresentare con concetti adeguati questa realtà. E in quanto lo spirito oggettivo viene così liberato dalla sua fondazione unilaterale in una ragione universale, che esprimeva l’essenza dello spirito del mondo, e liberato anche dalla costruzione ideale, diventa allora possibile un nuovo concetto di esso, il quale comprende il linguaggio, il costume, ogni specie di forma della vita e di stile di vita al pari della famiglia, della società civile, dello stato e del diritto. Così cade anche quello che Hegel ha distinto, rispetto allo spirito oggettivo, come spirito assoluto: arte, religione e filosofia rientrano in questo concetto, poiché proprio in esse l'individuo creatore si mostra nel medesimo tempo come rappresentante della comunanza spirituale, e lo spirito si oggettiva proprio in tali forme vigorose, e può esservi riconosciuto. Questo spirito oggettivo contiene certo in sé un’articolazione, che va dall’umanità fino ai tipi di minore estensione: in esso agisce questa articolazione, cioè il principio di individuazione. E quando l’individuale viene appreso nell’intendere, in base a ciò che è universalmente umano e attraverso la sua mediazione, si ha un rivivere della connessione interna che conduce da ciò che è universalmente umano alla sua individuazione. Questo movimento viene appreso nella riflessione, e la psicologia individuale abbozza la teoria che fonda la possibilità dell’individuazione *. A base delle scienze sistematiche dello spirito sta pertanto lo stesso rapporto tra le uniformità, che stanno a fondamento, e l'individuazione che sorge sulla loro base — cioè il rapporto tra teorie generali e procedimenti comparativi. Le verità generali, quali possono esservi accertate a proposito della vita etica o della poesia, diventano così il fondamento per la penetrazione delle differenze dell’ideale morale o dell’attività poetica. E in questo spirito oggettivo tutte le realtà del passato, in cui si sono formate le grandi forze totali della storia, sono diventate presente. L'individuo, come portatore e rappresentante dei rapporti di comunanza che in lui sono intrecciati, gode e penetra la storia in cui essi sono sorti. Esso intende la storia perché è un essere storico. In un ultimo punto il concetto qui formulato di spirito oggettivo si distingue da quello di Hegel. Sostituendo alla ragione universale di Hegel la vita nella sua totalità, l’Er/ebnis, l’intendere, la connessione della vita storica, la forza dell’irrazionale in essa presente, sorge il problema della possibilità della scienza storica. Per Hegel questo problema non esisteva: la sua metafisica, nella quale lo spirito del mondo, la natura come sua alienazione, lo spirito oggettivo come sua realizzazione e lo spirito assoluto fino alla filosofia come attuazione della sua autocoscienza interiore sono identici, lascia alle sue spalle questo problema. Ma oggi occorre viceversa riconoscere il dato delle manifestazioni storiche della vita come il vero fondamento del sapere storico, e trovare un metodo per affrontare la questione della possibilità di un sapere universalmente valido intorno al mondo storico sulla base di questo dato. IV. IL MonDo SPIRITUALE COME CONNESSIONE DINAMICA Così nell’Erleben e nell’intendere — attraverso l’oggettivazione della vita — si apre dinanzi a noi il mondo spirituale. E a. Cfr. il mio saggio Beitrige zum Studium der Individualitàt, « Sitzungsberichte der koniglich Preussischen Akademie der Wissenschaften », 1896, pp. 295-335 [ora in Ges. Schr., vol. V, pp. 241-316]. WILHELM DILTHEY 159 il nostro compito è ora quello di determinare più da vicino nella sua essenza questo mondo dello spirito, questo mondo storico e sociale, in quanto oggetto delle scienze dello spirito. Riprendiamo anzitutto i risultati delle indagini precedenti in rapporto alla connessione delle scienze dello spirito. Questa connessione poggia sul rapporto tra Erleben e intendere, e da ciò derivano tre princìpi fondamentali. L'ampliamento del nostro sapere intorno a ciò che è dato nell’Erleder si compie mediante l’interpretazione delle oggettivazioni della vita, e questa interpretazione è a sua volta possibile soltanto sulla base della profondità soggettiva dell’Erledez. Così pure la comprensione del singolare è possibile soltanto mediante la presenza in esso del sapere generale, e questo ha a sua volta il proprio presupposto nell’intendere. Infine, la comprensione di una parte del corso storico si compie pienamente solo mediante la relazione della parte col tutto, e l’analisi storico-universale della totalità presuppone la comprensione delle parti che sono in essa unite. In tal modo viene in luce la reciproca dipendenza in cui stanno tra loro l'apprendimento di ogni particolare elemento oggettivo delle scienze dello spirito nella totalità storico-sociale di cui l'elemento fa parte, e la rappresentazione concettuale di questa totalità nelle scienze sistematiche dello spirito. Così nel progresso delle scienze dello spirito, in ogni punto del loro corso, si rivelano l’azione reciproca dell’Erleben e dell'intendere nell’apprendimento del mondo spirituale, la dipendenza reciproca del sapere generale e del sapere singolare, e infine la graduale spiegazione del mondo spirituale. Perciò noi li ritroviamo in tutte le operazioni delle scienze dello spirito, in quanto formano in generale il substrato della loro struttura. Così noi dovremo riconoscere la dipendenza reciproca di interpretazione, critica, collegamento delle fonti, sintesi di una connessione storica: un rapporto simile sussiste nella formazione dei concetti di soggetti quali l'economia, il diritto, la filosofia, l’arte, la religione, che designano le connessioni dinamiche di diverse persone in una operazione comune. Ogni volta che il pensiero scientifico cerca di compiere un’elaborazione concettuale, la determinazione dei segni distintivi costituenti il concetto presuppone pure la constatazione degli stati di fatto che devono 160 WILHELM DILTHEY esser compresi nel concetto; e la constatazione e la scelta di questi stati di fatto esige segni distintivi, sulla base dei quali poter decidere sulla loro appartenenza all'ambito del concetto. Per determinare il concetto di poesia, io debbo trarlo da quegli stati di fatto che costituiscono l’ambito di tale concetto, e per constatare quali opere appartengano alla poesia debbo già possedere un segno distintivo sulla base del quale l’opera può venir riconosciuta come poetica. Questo rapporto è quindi il carattere più generale della struttura delle scienze dello spirito. 1. Carattere generale della connessione dinamica del mondo spirituale. Da ciò deriva il compito di concepire il mondo spirituale come una connessione dinamica, cioè come una connessione contenuta nei suoi prodozti duraturi. Le scienze dello spirito hanno il loro oggetto in questa connessione dinamica e nelle sue creazioni. Esse analizzano sia tale connessione sia quella logica, estetica, religiosa, che si manifesta in solide formazioni e che caratterizza i vari tipi di queste, sia la connessione presente in una costituzione o in un libro giuridico, che si riferisce poi appunto alla connessione dinamica da cui è sorta. Questa connessione dinamica si distingue dalla connessione causale della natura in quanto, conformemente alla struttura della vita psichica, essa produce valori e realizza scopi. E invero non è un fatto occasionale, ma dipende dalla struttura stessa dello spirito che questo produca valori e realizzi scopi nella propria connessione dinamica, sulla base dell’apprendimento: tale carattere può venir definito il carattere teleologico immanente delle connessioni dinamiche dello spirito. Con ciò intendo una connessione di operazioni, che è fondata nella struttura di una connessione dinamica. La vita storica crea; essa è continuamente attiva nella produzione di beni e di valori, e tutti i concetti relativi sono soltanto riflessi di questa sua attività. I portatori di questa costante creazione di valori e di beni nel mondo spirituale sono individui, comunità e sistemi di cultura in cui gli individui agiscono insieme. La cooperazione tra gli individui è determinata dal fatto che essi si sottopongoWilhelm Dilthey intorno al 190 WILHELM DILTHEY 16I no a regole per la realizzazione dei valori e si prefiggono degli scopi. Così in ogni specie di questa cooperazione c’è un rapporto vitale, che inerisce all’essenza dell’uomo e lega tra loro gli individui — quasi come un nucleo che non si può afferrare psicologicamente, ma che si manifesta in ogni sistema di relazioni tra uomini. L’azione entro di esso è condizionata dalla connessione strutturale tra l'apprendimento, gli stati psichici che si esprimono nella scelta di valori e quelli che consistono nella posizione di scopi, di beni e di norme. Questa connessione dinamica si rivela in primo luogo negli individui. In quanto poi essi sono punti di incrocio tra sistemi di relazioni, di cui ognuno costituisce un centro permanente di attività, entro tali sistemi vengono a svilupparsi beni comuni e forme di attuazione di tali beni secondo regole, a cui viene attribuita una specie di validità incondizionata. Ogni relazione permanente tra individui racchiude perciò in sé uno sviluppo nel quale valori, regole e scopi vengono prodotti, elevati a coscienza e consolidati nel corso dei processi del pensiero. Questa creazione che si compie in individui, comunità, sistemi di cultura, nazioni, sotto le condizioni naturali che sempre offrono a essa il suo materiale e la sua spinta, perviene nelle scienze dello spirito alla riflessione su se stessa. Da tale connessione strutturale deriva poi che ogni unità spirituale 4a il suo centro in se stessa. Come l’individuo, così anche ogni sistema di cultura e ogni comunità ha il suo centro entro di sé; in virtù di esso l’apprendimento della realtà, la valutazione e la produzione di beni sono collegati in un complesso unitario. Ora si presenta un nuovo rapporto fondamentale nella connessione dinamica che costituisce l'oggetto delle scienze dello spirito. I diversi soggetti creativi sono intrecciati in più ampie connessioni storico-sociali, come le nazioni, le età, i periodi storici. Così sorgono forme più complicate di connessione storica. I valori, gli scopi, i nessi che in esse si presentano, portati da individui, comunità, sistemi di relazioni, debbono essere compenetrati dallo storico. Essi debbono venir comparati, ponendo in luce l'elemento comune che è in essi e raccogliendo le diverse connessioni dinamiche in sintesi. E qui dall’autocentralità, intrinseca a ogni unità storica, deriva un’altra forma di 11. STORICISMO TEDESCO. 162 WILHELM DILTHEY unità. Ciò che opera nel medesimo tempo in un nesso reciproco, come individui e sistemi di cultura e comunità, vive in un continuo scambio spirituale e completa anzitutto la sua vita psichica con quella altrui: già le nazioni vivono più sovente in una forte chiusura reciproca e hanno perciò il loro orizzonte proprio; se però considero un periodo come quello medievale, il suo ambito visuale è separato da quello dei periodi precedenti. Anche quando i risultati di tali periodi mantengono la loro influenza, essi vengono tuttavia assimilati nel sistema del mondo medievale. Questo ha così un orizzonte chiuso. E un'epoca è così incentrata in se stessa în un muovo senso. Le varie persone dell’epoca hanno il criterio di misura del loro operare in un elemento comune. Il nesso delle connessioni dinamiche nella società dell’epoca ha tratti simili. Le relazioni dell’apprendimento oggettivo mostrano in essa una interna affinità; il modo di sentire, la vita dell'animo, gli impulsi che ne derivano sono affini tra loro. E così anche il volere si sceglie scopi uniformi, mira agli stessi beni e si trova vincolato in maniera simile. È compito dell’analisi storica ritrovare negli scopi, nei valori, nei modi di pensare concreti la concordanza in un elemento comune che domina l’epoca. Proprio da questo elemento comune sono determinate anche le antitesi che qui si presentano. Così ogni azione, ogni pensiero, ogni creazione comune, in breve ogni parte di questa totalità storica acquista la propria significatività in virtù del suo rapporto con la totalità dell’epoca o dell’età. E quando lo storico giudica, egli constata ciò che l'individuo ha compiuto in tale connessione, e anche in quale misura il suo sguardo e il suo operare sono andati già oltre di essa. Il mondo storico come una totalità, questa totalità come una connessione dinamica, questa connessione dinamica come produttrice di valori e di scopi, cioè creatrice, quindi la comprensione di questa totalità in base a se stessa, infine l’autocentralità dei valori e degli scopi nelle età, nelle epoche, nella storia universale — questi sono i punti di vista da cui deve essere concepita la connessione, a cui dobbiamo pervenire, delle scienze dello spirito. Così il rapporto immediato della vita, dei suoi valori e dei suoi scopi con l’oggetto storico viene gradualmente sostituito nella scienza, in base alla sua tendenza alla validità universale, dall'esperienza delle relazioni immanenti che sussistono nella connessione dinamica del mondo storico tra la forza attiva, i valori, gli scopi, il significato e il senso. Soltanto su questo terreno della storia oggettiva può sorgere il problema se e come siano possibili le previsioni sul futuro e sulla subordinazione della nostra vita a fini comuni dell’umanità. L’apprendimento della connessione dinamica si forma in primo luogo in chi ne ha coscienza immediata, per il quale la successione del divenire interiore si sviluppa in relazioni strutturali. E tale connessione è poi ritrovata, mediante l’intendere, in altri individui. La forma fondamentale della connessione sorge così nell’individuo, riunendo il presente, il passato e le possibilità del futuro in un corso vitale: questo corso si riproduce poi nel corso storico, in cui sono inserite le unità della vita. In quanto lo spettatore di un avvenimento vede connessioni più ampie o una narrazione le racconta, sorge l'apprendimento dei fatti storici. E in quanto questi assumono un posto nel corso temporale, presupponendo in ogni punto l’azione del passato e spingendo le loro conseguenze fin nel futuro, ogni avvenimento implica un movimento ulteriore e il presente conduce avanti verso il futuro. Altri modi di connessione sussistono in opere che, scisse dai loro autori, recano in sé la propria vita e la propria legge. Prima di spingerci entro la connessione dinamica da cui esse sono sorte, noi cogliamo le connessioni sussistenti nell’opera compiuta. Nell’intendere sorge la connessione logica in cui sono legati tra di loro i princìpi giuridici che formano un libro di diritto. Se leggiamo una commedia di Shakespeare, troviamo che gli elementi di un accadimento, legati secondo i rapporti di tempo e di azione, sono qui elevati secondo le leggi della composizione poetica a un’unità che li solleva, all’inizio e alla fine, al di fuori del corso dinamico collegando le loro parti in una totalità. 2. La connessione dinamica come concetto fondamentale delle scienze dello spirito. Nelle scienze dello spirito noi cogliamo il mondo spirituale sotto forma di connessioni che si formano nel corso temporale. 164 WILHELM DILTHEY Operare, energia, corso temporale, accadere sono quindi i momenti che caratterizzano l’elaborazione concettuale delle scienze dello spirito. Da queste determinazioni di contenuto non dipende però la funzione generale del concetto nella connessione delle scienze dello spirito, la quale richiede determinatezza e costanza in tutti i giudizi. I caratteri di un concetto, il cui nesso ne forma il contenuto, debbono soddisfare tali esigenze; e le asserzioni, in cui i concetti sono collegati, non debbono contenere contraddizioni né entro di sé né tra di loro. Questa validità indipendente dal corso temporale, che sussiste in tal modo nella connessione del pensiero e determina la forma dei concetti, non ha alcun rapporto con il fatto che il contenuto dei concetti propri delle scienze dello spirito può rappresentare il corso temporale, l’operare, l'energia e l’accadere. Noi vediamo operante nella struttura dell'individuo una tendenza o una forza impulsiva che si partecipa a tutte le forme più complesse del mondo spirituale. In questo mondo si presentano forze collettive che si fanno valere in una determinata direzione nella connessione storica. Tutti i concetti delle scienze dello spirito, in quanto rappresentano qualche elemento della connessione dinamica, contengono in sé questo carattere di processo, di corso, di accadere o di agire. E quando le oggettivazioni della vita spirituale vengono analizzate come qualcosa di compiuto, quasi di fisso, resta sempre il compito ulteriore di penetrare la connessione dinamica in cui tali oggettivazioni sono sorte. In un ambito più vasto i concetti delle scienze dellospirito sono rappresentazioni fissate di un procedere, e costituiscono la solidificazione nel pensiero di ciò che è corso o direzione di movimento. Pure le scienze sistematiche dello spirito racchiudono il compito di un'elaborazione concettuale, che esprime la tendenza insita nella vita, la sua mutabilità e la sua mobilità, ma soprattutto la finalità che vi si realizza. E nelle scienze dello spirito, sia storiche sia sistematiche, si presenta il compito ulteriore di dare alle relazioni una corrispondente elaborazione concettuale. È stato merito di Hegel aver cercato di esprimere nella sua logica l'incessante corrente dell’accadere. Ma è stato suo errore ritenere che tale esigenza fosse inconciliabile con il principio di contraddizione: contraddizioni non risolubili sorgono soltanto se si vuol spiegare il fatto del fluire della vita. E altrettanto erroneo è stato, ed è, giungere da tale presupposto al rifiuto dell’elaborazione concettuale sistematica nel campo storico. Così nel metodo dialettico di Hegel la varietà della vita storica è venuta a irrigidirsi, mentre gli avversari dell’elaborazione concettuale sistematica nel campo storico lasciano sprofondare in una profondità irrappresentabile della vita la molteplicità dell’esistenza. A questo punto si può comprendere la più profonda intenzione di Fichte. Nel faticoso approfondirsi dell’io in se medesimo, esso si ritrova non come sostanza, essere, datità, ma come vita, attività, energia. In tale modo egli aveva già elaborato i concetti che esprimono l’energia del mondo storico. 3. Il procedimento di determinazione delle connessioni dinamiche particolari. La connessione dinamica è in sé sempre complessa. Il punto di partenza è un’azione particolare, per la quale cerchiamo — procedendo indietro — i momenti causanti. Tra i molti fattori, ne è determinabile soltanto un numero limitato che abbia importanza per questa azione. Quando ricerchiamo l'intreccio delle cause del mutamento della nostra letteratura, in virtù del quale è stato superato l’Illuminismo, distinguiamo allora gruppi di cause, ci sforziamo di misurarne l'influenza, e delimitiamo in qualche modo lo sconfinato contesto causale secondo il significato dei momenti e secondo i nostri scopi. Così poniamo in luce una connessione dinamica per spiegare il mutamento in questione. D'altra parte noi distinguiamo, in un'analisi metodica condotta da diversi punti di vista, le connessioni particolari presenti nella concreta connessione dinamica; e su questa analisi poggia precisamente il progresso che ha luogo sia nelle scienze sistematiche dello spirito sia nella storia. L’induzione, che constata i fatti e i nessi causali, la sintesi che lega tra loro con l’aiuto dell’induzione le connessioni causali, l’analisi che distingue tra loro singole connessioni dinamiche, la comparazione — questi, o equivalenti, sono i modi in cui si costituisce in prevalenza la nostra conoscenza della connessione dinamica. E noi applichiamo gli stessi metodi quando indaghiamo le creazioni durature scaturite da questa connessione dinamica — quadri, statue, drammi, sistemi filosofici, scritti religiosi, libri giuridici. La connessione in essi presente è diversa secondo il loro carattere, ma anche qui l’analisi dell’insieme dell’opera su base induttiva e la ricostruzione sintetica della totalità in base alla relazione delle sue parti, sempre su base induttiva, si intrecciano tra loro con la costante presenza di verità generali. A questa tendenza del pensiero verso la connessione è legata nelle scienze dello spirito un’altra tendenza che, procedendo dal particolare al generale e viceversa, indaga le regolarità presenti nelle connessioni dinamiche. Qui si manifesta il più ampio rapporto di reciproca dipendenza tra le forme di procedimento. Le generalizzazioni servono a formare delle connessioni, e l’analisi della concreta connessione universale in connessioni particolari è la strada più feconda per la scoperta di verità generali. Se si tiene presente il procedimento di constatazione delle connessioni dinamiche nelle scienze dello spirito, viene in luce la grande differenza che lo separa da quello che ha reso possibili gli enormi successi delle scienze della natura. Le scienze della natura hanno a proprio fondamento la connessione spaziale dei fenomeni: la numerabilità e la misurabilità di ciò che si estende spazialmente o si muove nello spazio rendono in esse possibile la scoperta di leggi generali esatte. Ma l’interna connessione dinamica è solo aggiunta dal pensiero, e i suoi elementi ultimi non possono venir indicati. Invece, come abbiamo visto, le unità ultime del mondo storico sono date nell’Erleden e nell’intendere. Il loro carattere di unità è fondato nella connessione strutturale in cui sono collegati l'apprendimento oggettivo, i valori e la posizione di scopi. Noi abbiamo un’esperienza vissuta di questo carattere dell'unità vivente anche per il fatto che può costituire uno scopo soltanto ciò che è posto nel suo volere, che è vero soltanto ciò che trova conferma di fronte al suo pensiero, e che possiede valore per essa soltanto ciò che ha un rapporto positivo con il suo sentire. Il correlato di questa unità vivente è il corpo che si muove e opera in base a un impulso interno. Il mondo storico-sociale dell’uomo è costituito da queste viventi unità psico-fisiche: tale è il risultato sicuro dell’analisi. E anche la connessione dinamica di queste unità mostra poi qualità particolari che non sono esaurite dai rapporti di unità e di pluralità, di tutto e di parte, di composizione e di azione reciproca. Procedendo, l’unità vivente risulta una connessione dinamica che si pone al di là della natura in quanto viene immediatamente vissuta, ma le cui parti attive non possono venir misurate secondo la loro intensità bensì solo valutate, e la cui individualità non può venir scissa dall’elemento umano comune, di modo che l’umanità è soltanto un tipo indeterminato. Pertanto ogni stato particolare nella vita psichica è una nuova posizione dell’intera unità vivente, un rapporto della sua totalità con le cose e con gli uomini; e, in quanto ogni manifestazione della vita procedente da una comunità o appartenente alla connessione dinamica di un sistema di cultura è il prodotto del cooperare di varie unità viventi, gli elementi di queste forme composte rivestono un carattere corrispondente. Per quanto ogni processo psichico appartenente a tale totalità possa dipendere dall'intenzione della connessione dinamica, tuttavia questo processo non è mai determinato da essa in maniera esclusiva. L'individuo, in cui esso si compie, si inserisce come unità vivente nella connessione dinamica; e nella sua manifestazione esso opera come totalità. La natura, per la differenziazione dei sensi di cui ognuno racchiude un ambito di qualità sensibili omogenee, è distinta in diversi sistemi ognuno dei quali è internamente omogeneo. Lo stesso oggetto, una campana ad esempio, è duro, bronzeo, capace di produrre al rintocco una serie di suoni; e ognuna delle sue proprietà occupa un posto in uno dei sistemi dell’apprendimento sensibile, senza che ci sia data una connessione interna tra queste qualità. Nell’Erlebder io esisto a me stesso come connessione. Ogni situazione mutata produce una nuova posizione della vita intera. Del pari in ogni manifestazione della vita, che appare dinanzi alla nostra comprensione, opera sempre tutta la vita. Perciò né nell’Erleden né nell’intendere ci sono dati sistemi omogenei, che ci consentano scoprire leggi di mutamento. Comunanza e affinità si presentano a noi nell’intendere, e questo ci porta d’altro lato a cogliere innumerevoli sfumature di differenziazione, dalle grandi distinzioni tra razze, stirpi e popoli, fino all’infinita molteplicità degli individui. Perciò nelle scienze della natura domina la legge dei 168 WILHELM DILTHEY mutamenti, mentre nel mondo spirituale domina la comprensione dell’individualità, dalla persona singola all'umanità intera, nonché il procedimento comparativo, che cerca di ordinare concettualmente questa molteplicità individuale. Da questi rapporti derivano i limiti della conoscenza spirituale in rapporto sia allo studio della psicologia sia alle discipline sistematiche, che dovranno essere illustrati più da vicino nella dottrina del metodo. Da un punto di vista generale è evidente che sia la psicologia sia le singole discipline sistematiche avranno un prevalente carattere descrittivo e analitico; e qui possono servire le mie precedenti considerazioni sul procedimento analitico nella psicologia e nelle scienze sistematiche dello spirito, a cui mi rifaccio nell’insieme *. 4. La storia e la sua comprensione per mezzo delle scienze sistematiche dello spirito: il sapere storico. La conoscenza spirituale si compie, come si è visto, attraverso la reciproca dipendenza della storia e delle discipline sistematiche; e poiché l'intenzione dell’intendere precede in ogni caso l'elaborazione concettuale, noi cominciamo con le proprietà generali del sapere storico. L'apprendimento della connessione dinamica, costituita dalla storia, sorge anzitutto in base a punti particolari, in cui i resti raccolti del passato vengono tra loro collegati nell’intendere mediante la relazione con l’esperienza della vita; ciò che ci circonda da vicino diventa mezzo per comprendere ciò che sta lontano ed è passato. La condizione di questa interpretazione dei resti storici risiede nel carattere di persistenza nel tempo e di universale validità umana di ciò che noi vi rechiamo dentro. Così noi vi trasponiamo la nostra conoscenza dei costumi, delle abitudini, delle connessioni politiche, dei processi religiosi; e il a. Cfr. Ideen tiber eine beschreibende und zergliedernde Psychologie, « Sitzungsberichte der kòniglich Preussischen Akademie der Wissenschaften », 1894, pp. 1309-1407 [ora in Gesammelte Schriften, vol. V, pp. 139237]. Si vedano inoltre le Studien zur Grundlegung der Geisteswissenschaften: Erste Studie, « Sitzungsberichte » cit., 1905, vol. II, pp. 322-43 [ora in Gesammelte Schriften, vol. VII, pp. 3-23], l’Eiz/eitung in die Geistewissenschaften, e C. Siwart, Logik, Tubingen, vol. II, 3° ed. 1904, p. 633 sgg. WILHELM DILTHEY 169 presupposto ultimo di questa trasposizione è costituito sempre dalle connessioni che lo storico ha vissuto in sé. La cellula originaria del mondo storico è l’Erlebnis, nel quale il soggetto si trova in rapporto al suo ambiente nella connessione dinamica della vita. Questo ambiente opera sul soggetto e ne subisce l'influenza: esso è composto dall'ambiente fisico e spirituale. In ogni parte del mondo storico vi è quindi la medesima connessione del corso di un accadere psichico in rapporto dinamico con il suo ambiente. Qui sorge il problema di valutare le influenze naturali sull'uomo e di constatare pure l’azione che su di lui esercita l’ambiente spirituale. Come la materia prima viene nell’industria sottoposta a diversi modi di lavorazione, così anche i resti del passato vengono elevati a piena comprensione storica mediante diverse procedure. La critica, l’interpretazione e il procedimento che reca unità nella comprensione di un processo storico si collegano tra di loro. L'aspetto caratteristico sta però anche qui nel fatto che non si ha una semplice fondazione di un’operazione sull’altra: la critica, l’interpretazione e il collegamento concettuale hanno compiti diversi; ma la soluzione di ogni compito richiede continuamente cognizioni ottenute per altre vie. Proprio questo rapporto ha però come conseguenza che la fondazione della connessione storica dipende sempre da un intreccio di operazioni che non può venir illustrato logicamente in modo completo, e che mai può giustificarsi di fronte allo scetticismo storico mediante prove incontestabili. Si pensi alle grandi scoperte di Niebuhr sull’antica storia romana. La sua critica è in ogni punto inseparabile dalla sua ricostruzione del corso effettivo. Egli ha dovuto constatare come sia sorta la tradizione della più antica storia romana e quali conclusioni si possano trarre sul suo valore storico in base a tale origine. Egli ha dovuto nel medesimo tempo cercar di trarre da un’argomentazione oggettiva i lineamenti fondamentali della storia reale. Senza dubbio questo procedimento metodico si muove in un circolo, se si applicano le regole di una dimostrazione rigorosa. E quando Niebuhr si è contemporaneamente servito della conclusione analogica da processi di sviluppo affini, la conoscenza di tali processi sottostà allo stesso circolo, e la conclusione analogica qui impiegata non dà nessuna certezza rigorosa. 170 WILHELM DILTHEY Anche le narrazioni contemporanee debbono prima venir esaminate in riferimento alla concezione dell’autore, alla sua attendibilità e al suo rapporto con il processo in questione. E quanto più le narrazioni vengono a distare temporalmente dall'avvenimento, tanto più diminuisce la loro credibilità, se il loro valore non può venir accertato mediante una riduzione ad altre più antiche e contemporanee all’avvenimento stesso. La storia politica del mondo antico ha una base sicura dove esistono dei documenti, e così pure la storia politica del mondo moderno dove sono conservati gli atti che fanno parte del corso di un avvenimento storico. Con le raccolte critico-metodiche dei documenti e il libero accesso degli storici agli archivi è cominciata per la prima volta una conoscenza sicura della storia politica. Questo può arrestare completamente lo scetticismo storico di fronte ai fatti, di modo che su tali fondamenti sicuri viene a costruirsi, con l’aiuto dell’analisi delle narrazioni in rapporto alle loro fonti, e dell'esame dei punti di vista dei narratori, una ricostruzione che possiede probabilità storica e la cui utilità può venir negata soltanto da menti spiritose ma non scientifiche. Questa ricostruzione non perviene certo a un sapere sicuro intorno ai motivi delle persone che agiscono, ma vi perviene intorno alle azioni e agli avvenimenti, e gli errori a cui sempre rimaniamo esposti per i fatti particolari non mettono in dubbio l'insieme. In posizione assai più favorevole che nella comprensione del corso politico la storiografia si trova di fronte ai fenomeni di massa, ma soprattutto quando si tratta di opere artistiche o scientifiche che si possono sottoporre ad analisi. 5. I gradi della comprensione storica. Il graduale assoggettamento del materiale storico si compie per diversi gradi, che sono sempre più immersi nelle profondità della storia. Molteplici interessi spingono anzitutto alla narrazione di ciò che è accaduto. Qui viene in primo luogo soddisfatto il bisogno originario di curiosità per le cose umane, in particolare per quelle della propria patria; e si fa pure valere la consapevolezza della nazione e dello stato. In tal modo sorge l’arte narrativa, il cui modello per ogni tempo resta Erodoto. Ma poi viene in primo piano la tendenza alla spiegazione. La cultura ateniese nell’età di Tucidide ha per la prima volta offerto le condizioni indispensabili per tale spiegazione. Le azioni sono state derivate, mediante un’acuta osservazione, da motivi psicologici; le lotte tra gli stati, il loro corso e il loro esito sono stati spiegati in base alle forze militari e politiche, e sono stati studiati gli effetti delle costituzioni statali. E quando un grande pensatore politico come Tucidide spiega il passato mediante il sobrio studio della connessione dinamica in esso presente, ne deriva contemporaneamente che la storia ammaestra anche intorno al futuro. Per conclusione analogica, quando si è riconosciuto un corso dinamico antecedente e si è mostrata l'affinità con esso dei primi stadi di un processo, si può prevedere il ripresentarsi di un simile corso in seguito. Questa conclusione, sulla quale Tucidide ha fondato la capacità della storia di ammaestrare sul futuro, è infatti di decisiva importanza per il pensiero politico. Come nelle scienze naturali, così anche nella storia una regolarità entro la connessione dinamica consente di effettuare asserzioni € di svolgere un’azione fondata sul sapere. Se già il contemporaneo dei Sofisti aveva studiato le costituzioni come forze politiche, in Polibio ci si presenta una storiografia in cui la trasposizione metodica delle scienze sistematiche dello spirito nella spiegazione della connessione dinamica della storia consente di introdurre nel procedimento esplicativo l’azione di forze permanenti, come la costituzione e l’organizzazione militare o le finanze. L'oggetto di Polibio è stata l’azione reciproca degli stati che, dall’inizio della lotta tra Roma e Cartagine fino alla distruzione di Cartagine e di Corinto, costituirono per lo spirito europeo il mondo storico; egli ha quindi cercato di derivare dallo studio delle forze permanenti in essi operanti i singoli processi politici. Il suo punto di vista diventa storico-universale, in quanto egli riunisce in sé la cultura teoretica greca, lo studio della raffinata politica e della condotta militare della sua patria, con una conoscenza di Roma che era resa possibile soltanto dal contatto con i maggiori uomini di stato della nuova potenza mondiale. E numerose forze spirituali operano nel tempo da Polibio fino a Machiavelli e a Guicciardini, in primo luogo l’approfondirsi senza fine del soggetto in se medesimo e 172 WILHELM DILTHEY nello stesso tempo l'estensione dell’orizzonte storico; ma i due grandi storici italiani restano affini a Polibio nel loro procedimento. Un nuovo livello è stato raggiunto dalla storiografia soltanto nel secolo xvitr. Allora sono stati introdotti due grandi princìpi, in quanto la connessione dinamica concreta, estratta come oggetto storico dal grande fluire della storia, è stata 424 lizzata in connessioni particolari, come quelle del diritto, della religione, della poesia, comprese nell’unità di un’epoca. Ciò presupponeva che lo sguardo dello storico mirasse, al di là della storia politica, alla storia della civiltà, che per ogni suo campo fosse già conosciuta, mediante le scienze sistematiche dello spirito, la funzione che esso esercita, e che si fosse già formata una comprensione del cooperare di tali sistemi di cultura. La storiografia moderna ha avuto inizio nell'età di Voltaire. E in seguito è stato introdotto un nuovo principio, quello di sviluppo, a opera di Winckelmann”, di Justus Méser" e di Herder: esso afferma che in una connessione dinamica storica è racchiusa, come nuova qualità fondamentale che essa percorra — in virtù della sua essenza — una serie di mutamenti di cui ognuno è possibile soltanto sulla base dei precedenti. Questi diversi gradi designano momenti che, una volta conquistati, sono rimasti vitali nella storiografia. L'arte narrativa di intrattenimento, la spiegazione acuta, l’applicazione ad essa del sapere sistematico, l’analisi in connessioni dinamiche particolari e il principio dello sviluppo — questi momenti sono venuti a sommarsi e a rafforzarsi reciprocamente. 13. Johann. Joachim Winckelmann (1717-1768), archeologo e storico dell’arte tedesco, autore della Geschichte der Kunst des Altertums (1764) e di varie altre opere, fu il maggior teorico del classicismo settecentesco: la sua dottrina del bello ebbe larga influenza sull'estetica di fine Settecento c della prima metà dell'Ottocento. 14. Justus Mser (1720-1794), storico tedesco, autore della Osnabriickische Geschichte (1768-1824) e di altre opere, fu un rappresentante della reazione anti-illuministica del pensiero tedesco della seconda metà del Settecento: la sua impostazione storiografica, fondata suli’csaltazione della struttura feudale e patrimoniale della vecchia Germania c quindi orientata in senso fortemente conservatore, è stata considerata un importante momento preparatorio dello storicismo romantico. L’isolamento di una connessione dinamica dal punto di vista dell'oggetto storico. Sempre più chiaro ci appare il significato dell’analisi della concreta connessione dinamica e della sintesi scientifica delle singole connessioni dinamiche in essa contenute. Lo storico non segue all’infinito, partendo da un punto, il nesso degli avvenimenti in tutte le direzioni; piuttosto nell’unità di un oggetto, che costituisce il suo tema, risiede un principio di selezione che è dato proprio insieme al compito dell’apprendimento di tale oggetto. Infatti la trattazione dell’oggetto storico non richiede soltanto il suo isolamento dalla vastità della concreta connessione dinamica, ma l’oggetto contiene al tempo stesso un principio di selezione. La caduta di Roma, la liberazione dell'Olanda, la Rivoluzione francese richiedono la selezione di processi e di connessioni che racchiudano le cause tanto particolari quanto generali, cioè le forze operanti in tutte le loro trasformazioni, per la rovina dell’Impero romano o per la liberazione dell'Olanda o per il compiersi della rivoluzione. Lo storico che lavora con connessioni dinamiche deve distinguerle e collegarle in maniera che nessun dettaglio vada smarrito, poiché ogni particolare viene rappresentato nei forti tratti della connessione dinamica complessiva. In ciò non consiste soltanto la sua capacità rappresentativa, ma questa è piuttosto il risultato di un determinato modo di vedere. Quando si indagano queste salde e profonde connessioni, risulta anche qui che la loro comprensione deriva dal nesso tra il progredire dell’intendere storico delle fonti con una sempre più profonda penetrazione delle connessioni della vita psichica. Se ci si avvicina poi alla specie di connessione dinamica che sì presenta nei maggiori avvenimenti storici, le origini del Cristianesimo o la Riforma o la Rivoluzione francese o le guerre di liberazione nazionale, la si può concepire come opera di una forza totale che supera, nella sua tendenza unitaria, tutti gli ostacoli. E si troverà sempre che in essa operano due specie di forze. L'una è costituita da tensioni che risiedono nel sentimento di bisogni imperiosi e non soddisfatti dalla situazione presente, in nostalgie di ogni specie, nell’accrescersi degli attriti e delle lotte, e anche nella coscienza di un'insufficienza delle capacità di difen174 WILHELM DILTHEY dere ciò che esiste. L’altra è costituita dalle energie che spingono in avanti, da un volere e un potere e un credere di carattere positivo. Esse riposano sugli istinti vigorosi di molti, ma sono manifestati e rafforzati da Erlebnisse di personalità importanti. In quanto tali tendenze positive derivano dal passato per dirigersi verso il futuro, esse sono creatrici: racchiudono in sé degli ideali, la loro forma è l’entusiasmo, e in questo è insita una forma peculiare di parteciparsi e di estendersi. Da ciò deriviamo il principio generale che nella connessione dinamica di grandi avvenimenti storici i rapporti tra pressione, tensione, sentimento di insufficienza dello stato di fatto — cioè sentimenti con segni negativi e con forme di rifiuto — costituiscono il fondamento per l’azione, sorretta da sentimenti positivi di valore, da fini da raggiungere e da determinazioni di scopo. Quando entrambi gli elementi cooperano, si verificano i grandi mutamenti del mondo. Nella connessione dinamica l’agente peculiare è perciò costituito dagli stati psichici che si esprimono nel valore, nel bene e nello scopo, e tra i quali non si debbono considerare come forze operanti soltanto le tendenze verso i beni di cultura, ma anche la volontà di potenza, anche l’inclinazione a opprimere gli altri. 7. I sistemi di cultura. Da ciò risulta che già la determinazione dell’oggetto di un’opera storica implica una selezione degli avvenimenti e delle connessioni. Ma la storia racchiude un sistema coerente per cui la sua concreta connessione dinamica riposa su campi particolari isolabili, in cui sono compiute operazioni separate, di modo che i processi svolgentisi negli individui in rapporto a un’operazione comune costituiscono una connessione dinamica unitaria e omogenea. Tale relazione è già stata illustrata da me in precedenza ®: su di essa poggia l'elaborazione concettuale mediante cui diventano conoscibili, nell’indagine storica, connessioni di carattere generale. L’analisi e l'isolamento mediante cui vengono poste in luce tali connessioni dinamiche è quindi il a. Einleitung in die Geistestissenschaften, p. 52 sgg. [ora in Gesammelte Schriften, vol. I, p. 42 sgg.]. procedimento decisivo che l’analisi logica delle scienze dello spirito deve prendere in esame. Appare subito evidente l’affinità di tale analisi con quella in cui viene scoperta la connessione strutturale dell’unità della vita psichica. Le più semplici e omogenee connessioni dinamiche, che compiono una funzione culturale, sono l’educazione, la vita economica, il diritto, le funzioni politiche, le religioni, la socialità, l’arte, la filosofia, la scienza. Io prendo ora in esame le qualità di un sistema siffatto. In esso viene compiuta un’operazione. Così il diritto realizza le condizioni coercitive per l’attuazione dei rapporti della vita. La poesia ha la sua essenza nell’espressione di ciò che è immediatamente vissuto e nella rappresentazione dell’oggettivazione della vita, in maniera tale che l'avvenimento isolato dal poeta si presenta, nel suo significato per la totalità della vita, ricco di conseguenze. In questa operazione gli individui sono legati tra di loro. I processi particolari, che in essi hanno luogo, si riferiscono alla connessione dinamica costituita da tale operazione e le appartengono: così essi sono membri di una connessione che realizza l'operazione. Le regole giuridiche del testo legislativo, il processo in cui le parti avverse discutono, dinanzi a un tribunale, intorno a un'eredità, secondo le regole del testo legislativo, la decisione del tribunale e la sua esecuzione costituiscono una lunga serie di processi psichici particolari, che si distribuiscono e si intrecciano in diverse persone, per risolvere infine il compito inerente al diritto relativamente a un determinato rapporto della vita. Il compimento della funzione poetica è, in grado assai maggiore, legato al processo unitario che avviene nell’animo del poeta; ma nessun poeta è il creatore esclusivo della sua opera, in quanto egli trae un avvenimento dalla saga, si trova davanti la forma epica in cui lo eleva a poesia, studia l’efficacia di scene particolari nei suoi predecessori, impiega una misura metrica, deriva la sua concezione del significato della vita dalla coscienza popolare o da individui eminenti, ha bisogno di ascoltatori che godano nell’accogliere in sé l'impressione dei suoi versi e nell’attuare così il suo sogno di influenza. Così la funzione del diritto, della poesia o di un altro sistema di scopi della cultura si realizza in una connessione dinamica che riposa su determinati processi, legati da tale operazione, i quali hanna luogo in certi individui. Nella connessione dinamica di un sistema di cultura si fa valere anche una seconda qualità. Il giudice, oltre a esplicare la sua funzione nell’ordine giuridico, è inserito anche in varie altre connessioni dinamiche; agisce nell’interesse della sua famiglia, deve realizzare una funzione economica, esercita la sua finzione politica, forse scrive pure dei versi. Perciò gli individui non sono legati nella loro totalità a tale connessione dinamica, ma nella molteplicità dei rapporti dinamici sono uniti tra loro soltanto quei processi che appartengono a un determinato sistema, e l’individuo è inserito in diverse connessioni dinamiche. La connessione dinamica di un tale sistema di cultura si realizza mediante una posizione differenziata dei suoi membri. La solida impalcatura di ognuno di essi è formata da persone in cui i processi, che servono a tale funzione, costituiscono l’occupazione principale della loro vita, sia per inclinazione sia per motivo professionale. Tra di esse emergono poi le persone che incorporano in sé, per così dire, l'intenzione verso tale funzione, e che per la loro unione di talento e di professione diventano i rappresentanti di questo sistema di cultura. E infine i portatori veri e propri della creazione che ha luogo in tale campo sono le nature produttive — i fondatori delle religioni, gli scopritori di una nuova intuizione filosofica del mondo, gli scopritori scientifici. Così in una connessione dinamica siffatta ha luogo un intreccio: le tensioni, accumulate in un vasto ambito, spingono al soddisfacimeno del bisogno; l'energia produttiva trova la strada per la quale si compie tale soddisfacimento o suscita l’idea creatrice che spinge in avanti la società; infine si aggiungono i collaboratori e poi i molti che l’accolgono. Procedendo nell’analisi, ognuno di tali sistemi di cultura, che realizza un’operazione, attua un valore comune a tutti coloro che sono ad essa indirizzati. Ciò di cui l’individuo ha bisogno, e che non può mai realizzare, gli proviene dall’ agire della totalità: un valore creato in comune, a cui egli può partecipare. L'individuo ha bisogno delia sicurezza della sua vita, della sua proprietà, dell'insieme della sua famiglia; ma soltanto una forza indipendente della comunità soddisfa il suo bisogno mediante il mantenimento di regole coercitive della vita comune, che rendono possibile la protezione di questi beni. L'individuo soffre, nei tempi primitivi, sotto la pressione di forze indomabili intorno a lui, di forze cioè che stanno al di là dell’ambito ristretto di attività della sua stirpe o del suo popolo; ma una diminuzione di tale pressione è ottenuta solo mediante la creazione della fede da parte dello spirito collettivo. In ognuno di tali sistemi di cultura, dall'operazione a cui mira la connessione dinamica deriva un ordine dei valori; questo viene creato nel lavoro comune compiuto in vista di essa; sorgono oggettivazioni della vita in cui il lavoro si è condensato; e sorgono pure organizzazioni che servono alla realizzazione delle varie operazioni nei sistemi di cultura — libri giuridici, opere filosofiche, poesie. Il bene, che la funzione doveva realizzare, è ora creato e sarà sempre più perfezionato. Le parti di tale connessione dinamica acquistano una significatività nel loro rapporto con la totalità quale portatrice di valori e di scopi. Anzitutto le parti del corso della vita hanno un significato in base al loro rapporto con la vita, con i suoi valori e con i suoi scopi, con lo spazio che qualcosa occupa in essa. E quindi gli avvenimenti storici diventano significativi in quanto sono elementi di una connessione dinamica, cooperando alla realizzazione di valori e di scopi della totalità insieme ad altre parti. Mentre noi ci troviamo perplessi di fronte alla complessa connessione dell’accadere storico, senza percepire in esso né una struttura né delle regolarità né uno sviluppo, ogni connessione dinamica, che realizza una funzione culturale, ha una propria struttura. Se concepiamo la filosofia come connessione dinamica, essa si presenta anzitutto come una molteplicità di operazioni: elevazione delle intuizioni del mondo a validità universale, riflessione del sapere su se stesso, relazione della nostra attività conforme a uno scopo e del sapere pratico con la connessione della conoscenza, spirito critico sempre presente nell’intera cultura, opera di collegamento e di fondazione. L’indagine storica mostra però che abbiamo qui da fare ovunque con specifiche funzioni che si presentano sotto certe condizioni storiche, ma che sono alla fine fondate su una funzione unitaria propria della filosofia. Essa è riflessione universale che procede continuamente verso le più alte generalizzazioni e le fondazioni ultime. La struttura della filosofia sta quindi nel rapporto di questo suo carattere fondamentale con le funzioni particolari, in base alle condizioni temporali. Così la metafisica si sviluppa sempre nell’interna connessione della vita, dell’esperienza della vita e dell’intuizione del mondo. In quanto la tendenza a un saldo fondamento, che in noi lotta continuamente contro l’accidentalità della nostra esistenza, non trova alcuna soddisfazione duratura nelle forme religiose e poetiche di intuizione del mondo, sorge allora il tentativo di elevare l'intuizione del mondo a sapere universalmente valido. Inoltre nella connessione dinamica di un sistema di cultura si può ogni volta rintracciare un’articolazione in forme particolari. Ogni sistema di cultura ha uno sviluppo che si compie sulla base della sua funzione, della sua struttura, delle sue regolarità. Mentre nel concreto corso dell’accadere non si può trovare nessuna legge di sviluppo, la sua analisi in connessioni dinamiche particolari e omogenee rivela la successione di stati determinati dall’interno, che si presuppongono l’un l’altro in maniera che dallo strato sottostante ne emerge ogni volta uno superiore, e che procedono a una crescente differenziazione e a un crescente collegamento. 8. Le organizzazioni esterne e l'insieme politico: le nazioni organizzate politicamente. a) Sulla base dell’articolazione naturale dell'umanità e dei processi storici si sviluppano gli stati del mondo civile, ognuno dei quali riunisce in sé connessioni dinamiche di sistemi di cultura, e soprattutto le nazioni organizzate in forma statale. L'analisi si limita qui a questa forma tipica dell’attuale organizzazione politica. Ognuno di questi stati è un’organizzazione composta da varie comunità: la coesione delle comunità in esso racchiuse è quindi il potere sovrano dello stato, al di sopra del quale non esiste nessun'altra istanza. E chi potrebbe negare che il senso della storia, fondato nella vita, venga a esplicarsi tanto nella volontà di potenza che riempie questi stati, nel bisogno di WILHELM DILTHEY 179 dominio verso l’interno e verso l’esterno, quanto nei sistemi di cultura? E a tutto questo aspetto di brutalità, di temibilità, di distruzione, che è contenuto nella volontà di potenza, a tutta la pressione e a tutta la coercizione intrinseche al rapporto di dominio e di obbedienza, non è forse legata la coscienza della comunità, dell’appartenenza reciproca, la gioiosa partecipazione al potere dell'insieme politico, tutti Erlebrisse propri dei supremi valori umani? Il lamento sulla brutalità del potere dello stato è fuori luogo poiché, come Kant ha visto, il più difficile compito del genere umano sta proprio nel riuscire a contenere il volere individuale e la sua tendenza a estendere la propria sfera di potenza e di godimento mediante la volontà collettiva e la coercizione che essa esercita, e inoltre perché per tale volontà, in caso di conflitto, la decisione risiede soltanto nella guerra, e anche all’interno la coercizione resta l’ultima istanza. Sul terreno di questa volontà di potenza, intrinseca all’organizzazione politica, sorgono le condizioni che rendono possibili i sistemi di cultura. Così si presenta qui una struttura complessa, nella quale i rapporti di forza e le relazioni dei sistemi di scopo sono legati in un’unità superiore, e la comunanza sorge anzitutto dall’azione reciproca dei sistemi di cultura. Io cerco ora di illustrare tutto questo rifacendomi alla più antica società germanica a noi nota, quale ce la descrivono Cesare e Tacito. Qui la vita economica, lo stato e il diritto si trovano legati alla lingua, al mito, alla religiosità e alla poesia proprio come in ogni epoca successiva: tra le qualità dei singoli campi della vita c'è un’azione reciproca che pervade in un dato tempo la totalità. Così, nella Germania di Tacito, dallo spirito guerriero è sorta la poesia eroica che già magnificava Arminio"! nei suoi canti, e questa poesia a sua volta rafforzava lo spirito guerriero. Da questo spirito guerriero è derivata pure l’inumanità presente nella sfera religiosa, come mostrano il sacrificio dei prigionieri e l’impiccagione dei loro cadaveri in luoghi sacri. Proprio tale spirito influiva sulla posizione del dio della guerra 15. Arminio (17 a. C.-21 d. C.), principe dei Cherusci, sconfisse le legioni romane, guidate da Quintilio Varo, nella Foresta di Teutoburgo nel 9 d. C., e in seguito guidò la resistenza germanica contro l'invasore, costringendo i Romani ad abbandonare la frontiera dell'Elba per ritirarsi sul Reno. La sua figura fu esaltata come quella di un eroe nazionale tedesco. entro il mondo divino, e da ciò risultava di nuovo una ripercussione sul sentimento bellico. Così viene a costituirsi una concordanza tra i diversi campi della vita, la quale è così forte che dallo stato di uno di essi possiamo compiere un’illazione sullo stato di un altro. Ma quest’azione reciproca non spiega compiutamente i rapporti di comunanza che collegano tra loro le diverse operazioni di una nazione. Che tra economia, guerra, costituzione, diritto, linguaggio, mito, religiosità e poesia vi sia in questa età una straordinaria concordanza e una straordinaria armonia, non deriva dal fatto che una funzione fondamentale qualsiasi, sia essa anche la vita economica o l’attività bellica, abbia condizionato le altre. Il fatto non può venir considerato neppure come prodotto dell’azione reciproca dei diversi campi nella loro situazione in quel dato periodo. In termini generali, quali che siano le influenze derivanti dalla forza € dalle proprietà di certe operazioni, tuttavia l’affinità che lega tra loro i diversi campi della vita entro una nazione deriva da una profondità comune che nessuna descrizione può esaurire. Essa esiste per noi soltanto nelle manifestazioni della vita che scaturiscono da tale profondità e che la esprimono. È l’uomo, facente parte di una certa nazione in un dato tempo, che inserisce in ogni manifestazione della vita entro un determinato campo della civiltà qualcosa della sua particolare essenza; poiché i momenti della vita degli individui, legati nella connessione delle operazioni, non procedono da essa esclusivamente come abbiamo visto, ma l’uomo intero è sempre operante in ognuna di queste attività e partecipa loro le proprie qualità peculiari. E poiché l’organizzazione statale racchiude in sé diverse comunità fin giù alla famiglia, l'ambito più vasto della vita nazionale racchiude pure piccole connessioni e comunità che hanno propri movimenti, e tutte queste connessioni dinamiche si incrociano nei singoli individui. Più ancora lo stato attrae l’attività che ha luogo nei sistemi di cultura; e la Prussia di Federico è l'esempio tipico di tale estremo aumento di intensità e di estensione dell’influenza statale. Accanto alle forze indipendenti, che collaborano nei sistemi di cultura, agiscono in essi anche le attività che procedono dallo stato; e nei processi appartenenti a tale totalità statale, l’attività autonoma e il condizionamento da parte della totalità sono sempre legati tra loro. WILHELM DILTHEY 181 5) Il movimento proprio di ogni cerchia particolare in questa grande connessione dinamica è determinato dalla tendenza a compiere la propria funzione. Questa forza attiva ha in sé la duplicità della tensione e di un’energia positiva volta alla posizione di scopi: tutte le connessioni dinamiche concordano in ciò, ma ognuna ha pure la sua peculiare struttura, dipendente dall’operazione che compie. Molto differente è infatti la struttura di un sistema di cultura, in cui si realizza una connessione articolata di operazioni, in cui i processi individuali vengono mossi da tale connessione, in cui lo sviluppo dei valori, dei beni, delle regole, degli scopi è determinato dall’essenza immanente di questa funzione, da quella propria della connessione dinamica di un’organizzazione politica, poiché in questa non esiste tale legge di sviluppo immanente in una funzione, i fini mutano in genere secondo la natura delle organizzazioni, la macchina è per così dire impiegata per attuare un altro compito, mentre vengono risolti compiti del tutto eterogenei e realizzati valori di classe totalmente differente. Da tale articolazione del mondo storico in connessioni dinamiche particolari risulta una conclusione, che ci fornisce l’indicazione per l'ulteriore soluzione del problema contenuto nel mondo storico. La conoscenza del significato e del senso del mondo storico è stata spesso ottenuta, per esempio da Hegel o da Comte, mediante la determinazione di una direzione generale del movimento della storia universale; questa operazione riunisce il cooperare di diversi momenti in un'intuizione indeterminata. In realtà risulta che il movimento storico si compie nelle connessioni dinamiche particolari; e inoltre appare chiaro che l’intera problematica diretta a porre in luce un fine della storia è del tutto unilaterale. Il senso manifesto della storia deve essere cercato anzitutto in ciò che sussiste sempre, in ciò che ricorre nelle relazioni strutturali, nelle connessioni dinamiche, nella formazione di valori e di scopi entro di esse, nell'ordine interno in cui stanno tra loro — dalla struttura della vita individuale fino all’ultima più vasta unità: questo è il senso che la storia ha sempre e ovunque, che poggia sulla struttura dell’esistenza individuale e che si manifesta nella struttura delle connessioni dinamiche più complesse entro l’oggettivazio ne della vita. Tale regolarità ha determinato anche lo sviluppo 182 WILHELM DILTHEY passato e ad essa è sottoposto il futuro. L'analisi della costruzione del mondo spirituale avrà soprattutto il compito di mostrare tali uniformità nella struttura del mondo storico. In tal modo viene pure eliminata la concezione che ha visto il compito della storia nel progresso da valori, obbligazioni, norme, beni relativi ad altri incondizionati: con essa ci trasferiremmo dal campo delle scienze empiriche al campo della speculazione. Infatti la storia assiste pure alla posizione di un elemento incondizionato, sotto forma di valore, di norma o di bene. Elementi del genere si presentano sempre in essa — sia come dati nella volontà divina, sia come dati in un concetto razionale di perfezione, in una connessione teleologica del mondo, in una norma universalmente valida del nostro agire, fondata su base trascendentale. Ma l’esperienza storica ha conoscenza soltanto dei processi, per essa così importanti, in virtù dei quali questi elementi vengono posti: essa non sa nulla, di per sé, in merito a una loro validità universale. Seguendo il corso in cui si elaborano tali valori, beni o norme incondizionate, essa osserva per diversi di essi il modo in cui la vita li ha prodotti; la posizione incondizionata è stata possibile solo in virtù della limitazione dell’orizzonte temporale. Essa guarda di qui alla totalità della vita nella pienezza delle sue manifestazioni storiche, e osserva la disputa mai appianata che si svolge tra queste posizioni incondizionate. La questione se la subordinazione a tale elemento incondizionato, che è appunto un fatto storico, debba essere ricondotta in maniera logicamente necessaria a una condizione generale, non limitata temporalmente, insita nell'uomo, o se sia da considerare come prodotto della storia, conduce alle estreme profondità della filosofia trascendentale, che stanno al di là dall’ambito dell’esperienza storica e a cui neppur la filosofia è in grado di fornire una risposta sicura. E se anche tale questione fosse decisa nel primo, ciò non potrebbe servire allo storico per la selezione, la comprensione, la scoperta di qualche connessione, qualora non potesse venir determinato il contenuto di tale elemento incondizionato: così l'intervento della speculazione nel campo di esperienza dello storico difficilmente potrà avere successo. Lo storico non può rinunciare al tentativo di intendere la storia in base a se stessa, in base all’analisi delle varie connessioni dinamiche. Così una nazione organizzata in forma statale può venir concepita come un’unità strutturale individualmente determinata di connessioni dinamiche. Il carattere comune delle nazioni organizzate in forma statale poggia su regolarità che consistono nella forma di movimento delle connessioni dinamiche, nelle loro relazioni reciproche e, poiché esse sono creatrici di valori e di scopi, nel rapporto tra connessione dinamica, determinazione di valori, posizione di scopi e connessione di significato entro un’organizzazione politica. Ognuna di queste connessioni dinamiche è incentrata in se stessa in un modo particolare, e su ciò è fondata la regola interna del suo sviluppo. Sulla base di tali regolarità, che pervadono tutte le nazioni organizzate statalmente, si elevano le loro forme individuali, lottando e cooperando nella storia per la loro vita e la loro validità. In ogni nazione organizzata in forma statale l’analisi — e soltanto questa, non già la storia dell'origine delle nazioni interviene in tale connessione — distingue vari momenti. Tra gli individui in essa racchiusi, che stanno tra loro in un rapporto di azione reciproca, esistono uniformità di carattere e di manifestazioni della vita; essi hanno coscienza di queste uniformità e dell’appartenenza reciproca che su queste riposa; in essi vive perciò una tendenza a rafforzare tale appartenenza reciproca. Queste uniformità possono venir constatate negli individui singoli, ma pervadono e caratterizzano anche tutte le connessioni esistenti entro la nazione. L'analisi mostra inoltre in ogni nazione un nesso di connessioni dinamiche particolari. Il potere esterno e interno dello stato fa della nazione un'unità che opera in forma autonoma. Entro questa unità si sovrappongono vari gruppi sociali, e ognuno costituisce una connessione dinamica relativamente indipendente. I sistemi strutturali, che procedono al di là della singola nazione, si presentano qui in rapporto con altre connessioni dinamiche, e sono modificati dalle uniformità che pervadono l’intero popolo; e la forza della loro azione è accresciuta dai gruppi che si costituiscono in base alla loro tendenza a una determinata funzione. Così sorge la complessa struttura di una nazione organizzata in forma statale: ad essa corrisponde una nuova interna disposizione di questa totalità. In essa viene vissuto un valore per tutti; l’agire degli individui ha in essa un fine comune. La sua unità si oggettiva nella letteratu184 WILHELM DILTHEY ra, nei costumi, nell'ordinamento giuridico e negli organi della volontà collettiva, manifestandosi pure nella connessione dello sviluppo nazionale. Voglio ora illustrare in alcuni punti fondamentali la cooperazione dei diversi momenti che fanno parte di una totalità statale organizzata, così come sono stati determinati, nella vita nazionale di una certa epoca. A tale scopo mi rifaccio ai Germani dell’età di Tacito. Quando Tacito scriveva, il fondamento della vita germanica era sempre l'unione della guerra con lo sfruttamento del terreno, della caccia con l’allevamento del bestiame e con l’agricoltura. L’'arrestarsi della diffusione delle stirpi germaniche ha accelerato il corso naturale verso la fissazione del domicilio, e la Germania è divenuta un paese agricolo. Da questo rapporto con il suolo e il terreno nella caccia, nell'allevamento del bestiame e nell’agricoltura, è derivato il legame dei Germani di allora con la terra e con ciò che su di essa-cresce e vive: tale legame è il primo momento decisivo per la vita spirituale dei Germani in questa epoca, Altrettanto chiara è l’influenza dell’altro fattore sociale, prima accennato, di questa età, cioè dello spirito guerriero delle stirpi germaniche nella vita politica, negli ordinamenti sociali e nella cultura intellettuale del tempo. I compiti della guerra pervadevano tutti i settori della vita; si facevano valere nel rapporto delle famiglie con l’ordinamento militare, cioè nelle centurie; incidevano sulla posizione dei capi e dei prìncipi. Dallo spirito guerriero è sorto poi anche il sistema del seguito, di importanza decisiva per lo sviluppo militare e politico. Il principe è circondato da un seguito composto da gente libera, che costituisce la sua corte militare: soltanto la guerra poteva nutrire tale seguito. Esso era legato quindi al principe dal più saldo rapporto di fedeltà, da un rapporto che a noi si rivela nel canto eroico e nell’epica popolare con la sua bellezza propriamente germanica. Dalla guerra scaturisce poi il regno militare di un Marbod". A questi fattori si aggiunge l’individualità dello spirito nazionale. Le sue uniformità si fanno valere nel risultato delle connessioni dinamiche. Lo spirito guerriero, che le stirpi germa16. Marbod, principe dei Marcomanni, contemporanco e avversario di Arminio. niche di quest'epoca hanno in comune con gli stadi primitivi di altri popoli, mostra tuttavia presso di esse una forza e un carattere particolare. Il valore della vita di una persona singola è riposto nelle sue qualità belliche. Da Tacito appare che i migliori di essi vivevano in modo completo soltanto in guerra; la cura della casa, del focolare e del campo era lasciata alle donne e agli individui inadatti alla guerra. Un carattere peculiare spinge questi Germani a operare nella pienezza del loro essere e ad abbandonarsi senza riserve alla lotta. Il loro agire non è determinato e limitato da una posizione razionale di scopi; in esso c'è una sovrabbondanza di energia che li spinge al di là dello scopo, c'è qualcosa di irrazionale. Nella loro passione inconsumabile e indomabile essi mettono in gioco con i dadi la loro persona e la loro libertà. Nella battaglia si rallegrano del pericolo; dopo la lotta cadono in una pigra quiete. Il loro mito e Ia loro saga eroica sono totalmente pervasi da questo carattere ingenuo e inconscio che ripone il valore e il piacere maggiore dell’esistenza non già nella serena intuizione del mondo propria dei Greci, non già nella razionale determinazione di scopi propria dei Romani, ma nella manifestazione illimitata della forza in quanto tale, nella scossa e nell’estensione e nell’elevazione che ne deriva per la personalità. Questo aspetto, che trova la sua suprema espressione nella gioia della lotta, esercita la sua influenza sull'intero sviluppo dei nostri ordinamenti politici e della nostra vita spirituale. L’ultimo tra i momenti contenuti in una totalità nazionale, e che determinano il suo sviluppo, risiede nella subordinazione dei gruppi minori alla totalità politica, quale essa sorge in virtù dei rapporti di dominio e di obbedienza e dei rapporti di comunità compresi in una volontà statale sovrana. Così in Germania vengono a susseguirsi il regno popolare in piccole comunità di struttura imperfettamente differenziata, poi, sulla base della crescente divisione del lavoro, l’articolazione professio nale e la distinzione dei ceti in una totalità nazionale poco solida, la formazione della signoria indipendente con la sua intensiva ed estesa attività statale negli stati territoriali, che gradualmente stritola, in mezzo ai diritti individuali e alla volontà di potenza dei prìncipi, l’ordinamento fondato sulle professioni e sui ceti, e infine lo sviluppo di tali stati verso un continuo ampliamento dei diritti individuali, dei diritti della comunità popolare nel sistema rappresentativo, conforme a ordinamenti democratici, e d’altra parte la subordinazione dei diritti principeschi all’impero nazionale. Se si guarda a tale sviluppo, esso appare ovunque condizionato in duplice modo: da un lato esso dipende dal rapporto mutevole delle forze entro il sistema statale, e dall’altro è condizionato dai fattori dello sviluppo interno, propri dello stato particolare, che noi abbiamo seguito. Così risulta chiara la possibilità di sottoporre ad analisi la connessione dinamica che condiziona i momenti particolari dello sviluppo di una nazione e lo sviluppo totale di essa, distinguendola nei suoi fattori. Le regolarità presenti nella struttura della totalità politica determinano le situazioni della totalità c i suoi mutamenti. Vi sono quasi degli strati successivi nell’ordinamento di vita di questa totalità, di cui il posteriore presuppone il precedente, come abbiamo visto dai mutamenti dell’organizzazione politica. Ognuno mostra un ordine interno in cui, a partire dall’individuo, le connessioni dinamiche formano valori, realizzano scopi, raccolgono beni, sviluppano regole di condotta. I portatori e i fini di tali operazioni sono però differenti. Così sorge il problema dell’interna relazione reciproca tra tutte queste operazioni, dalla quale esse traggono il loro significato. Pertanto l’analisi della connessione logica delle scienze dello spirito ci conduce di fronte a un compito ulteriore, sulla cui soluzione getterà luce la costruzione delle scienze dello spirito in virtù del collegamento dei loro vari metodi. 9. Età ed epoche. In un determinato periodo di tempo si possono quindi porre in luce analiticamente singole connessioni dinamiche e mostrare i momenti di sviluppo in esse contenuti, determinando inoltre le relazioni che uniscono tali connessioni in una totalità strutturale e le uniformità presenti nelle parti di un insieme politico: così noi possiamo pure intendere l’altro aspetto del mondo storico, la linea del corso temporale e dei mutamenti che esso racchiude in riferimento alle connessioni dinamiche, come una totalità continua e tuttavia separabile in sezioni temWILHELM DILTHEY 187 porali. Ciò che caratterizza anzitutto le generazioni, le età, le epoche *, sono tendenze dominanti di profonda incidenza. Ciò che le caratterizza è la concentrazione dell’intera cultura di un periodo in se stessa, cosicché nella determinazione di valori, nella posizione di scopi, nelle regole di vita dell’epoca risiede il criterio di giudizio, di valutazione e di stima delle persone e degli orientamenti che attribuisce a una determinata epoca il suo carattere. Un individuo, una tendenza, una comunità acquistano il proprio significato in questa totalità in base al loro rapporto interno con lo spirito del tempo. E in quanto ogni individuo è inserito in tale periodo, ne deriva pure che il suo significato per la storia consiste in questo suo rapporto con l'età. Quelle persone che procedono vigorosamente innanzi in un certo periodo sono gli esponenti dell’età, i suoi rappresentanti. In questo senso si parla di spirito di un’epoca, per esempio dello spirito del Medioevo o dell’Illuminismo. Da ciò risulta pure che ognuna di tali epoche trova una limitazione in un orizzonte di vita: con questo intendo la limitazione per cui gli uomini di un'età vivono in rapporto al suo pensiero, al suo modo di sentire, alla sua volontà. In essa c'è una relazione di vita, rapporti vitali, esperienza della vita e formazione intellettuale, che mantiene e lega gli individui in un determinato ambito di modificazioni dell’apprendimento, della formazione di valori e della posizione di scopi. Elementi inevitabili sovrastano qui gli individui particolari. Accanto alla grande tendenza che domina e pervade un'intera età, dando a quel periodo il suo carattere, ve ne sono altre che si contrappongono a essa. Esse mirano a conservare l’antico, osservano le conseguenze dannose dell’unilateralità dello spia. Già nel 1865, nel saggio su Novalis [ora in Er/ebnis und Dichtung] ho illustrato e impiegato il concetto storico di generazione, usandolo più ampiamente nel primo volume del Leben Schleiermachers e poi, nel 1875, nel saggio Uber das Studium der Geschichte der Wissenschaften vom Menschen, der Gesellschaft und dem Staat [ora in Gesammelte Schriften, vol. V, pp. 31-73], sviluppandolo insieme ai concetti ad esso collegati. L’ulteriore determinazione dei concetti di « continuità storica », « movimento sto rico », « generazione », «età », «epoca » è possibile soltanto nell’illustrazione della costruzione delle scienze dello spirito. rito dell’epoca e si rivolgono contro di questo; se invece si presenta qualcosa di creativo e di nuovo, che sorge da un altro sentimento della vita, allora comincia entro questo periodo il movimento indirizzato a produrre una nuova età. Ogni contrapposizione resta quindi sul terreno dell’età o dell’epoca; ciò che in essa si oppone ha nel medesimo tempo la struttura di quell'età. In questo elemento creativo ha allora inizio un nuovo rapporto di vita, di relazioni vitali, di esperienza della vita e di formazione intellettuale. Così i rapporti di significato che esistono in un periodo tra le forze storiche sono fondati in quella relazione reciproca delle uniformità e delle connessioni dinamiche, che si possono designare come tendenze, correnti, movimenti. Da esse si perviene per la prima volta al problema più complicato di determinare analiticamente la connessione strutturale di un’età o di un periodo. Tale problema può venire illustrato considerando l’Illuminismo tedesco dal punto di vista di questa interna connessione: compiendo l’analisi di un’età anzitutto in una nazione particolare, si viene infatti a semplificare il compito. La scienza si era costituita nel secolo xvi. Dalla scoperta di un ordine legale della natura e dall’applicazione di questa conoscenza causale al dominio sulla natura era sorta la fiducia dello spirito in un regolare progresso della conoscenza. In questo lavoro di indagine le varie nazioni civili erano unite tra loro: così è sorta l’idea di un’umanità unita nel progresso. Si formò l’ideale di un dominio della ragione sulla società; esso ispirò le forze migliori; così queste si unirono in uno scopo comune, lavorando in base agli stessi metodi e attendendo dal progresso del sapere il miglioramento dell’intero ordinamento sociale. L'antico edificio alla cui costruzione avevano cooperato il dominio della chiesa, i rapporti feudali, il dispotismo illimitato, i capricci dei principi, l'inganno pretesco — edificio sempre trasformato dai tempi e sempre bisognoso di nuovi restauri — doveva venir mutato in una costruzione razionale chiara e simmetrica. Questa è l’unità interna in cui sono legate in una totalità la vita spirituale degli individui, la scienza, la religione, la filosofia e l’arte nella connessione europea dell’Illuminismo. Questa unità si compì in modo differente nei vari paesi, atteggiandosi in maniera particolarmente felice e solida in Germania. Qui una tendenza generale si fece valere nella sua più alta vita spirituale. Se ci si rifà indietro in Germania si può trovare, a partire da Freidank”, la tendenza a subordinare coscientemente la vita a salde regole; e se si volesse designarle come morali, il fatto sarebbe rappresentato da un punto di vista unilaterale e determinato entro un ambito troppo ristretto. La serietà dei popoli nordici è qui legata a un bisogno di riflessione, che deriva da un orientamento verso l’interiorità della vita ed è senza dubbio connesso con le situazioni politiche. Come nell’immobilità della vita statale le clausole giuridiche, i privilegi, gli accordi ostacolano il libero movimento della vita, così anche nell’individuo il sentimento dell’obbligazione sovrasta la libera posizione di scopi: nel godimento della vita si scorge sempre qualcosa di illecito. I potenti lo arraffano per sé, ma in esso c'è qualcosa che mette in crisi la loro coscienza. Così nella filosofia tedesca del secolo xviti vi è un tratto fondamentale che unisce tra loro Leibniz, Thomasius *, Wolff”, Lessing, Federico il Grande, Kant e innumerevoli altri minori. Tale tendenza all’obbligazione e al dovere era stata promossa dallo sviluppo del Luteranesimo e della sua morale fin da Melantone. Essa era favorita dall’articolazione della so17, Freidank, nome o (più probabilmente) pseudonimo di un poeta didattico tedesco della prima metà del secolo x1tr, che seguì Federico II in Palestina: il suo poema Bescheidenheit (pubblicato nel 1508) ebbc larga fortuna. 18. Christian Thomasius (1655-1728), giurista e filosofo tedesco, autore di tre libri Institutionum iurisprudentiue divinae (1688), della Introductio in philosophiam ratio. nalem (1701), dei Fundamenta iuris naturae et gentium (1705) e di numerose altre opere soprattutto di etica, fu uno dei maggiori esponenti della scuola del diritto naturale alla fine del Seicento: la sua opera si ispira in larga misura all'insegnamento di Pufendorf. 19. Christian Wolff (1679-1754), filosofo tedesco, è il principale rappresentante dell'Illuminismo di derivazione Icibniziana: fu autore di numerosi manuali scientifici e di opere filosofiche come la Philosophia rationalis, sive logica methodo scientifico pertractata (1728), la Philosophia prima sive Ontologia (1729), la Cosmologia generalis (1731), la Psychologia empirica (1732), la Psychologia rationalis (1734), la Theologia naturalis (1736-37), la Plilosophia practica universalis (1738-39), lo Jus naturae methodo scientifico pertractatum (1740-48), lo Ius gentium (1749), le Institutiones suris naturae (1750), la Philosophia moralis sive Ethica (1750-53) e l'Oeconomica (1750). Il suo lavoro di sistemazione del sapere filosofico ebbe larga influenza nella cultura tedesca del Settecento, e ad esso si richiamerà anche Kant. 190 WILHELM DILTHEY cietà in base al concetto di professione e di ufficio, che Lutero aveva introdotto nell’età moderna. E nella misura in cui la tendenza all’autonomia della persona progrediva nell’Illuminismo, la perfezione diventava dovere: nella ragione vi è una legge naturale dello spirito, che richiede dall’individuo la realizzazione della perfezione in sé e negli altri. Questa esigenza è dovere: un dovere che non è imposto dalla divinità, ma che deriva dalla legge della nostra propria natura e può venir stabilito su basi razionali. Soltanto in seguito la regola razionale può venir riferita al fondamento delle cose: questa è la dottrina di Wolff, che si rifà indietro a Pufendorf ”, Leibniz, Thomasius, e che procede in avanti fino a Kant, riempiendo tutta la letteratura dell’Illuminismo tedesco. In questa dottrina risiede il legame che unisce i Tedeschi dell’Illuminismo con i Tedeschi del secolo xvi, producendo uno spirito unitario in quest’epoca, un qualcosa di imponderabile che, ovunque modificato e pur sempre il medesimo, pervade l’intera nazione: una determinazione del valore della vita, che sta a base della connessione vitale dell’Illuminismo tedesco. Il nuovo schema di movimento dell’anima verso il suo valore supremo è fondato nel carattere razionale dell’uomo. La persona individuale realizza il suo scopo in quanto divenuta maggiorenne in virtù delle sue capacità razionali, realizza in sé il dominio della ragione sulle passioni, e questo della ragione si manifesta come perfezione. In quanto la ragione è poi universalmente valida e a tutti comune, e la perfezione della totalità mediante la ragione è superiore alla perfezione dell'individuo — nel senso che la perfezione di tutti ha un valore superiore a quella di una persona sola — e sorge qui l'obbligazione suprema in virtù della quale l’individuo è legato al bene della totalità, ne deriva la più precisa determinazione di questo principio come principio di perfezione di tutti gli individui, da raggiungersi mediante il progresso della totalità. Questo principio dell'Illuminismo non ha la sua base nel puro pensiero, e il suo dominio non poggia su questo, ma in 20. Samuel von Pufendorf (1632-1694), giurista e filosofo tedesco, autore dei De iure naturae ei gentium libri octo (1672), dei De officio hominis et civis iuxta legem natttralem libri duo (1673) c di Eris scandica (1686), nonché di varie altre opere di argomento storico e giuridico, è la maggiore figura del giusnaturalismo seicentesco. esso pervengono a un'espressione astratta tutti i valori della vita di cui hanno esperienza gli uomini dell’Illuminismo. Per queste menti, Wolff soprattutto, la perfezione diventa quindi, in modo abbastanza strano, un dovere, la tendenza verso di essa diventa una legge vincolante per l'individuo, e infine la divinità diventa per Wolff e i suoi scolari oggetto di doveri i quali hanno il loro centro di riferimento nella tendenza alla perfezione. La stessa esperienza della vita, in cui sono fondate queste idee, può venir studiata in Leibniz nel modo migliore. Essa poggia sull’Erlebnis della felicità dello sviluppo. E il grande pensatore, come poi anche Lessing, ripone nel progredire medesimo la suprema felicità dell’uomo, in quanto essa non può mai essergli offerta dal contenuto del momento. E che tale progredire non si riferisca a questo o a quello scopo particolare, ma allo sviluppo della persona individuale, comprendendo e legando tutto ciò che vi è in essa, Leibniz per primo lo esprime mediante il suo Er/eden. Questo Erlebnis è stato ovunque preparato dal fatto che l’individuo nell’infelicità della vita nazionale veniva spinto sempre verso se stesso, e indirizzato ai compiti culturali comuni. E così come Leibniz lo aveva enunciato, esso agì dappertutto. Con i concetti di valore derivanti dalla vita stessa, che Leibniz accoglieva, è determinato anche il compito che egli poneva alla sua filosofia, cioè quello di derivare il significato della vita e il senso del mondo dalla connessione dei valori individuali dell’esistenza. Così nell’età dell’Illuminismo una connessione unitaria conduce dalla forma della vita all'esperienza della vita, dagli Erlebnisse in essa contenuti alla loro rappresentazione in concetti di valore, in imperativi del dovere, in determinazioni di scopo, nella coscienza del significato della vita e del senso del mondo. In questa connessione cresce la coscienza che tale epoca ha di sé, e nel passaggio a formule astratte queste pervengono, mediante la dimostrazione razionale, a un carattere assoluto; vengono formulati valori, obbligazioni, doveri, beni incondizionati, mentre proprio qui lo storico percepisce chiaramente la loro origine dalla vita medesima. Se nella riflessione dell'individuo sulla vita troviamo in Germania una tendenza alla sua formazione razionale, una tendenza analoga si sviluppa nel medesimo tempo nella vita statale, sulla base delle condizioni particolari della connessione dinamica della vita politica. Sempre più invadente diventava l’attività statale nello sviluppo europeo dell’età moderna, in tutti i vari campi della cultura: nella burocrazia, nella classe militare, nelle istituzioni finanziarie risiede il centro di organizzazione di tutti i rapporti di forza, e l’attività dello stato diventa una forza propulsiva del movimento culturale. Su questo processo influiscono ovunque la lotta reciproca dei grandi stati per la potenza e per l'ampliamento, e il bisogno interno di trasformare in una totalità unitaria le parti messe insieme attraverso le guerre e le successioni ereditarie. L'unità degli stati moderni si concentra nel monarca, nella sua burocrazia e nel suo esercito. Ma essi debbono pervenire a una più salda articolazione dei loro organi e a un impiego più intensivo delle loro forze. Ciò diventa possibile soltanto con una più razionale condotta degli affari; il progresso politico non avviene spontaneamente ma viene prodotto. Ogni attività dell’insieme è determinata da una razionale posizione di scopi. Questo insieme include sempre in sé vari compiti culturali — la scuola, la scienza, anche la vita ecclesiastica, ove essa può venir raggiunta. I prìncipi rappresentano in sé non solo l’unità, ma anche l’orientamento culturale di tutto lo stato. Le libere forze irrazionali della fedeltà della persona alla persona vengono sostituite da altre operanti in modo più calcolabile e più sicuro. Così anche nella vita statale si attua la relazione di forze che dà all’età illuministica la sua unità. All’ordine razionale della vita e all’utilizzazione razionale della natura, di cui lo stato ha bisogno, viene incontro il movimento scientifico fondato nel secolo xvII, e questo trova a sua volta nello stato l'organo necessario per sottoporre tutti i settori della vita a una regolamentazione razionale, dall'impresa economica alle regole del buon gusto nelle arti. Nessun paese era politicamente preparato come la Germania a questa interna relazione, nella quale risiedeva l’essenza dell’Illuminismo. I suoi piccoli stati dipendevano dallo sviluppo della cultura, e la Prussia anche dal progredire delle forze spirituali necessarie alla lotta per il potere. La circolazione delle forze religiose e scientifiche, dalla vita delle comunità protestanti al sistema scolastico e alle università, da queste allo sviluppo del pensiero religioso presso il clero e alle teorie giuridiche presso i giuristi, e poi di nuovo giù giù fino al popolo, non fu mai in alcun paese sviluppata come in esso. Nell’Illuminismo tedesco cooperano forze di origine assai diversa, e connessioni dinamiche colte in stati assai differenti del loro sviluppo. Mentre l’unità dello spirito dell’Illuminismo si realizza nella scienza e nella riflessione filosofica come nella vita sociale, essa viene ad attuarsi pure mediante l’efficacia di questo spirito in tutti i singoli campi della vita spirituale. Nello sviluppo del diritto troviamo in Germania un interessante esempio di tale fenomeno nell’origine della più compiuta legislazione dell’epoca, il diritto territoriale. A Halle, dallo spirito dello stato prussiano si forma un indirizzo autonomo del diritto naturale e della giurisprudenza che su esso si fonda. Thomasius, Wolff, B6hmer? e vari seguaci diffondono dappertutto, con i loro scritti, la concezione giuridica di tale scuola. Essi formano i funzionari adatti, per l’unità e il carattere nazionale del loro orientamento spirituale, a compiere l’opera legislativa, a lungo bloccata, della Prussia. Sotto l’influenza di questo diritto naturale stanno il re, che promuove tale opera, e i ministri e i consiglieri che la eseguono. La stessa connessione interna si trova nel movimento religioso dell’età illuministica: anch'esso mostra la duplicità peculiare dell’Illuminismo tedesco, in quanto è a un tempo polemico e costruttivo. La storia ecclesiastica, il diritto naturale e il diritto ecclesiastico cooperano nel Protestantesimo tedesco a formare una visione del Cristianesimo primitivo che in Bòhmer, Semler ”, Lessing, Pfaff” diventa la forza produtti21. Johann Samuel Friedrich von Bòhmer (1704-1772), giurista tedesco, autore degli Elementa iurisprudentiae criminalis (1733), delle Observationes selectae ad B. Carpzovii Practicam novam rerum criminalium (1759) e di Meditationes sulle recenti leggi penali (1770), fu uno dei più importanti studiosi di diritto penale del Settecento. 22. Johann Salomon Semler (1725-1791), teologo protestante tedesco, autore delle Vorbereitungen zur theologischen Hermeneutik (1760-69), della /nstiturio brevior ad liberalem eruditionem theologicam (1765-66), dell'Apparatus ad liberalem Novi Testamenti interpretationem (1769), delle Asketische Vorlesungen zur Beforderung einer verniinftiger Anwendung der christlichen Religion (1722) e di altre operc, sostenne — in polemica col Pietismo — una teologia liberale, fondata sulla distinzione della parola divina dalla parola della Bibbia. 23. Christoph Matthàus Pfaff (1686-1760), teologo protestante tedesco, autore delle Institutiones theologiae dogmaticae et moralis (1719), del De origine iuris ecclesiastici 13. STORICISMO TEDESCO. 194 WILHELM DILTHEY va di un nuovo ideale della religiosità e dell'ordinamento della chiesa. E anche qui si ha la medesima circolazione delle idee che dall’insoddisfazione per lo stato presente e dalla forza positiva delle nuove idee universali, attraverso le scuole e le università che sono indipendenti dal potere dell'ortodossia ecclesiastica e che stanno in connessione con lo spirito scientifico, conduce alla formazione del singolo sacerdote che fa valere nella città o nella campagna un Cristianesimo illuminato, affine allo spirito dell’epoca. La religiosità cristiana non ha mai esercitato in nessun altro tempo all’infuori dell’Illuminismo tedesco un’influenza così schietta, così coerente, così orientata verso le supreme idee morali e religiose, e nel medesimo tempo così concorde con il teismo cristiano. Nuovi valori religiosi di grande portata si sono allora formati nella vita ecclesiastica e religiosa. Anche la poesia tedesca dell’epoca è determinata dalla trasformazione dei valori e degli scopi che si compie nell’età dell’Illuminismo. Negli stati indipendenti tedeschi l’Illuminismo incide sulla creazione poetica. Muovendo dalla Francia, anche in Germania viene elaborata la prosa moderna in rapporto con la società colta. Vengono assegnati ai generi poetici le loro regole, e queste disciplinano la forma superiore di arte fantastica di Shakespeare e di Cervantes in componimenti poetici articolati in maniera strettamente logica. L'ideale di questa poesia diventa l’uomo determinato dall’idea della perfezione e dell’Illuminismo; e la sua intuizione del mondo è la fede nell’ordine teleologico del mondo a partire dalla natura. La diretta espressione diquesto ideale e di questa intuizione del mondo diviene la poesia didattica; ad essa seguono l’idillio e l’elegia. Non viene afferrato il carattere tragico della vita: la commedia, il dramma e soprattutto il romanzo diventano la suprema espressione poetica dell’epoca, e acquistano una struttura corrispondente: un realismo guidato da idee ottimistiche pervade ogni opera poetica. Questa connessione unitaria, nella quale si esprime nei diversi campi della vita l'orientamento dominante dell’Illuminismo tedesco, non determina però tutti gli uomini che apparten(1719), delle Institutiones iuris ecclesiastici (1727) e di varie altre opere, fu uno dei maggiori rappresentanti della dottrina teologica della prima metà del Settecento. gono a tale età; e anche là dove essa influisce, trova accanto a sé altre forze. Si fanno valere le opposizioni delle età precedenti: particolarmente efficaci si mostrano le forze che si riallacciano a situazioni e a idee antiche, cercando però di dare loro una nuova forma. Nella sfera religiosa si è presentato così il Pietismo. Esso è stato la più robusta tra le forze in cui l’antico ha assunto forme nuove. Esso è affine all’Illuminismo nella crescente indifferenza per tutte le forme ecclesiastiche esteriori e nell’esigenza di tolleranza, ma soprattutto nel fatto che, al di là della tradizione e dell’autorità distrutte dalla critica, cerca un semplice e chiaro fondamento di legittimità per la fede. Tale fondamento risiede nel contatto con Dio e nell’esperienza religiosa che ne deriva. Soltanto il convertito intende la Bibbia; a lui si rivela la parola divina che gli è partecipata in essa; egli è in grado di fare delle scoperte, per così dire, nel campo del Cristianesimo. La tolleranza del Pietismo sta nel riconoscimento di ogni fede cristiana fondata sulla conversione: il Pietista risvegliato da essa deve completare la propria esperienza religiosa mediante la storia di conversioni altrui. E così vediamo che il Pietismo appartiene al grande movimento individualistico, poiché esso procede oltre il Luteranesimo escludendo la chiesa dal processo interiore della persona. Ma nel medesimo tempo si contrappone all’Illuminismo per la sua adesione alla fiducia di Lutero nell’esperienza religiosa derivante dal contatto con Dio. Il Pietismo si ritrova poi in un rapporto interno con la compiutezza raggiunta dalla nostra musica religiosa in J. S. Bach. Certo, Bach non era pietista, ma i canti dell'anima cristiana, che accompagnano la rappresentazione della vita di Cristo, mostrano già di per sé abbastanza chiaramente la sua connessione con la soggettiva interiorità religiosa, che era venuta in luce nel movimento pietistico. La medesima tendenza verso lo stato di cose esistente si manifesta di fronte alle tendenze politiche del governo illuminato. Essa è diretta al mantenimento del regno e dei privilegi di ceto nei singoli stati, e alla conservazione degli antichi diritti. Ma anche queste tendenze raggiungono la loro più alta coscienza e la loro fondazione mediante lo studio della letteratura illuministica di teoria dello stato, e Ie proposte di Schlos196 WILHELM DILTHEY ser e di Méser cercano anche di soddisfare i nuovi bisogni e lo spirito dell'Illuminismo. Le idee politiche dell'Illuminismo dovevano circondare Méser quando egli, in base alla situazione presente, sviluppava la sua comprensione di essa e le sue tendenze pratiche. Dall’esempio dell’Illuminismo tedesco si comprende quindi la relazione interna delle tendenze che hanno determinato le antitesi c la mutabilità in tale periodo, allorquando si constatano i momenti che, entro il suo orientamento fondamentale, rendono possibile rivolgersi verso il futuro. Proprio la tendenza illuministica verso ciò che è regolare ha prodotto in diversi campi una penetrazione degli avvenimenti storici, in cui sembrava essersi realizzata la regola. Così nel Cristianesimo primitivo si trovava il tipo di una religiosità più libera e questa rafforzava la tendenza al suo studio in Thomasius, in B6hmer e in Semler. Le regole, che la critica contemporanea stabiliva nell’arte, erano rafforzate dall’analisi approfondita del tipo dell’arte antica, e da questo punto di vista Winckelmann e Lessing illustravano l’arte antica e le leggi della creazione artistica, spiegando l’un termine con l’altro. Un altro momento dell’orientamento verso i compiti del futuro stava nel fatto che la comprensione della persona singola conduceva a porre l’accento sull'individualità della creazione e del genio. Se ci chiediamo poi come, in mezzo al corso degli eventi che trascina la Germania e procede dando luogo a ininterrotti, continui mutamenti, possa venir delimitata tale unità, la risposta è anzitutto questa: che ogni connessione dinamica reca in sé la sua legge, e le sue epoche sono del tutto diverse da quelle delle altre in virtù di tale legge. Così la musica ha un movimento peculiare, secondo cui lo stile religioso che scaturiva dalla massima forza dell’ErleBnis cristiano raggiungeva il suo culmine nella stessa età con Bach e con Hiindel, quando l’Illuminismo era già la tendenza dominante in Germania. E nella stessa epoca in cui sorgono le più importanti opere di Lessing 24. Johann Georg Schlosser (1739-1799), giurista c uomo politico tedesco, autore del Kasechismus der Sittenlehre fiirs Landvolk (1771), dell’Anti-Pope, oder Versuch tiber den natiirlichen Menschen (1776), dei Politische Fragmente (1777), del saggio Uber Scelenwanderung (1781), fu esponente dell'Illuminismo tedesco; polemizzò contro la filosofia kantiana, WILHELM DILTHEY 197 nasce il nuovo movimento creatore dello Sturm «nd Drang, che segna l’inizio di un'epoca successiva nella letteratura. E se ci chiediamo quali siano i legami che creano un’unità tra le diverse connessioni dinamiche, la risposta è questa: essa non è un’unità esprimibile in un pensiero fondamentale, ma piuttosto una connessione tra le tendenze della vita medesima, che si costituisce nel suo corso. Nel corso storico si possono delimitare periodi nei quali, dalla costituzione della vita fino alle idee supreme, un'unità spirituale si forma, raggiunge il suo culmine e di nuovo si dissolve. In ognuno di tali periodi vi è una struttura interna che esso ha in comune con gli altri, e che determina la connessione delle parti del tutto, il corso e le modificazioni nelle tendenze: noi vedremo in seguito a che cosa può servire il metodo di comparazione per l'apprendimento della struttura. Nell’efficacia costante dei rapporti strutturali generali ci si rivela anzitutto il significato e il senso della storia. Nel modo in cui questi dominano in ogni punto e in ogni età, determinando la vita dell’uomo, risiede in primo luogo il senso del mondo spirituale. Il compito è ora quello di studiare sistematicamente le regolarità che costituiscono la struttura della connessione dinamica nei suoi portatori, a partire dall’individuo. In qual modo queste leggi strutturali consentano di formulare asserzioni sul futuro, può venir determinato solo se è posto tale fondamento. L'aspetto immutabile e regolare dei processi storici è il primo oggetto di studio, e da ciò dipende la risposta a tutte le questioni sul progresso nella storia, e sulla direzione in cui si muove l'umanità. La struttura di una certa età si mostra quindi come una connessione delle connessioni e dei movimenti particolari entro il grande complesso dinamico di tale età. In base a momenti quanto mai molteplici e mutevoli viene a costituirsi una totalità più complicata; e questa determina il significato che riveste tutto ciò che agisce nell’epoca. Quando lo spirito di tale età è nato da dolori e dissonanze, allora ogni individuo ha in esso e mediante esso il suo significato. Da questa connessione sono in primo luogo determinati i grandi uomini storici: la loro creazione non si muove a distanza storica, ma assume i suoi fini dai valori e dalla connessione di significato dell'età medesima. L'energia produttiva di una nazione in un dato 198 WILHELM DILTHEY tempo riceve la sua forza maggiore proprio in quanto gli uomini di tale età sono limitati entro il suo orizzonte; il loro lavoro serve alla realizzazione di ciò che costituisce la tendenza fondamentale dell’ epoca. Così essi diventano i loro rappresentanti. Tutto in un'età acquista il suo significato dalla relazione con l’energia che dà ad essa il suo orientamento fondamentale. Essa si esprime nella pietra, sulla tela, nelle azioni o nelle parole; e si oggettiva nella costituzione e nella legislazione delle nazioni. Pieno di essa, lo storico penetra le epoche passate, e il filosofo cerca in base ad essa di interpretare il senso del mondo. Tutte le manifestazioni dell'energia che determina l’epoca sono imparentate tra di loro. Qui si presenta il compito dell’analisi, cioè il compito di riconoscere nelle diverse manifestazioni della vita l’unità della determinazione di valore e della tendenza verso uno scopo. E in quanto le manifestazioni di vita di questa tendenza spingono verso valori e scopi assoluti, si chiude il cerchio in cui sono racchiusi gli uomini di questa età; poiché in esso sono contenute pure le tendenze che vi si contrappongono. Si è visto come il tempo imprime anche su di esse la propria impronta e come la tendenza dominante ostacola il loro libero sviluppo. Così l’intera connessione dinamica dell’epoca è determinata in forma immanente dal nesso della vita, del mondo affettivo, della formazione di valori e delle relative idee di scopo. È storico ogni agire che si inserisca in questa connessione: essa costituisce l'orizzonte dell’età, e da essa è determinato infine il significato di ogni parte in questo sistema dell’epoca. Tale è l’autocentralità delle età e delle epoche, in cui si risolve il problema del significato e del senso che sì possono trovare nella storia. Ogni età contiene il riferimento retrospettivo a quella precedente e continua le forze sviluppatesi in quella, ma nel medesimo tempo è già presente in essa la tendenza creativa che prepara l’età successiva. Come essa è sorta dall’insufficienza dell'età che la precede, così reca con sé i limiti, le tensioni e la sofferenza che preparano l’età posteriore. E poiché ogni forma della vita storica è finita, deve esservi contenuta una mescolanza di forza gioiosa e di pressione, di estensione dell’esistenza e di ristrettezza della vita, di soddisfacimento e di bisogno. Il culmine degli effetti della sua tendenza fondamentale è breve; e da un'età all’altra Ia fame passa attraverso tutti i modi di soddisfacimento, senza mai poter essere saziata. Qualsiasi cosa ci risulti in merito al rapporto delle età e dei periodi storici tra loro, in relazione alla crescente complessità della struttura della vita storica, è proprio della natura finita di tutte le forme della storia che esse siano accompagnate dall’atrofia e dalla schiavitù, cioè da una brama insoddisfatta: e questo soprattutto in quanto i rapporti di potere non possono venir eliminati dalla vita comune degli esseri psico-fisici. Come lo stato sovrano dell’età illuministica produceva pure le guerre di gabinetto e lo sfruttamento dei sudditi per il godimento della corte, al pari della tendenza allo sviluppo razionale delle forze, così ogni altro ordinamento dei rapporti di potere racchiude pure una siffatta duplicità di effetti. E il senso della storia può venir cercato soltanto nel rapporto di significato di tutte le forze legate nella connessione delle varie età. 10. L'elaborazione sistematica delle connessioni dinamiche e dei rapporti di comunanza. In quanto la comprensione della storia avviene mediante l'applicazione ad essa delle scienze sistematiche dello spirito, l’illustrazione precedente della connessione logica della storia ha già rivelato i caratteri generali della sistematica delle scienze dello spirito. Infatti l'elaborazione sistematica delle connessioni dinamiche, poste in luce entro la storia, ha come proprio fine la scoperta dell’essenza di tali connessioni dinamiche. Per ora mi limito a stabilire solo i seguenti tre punti di vista per l'elaborazione sistematica. Lo studio della società poggia sull’analisi delle connessioni dinamiche contenute nella storia. Quest’analisi procede dal concreto all’astratto, dallo studio scientifico dell’articolazione naturale dell'umanità e dei popoli verso la distinzione delle singole scienze della cultura e la separazione dei campi dell’organizzazione esterna della società *. Ogni sistema di cultura forma una connessione dinamica a. Ciò è trattato più ampiamente nell’Einleitung in die Geisteswissenschaften, p. 44 sgg. [ora in Gesammelte Schriften, vol. I, p. 35 sgg.]che poggia su rapporti di comunanza; poiché la connessione compie un'operazione, essa ha un carattere teleologico. Ma qui si presenta una difficoltà riguardante l’elaborazione concettuale che avviene in queste scienze. Gli individui, che cooperano in tale operazione, appartengono alla connessione soltanto nei processi in cui collaborano a realizzare l’operazione stessa, ma tuttavia agiscono con tutto il loro essere, e quindi un campo siffatto non si può mai costruire in base allo scopo dell’operazione, poiché accanto all’energia orientata verso tale operazione stanno sempre anche gli altri aspetti della matura umana; e si fa valere la sua mutabilità storica. Qui risiede il problema logico fondamentale della scienza dei sistemi di cultura; e vedremo come per la sua soluzione si sono formati e combattuti metodi differenti. A questa difficoltà si aggiunge un limite che riguarda l’elaborazione concettuale delle scienze dello spirito: esso deriva dal fatto che le connessioni dinamiche realizzano operazioni e hanno un carattere teleologico. L'elaborazione concettuale non è pertanto qui una semplice generalizzazione che ricavi l’elemento comune dalla serie dei casi particolari. Il concetto esprime un tipo, e sorge nel procedimento comparativo. Ad esempio, io cerco di precisare il concetto di scienza, comprendendo sotto di essa ogni connessione diretta a ottenere una conoscenza. Tuttavia entro i libri dedicati a lavori scientifici vi è molto di infruttuoso e di illogico, cioè di erroneo: ciò contraddice all’intenzione orientata verso la loro funzione. L'elaborazione concettuale pone in luce quei tratti in cui è realizzata la funzione di tale connessione: questo è il compito della dottrina della scienza. Oppure, se voglio precisare il concetto di poesia, anche qui ha luogo una costruzione concettuale a cui non tutti i versi possono venir subordinati. La molteplicità dei fenomeni in un campo siffatto si raggruppa intorno a un punto centrale, costituito dal caso ideale in cui l'operazione è realizzata in modo compiuto. La discussione intorno alla connessione generale delle scienze dello spirito è pertanto conclusa. L'analisi seguente della costruzione delle scienze dello spirito illustrerà i metodi particolari in cui si realizza la connessione logica generale. IL MONDO STORICO * 1. L'uomo storico!. Il mondo storico esiste sempre, e l’individuo non lo considera soltanto dall’esterno, ma è intrecciato in esso; né è possibile scindere queste relazioni. Ciò che rimarrebbe sarebbe soltanto la condizione inafferrabile dalla quale si dovrebbero derivare, astratte dal corso storico, le condizioni necessarie di questo corso in tutte le età insieme con il dato: problema insolubile al pari di quello della possibilità della conoscenza prima o indipendentemente dal conoscere stesso. Noi siamo esseri storici prima di considerare la storia, e soltanto perché siamo quelli diveniamo questi. Tutte le scienze dello spirito poggiano sullo studio della storia trascorsa fino a ciò che sussiste nel presente, in quanto questo è il limite di ciò che rientra nella nostra esperienza relativa all'oggetto costituito dall’umanità. Quello che può venir immediatamente vissuto, inteso e tratto fuori dal passato nella coscienza, viene qui compreso: in tutto questo noi cerchiamo l’uomo, e anche la psicologia è soltanto una ricerca dell’uo* Plan der Fortsetzung zum Aufbau der geschichilichen Welt in den Geisteswissenschaften: Zweîtes Projekt einer Fortsetzung, in Gesammelte Schriften, Leipzig und Berlin, vol. VII, 1927, pp. 277-282, 287-291 (Secondo progetto: il problema della storia, tr. it. di Pietro Rossi, in Critica della ragione storica, Torino, Einaudi, 1954, PP. 372-384). — Non sono stati tradotti alcuni paragrafi che, per il loro carattere di puri e semplici appunti, nonché per le frequenti interruzioni del discorso, sarebbero risultati di troppo difficile lettura. I passi omessi vengono indicati di volta in volta nelle note. 1. Non è stata tradotta la parte iniziale del paragrafo (Gesammelte Schriften. mo in ciò che viene immediatamente vissuto e inteso, nelle espressioni e negli effetti che ne derivano. Perciò ho indicato come compito fondamentale di ogni riflessione sulle scienze dello spirito quello di una critica della ragione storica. Occorre che la ragione storica risolva il compito rimasto fuori dall’ambito visuale della critica della ragione di Kant, il cui problema è stato determinato in riferimento ad Aristotele, secondo cui la conoscenza avviene nel giudizio. Noi dobbiamo uscire dall’aria pura e raffinata della critica della ragione kantiana per adeguarci alla natura del tutto differente degli oggetti storici. Qui si presentano le questioni seguenti: io ho esperienza immediata delle mie situazioni e sono intrecciato nelle azioni reciproche della società come punto di incrocio dei suoi diversi sistemi, i quali sono sorti dalla stessa natura umana che io vivo in me e intendo negli altri. La lingua in cui penso è sorta nel tempo, i miei concetti si sono formati in esso: io sono, fino alla profondità non più penetrabile del mio io, un essere storico. In tal modo si presenta il primo importante momento per la soluzione del problema conoscitivo della storia: la prima condizione di possibilità della scienza storica risiede nel fatto che io stesso sono un essere storico, € che colui che indaga la storia è il medesimo che fa la storia. Così sono possibili giudizi storici sintetici e universalmente validi. Ma i princìpi della scienza storica non possono essere formulati in princìpi astratti che esprimano equivalenze, poiché, in conformità alla natura del loro oggetto, debbono poggiare su rapporti fondati nell’Erleden. Nell'Erleben vi è la totalità del nostro essere, che riproduciamo poi nell’intendere: qui è dato il principio della reciproca affinità tra gli individui. 2. Il concetto storico.L’uomo si conosce soltanto nella storia, mai mediante l’introspezione. In fondo noi tutti lo cerchiamo nella storia, anzi vi cerchiamo anche l’elemento umano quale si manifesta nella religione, ecc.: noi vogliamo sapere che cosa esso sia. Se vi fosse una scienza dell’uomo, questa sarebbe un’antropologia capace di intendere la totalità degli Erlebnisse secondo la loro connessione strutturale. L’uomo singolo realizza sempre una WILHELM DILTHEY 203 sola possibilità del suo sviluppo, che poteva sempre assumere un’altra direzione in base all'orientamento del suo volere. L’uomo in generale esiste per noi solo sotto la condizione di certe possibilità realizzate. Anche nei sistemi di cultura noi cerchiamo una struttura antropologicamente determinata, nella quale si attua un x; e noi lo diciamo essenza, ma questa è soltanto una parola per designare un procedimento spirituale che costituisce una connessione concettuale in questo campo. Anche qui le possibilità di tale campo non vengono esaurite. L'orizzonte si allarga. Infatti, anche quando lo storico ha dinanzi a sé un materiale limitato, mille fili lo conducono sempre più avanti nell’illimitatezza di tutti i ricordi del genere umano. La storiografia comincia in quanto, muovendo dal presente e dal proprio stato, si rappresenta ciò che ancora quasi vive nella memoria della generazione presente; ciò costituisce un ricordo ancora in senso proprio. Oppure vengono stesi degli annali in cui si registra, procedendo negli anni, ciò che è accaduto. Col procedere della storia lo sguardo si allarga al di là del proprio stato, e una sezione sempre più vasta del passato entra nel regno dei morti della memoria. Di tutto ciò è rimasta l’espressione dopo che la vita stessa è trascorsa, sia sotto forma di espressione diretta, con la quale certe anime hanno manifestato ciò che sono state, sia sotto forma di narrazioni relative ad azioni e a situazioni di individui, di comunità e di stati. E lo storico sta in mezzo a tutti questi resti di cose passate, e di manifestazioni di anime racchiuse in fatti, parole, suoni, immagini di anime che da tempo non sono più. Come deve egli evocarle? Tutto il suo lavoro diretto a tal fine poggia sull’interpretazione dei resti conservati. Si pensi a un uomo che non abbia alcun ricordo del suo passato, ma che pensi o agisca soltanto in base a ciò che questo passato ha prodotto in lui, senza esser cosciente di alcuna sua parte: tale sarebbe anche la situazione delle nazioni, delle comunità, dell'umanità medesima se essa non riuscisse a completare i resti, a interpretare le espressioni, a ricondurre la narrazione dei fatti dal loro isolamento alla connessione in cui sono sorti. Tutto questo è interpretazione, ossia un’arte ermeneutica. Il problema è ora di vedere quale forma questa assuma quando essa è completamente staccata dall’esistenza individua204 WILHELM DILTHEY le, e si debbono formulare asserzioni su soggetti che costituiscono in qualche senso delle connessioni di persone, cioè su sistemi di cultura, nazioni o stati. Anzitutto occorre qui un metodo per ritrovare, in questa illimitata azione reciproca tra esistenze individuali, delle rigorose delimitazioni, quando queste mancano invece nell’unità vivente della persona. È come se si dovessero tirare linee e disegnare figure che rimangono ferme nella corrente continua di un fiume. Tra questa realtà e l’intelletto non sembra possibile alcun rapporto conoscitivo, poiché il concetto separa ciò che è legato nel fluire della vita e rappresenta qualcosa di valido universalmente e per sempre, indipendentemente dalla mente che lo ha formulato, mentre il fluire della vita è ovunque soltanto singolare, e ogni onda va e viene entro di esso. Questa difficoltà, dopo che Hegel contrappose per primo la conoscenza intellettuale, caratteristica dell’Illuminismo, all'essenza del mondo storico € umano, costituisce il problema proprio del metodo storico. Ma questo problema può venir risolto: non abbiamo bisogno di rifugiarci nell’intuizione e di rinunciare ai concetti, ma dobbiamo invece rielaborare i concetti storici e psicologici. È stato merito geniale di Fichte aver formulato tali concetti adatti alla vita psichica e in generale allo spirito, mettendo l'energia al posto della sostanza, e ponendo le attività spirituali in relazione con le precedenti e in antitesi con quelle contemporanee, in modo che venga a delinearsi un progredire che diventa possibile in virtù del tempo, dell’energia che in questo opera e dell’unità che si differenzia. Tuttavia egli si è limitato a formulare questo schema di dinamica psichica, ma la sua realizzazione si richiama ai concetti kantiani anziché alla realtà. Herbart e Hegel non sono pervenuti neppur essi all'aria aperta del mondo storico reale. Tuttavia ciò è stato l’inizio di uno sconvolgimento di tutto il pensiero relativo al mondo storico, in una connessione interna che scaturisce nella maniera più chiara nel Romanticismo, prima con Niebuhr e poi con Hegel e con Ranke, conducendo così alla moderna storiografia. Noi possiamo liberarci dalla confusione concettuale in cui quest’antitesi tra realtà storica e conoscenza intellettuale si esprimeva allora mediante concetti ispirati al principio di identità, in quanto guardiamo alla natura stessa dei concetti storici. Il loro carattere logico è l'indipendenza dell’asserzione dal soggetto in cui si presentano e dal momento in cui essa ha luogo: la loro validità è indipendente dal luogo e dal tempo in senso psicologico. Il loro contenuto è invece l’accadere, il corso di qualsiasi specie; l’asserzione è indipendente dal tempo, mentre ciò che viene espresso è il corso temporale. Anzi, non tutti i concetti storici risultano correttamente formulati da questo punto di vista; ma, soltanto in quanto lo sono, possono occupare un posto nell’apprendimento del mondo storico. Nel medesimo tempo i concetti esistenti debbono spesso venir rielaborati in modo che possa esprimersi in essi ciò che è mutevole e dinamico. In fondo il problema appare simile a quello della matematica superiore, che cerca di dominare i mutamenti della natura. Ogni parte della storia, ad esempio un'età, non può venir colta mediante concetti che esprimano qualcosa di stabile in essa, cioè in un sistema di relazioni tra qualità definite, quali sarebbero state per l’età illuministica l'autonomia nello stato o l’Illuminismo nella vita spirituale. In tal modo non si coglie la natura specifica del tempo, ma si tratta piuttosto di un sistema di relazioni le cui parti sono dinamiche e inoltre mostrano continui mutamenti qualitativi nell'azione reciproca. Infatti le relazioni medesime, poggiando sull’azione reciproca tra forze, sono mutevoli, cioè ognuna di esse racchiude in sé una regola di mutamento. Applicando questo al periodo illuministico risulta che l’'ordine sociale che era esistito fino al termine del secolo xvi e all’inizio del xvi diventa impossibile poiché i contrasti tra gli interessi particolari della nobiltà, dei ceti e del governo, e quelli tra gli interessi delle province tra di loro e in rapporto all'insieme, non consentono in Germania il sorgere di una volontà statale unitaria, una cura comune per il tutto e un continuo perseguimento degli scopi statali. Diverse sono invece le epoche nelle quali, in Inghilterra, in Francia e in Italia, si fa valere la medesima insufficienza dell’esistenza politica. Essa diventava insopportabile verso l’esterno, poiché l'aspirazione alla potenza in questi stati concorrenti si manifestava assai diversamente che in qualsiasi epoca precedente. Essi erano sorti l’uno accanto all’altro, condizionati nella loro forma soprattutto dall’eredità e dalla guerra, senza ancora esser legati da nessuna letteratura unitaria e da nessuna lingua comune sviluppatasi entro di questa. Tale letteratura, e tale lingua, fu creata per la prima volta per gli Italiani da Dante. In tal modo sorse la tendenza all’unità nazionale, che però non trovò alcuna possibilità di attuazione per la politica contrastante dei tiranni e delle repubbliche, secondo la situazione delle forze. Tale sviluppo ha avuto luogo altrimenti sia in Inghilterra sia in Francia; mentre per la Germania il momento decisivo è stata la terribile pressione che grandi stati quali la monarchia universale spagnola e la potenza francese hanno esercitato su un paese che è stato in tal modo costretto a cercare la sua unità nazionale. Sorge però ora la questione del modo in cui può formarsi nello storico una connessione che non è prodotta da una mente né è immediatamente vissuta, e neppure può venir ricondotta all’Erlebnis di una persona, in base alle sue espressioni e alle asserzioni relative ad esse. Ciò ha come presupposto la possibilità di formare soggetti logici, e non psicologici. Devono quindi esserci strumenti per delimitarli e un fondamento di legittimità per apprenderli come unità o connessione. Noi cerchiamo l’anima: questo è l’ultimo punto a cui siamo pervenuti nel lungo sviluppo della storiografia. Ma qui si pone il problema: certamente ogni azione reciproca avviene tra unità psichiche, ma per quale via noi troviamo un’anima dove non c'è anima individuale? La base più profonda è offerta dalla vita e da ciò che da essa procede, dal raggiungimento della vitalità e, per così dire, dalla melodia della vita psichica nell’eliminazione di ogni regola rigida”. 3. Il progresso. Quando si parla della storia, il presupposto dell’intendere storico sta nel fatto che vi sia un significato dei momenti storici e un senso del corso storico. Secondo questo presupposto, anche se lo scopo della sua esistenza è posto nell’individuo stesso, nella storia dovrebbe tuttavia esserci un progredire della 2. Non sono stati tradotti i paragrafi sulle nazioni e sullc ctà (Gesammelte Schriften, vol, VII, p. 282-87). WILHELM DILTHEY 207 felicità individuale e un estendersi della felicità a molti: questa è insomma la concezione dei moderni storici inglesi. Ma tale concezione procede al di là di se stessa: anche se qui il progresso della vita individuale di generazione in generazione è concepito come un’azione quasi meccanica di accumulazione di valori, viene in tal modo presupposto un modo di azione nella cui natura è insito un progresso. Proprio in questa maniera agisce nella storia un rapporto in virtù del quale il suo corso ha un senso; infatti questo termine designa soltanto il presupposto in base al quale può venir inteso il corso storico, ma non un’affermazione su qualche forza distinguibile dal modo di agire medesimo, la quale possa conferire alle varie parti del corso il loro significato core un'essenza immanente a questo corso. In ciò risiede soltanto la condizione sotto cui può venir intesa la storia, e il prodotto e il risultato di questa è la storia universale. Ma anche qui non c’è alcun presupposto ulteriore su qualsiasi agente unitario nella storia, sia esso un agente immanente o una condizione reale, il quale possa venir considerato nella filosofia della storia come provvidenza o come scopo immanente o come forza di svolgimento storico. 4. La connessione storica universale: dalla fatticità all’ideale. Le epoche sono differenti tra loro per struttura. Ad esempio, il Medioevo contiene una connessione di idee affini che dominano nei suoi vari campi, quali le idee di fedeltà nel feudalesimo, la successione di Cristo come principio di obbedienza, il cui contenuto è costituito dalla trascendenza dello spirito rispetto alla natura in virtù dell’abnegazione, la successione teleologica di gradi nella scienza. Ma si deve riconoscere che lo sfondo di queste idee è la violenza, che questo mondo più alto non può superare. E ovunque è così: la fatticità della razza, dello spazio e dei rapporti di violenza costituisce la base che non può mai venir elevata spiritualmente. È stato un sogno di Hegel credere che queste età costituiscano un grado dello sviluppo della ragione: rappresentare un’età implica sempre un chiaro sguardo su tale fatticità, Ma c’è tuttavia una connessione interna, la quale conduce dai rapporti condizionanti, dalla fatticità, dalla lotta delle forze allo sviluppo degli ideali. Ogni situazione data in questa serie senza fine condiziona un mutamento, poiché i bisogni, che trasformano le energie esistenti în attività, non possono mai venir soddisfatti, e il desiderio di ogni specie di soddisfacimento non può mai venir saziato. Ogni forma della vita storica è finita, e contiene perciò un insieme di forza gioiosa e di pressione, di estensione dell’esistenza e di ristrettezza della vita, di soddisfazione e di penuria, provocando così le tensioni di forza e una nuova distribuzione da cui derivano di continuo altre azioni. Inoltre, soltanto in pochi punti della vita storica vi è un temporaneo stato di quiete, le cui cause sono diverse — equilibrio, forze opposte, ecc.: ma la storia è movimento. Anche nello stesso procedere c’è una felicità, poiché in esso si risolve la tensione e si realizza l’ideale. Tra la morta necessità di fatto e Ja più alta vita spirituale sta il continuo sviluppo dell’organizzazione, dell’istituzione, dell'impiego regolato della forza: l'intelletto crea, per così dire, meccanismi che servono al soddisfacimento dei bisogni, perfezionandoli di continuo. Lo scopo, che l’intelletto pone, dà luogo a tali meccanismi, che possono essere tanto ferrovie quanto armate, tanto fabbriche quanto miglioramenti costituzionali: essi costituiscono il campo proprio dell'intelletto, che cerca mezzi per certi scopi e calcola le azioni come cause. Qui appare una combinazione, la quale rivela propriamente l’essenza della storia. La sua base è la fatticità irrazionale, da cui deriva da un lato il parteciparsi della tensione fino ai meccanismi e dall’altro la differenziazione in nazioni, in costumi, in forme di pensiero, fino all’individualità su cui riposa la vera e propria storia dello spirito. 5. Realtà, valori, cultura. Gli avvenimenti diventano significativi in quanto si riferisco no a una connessione per la quale essi lo sono. Se mi formo un concetto di connessione di valore fondata sovra-individualmente e trascendentalmente — poiché trascendentale è ogni determinazione avente la sua base nel sovra-individuale — allora sorge la WILHELM DILTHEY 209 questione se tale procedimento sia possibile, anche se si intendessero soltanto punti di riferimento formali, dotati di carattere incondizionato, per ciò che è empirico. Ma se si lascia da parte tale fondazione mediante la filosofia trascendentale, non c’è più alcun metodo per stabilire norme, valori o scopi incondizionati: ve ne sono soltanto di quelli che avanzano la pretesa a una validità incondizionata, ma che, per la loro origine, sono inficiati di relatività. Noi attribuiamo invece un significato effettivo a qualsiasi connessione di tipo reale o ideale, in rapporto a cui un uomo o un avvenimento acquisti questo carattere. Quando considero nella connessione dinamica un luogo in quanto tale, come fa Meyer?, e lo valuto in conformità al presente, dovrei però avere prima un criterio che serva a determinare ciò che è significativo nel presente, perché altrimenti sarebbe significativo tutto ciò che ha agito sull’infinita serie delle situazioni presenti. E una cosa è chiara: che io trovo significativo nel presente ciò che è fecondo per il futuro, per la mia azione in esso, per il progredire della società verso tale futuro. E qui vedo in maniera assai chiara, nella mia posizione pratica, che, se voglio regolare il futuro, io parto da giudizi universalmente validi su ciò che deve essere realizzato. Il presente non contiene situazioni, ma processi e connessioni dinamiche, che racchiudono anche il procedere verso il futuro di qualcosa che può venir prodotto. La frase di Bismarck, secondo cui egli sarebbe stato collocato dalla sua religione e dal suo stato in una posizione nella quale il servizio di tale stato era più importante di ogni altro compito culturale, aveva per lui una validità universale in virtù del suo fondamento religioso. Da ciò deriva che noi dobbiamo ammettere tale rapporto anche per il passato. In un’età si sviluppano norme, valori, scopi universali, in rapporto ai quali deve esser anzitutto compreso il significato delle azioni. Se questi debbano venir determinati solo in una limitazione o incondizionatamente, è una questione ulteriore. Sembra 3. Eduard Meyer (1855-1930), storico tedesco autore di una monumentale Geschichte des Altertums (1884-1902), nonché di altri importanti volumi sulla cronologia dell'antico Egitto, su Cesare e Pompeo, sulle origini del Cristianesimo. Dilchey si riferisce qui alla tesi sostenuta in Zur TAcorie und Methodik der Geschichte, Halle. che anche in una nazione abbia luogo un antagonismo a proposito dei valori. In questa maniera si perviene al principio che lo svilu po di tali idee si muove entro contrapposizioni (Kant, Hegel) che sono contenute entro il corso dello svolgimento delle istituzioni, di modo che il loro rapporto reciproco rende sempre possibile un’altra posizione più ampia e più libera. Anzitutto non vi sono valori che valgano per tutte le nazioni. Nell'Impero romano si è sviluppata una concezione aristocratica dell’umanità come sostegno dell’humanitas; nel Cristianesimo l’umanità è divenuta soggetto di valore; tale concezione si è poi trasformata nell’Illuminismo. La storia è essa medesima la forza produttiva delle determinazioni di valore, degli ideali e degli scopi, in base a cui viene commisurato il significato di uomini e di avvenimenti. In tale processo questo rapporto mostra una duplice direzione, verso le epoche e verso il progresso dell'umanità. 6. Il problema del valore nella storia. Si dice che in tal modo sorga soltanto la coscienza della relatività storica. Senza dubbio la relatività è propria di ogni fenomeno storico per fatto che esso è finito... Si pone però il problema seguente: ciò che viene espresso nelle categorie storiche sussiste soltanto come momento del movimento storico? in altri termini, nella storia è contenuto qualcosa che ha valore solamente in quanto sorge, agisce e tramonta in questa connessione? ed è possibile per caso una determinazione di valori separata da questo corso? L’ultimo problema di una critica della ragione storica su questa direzione è il seguente. Ovunque nella storia c’è formulazione e selezione nella ricerca della connessione interna, ovunque c'è un progresso secondo i rapporti di finitudine, dolore, forza, antitesi, accumulazione, che lega una parte della storia con le altre, e la forza, il valore, il significato e lo scopo sono ovunque gli elementi a cui è legata la connessione storica: ma la connessione, il valore, il significato, lo scopo, quali essi vengono colti nell’esperienza, costituiscono l’ultima parola dello storico? La strada che imbocco è determinata dai seguenti princìpi: il concetto di valore deriva dalla vita, e il criterio per ogni giudizio è offerto da concetti relativi di valore, di significato e di scopo, propri di certe nazioni e di certe epoche. Occorre perciò illustrare come questi si siano ampliati in qualcosa di assoluto: ciò vuol dire, insomma, il pieno riconoscimento dell’immanenza dei valori e delle norme, anche presentantisi come incondizionati, nella coscienza storica. 7. Conclusione. La coscienza storica della finitudine di ogni fenomeno storico, di ogni situazione umana o sociale, la coscienza della relatività di ogni specie di fede è l’ultimo passo verso la liberazione dell’uomo. Con esso l’uomo perviene alla sovranità di trovare in ogni Erlebnis il suo contenuto e di darsi a questo completamente, senza il vincolo di nessun sistema filosofico o religioso. La vita si libera dalla conoscenza concettuale; lo spirito diventa sovrano rispetto a tutte le ragnatele del pensiero dogmatico. Ogni bellezza, ogni santità, ogni sacrificio, rivissuti e interpretati, schiudono delle prospettive che rivelano una realtà. E così pure accogliamo in noi tutto ciò che c’è di malvagio, di terribile, di brutto, riconoscendo che occupa un posto nel mondo e che racchiude in sé una realtà, la quale dev'essere giustificata nella connessione del mondo: qualcosa su cui non ci si può illudere. E di fronte alla relatività si fa valere, come il fatto storico essenziale, la continuità della forza creatrice. Così dall’Erleden, dall’intendere, dalla poesia e dalla storia deriva un'intuizione della vita, la quale esiste sempre in e con questa. La riflessione la eleva a distinzione e a chiarezza concettuale. La considerazione teleologica del mondo e della vita viene riconosciuta come una metafisica che poggia su una visione unilaterale, non arbitraria cioè ma parziale, della vita, e la dottrina di un valore oggettivo della vita come una metafisica che va oltre ogni possibile esperienza. Ma noi abbiamo esperienza di una connessione della vita e della storia, in cui ogni parte ha un significato. Come le lettere di una parola, la vita e la storia hanno un senso, e come una particella o una coniugazione, nella vita e nella storia vi sono momenti sintattici che hanno un significato. Ogni uomo procede alla sua ricerca. Nel passato si è cercato di penetrare la vita in base al mondo; ma c'è solo la via che procede dall’interpretazione della vita al mondo, e la vita esiste solo nell’Erleben, nell’intendere e nella comprensione storica. Noi non rechiamo nella vita nessun senso del mondo. Noi siamo aperti alla possibilità che senso e significato sorgano soltanto nell’uomo e nella sua storia. Ma non nell’uomo singolo, bensì nell’uomo storico, poiché l’uomo è un essere Storico. Tra i motivi che sempre dànno nuovo alimento allo scetticismo, l’anarchia dei sistemi filosofici è uno dei più potenti. Tra la coscienza storica della loro illimitata molteplicità e la pretesa di ognuno di essi a una validità universale sussiste una contraddizione che sostiene lo spirito scettico in misura maggiore di qualsiasi dimostrazione sistematica. Illimitata, caotica, la molteplicità dei sistemi filosofici sta alle nostre spalle e si estende intorno a noi: in ogni tempo, fin da quando esistono, essi si sono esclusi e combattuti a vicenda. E non si intravvede alcuna speranza che si possa giungere a una decisione tra di essi. La storia della filosofia conferma questo effetto che l’antitesi dei sistemi filosofici, delle intuizioni religiose e dei princìpi etici ha sull’incremento della scepsi. La lotta tra le spiegazioni del mondo del pensiero greco più antico produsse la filosofia del dubbio all’epoca dell’illuminismo greco. Quando le campagne di Alessandro e l’unione di differenti popoli in regni più grandi misero davanti agli occhi dei Greci le diversità dei costumi, delle religioni, delle visioni della vita e del mondo, si * Die Typen der Weltanschauung und ihre Ausbildung in den metaphysischen Systemen, nella raccolta Weltanschauung, Philosophie und Religion in Darstellungen (a cura di M. Frischeisen-Kéhler), Berlin, Verlag Reichl und Co., 1911, pp. 1-51, ora in Gesammelte Schriften, Leipzig und Berlin, vol. VIII, 1931, pp. 75-118 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi). 214 WILHELM DILTHEY formarono le scuole scettiche, le quali estesero le loro operazioni corrosive anche ai problemi della teologia — il male e la teodicea, il conflitto tra la personalità divina e la sua infinitezza e perfezione — e alle assunzioni concernenti il fine etico dell'uomo. Anche il sistema di credenze dei popoli europei moderni e la loro dogmatica filosofica vennero seriamente scossi, nella loro universale validità, dal momento in cui — alla corte di Federico II Hohenstaufen — Maomettani e Cristiani pervennero a un raffronto reciproco delle loro convinzioni e nell'orizzonte del pensiero scolastico penetrò la filosofia di Averroè e di Aristotele. E quando l’antichità risorse, quando gli scrittori greci e romani furono compresi nei loro autentici motivi e l'epoca delle scoperte geografiche pervenne a conoscere in misura crescente la varietà dei climi, dei popoli e dei loro modi di pensare presenti sul nostro pianeta, scomparve del tutto la fiducia degli uomini nelle credenze fin allora saldamente delimitate. Oggi i viaggiatori accertano e annotano con cura i più diversi tipi di fede; noi registriamo e analizziamo i potenti, grandi fenomeni delle convinzioni religiose e metafisiche che si trovano presso i ceti sacerdotali dell'Oriente, nelle città-stato greche, nella cultura araba. Noi guardiamo indietro alla sconfinata distesa di rovine delle tradizioni religiose, delle affermazioni metafisiche, dei sistemi dimostrati: lo spirito umano ha tentato e saggiato, nel corso di molti secoli, possibilità di ogni tipo per fondare scientificamente la connessione delle cose, per rappresentarla poeticamente o per annunciarla religiosamente; e la ricerca storica condotta con metodo critico indaga ogni frammento, ogni residuo di questo lungo lavoro compiuto dalla nostra specie. Ogni sistema esclude l’altro, lo confuta; e nessuno riesce a dimostrare se stesso. Nelle fonti storiche non ci è dato trovare nulla di analogo al sereno dialogo che caratterizza la Scuola d’Atene dipinta da Raffaello, espressione della tendenza eclettica di quel tempo. In tal modo la contraddizione tra la crescente coscienza storica e la pretesa delle filosofie a una validità universale è diventata sempre più aspra, e sempre più generale la disposizione alla curiosità dilettevole nei confronti di nuovi sistemi filosofici, quale che sia il pubblico che possono raccogliere intorno a sé e il tempo per cui possono trattenerlo. WILHELM DILTHEY 215 2. Assai più in profondo delle conclusioni scettiche che muovono dal carattere antitetico delle opinioni umane giungono però i dubbi cresciuti sul terreno della progressiva formazione della coscienza storica. Era un tipo d’uomo compiuto, dotato di un contenuto spirituale determinato, che costituiva il presupposto dominante del pensiero storico dei Greci e dei Romani. Questo stesso tipo stava alla base della dottrina cristiana del primo e del secondo Adamo, del figlio dell'uomo. Il sistema naturale del secolo xvi era sorretto dal medesimo presupposto. Il sistema naturale scoprì nel Cristianesimo un paradigma astratto e durevole di religione — la teologia naturale; dalla giurisprudenza romana astrasse la dottrina del diritto naturale e dalla produzione artistica greca un modello di gusto. Secondo questo sistema naturale, in ogni diversità storica erano quindi contenute forme fondamentali, costanti e universali, di ordinamenti sociali e giuridici, di fede religiosa e di eticità. II metodo di derivare dalla comparazione delle forme di vita storica un elemento comune, di estrarre dalla molteplicità dei costumi, delle proposizioni giuridiche e delle teologie, attraverso il concetto di un tipo supremo, un diritto naturale, una teologia naturale e una morale razionale — secondo un procedimento che, a partire da Ippia!, si era sviluppato attraverso lo Stoicismo e il pensiero romano — dominava ancora il secolo della filosofia costruttiva. La dissoluzione del sistema naturale ebbe inizio con lo spirito analitico del secolo xvi. Esso prese l’avvìo dall'Inghilterra, dove la più libera prospettiva su forme di vita, costumi e modi di pensare barbari e stranieri si incontrerà con le teorie empiristiche e con l'applicazione del metodo analitico alla teoria della conoscenza, alla morale, all'estetica. Con Voltaire e Montesquieu questo spirito passò poi in Francia. Hume e d’Alembert, Condillac e Destutt de Tracy? videro nel fascio I. Ippia di Elide, sofista vissuto tra la seconda metà del secolo v e la prima del secolo Iv a. C., si occupò di problemi matematici e astronomici, nonché di grammatica, di retorica e di dialettica. Dilthey si riferisce qui alla distinzione tra « leggi scritte », proprie delle singole città, e le « leggi non scritte », comuni a tutti gli uomini e aventi il loro fondamento nella natura. 2. Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy (1754-1836), sviluppò la teoria della conoscenza di Condillac nell'« ideologia », concepita come analisi delle facoltà e del pro216 WILHELM DILTHEY di impulsi e di associazioni — così concepirono l’uomo — illimitate possibilità di far emergere le forme più svariate tra la diversità di clima, di costumi e di educazione. L'espressione classica di questo modo di considerazione storica furono la Natural History of Religion e i Dialogues concerning Natural Religion di Hume. E dai lavori di questo secolo xvi scaturì già l’idea dello sviluppo, che doveva poi dominare il secolo xix. Da Buffon? fino a Kant e a Lamarck* viene acquisita la conoscenza dello sviluppo della terra, del succedersi su di essa di differenti forme di vita. D'altra parte si formava, in lavori di importanza decisiva, lo studio dei popoli civili: a partire da Winckelman, Lessing e Herder, questi lavori applicarono ovunque l’idea di sviluppo. Da ultimo, nello studio dei popoli primitivi si trovò l’elemento intermedio tra la dottrina scientifica dello sviluppo e le conoscenze storico-evolutive fondate sulla vita statale, sulla religione, sul diritto, sui costumi, sul linguaggio, sulla poesia e sulla letteratura dei popoli. In tal modo il punto di vista storico-evolutivo poteva venir realizzato nello studio dell’intero sviluppo naturale e storico dell’uomo, e il tipo «uomo» si risolveva in questo processo di sviluppo. La dottrina dello sviluppo così formatasi è necessariamente legata alla conoscenza della relatività di ogni forma di vita storica. Di fronte allo sguardo che abbraccia la terra e tutto il passato scompare la validità assoluta di qualsiasi singola forma di vita, costituzione, religione o filosofia. Così la formazione della coscienza storica distrugge, ancora più radicalmente della disputa tra i vari sistemi, la fede nella validità universale di qualsiasi filosofia che abbia voluto esprimere in modo rigoroso la connessione del mondo mediante una connessione concettuacesso di formazione e di combinazione delle idec. La sua opera principale è rappresentata dagli E/4ments d'idéologie (1801-17). 3. Gcorges-Louis Leclerc conte di Buffon (1707-1788), grande naturalista autore di una monumentale Histoire naturelle, générale et particuliòre (1749-1804), intraprese per primo un tentativo di classificazione sisternatica delle specie viventi affermando la loro continuità nell’ambito della « catena » degli esseri. 4. Jcan-Baptiste-Pierre-Antoine de Monet de Lamarck (1744-1829), naturalista autore di numerose opere tra cui la Philosophie zoologique (1809) e la Histoire naturelle des animaux sans vertèbres (1815-22), fu tra i fondatori della teoria evoluzionistica: egli affermò la capacità di trasformazione delle specie biologiche in conseguenza del rapporto con l'ambiente, nonché la trasmissibilità dei caratteri acquisiti nel corso della trasformazione. WILHELM DILTHEY 217 le. La filosofia deve cercare non già nel mondo ma nell’uomo la connessione interna delle proprie conoscenze. Intendere la vita vissuta dell’uomo — questa è l’aspirazione dell’uomo moderno. La molteplicità dei sistemi, che hanno cercato di cogliere la connessione del mondo, è in connessione manifesta con la vita; essa è una delle sue creazioni più importanti e più istruttive, per cui la stessa formazione della coscienza storica, che ha esercitato una funzione così distruttiva rispetto ai grandi sistemi, dovrà fornirci gli strumenti per eliminare l’aspra contraddizione esistente tra la pretesa di validità universale di ogni sistema filosofico e l'anarchia storica di questi sistemi. I. VITA E INTUIZIONE DEL MONDO 1. La vita. La radice ultima dell’intuizione del mondo è la vita. Diffusa sulla terra in innumerevoli corsi di vita particolari, rivissuta in ogni individuo, saldamente assicurata nella risonanza del ricordo — dal momento che, in quanto mero attimo del presente, si sottrae all’osservazione — e d’altra parte afferrabile più compiutamente in tutta la sua profondità, così come essa si è oggettivata nelle sue manifestazioni, da parte dell’intendere e dell’interpretazione che non in qualsiasi percezione interiore e in qualsiasi apprendimento del proprio Er/ebris, la vita ci è presente nel nostro sapere in innumerevoli forme, e mostra tuttavia ovunque gli stessi tratti comuni. Tra le sue diverse forme ne metto in rilievo «24. Non spiego, non separo in parti; mi limito a descrivere lo stato che ognuno può osservare in se stesso. Ogni pensiero, ogni azione interna o esterna emerge come una punta raccolta e penetra avanti. Mi è però anche possibile rivivere uno stato di quiete interiore; esso è sogno, gioco, distrazione, sguardo all’intorno e lieve agilità — come sostrato della vita. In esso comprendo altri uomini e altre cose non soltanto come realtà che stanno con me e tra di loro in una connessione causale: da me si dipartono in ogni direzione relazioni vitali, io mi rapporto a uomini e cose, prendo posizione nei loro confronti, soddisfo le loro esigenze verso di me e mi attendo da essi qualcosa. Le une mi rendono felice, ampliano la mia esistenza, accrescono la mia forza; le altre esercitano su di me una pressione e mi limitano, E dove la determinatezza della singola tendenza che spinge in avanti lascia spazio all’uomo, egli nota e sente queste relazioni. L'amico è per lui una forza che innalza la sua esistenza, ogni membro della famiglia ha un posto determinato nella sua vita, e tutto quanto lo circonda viene da lui inteso come vita e come spirito che si sono oggettivati. La panca davanti alla porta di casa, l’albero ombroso, la casa e il giardino hanno in questa oggettivazione la loro essenza e il loro significato. È in questo modo che la vita di ogni individuo crea da sé il proprio mondo. 2. L'esperienza della vita. Dalla riflessione sulla vita sorge l’esperienza della vita. I singoli eventi, che il fascio di impulsi e di sentimenti richiama in noi all'atto dell’incontro con il mondo circostante e col destino, vengono in essa raccolti in un sapere oggettivo e universale. Nello stesso modo in cui la natura umana è sempre la medesima, sono comuni a tutti anche i tratti fondamentali dell'esperienza della vita: la transitorietà delle cose umane e la nostra forza di godere l’attimo; la tendenza delle nature forti o anche limitate a superare questa transitorietà con la costruzione di una solida impalcatura della loro esistenza; l’insoddisfazione delle nature meno resistenti o più pensierose di fronte ad essa e la nostalgia per un elemento realmente duraturo in un mondo invisibile; la penetrante potenza delle passioni che, come un sogno, creano immagini fantastiche finché in esse si smarrisce l'illusione. Così l’esperienza della vita si forma in maniera differente nei singoli individui. Il loro substrato comune in tutti è formato dalle intuizioni della potenza del caso, della corruttibilità di tutto ciò che possediamo, amiamo o anche odiamo e temiamo, della costante presenza della morte, che determina onnipotente per ciascuno di noi il significato e il senso della vita. Nella catena degli individui sorge l’esperienza universale della vita. Sulla base della ripetizione regolare delle singole esperienze si forma — nella coesistenza e nella successione deWILHELM DILTHEY 219 gli uomini — una tradizione di espressioni, che col trascorrere del tempo acquistano una precisione e sicurezza sempre maggiore. La loro sicurezza poggia sul numero sempre crescente dei casi da cui perveniamo a una conclusione, sulla loro subordinazione a generalizzazioni precedenti e su una continua verifica. Anche dove, in un singolo caso, i princìpi dell’esperienza della vita non vengono recati a coscienza, essi agiscono su di noi. Tutto quanto ci domina sotto forma di costume, di consuetudine, di tradizione, è fondato su tali esperienze della vita. Ma sempre, nelle esperienze particolari come in quelle universali, il tipo di certezza e il carattere della formulazione è assolutamente diverso dalla validità universale propria della scienza. Il pensiero scientifico può controllare il procedimento sul quale poggia la sua sicurezza, può formulare esattamente e fondare le sue proposizioni: la nascita del nostro sapere dalla vita non può essere controllato nello stesso modo, e non possiamo progettare formule fisse per esprimerla. A queste esperienze della vita appartiene anche il saldo sistema di relazioni entro cui l’identità dell'io è collegata con le altre persone e con gli oggetti esterni. La realtà di se stesso, delle persone estranee, delle cose intorno a noi, e le loro relazioni regolari formano l’impalcatura dell’esperienza della vita e della coscienza empirica che in essa si forma. L’io, le persone, le cose circostanti possono essere designati come fattori della coscienza empirica, che ha la sua consistenza nelle relazioni reciproche di questi fattori. E quali che siano le procedure del pensiero filosofico mediante cui esso astrae dai singoli fattori o dalle loro relazioni, questi rimangono i presupposti determinanti della vita stessa, indistruttibili al pari di essa e non modificabili da alcun pensiero, in quanto sono fondati nell'esperienza della vita di innumerevoli generazioni. Tra queste esperienze della vita le più importanti sono quelle che fondano la realtà del mondo esterno e le mie relazioni con esso, poiché limitano la mia esistenza, esercitano su di essa una pressione che non posso eliminare e ostacolano le mie intenzioni in una maniera inattesa e non modificabile. L’insieme delle mie induzioni, la somma del mio sapere riposa su questi presupposti fondati nella coscienza empirica. 220 WILHELM DILTHEY 3. Il mistero della vita. Dalle mutevoli esperienze della vita emerge, di fronte all’apprendimento orientato verso la totalità, il volto della vita: volto contraddittorio, vitalità e al tempo stesso legge, ragione e arbitrio, volto che offre aspetti sempre nuovi, e quindi chiaro forse nei particolari ma completamente misterioso nell’insieme. L’anima cerca di raccogliere in un complesso le relazioni della vita e le esperienze in esse fondate, ma non vi riesce. Al centro di tutte le cose incomprensibili stanno la procreazione, la nascita, lo sviluppo e la morte. Il vivente sa della morte, e non è tuttavia in grado di intenderla. Già dal primo sguardo a un morto, la morte risulta incomprensibile alla vita: su ciò poggia anzitutto la nostra posizione di fronte al mondo come a qualcosa di altro, di estraneo e di terribile. Nel fatto della morte vi è quindi una forza che costringe a rappresentazioni fantastiche che hanno il compito di rendere intelligibile questo fatto; fede nei morti, culto degli antenati, culto dei trapassati generano le rappresentazioni fondamentali della fede religiosa e della metafisica. E l’estraneità della vita si accresce nella misura in cui l’uomo sperimenta nella società e nella natura una lotta permanente, l’annientamento continuo di una creatura da parte di un’altra, la spietatezza di ciò che opera nella natura. Emergono strane contraddizioni che nell'esperienza della vita vengono sempre più forti alla coscienza e non sono mai risolte: tra l’universale transitorietà e la volontà in noi presente verso qualcosa di saldo, tra la potenza della natura e l'autonomia del nostro volere, tra la limitatezza di ogni cosa nello spazio e nel tempo e la nostra facoltà di oltrepassare ogni limite. Questi misteri hanno impegnato i sacerdoti egizi e babilonesi al pari della predicazione cristiana, Eraclito al pari di Hegel, il Prometeo eschileo al pari del Faust di Goethe. 4. La legge di formazione delle intuizioni del mondo. Ogni grande impressione mostra all'uomo la vita in un aspetto particolare; il mondo appare in una luce diversa; dal momento che queste esperienze si repetono e si connettono, sorgono le nostre disposizioni interiori nei confronti della vita. WILHELM DILTHEY 221 Da una relazione vitale la vita intera riceve una colorazione e un’interpretazione nelle anime affettive o pensierose — così sorgono le disposizioni universali. Esse cambiano man mano che la vita mostra all'uomo aspetti sempre nuovi; ma nei diversi individui predominano, secondo la loro essenza, determinate disposizioni di vita. Gli uni si attaccano alle cose concrete, sensibili, e vivono nel godimento immediato; altri perseguono, attraverso il caso e il destino, grandi scopi che dànno durata alla loro esistenza; vi sono nature gravi che non sopportano la transitorietà di ciò che amano e posseggono, e alle quali la vita appare quindi priva di valore e quasi intessuta da vanità e da sogni, oppure che cercano qualcosa di permanente al di là di questa terra. Le più universali tra le grandi disposizioni di vita sono l’ottimismo e il pessimismo. Essi si differenziano però in svariate sfumature. A chi lo contempla in qualità di spettatore, il mondo — estraneo — appare come uno spettacolo variopinto e fuggevole; a chi governa ordinatamente la propria vita secondo un progetto, lo stesso mondo appare invece familiare, di casa: egli sta nel mondo a pie’ fermo e appartiene ad esso. Queste disposizioni di vita, le innumerevoli sfumature della posizione di fronte al mondo, costituiscono il terreno per laformazione delle intuizioni del mondo. In queste si compiono, sulla base delle esperienze di vita in cui sono operanti le molteplici relazioni vitali degli individui nei confronti del mondo, i tentativi per risolvere il mistero della vita. E proprio nelle loro forme superiori si fa valere in modo particolare un procedimento: la comprensione di un dato incomprensibile mediante uno più chiaro. Ciò che è chiaro diventa mezzo di comprensione o fondamento di spiegazione di ciò che è incomprensibile. La scienza analizza, e quindi sviluppa relazioni generali dalle situazioni omogenee così isolate; religione, poesia e metafisica originaria esprimono il significato e il senso della totalità. Quella conosce, queste intendono. Una tale interpretazione del mondo, che rende trasparente la sua essenza molteplice attraverso un'essenza più semplice, comincia già col linguaggio, per svilupparsi poi nella metafora in quanto sostituzione di un'intuizione mediante un’altra affine che la rende in qualche senso più chiara, nella personificazione che avvicina e rende comprensibile umanizzando, oppure attraverso ragionamenti analogici, che determinano il meno noto a partire dal più noto sulla base dell’affinità e così si accostano ormai al pensiero scientifico. Ovunque la religione, il mito, la poesia e la metafisica originaria cercano di rendere qualcosa intelligibile e capace di suscitare impressione, ciò avviene mediante il medesimo procedimento. |, 5. La struttura dell’intuizione del mondo. Tutte le intuizioni del mondo, quando si propongono di fornire una soluzione compiuta del mistero della vita, contengono di regola la stessa struttura. Questa struttura è sempre una connessione in cui, sulla base di un'immagine del mondo, vengono decise le questioni relative al significato e al senso del mondo, e da essa vengono derivati l’ideale, il sommo bene, i princìpi supremi della condotta della vita. Essa è determinata dalla legalità psichica in virtù della quale l'apprendimento della realtà nel corso della vita costituisce la base per la valutazione delle situazioni e degli oggetti secondo i criteri di piacere e di dispiacere, di gradevole e di sgradevole, di approvazione e di disapprovazione; e questa valutazione della vita forma quindi a sua volta il substrato delle determinazioni del volere. Il nostro comportamento attraversa regolarmente queste tre posizioni della coscienza, e la natura peculiare della vita psichica si fa valere nel fatto che in tale connessione dinamica persiste lo strato sottostante: le relazioni presenti negli atteggiamenti in base a cui io giudico gli oggetti, provo piacere di fronte ad essi e sono indirizzato alla realizzazione di qualcosa in essi, determinano la costruzione di questi diversi strati e costituiscono in tal modo la struttura delle formazioni in cui la connessione dinamica della vita psichica. trova la propria espressione. La lirica mostra nella forma più semplice questa connessione — una situazione, una successione di sentimenti da cui spesso scaturisce un desiderio, una tensione, un'azione. Ogni rapporto vitale si sviluppa verso una connessione in cui le medesime forme di atteggiamento sono legate strutturalmente. Così anche le intuizioni del mondo sono formazioni regolari in cui si esprime questa struttura della vita psichica. Il loro substrato è sempre un'immagine del mondo; essa sorge dall’atteggiamento dell’apprendere quale si presenta nella successione regolare dei gradi del conoscere. Noi osserviamo processi interiori e oggetti esterni. Noi spieghiamo le percezioni che in questo modo sorgono rendendo in esse trasparenti, mediante le funzioni clementari del pensiero, i rapporti fondamentali del reale; quando le percezioni svaniscono, esse vengono tuttavia riprodotte e ordinate nel nostro universo di rappresentazioni, che ci solleva al di sopra dell’accidentalità delle percezioni; la saldezza e la libertà che lo spirito acquisisce a questo livello, il suo dominio sulla realtà giungono poi a compimento nella regione dei giudizi e dei concetti, dove la connessione e l’essenza del reale vengono colte come fornite di validità universale. Quando un’intuizione del mondo giunge al suo pieno sviluppo, ciò avviene di regola a questi gradi di conoscenza della realtà. A questo punto su di essa si costruisce un altro atteggiamento tipico, in un’analoga regolare successione di livelli. Nel sentimento di noi stessi assaporiamo il valore della nostra esistenza, attribuiamo a persone e a oggetti che ci circondano una capacità di influenza sulla nostra esistenza, in quanto la elevano e la estendono: quindi determiniamo questi valori secondo le possibilità di recar giovamento 0 danno che sono contenute negli oggetti, valutiamo tali possibilità e cerchiamo per questa valutazione una misura incondizionata. In tal modo situazioni, persone e cose acquistano un significato in rapporto al complesso della realtà, e questo ne riceve un senso. Percorrendo questi gradi nell’ atteggiamento del sentire si forma per così dire, nella struttura dell’intuizione del mondo, un secondo strato; l’immagine del mondo diventa fondamento della vita e della comprensione del mondo. Secondo la medesima legalità della vita psichica, dall’apprezzamento della vita e dalla comprensione del mondo emerge uno stato supremo della coscienza: gli ideali, il sommo bene e i princìpi supremi in cui l'intuizione del mondo ottiene la sua energia pratica — come dire, la punta con cui essa si apre un varco nella vita umana, nel mondo esterno e nella profondità dell'anima. L’intuizione del mondo si fa ora formatrice, plasmatrice. riformatrice! E anche questo stato supremo dell’intuizione del mondo si sviluppa attraverso gradi differenti. Dall’intenzione, dalla tensione, dalla tendenza si sviluppano le posizioni di scopo durevoli indirizzate alla realizzazione di una rappresentazione, il rapporto tra scopi e mezzi, la scelta tra gli scopi, la selezione dei mezzi e infine la connessione delle posizioni di scopo in un ordinamento supremo del nostro comportamento pratico — in un progetto complessivo di vita, in un sommo bene, in norme supreme dell’agire, in un ideale di formazione della vita personale e della società. Questa è la struttura dell’intuizione del mondo. Ciò che è confusamente contenuto come un fascio di compiti nel mistero della vita, viene qui elevato a una connessione consapevole e necessaria di problemi e di soluzioni. Questa progressione si svolge secondo gradi determinati in maniera regolare dall’interno: ne consegue che ogni intuizione del mondo ha uno sviluppo e nel corso di questo perviene all’esplicazione del suo contenuto; essa ottiene così gradualmente durata, saldezza e potenza, nel corso del tempo: essa è un prodotto della storia. 6. La molteplicità delle intuizioni del mondo. Le intuizioni del mondo si sviluppano in condizioni differenti. Il clima, le razze, le nazioni determinate attraverso la storia e la formazione degli stati, le delimitazioni temporalmente condizionate secondo epoche ed età in cui le nazioni cooperano, si collegano alle condizioni specifiche che producono la molteplicità delle intuizioni del mondo. La vita, che nasce in queste condizioni specificate, ha moltissimi aspetti; lo stesso vale per l’uomo che apprende la vita. A queste differenze tipiche si aggiungono quelle delle singole individualità, del loro ambiente e della loro esperienza di vita. Nello stesso modo in cui la terra è ricoperta di innumerevoli forme viventi, tra le quali ha luogo una lotta continua per la sopravvivenza e per lo spazio vitale, nel mondo umano si sviluppano le forme di intuizione del mondo, contendendosi tra loro il potere sull’anima. Si fa così valere un rapporto regolare per cui l’anima, spinta dall’incessante mutamento delle impressioni e dei destini, nonché dalla potenza del mondo esterno, deve tendere a una saldezza interiore per potersi contrapporre a tutto ciò: essa viene condotta dal mutamento, dalla discontinuità, dallo scivolare e dal fluire della sua costituzione, delle sue intuizioni della vita, a una valutazione durevole della vita e a fini ben definiti. Le intuizioni del mondo che promuovono la comprensione della vita e conducono a fini utili, si conservano e soppiantano quelle che meno rispondono a queste esigenze. Si compie così una selezione tra di esse. E nella successione delle generazioni le intuizioni del mondo più vitali si sviluppano verso una forma sempre più compiuta. E come nella molteplicità della vita organica opera la stessa struttura, così anche le intuizioni del mondo sono formate secondo un medesimo schema. Il profondo mistero della loro specificazione ha la sua base nella regolarità che la connessione teleologica della vita psichica imprime alla particolare struttura delle formazioni di intuizione del mondo. i AI centro dell’apparente accidentalità di queste formazioni vi è, in ognuna di esse, una connessione teleologica che scaturisce dalla reciproca dipendenza delle questioni contenute nel mistero della vita, e in modo particolare dal rapporto costante tra immagine del mondo, apprezzamento della vita e fini della volontà. Una comune natura umana e un ordine dell’individuazione stanno in salde relazioni vitali con la realtà; e quest'ultima è sempre e dovunque la stessa, la vita mostra sempre gli stessi aspetti. In questa regolarità della struttura dell’intuizione del mondo e del suo differenziarsi in forme particolari si presenta un momento impercettibile: le variazioni della vita, il mutamento delle epoche, le trasformazioni della situazione scientifica, il genio delle nazioni e degli individui. In virtù di ciò cambia incessantemente l’interesse ai problemi, la potenza di determinate idee che sorgono dalla vita storica e che la dominano; nelle intuizioni del mondo si fanno valere, secondo il luogo storico che occupano, combinazioni sempre nuove dell’esperienza della vita, disposizioni interiori e pensieri sempre nuovi: esse sono irregolari in conformità ai loro elementi, alla forza e al significato che questi ultimi assumono nel complesso. Tuttavia, a causa della legalità che opera nel profondo della struttura e della regolarità logica, esse non sono aggregati ma formazioni. A questo punto, sottoponendo queste formazioni a un procedimento comparativo, risulta inoltre che esse si ordinano in gruppi all’interno dei quali sussiste una certa affinità. Come le lingue, le religioni, gli stati rivelano — in virtù del metodo comparativo — certi tipi, certe linee di sviluppo e regole di trasformazione, la stessa cosa si può mostrare anche nelle intuizioni del mondo. Questi tipi attraversano la singolarità storica delle formazioni particolari. Essi sono sempre condizionati dalla particolarità propria del campo in cui sorgono. Ma volerli derivare da tale particolarità è stato un grave errore, proprio del metodo costruttivo. Soltanto il procedimento storico comparativo può accostarsi alla determinazione di questi tipi, delle loro variazioni, dei loro sviluppi e incroci. La ricerca deve pertanto tener sempre aperta, nei confronti dei suoi risultati, ogni possibilità di prosecuzione. Qualsiasi analisi è solamente provvisoria. Essa è e rimane nient’altro che uno strumento per vedere in modo storicamente più profondo. E al procedimento storico comparativo si collega sempre la sua preparazione mediante l’osservazione sistematica e l’interpretazione dell’elemento storico che ne scaturisce. Anche quest’interpretazione psicologica e storico-sistematica della realtà storica è esposta all'errore del pensiero costruttivo, che in ogni campo dell’ordinamento vuol porre alla base un rapporto semplice, come se fosse un impulso formativo in esso presente. Riassumiamo ora quanto è stato fin qui posto in luce in un principio, che la considerazione storica comparativa conferma in ogni punto. Le intuizioni del mondo non sono prodotti del pensiero; esse non nascono dalla mera volontà di conoscenza. L'apprendimento della realtà è certo un momento importante, ma è soltanto un momento. Esse scaturiscono dall’atteggiamento di vita, dall'esperienza della vita, dalla struttura della nostra totalità psichica. L’elevazione della vita a coscienza nella conoscenza della realtà, nella valutazione della vita e nell'operazione della volontà è il lungo e difficile lavoro che l'umanità ha compiuto nello sviluppo delle intuizioni della vita. Questo principio della dottrina delle intuizioni del mondo riceve conferma se poniamo mente al corso della storia nel suo insieme: mediante tale corso risulta confermata una conseguenza importante del nostro principio, che ci riporta al punto di partenza di questo saggio. La formazione delle intuizioni del mondo è determinata dalla volontà rivolta alla stabilità dell’immagine del mondo, della valutazione della vita, dell’azione delWILHELM DILTHEY 227 la volontà, derivante dal carattere fondamentale — sopra descritto — della successione di gradi dello sviluppo psichico. Sia la religione sia la filosofia cercano la stabilità, l’efficacia, il dominio, la validità universale. Ma su questa via l'umanità non ha fatto un solo passo avanti. La lotta reciproca tra le intuizioni del mondo non è pervenuta ad alcuna decisione in nessuno dei suoi punti nodali. Certamente la storia compie una selezione tra di esse, ma i grandi tipi permangono autosufficienti, indimostrabili e indistruttibili, gli uni accanto agli altri. Essi non devono la loro origine ad alcuna dimostrazione, perché non possono essere risolti da alcuna dimostrazione. I singoli gradi e le formazioni specifiche di un tipo vengono sì confutate, ma la loro radice nella vita perdura, continua ad agire e produce sempre nuove formazioni. II. I TIPI DI INTUIZIONE DEL MONDO NELLA RELIGIONE, NELLA POESIA E NELLA METAFISICA Prendo le mosse da una distinzione tra le intuizioni del mondo che è condizionata dai campi della cultura in cui esse compaiono. Il fondamento della cultura è formato dall’economia, dalla vita sociale, dal diritto e dallo stato. In ciascun campo domina una divisione del lavoro in virtù della quale la singola persona assolve, in un determinato luogo storico del suo operare, una funzione determinata. Qui la volontà è inquadrata in compiti delimitati che vengono ad essa assegnati dalla connessione teleologica propria di un dato campo. La scienza introduce in questa connessione pratica della vita, mediante la conoscenza, una regolamentazione razionale del lavoro; in questo modo sta in connessione strettissima con la prassi e, poiché anch'essa sottostà alla legge della divisione del lavoro, ogni scienziato si prefigge, in un determinato campo e in un determinato punto del lavoro conoscitivo, un compito limitato. La stessa filosofia è sottomessa, in una parte dalle sue funzioni, a questa divisione del lavoro. Invece il genio religioso, poetico o metafisico vive in una regione in cui è sottratto al vincolo sociale, al lavoro racchiuso in compiti delimitati, alla subordinazione a ciò che 228 WILHELM DILTHEY può venir raggiunto nei limiti del tempo e della situazione storica. Ogni riguardo a tale vincolo falsifica anzi la sua comprensione della vita, che deve porsi di fronte a ciò che è dato in piena spontaneità e sovranità. Essa diventa non vera già a causa della limitazione della prospettiva, del riferimento a una situazione temporale — a causa di una qualsiasi tendenza. In questa regione della libertà sorgono e si formano le intuizioni del mondo più valide e più potenti. Le intuizioni del mondo sono però distinte nel genio religioso, in quello artistico e in quello metafisico secondo la loro legge di formazione, la loro struttura e i loro tipi. 1. L'intutzione religiosa del mondo. Le intuizioni religiose del mondo scaturiscono da un particolare rapporto di vita dell’uomo. Al di là della realtà dominabile in cui l’uomo primitivo — in quanto guerriero, cacciatore, lavoratore e fruitore del suolo — produce trasformazioni nel mondo esterno, mediante il suo agire fisico, in una razionale posizione di scopi, il campo di tale operare si estende fino all’inaccessibile, a ciò che non è attingibile da parte della conoscenza. E in quanto di qui gli sembrano procedere effetti che gli procurano fortuna nella caccia, successo nella guerra, mentre nella malattia, nella follia, nella vecchiaia, nella morte, nella perdita della moglie, dei figli, del gregge, si scopre dipendente da qualcosa di sconosciuto, nasce allora la tecnica diretta a influenzare questa realtà incomprensibile — che non si lascia dominare dall’attività fisica — con le proprie preghiere, con le proprie offerte, con la propria subordinazione. Egli vuole accogliere in sé le forze di esseri superiori, stabilire un buon rapporto con essi, unirsi ad essi. Le azioni dirette a questo fine costituiscono il culto originario. Nasce la professione dello stregone, del guaritore o del sacerdote; man mano che questo ceto si organizza sempre più saldamente, in esso si concentrano abilità, esperienza, sapere, e vi si forma un modo di vita particolare che lo separa dagli altri membri della società. In questo modo nelle piccole comunità chiuse dell’orda e della tribù nasce una tradizione di esperienza religiosa della vita, che si è sviluppata nel rapporto con gli esseri superiori, e di ordinamento spirituale di vita; e dalle pratiche del culto magico lo sviluppo di questa religiosità superstiziosa perviene a poco a poco fino al processo religioso, nel quale l'animo e la volontà dell’uomo vengono assoggettate mediante una disciplina interiore al volere divino. II momento decisivo risiede nel modo in cui le idee religiose primitive si sviluppano sulla base degli Er/ebnisse, sempre e dovunque ricorrenti, della nascita, della morte, della malattia, dei sogni, della follia, sulla base di interventi malvagi o benefici dell'elemento demoniaco sul corso della vita, sulla base di strane commistioni di ordine nella natura — che comporta sempre un rapporto teleologico di colui che apprende nei confronti di essa — e infine sulla base del caso, della forza distruttiva e del conflitto. Il secondo io presente nell’uomo, le forze divine del cielo, nel sole e nelle stelle, il demoniaco nella foresta, nella palude e nelle acque — queste rappresentazioni fondamentali determinate da rapporti vitali costituiscono i punti di partenza di una vita fantastica condizionata affettivamente, che viene alimentata da esperienze religiose sempre nuove. L'influenza dell’invisibile è la categoria fondamentale della vita religiosa elementare. Il pensiero analogico combina poi le idee religiose fino a tradurle in dottrine concernenti l’origine del mondo, dell’uomo e dell’anima. L'influenza del soprasensibile, presente nelle cose e negli uomini, conferisce loro un significato religioso. Queste cose e questi uomini sono sensibili, visibili, distruttibili, limitati, e tuttavia sono una sede di influenze divine o demoniache. Il mondo è pervaso da un rapporto religioso di cose e persone singole, concrete e finite, con l’invisibile, in virtù del quale il loro significato religioso risiede nell'influenza dell’invisibile celata in esse. Luoghi e persone sacri, immagini della divinità, simboli, sacramenti sono tutti casi particolari di questo rapporto: nella religione esso ha lo stesso significato che possiede il simbolico nell'arte e il concettuale nella metafisica. E la traduzione diventa, all’interno del rapporto religioso — proprio a causa dell’oscurità della sua origine — una potenza di eccezionale efficacia. Questa è la base di tutto l’ulteriore sviluppo religioso. Mentre negli stadi primitivi opera in prevalenza lo spirito della comunità, il passaggio verso gradi superiori si compie in virtù 230 WILHELM DILTHEY del genio religioso — nei misteri, nella vita dell’eremita, nel profetismo. A influenze particolari tra l'uomo e gli esseri superiori subentra, nel genio religioso, un rapporto dell’uomo nella sua totalità nei confronti di essi. Questa esperienza religiosa concentrata raccoglie quindi le idee religiose elementari per tradurle in intuizioni religiose del mondo, le quali hanno la loro essenza nel fatto che qui l’interpretazione della realtà, l'apprezzamento della vita e l'ideale pratico scaturiscono dal rapporto con l’invisibile. Esse sono contenute nel discorso metafisico e nelle dottrine della fede; poggiano su una costituzione della vita; si sviluppano nella preghiera e nella meditazione. Tutte le formazioni tipiche di queste intuizioni religiose del mondo comportano, fin dal loro inizio, l’antitesi tra esseri benefici ed esseri malvagi, tra esistenza sensibile e mondo superiore. L’immanenza della religione universale negli ordinamenti della vita e nel corso naturale, l’Uno-Tutto spirituale che costituisce la verità, la connessione e il valore di tutte le cose particolari e a cui l’esistenza particolare deve quindi fare ritorno, la volontà divina creatrice che produce il mondo e che crea gli uomini secondo la sua immagine o che sta in opposizione a un regno del male e per combatterlo prende al suo servizio gli uomini pii — questi sono i tipi principali delle varie intuizioni religiose del mondo. E come fin dall'inizio il rapporto con l'invisibile è separato dal lavoro e dal godimento inerenti all’esistenza sociale terrena, così queste intuizioni religiose del mondo sono in contrasto permanente con la concezione mondana della vita: in questa si fa spesso valere, all’interno di tale antitesi, un naturalismo originario che trae la sua energia e la sua potenza proprio dall’antitesi nei confronti delle intuizioni religiose del mondo. Nelle epoche religiose troviamo quindi la lotta tra tipi diversi che mostrano una chiara affinità con quelli della metafisica. Il monoteismo giudaico-cristiano, la forma cinese e indiana di panenteismo e — per contro — la posizione e il modo di pensare naturalistici sono i gradi preliminari e i punti di partenza per l'ulteriore sviluppo della metafisica. Ma il rapporto religioso, con la sua magia, con le sue forze, le sue figure e i suoi luoghi di culto religiosi, con le immagini del simbolismo religioso, costituisce sempre il substrato delle intuizioni religiose del mondo, nello stesso modo in cui il popolo costituisce l'ampio strato inferiore della vita comunitaria della chiesa. In queste intuizioni del mondo si conserva sempre un nucleo oscuro, specificamente religioso, che il lavoro concettuale dei teologi non è mai in grado di spiegare e di giustificare. Mai può essere superata l’unilateralità di un’esperienza che scaturisce dal rapporto di preghiera, di sollecitazione, di sacrificio di sé con esseri superiori e che dalle relazioni dell'anima con essi perviene a coglierne i predicati. Di qui nasce un rapporto per cui l’intuizione religiosa del mondo è sì la preparazione di quella metafisica, ma non può mai risolversi completamente in quest’ultima. La dottrina giudaico-cristiana del dio puramente spirituale, che crea liberamente, e delle anime formate a sua immagine si è trasformata nell’idealismo monoteistico della libertà; le differenti forme della dottrina religiosa dell’Uno-Tutto hanno preparato il panenteismo metafisico; nella speculazione indiana, nei misteri e nella Gnosi si è sviluppato lo schema dell’emanazione della molteplicità del mondo dall’Uno e del ritorno in esso, qual è stato elaborato dai neoplatonici, da Bruno, da Spinoza e da Schopenhauer. Altrettanto chiara è la connessione che dal monoteismo conduce alla teologia scolastica dei pensatori giudaici, arabi e cristiani, e da essa a Descartes, a Wolff, a Kant e ai filosofi dell'età della Restaurazione nel secolo xrx. Ma per quanto il lavoro concettuale che la teologia compie nelle intuizioni religiose del mondo possa accostarle alla metafisica, la loro legge di formazione e la loro struttura le separano pur sempre dal pensiero metafisico. Il punto di vista unilaterale della costituzione religiosa della vita e dell’intuizione religiosa del mondo costituisce il loro limite. L’animo religioso è sempre, con le sue esperienze, nel giusto. Lo spirito progressivo riconosce che il fissarsi dell'anima al mondo sopra-sensibile — questo prodotto storico della tecnica sacerdotale — manteneva in piedi l’idealismo, sia pure in virtù di una trasposizione artificiosa, e imponeva un disciplinamento della vita, sia pure con ascetica rigidità, ma anche che il procedere dello spirito nella storia deve cercare posizioni più libere nei confronti della vita e del mondo, le quali non devono essere legate a tradizioni che scaturiscono da discutibili origini misteriose. Le posizioni dell’intuizione del mondo nella poesia. Nella religione cose e uomini acquistavano la loro significatività in virtà della fede nella presenza in essi di un forma soprasensibile. La significatività dell’opera d’arte consiste nel fatto che un elemento singolare, un dato sensibile viene separato dal nesso dei rapporti di causa ed effetto ed elevato a espressione ideale delle relazioni vitali così come esse ci parlano con il colore e la forma, la simmetria e la proporzione, gli accordi dei suoni e il ritmo, il processo psichico e l’accadimento. C'è in tutto questo una tendenza a formare un’intuizione del mondo? In sé, la produzione artistica non ha niente in comune con l’intuizione del mondo; ma il rapporto della costituzione vitale dell’artista con la sua opera ha qui tuttavia dato luogo a una relazione secondaria tra opera d’arte e intuizione del mondo. L’arte si è sviluppata, in un primo momento, sotto l’influenza della religione. L'ambito delle cose sacre è il suo oggetto più prossimo; gli scopi della comunità religiosa si fanno valere nell’architettura e nella musica; in questa connessione l’arte ha elevato il contenuto della religiosità all’eternità in cui scompaiono i dogmi transitori, e da questo contenuto è scaturita la forma interna dell’arte più alta — come mostrano l’epica religiosa di Giotto nella pittura, la grande architettura ecclesiastica e la musica di Bach e di Handel. Ciò che costituisce quindi l'andamento storico del rapporto dell’arte con le intuizioni del mondo è il fatto che la costituzione vitale dell’artista è pervenuta a una libera espressione sulla base di questo approfondimento religioso dell’arte. Questo non dev'essere cercato nell’introduzione di un’intuizione della vita nell’opera d’arte, bensì nella forma interna delle formazioni artistiche. È stato compiuto uno sforzo considerevole per comprovare la presenza di tale elemento nella pittura e per mostrare l’influenza delle tipiche costituzioni vitali — da cui scaturiscono l’intuizione naturalistica del mondo, quella eroica e quella panenteistica — sulla forma delle opere pittoriche. Un analogo rapporto si potrebbe mostrare anche nella creazione musicale. E quando artisti della potenza spirituale di un Michelangelo, di Becthoven, di Richard Wagner arrivano, in virtù di un impulso interiore, a formare un'intuizione del mondo, questa contribuirà a rafforWILHELM DILTHEY 233 zare l’espressione della loro costituzione vitale nella forma artistica. Tra le arti, però, la poesia ha un rapporto particolare con l'intuizione del mondo. Infatti il mezzo in cui essa opera, il linguaggio, le consente un'espressione lirica o una rappresentazione epica o drammatica di tutto ciò che può venir visto, udito, vissuto. Io non voglio qui tentare di definire l'essenza e la funzione della poesia. Svincolando un avvenimento dal nesso delle relazioni della volontà, e trasformando la sua rappresentazione in questo mondo dell’apparenza in un’espressione della natura della vita, la poesia libera l’anima dal peso della realtà e nel medesimo tempo ne rivela ad essa il significato. Soddisfacendo la segreta aspirazione dell’uomo, imprigionato dal destino e dalle proprie decisioni nei confini di una vita determinata, ad attuare nella fantasia quelle possibilità di vita che non ha potuto realizzare, essa amplia l’io dell'uomo e l'orizzonte delle sue esperienze di vita. Essa gli apre lo sguardo verso un mondo più alto e più forte. In tutto questo si esprime però il rapporto fondamentale su cui poggia la poesia: la vita costituisce il suo punto di partenza; i rapporti vitali con gli uomini, le cose, la natura diventano il suo nucleo; nel bisogno di raccogliere le esperienze che scaturiscono dai rapporti di vita sorgono così le disposizioni universali della vita, e la connessione di ciò che si è esperito nei singoli rapporti di vita è la coscienza poetica del significato della vita. Queste disposizioni universali stanno alla base del libro di Giobbe e dei Salmi, dei cori della tragedia attica, dei sonetti di Dante e di Shakespeare, della grandiosa conclusione della Divina Comme- dia, della grande lirica di Goethe, di Schiller e dei romantici, nonché del Faust di Goethe, dei Nibelunghi di Wagner e del- l'’Empedocle di Hòlderlin. La poesia non vuole quindi conosce- re la realtà così come fa la scienza, ma vuol mostrare la significatività dell’accadimento, degli uomini e delle cose, pre- sente nelle relazioni vitali; così il mistero della vita si con- centra qui in una connessione interna di tali relazioni, intessu- ta di uomini, di destini, di circostanze. In ogni grande epoca poetica si compie di nuovo, secondo una successione regolare, il passaggio dalla fede e dai costumi ad essa relativi, che si forma- no sulla base dell’universale esperienza di vita della comunità, 234 WILHELM DILTHEY al compito di rendere nuovamente intelligibile la vita in base ad essa stessa. Questa fu la via che ha condotto da Omero ai tragici attici, dalla fede cattolica alla lirica cavalleresca e all’epi- ca, dalla vita moderna a Schiller, Balzac, Ibsen. A questo passaggio corrisponde la successione delle forme poetiche nella quale dapprima si forma l’epica e quindi il dramma realizza la massima concentrazione, elaborando in una concezione della vita la connessione dei rapporti di azione, di carattere e di destino creati dalla vita, mentre il romanzo dispiega infine l’illimitata pienezza della vita ed esprime una coscienza del significato della vita. Concludiamo. L’emergere della poesia dalla vita la porta direttamente a esprimere nell’accadimento un'intuizione della vita stessa, concepita sulla base della sua particolare costituzio- ne. Essa si sviluppa poi nella storia della poesia, in cui questa si accosta gradualmente al suo fine di intendere la vita in base a essa stessa, esponendosi con piena libertà alle grandi impres- sioni vitali. Pertanto la vita mostra alla poesia aspetti sempre nuovi. La poesia indica in tal modo le possibilità illimitate di vedere la vita, di valutarla, di dare ad essa una nuova forma. L'accadimento diventa così simbolo, ma non di un pensiero, bensì di una connessione osservata nella vita — osservata a partire dall’esperienza di vita del poeta. È così che Stendhal e Balzac vedono nella vita un tessuto — creato senza finalità dalla natura stessa, in virtù di un oscuro impulso — di illusio- ni, di passioni, di bellezza e di corruzione, in cui la volontà forte si acquista la vittoria; Goethe vi scorge invece una forza formatrice che riunisce in una connessione dotata di valore le forme organiche, lo sviluppo umano e gli ordinamenti sociali; Corneille e Schiller vedono in essa il teatro di azioni eroiche. Ognuna di queste costituzioni vitali corrisponde a una forma interna della poesia. Di qui ai grandi tipi di intuizione del mondo non c’è che un passo, e il legame della letteratura con i movimenti filosofici conduce un Balzac, un Goethe, uno Schil- ler a questa perfezione suprema della comprensione della vita. In tal modo i tipi dell’intuizione poetica del mondo preparano quelli della metafisica, oppure trasmettono la loro influenza a tutta la società. WILHELM DILTHEY 235 3. 1 tipi di intuizione del mondo nella metafisica. Tutti i fili del discorso si intrecciano nella dottrina della struttura, dei tipi e dello sviluppo delle intuizioni del mondo nella metafisica. Riassumo i rapporti che sono qui decisivi. I. Il processo complessivo del sorgere e del consolidamento delle intuizioni del mondo spinge all’esigenza di elevarle a un sapere universalmente valido. Anche nei poeti di maggiore ca- pacità di pensiero le grandi impressioni sembrano illuminare sempre la vita sotto nuovi aspetti: la tendenza al consolidamen- to conduce al di là di esse. Nel nucleo delle religioni univer- sali rimane qualcosa di bizzarro e di estremo, che scaturisce dai più accentuati degli Erlebnisse religiosi, dalla fissazione dell'anima nell’invisibile propria della tecnica sacerdotale, e che è inaccessibile alla religione. L’ortodossia si irrigidisce su que- sto; la mistica e lo spiritualismo tentano di riportarlo all’Erle- ben; il razionalismo vuole afferrarlo concettualmente e si vede costretto a dissolverlo: così la volontà di dominio presente nel- le religioni universali — che si era appoggiata all'esperienza interiore dei credenti, alla tradizione e all’autorità — viene sostituita dall’esigenza della ragione di trasformare in conformi- tà a se stessa le intuizioni del mondo e di fondare razionalmen- te la propria validità. Quando l’intuizione del mondo viene così elevata a una connessione concettuale, e quando questa viene fondata scientificamente, presentandosi così con la pretesa di validità universale, allora nasce la metafisica. La storia mostra che, dovunque essa compaia, lo sviluppo religioso l’ha prepara- ta, che la poesia la influenza e che la costituzione vitale delle nazioni, il loro apprezzamento della vita e i loro ideali agisco- no su di essa. L’aspirazione a un sapere universalmente valido dà a questa nuova forma di intuizione del mondo la sua struttu- ra propria. Chi è in grado di dire quali siano i punti in cui la tenden- za al conoscere, che opera in tutte le connessioni teleologiche della società, diventa scienza? Il sapere matematico e astronomi- co dei Babilonesi e degli Egizi si è svincolato dai compiti pratici e dal legame con la casta sacerdotale, ed è così diventato autonomo, soltanto nelle colonie ioniche. E quando la ricerca prese a suo oggetto la totalità del mondo, la nascente filosofia e le scienze entrarono in una relazione strettissima. Matemati- ca, astronomia, geografia diventarono mezzi di conoscenza del mondo. L'antico problema della soluzione del mistero della vita impegnò i Pitagorici o Eraclito così come aveva impegnato i sacerdoti dell'Oriente. E se la potenza avanzante delle scienze naturali fece del problema della spiegazione della natu- ra il centro della filosofia nelle colonie, nel suo sviluppo ulterio- re tutte le grandi questioni inerenti al mistero del mondo ven- nero discusse nelle scuole filosofiche, le quali erano appunto orientate verso la relazione interna tra conoscenza della realtà, direzione della vita e volontà negli individui e nella società, ossia verso la formazione di un’intuizione del mondo. La struttura delle intuizioni del mondo nella metafisica è stata determinata anzitutto dalla loro connessione con la scien- za. L'immagine sensibile del mondo si trasformò in immagine astronomica; il mondo del sentimento e delle azioni della vo- lontà fu oggettivato in concetti di valori, di beni, di scopi e di regole; l'esigenza di forma concettuale e di fondazione portò gli indagatori del mistero del mondo a fare della logica e della teoria della conoscenza la loro base: lo stesso sforzo di soluzio- ne condusse dai dati condizionati e limitati a un essere universa- le, a una causa prima, a un sommo bene, a uno scopo ultimo; la metafisica diventò sistema e quest’ultimo procedette, attraver- so l'elaborazione di rappresentazioni e concetti insufficienti che si erano formati nella vita e nella scienza, a formare concetti ausiliari che oltrepassavano qualsiasi esperienza. Al rapporto della metafisica con la scienza si aggiunse quel- lo con la cultura mondana. In quanto la filosofia si trasmette allo spirito di ogni connessione teleologica presente nella cultu- ra, essa ne riceve nuove forze e al tempo stesso partecipa a questa l’energia della sua idea fondamentale. La filosofia conso- lida i procedimenti e il valore conoscitivo delle scienze; ela- bora le esperienze non metodiche della vita e la letteratura che le riguarda, traducendole in un apprezzamento generale della vita; eleva a una connessione unitaria i concetti fondamentali del diritto, scaturiti dalla prassi del negozio giuridico; pone i princìpi relativi alle funzioni dello stato, alle forme di costitu- zione e alla loro successione, sorti dalla tecnica della vita politi- WILHELM DILTHEY 237 ca, in rapporto con i compiti supremi della società umana; intraprende a dimostrare i dogmi oppure, quando il loro nu- cleo oscuro risulta inaccessibile al pensiero concettuale, esercita su di esso la sua opera universale di distruzione; razionalizza le forme e le regole della pratica artistica sulla base di uno scopo proprio all’arte: ovunque essa vuol imporre la direzione della società da parte del pensiero. Infine, un’ultima cosa. Oguno di questi sistemi metafisici è condizionato dal posto che occupa nella storia della filosofia; esso dipende da un certo stato del problema ed è condizionato dai concetti che ne scaturiscono. Così nasce la struttura di questi sistemi metafisici — la connessione logica in essi presente e nel medesimo tempo la loro irregolarità condizionata in varie maniere, l'elemento rap- presentativo che esprime in determinati sistemi un determinato stato del pensiero scientifico, e nel medesimo tempo l'elemento della singolarità. Pertanto ogni grande sistema metafisico diven- ta un complesso che irradia in molteplici direzioni, che illumi- na ogni parte della vita a cui appartiene. Un unico sistema metafisico universalmente valido — tale è la tendenza di tutto questo grande movimento. Il differenziar- si della metafisica che scaturisce dalla profondità della vita appare a questi pensatori come un’aggiunta accidentale e sog- gettiva, che dev'essere eliminata. Il lavoro sterminato rivolto alla creazione di una connessione concettuale dimostrabile in maniera concorde — nella quale sarebbe quindi possibile risol- vere metodicamente il mistero della vita — acquista un signifi- cato autonomo; nello sviluppo verso questo fine ogni sistema trova il suo posto in base allo stato del lavoro concettuale. Il corso di questo lavoro si compie nei paesi civili dell'Europa, dapprima negli stati mediterranei e poi, a partire dal Rinasci- mento, negli stati romano-germanici — in uno strato superiore che soltanto di tempo in tempo viene influenzato dalla religiosi- tà prevalente al di sotto di esso, e che cerca sempre più di sottrarsi a tale influenza. 2. In questa connessione compaiono distinzioni tra i sistemi che sono fondate sul carattere razionale del lavoro metafisico. Alcune indicano certi stadi del suo sviluppo, come quella tra 238 WILHELM DILTHEY dogmatismo e criticismo. Altre percorrono l’intero processo: esse scaturiscono dallo sforzo che la metafisica compie di rap- presentare in una connessione unitaria quanto è contenuto nel- l'apprendimento della realtà, nell’apprezzamento della vita e nella posizione di scopi; e il loro oggetto è costituito dalle possibilità di risolvere questi problemi fondamentali. Se ponia- mo mente alle fondazioni della metafisica, ci si presentano le antitesi tra empirismo e razionalismo, tra realismo e ideali smo. L'elaborazione della realtà data viene compiuta sulla base degli opposti concetti dell’uno e dei molti, del divenire e dell’es- sere, della causalità e della teleologia, e a tutto ciò corrispondono differenze tra i sistemi. I differenti punti di vista a partire dai quali viene concepito il rapporto tra il fondamento del mondo e il mondo, tra l’anima e il corpo, si esprimono nelle prospetti- ve del deismo e del panteismo, del materialismo e dello spiritua- lismo. E in base ai problemi della filosofia pratica si producono altre differenze, tra cui si deve sottolineare quella tra l’eudemo- nismo — e la sua prosecuzione nell’utilitarismo — e la dottrina di una regola incondizionata del mondo morale. Tutte queste differenze trovano il loro posto nei campi particolari della meta- fisica e designano le varie possibilità di sottoporre questi cam- pi — sulla base di concetti opposti — al pensiero razionale. Tutte quante possono essere considerate, nel contesto di tale lavoro sistematico, come ipotesi in virtù delle quali lo spirito metafisi- co si avvicina a un sistema universamente valido. Sono così sorti infine i tentativi di classificare i sistemi metafisici da questo punto di vista. Alle prevalenti contrapposi- zioni dei concetti nella riflessione, fondata sulla natura della stessa elaborazione concettuale della metafisica, corrisponde perciò nel migliore dei casi una duplicazione dei sistemi, con l’antitesi tra punto di vista realistico e idealistico, o un’altra analoga.  A chi potrebbe sfuggire il significato che il lavoro concettuale della filosofia ha compiuto nei campi più diversi? Esso prepara le scienze indipendenti; essa le abbraccia. Di questo punto  ho già detto prima in maniera dettagliata. Ma ciò che distingue l’attività metafisica dal lavoro delle scienze positive è la  volontà di sottomettere ai metodi scientifici — che si sono  formati per i singoli campi del sapere — la connessione dell’universo e della vita stessa. Questi metodi superano i limiti dei procedimenti delle scienze particolari mirando all’incondizionato.  3. A questo punto è possibile chiarire l’idea fondamentale  da cui ha preso le mosse in generale il nostro tentativo di una  dottrina dell’intuizione del mondo, e che definisce anche questo lavoro. La coscienza storica ci riporta al di qua della tendenza dei metafisici a un sistema unitario universalmente valido, al  di qua delle differenze da essa derivanti che dividono i pensatori, e infine al di qua del collegamento di queste differenze in forma di classificazioni. La coscienza storica assume a proprio oggetto l’antitesi effettivamente esistente tra i sistemi nella loro costituzione complessiva. Essa vede queste costituzioni comples- sive nella loro connessione con il corso delle religioni e della poesia. Essa mostra inoltre come tutto il lavoro concettuale  della metafisica non abbia fatto un solo passo in direzione di  un sistema unitario. In tal modo essa considera l’antitesi tra i  sistemi metafisici come fondata sulla vita stessa, sull'esperienza  della vita, sulle posizioni nei confronti del problema della vita.  Su tali posizioni poggia la molteplicità dei sistemi e al tempo  stesso la possibilità di distinguere al loro interno determinati  tipi. Ognuno di questi tipi abbraccia la conoscenza della realtà,  l'apprezzamento della vita e la posizione di scopi. Essi sono  indipendenti dalla forma dell’antitesi in cui, in base a punti di  vista contrapposti, vengono risolti i problemi fondamentali.  L'essenza di questi tipi si manifesta chiaramente se si guarda ai grandi geni metafisici che hanno espresso la loro costituzione personale in sistemi concettuali con pretesa di validità. La  loro tipica costituzione vitale è tutt'uno con il loro carattere:  essa si esprime nel loro ordinamento della vita; riempie ogni  loro azione; si manifesta nel loro stile. E se i loro sistemi sono  ovviamente condizionati dallo stato dei concetti in cui vengono  alla luce, tuttavia i loro concetti — storicamente considerati —  sono soltanto strumenti ausiliari per la costruzione e la dimostrazione della loro intuizione del mondo.  Spinoza comincia il suo trattato sulla via per arrivare alla  conoscenza perfetta con l’esperienza vitale della nullità dei dolori e delle gioie, della paura e della speranza della vita quotidiana; prende la decisione di cercare il vero bene, che garantisce  240 WILHELM DILTHEY  una gioia eterna, e risolve quindi questo compito nella sua  Ethica attraverso il superamento della schiavitù verso le passioni  nella conoscenza di Dio come fondamento immanente della  molteplicità delle cose transeunti, e attraverso l’amore intellettuale infinito di Dio che procede da questa conoscenza, e in  virtù del quale Dio, l’infinito, ama se stesso nei limitati spiriti  umani. L'intero sviluppo di Fichte è l’espressione di una tipica  costituzione dell'anima — dell’autonomia morale della persona  di fronte alla natura e a tutto il corso del mondo; e così la sua  parola ultima, con cui si chiude la grande azione di volontà di  questa vita tempestosa, è l'ideale dell'uomo eroico, in cui la  funzione suprema della natura umana — che si compie nella  storia in quanto teatro della vita morale — è legata all'ordine  sopra-terreno delle cose. E l'enorme influenza storica di Epicu- ro — che pure dal punto di vista intellettuale rimase molto al di sotto dei massimi pensatori — sta nella pura chiarezza con cui egli ha espresso una tipica costituzione dell’anima. Essa consiste nella serena subordinazione dell’uomo alla connessione regolare della natura e nel godimento sensibilmente gioioso, e  tuttavia riflessivo, dei suoi doni.  Così intesa, ogni genuina intuizione del mondo è un’intuizione che nasce dallo stare entro la vita stessa. Le giovanili  annotazioni di Hegel, sorte dal contatto delle sue esperienze  metafisico-religiose con l’interpretazione dei documenti del Cristianesimo primitivo, costituiscono un esempio di siffatte intuizioni. Questo stare dentro la vita si compie nelle prese di  posizione nei suoi confronti, nelle relazioni vitali. È questo,  del resto, il significato profondo del detto ardito, secondo cui il  poeta sarebbe il vero uomo. A queste prese di posizione si  rivelano dunque certi aspetti del mondo. Non ci azzardiamo  qui a continuare. Noi non conosciamo la legge di formazione  in base a cui dalla vita scaturisce il differenziarsi dei sistemi  metafisici. Se vogliamo accostarci alla comprensione dei tipi di  intuizione del mondo dobbiamo rivolgerci alla storia. E ciò che  di essenziale la storia ha qui da insegnarci è la possibilità di  cogliere la connessione tra vita e metafisica, il collocarsi nella  vita come centro di questi sistemi, la coscienza delle grandi  connessioni dei sistemi che percorrono la storia e in cui esiste  un atteggiamento tipico — per quanto si voglia poi limitarli o frammentarli. Si tratta cioè di vedere in profondità sulla base  della vita, di seguire le grandi intenzioni della metafisica.   È questo il senso nel quale proponiamo una distinzione di  tre tipi principali. Per tale distinzione non c’è altro strumento  che la comparazione storica. Il suo punto di partenza è che  ogni mente metafisica si pone di fronte al mistero della vita da un determinato punto di vista, quasi dovesse dipanarne l’intri- co: questo punto è condizionato dalla posizione rispetto alla vita, e a partire da esso si forma la struttura specifica del suo sistema. Possiamo quindi ordinare i sistemi in gruppi secondo il loro rapporto di dipendenza, di affinità, di attrazione e di  repulsione reciproca. Ma qui si presenta una difficoltà propria  di ogni comparazione storica. La comparazione, infatti, deve  presupporre un criterio di selezione delle caratteristiche presenti in ciò che si compara, e questo criterio determina poi l’ulteriore procedimento. Pertanto ciò che qui propongo ha un carattere del tutto provvisorio. Il nucleo di questo può essere soltanto l’intuizione che è scaturita da una lunga consuetudine con i  sistemi metafisici. La loro stessa comprensione in una formula  storica può avere un carattere solamente soggettivo. Rimane  aperta la possibilità di disporre logicamente la cosa in modo diverso, unificando per esempio le due forme di idealismo op- pure legando l’idealismo al naturalismo, oppure procedendo in altre maniere. Questa distinzione di tipi deve servire soltanto a vedere più profondamente nella storia, e ciò a partire dal- la vita. L’uomo si trova determinato dalla natura. Essa comprende  il suo corpo non meno del mondo esterno. E proprio la situazione oggettiva del corpo, i potenti impulsi animali che lo  scuotono, determinano il suo sentimento della vita. Quella visione e quella considerazione della vita che ne esauriscono il  corso nel soddisfacimento degli impulsi animali e nella subordinazione al mondo esterno, da cui traggono il loro nutrimento,  sono vecchie come l’umanità stessa. Nella fame, nell’impulso sessuale, nella vecchiaia e nella morte l’uomo si vede sottoposto alle potenze demoniache della vita della natura. Egli stesso  è natura. Eraclito e l’apostolo Paolo la descrivono entrambi,  con analoghe parole piene di disprezzo, come la concezione  della vita propria della massa legata ai sensi. Essa è permanente; non c’è periodo in cui non abbia dominato una parte degli  uomini. Anche al tempo del più rigido dominio della casta  sacerdotale orientale esisteva questa filosofia della vita dell’uomo sensibile; e anche quando il Cattolicesimo reprimeva ogni  espressione teorica di questo punto di vista si parlava molto di  « Epicurei »; ciò che non era consentito di esprimere in princìpi filosofici risuonava tuttavia nelle canzoni dei Provenzali, in  alcune poesie di corte tedesche, nelle epopee francesi e tedesche  di Tristano. E proprio ciò che Platone dipingeva come la vita  di piacere e la dottrina edonistica dei proprietari e dei commercianti, si ripresenta ai nostri occhi come la filosofia della vita  della gente di mondo del secolo xvii. Al soddisfacimento  dell’animalità si aggiunge un elemento nel quale l’uomo è mmaggiormente dipendente dal suo ambiente: la gioia del proprio  rango e del proprio onore. Alla base di questa concezione del  mondo sta sempre lo stesso atteggiamento: la subordinazione  della volontà alla vita animale dell’impulso che domina il corpo e alle sue relazioni con il mondo esterno. Il pensiero e  l’attività teleologica da esso diretta sono qui al servizio di  quest’animalità, si realizzano nel suo soddisfacimento.   Questa costituzione della vita trova la sua espressione anzitutto in una parte considerevole della letteratura di tutti i  popoli — a volte come forza intatta dell’animalità, più spesso  in lotta con l'intuizione religiosa del mondo. Il suo grido di battaglia è l'emancipazione della carne. In quest’antitesi contro il necessario ma tremendo disciplinamento dell'umanità da par- te della religione consiste il diritto storico, relativo, della reazio- ne di un' affermazione sempre risorgente e operante nella vita naturale. Quando questa costituzione della vita diventa filosofia, allora sorge il naturalismo. Questo afferma teoricamente  ciò che in essa è vita: il processo della natura è la realtà unica  e intera; fuori di esso non esiste nulla; la vita spirituale è  distinta soltanto formalmente, in quanto coscienza, dalla natura fisica, secondo le qualità contenute in questa, e tale determinatezza della coscienza, vuota di contenuto, deriva dalla realtà  fisica secondo la causalità naturale.   La struttura del naturalismo — da Democrito a Hobbes e  da questo al Sistème de la natureS — è uniforme: il sensismo  come teoria della conoscenza, il materialismo come metafisica e  un duplice atteggiamento pratico — da un lato la volontà di  godimento, dall’altro la conciliazione con il corso prepotente  ed estraneo del mondo, attuata sottomettendosi ad esso nell’osservazione.   La legittimità filosofica del naturalismo poggia su due proprietà fondamentali del mondo fisico. Come sono preponderanti all’interno della realtà data nella nostra esperienza l’estensione e la forza delle masse fisiche! Esse circondano come qualcosa di smisurato e continuamente più esteso le rare manifestazioni spirituali; così considerate, queste appaiono come interpolazioni nel grande testo dell’ordine fisico. Perciò l’uomo naturale, nella considerazione teorica di tali rapporti, deve trovarsi  totalmente soggetto a quest'ordine. Al tempo stesso la natura è  la sede originaria di ogni conoscenza delle uniformità. Già le  esperienze della vita quotidiana insegnano a constatare queste  uniformità e a contare su di esse; le scienze positive del mondo  fisico si accostano, attraverso lo studio di queste uniformità,  alla conoscenza della loro connessione regolare. Così esse realizzano un ideale di conoscenza irraggiungibile per le scienze  dello spirito, fondate sull’Er/edez e sull’intendere.  A questo punto, però, le difficoltà inerenti a questo punto  di vista spingono il naturalismo, in una dialettica incessante,  verso formulazioni sempre nuove della sua posizione nei confronti del mondo e della vita. La materia da cui il naturalismo  procede è un fenomeno della coscienza; in tal modo esso cade  nel circolo vizioso di voler derivare da ciò che è dato sola- mente come fenomeno per la coscienza la coscienza stessa. È impossibile derivare dal movimento, che ci è dato come fenome- no della coscienza, la sensibilità e il pensiero. L’incompara- bilità di questi due fatti conduce — dopo che il problema si è rivelato insolubile nei più disparati tentativi compiuti dal mate5. È il titolo dell'opera principale di Paul Heinrich Dietrich barone d’Holbach  (1723-1789), pubblicata nel 1770, in cui sono sistematicamente esposti i princìpi del materialismo illuministico. rialismo antico fino al Sistème de la nature — alla tesi positivistica della corrispondenza tra fisico e spirituale. Anche questa è  esposta a forti obiezioni. Infine, la morale del naturalismo originario si mostra incapace di spiegare lo sviluppo della società.  2. Cominciamo con l'aspetto gnoseologico del naturalismo. Il  naturalismo ha il suo fondamento gnoseologico nel sensismo.  Col termine « sensismo » intendo il riconducimento del processo della coscienza o delle funzioni all'esperienza sensibile esterna, delle determinazioni di valore e di scopo al criterio del  piacere e del dispiacere sensibile. Il sensismo costituisce l’espressione filosofica diretta della costituzione naturalistica dell’anima. È qui dato, fin dal suo porsi, il problema psico-genetico  del naturalismo, quello di derivare dalle singole impressioni  l’unità della vita psichica come una unitas composttionis. Il  sensista non rifiuta né il fatto dell’esperienza interna né l’elaborazione concettuale del dato, ma trova nell’ordine fisico la base  di ogni conoscenza della connessione regolare del reale, e le  proprietà del pensiero diventano per lui, in maniera immediata  o per il tramite di una teoria, una parte dell’esperienza sensibile.   La prima teoria sensistica è stata formulata da Protagora*.  Nella metafisica precedente la forza universale della ragione  operante nel pensiero umano non era stata ancora separata  dalle proprietà fisiche dell’uomo, dal processo di respirazione e  dalle immagini dei sensi concepite come corporee. Protagora  insegnò che la percezione nasce dalla cooperazione di due movimenti, l'uno esterno e l’altro organico, che ha luogo nell’uomo; dato che per lui la percezione e il pensiero erano inseparabili, egli derivò dalle percezioni sorte in tal modo l’intera vita  dell'anima. Egli spiegò anche il piacere, il dispiacere e l’impul- so sulla base della cooperazione dei due movimenti. Era dun- que senza dubbio un sensista. Egli scoprì inoltre fin da allora, muovendo da questo punto di vista, le conseguenze fenomenisti- che e relativistiche in esso implicite. La dottrina relativistica di 6. Protagora di Abdera, il maggiore rappresentante della Sofistica, vissuto nella seconda metà del secolo v a. C., elaborò una teoria sensistica della conoscenza e formulò il principio secondo cui «l’uomo è misura di tutte le cose », tradizionalmente interpretato — come anche qui da Dilthey — in senso relativistico. Protagora considera ogni conoscenza, ogni posizione di valore e ogni determinazione di scopo determinato dall'elemento pura- mente empirico dell’organizzazione umana; essa esclude quindi che sia possibile comparare queste funzioni con i processi ester- ni a cui esse si riferiscono. In tale maniera la conoscenza, la  determinazione di valore e la posizione di scopo posseggono  una validità soltanto relativa, cioè nella correlazione con  questa organizzazione. È qui eliminato il legame tra il soggetto e il suo oggetto, presente nell’assunzione di un’identica ragione universale che agisce nell’universo, e che in quanto simile  riconosce il simile. L'organizzazione sensibile mostra nel regno  dell’animalità — che giunge fino all'uomo — le forme più  diverse, e da ognuna di esse deve sorgere un mondo totalmente differente. La fattualità meramente empirica dell’organizzazione sensibile, il fatto che ogni pensiero è vincolato ad essa e  l'inserimento di tale organizzazione nella connessione fisica costituiscono il fondamento di tutte le dottrine relativistiche dell'antichità.   Com'è possibile, sulla base di questi presupposti, un’esperienza e una scienza empirica? Questo era il problema successivo.  Matematica, astronomia, geografia, biologia si sviluppavano  continuamente, e la scepsi sensistica doveva rendere comprensibile la loro possibilità. Già il probabilismo di Carneade” conteneva in sé la tendenza a istituire un equilibrio positivo tra i  presupposti sensistici e le scienze empiriche. Nella sua scepsi la  validità della coscienza viene riposta, anziché nei rapporti (così  conformi allo spirito greco) di riproduzione di una realtà esterna oggettiva da parte delle rappresentazioni, nell’accordo interno delle percezioni tra di loro e con i concetti, in una connessione priva di contraddizioni. Nell’ideale della massima probabilità raggiungibile, nella distinzione dei suoi livelli, si otteneva  un punto di vista in base al quale si poteva contemporaneamente combattere la metafisica e assicurare al sapere empirico una  misura, anche se modesta, di validità.   Ma soltanto quando la grande epoca della fondazione della  scienza matematica della natura riconobbe, nel secolo xvi,  l’esistenza di un ordine della natura secondo leggi, il sensismo    7. Carneade, filosofo della Media Accademia. entrò nel suo ultimo e decisivo periodo. La scienza naturale si era costituita come sapere empirico inattaccabile; il sensismo era costretto a riconoscere questo fatto, a collegarsi ad esso e a superare le conseguenze scettiche dell'epoca antecedente. Fu questa la grande impresa di David Hume. Egli stesso ha consi- derato la sua filosofia come una prosecuzione della scepsi accademica. E infatti in lui ricorrono i caratteri principali di  questa scepsi: la fattualità meramente empirica della nostra  organizzazione sensibile e del pensiero ad essa connesso; di  qui l’eliminazione di qualsiasi rapporto di riproduzione tra lo  spirito che apprende e il mondo oggettivo, e quindi lo spostamento della conoscenza nel mero accordo interno delle percezioni tra di loro e con i concetti. Ma questi princìpi acquistano nella sua analisi il loro sviluppo più fecondo: dalle regolarità dell’accadere nascono le abitudini di determinate associazioni; nella capacità di associazione ad esse inerenti risiede il  fondamento esclusivo dei concetti di sostanza e di causalità. Ne  derivano conseguenze che avrebbero costituito i fondamenti del  positivismo. La connessione del mondo diventa, in virtù dei  legami di sostanza e di causalità, un effetto secondario dei fatti  animali dell’abitudine e dell’associazione; la scienza empirica  viene limitata alle uniformità di coesistenza e di successione  dei fenomeni, escludendo ogni sapere concernente le relazioni  interne, l’essenza, la sostanza o la causalità; queste uniformità costituiscono l'oggetto del nostro sapere riguardo ai fatti spirituali  e fisici: tutte le‘parti del mondo sono legate in un’unica legalità.   Il sensismo è l’intimo spirito del sistema di David Hume;  ma i suoi grandi risultati si sono svincolati dai presupposti  metafisici nella teoria positivistica della conoscenza di D’Alembert. Il positivismo diventò un metodo, e nei confronti di  questo punto di vista fenomenistico il naturalismo stesso fece  valere — con Feuerbach, Moleschott*, Biichner? — la « solare  evidenza del sensibile », e con Comte la reciproca connessione    8. Jakob Moleschott (1822-1893), biologo e fisiologo, autore della Physiologie des  Stoffwechsels in Pflanzen und Tieren (1857) e di Der Kreislaut des Lebens (1852), è  uno dei più noti esponenti del positivismo materialistico tedesco.   9. Ludwig Biichner (1824-1899), medico e filosofo, autore di Kraft nad Stoff (1855),  di Natur und Geist (1857), di Die Stellung des Menschen in der Natur (1869), è un altro importante esponente del positivismo materialistico tedesco. dei fatti fisici e la dipendenza da essi di quelli psichici, così  come insegnava la nuova fisiologia del cervello.    La metafisica del naturalismo trovò il suo fondamento mec- canicistico nell’età successiva a Protagora. La spiegazione mec- canicistica è, in sé e per sé, un procedimento proprio delle scienze positive, e quindi è compatibile con diverse visioni del mondo: la metafisica meccanicistica sorge soltanto quando nel- la realtà non si vede altro che il meccanismo, quando certi  concetti che, per la conoscenza della natura, sono strumenti del  suo procedimento vengono considerati come entità. Le cause  dei movimenti vengono riposte nei singoli elementi materiali  dell'universo, e a questi elementi vengono ricondotti, secondo  un metodo qualsiasi, i fatti spirituali. Dalla natura viene espulsa quell’interiorità che la religione, il mito e la poesia vi avevano collocata: ora la natura è diventata senza anima, e da  nessuna parte una connessione unitaria pone limite alla sua  interpretazione tecnica. Soltanto questo punto di vista permette  di dare al naturalismo una forma rigorosamente scientifica. Il  suo problema diventa ora quello di derivare il mondo spirituale  dalla disposizione meccanica delle parti corporee ordinate secondo leggi.   Una letteratura sterminata si è proposta di risolvere questo  compito. I suoi culmini sono il sistema epicureo e la splendida  esposizione datane da Lucrezio; il tenebroso e possente sistema  di Hobbes, che concepì in modo coerente l’intero mondo spirituale dal punto di vista dell’impulso da cui scaturisce la lotta  per il potere degli individui, dei ceti e degli stati; nella Francia del secolo xvrri il sistema della natura, che espresse nelle  sue fredde formule il mistero degli uomini più miscredenti e  dei libertini di tutti i tempi; infine la fanatica dottrina materialistica di Feuerbach, Biichner, Moleschott e compagni.   La potenza di queste dottrine poggiava sul fatto che esse  erano state costruite sul terreno della realtà esterna spaziale  che cade sotto i sensi, accessibile al pensiero esatto delle  scienze della natura. In nessun luogo esse contenevano un oscuro residuo di forze impenetrabili. Non c’era angolo in cui potesse celarsi un elemento spirituale autonomo o un elemento trascendente. Tutto era razionale e naturale. Infatti l’anima di questa metafisica materialistica è la lotta contro la potenza della religiosità e della metafisica spiritualistica con le loro oscu- rità. E la sua legittimità storica risiedeva nello sforzo di supera- re l’alleanza della chiesa con il dispostismo all’interno della  società.   In un tale ordinamento delle cose non c'è spazio alcuno per  la considerazione del mondo dal punto di vista del valore e  dello scopo. Valori e scopi sono qui ciechi prodotti del corso  della natura, i quali hanno un interesse particolare soltanto per  l’uomo, poiché l’uomo è per se stesso, in virtù della sua vita  interiore, centro del mondo e tutto misura in conformità ai  suoi sentimenti, alle sue aspirazioni, ai suoi fini.    di   L’ideale di vita del naturalismo doveva essere duplice, in  base al suo doppio rapporto con il corso della natura. A causa  della sua passione l’uomo è schiavo del corso della natura —  ma uno schiavo accorto e calcolatore che si pone al di sopra di  esso in virtù della potenza del pensiero.   Già l’antichità sviluppò entrambi gli aspetti dell’ideale naturalistico. Il sensismo di Protagora aveva già in sé le condizioni  dell’edonismo di Aristippo! Per quest’ultimo, infatti, tanto  le percezioni sensibili quanto i sentimenti e i desideri sorgono  nei contatti dell'organizzazione sensibile con il mondo esterno;  essi non possono quindi esprimere i valori oggettivi contenuti  nella realtà ma soltanto il rapporto in cui il soggetto, con il  suo sentimento, si pone nei loro confronti. Da ciò Aristippo concludeva che nel piacere — inteso come il movimento migliore che abbia luogo nella nostra organizzazione sensibile — risiede il criterio e il fine del giusto agire. Nella connes- sione fisica della nostra animalità con la natura esterna, quale si palesa nei movimenti sensibili, dev'essere ricercato il criterio  e il fine dell’arte di vivere. La riflessione socratica diventa qui  gioco sovrano del pensiero formale che calcola i valori del    10. Aristippo di Cirene (435-366 a. C.), filosofo socratico, fu il maggiore rappresentante dell’edonismo nel pensiero greco. piacere e che si eleva al di sopra delle convenzioni, cioè sopra  gli ordinamenti oggettivi della vita. Ma nell’apprendimento ottico e nel godimento estetico — che tanta importanza rivestiva  per lo spirito greco — c'era un altro ideale, e anche questo si  collocava nell’ambito di quella metafisica naturalistica che ha i  suoi rappresentanti in Democrito, in Epicuro, in Lucrezio. Ad  esso condussero le esperienze dell'impulso vitale. Si tratta della  tranquillità d'animo che nasce in colui che accoglie in sé la  connessione sempre salda e duratura dell’universo. Tale costituzione dell'anima trovò la sua espressione nel poema didattico  di Lucrezio. Egli riviveva in sé la potenza liberatrice della  grande visione cosmica, astronomica e geografica del mondo  creata dalla scienza greca.   L'universo smisurato e le sue leggi eterne, la nascita dei  sistemi del mondo, la storia della terra che si copre di piante  e di animali e che infine produce l’uomo — questa concezione  gli consentì di osservare molto al di sotto di sé gli intrighi  politici e le povere marionette divine adorate dal suo popolo.  Anzi la stessa vita dell'individuo, con la sua sete di godimento  e di potere, la lotta delle esistenze particolari sul teatro dell’Impero romano si rimpiccioliva da questo punto di vista cosmico:  « pio è chi guarda all’universo con spirito sereno ».   Già nell’antichità l’esperienza che, nel corso del mondo,  compie l’uomo che desidera la felicità dei sensi aveva dissolto  la rigidità della dottrina del piacere sensibile come fine della  vita. Accanto a quello sensibile si era affermato il durevole piacere spirituale. Già allora la scuola epicurea si era proposta di risolvere — mediante l’assunzione di uno sviluppo progressi vo — il compito decisivo di derivare la cultura, in tutta la sua ricchezza e grandezza, dai sentimenti del piacere e del dispiace- re sensibile. Ma solamente l’epoca moderna approntò strumenti  scientificamente validi per la spiegazione naturalistica dello sviluppo spirituale: la comprensione della vita spirituale in base  all'ambiente, la derivazione della vita economica dagli interessi  dell'individuo, la derivazione della cultura intellettuale dal progresso economico e infine la teoria dell'evoluzione, che consentì  di porre a fondamento delle caratteristiche intellettuali e morali  degli uomini l’accumularsi di trasformazioni minime avvenute  nel corso di smisurati spazi di tempo. L'ideale naturalistico quale fu enunciato, al termine di un lungo sviluppo culturale,  da Ludwig Feuerbach — l’idea dell’uomo libero che in Dio,  nell’immortalità e nell’ordine invisibile delle cose riconosce i  fantasmi delle sue aspirazioni — ha esercitato un'influenza potente sulle idee politiche, sulla letteratura e sulla poesia.  Prendiamo nuovamente le mosse dal fatto dell’affinità tra  un gran numero di sistemi che, essendo fondata su una costituzione vitale e su una posizione nei confronti del mondo, racchiude in sé la soluzione dei problemi inerenti al mistero della  vita secondo una determinata tendenza, e in tal modo riunisce  questi sistemi in un secondo tipo di intuizione del mondo.    I.    L’idealismo della libertà è una creazione dello spirito ateniese. L'energia formatrice, plasmatrice, sovrana in esso presente  diventa con Anassagora !, Socrate, Platone e Aristotele principio di comprensione del mondo. Cicerone ha espresso con vigore il suo accordo, il suo sentimento di affinità con Socrate e tutta la scuola socratica della storia greca successiva. I grandi apologisti e padri della Chiesa cristiana si trovano in un consa- pevole accordo sia con lo spirito socratico sia con la filosofia romana. La scuola scozzese poggia completamente sull’orienta- mento di pensiero di Cicerone ed è al tempo stesso consapevole della propria comunanza con gli antichi scrittori cristiani. E  proprio la coscienza di tale affinità collega a questi scrittori  precedenti Kant e Jacobi !, Maine de Biran" e i filosofi francesi a lui imparentati fino a Bergson.    rt. Anassagora di Clazomene (500 circa-428 a. C.), filosofo ionico, elaborò la teo- ria del nous, ossia dell'intelletto divino che regola la mescolanza degli clementi i qua- li costituiscono la realtà fisica, inserendo in essa un principio ordinatore: a questa dottrina si riferisce esplicitamente Socrate, nel Fedone platonico. 12. Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819), autore di una seric di lettere polemiche  contro Moses Mendelssohn Uber die Lehre des Spinoza (1785), traduttore di Bruno,  claborò una « filosofia dell'identità » criticando sia Kant sia l’idcalismo post-kantiano.  È una figura centrale nel dibattito sullo spinozismo che caratterizza il pensiero tedesco verso la fine del secolo xvi.   13. Frangois-Pierre Maine de Biran (1766-1824), autore dell’Essui sur les fonde- La coscienza di tale affinità è accompagnata da un'aspra  polemica dei rappresentanti di questo indirizzo contro il sistema naturalistico. La coscienza della completa diversità dal naturalismo nella concezione della vita, nell’intuizione del mondo e  nell’ideale ispira ognuno di questi pensatori, e si afferma con  la massima intensità nei più profondi. Ma anche l’opposizione  al panteismo fu resa sempre più consapevole da questo idealismo della personalità. Se il panteismo greco più antico si era  distaccato dalla personificazione religiosa della divinità e dal  rapporto personale con essa, Socrate si oppose a questo panteismo, e la filosofia romana dominante insistette sull’affinità con  Socrate. Anche la più antica filosofia cristiana si sente unita ai  rappresentanti dell’idealismo della libertà e della personalità in  antitesi sia al naturalismo sia al panteismo. La stessa posizione  emerge nella polemica della più tarda filosofia cristiana contro  l’idealismo oggettivo di Averroè. Essa si manifesta poi durante  il Rinascimento nella lotta di Giordano Bruno contro ogni  forma di filosofia cristiana e di quest’ultima contro il nuovo  panteismo bruniano. A partire da questo periodo essa prosegue  poi nel conflitto tra Spinoza e tutte le dottrine della persona- lità o della libertà, o tra Leibniz e numerosi esponenti della dottrina della libertà, infine nelle lotte tra Kant, Fichte, Jaco- bi, Fries e Herbart da un lato, Schelling, Hegel e Schleierma- cher dall'altro. Tutte le grandi polemiche filosofiche degli ulti- mi secoli acquistavano un carattere appassionato in virtù del  legame in cui le varie soluzioni autentiche di un problema  stanno con le diverse intuizioni del mondo. Il conflitto di  Bayle! con Spinoza ha alla radice un’esigenza di libertà nei  confronti del determinismo. Il conflitto di Voltaire con Leibniz    ments de la psychologie (1812), del saggio Des rapports des sciences naturelles avec la  psycologie (1813) e di numerosi altri scritti — tra cui il Journal intime, pubblicato postumo — è il capostipite dello spiritualismo francese dell'Ottocento: la sua posizione  esercitò una larga influenza sul pensicro spiritualistico, fin verso gli inizi del nuovo  secolo.   14. Jakob Friedrich Fries (1773-1843), autore di una Neue Kntik der Vernunfe  (1807) e di numerose altre opere, in cui è formulata un'interpretazione in chiave psicologica della filosofia kantiana.   15. Pierre Bayle (1647-1706), autore delle Pensées diverses sur la comète (1682) e  soprattutto del celebre Dictionnaire historique et critique (1695-97, 2° ed. 1702), fu una  delle grandi fonti di ispirazione della cultura illuministica francese, che da lui derivò  il suo atteggiamento critico nei confronti della tradizione e il ricorso all'analisi erudita si richiama a una presa di posizione pratica della coscienza che  muove dall'uomo e che tende quindi in un primo luogo a  garantire la libertà contro la metafisica contemplativa fondata  sull’intuizione dell'universo. Rousseau contrappone con enorme  successo alle forme più diverse di naturalismo o di monismo  una filosofia della personalità e della libertà. La discussione tra  Jacobi e Schelling tocca i principali problemi che separano idealismo oggetttivo e filosofia della personalità; e nessuna disputa  è stata mai condotta con tanta passionalità. Anche la polemica  di Herbart contro la filosofia monistica deriva la propria veemenza dalla convinzione che il monismo poneva in questione  le grandi verità del sistema teistico, mentre egli si ergeva a  difensore della visione cristiana del mondo, che nelle sue radici  più profonde è teistica. L’asprezza con cui Fries e Apelt'‘ conducono la loro battaglia contro la speculazione monistica è condizionata in egual misura dall’odio verso la deformazione delle scienze sperimentali della natura compiuta da Schelling e da Hegel e dall’odio verso la dissoluzione del teismo cri- stiano sotto il manto di una difesa del Cristianesimo.   De    A questa coscienza di comunanza reciproca e di antitesi,  che rispettivamente unisce tra loro i rappresentanti dell’idealismo  della libertà e li separa sia dall’idealismo oggettivo sia dal  naturalismo, corrisponde l’effettiva affinità tra i diversi sistemi  di questo tipo. Il legame che in questi sistemi tiene insieme  l'intuizione del mondo, il metodo e la metafisica consiste nel  fatto che l’atteggiamento, che con sovrana autosufficienza si  contrappone a ogni datità, contiene in sé l'indipendenza dello  spirituale da tale datità: lo spirito è consapevole della sua essenza come distinta da ogni causalità fisica. Con profonda penetrazione etica Fichte ha colto la connessione tra il carattere di un  certo gruppo di pensatori e l’idealismo della libertà, in antitesi  a ogni sistema della natura. Questa libera potenza dell'io si    come strumento critico. Dilthey si riferisce qui alla polemica con Spinoza, condotta  nella voce « Spinoza » del Dictionnaire.   16. Apelt (1812-1859), allievo c continuatore di Frics, del cui pensiero diede un'esposizione nella Mezaphysik (1857).    trova quindi legata nel rapporto con altre persone non già  fisicamente, bensì nella forma e nell’obbligazione morale; nasce  così il concetto di un regno di persone in cui gli individui  sono vincolati da norme e tuttavia interiormente liberi. A queste premesse è poi sempre connessa la relazione degli individui  liberi, responsabili e interiormente legati in virtù della legge,  nonché del regno delle persone, con una causa originaria personale e libera. In base alla costituzione vitale ciò è fondato sul  fatto che la spontanea e libera vitalità si scopre come una forza  che determina altre persone secondo la loro libertà, ma nel medesimo tempo avverte che in essa stessa altre persone sono divenute una forza da cui essa viene determinata in modo corrispondente alla propria spontaneità. Così questa vivente for- ma di determinazione attiva e passiva diventa lo schema della connessione universale in generale: essa viene per così dire  proiettata nella stessa connessione universale, la si ritrova in  ogni rapporto in cui sta il soggetto del pensiero sistematico,  fino al più comprensivo. In tal modo la divinità viene sottratta  alla connessione della causalità fisica e concepita come qualcosa  che la governa — come una proiezione della ragione che pone  scopi, fornita di potenza autonoma nei confronti della datità.  Anassagora e Aristotele hanno determinato filosoficamente ed  espresso con precisione questo concetto di divinità mediante il  rapporto della divinità con la materia. Quest'idea di un dio  personale acquista la sua formulazione metafisica più radicale  nel concetto cristiano della creazione del mondo dal nulla, dal  non-esistente; essa esprime infatti la trascendenza della divinità rispetto alla legge causale, che regna nel mondo naturale  secondo la regola ex ni/tilo nihil. La trascendenza di Dio rispetto alla coscienza del mondo, la quale connette le sue verità in  base al principio di ragion sufficiente, viene poi giustificata  criticamente da Kant: Dio è presente soltanto alla volontà, che  lo richiede in virtù della sua libertà.    Sorge così la struttura comune a tutti i sistemi che rientrano  in questo tipo di intuizione del mondo. Dal punto di vista gnoseologico questo tipo si fonderà, non appena diventa filosoficamente consapevole del suo presupposto, sui fatti della coscienza. Nella metafisica questa intuizione del mondo passa attraverso diverse forme. Essa compare dapprima nella filosofia attica  come concezione della ragione formatrice, che plasma il mondo  della materia. La grande scoperta di un pensiero concettuale e  di una volontà morale indipendenti dalla connessione naturale,  e della loro connessione con un ordine spirituale, costituisce in  Platone il punto di partenza di tale concezione, e anche in  Aristotele ne rimane il fondamento. Preparata dalla nozione  romana di volontà e dall’intuizione, anch'essa romana, di un  rapporto di governo di Dio nei confronti del mondo, si forma nel Cristianesimo la seconda concezione, cioè la dottrina della creazione. Essa costruisce un mondo trascendente sulla base delle relazioni esperite nell’atteggiamento del valore. I concetti di Dio propri della coscienza cristiana sono il rapporto del padre con i suoi figli, il contatto con Dio, la provvidenza come  simbolo del governo del mondo, la giustizia, la misericordia.  Un lungo cammino è stato poi percorso da qui fino al supremo  raffinamento a cui tale coscienza di Dio perviene nella filosofia  trascendentale tedesca. In un’asciutta ed eroica grandezza l’idealismo della libertà costruisce qui — come appare nel mondo  più compiuto in Schiller — il mondo soprasensibile che esiste  soltanto per la volontà, poiché è posto dal suo ideale di un’aspirazione infinita.    4.    Questa intuizione del mondo possiede un fondamento universalmente valido nei fatti della coscienza. In quanto coscienza metafisica dell’uomo eroico, essa è indistruttibile: si rinnoverà sempre in ogni grande natura attiva.   Essa non può tuttavia definire e fondare il suo principio in  maniera scientificamente valida. Anche qui si mette però in  moto una dialettica incessante che procede di possibilità in possibilità, ma che è incapace di pervenire a una soluzione del suo  problema. La volontà operante consapevolmente nella famiglia,  nel diritto e nello stato fu sviluppata dal pensiero romano in  concetti di vita, e questi vennero alla fine ricondotti a un’innata predisposizione verso la condotta della vita. In tal modo la sicurezza della condotta della vita poggiava su un elemento  irraggiungibile e indimostrabile. La regolarità dell’ordinamento della vita fu fondata su presupposti innatistici, che tuttavia  potevano essere provati soltanto sulla base degli ordinamenti  della vita, sulla base del reciproco accordo dei popoli. In questo modo la filosofia romana della vita fondò il suo idealismo  della personalità. Su di esso la coscienza cristiana determinò  come principio di tale punto di vista la trascendenza dello spirito, la sua indipendenza da qualsiasi ordine naturale. Ma la trascendenza è soltanto un'espressione simbolica della volontà nel sacrificio, nel procedere oltre il nesso naturale della motiva- zione attraverso l’abbandono della vita, ossia della forza di vivere in vista della realizzazione di un ordine di vita soprasensibile. L'ideale del sacro vale come prova di se stesso, ma  nessuna formula consente di elevarlo a coscienza logica. Kant e  la filosofia trascendentale si proposero quindi di determinare e  di fondare in maniera universalmente valida questa volontà  ideale. Si fece valere, rispetto al corso del mondo, un elemento  indeterminato come norma suprema e supremo valore. Il tentativo falli. Ma esso si rinnovò nell’idealismo personalistico francese, da Maine de Biran a Bergson, e nella forma idealistica del  pragmatismo quale si presentò in James e nei pensatori a lui  affini, nonché nella grande corrente della filosofia trascendentale tedesca. La sua potenza è indistruttibile; cambiano solamente le sue forme e i modi di dimostrazione. Questa potenza  poggia su una costituzione vitale che prende le mosse dall’uomo che agisce ed esige una regola salda per la posizione  di scopi.   Schiller è il poeta di questo idealismo della libertà, così  come Carlyle è il suo storico:    Umiliato a servire un vile, Alcide  viveva un tempo un'aspra dura vita   in un’eterna guerra: contro l'Idra   ebbe a lottare ed abbatté il leone,   per liberar gli amici si gettò   vivo dentro la barca del nocchiero   dei morti. Ogni gravame, ogni tormento  getta l'inganno della Dea implacata sulle docili spalle dell’odiato, finché finisce il suo cammino finché, spogliato il suo terreno involucro, il Dio fiammante sciogliesi dall'uomo e beve le sottili aure dell'etere. Lieto del nuovo, insolito aleggiare si leva in alto, e la visione cupa della vita terrena, cade e cade!?, Legati da una connessione reciproca si presentano poi altri  sistemi che divergono dai due tipi finora descritti. Essi formano la massa principale di ogni metafisica, si estendono per  l’intera storia della filosofia, e il loro stretto legame con i  grandi fenomeni affini della fede e dell’arte rimanda a un'intuizione del mondo che attraversa la religione, la concezione artistica, e il pensiero metafisico.    I.    Intendiamo determinare l'ambito in cui questo tipo si presenta all’interno della metafisica. La massa centrale dei sistemi  filosofici non può venir assegnata né al naturalismo né all’idealismo della libertà. Senofane!, Eraclito, Parmenide e i loro  continuatori, il sistema stoico, Giordano Bruno, Spinoza, Shaftesbury ', Herder, Goethe, Schelling, Hegel, Schopenhauer e  Schleiermacher — tutti questi sistemi rivelano un tipo chiara  17. Scuuter, Gedichte, Das Ideal und das Leben, vv. 131-46 (tr. it. di G. A.  Alfero). e   18. Scnofane di Colofone, filosofo ionico vissuto tra la scconda metà del secolo vi e l’inizio del secolo v a. C., critico della concezione antropomorfica della divinità: alcune testimonianze, molto discusse, ne fanno il maestro di Parmenide e il fondatore della scuola eleatica. 19. Anthony Ashley Cooper conte di Shaftesbury (1671-1713), filosofo inglese, autore dell'Inquiry Concerning Virtue or Merit (1699), della Letter Concerning Enthusiasm (1708), della Characteristics of Men, Manners, Opinions, and Times (1711) e di  numerosi altri scritti, fu uno dei principali rappresentanti del deismo; elaborò la teoria  del senso morale come base e criterio di valutazione del comportamento umano. mente comune, che diverge completamente dagli altri che abbiamo già esposti.   Essi sono reciprocamente legati da un rapporto di dipendenza e dalla più definita coscienza della loro affinità. Lo stoici- smo era consapevole della propria dipendenza da Eraclito. Gior- dano Bruno ha utilizzato in un ambito più vasto i concetti fondamentali degli Stoici; Spinoza è condizionato dallo Stoici- smo e dal complesso di idee filosofiche che aveva come centro Giordano Bruno. In Leibniz la grande prospettiva spirituale  del Rinascimento trova la sua espressione più compiuta, in antitesi al rigido monismo spinoziano. Dopo la dissoluzione delle  forme sostanziali, nel Rinascimento non viene più riconosciuta  alcuna realtà in mezzo tra la connessione divina e le cose  particolari: il mondo è l’esplicazione di Dio, che si è scomposto in esso nella forma di una molteplicità illimitata; ogni cosa  particolare rispecchia in sé l’universo. Questa è anche la prospettiva di Leibniz. Se la sua dipendenza dalla situazione intellettuale del tempo gli consente di concepire la divinità come  individuo, la dipendenza dalla sua cultura teologica lo ha indotto a mettere in primo piano le relazioni con la teologia: il  panenteismo rimane la sua intuizione fondamentale, e la nuova  grande idea del suo sistema è la concezione dell'universo come  una totalità singolare in cui ogni parte è determinata dalla  connessione ideale di significato del tutto. Tale sistema è interamente determinato dalla questione del senso e del significato  del mondo. Il suo parente più prossimo è Shaftesbury, influenzato sia dallo Stoicismo sia da Giordano Bruno. I grandi idealisti oggettivi tedeschi vivono nella sfera di influenza di Leibniz, sono condizionati da Shaftesbury attraverso il movimento  poetico tedesco, in modo particolare per il tramite di Goethe e  di Herder; e la loro dipendenza da Spinoza, in parte diretta,  in parte mediata dal precedente movimento letterario, è provata e può esser dimostrata in un ambito ancor più ampio. Questi  sistemi costituiscono così una connessione storica non meno saldamente conclusa di quella del naturalismo e dell’idealismo  della libertà.   Essi hanno sempre espresso nel modo più deciso anche la  loro antitesi verso gli altri due tipi di intuizione del mondo. Con quanta durezza Eraclito giudica il materialismo della plebel In quale netta opposizione lo Stoicismo si pone nei confronti del sensismo epicureol Esso è però al tempo stesso consapevo- le, in quanto rinnova l’ilozoismo, del proprio distacco da Plato- ne e Aristotele. Giordano Bruno ha condotto, con una passione senza pari, la lotta contro ogni forma di visione cristiana del mondo e di ideale di vita cristiano. La stessa passionalità irrom- pe in Spinoza, tra le catene delle dimostrazioni, in quelle appendici stilisticamente libere che erano state originariamente  composte in forma autonoma, come manifestazioni della sua  disposizione di vita. Schelling e Hegel indirizzano manifesti e  pamphlets contro l’idealismo della libertà e in particolare contro Kant, Fichte e Jacobi, in quanto filosofi della riflessione. Prescindendo dall’invettiva di Schopenhauer, la critica di  Schleiermacher alla dottrina etica è fondamentalmente un unico  grande scritto polemico contro l’etica sensistica e contro la limitativa etica dualistica di Kant e di Fichte, in favore dell’idealismo oggettivo.   Se il procedimento comparativo segue questi indizi, esso è  in grado di riconoscere l'affinità dei membri di questo gruppo,  reciprocamente così legati, e la struttura ad essi comune in  virtù della quale sono riuniti a formare un medesimo tipo di  intuizione del mondo. La connessione di princìpi che costituisce la struttura di questo tipo comprende una posizione gnoseologico-metodologica della coscienza, una formula metafisica che  contiene varie possibilità di formazione di sistemi metafisici, e  infine un principio di formazione della vita.    La posizione gnoseologica-metodologica della coscienza nei  confronti del mistero del mondo consisteva, nella prima delle  tre intuizioni, nel passaggio dalla conoscenza delle uniformità  presenti nel mondo fisico a generalizzazioni che permettevano  di subordinare anche i fatti spirituali a questa legalità meccanica esterna. Per contro l’idealismo della libertà ha trovato nei  fatti della coscienza il punto saldo per una risoluzione universalmente valida del mistero del mondo; esso richiedeva l’esistenza e la possibilità di constatare determinazioni universali della  coscienza, non ulteriormente risolvibili, che con forza spontanea producono la formazione della vita e dell’intuizione del mondo nella materia della realtà esterna. Il terzo tipo di atteg- giamento gnoseologico-metodologico è completamente distinto dagli altri due. Esso può venir rintracciato in egual misura in Fraclito come nello Stoicismo, in Giordano Bruno come in Spinoza e Shaftesbury, in Schelling, Hegel, Schopenhauer e  Schleiermacher. Esso è fondato infatti sulla costituzione vitale  di questi pensatori. Diciamo che un atteggiamento è di tipo  contemplativo, estetico o artistico quando in esso il soggetto si  riposa, per così dire, dal lavoro conoscitivo delle scienze naturali e dall’agire in riferimento ai nostri bisogni, agli scopi che ne  derivano e alla loro realizzazione nel mondo esterno. In questo  atteggiamento contemplativo la vita del sentire, in cui la ricchezza della vita, il valore e la felicità dell’esistenza vengono  avvertiti anzitutto in modo personale, si allarga in una specie  di simpatia universale. In virtù di tale ampliamento del nostro  io nella simpatia universale noi riempiamo e animiamo la realtà intera con i valori che sentiamo, con l’operare in cui realizziamo la nostra vita, con le idee supreme del bello, del bene e  del vero. Le disposizioni che la realtà suscita in noi, le ritroviamo nuovamente in essa. E nella misura in cui allarghiamo il  nostro sentimento particolare della vita nella partecipazione alla totalità del mondo e avvertiamo la nostra affinità con tutte  le manifestazioni del reale, la gioia della vita si rinsalda e  cresce la coscienza della propria forza. È questa la costituzione  dell’anima in cui l’individuo si sente tutt'uno con la connessione divina delle cose e in tal modo affine a qualsiasi altro  membro di questa connessione. Nessuno ha espresso questa costituzione dell'anima in modo più bello di Goethe. Egli loda  la fortuna di poter « sentire e godere » la natura.    .. Né tu  m’accordi appena il freddo stupore d'un ospite ma, come nel cuore a un amico, mi dai di fissare nel fondo del suo essere. Guidi davanti a me la schiera dei viventi e a riconoscere m'insegni i miei fratelli fra piante mute, in aria c in acqua 2. 20. GoetHE, Fasst (tr. it. di F. Fortini). Questa costituzione dell'animo trova la soluzione di tutte le  dissonanze della vita nell’armonia universale delle cose. Il sentimento tragico delle contraddizioni dell’esistenza, la disposizione pessimistica, l'umorismo che coglie realisticamente la limitatezza e l’angustia opprimente dei fenomeni, ma nella loro profondità scopre l’idealità vittoriosa del reale, sono soltanto gradini che conducono alla percezione di una connessione universale  di esistenza e di valore.   La forma di apprendimento è nell’idealismo oggettivo sem- pre la medesima: non già l’ordinamento dei casi secondo rap- porti di affinità o di uniformità, ma l’intuizione complessiva delle parti in un tutto, l'elevazione della connessione della vita a connessione del mondo. Il primo tra questi pensatori a riflettere sul suo procedimen- to filosofico fu — a quanto ne sappiamo — Eraclito. Egli ha  avuto una profonda coscienza dell’atteggiamento contemplativo e ha espresso la sua antitesi nei confronti del pensiero personificante della fede, nei confronti della percezione sensibile —  che, presa da sola, egli tiene in scarso conto — e nei confronti  della cosmologia scientifica. Il filosofo fa oggetto della sua riflessione ciò che lo circonda da vicino, costantemente, giorno  per giorno, dove egli ritrova dunque sempre le medesime cose.  Essere presente a ciò che ci accade: con questa espressione  viene genialmente raffigurata la profonda saggezza in virtù della quale i fenomeni del corso del mondo, evidenti agli occhi  della massa, diventano invece per il filosofo autentico oggetto  di stupore e di meditazione. In base a questo atteggiamento  contemplativo Eraclito concepiva il corso del mondo come sempre identico — come il continuo fluire e la corruttibilità di  ogni cosa, ma anche come un ordine concettuale presente in  ogni suo punto. In tal modo il sentimento tragico del trascorrere incessante del tempo, in cui il presente è sempre e non è  più, si risolve ai suoi occhi nella coscienza di una regolarità  nell'universo che permane in mezzo a tale fuga.   Nello Stoicismo domina la stessa intuizione dell’universo come un tutto di cui le cose particolari sono parti, c in cui esse  vengono tenute insieme da una forza unitaria. Esso ha eliminato il rapporto di subordinazione dei fatti a unità concettuali  astratte, che prevaleva in Platone e Aristotele; in luogo della relazione logica del particolare con l’universale subentra, nel  suo sistema, il rapporto organico di un tutto con i suoi elementi — cioè quella forma di apprendimento che Kant ha posto in  stretta relazione, come intuizione del finalismo immanente della realtà organica, con la forma dell’intuizione estetica.   E dopo che erano scomparse la sillogistica e la sisternatica  scolastica — che avevano impiegato le forme sostanziali al  servizio della teologia cristiana, per fondare un mondo trascen- dentale — le medesime categorie di intuizione del mondo si presentano nel periodo di transizione dal Medioevo all’età mo- derna: l’intero e le sue parti, l’individualità di queste par- ti fino alle più piccole. Già in Nicola Cusano compare quella finissima concezione estetica dell’universo secondo cui la cosa  particolare, in quanto contrazione del tutto, rispecchia in sé  l'universo. Spinoza è il rappresentante di questa dottrina dell’universo come uzità, e anche l’intuizione leibniziana del mondo  è scaturita — nonostante il suo concetto di Dio, fondato sulla  monadologia e connesso con la sua tendenza teologica — da  questa costituzione dell’anima. La piena consapevolezza gnoseologica di tale atteggiamento contemplativo si ha in Schelling,  Schopenhauer e Schleiermacher. L’intuizione intellettuale di  Schelling, l'atteggiamento estetico contemplativo, libero dal volere, di Schopenhauer — in cui il soggetto non segue più le  relazioni reciproche delle cose in base al principio di ragion  sufficiente, ma coglie nei fenomeni ciò che ne costituisce l'essenza — e infine la religione come intuizione e sentimento dell’universo nei Discorsi di Schleiermacher: queste sono le diverse  forme nelle quali si esprimono i vari aspetti del medesimo atteggiamento, che è proprio di questo tipo di intuizione del  mondo.    Da tale atteggiamento deriva la formula metafisica comune  a tutta questa classe di sistemi. Tutti i fenomeni dell’universo  sono duplici: da un lato, cioè nella percezione esterna, essi  sono dati come oggetti sensibili e stanno, in quanto tali, in una  connessione fisica; d’altro lato recano in sé, considerati per  così dire dall'interno, una connessione vitale che può essere rivissuta nella nostra interiorità. Questo principio può essere  quindi espresso anche come affinità di tutte le parti dell’universo con il fondamento divino e tra di loro. Esso corrisponde alla  concezione di una simpatia universale che nel reale, in ciò che  si manifesta nello spazio, avverte ovunque la presenza della  divinità. La coscienza di quest’affinità è il carattere metafisico  fondamentale comune alla religiosità degli Indiani, dei Greci e  dei Germani; e da essa deriva, nella metafisica, l’immanenza di  tutte le cose — come parti di un tutto — in un fondamento universale e di tutti i valori in una connessione di significato che costituisce il senso del mondo. La contemplazione, l’intui- zione, che nella propria vita rivive quella del tutto — in qual- siasi modo possa interpretarla — coglie nei fenomeni dati ester- namente un’interna connessione divina. Da questo medesimo  atteggiamento sorge infine di regola la concezione deterministica; qui il singolo si scopre determinato dal tutto, e la connessione dei fenomeni viene concepita come caratteristica interna,  quali che siano le determinazioni che vengono ad essa attribute.    4.    Ciò che è contenuto in questa formula dell’idealismo oggettivo come costituzione della connessione del mondo, la religiosità, la poesia e la metafisica lo esprimono tutte soltanto in modo  simbolico. Esso è assolutamente inconoscibile. La metafisica separa soltanto aspetti particolari dalla vitalità del soggetto,  dalla connessione vitale della persona, proiettandoli nell’immensità come connessione del mondo. Ne scaturisce una nuova  incessante dialettica che conduce di sistema in sistema finché,  esaurite tutte le possibilità, viene riconosciuta l’insolubilità del  problema.   È questo fondamento del mondo volontà oppure ragione?  Se lo determiniamo come pensiero, occorre però una volontà  perché qualcosa nasca. Se lo si concepisce invece come volontà,  essa presuppone un pensiero che ne determini lo scopo. Volontà e pensiero non si lasciano però ridurre l’uno all’altro. A  questo punto la possibilità di pensare logicamente il fondamento del mondo si arresta, e ciò che rimane è soltanto il rispecchiamento in esso della vita mediante la mistica. Se si concepisce il fondamento del mondo in maniera personale, questa metafora esige tuttavia di essere delimitata da determinazioni concrete. Se invece si applica ad essa l’idea dell’infinito, scompaiono di nuovo tutte le sue determinazioni, e anche qui rimane  soltanto l’impenetrabile, l’inconcepibile, l’oscurità e la mistica. Se è fornito di coscienza, esso ricade sotto l’antitesi di soggetto e oggetto; d° altra parte non possiamo comprendere come qual- cosa di inconscio possa produrre la coscienza che gli è superio- re; siamo nuovamente di fronte a qualcosa di inafferrabile. Non ci è possibile pensare come dall’unità del mondo possa  nascere una molteplicità, dall’eterno qualcosa di mutevole: ciò  è logicamente inconcepibile. Il rapporto di essere e pensare, di  estensione e pensiero non viene reso comprensibile dalla parola  magica dell’« identità ». Così, anche di questi sistemi metafisici ciò che rimane è soltanto una costituzione dell’anima e un’intuizione del mondo. Goethe ha dato l’espressione più alta di  questa intuizione del mondo.    « Che sarebbe un Dio che agisse soltanto dall'esterno,  facesse rotare intorno al dito l'universo!  A Lui s’addice di muovere il mondo dall’interno,  di albergare la Natura in Sé, Sé nella Natura,  così che il mondo, che in Lui vive, vibra ed è,  mai senta mancanza della Sua forza, del suo spirito » %!.    21. GoetHE, Gort und IVelt, procmio, vv. 1-6 (tr. it. di F. Amoroso). WINDELBAND nasce a Potsdam. Frequenta dapprima l’Università di Jena, poi quelle di Berlino e di Gòttingen,  dedicandosi inizialmente a studi storici e sviluppando in seguito i suoi  interessi — sotto la duplice influenza di Fischer e Lotze — in direzione della filosofia. Dopo aver conseguito il dottorato a  Gòttingen con la dissertazione Die Lehren vom Zufall (Berlin),  Windelband ottiene l’abilitazione a Lipsia con Über  die Gewissheit der Erkenntnis (Berlin), nel quale emerge chiaramente la sua adesione al movimento neo-criticistico e, in particolare,  all'interpretazione della filosofia in chiave di teoria della conoscenza. Divienne professore a Zurigo, da dove si trasferisce a Friburgo e dopo a Strasburgo. Viene chiamato a Heidelberg quale successore di Fischer. La parte più cospicua della produzione di Windelband è costituita da numerose opere di storia della filosofia, che hanno avuto larga diffusione e risonanza anche al di fuori dei paesi di lingua tedesca. La  prima di queste opere, Die Geschichte der neueren Philosophie in ihrem  Zusammenhange mit der allgemeinen Kultur und den besonderen Wissenschaften (Leipzig, 1878-80; tr. it. Firenze, 1925), rappresenta un modello di interpretazione neocriticistica della storia della filosofia moderna, considerata come avente il proprio centro nello sviluppo della teoria  della conoscenza. Il carattere specifico del pensiero moderno rispetto a  quello antico e medievale viene individuato nel distacco dalla metafisica  e nello sforzo di pervenire a un'indagine critica; cosicché l'opera di  Kant viene presentata come il punto di confluenza dei suoi principali  indirizzi, ossia come la sintesi tra razionalismo ed empirismo. Nella  successiva Geschichte der Philosophie (1889-92), poi ripubblicata con il  titolo di LeArbuch der Geschichte der Philosophie (Freiburg i.B., 1903; tr.  it, Firenze, 1910-12), si riflette invece il passaggio dall’originaria prospettiva neocriticistica alla teoria dei valori: il presupposto della centralità del  problema gnoseologico viene messo in disparte, e la filosofia si allarga ad  abbracciare una molteplicità di problemi teoretici e pratici, studiati nel loro rapporto con la vita culturale e con la vita politico-sociale. Lo  stesso vale per la Geschichte der alten Philosophie (Miinchen, 1883) e  per la monografia P/aton (Stuttgart, 1900; tr. it. Palermo, 1914).   Negli anni successivi al 1880 Windelband è pervenuto a elaborare,  sulla base del richiamo a Kant, i presupposti di quell’impostazione  filosofica che sarà indicata come «teoria dei valori». Attribuendo alla  filosofia il compito di determinare i princìpi 4 priori che garantiscono la  validità del conoscere, egli li interpreta come valori forniti del duplice  carattere dell'universalità e della necessità, ossia come valori incondizio  nati: in riferimento alla conoscenza, la filosofia si configura come teoria  critica in quanto si pone il problema della validità del conoscere e  individua i valori su cui essa si fonda. Ma tale tipo di considerazione  non è limitato al campo della conoscenza, bensì si estende anche alla  moralità e all'arte. In una serie di saggi raccolti col titolo di Préludien  (Freiburg i.B.-Tiibingen, 1883) e via via arricchita nelle successive edizioni (Tiibingen, 19027, 1907°, 1911*, 1914%; tr. it. Milano, 1947) Windelband delinea una concezione della filosofia come ricerca e individuazio- ne dei valori che costituiscono la norma intrinseca dell'attività umana nei suoi diversi campi, distinguendo così la validità normativa dei valori dalla validità empirica delle leggi naturali. Ciò che è proprio dei valori non è l’esistenza di fatto, bensì il « dover essere »; anche se non trovano  una realizzazione empirica, non per questo i valori cessano di valere  incondizionatamente. Essi fanno parte di una « coscienza normale » che si  colloca su un piano trascendente rispetto alla realtà empirica, e sul  quale questa non può incidere. Il compito della filosofia diventa perciò  quello di stabilire i valori che stanno a base rispettivamente del conoscere, dell'agire e del sentire — secondo la tripartizione kantiana delle  facoltà umane. In questa prospettiva Windelband ha affrontato, nel  discorso rettorale di Strasburgo Geschichte und Naturwissenschaft  (1894), il problema della conoscenza storica; e l’ha affrontato in aperta  polemica con Dilthey. Egli respinge infatti la distinzione tra scienze  della natura e scienze dello spirito a causa del suo fondamento oggetti  vo, e vi sostituisce una distinzione puramente metodologica tra due  gruppi di discipline differenziate in base al loro orientamento conoscitivo: le scienze nomotetiche, dirette alla determinazione di leggi generali,  e le scienze idiografiche, rivolte alla comprensione dell’individuale. In  quanto insieme delle scienze idiografiche, la conoscenza storica appare  quindi caratterizzata dallo sforzo di determinare la fisionomia individuale di ogni avvenimento, poco importa che esso appartenga alla natura o  all'ambito dei fenomeni spirituali.   Nell'ultimo periodo della sua vita Windelband ha sviluppato le  implicazioni metafisiche della teoria dei valori, affiancando all'esigenza  del ritorno a Kant il richiamo alla visione storica del mondo elaborata dall'idealismo post-kantiano. Nel volume Die Philosophie im deutschen  Geistesleben des 19. Jahrhunderts (Tiibingen, 1909) e in alcuni saggi  del 1908-10, poi raccolti nei Pràludien, egli addita nell’orientamento  storico dell'idealismo post-kantiano l’eredità principale della filosofia dell'Ottocento, riprendendo su tale base la polemica contro il naturalismo e  contro il tentativo di ridurre la storia a natura. Nell’Ein/eitung in die  Philosophie (Tiibingen, 1914) egli formula la distinzione tra scienza  naturale e conoscenza storica da un altro punto di vista, cioè in riferimento al rapporto tra realtà empirica e valori: la scienza naturale si  presenta come una conoscenza priva di rapporto con i valori, mentre la  conoscenza storica diventa una conoscenza in relazione ai valori, dal mo- mento che la realtà storica è il terreno della realizzazione empirica dei valori. Nella postuma e incompiuta « lezione di guerra » sulla Geschickts- philosophie (Berlin, 1916), infine, il senso della storia viene definito in base all'idea di umanità, kantianamente intesa come principio regolativo  e quindi come postulato che deve consentire la valutazione dei singoli  avvenimenti. Non esiste alcuna raccolta delle opere filosofiche di Windelband, né  esse sono state ristampate in epoca recente. Si dispone invece di ristampe  aggiornate dei manuali di storia della filosofia: il Lehrbuch der Geschichte  der Philosophie (completato da H. Heimsoeth fin dalla 13? ed., del 1935),  è stato ancora pubblicato dalla casa editrice Mohr, Tiibingen, 1957!, e  così pure la Geschichte der abendlindischen Philosophie im Altertum  (a cura A. Goedeckenmeyer), Miinchen, 1963.   Limitata è anche la letteratura critica sulla filosofia di Windelband,  spesso considerata insieme con quella di Rickert. Tra gli studi in proposito segnaliamo i più importanti:    H. Ricxert, Wilhelm Windelband, Tiibingen, 1915.    A. Ruce, Wilhelm Windelband, « Zeitschrift fir Philosophie und philosophische Kritik », CLXII, 1916-17, pp. 54-71 e 188-221.    K. WieperHoLt, Wertbegriff und Wertphilosophie, « Erginzungshefte »  alle « Kantstudien », Berlin, 1920.    B. W. ScHescHicHs, Die Kategorienlehre der Badischen philosophischen  Schule, Berlin, 1938.    B. JarowenKgo, Wilhelm Windelband: ein Nachruf, Prag, 1941.    C. Rosso, Figure e dottrine della filosofia dei valori, Torino, 1949, e Napoli. I nomi hanno un loro destino — di rado, però, strano come quello del termine « filosofia ». Se ci rivolgiamo alla sto- ria chiedendo che cosa propriamente sia la filosofia, e ci guardiamo intorno tra quelli che sono stati definiti, e ancora vengono definiti, « filosofi », per sapere come concepiscono ciò che  hanno fatto e fanno, ne otteniamo risposte così diverse e divergenti tra loro che sarebbe un'impresa disperata voler ricondurre  questa variopinta e cangiante molteplicità a un’espressione semplice, e costringere la pienezza di tali mutevoli fenomeni sotto  un concetto unitario ".   Certamente un tentativo di questo genere è stato compiuto  abbastanza spesso dagli storici della filosofia. Si è voluto prescindere dalle particolari determinazioni di contenuto con cui  ogni filosofo è solito porre — già nell’esposizione del compito  che si prefigge — la quintessenza dei punti di vista che ha  acquisito. Si pensava di poter così pervenire a una definizione  puramente formale, indipendente sia dal mutare delle intuizioni temporali e nazionali, sia dall’unilateralità delle convinzioni  personali, e quindi adatta a comprendere tutto quanto è stato  chiamato « filosofia ». Ma sia che s’intenda designare la filoso  a. Sulle definizioni della filosofia si veda più particolarmente W. WinDELBAND, Lehrbuch der Geschichte der Philosophie, Tibingen und Leipzig,  4° ed. 1907, $$ 1€2.    * Was ist Philosophie? Uber Begriff und Geschichte der Philosophie (1882), in  Pràludien, Freiburg i.B. und Tibingen, Akademische Verlag von ]. C. B. Mohr, 1884,  Pp. 1-53 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi). fia come saggezza, o come scienza dei princìpi, o come dottrina dell’assoluto, o come auto-conoscenza dello spirito umano,  o in qualsiasi altra maniera, la definizione rimarrà pur sempre  troppo ampia o troppo ristretta: sempre ci saranno formazioni  storiche che, indicate col nome di filosofia, non si lasceranno  subordinare all’una o all’altra di quelle determinazioni for- mali. Sarebbe inutile ripetere cose spesso dette ed esibire le istan- ze negative (che è facile far emergere dalla storia) contro simi- li tentativi. Vale invece la pena indagare con un po’ più di precisione i motivi di questo fenomeno. È noto che, per ottene- re una definizione valida, la logica pretende l’indicazione del  concetto di genere prossimo superiore e dell’attributo specifico:  entrambe le esigenze non possono però venir soddisfatte in  questo caso.   Anzitutto si affermerà subito che il concetto superiore nel  quale rientra la filosofia è quello di scienza. Sarebbe un’obiezione ben debole dire che nel nostro caso la specie coincide talora  completamente col genere: così per esempio alle origini del  pensiero greco, dove appunto ancora non c’è che una scienza  indivisa, o più tardi, in certi periodi, quando la tendenza universalistica di un Descartes o di uno Hegel riconosce le altre  «scienze » soltanto nella misura in cui si lasciano ridurre a  parti della filosofia. Ciò dimostra soltanto che il rapporto tra  questa specie e il genere non è costante; ma lascia inalterato il  carattere della filosofia come scienza. Tantomeno sarebbe possibile confutare la subordinazione della filosofia al concetto di  scienza con la dimostrazione che nella maggior parte delle  dottrine filosofiche sono sempre presenti elementi e procedimenti non scientifici. Anche quest’obiezione dimostrerebbe solo  quanto poco la filosofia reale abbia finora assolto il suo compito. Del .resto la storia delle altre «scienze» offre fenomeni  paralleli a questo, come l’epoca fabulatoria della storia, la fanciullezza alchimistica della chimica o il fanatico periodo astrologico dell'astronomia. Nonostante ogni imperfezione, quindi, la  filosofia meriterebbe la qualifica di scienza a patto di poter  stabilire che tutto quanto si definisce come filosofia vuole essere  scienza, e può anche — con una corretta esecuzione — esserlo.  Ma non accade così. Una simile subordinazione sarebbe già problematica se si mostrasse — ed è possibile, anzi è stato mostrato — che i compiti che i filosofi si sono imposti non soltanto occasionalmente, ma che hanno indicato come loro autentico  fine, mai e poi mai possono essere risolti per via di conoscenza  scientifica. Se la dimostrazione — introdotta per la prima volta  da Kant, e da allora ripetuta in mille varianti — dell’impossibilità di una fondazione scientifica della metafisica è giusta, tutte le «filosofie » di tendenza essenzialmente metafisica escono  dall’ambito della « scienza »; e ciò colpisce seriamente non fenomeni subordinati, ma proprio quelle vette della storia della filo- sofia i cui nomi sono sulla bocca di tutti. I loro « poemi concet- tuali » non possono quindi venir sussunti sotto il concetto di scienza in senso oggettivo, ma soltanto in senso soggettivo: essi si proponevano di compiere, e credevano di aver compiuto scientificamente ciò che non si può affatto compiere scientificamente. Ma neppure è possibile trovare tra i rappresentanti  della filosofia l'universalità di questa pretesa soggettiva, che  cioè la filosofia debba essere scienza. Per non pochi tra di essi,  intanto, l'elemento scientifico vale al massimo come mezzo, più   o meno inevitabile, per lo scopo vero e proprio della filosofia. Chi vede in quest’ultima un’arte della vita — come i filosofi dell’epoca ellenistica e romana — non cerca più il sapere per il sapere, come invece conviene a una scienza. Se poi al sapere scientifico si chiede soltanto un prestito, è del tutto indifferen- te dal punto di vista della scientificità che lo si faccia per scopi  politici, tecnici, morali, religiosi o di qualsiasi altro tipo. Anche tra quelli che intendono la filosofia come conoscenza, molti  sono chiaramente consapevoli che non possono acquisire tale conoscenza mediante la ricerca scientifica: senza pensare ai mistici  (per i quali tutta la filosofia è illuminazione), quanto spesso si  ripete nella storia la confessione che le radici ultime di una  convinzione filosofica non devono essere ricercate in un procedimento dimostrativo di tipo scientifico! Come ancoraggio a cui  la filosofia deve tenersi stretta, sopra le onde del movimento  scientifico, viene indicata a volte la coscienza con i suoi postulati, a volte la ragione come percezione di un’insondabile profondità vitale, talora l’arte come organo della filosofia, talora una  comprensione di tipo geniale, un’« intuizione » originaria, talora una rivelazione divina: Schopenhauer, l’uomo in cui molti contemporanei onorano il filosofo par excellence, confessa più  volte che la sua dottrina non è stata acquisita, né può essere  dimostrata, mediante un lavoro metodico, ma prende forma  soltanto davanti allo «sguardo» d'insieme che solo riesce a  dare un’interpretazione complessiva ai risultati conoscitivi della scienza.   La filosofia è quindi ben lungi dal poter essere semplicemente subordinata al concetto di scienza, come spesso ci si immagina, sviati da tendenze posteriori e definizioni consuete. Certamente il singolo può ben costruirsi un concetto di filosofia che  consenta tale subordinazione: ciò è accaduto, accadrà sempre, e  noi stessi vogliamo tentarlo. Ma quando si considera la filosofia  come una formazione storica reale, quando si confronta tutto  quanto è stato indicato come filosofia nei movimenti spirituali  dei popoli europei, una sussunzione del genere non è consenti- ta. La consapevolezza di questo fatto si manifesta in varie forme. Nella storia della filosofia essa assume la forma per cui, di tempo in tempo, riappaiono aspirazioni a «elevare a scien- za», finalmente, la filosofia. A ciò si connette il fatto che, anche laddove vi sia sempre conflitto tra indirizzi filosofici,  ognuno di essi mostra la tendenza a pretendere per sé solo il  carattere della scientificità, negandolo alla prospettiva avversa.  La distinzione tra filosofia scientifica e filosofia non scientifica  è un'espressione di battaglia di cui da sempre ci si compiace.  Platone e Aristotele hanno contrapposto la loro filosofia, in  quanto scienza (èriotiUn), alla Sofistica come opinione (865x)  ascientifica e piena di pregiudizi; e con un capovolgimento che  si potrebbe quasi dire uno scherzo della storia, oggi i rinnovatori  positivistici e relativistici della Sofistica tentano di contrapporre  la loro dottrina, in quanto filosofia « scientifica », a quelli che  ancora accreditano la grande conquista della scienza greca. Tra  chi sta al di fuori della mischia, non considerano scienza la  filosofia coloro che nella sua storia non vedono altro che la  «storia degli errori umani ». Infine colui al quale la superficiale presunzione del moderno enciclopedismo non ha ancora fatto  perdere il rispetto per la storia, chi sta ancora pieno di stupore  di fronte alle grandi formazioni concettuali della filosofia, dovrà diventare consapevole che non è sempre il significato scientifico della filosofia ciò a cui rende il suo tributo, bensì qui l'energia di una più nobile intuizione della vita, là l’artistica  armonizzazione di idee contrastanti — qui l'ampiezza di rappresentazioni di portata universale, là Ia forza ordinatrice del  lavoro combinatorio del pensiero.   In realtà i fatti storici esigono di prendere le distanze da  una subordinazione così incondizionata della filosofia al concetto di scienza, quale viene quasi ovunque ammessa. L’aperto  sguardo dello storico sarà piuttosto costretto a vedere in essa un fenomeno culturale ramificato e proteiforme che non si  lascia schematizzare o rubricare con semplicità. Egli comprenderà che con quella usuale sussunzione si fa torto alla scienza  non meno che alla filosofia: alla filosofia in quanto si costringe  in un ambito troppo stretto la sua aspirazione verso un ambito  sempre più vasto, e alla scienza in quanto la si rende così  responsabile di tutto quanto confluisce da molte altre fonti  nella filosofia.  Anche ammesso che si possa sussumere il fenomeno storico  della filosofia sotto il concetto di scienza e attribuire tutto quan- to vi si oppone all’imperfezione delle singole filosofie, sorge la questione non meno ardua di come si debba distinguere, all’in- terno di questo genere, la filosofia, in quanto specie particola- re, dalle altre scienze. Anche a questa seconda questione la storia — e soltanto di questa stiamo in definitiva parlando —  non dà nessuna risposta universalmente valida. Le scienze possono distinguersi in parte secondo i loro oggetti, in parte secondo i loro metodi; ma in nessuna di queste due prospettive è  possibile rintracciare un segno distintivo permanente per tutte  le manifestazioni storiche della filosofia.   Per quanto riguarda gli oggetti, accanto a sistemi filosofici  che fanno oggetto della loro indagine tutto quanto esiste o  perfino tutto quanto «è possibile», ve ne sono altri, altrettanto significativi, che delimitano strettamente il loro campo  d'indagine, per esempio ai « fondamenti ultimi» dell’essere e  del pensiero, o alla dottrina dello spirito, o alla teoria della  scienza, e così via. Interi campi del sapere che per l’uno sono,  se non l’unico, almeno il terreno principale dell’elaborazione  filosofica, vengono invece dall’altro espressamente esclusi dal  dominio della filosofia. Vi sono sistemi che non vogliono esser  altro che etica; ve ne sono altri che, delimitando la filosofia alla teoria della conoscenza, si propongono di lasciare l’indagine dei problemi morali ed estetici alla storia dell’evoluzione  psicologica e biologica. Vi sono sistemi in cui la filosofia viene  totalmente risolta in psicologia; ve ne sono altri che tracciano  uno scrupoloso confine rispetto alla psicologia, considerata come una scienza empirica. Di molti « filosofi » presocratici non  conosciamo che alcune osservazioni e teorie, che al giorno d’oggi releghiamo nella fisica, nell’astronomia, nella metereologia  ecc., ma che nessuno designerebbe mai come filosofiche: nei  sistemi successivi compare talora come elemento integrante  una propria visione della natura: talora, invece, vien fatta una  rinuncia di principio ad essa. In ogni filosofia del Medioevo il  centro di gravità dell'interesse sta in problemi che sono oggi  oggetto della teologia; lo sviluppo della filosofia moderna allontana sempre più da sé, di secolo in secolo, tali questioni. I  problemi del diritto o dell’arte rappresentano qui gli oggetti  più importanti della filosofia; là si negava invece la possibilità  di una loro trattazione filosofica. Tutta l’antichità, e anche la  maggior parte dei sistemi metafisici anteriori a Kant, non ha  avuto sentore di una filosofia della storia: oggi essa è diventata una delle discipline più importanti.  Da questa diversità degli oggetti della filosofia risulta ora per lo storico una difficoltà non irrilevante, e finora quasi mai trattata in linea di principio®: con quale estensione e in quali limiti, cioè, egli debba assumere nella storia della filosofia le dottrine e i punti di vista formulati da un filosofo, prescinden- do dal significato biografico che possono avere per la caratterizzazione della sua personalità. Qui sembrano aprirsi soltanto  due vie pienamente coerenti: o si segue la storia in tutte le  stranezze delle sue denominazioni e si lascia che l'esposizione  storica vaghi, allo stesso modo dell’interesse « filosofico», da  un oggetto all’altro, oppure si pone a fondamento una determinata definizione della filosofia e in base ad essa si compie la  scelta e la distinzione delle singole dottrine. Nel primo caso si  paga l’« oggettività storica » con una molteplicità sconcertante e  a. Cfr. il mio saggio Geschichte der Philosophie, in Die Philosophie im  Beginn des zwanzigsten Jahrhunderts (Festschrift fiv Kuno Fischer), Heidelberg. con la mancanza di connessione tra gli oggetti; nel secondo caso l’unitarietà e la capacità di penetrazione così acquisite poggiano sull’unilateralità con cui si impone come schema un presupposto, determinato personalmente, nel movimento stori- co. La maggior parte degli storici della filosofia hanno im- boccato, senza rendersene conto (o anche senza poterlo fare),  una via di mezzo, sviluppando le teorie di quei filosofi che si  addentrano nel dettaglio delle scienze particolari soltanto nella  loro connessione di principio con il complesso della dottrina e  rinunciando in misura maggiore o minore (secondo l'estensione  del loro lavoro) a riprodurre la realizzazione specifica. Siccome  non esiste per questo un criterio determinato, e nemmeno può  esistere in una maniera che possegga una validità universale di  per sé evidente, al posto di esso sono subentrati per lo più  l’arbitrio dell’interesse personale o l’accidentalità di una certa  sensibilità.   Di fatto, per il modo con cui si configurano i rapporti  storici, questa difficoltà non può essere superata in linea di  principio; essa viene rammentata qui soltanto come conseguenza necessaria del fatto che non è possibile stabilire in modo  universalmente valido l’oggetto della filosofia in base alla comparazione storica. La storia dimostra piuttosto che nell’ambito  in cui si può indirizzare la conoscenza non vi è nulla che non  sia già stato incluso una volta nella filosofia, e così pure nulla  che non ne sia stato una volta escluso.  Tanto più comprensibile appare allora la tendenza a cercare  il carattere specifico della filosofia non già nell'oggetto ma nel  metodo, e a ritenere che la filosofia tratti bensì gli stessi oggetti delle altre scienze, ma con un metodo suo proprio: di qui il fatto che essa respinge da sé determinati oggetti inaccessibili al suo metodo, mentre deve esercitare una pretesa permanente di possesso su altri, particolarmente appropriati al suo modo di procedere. Un tentativo di tal genere — compiuto su larga scala da Wolff, che per ogni gruppo di oggetti della conoscenza scientifica accostava una disciplina filosofica a una disciplina « storica » (come si diceva allora: oggi si direbbe « empirica») — può essere teoricamente formulato molto bene come  progetto. Ma anch'esso non basta a una determinazione storica  del concetto di filosofia — per il semplice motivo che anche tra i filosofi che assumono per la loro scienza un metodo particolare (e sono una piccola parte) non c'è il minimo accordo riguardo a questo « metodo filosofico ». Non è quindi possibile parla  re con validità storica universale di un particolare modo di  trattazione scientifica il cui impiego costituisca l'essenza della  filosofia, né si può sostenere che tale essenza possa trovarsi  nell’aspirazione, anche incompiuta, a questo metodo. Giacché  da un lato tutti quelli secondo cui la filosofia oltrepassa il  lavoro scientifico non vogliono, conseguentemente, saperne di  un metodo filosofico; d’altra parte proprio coloro che vogliono  «elevare a scienza » la filosofia cedono molto spesso al desiderio di comprimerla entro metodi di altre scienze sperimentati  in campi particolari, per esempio entro i metodi della matematica o dello studio induttivo della natura. Infine, laddove si è  imposto un metodo specifico della filosofia, quanto esso è lontano dall’essere universalmente riconosciuto! Il metodo dialettico  della filosofia tedesca appare ai più un capriccio stravagante e  stupido; e se Kant credeva di aver stabilito per la filosofia il  metodo «critico », gli storici non si sono messi ancor oggi  d’accordo su ciò che voleva dire.  Queste osservazioni potrebbero essere tirate in lungo con  un'infinità di esempi. Ma per quanto riguarda il significato  logico inerente a un'istanza negativa, anche quando essa abbia  un'estensione minima, i casi qui menzionati bastano a dimostrare che è impossibile — qualunque sia la via imboccata — trovare mediante l’induzione storica un concetto universale di filosofia che comprenda se non altro tutti i fenomeni storici che  vengono chiamati «filosofia». Se non è possibile sussumere  senza residui la filosofia sotto il concetto generico di scienza,  tanto meno è possibile farlo rispetto ad altri concetti generici  di attività culturali come l’arte o la poesia: bisogna perciò  rinunciare alla possibilità di trovare per via storica il concetto  superiore prossimo comprensivo della filosofia. Nessuno mette- rà in dubbio che ogni filosofia è un prodotto spirituale, una formazione della rappresentazione; ma nessuno vorrà conside- rarlo come un punto di vista in qualche modo utilizzabile. Sembra che ai filosofi accada come a tutti gli individui umani che si chiamano Paolo, e nei quali non è assolutamente possibile indicare un segno comune ir virtà del quale essi recano tutti questo nome. Ogni denominazione si fonda sull’arbitrio  storico e può quindi rimanere più o meno indipendente e distante dall’essenza di ciò che deve denominare: così sembra  valere, se si considera l’intero corso temporale, anche per il  termine « filosofia », poiché la comunanza della parola non corrisponde a un’unitarietà dell'essenza da determinare concettualmente. Se ci si limita a brevi periodi e a singoli ambiti culturali, si potrà forse trovare al loro interno un significato costante  connesso col nome di filosofia: ma esso cessa di valere non  appena si segue il termine nella sua applicazione attraverso  tutta la storia.  Certamente, questo risultato della considerazione storica appare quanto mai preoccupante: se esso rimanesse privo di integrazione, una storia universale della filosofia risulterebbe priva  di senso. Avrebbe, appunto, lo stesso valore — per tornare al  paragone di prima — del tentativo di scrivere la storia di tutti  gli uomini che si chiamano Paolo. È chiaro allora che proprio  a quei « pensatori autonomi » che hanno costruito un loro concetto di filosofia rigidamente determinato, come Kant e Herbart, la consueta storia della filosofia — che doveva offrire loro  elementi così poco affini — è rimasta estranea e antipatica,  mentre le epoche di eclettismo (che non sanno mai che cosa si  debba propriamente denominare filosofia) sono state anche quelle in cui più si è occupati storicamente di filosofia. Se però la  riflessione storica deve mantenere un senso razionale, essa presuppone (anche se non è in grado di mostrare un concetto universale di filosofia) che il mutamento sperimentato nel corso dei  secoli dal termine « filosofia» non significhi mero arbitrio e  accidentalità, ma anzi abbia un senso razionale e un valore  specifico. Se nonostante le stranezze delle digressioni individuali la storia del termine « filosofia » è l’espressione di uno sviluppo profondamente significativo nella connessione della vita culturale dell'umanità europea, allora la storia di questo e dei  fenomeni particolari in esso compresi acquisisce un senso autonomo e fornito di valore non già malgrado, ma proprio in  virtù di questo mutamento di significato.  Del resto le cose non stanno, di fatto, diversamente; e solo quando si è chiarita la storia del termine « filosofia » si è an- che in grado di determinare ciò che nel futuro, aspirando a una validità più che individuale, possa essere legittimato a por- tare questo nome. Dobbiamo ai Greci sia il termine sia il primo significato di  qriocepla. Divenuto denominazione tecnica — pare — ai tempi di Platone, il termine significa esattamente ciò che oggi  noi Tedeschi designamo col termine « scienza »* che, per fortuna, è molto più comprensiva di quanto non lo sia la science  dei Francesi e degli Inglesi. È il nome che assume un bambino  appena nato. Saggezza, che si tramanda di generazione in generazione nella forma di antichissime narrazioni mitiche; dottrina morale, espressione riflessa dell'anima popolare; intelligenza pratica che, accostando esperienza a esperienza, agevola alla  nuova generazione il cammino della vita; conoscenze pratiche  acquisite nella lotta per l’esistenza in singoli compiti e nella  loro soluzione, e accumulate col trascorrere dei tempi in un  potere e in un sapere imponente — tutto ciò è esistito da  sempre in tutti i tempi. Ma la «curiosità» dello spirito di  cultura liberato dalla necessità della vita, che nella nobiltà dell’ozio comincia a indagare per possedere il sapere soltanto di  per se stesso, senza alcun scopo pratico, senza guardare all’edificazione religiosa o alla nobilitazione morale, per trovare godimento in esso come valore assoluto e completamente indipendente — questo puro impulso al sapere è stato sviluppato per  la prima volta dai Greci, che sono così diventati i creatori  della scienza. Analogamente all’«impulso al gioco », essi hano no tratto fuori dagli intrecci delle rappresentazioni mitiche, a. Non bisognerebbe mai dimenticare che nelle traduzioni sorgono pa- recchi fraintendimenti quando si rende piXogopfa con « filosofia », incor- rendo così nel pericolo che il lettore moderno intenda il termine nel sen- so attuale, assai più ristretto. Basterà un esempio tra i molti. Un noto passo di Platone viene facilmente tradotto nel modo seguente: « La sventura  dell'umanità non avrà termine finché i governanti non filosoferanno o i  filosofi non governeranno, ossia finché potere politico e filosofia non coincideranno ». È comodo sorridere sc per « filosofia » si pensa alle fantasticherie metafisiche e per « filosofi » ai professori sprovvisti di senso pratico  e ai dotti solitari! Ma si traduca correttamente; e quando allora si trova  che Platone non ha preteso altro se non che il governo stia nelle mani della  cultura scientifica, si vedrà forse come egli abbia profeticamente precorso,  con quella massima, lo sviluppo della vita europea. dalla dipendenza a bisogni etici e quotidiani l'impulso al sapere, trasformando così la scienza, al pari dell’arte, in organi autonomi della vita culturale. Nella nebulosità fantastica della natura orientale gli esordi dell’impulso artistico e scientifico si rdono nel tessuto di una vita complessiva indistinta: i Greci, come guide dell’occidentalismo, cominciano a distinguere l’indi- stinto, a differenziare quanto è ancora embrionalmente non dispiegato e a introdurre, per le supreme attività dell’uomo civile, la divisione del lavoro. La storia della filosofia greca è così  la storia della nascita della scienza: tale è il suo senso più  profondo e il suo significato intramontabile. Lentamente l’impulso scientifico si svincola dai fondamenti generali in cui è  originariamente incapsulato; allora esso si comprende, si esprime con fierezza e petulanza e infine giunge a compimento  producendo, in completa chiarezza e in tutta la sua estensione,  il concetto di scienza. Dalla ricerca di Talete! sul fondamento  primo delle cose fino alla logica di Aristotele, è tutto un grande sviluppo tipico il cui tema è la scienza.   Questa scienza si indirizza perciò a tutto quanto può diventare oggetto del sapere, o sembra poterlo diventare: abbraccia  il Tutto, l’intero mondo della rappresentazione. Ciò che l’impulso al sapere divenuto autonomo trova davanti a sé come materiale per la propria attività nei racconti mitici del passato, nelle regole di vita dei saggi e dei poeti, nelle conoscenze  pratiche di un popolo di commercianti impegnato in svariate  attività — tutto ciò è ancora così poca cosa che può essere  agevolmente riunito in una sola testa ed elaborato con pochi  concetti fondamentali. Così, in Grecia la filosofia è scienza  unica e indivisa.   Ma il processo di differenziazione già avviato deve necessariamente procedere. Il materiale cresce, e di fronte allo spirito  conoscente e ordinatore si articola in diversi gruppi di oggetti,  che appunto perciò esigono una trattazione differenziata. La  filosofia comincia a dividersi: le singole « filosofie » si separano e ognuna di esse pretende ora per sé sola il lavoro di una  vita di un ricercatore. Lo spirito greco entra nell'età delle scien  1. Talete di Mileto, filosofo ionico vissuto tra il secolo vil e il secolo vi a. C., è  tradizionalmente considerato il punto di partenza della speculazione filosofica greca. ze specialistiche. Se ora ogni disciplina assume il nome del proprio oggetto, dove rimane il nome di filosofia? In un primo tempo esso si lega all’universale. Il possente spirito sistematizzatore di Aristotele, in cui quel processo di differenziazione ha trovato il suo compimento, creò tra le altre anche una filosofia «prima », cioè una scienza fondamentale  che — detta anche, più tardi, metafisica — trattava della connessione suprema e ultima di tutte le conoscenze. Qui tutti i concetti prodotti nei singoli compiti della scienza si unificavano in  un quadro complessivo dell’universo, e per questa suprema funzione onnicomprensiva fu quindi mantenuto il nome originario  della scienza complessiva.   Soltanto che, nello stesso tempo, comparve un altro elemento che aveva la sua base non in un movimento puramente  scientifico, ma in un movimento culturale generale. Quella divisione del lavoro scientifico avvenne nell'epoca di decadenza  della Grecità. Alle culture nazionali subentrò una cultura universale in cui la scienza greca costituiva sì un vincolo essenziale, ma retrocedeva rispetto ad altre esigenze, oppure si poneva  al loro servizio. Dalla Grecità si passò all’Ellenismo, dall’Ellenismo all’Impero romano. Si andava istituendo un enorme meccanismo sociale, che divorava la vita nazionale con i suoi interessi particolari, che contrapponeva l’individuo, come atomo  effimero, a una totalità impenetrabile ed estranea, che con l’acurizzarsi della lotta sociale costringeva infine il singolo a rendersi il più possibile indipendente, e a preservare per sé il massimo  di felicità e di serenità, sottraendolo al grande strepito, nella  quiete dell’esistenza individuale. Dove i destini del mondo esterno passavano annientando interi popoli e potenti imperi, la  felicità e il godimento sembravano rifugiarsi nell’interiorità della persona, e così per tutti i migliori la questione della giusta  direzione da dare alla vita personale divenne la più importante  e scottante. Di fronte alla vivacità di questo interesse si indeboliva il puro impulso al sapere: la scienza veniva ancora apprezzata soltanto nella misura in cui poteva servire a questo interesse, e quella « filosofia prima » sembrava offrire la sua immagine scientifica del mondo solo allo scopo di comprendere quale  posizione spetta all’uomo nella connessione universale, e come  egli possa di conseguenza indirizzare la propria vita. L’esempio tipico di questo movimento lo vediamo nello Stoicismo. La subordinazione del sapere alla vita è il carattere universale del- l’epoca: per essa la filosofia è quindi arte di vivere ed esercizio di virtù. La scienza non è più uno scopo in sé; essa è il più nobile strumento di felicità. Il nuovo organo dello spirito umano sviluppato dai Greci entra in uno stato di dipendenza destinato a durare a lungo.   Col trascorrere dei secoli esso cambia padrone. Mentre le  scienze particolari entrano al servizio dei singoli bisogni sociali  — tecnica, insegnamento, medicina, legislazione ecc. — la filosofia è anzitutto quella scienza complessiva che deve insegnare  come l’uomo possa diventare al tempo stesso virtuoso e felice.  Ma quanto più il mondo perdura in questa situazione, quanto  più una sfrenata ricerca del godimento e la mancanza di convinzione invadono la società, tanto più si frantuma l’orgoglio  della virtù, tanto più il desiderio di felicità dell'individuo appare privo di prospettive. Con tutto il suo splendore e con tutto il  suo desiderio di piacere il mondo esterno si spopola, e sempre  più l’ideale si sposta dalla regione mondana in una regione  trascendente, più alta, più pura. L'idea etica si trasforma in  idea religiosa, e ora «filosofia» significa conoscenza di Dio.  L’intero apparato della scienza greca, il suo schema logico, il  suo sistema di concetti metafisici sembra ora destinato soltanto  a fornire un’espressione conoscitiva adeguata all’aspirazione religiosa e a una convinzione piena di fede. Nella teosofia e nella  teurgia che si trasmettono dagli agonizzanti secoli di transizione alla mistica del Medioevo questo nuovo carattere della « filosofia» emerge non meno di quanto emerga nel duro lavoro  concettuale con cui tre grandi religioni tentarono di assimilare  a sé la scienza greca. In questa forma, come ancella della fede,  la filosofia si manifesta nei lunghi e difficili secoli di apprendistato dei popoli germanici: l'impulso al sapere sì è fuso nell’im- pulso religioso e non ha, accanto ad esso, un suo autonomo diritto. La filosofia è il tentativo di sviluppo scientifico e di fondazione delle convinzioni religiose. Nell’emancipazione dal dominio esclusivo della coscienza re- ligiosa risiedono le radici del pensiero moderno, che affondano  profondamente nel cosiddetto Medioevo. Anche l'impulso al  sapere si rifà libero, riconosce e afferma il proprio valore specifico. Mentre le scienze specialistiche seguono, con compiti e metodi in parte nuovi, la loro strada, la filosofia ritrova negli  ideali della Grecia il puro sapere fine a se stesso. Essa si scrolla  di dosso la finalità etica e religiosa diventando di nuovo la  scienza complessiva della totalità del mondo, di cui vuole acquisire la conoscenza per proprio conto e per se stessa, senza  appoggio estraneo. La « filosofia » diventa metafisica in senso stretto, sia che riproduca i sistemi dei grandi filosofi Greci, sia che intenda poetizzare in una combinazione fantastica le nuove intuizioni offerte dalle scoperte dell’epoca, sia che vada alla rigorosa scuola di una matematica fornita di antica dignità eppure ancor giovane, sia che voglia cautamente costituirsi con le  conoscenze della nuova indagine della natura. In tutti i casi  essa vuole fornire, indipendentemente dal conflitto delle opinioni religiose, una conoscenza autonoma del mondo fondata sulla  «ragione naturale », e si contrappone così alla fede in qualità  di «sapienza mondana ».   Ma accanto a questo interesse metafisico ne compare fin  dall'inizio un altro, che prende gradualmente il sopravvento.  Sorta in opposizione alla scienza tutelata dalla Chiesa, questa  nuova filosofia deve anzitutto mostrare come intenda produrre  il suo nuovo sapere. Essa procede da indagini sull’essenza  della scienza, sul processo del conoscere, sull’adattamento del  pensiero ai suoi oggetti. Se questa tendenza è inizialmente metodologica, assume però sempre di più il carattere di teoria  della conoscenza. Non indaga più soltanto sulle vie, ma sui  limiti della conoscenza. E proprio l’antitesi, che ora si ripete e  si approfondisce, tra i sistemi metafisici suscita la questione se  sia in generale possibile la metafisica, cioè se la filosofia abbia  un proprio oggetto, se abbia diritto a esistere accanto alle scienze particolari.   E alla questione si dà risposta negativa! Il secolo che nella  sua suprema fiducia nel sapere pensava di padroneggiare la  storia con la sua filosofia — il secolo xvi — è quello che  riconosce e confessa che la forza conoscitiva dell’uomo non  basta per abbracciare la totalità del mondo e per penetrare i  fondamenti ultimi delle cose. Non esiste metafisica: la filosofia  ha distrutto se stessa. Che cosa può ancora significare il suo  vuoto nome? Tutti i singoli oggetti sono divisi tra le scienze particolari; la filosofia è come il poeta, giunto troppo tardi alla  spartizione del mondo. Infatti l’attività di ricucitura dei risultati ultimi delle scienze specialistiche è ben lungi dal costituire la  scienza dell’universo: essa è compito di una diligente compilazione o di una combinazione artistica, non della scienza. La filosofia è come il re Lear, che ha suddiviso tutto il suo tra i figli e ora è costretto a subire di farsi gettare sulla strada come un mendicante. Però dove massimo è il pericolo, l’aiuto è vicinissimo. Se è stato possibile dimostrare che la filosofia che voleva essere meta- fisica è impossibile, con queste indagini è sorto un nuovo ramo  del sapere, il quale ha bisogno di un nome. Anche se tutti gli  altri oggetti sono stati divisi senza residuo tra le scienze specialistiche e si è dovuto definitivamente rinunciare a una scienza  dell’intuizione del mondo, quelle stesse scienze sono però un  “- forse uno dei più significativi, e pretendono di essere   oggetto di una scienza specifica che stia con esse nello stesso  rapporto in cui queste stanno con le cose. Accanto alle altre  scienze compare come disciplina particolare e chiaramente determinata una zeoria della scienza. Se non è una conoscenza  del mondo che riunisce tutti gli altri punti di vista, ora è però  l’auto-conoscenza della scienza, l'indagine centrale in cui tutte  le altre scienze trovano la loro fondazione. A questa « dottrina  della scienza » si trasmette il nome, divenuto privo di oggetto,  di filosofia: essa non è più la dottrina della totalità del mondo  o della condotta della vita, ma è la dottrina del sapere — non è  più una metafisica delle cose, ma è una « metafisica del sapere ».   Se si fa attenzione al mutamento che si è così compiuto  attraverso due millenni nel significato del termine, appare chiaro che la filosofia — anche se non è mai stata completamente  scienza e, quando pur voleva essere scienza, non si è costantemente rivolta al medesimo oggetto — si è tuttavia mantenuta  in una determinata relazione con la conoscenza scientifica; e  che — questa è la cosa più importante — il mutare di tale  relazione dipende dal cambiamento di valutazione, avvenuto  nello sviluppo della cultura europea, nei riguardi della conoscenza scientifica. La storia del termine filosofia è la storia del  significato culturale della scienza. Non appena il pensiero scientifico si rende autonomo come impulso del conoscere in vista soltanto del sapere, esso assume il nome di filosofia; quando  poi la scienza unitaria si divide nei suoi rami, la filosofia diventa conoscenza del mondo connettiva, conclusiva, universale.  Non appena poi il pensiero scientifico viene di nuovo ridotto a strumento della riflessione etica e della contemplazione religio- sa, la filosofia si trasforma in arte di vita o in formulazione di convinzioni religiose. Quando la vita scientifica ridiventa libe- ra, anche la filosofia ritrova il carattere di conoscenza autono- ma del mondo, e quando comincia a rinunciare alla soluzione  di questo compito si trasforma in una teoria della scienza.   All’inizio scienza complessiva e indifferenziata, nella differenziazione delle scienze particolari la filosofia diventa in parte quell’organo che connette le operazioni di tutte le altre  scienze in conoscenza complessiva, in parte uno strumento al  servizio di una condotta di vita etica o religiosa, in parte infine l'organo nervoso centrale in cui deve pervenire alla coscienza il processo vitale degli altri organi. Dapprima identica con  la scienza, la filosofia è in seguito il risultato di tutte le  scienze particolari o la dottrina di ciò in vista di cui la scienza  esiste, o infine la teoria della scienza medesima. Sempre la  concezione di ciò che vien chiamato filosofia è caratterizzante  rispetto alla posizione che la conoscenza scientifica assume  nella valutazione dei beni culturali di ogni epoca. Sia che la si  consideri come un bene assoluto oppure soltanto come un mezzo in vista di scopi superiori, sia che la si ritenga o no in  grado di comprendere il fondamento vitale ultimo delle cose,  ciò si manifesta nel senso che di volta in volta si collega col  termine « filosofia ». La filosofia di un'epoca è il termometro  del valore che questa attribuisce alla scienza: proprio perciò la filosofia appare ora essa stessa come scienza, ora come  qualcosa che procede al di là di questa, e quando viene considerata come scienza, essa abbraccia la totalità del mondo, oppure  è l'indagine sull’essenza della conoscenza scientifica. Quanto  diversa è la posizione che la scienza assume nella connessione  della vita culturale, altrettanto equivoca e multiforme è la filosofia; e da ciò si comprende che dalla storia non si può ottenere nessun concetto unitario di essa.   S'intende che questo sguardo d'insieme alla storia del termine « filosofia » è una considerazione di massima che si concentra sull’interesse principale delle diverse epoche e che non vuol  negare né dimenticare il fatto che le quattro tendenze particola- ri qui distinte scorrono parallele in tutti i periodi per ognuno dei quali è stato abbozzato uno specifico significato complessivo di «filosofia ». Già nella filosofia greca si fanno valere certe tendenze a trasformare la filosofia in arte di vita o in critica della conoscenza; e d’altra parte l'ideale di una conoscenza fine  a se stessa non è mai scomparso completamente dall’orizzonte  dell'umanità europea. Ma le inclinazioni dei singoli cedono il  passo al predominio della coscienza complessiva: perciò è soltanto possibile proporre una tale considerazione di massima.  Quanto però gli individui procedano tuttavia per la loro strada,  risulta particolarmente chiaro se si tiene presente che nella  nostra epoca si sono ancor sempre rinnovate quelle quattro  concezioni della filosofia, dopo che erano state messe in ombra  da quella più importante.   Infatti non si è ancora presa in esame la trasformazione più  importante che la filosofia ha subìto, ossia quella che si ricollega al nome di Kant. Essa si colloca immediatamente dopo  quella quarta fase, in cui la filosofia si è configurata come  teoria della scienza. Che cosa vuol dire teoria della scienza?  Rispetto ad altri oggetti teoria vuol dire la spiegazione di dati  fenomeni in base alle loro cause e la determinazione delle leggi  secondo cui si compiono i processi causali del gruppo di fenomeni in questione. Nel medesimo senso si concepiva prima di  Kant anche il compito della filosofia: essa doveva comprendere  la scienza. Essa doveva cioè spiegare l'origine delle rappresentazioni e mostrare le leggi secondo cui esse si trasformano in  prospettive scientifiche, in concetti generali e in relazioni tra  concetti fondate su giudizi. È del tutto evidente che, se la  filosofia viene così intesa come una scienza che deve spiegare  geneticamente il pensiero scientifico, si risolve completamente  in indagini sulle leggi di sviluppo dello spirito: essa è allora  per metà psicologia individuale, per metà storia della cultura  — vale a dire quello che i Francesi chiamano ideologia”. Essa    2. Il termine, coniato da Destutt de Tracy negli El4ments d’idbologie (1801-4),  designa quella corrente filosofica che, richiamandosi a Condillac, ne sviluppa l’impostazione gnoscologica nel senso di un'analisi del processo di formazione delle idee, dei  loro rapporti e della loro combinazione. mostra in base a quali leggi generali viene a formarsi, secondo una necessità naturale, la certezza dell’individuo e il modo di rappresentazione dei popoli civili. Da ciò si comprende la ten- denza psicologica che caratterizza tutte le manifestazioni signi- ficative della filosofia nel secolo precedente Kant. Questa filoso- fia è quindi essenzialmente un'applicazione di conoscenze psicologiche e storiche al concetto della scienza: essa si propone di  spiegarla nello stesso modo degli altri fatti spirituali.   È però facile trovare che tale trattazione, fondata sul procedimento delle altre scienze, non soddisfa affatto lo scopo per  cui si andava alla ricerca di quella « teoria della scienza ». Infatti il compito di una teoria del genere dovrebbe appunto essere  non soltanto quello di distinguere e di descrivere, tra l’intera  massa delle rappresentazioni e dei nessi delle rappresentazioni,  quelle che sono di solito designate come scientifiche, ma di  mostrare perché proprio a queste competa un valore di verità,  in modo che non solo vengano generalmente riconosciute di  fatto come scientifiche, ma meritino di essere riconosciute  come tali. Si voleva appunto sapere da che cosa dipende il  fatto che le conoscenze acquisite dalla scienza posseggono un  valore necessario che oltrepassa la loro origine accidentale, e in  quale modo la scienza debba procedere per assicurare ai suoi  risultati tale valore. Questo problema non può essere risolto  indicando il processo conforme alle leggi naturali attraverso cui  viene prodotto, negli individui o nella specie, ciò che pretende  al titolo di scienza. Tale necessità naturale di origine psicologica si ritrova infatti senza eccezione in tutte le rappresentazioni  e i rapporti tra rappresentazioni; in essa non c'è mai un criterio per decidere sulla questione del valore. Se la filosofia prekantiana trattava quindi sempre il problema gnoseologico nel  senso di cercare l’origine delle rappresentazioni, e portava avanti il dibattito sulla questione se le nostre conoscenze siano fondate, per quanto riguarda la loro origine, sull’esperienza o su  concetti innati, o su entrambi (e secondo quali rapporti tra i  due termini), sul terreno di questa impostazione psicologica il  problema non poteva mai essere deciso. Per la psicologia può  essere interessante stabilire se una rappresentazione è sorta per  l'una o per l’altra via: ma per la teoria della conoscenza la questione è soltanto se le rappresentazioni siano valide, cioè se possano essere riconosciute come vere. La grandezza di Kant risiede proprio nel fatto che, con un lavoro intellettuale indicibilmente arduo e complicato, si è ele- vato al di sopra dei pregiudizi della filosofia della sua epoca fino al punto di vista secondo cui per il valore di verità di una  rappresentazione è del tutto indifferente il processo naturale del  suo pervenire alla coscienza. Il modo e la maniera in cui, sulla  base di leggi psicologiche, perveniamo come individui, come  popoli, come genere umano alla produzione di determinate  rappresentazioni e alla fede nella loro correttezza, non decidono per nulla del loro valore assoluto di verità. Il processo  naturale del corso della rappresentazione può, nell’individuo  come in tutti, condurre egualmente all’errore come alla verità;  esso domina dovunque, e perciò la sua indicazione non costituisce una prova della validità di certe rappresentazioni in antitesi ad altre.   Se in definitiva anche Kant si è visto quindi costretto, nella  sua rinuncia alla precedente metafisica, a definire la filosofia  come metafisica non delle cose ma del sapere, per lui questa  teoria della conoscenza non era una storia dello sviluppo individuale o storico-culturale, e neppure una teoria genetico-psicologica, bensì un’indagine critica. Poco importa come, per quali  motivi e secondo quali leggi sono pervenuti alla coscienza,  nell’individuo o nel genere umano, quei giudizi per i quali si  pretende una validità universale e necessaria — la filosofia non  indaga la loro causalità, bensì la loro fondazione: essa non è  spiegazione, ma critica.   Non è qui il luogo* di approfondire con quali mezzi e in    a. A. questo proposito l’autore rimanda all’esposizione della filosofia  kantiana, condotta dal punto di vista sopra sviluppato, che è contenuta  nella sua Geschichte der neueren Philosophie, Leipzig, 4° ed. 1907, vol. II.  Per coloro che si occupano più da vicino di questa difficile questione, aggiungo esplicitamente che la soluzione del problema, i suoi presupposti e  il suo metodo devono essere tratti unicamente dalla Critica della ragion pura, mentre i Prolegomeni espongono soltanto la storia della scoperta kantiana, cioè il processo psicologico attraverso cui egli è stato condotto alla comprensione di questa « verità ». Cfr. anche la mia Geschichte der Philosophie. quale modo Kant abbia compiuto questa critica, o mostrare come abbia faticosamente elaborato il nuovo principio per sot- trarlo agli intrecci di una considerazione psicologistica. Qui è sufficiente far risalire in piena chiarezza il concetto assolu- tamente nuovo di filosofia che la critica kantiana ha inaugurato. In quanto filosofia teoretica, essa vuol essere soltanto  un’indagine sulla legittimità con cui si attribuisce a certe rappresentazioni e rapporti tra rappresentazioni il carattere di una  superiore necessità e validità universale, che oltrepassano la necessità dell’origine empirica. Le rappresentazioni vanno e vengono; come ciò avvenga, può spiegarlo la psicologia: la filosofia indaga quale sia il valore che ad esse spetta dal punto di  vista critico della verità.   Questo principio, sviluppato dapprima per la teoria della  conoscenza e nell’elaborazione del suo compito specifico, viene  da Kant esteso con grande consequenzialità. La conoscenza  scientifica non è l’unico campo della vita psichica in cui noi  distinguiamo — tra i fenomeni condizionati per quanto riguarda il loro processo causale in modo conforme a leggi naturali — quelli a cui si attribuisce un valore necessario e universalmente valido e quelli in cui ciò non avviene. Nel campo  morale assumiamo lo stesso valore, completamente indipendente dal modo di origine psicologica, per valutare la bontà o la  cattiveria delle azioni, dei sentimenti e dei caratteri; nel campo estetico lo assumiamo per valutare quei sentimenti particolari che, senza alcun riferimento a scopi consapevoli o a interessi  di qualsiasi specie, caratterizzano il loro oggetto come gradevole o sgradevole. In entrambi questi campi spetta quindi alla  filosofia il compito, del tutto parallelo al compito della teoria  della conoscenza, di indagare la legittimità di tali pretese. Anche qui non si tratta di una quaestio facti, ma di quaestio iuris.   In questa generalizzazione la filosofia « critica » si manifesta  come la scienza delle determinazioni di valore necessario e  universalmente validi. Essa indaga se esista una scienza, cioè  un pensiero che possegga con validità universale e necessaria il  valore della verità; indaga se esista una morale, cioè un volere  e un agire che posseggano con validità universale e necessaria il  valore del bene; indaga se esista un'arte, cioè un intuire e un  sentire che posseggano con validità universale e necessaria il valore della bellezza. In tutte queste tre parti la filosofia sta dinanzi al suo oggetto — e quindi nella prima parte, quella teoretica, anche dinanzi alla scienza — non come le altre scien- ze stanno di fronte ai loro oggetti particolari, bensì criticamen- te, cioè in modo da sottoporre a esame il materiale effettivo del pensare, del volere, del sentire in base allo scopo della validità  universale e necessaria, e in modo da escludere e da respingere  tutto quanto non regge a questo esame. In tal modo — per  citare soltanto l’esempio più eminente e più noto — Kant  dimostra che la metafisica nel vecchio senso di scienza dell’intuizione del mondo non può essere stabilita con validità universale, per quanto necessariamente l'impulso psicologico del sapere possa condurre a ciò.   È facile capire in quale rapporto specifico, di comprensività  e tuttavia di completa trasformazione, questa nuova determinazione concettuale della filosofia stia con quelle precedenti. Questa filosofia lascia cadere completamente la pretesa di costituire  tutta la scienza; ma in quanto indaga nella sua parte teoretica i  fondamenti su cui poggia la validità universale di ogni pensiero scientifico, assume l’intero ambito delle scienze come proprio oggetto. Essa lascia però a una scienza particolare — alla  psicologia — il compito di comprendere la storia evolutiva e la  conformità alle leggi di questo suo oggetto, per indagare da  parte sua su che cosa si fonda il valore di verità delle rappresentazioni, quale che ne sia l’origine. In quanto però estende  questa sua critica a tutte le determinazioni di valore universalmente valide dello spirito razionale, essa appare come indagine  generale sui valori supremi; e se la trasformazione successiva  del senso del termine « filosofia » era caratterizzante del signiftcato attribuito nelle varie epoche alla conoscenza scientifica,  nella risposta complessiva alle questioni critiche fornita con le  sue tre grandi opere Kant diede anche una formulazione totalmente nuova di questo interesse, cioè una formulazione adeguata alle condizioni della cultura contemporanea *?.   Come si è già ricordato, molto tempo doveva trascorrere  prima che il principio kantiano fosse inteso e pervenisse a un    a. Si veda, in questo stesso volume, il discorso su Kant [Immanuel  Kant: zur Sikularfeser seiner Philosophie, in Praludien. predominio esclusivo. Tra i suoi successori Herbart è stato quel- lo che vi si è maggiormente attenuto dal punto di vista forma- le. Altri hanno immediatamente tradotto i suoi risultati in una metafisica o in una scienza filosofica universale, le cui determi- nazioni ultime essi dovevano poi, per esplicita ammissione, cercare in postulati etici o in intuizioni estetiche. Molti hanno  pensato di limitare nuovamente la filosofia a una teoria della  conoscenza, e la maggior parte di questi sono ricaduti, o con  indagini autonome o riproducendo teorie del secolo xvni,  nella tendenza psicologica. Non sono mancate neppure le richieste di ricondurre la filosofia a un’indagine esclusiva di ciò  che ha significato per gli scopi pratici della vita umana.   Tutti questi tentativi sottostanno all’uno o all’altro pericolo: essi negano il carattere specifico della filosofia facendone o  una scienza in generale o una scienza delimitata in modo preciso rispetto alle altre. Nel primo caso fanno della filosofia un  «romanzo » di concetti, nell’altro un ragù composto di rifiuti  provenienti dalla psicologia e dalla storia della cultura. La filosofia può rimanere o diventare scienza autonoma soltanto se  porta alle estreme conseguenze, con pienezza e rigore, il principio kantiano. Senza quindi disconoscere la mutevolezza storica  del significato del termine «filosofia », senza rifiutare a nessuno il diritto di chiamare «filosofia » ciò che gli aggrada, faccio per l'appunto uso di questo diritto derivante dalla mancanza di un saldo significato storico — sulla base dell’analisi storica sviluppata — intendendo per filosofia in senso sistematico, e  non storico, la scienza critica dei valori universalmente validi.  La scienza dei valori universalmente validi designa gli oggetti;  la scienza critica designa il metodo della filosofia.   Sono convinto che tale concezione non è che Ja realizzazione compiuta dell'idea fondamentale di Kant. Ma non mi sarei  mai permesso di pretendere per questa definizione il nome di  « filosofia » se non potessi dimostrare in modo convincente —  indipendentemente dallo sviluppo storico, e senza fare uso  delle formule della dottrina kantiana — la necessità di una  scienza particolare del genere, in cui il nome svolazzante di  « filosofia » possa trovare un solido appiglio. Da quando Kant  ha fatto stare in piedi l’uovo di Colombo, non è difficile  ripetere il trucco.    WILHELM WINDELBAND 293 Tutte le proposizioni in cui esprimiamo i nostri punti di vista si distinguono, nonostante l'apparente identità grammati- cale, in due classi che devono essere esattamente separate l’una dall’altra: i giudizi e le valutazioni. Nei primi viene espressa la connessione tra due contenuti rappresentativi, nelle seconde  è espresso un rapporto della coscienza giudicante con l'oggetto  rappresentato. Vi è una fondamentale differenza tra le due  proposizioni « questa cosa è bianca» e «questa cosa è buona », nonostante che la loro forma grammaticale sia del tutto  identica. In entrambi i casi al soggetto (secondo la forma grammaticale) viene attribuito un predicato; ma questo predicato è in un caso — in quanto predicato del giudizio — una determi- nazione compiuta in sé, ricavata dal contenuto di ciò che è oggettivamente rappresentato, nell'altro è — in quanto predica- to della valutazione — una relazione che rimanda a una co- scienza la quale pone uno scopo. In un giudizio si esprime  ogni volta il fatto che una determinata rappresentazione (il  soggetto del giudizio) viene pensata in una relazione, diversa  secondo le diverse forme di giudizio, con un’altra determinata  rappresentazione (predicato del giudizio). In una valutazione,  invece, a un oggetto rappresentato nella sua completezza, e  quindi presupposto come conosciuto (il soggetto della proposizione valutativa), viene aggiunto il predicato della valutazione,  mediante il quale non si accresce affatto la conoscenza del  soggetto in questione, ma si esprime il sentimento di approvazione o di disapprovazione con cui la coscienza valutante sta  in rapporto con l’oggetto rappresentato. Tutti i predicati del  giudizio sono quindi rappresentazioni positive, le quali si riferiscono al mondo rappresentato come concetti di genere, come  qualità, attività, stati, rapporti ecc. Una cosa è il corpo, che è  grande, duro, dolce ecc., che si muove, urta, si arresta, ne  trascina altri ecc. Tutti i predicati della valutazione sono invece espressioni dell'accordo o disaccordo da parte della coscienza  rappresentante: una cosa è gradevole o sgradevole, un concetto  è vero o falso, un'azione è buona o cattiva, un paesaggio è  bello o brutto ecc. È chiaro che una valutazione non contribuisce affatto alla comprensione dell'essenza dell’oggetto valutato.  La cosa deve anzi essere presupposta come nota, cioè come  compiutamente rappresentata, prima che abbia un senso dire di essa che è gradevole, buona, bella ecc. E tutti questi modi di  predicare della valutazione hanno senso soltanto nella misura  in cui si prende in esame se l'oggetto rappresentato corrispon- da o no a uno scopo in base al quale la coscienza valutante lo concepisce. Ogni valutazione presuppone, come sua misura, uno scopo determinato, e ha senso e significato soltanto per chi riconosce tale scopo. Ogni valutazione compare quindi nel- la forma alternativa dell’approvazione o della disapprovazione.  Il soggetto rappresentato della proposizione corrisponde o non  corrisponde allo scopo, e per quanto diversi siano i gradi di  corrispondenza o di non corrispondenza (cioè di contraddizione), e altrettanto diversi siano quindi i gradi di approvazione e di disapprovazione, dev’esserci o accordo o disaccordo se  si vuol parlare in generale di una valutazione conseguente.   Questa distinzione tra giudizi e valutazioni sarebbe meglio  compresa nel suo significato fondamentale e di ampia portata  se non effettuassimo sempre una particolare combinazione tra i  due elementi. I giudizi, cioè le connessioni puramente teoretiche tra rappresentazioni, che si compiono in forme diverse,  vengono formulati — nel processo della rappresentazione comune come nella vita scientifica — solamente in quanto viene ad  essi accordato o negato un valore che supera la necessità dell’associazione, conforme alle leggi naturali, cioè in quanto vengono dichiarati veri o falsi, affermati o negati. Nella misura in  cui il nostro pensiero è orientato verso la conoscenza, cioè  verso la verità, tutti i nostri giudizi sottostanno subito a una  valutazione che esprime la validità o non validità della connessione tra rappresentazioni compiuta nel giudizio. Il giudizio  puramente teoretico è dato propriamente soltanto nella domanda o nel cosiddetto giudizio problematico, nei quali si compie  solamente un certo collegamento tra rappresentazioni, ma non  ci si esprime sul loro valore di verità. Non appena un giudizio  viene affermato o negato, insieme con la funzione teoretica si è  compiuta anche quella di una valutazione dal punto di vista  della verità. A questa valutazione che si aggiunge al giudizio  non diamo nessuna espressione linguistica quando la valutazione è affermativa, poiché la tendenza al valore di verità dei  giudizi viene presupposta come ovvia nella comunicazione, mentre la disapprovazione si esprime mediante la negazione. Ogni asserzione cosiddetta affermativa (A è B) implica quindi l’opinione che il giudizio, il quale connette le rappresentazioni A e B nel modo espresso, deve valere come vero; e ogni asserzione negativa (4 non è B) implica l’opinione che quel giudizio già espresso, o di cui si teme la formulazione, dev'essere ritenuto falso. Tutte le proposizioni conoscitive contengono quindi im- mediatamente una combinazione di giudizio e di valutazione:  sono connessioni tra rappresentazioni del cui valore di verità si  decide affermando o negando?*.   La distinzione tra giudizio e valutazione è quindi della massima importanza, poiché su di essa si fonda l’unica possibilità  che ci è rimasta di determinare la filosofia come scienza particolare, profondamente distinta dalle altre già in virtù dell’oggetto. Tutte le altre scienze devono infatti stabilire un giudizio  teoretico: l'oggetto della filosofia è costituito invece dalle valutazioni.   Le scienze particolari devono, in quanto scienze storiche o  descrittive, formare giudizi che attribuiscano a determinati oggetti, dati all’interno dell'esperienza, determinati predicati —  in parte singolari e in parte costanti — di qualità, di stati, di  attività, di rapporti con altri oggetti; oppure, in quanto scienze  esplicative, devono ricercare quei giudizi generali da cui è possibile derivare, come casi specifici, tutte le qualità, gli stati, le  attività e le relazioni delle cose particolari. Una scienza naturale descrittiva constata che a una determinata cosa — per esem  a. Questa distinzione — estremamente importante, anzi fondamentale  per la logica — tra i due elementi del « giudizio », appena sfiorata da  Descartes nella quarta Meditazione e trattata di sfuggita da J. F. Fries  (Neue Kritik, Heidelberg, 1807, vol. I, p. 208 sgg.), è stata recata a una  precisa comprensione soltanto nella logica moderna in virtù delle indagini  sul giudizio negativo di C. Stowart (Logik, Tiibingen, 1873-78, vol. I, $  20), di R. H. Lotze (Logik, Leipzig, 1874, p. 61) e specialmente di J. BercMann (Reine Logik, Berlin, 1879, vol. I, p. 177 sgg.). Dal punto di vista  psicologico ha richiamato l’attenzione su di essa, anche se in forma barocca, F. Brentano (Psychologie, Wien, 1874, vol. I, p. 266 sgg.). Sull'argomento si vedano i mici Beitràge zur Lehre vom negativen Urteil, nelle  Strassburger Abhandlungen zur Philosophie: Eduard Zeller zu seinem  stebenzigsten Geburstage, Freiburg i.B. - Tiibingen, 1884, pp. 165-95, e il  saggio Vom System der Kategorien, nelle Philosophische Abhandlungen,  C. Sigwart zu seinem siebzigsten Geburtstage, Tibingen. pio a una pianta o a un organismo psichico — spettano questi o quei predicati, o in modo costante o subordinatamente a certe condizioni; una scienza storica deve accertare che singoli uomini o popoli si sono trovati in questi o quei rapporti, hanno compiuto queste 0 quelle azioni, hanno vissuto questi o quei destini. Una scienza esplicativa stabilisce col nome di leggi  quei giudizi generali dai quali, nella loro qualità di premesse  maggiori, deriva come conseguenza necessaria il corso dei mutamenti in cui le cose reali e le loro situazioni stanno in rapporto reciproco di causa o effetto. Le scienze matematiche,  infine, formulano — indipendentemente da qualsiasi evento  temporale — giudizi generali sulla necessità intuitiva con  cui le forme spaziali e numeriche stanno tra loro in relazioni  determinate.   Tutti questi giudizi, per quanto siano particolari in un caso  e generali nell’altro, per quanto variamente e diversamente si  configuri il loro significato gnoseologico, contengono connessioni tra rappresentazioni, cioè connessioni tra un soggetto rappre- sentato e un predicato rappresentato, il cui valore di verità deve venir determinato dalla scienza. In base al presupposto che ad alcuni dei giudizi possibili si attribuisce la verità e ad altri no, le scienze cercano di stabilire l'ambito complessivo di quanto dev'essere oggetto di affermazione, e a tale scopo di  negare con una motivazione esplicita ciò che rischia di essere  affermato erroneamente. Esse compiono quindi nel campo del  conoscere affermazioni e negazioni, approvazioni e disapprovazioni, e nella loro articolazione estendono tale attività a tutti  gli oggetti accessibili in generale alla comprensione umana.   Da questo punto di vista alla filosofia non rimane più niente da fare. Essa non può voler essere né una scienza descrittiva, né una scienza esplicativa, né una scienza matematica:  trova tutti i gruppi di oggetti già occupati dalle scienze particolari, che si riferiscono ad essi in una di queste tre maniere, e  consisterebbe soltanto di prestiti se volesse, con scelta arbitraria, abbracciarne qualcuno. Il compito della filosofia non può  consistere nell’affermare o nel negare, come fanno le altre scienze, giudizi in cui devono venir riconosciuti, descritti o spiegati  determinati oggetti.   L'oggetto che ad essa rimane è costituito dalle valutazioni. Ma anche nei loro confronti deve, se vuol essere autonoma, porsi in un rapporto totalmente diverso da quello che le altre scienze hanno con i loro oggetti. La filosofia non deve né descrivere né spiegare le valutazioni: questo è compito della psicologia e della storia della cultura. Ogni valutazione è la reazione di un individuo che vuole e sente di fronte a un  determinato contenuto rappresentativo. È un processo della vita psichica che risulta necessariamente per un verso dallo stato  di bisogno, per l’altro dal contenuto della rappresentazione. Ma  sia il contenuto della rappresentazione sia lo stato di bisogno  sono a loro volta prodotti necessari del movimento complessivo  della vita, Come tali essi devono venir compresi; e dal momento che non basta a spiegarli la psicologia individuale — poiché  gli scopi e i bisogni in base a cui l'individuo sottopone a  esame il proprio contenuto rappresentativo per approvarlo o  disapprovarlo sono per molti versi comprensibili soltanto in base al movimento della società — bisogna far intervenire la  storia dello sviluppo della cultura umana per comprendere in  tutta la sua estensione l’origine conforme a leggi delle valutazioni  e per riconoscere le leggi secondo cui procedono tali valutazioni.   La trattazione psicologica e storico-evolutiva delle valutazioni e della loro conformità a leggi costituisce quindi di per sé  un problema del tutto legittimo della scienza esplicativa dello  spirito. La scienza esplicativa assolverebbe il suo compito soltanto in modo incompleto se si arrestasse di fronte a questi fatti.  In base alle leggi psicologiche e ai movimenti dello spirito  sociale è necessario spiegare in quale modo le forme di valutazione riconosciute nella nostra coscienza comune siano sorte  attraverso il suo sviluppo naturale, come noi abbiamo imparato  a distinguere il vero, il bene, il bello dai loro contrari, e come  il modo e la maniera particolare in cui effettuiamo tali valutazioni, cioè la configurazione specifica che abbiamo assegnato a  questi scopi supremi che determinano la misura e il valore,  siano condizionati dalla necessità della nostra storia. Queste  indagini corrispondono perciò a un compito incontestabile della  scienza: non costituiscono una disciplina autonoma, ma devono  essere messe insieme da vari capitoli della psicologia e della  storia della cultura. Chi voglia chiamare «filosofia » queste  combinazioni quanto mai interessanti — come fanno fin dall’e  298 WILHELM WINDELBAND    tà illuministica i « filosofi » inglesi e francesi e come, imitando- li, è accaduto qua e là anche da noi — /adeat sibi: non intendiamo discutere sui nomi. Però dobbiamo protestare in nome della filosofia tedesca inaugurata da Kant se con tale denominazione si vuol importare anche da noi l’opinione super- ficiale che non esista, al di là di questa storia dello sviluppo  psicologico e storico-culturale, nessun compito scientifico superiore.   La filosofia, quale noi la intendiamo, ha un punto di partenza del tutto diverso. Tutte le valutazioni che si compiono  negli individui e nella società sono prodotti necessari della vita  psichica. Da questo punto di vista esse sono tutte egualmente  legittime: comunque siano apparse, hanno tutte — una volta  apparse — una causa sufficiente. Senza di queste, infatti, non  sarebbero apparse. Come fatti empirici, quali vengono spiegati  dalla psicologia e dalla storia evolutiva, esse semplicemente esistono alla stessa stregua. Appartengono alla realtà empirica e, come oggi ogni altra cosa, hanno cause sufficienti di esistenza e le  loro leggi di origine e di movimento; sottostanno a tali leggi  come gli oggetti a cui le valutazioni si riferiscono e che, in  quanto fatti empirici, sono sottoposti alla stessa necessità naturale conforme a leggi. Le sensazioni e le rappresentazioni con i  sentimenti di piacere e dispiacere che esse suscitano; le connessioni tra rappresentazioni insieme alla certezza con cui vengono dichiarate vere o false; le determinazioni della volontà e le  azioni, come le valutazioni in virtù delle quali vengono caratterizzate come buone o cattive; le intuizioni e i sentimenti che le  valutano come belle o brutte — tutto questo è, come fatto  empirico dello spirito umano individuale o generale, prodotto  necessario di condizioni e leggi date. Tuttavia — e questo è il  fatto fondamentale della filosofia — siamo incrollabilmente  convinti che, accanto a questa necessità naturale che coinvolge  tutte le valutazioni e i loro oggetti senza eccezione, vi sono  certe valutazioni le quali valgono in modo assoluto anche se di  fatto non pervengono a un riconoscimento 0 per lo meno non  pervengono a un riconoscimento generale. Certamente ognuno  pensa necessariamente così come pensa, e ritiene vere le rappresentazioni sue o di altri perché tali deve necessariamente ritenerle: tuttavia siamo convinti che di fronte a questa necessità del ritenere vero, che si compie secondo una legalità naturale, vi è wna determinazione di valore assoluta in base a cui si deve decidere del vero o del falso, non importa che ciò accada o no di fatto. Noi tutti abbiamo questa convinzione: infatti nella misura in cui dichiariamo vera una qualsiasi rappresentazione in base  al corso necessario del nostro rappresentare, questa dichiarazione non significa altro se non la pretesa che ciò debba valere  non soltanto per noi, ma per tutti gli altri. Non importa se  tale pretesa venga soddisfatta nel caso singolo, se sia giustificata nel caso singolo: ma è chiaro che la valutazione delle  rappresentazioni dal punto di vista della verità presuppone un  criterio assoluto di questo genere, che deve valere per tutti. La  stessa cosa vale per i campi dell'etica e dell’estetica. Certamente ciò che uno giudica buono o cattivo da un lato, bello o brutto  dall’altro, è condizionato secondo leggi dalla situazione culturale e dal corso della vita personale di ciascuno; ma in entrambi i  casi le predicazioni in tal modo espresse implicano la pretesa di  valere per tutti e di essere necessariamente riconosciute da ognuno nello stesso modo. Per quanto queste valutazioni si configurino in modo relativo nella loro realtà empirica, si elevano pur  sempre alla pretesa di una validità assoluta, e trovano il loro  senso nel presupporre la possibilità di una valutazione assoluta.   Sono questa pretesa e questo presupposto a distinguere le tre  forme caratteristiche di valutazione — che possiamo chiamare  di valutazione logica, etica ed estetica — da tutte le mille forme di valutazione in cui si esprime soltanto il sentimento individua- le di piacere o dispiacere per un oggetto rappresentato. A chi prova piacere per un colore, a chi gusta una cosa *, a chi prova gioia in un oggetto perché ne trae un qualche vantaggio non capiterà mai, purché sia provvisto di buon senso, di pretendere  che tutti gli altri facciano propria la sua valutazione. La conformità alle leggi delle funzioni psicologiche comporta certamente  il fatto che in esseri organizzati in modo eguale o analogo  tendano a comparire le stesse sensazioni, e con la stessa intensi  a. Il modo di esprimersi abituale parla, con la fluidità delle sue designazioni, anche di un gustare e di un odorare « buono » o « bello ». È auspicabile che nell’espresssione scientifica si eviti sempre questa negligenza. tà di sentimento. Ma se, in virtù di qualche disturbo abituale  o di una disposizione momentanea, questo o quell’individuo  diverge da questa maniera generale di sentire, in ciò non vedia- mo una cosa degna di particolare attenzione e non ce ne stupia- mo affatto. Quanto più però risaliamo da queste tonalità ele- mentari del sentire ai sentimenti molto più vari e complessi di piacere e dispiacere, che sono connessi a rappresentazioni com- poste di cose e di rapporti tra cose, tanto più si restringe —  senza che ciò ci meravigli o ci colpisca — l’accordo tra gli  individui. La molteplicità delle combinazioni non consente, nonostante l’identità conforme a leggi dei processi fondamentali,  un'identità di risultati. Nessuno presuppone una validità universale per i propri sentimenti di piacere o di dispiacere; nessuno  pensa neppure che vi sia un criterio assoluto con cui determinare per chiunque la valutazione del carattere gradevole delle  cose. Una pretesa siffatta non ha senso, e un’edonistica, cioè  una dottrina del piacere, può essere soltanto un capitolo della  psicologia e della storia evolutiva, mai una disciplina filosofica.   Chi addossa quindi alla filosofia Ia responsabilità di decidere nella polemica tra ottimismo e pessimismo, chi esige da essa  che pronunci un verdetto assoluto sulla questione se il mondo  sia più adatto alla produzione di piacere che di dispiacere o  viceversa, costui lavora — supposto che proceda a un livello  superiore al dilettantismo — in base all’illusione di trovare  una determinazione assoluta per un campo in cui nessun uomo  ragionevole l’ha mai cercata. Di una valutazione dell’universo  dal punto di vista edonistico si potrebbe infatti parlare soltanto  se esistesse un metro di legittimazione per i sentimenti soggettivi di piacere e dispiacere. Ma siccome questo manca, agli ottimisti e ai pessimisti non rimane che mettersi a fare un calcolo  approssimativo dei singoli sentimenti empirici di piacere e di  dispiacere e una valutazione dei loro rapporti di quantità e di  intensità, che è priva di qualsiasi base solida. Se qualcuno vuol  chiamare tutto ciò filosofia, fabeat sibi; io lo considero una  scarica dell'impulso al piacere, che appartiene alla storia della  patologia del pensiero umano?.    a. Cfr. il mio Der Pessimnismus und die Wissenschaft, « Der Salon. Una volta esclusa l’edonistica rimangono soltanto tre forme di valutazione in cui la pretesa di universalità si impone come elemento essenziale — cioè le forme caratterizzate dalle tre coppie di concetti del vero e del falso, del bene e del male, del bello e del brutto. Vi sono dunque soltanto tre scienze fonda- mentali propriamente filosofiche: la logica, l’etica e l'estetica.  La psicologia * è una scienza empirica in parte descrittiva e in  parte esplicativa; la metafisica nel vecchio senso di un sapere  dogmatico concernente i fondamenti ultimi di tutta la realtà è  un’assurdità: invece la teoria della conoscenza, la filosofia della natura, la filosofia della società e della storia, la filosofia  dell’arte e la filosofia della religione sono legittimate solamente  in quanto vengano trattate non in senso metafisico ma in senso  critico, dal punto di vista di quelle tre scienze filosofiche fondamentali, come loro ramificazioni, applicazioni o integrazioni.   In tutte e tre occorre quindi prendere in esame la pretesa  della valutazione logica, etica ed estetica a una validità universale. Bisogna osservare subito che a un’identica impostazione  problematica corrisponde un’indagine metodologicamente identica e sistematicamente parallela per le tre discipline; ma non  per questo viene minimamente condizionata o pregiudicata  un'identità del risultato e della risposta. Si potrebbe per esempio pensare che la filosofia critica confermi il diritto della  valutazione logica a una validità universale, e che invece si  veda costretta o a respingere del tutto o a riconoscere soltanto  con limitazioni assai rilevanti la pretesa corrispondente in uno  degli altri due campi. In questo caso il campo in questione sarebbe totalmente abbandonato, proprio a causa della mancanza  di un criterio assoluto, alla trattazione psicologica e storico-evolutiva. Ma poiché è presente la pretesa a una validità universale, e  poiché tale pretesa non può venir presa in esame né dalla  scienza descrittiva né dalla scienza esplicativa, dev’esserci assolutamente un'indagine filosofica, anche se questa dovesse portare  a risultati semplicemente negativi. Anche chi dovesse dunque  pervenire con indagini critiche o anche mediante una prevenzio  a. Ho già difeso la causa della completa separazione della psicologia  dalla filosofia nella mia prolusione zurighese Uber den gegenivàrtigen Stand  der psychologischen Forschung, Leipzig. ne più o meno chiara alla convinzione che nell’uno o nell’altro di questi campi — o anche in tutti e tre — sono possibili sempre e soltanto valutazioni relative (come avviene nel campo dell’edonistica) e mai valutazioni assolute, sarebbe tuttavia co- stretto ad ammettere il fatto della pretesa a quest'ultime, e pertanto a concedere la legittimità dell’impostazione filosofica.  E solo di questo qui si tratta: non si debbono anticipare i  risultati della filosofia.   Se l’oggetto della filosofia è così determinato, ci si domanda  in che cosa consista la critica a cui esso deve venir sottoposto, e  quale sia il procedimento scientifico che la rende possibile.   Se qui si è sempre parlato anzitutto della pretesa alla validità universale e alla necessità delle valutazioni logiche, etiche  ed estetiche, occorre indicare con maggiore esattezza che questa  validità universale non è una validità di fatto e che la necessità  non è necessità causale. Chi è convinto della verità di un giudizio è di solito ben lontano dal credere che questo giudizio sia  riconosciuto, o anche soltanto possa venir riconosciuto, da tutti.  Nella nostra lotta per la verità, l’universalità effettiva del riconoscimento è una prospettiva del tutto esclusa. D'altra parte,  per situazioni culturali inferiori c'è senza dubbio una validità  universale effettiva di rappresentazioni e di modi di valutazione che sono manifestamente erronee e sbagliate. L'importante  non è quindi che tutti gli esemplari della specie Homo sapiens  siano unanimi nel riconoscimento di un giudizio; e neppure è  possibile trovare, attraverso un’induzione comparativa delle valutazioni reali, una validità universale in senso filosofico. Poiché cause identiche hanno effetti identici è possibile — e accade  di fatto in mille modi — che gli stessi motivi provochino  ovunque lo stesso errore. Per la verità o la falsità di una rappre- sentazione è del tutto indifferente il numero degli uomini che la riconoscono o la respingono. La validità universale di cui qui si tratta non è una validità di fatto, bensì ideale; non è una validità reale, ma una validità che dovrebbe essere. Lo stesso discorso vale per la necessità di queste valutazioni. Causalmente necessarie sono sia la pazzia sia la saggezza,  sia il peccato sia la virtù, sia il sentimento della bellezza sia il  suo contrario. Il sole della necessità naturale splende sui giusti  come sugli ingiusti. La necessità con cui sentiamo la validità delle determinazioni logiche, etiche ed estetiche è anch'essa una  necessità ideale: non è una necessità dell’essere costretti e del non poter altrimenti, ma del dover essere e del non dover fare altrimenti. È quella necessità superiore che non si esaurisce completamente nella necessità naturale a cui sono sottoposti il nostro rappresentare, il nostro volere e il nostro sentire; è la necessità del dover essere. Nessuna legge naturale costringe l’uomo a pensare, a volere e a sentire nel modo in cui dovrebbe  sempre pensare, volere e sentire secondo la necessità logica,  etica ed estetical   Se quindi la filosofia deve stabilire i princìpi della valutazione logica, etica ed estetica, non può limitarsi a chiedersi quali  determinazioni abbiano in questi campi una validità universale,  oppure a indagare quali si facciano valere o si siano fatte valere  con una necessità psicologica e storico-evolutiva. In nessuna di  queste due direzioni si può trovare un criterio di ciò che deve  avere validità. La massa, o anche soltanto la maggioranza, non  è il tribunale di fronte a cui si decide il valore assoluto, e  la dimostrazione delle cause del suo comportamento non è una  fondazione della sua legittimità.   D'altra parte nell’energia con cui il singolo si attiene, contro un mondo che lo contraddice, a ciò che ha riconosciuto per  vero, buono o bello, non si manifesta l’ostinazione dell’arbitrio  individuale ma un impulso della convinzione che in lui si è  fatto strada qualcosa che dovrebbe valere per tutti e di cui non  può fare a meno. Entro la necessità naturale del movimento  della storia umana, certamente, la difesa di questa convinzione  può sembrare disperatamente analoga all’illusione personale: lo  scopritore di una nuova verità, il riformatore della vita etica,  il creatore di una nuova arte appare ai suoi contemporanei — e  forse anche a molte generazioni di posteri — come un infatuato. Ma per quanto sia difficile, anzi impossibile decidere nel  singolo caso quale dei due fenomeni sia presente in un dato  momento, tuttavia noi tutti crediamo nella possibilità di distinguere, noi tutti siamo convinti che — anche se non sempre lo  comprendiamo, e soprattutto se non lo comprendiamo subito  — esiste un diritto del necessario in senso superiore che dovrebbe valere per tutti. Noi crediamo in una legge superiore a quella dell'origine naturale di tutte le nostre valutazioni: cre- diamo a un diritto che ne determina il valore. Ho detto che tutti ci crediamo. Non dimentico così quei teorici del relativismo che in tutte queste determinazioni e con- vinzioni non vedono altro che prodotti necessari della società umana? Ma essi non intendono presentare la loro teoria soltanto come si trattasse di una semplice opinione; vogliono anzi  provarla e dimostrarla. E che cosa significa dimostrare? Significa presupporre che al di sopra della necessità del movimento  delle rappresentazioni c'è una necessità superiore che tutti dovrebbero riconoscere. Chi dimostra il relativismo, lo annienta.  Il relativismo è una teoria in cui nessuno ha ancora veramente  creduto, in cui nessuno potrebbe credere: è una fable convenue?.   Perciò ovunque la coscienza empirica scopre in sé questa  necessità ideale di ciò che deve valere universalmente, si imbatte in una coscienza normale, la cui essenza consiste per no: nel  fatto che noi siamo convinti che essa debba essere reale, del  tutto indipendentemente dalla realtà che riveste nel dispiegarsi della coscienza empirica, sottoposto alla necessità naturale. Per quanto ristretto sia il grado e l’ambito in cui questa  coscienza normale penetra quella empirica e si fa valere all’interno di essa, ciononostante tutte le valutazioni logiche, etiche  ed estetiche sono costruite in base alla convinzione che esista  una coscienza normale a cui dobbiamo elevarci se le nostre  valutazioni debbono pretendere una validità universale necessaria: una coscienza normale che non vale nel senso del riconoscimento fattuale, ma che dovrebbe valere — e che perciò costituisce non già una realtà empirica, ma un ideale in base a cui  dev'essere commisurato il valore di ogni realtà empirica. Le  leggi di questa «coscienza in generale » — secondo l’espressione kantiana — non sono più leggi naturali, che valgono in  ogni circostanza e secondo cui devono configurarsi i singoli  fatti, ma sono invece norme, che devono appunto valere e la  cui realizzazione determina il valore di ciò che è empirico.    a. Su questo, come su ciò che segue, si veda più particolarmente il saggio Kritische oder genetische Methode?, raccolto in questo stesso volume  [Préludien. La filosofia non è quindi altro che la riflessione su questa coscienza normale, l'indagine scientifica intorno a quelle, tra le determinazioni di contenuto e le forme della coscienza empi- rica, che rivestono valore di coscienza normale. Nella coscien- za empirica di un individuo, dei popoli, dell’umanità esse sor- gono necessariamente così come sorgono stupidità, abiezioni,  mancanza di gusto: compito della filosofia è di rintracciare,  entro il caos dei valori individuali o effettivamente universali,  quelli a cui inerisce la necessità della coscienza normale. In  nessun caso è possibile derivare tale necessità da qualcosa: la si  può soltanto indicare; essa non viene prodotta, ma solo recata  alla coscienza. L'unica cosa che la filosofia può fare è di lasciar scaturire questa coscienza normale dai movimenti della  coscienza empirica e di confidare nell’evidenza immediata con  cui la sua normalità, non appena giunta a chiara coscienza, si  mostra operante e valida in ogni individuo, così come essa deve  valere. Un principio come il principio logico di non contraddizione, o un principio come il principio morale della coscienza del  dovere, non sono dimostrabili. Nella vita reale delle rappresentazioni e della volontà si può soltanto recarli alla coscienza, a una  chiara formulazione, e occorre confidare che in ognuno, purché  si rifletta seriamente, la coscienza normale si faccia valere e  riconoscere con evidenza immediata. Non potremmo più avere  alcun rapporto logico e scientifico con chi rifiutasse la validità  delle leggi del pensiero; non potremmo intenderci moralmente  con chi rifiutasse qualsiasi dovere. Il riconoscimento della coscienza normale è il presupposto della filosofia: è, in astratto,  il medesimo presupposto che sta in concreto a fondamento di  tutta la vita scientifica, etica ed estetica. Ogni intesa su qualcosa che gli individui debbono riconoscere al di sopra di sé come  norma valida, presuppone questa coscienza normale.   La filosofia è quindi la scienza della coscienza normale.  Essa penetra la coscienza empirica per stabilire in quali punti  emerga in questa tale validità universale normativa. È essa  stessa un prodotto della coscienza empirica, e non si contrappone a questa come qualcosa di proveniente dall’esterno; ma poggia sulla convinzione — costitutiva di ogni valore della vita  umana — che in mezzo ai movimenti naturali della coscienza empirica abbia una necessità superiore, e indaga i punti in cui questa viene alla luce. Questa «coscienza in generale» è quindi un sistema di norme che, come valgono oggettivamente, così devono pure valere soggettivamente, e tuttavia soltanto in parte valgono nel- la realtà empirica della vita spirituale dell’uomo. Solamente in  base ad essa si determina il valore del reale. Queste norme  rendono pertanto possibile formulare valutazioni universalmen- te valide per la totalità degli oggetti che vengono conosciuti, descritti e spiegati nei giudizi delle altre scienze. La filosofia è la scienza dei princìpi della valutazione assoluta. Non si incorrerebbe in contraddizione se si sostenesse che questa coscienza normale è ciò che il linguaggio popolare intende propriamente col termine «ragione », cioè l'elemento sovraindividuale che deve valere universalmente, e perciò si potrebbe  chiamare la filosofia scienza della ragione. Ma preferisco rinunciare a questa denominazione perché il termine «ragione» è  stato usato dai filosofi tedeschi con significati così diversi che  il suo impiego in una definizione sarebbe equivoco e darebbe  luogo a vari malintesi.   La filosofia come scienza della coscienza normale è essa  stessa un concetto ideale che non è realizzato e la cui realizzazione — come risulterà anche in seguito — è possibile solo  entro certi limiti: le fondamenta per la sua costruzione sono  state poste dalla filosofia kantiana. Ma dal punto di vista di  questo concetto anche ciò che si chiama storia della filosofia, e  che dev'essere trattato come tale, acquista subito un altro aspetto ben definito.   La validità della coscienza normale come misura assoluta di  valutazione logica, etica ed estetica sta sì, come presupposto  imprescindibile, a base di tutte le funzioni superiori dell’uomo  e soprattutto di quelle che, in quanto prodotti della cultura  sociale, hanno come contenuto la creazione e la conservazione  di ciò che sta al di sopra dell’arbitrio degli individui; ma si  manifesta in primo luogo come impregiudicata e ovvia subordinazione a una coscienza complessiva prodotta dal processo necessario dell'anima del popolo. Soltanto in seguito alla scossa  che questo subisce subentra la riflessione su una misura ideale a  cui tutti dovrebbero piegarsi, e da tale riflessione si sviluppa la tendenza a elevarsi a questa coscienza normale, a farla valere  nella coscienza empirica. Ma lo spirito umano non si identifica  con questa coscienza ideale: esso sottostà alle leggi del suo  movimento naturale, e soltanto a tratti conduce a un risultato  in cui si afferma l’evidenza immediata della validità normativa.   Il processo storico dello spirito umano può quindi essere considerato dal punto di vista secondo cui si è gradualmente manifestata in esso — in mezzo al lavoro sui singoli problemi, al mutare dei suoi interessi, all’intreccio dei suoi fili particolari — la coscienza delle norme, e secondo cui esso rappresenta, nel suo movimento progressivo, una penetrazione sempre più profonda e comprensiva della coscienza normale. Nulla impedisce  di concepire, in base a questa determinazione del concetto di  filosofia, la progressiva consapevolezza delle norme come il  senso autentico della storia della filosofia. Questa è appunto  una delle linee che, muovendo da un saldo concetto della filosofia, si può ricostruire all’interno della storia, senza però pretendere di abbracciare in tal modo tutto il suo contenuto così  ramificato. Questa linea corre lungo le vette che, sull’ampio  sfondo delle altre rappresentazioni, hanno raggiunto l’etere della coscienza normale, e designa anche le più alte frastagliature  dello sviluppo storico-culturale. Infatti la riflessione sulle norme assolute è semplicemente il prodotto di ogni attività culturale, e alla filosofia rivendichiamo soltanto il compito di recarle  alla coscienza nella loro connessione e nella loro articolazione  necessaria, attraverso una indagine scientifica.   Una storia della filosofia di questo genere sarebbe quindi  una scelta che dovrebbe mostrare il progresso graduale in cui  lo spirito scientifico ha lavorato alla soluzione del compito che  abbiamo qui formulato.   Perciò essa non cessa affatto di essere una scienza empirica,  come dev'essere appunto ogni disciplina storica. Se si considera la storia dal punto di vista di un compito da risolvere,  allora si ha soprattutto il dovere di indicare il processo causale  attraverso cui essa ha proceduto per fasi successive alla sua  soluzione. I compiti non si realizzano da soli; essi vengono  realizzati. Anche le determinazioni della coscienza normale a  cui il pensiero filosofico si innalza sono venute alla luce nel  processo naturale del movimento storico del pensiero, come determinazioni di contenuto della coscienza empirica. La storia della filosofia deve cogliere questa loro origine empirica,  senza pregiudizio del valore che ad esse spetta quando sono penetrate nella coscienza empirica in virtù della loro evidenza normativa ?. Perciò questa concezione non dev'essere interpretata nel sen- so che essa statuisca — per esempio secondo la ricetta hegelia- na — una misteriosa auto-realizzazione delle «idee », in virtù della quale le mediazioni empiriche appaiano come un accessorio non necessario. Nella conoscenza empirica non abbiamo  altro luogo in cui trasportare le idee all’infuori delle teste degli uomini pensanti, e soltanto in queste esse sono, se  pervenute alla coscienza, forze determinanti e operanti. La storia della filosofia non deve considerarle come fattori, ma deve  spiegarle come prodotti. Il « principio » che il filosofo trova  diventa una forza operante nel movimento empirico dello spirito solamente per il fatto che egli lo reca alla coscienza come  risultato del suo lavoro.   Oppure il filosofo è forse qualcosa di diverso che un uomo  tra uomini? In realtà non gli è concessa una forza di pensiero  di tipo differente da tutti gli altri; ed egli stesso lo dimostra  nel modo migliore quando, con la pubblicazione delle sue opere, esprime il desiderio di far pensare gli altri come lui e  procede pertanto — nonostante l’intuizione intellettuale e simili doti mistiche — dall’assunzione che gli altri debbano compie  re, sotto la sua guida, lo stesso suo movimento di pensiero. Ma  le sue idee non sono sorte in modo diverso da quelle degli  altri. Come tutti quanti, egli passa da una fanciullezza senza  idee a una lenta maturazione; dall'ambiente in cui è nato ed è  stato educato assorbe conoscenze e punti di vista che si fissano  in lui come un tesoro di « verità » originario, ed egli le arricchisce con la propria ricerca e il proprio giudizio. Ma l’orizzonte  di pensiero e la direzione d'interesse che gli pongono le questio  a. L'autore ha cercato di trattare la storia della filosofia da questo punto di vista, abbozzato nel 1884, nel suo LeArbuch der Geschichte der Philosophie. Si vedano, nella quarta edizione (Tibingen und Leipzig, 1907),  l'introduzione e i paragrafi conclusivi, e inoltre il saggio Geschichte der  Philosophie, sopra citato.  ni rimangono pur sempre tracciati in modo inevitabile dalla  somma complessiva di ciò che ha fino a quel momento pensato e vissuto. Così dai lati più diversi, dalle premesse più remo- te si forma — come avviene in ogni uomo — una massa di rappresentazioni spesso eterogenea ma fusa in tutte le direzio- ni, un sistema psichico che tende, come sempre, all’unificazio- ne. Ma invece di accontentarsi, come avviene nella maggior  parte degli uomini, del compromesso superficiale tra le rappresentazioni più visibilmente contrastanti, e invece di lasciarsi  imporre da una delle opinioni dominanti le linee più generali  della concezione del mondo, il quadro delle singole prospettive, l'individuo la cui attività designamo come filosofia è in  grado di cercare mediante il proprio sforzo di riflessione — in  virtù della situazione personale, delle doti spirituali e dell’energia del carattere — una connessione unitaria delle sue rappresentazioni. Non si deve però mai dimenticare che quest'attività  di ricerca è completamente condizionata in tutta la sua direzione e in tutta l’estensione del contenuto rappresentativo, e quindi naturalmente anche nel suo risultato, dall'intera massa del  materiale di pensiero già esistente. Nessun principio filosofico  cade dal cielo o piove in grembo al filosofo, ma è il risultato  conclusivo della sua molteplice attività di pensiero. Che nella  realizzazione definitiva di uno stato di equilibrio certe rappresentazioni si dimostrino più potenti e significative di altre, è  cosa ovvia; ma questa forza e questa significatività competono  ad esse 12 primo luogo anche soltanto nelle condizioni statiche  di questo sistema individuale di rappresentazioni. Se al filosofo  è capitato di trovare, con uno sforzo maggiore o minore, un  principio unitario per disporre tutto il suo materiale ideale, le  varie parti di questo materiale staranno però chiaramente in un  rapporto assai diverso con esso. Alcune — e soprattutto quelle  che sono determinanti per cogliere tale principio — si connettono facilmente e quasi per proprio conto all'immagine del mondo così costituita; altre si dimostrano invece più o meno refrattarie. Infatti altre opinioni, che provengono da regioni completamente diverse e hanno un aspetto del tutto indifferente, devono a volte accettare di essere spostate e trasformate a profitto di quel principio fondamentale; questo apre ora anche nuovi  ambiti di rappresentazione e nuove conoscenze; di fronte ad esse le vecchie idee vengono relegate sullo sfondo e, se non  soppiantate del tutto, almeno parzialmente trasformate, conti- nuando però a costituire il materiale su cui soltanto può farsi 0 l’attività assimilatrice e trasformatrice della nuova for- a. Ma di rado vedremo un filosofo nella felice situazione di mr disporre tutto il suo materiale rappresentativo in un’inti- ma relazione uniforme con il principio da lui scoperto; e tra le  idee contrastanti ve ne saranno sempre alcune che non cedono  al nuovo principio, ma sono talmente radicate nell’anima con  la loro forza originaria che — ad onta della loro mancanza di  relazione, o addirittura della loro contraddizione rispetto a  quel principio — si conservano accanto ad esso e pretendono,  con non minore forza, un posto spesso assai significativo nell’intuizione umana del mondo. Ne derivano smagliature e spaccature nel sistema, ma esse sono superate e nascoste nella  certezza soggettiva del filosofo. E quanto più energicamente  egli cerca di mantenere insieme le sue diverse convinzioni,  tanto più lo vedremo incline a cedere all’illusione di considerarle in accordo laddove in realtà non lo sono affatto né possono  diventarlo, oppure a ipotizzare tra di esse una connessione che  mai, per la loro stessa natura, possono acquisire. Si spiega così  l’eterogeneità degli elementi che, in numero più o meno grande, si trovano — in ogni sistema filosofico — in un’antitesi  altrimenti incomprensibile rispetto al cosiddetto principio fondamentale. Anche la caratteristica circostanza che proprio in  questi punti i filosofi siano soliti insistere nel modo più rigido  sulla necessaria omogeneità di concezioni disparate, risulterà  comprensibile se riflettiamo che soltanto le convinzioni intimamente legate con la personalità del filosofo possono mantenersi  indipendenti dal principio appena scoperto, e che un sentimento di certezza altrettanto salda fonde ora insieme rappresentazioni altrimenti diverse, di modo che ne viene straordinariamente rafforzata la capacità di scoprire, sotto la spinta di questo interesse, passaggi e connessioni apparenti. Ma tutte queste  mancanze di connessione e queste contraddizioni con i loro  artificiosi intrecci non potrebbero esistere se un sistema filosofico crescesse in modo organico fin dall’inizio completamente  indipendente, in base all'impulso del suo principio fondamentale. Esse sono invece del tutto comprensibili se abbiamo chiaro il fatto che il molteplice materiale ideale, prodotto e trasmesso  dai lati più diversi, deve raccogliersi e fissarsi nella testa del filosofo molto tempo prima che questi abbia anche soltanto pensato alla ricerca del suo principio; e che quindi tale princi- pio deve compiere più tardi, nell’assoggettare a sé il materiale preesistente, un lavoro di difficoltà assai diversa e talora comple- tamente insolubile. La concezione teleologica della storia della filosofia dal punto di vista della soluzione successiva di un compito espresso in  un saldo concetto di filosofia è quindi una considerazione che è  giustificata in quanto tale, ed è forse necessaria e auspicabile  nell’interesse della filosofia così determinata. Ma essa non costituisce di per sé sola tutta la storia della filosofia. La storia è  constatazione empirica e spiegazione empirica. Se anche nei  confronti di tale oggetto questo compito deve mantenere la sua  purezza, esso richiede una trattazione psicologica e storico-culturale.   D'altra parte, però — occorre metterlo ancor più in risalto  di fronte alle inclinazioni e alle tendenze attuali — la filosofia  ha l’interesse più vivo a saper conosciuto e riconosciuto il fatto  che questo processo naturale ha condotto, in virtù della riflessione sulla coscienza normale, a convinzioni che non esistono semplicemente come ne esistono anche altre e che non sono pervenute a validità soltanto perché tale è stato il risultato del corso  delle rappresentazioni, ma che posseggono l’assoluto valore di  dover avere validità. Non bisogna dimenticare che questo prodotto della necessità naturale si identifica con una necessità  superiore, quella normativa.   Il movimento empirico del pensiero umano conquista alla  coscienza normale, l’una dopo l’altra, le sue determinazioni.  Noi non sappiamo se esso arriverà a un termine; ancor meno  sappiamo se la successione storica, in cui ci appropriamo di  alcune di queste determinazioni, abbia un significato che indichi una loro connessione interna. Per la nostra conoscenza, la  coscienza normale rimane un ideale di cui riusciamo a cogliere  soltanto il margine. Il pensiero umano può soltanto o, come  scienza empirica, comprendere il singolo dato nella sua connessione causale e nella sua determinatezza fornita di valore, oppure, come filosofia, riflettere, con l’aiuto dell’esperienza, sui princìpi evidenti di una valutazione assoluta. Una comprensione completa della totalità della coscienza normale da un punto di vista scientifico ci è negata. Nell’ambito della nostra esperien- za traluce a tratti l’ideale; e se dobbiamo essere convinti della realtà di una coscienza normale assoluta, ciò riguarda la fede personale, non più la conoscenza scientifica. È un prezioso privilegio del rettore quello di poter intratte- nere gli ospiti e i colleghi nell’anniversario della fondazione dell’università, su un oggetto tratto dall’ambito della disciplina di cui egli si occupa: ma il dovere che corrisponde a tale privilegio crea particolari preoccupazioni al filosofo. Certamen- te, gli è relativamente facile trovare un tema che possa contare  con sicurezza su un interesse generale. Ma su questo vantaggio  prevalgono di gran lunga le difficoltà che comporta il modo  specifico di indagine della filosofia. Ogni lavoro scientifico è  rivolto a collocare il suo oggetto particolare in un ambito più  vasto e a decidere le singole questioni sulla base di prospettive  più generali. E fin qui la filosofia si comporta come le altre  scienze; ma, mentre queste possono considerare, con una sicurezza sufficiente per l'indagine specialistica, tali principi come  saldi e dati, alla filosofia è essenziale il fatto che il suo specifico oggetto di ricerca è costituito appunto dai princìpi stessi  e che quindi non può derivare le sue decisioni da qualcosa di  più generale, ma deve di volta in volta determinarsi nel modo  più generale. Per la filosofia in senso stretto non esiste alcuna  indagine specialistica: ogni suo problema particolare estende  spontaneamente le sue direttrici fino alle questioni ultime e  supreme. Chi vuol parlare filosoficamente di cose filosofiche  deve avere sempre il coraggio di prendere posizione in modo  complessivo, e deve anche avere il coraggio, difficile da conser  * Geschichte und Naturwissenschaft (discorso rettorale tenuto all'Università di  Strasburgo, 1894), in Pràludien, Tiibingen, Verlag von J. C. B. Mohr, 3° cd. 1907,  PP. 355-379 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi). vare, di condurre i suoi uditori nell’alto mare delle riflessioni  più generali, dove la terraferma minaccia di scomparire alla vista.   Da tali riserve il rappresentante della filosofia potrebbe sen- tirsi tentato o a tracciare soltanto un quadro storico della sua disciplina o a trovare rifugio nella particolare scienza empirica che gli indirizzi e le consuetudini accademiche ancora gli asse- gnano — la psicologia. Anch’essa offre una quantità di oggetti che toccano chiunque e la cui trattazione promette un bottino  tanto più sicuro quanto più vari sono i punti di vista metodologici e oggettivi che il vivace movimento di questa disciplina  ha recato in luce negli ultimi decenni. Ma rinuncio a entrambe  le vie d’uscita: non voglio né sostenere l’idea che non esiste  più filosofia ma soltanto storia della filosofia, né quell’altra  secondo cui la filosofia — come Kant l’ha nuovamente fondata  — potrebbe restringersi nell’angusta cornice della scienza specialistica il cui valore conoscitivo è quello che Kant stesso stimava di meno tra le discipline teoretiche. In un'occasione come  l'odierna mi sembra invece doveroso testimoniare che, anche  nella sua forma attuale di rifiuto di ogni pretesa metafisica, la  filosofia si sente all’altezza di quelle grandi questioni a cui  deve non soltanto il contenuto significativo della sua storia, ma  anche il suo valore nella letteratura e la sua posizione nell’insegnamento accademico. Così il rischio insito nel compito mi  stimola a illustrare con un esempio quell’impulso dell'indagine  filosofica per cui ogni problema specifico si allarga fino agli  enigmi ultimi della visione umana del mondo e della vita, e a  mostrare qui la necessità con cui ogni tentativo di recare a intelligenza piena quanto è apparentemente noto con chiarezza €  semplicità ci spinge, rapidamente e inarrestabilmente, fino ai  confini estremi della nostra facoltà conoscitiva, circondati di  oscuri misteri.   Se a questo scopo scelgo un tema tratto dalla logica, e in  particolare dalla metodologia, dalla teoria della scienza, è perché penso che in questo modo possa venire in luce in modo  particolarmente chiaro e comprensibile l’intima connessione  tra il lavoro filosofico e il lavoro delle altre scienze. La  filosofia non è mai stata né vive estranea alla scienza in un  mondo inventato col pensiero, ma è esistita e sussiste in un ricco scambio reciproco con ogni conoscenza vitale della realtà  e con tutti i contenuti di valore della vita reale dello spiri- to. Se la sua storia è stata la storia degli errori umani, il motivo risiede nel fatto che essa assumeva in buona fede come compiute e certe, dalle teorie delle scienze particolari, ciò che anche all’interno della scienza poteva valere al massimo come verità in divenire. Questa connessione vitale tra la filosofia e le  altre discipline appare nel modo più chiaro proprio nello sviluppo della logica, che non è mai stata altro se non la riflessione  critica sulle forme di conoscenza reale ad essa preesistenti. Mai  un metodo fecondo si è sviluppato sulla base di una costruzione  astratta o di riflessioni meramente formali dei logici: ad essi  spetta soltanto il compito di recare alla sua forma universale  ciò che è stato eseguito con successo nelle singole scienze e di  determinare in tal modo il suo significato, il suo valore conoscitivo e i limiti della sua applicazione. Da dove la logica moderna ha preso — per menzionare l'esempio più eminente — in  antitesi con la sua progenitrice greca, la rappresentazione  matura dell’essenza dell’induzione? Non dall’enfasi programmatica con cui l’ha raccomandata e scolasticamente descritta  Bacone, bensì dalla riflessione sull’efficace applicazione che questa forma di pensiero ha ottenuto dai tempi di Keplero e di  Galilei nel lavoro specifico della ricerca naturale, raffinandosi  e rafforzandosi da un problema particolare all’altro.   Sulle medesime connessioni riposano però ovviamente anche  i tentativi della logica moderna di tracciare, nel dominio del  sapere umano sviluppatosi in modo così vario, linee concettualmente determinate al fine di delimitarne le singole province.  Il mutevole predominio esercitato negli interessi scientifici dell'età moderna dalla filologia, dalla matematica, dalla scienza  naturale, dalla psicologia, dalla storia, si rispecchia nei diversi  abbozzi di un «sistema delle scienze», come si diceva una  volta, o di una « classificazione delle scienze », come viene chiamata oggi. Gran parte di responsabilità spetta alla tendenza  universalistica che, disconoscendo l’autonomia dei singoli campi del sapere, voleva sottoporre tutti gli oggetti alla costrizione  di un unico metodo, di modo che per l’articolazione delle  scienze restavano soltanto punti di vista oggettivi, cioè metafisici. L’uno dopo l’altro il metodo meccanicistico, il metodo geometrico, il metodo psicologico, il metodo dialettico, e da ulti- mo il metodo storico-evolutivo hanno preteso di ampliare il loro dominio, dallo stretto campo della loro feconda applicazio- ne originaria, possibilmente a tutto l’ambito della conoscenza umana. Quanto più grande appare il contrasto di queste diver- se tendenze, tanto più cresce per la riflessione della teoria logica il vasto compito di realizzare una giusta ponderazione di  quelle pretese e una separazione equilibrata dei loro ambiti di  validità attraverso le determinazioni universali della dottrina  della conoscenza. Grazie a Kant si è compiuta la differenziazione metodologica della filosofia dalla matematica e, nelle linee  generali, anche dalla psicologia. Da allora il secolo xix ha  sperimentato accanto a una certa paralisi dell’impulso filosofico, all’inizio sovraeccitato, una più varia molteplicità di tendenze e di movimenti nelle scienze particolari: nell’appropriarsi di  numerosi problemi di specie nuova l’apparato metodologico si è  modificato da tutte le parti, estendendosi e raffinandosi in misura prima sconosciuta. Intanto i diversi procedimenti si sono  variamente intrecciati tra di loro, e nel momento in cui ognuno di essi pretendeva una posizione dominante nella visione del mondo e della vita dei nostri giorni, per la filosofia teoretica sorgevano nuove questioni. Su tali questioni, senza pretendere affatto di esaurirle, intendo attirare la vostra attenzione. Non occorre quasi menzionare il fatto che le divisioni alle  quali qui miro non possono riflettere l’articolazione che Ie scienze trovano nella separazione delle facoltà universitarie. Questa  è infatti sorta dai compiti pratici delle università e dal loro  sviluppo storico. Lo scopo pratico ha spesso unificato ciò che da  un punto di vista puramente teoretico doveva essere separato, e  ha staccato ciò che doveva essere strettamente unificato: lo  stesso motivo ha mescolato per vari versi le discipline propriamente scientifiche con quelle pratiche e tecniche. Non si deve  però pensare che ciò sia andato a tutto detrimento dell’attività  scientifica. Piuttosto, le relazioni pratiche hanno anche qui avuto la conseguenza di provocare uno scambio tra i diversi campi  del sapere più ricco e vitale di quello prodotto nel caso delle  più astratte combinazioni di un materiale omogeneo, quali avvengono nelle accademie. Tuttavia i mutamenti che gli ordinamenti delle facoltà delle università tedesche hanno subito negli ultimi decenni, in modo particolare per quanto riguarda quella  che una volta era la facultas artium, indicano una certa tendenza ad attribuire un'importanza maggiore ai motivi metodologici di articolazione.   Se si seguono questi motivi con un interesse soltanto teoreti- co, si può anzitutto assumere come valido il fatto di contrappor- re la filosofia — e quindi, come sempre, anche la matematica — alle scienze empiriche. Le prime due possono essere raccolte sotto il vecchio nome di scienze «razionali », anche se in un significato del termine assai differente e che non si può qui  discutere più da vicino. Basti per ora esprimere il loro carattere comune in forma negativa, dicendo che non sono indirizzate  immediatamente alla conoscenza di qualcosa che è dato nell’esperienza, anche se le prospettive da esse acquisite possono e  debbono essere impiegate a tale scopo nelle altre scienze. A  questo momento oggettivo corrisponde, dal lato formale, un  comune carattere logico, in quanto entrambe — la filosofia  come la matematica — non poggiano mai le loro affermazioni  su singole percezioni o su masse di percezioni, anche se l’occasione di fatto, psico-genetica, delle loro indagini e delle loro  scoperte può risiedere in motivi empirici. Per scienze empiriche  intendiamo invece quelle che hanno il compito di conoscere  una realtà comunque data e accessibile alla percezione: la loro  caratteristica formale consiste quindi nel fatto che per la fondazione dei loro risultati hanno in ogni caso bisogno, accanto ai  presupposti assiomatici universali e alla correttezza del normale  procedimento di pensiero parimenti richiesta per ogni tipo di  conoscenze, di una constatazione dei fatti attraverso la percezione.   Per la divisione di queste discipline dirette alla conoscenza  del reale è attualmente corrente la distinzione tra scienze della  natura e scienze dello spirito: io la considero però, in questa  forma, poco felice. Quella tra natura e spirito è un’antitesi  oggettiva che è pervenuta a una posizione predominante al  tramonto del pensiero antico e agli inizi di quello medievale, e  che nella metafisica moderna si è fatta valere, con la massima  decisione, da Descartes e da Spinoza fino a Schelling e a Hegel. Se giudico correttamente la disposizione della filosofia più  recente e le conseguenze della critica gnoseologica, questa separazione rimasta aderente al modo generale di rappresentazione  e di espressione non può più ora venir ritenuta così sicura e  ovvia da diventare senza riesame il fondamento di una classifi- cazione. A ciò si aggiunga il fatto che a quest’antitesi tra oggetti non corrisponde un’antitesi tra modi di conoscenza. Se Locke tradusse il dualismo cartesiano in una formula soggetti- va, contrapponendo percezione esterna a percezione interna (sensation e reffection) come organi distinti di conoscenza da  un lato del mondo corporeo esterno, della natura, dall'altro del  mondo spirituale interno, la critica della conoscenza dell’epoca  più recente ha fatto sempre più vacillare questa concezione e  ha per lo meno posto fortemente in dubbio la legittimità dell’assunzione di una « percezione interna» come modo particolare  di conoscenza. Non è neppure ormai possibile ammettere che i  fatti delle cosiddette scienze dello spirito siano fondati semplicemente sulla percezione interna. Ma l’incongruenza tra un principio oggettivo e un principio formale di divisione si manifesta  soprattutto nel fatto che tra la scienza della natura e la scienza  dello spirito non è possibile inserire una disciplina empirica di  tanta importanza come la psicologia, la quale dev'essere caratterizzata in base all'oggetto solo come scienza dello spirito e, in  certo senso, come il fondamento di tutte le altre scienze, mentre il suo intero procedimento, il suo comportamento metodologico, è dall’inizio alla fine quello delle scienze della natura.  Perciò essa ha dovuto accettare talvolta la designazione di  « scienza naturale del senso interno » o anche quella di « scienza della natura spirituale ».   Una divisione che mostri difficoltà di tal genere non ha alcuna consistenza dal punto di vista sistematico: ma per ottenerla ha  forse bisogno soltanto di piccole trasformazioni nella sua formulazione concettuale. In che cosa consiste l'affinità metodologica  della psicologia con le scienze naturali? Evidentemente nel  fatto che anch'essa, al pari di queste, constata, raccoglie ed  elabora i fatti soltanto dal punto di vista e allo scopo di intendere la conformità a leggi generali a cui questi fatti sono sottoposti. Certamente la diversità degli oggetti comporta che i  metodi particolari di accertamento dei fatti, nonché il modo  della loro utilizzazione induttiva e la formulazione alla quale  possono venir ricondotte le leggi scoperte, siano molto differenti; e sotto questo aspetto la distanza della psicologia, per esempio, dalla chimica è di poco maggiore a quella che intercorre tra la meccanica e la biologia. Ma — ed è questo che qui importa — tutte queste differenze di carattere oggettivo stanno in secondo piano rispetto all'identità logica che tali discipline posseggono per quanto riguarda il carattere formale dei loro fini conoscitivi: esse cercano sempre leggi dell’accadere — sia  che si tratti di un movimento di corpi, di una trasformazione  di materia, di uno sviluppo della vita organica o di un processo del rappresentare, del sentire e del volere.   Viceversa, la maggior parte delle discipline empiriche, che  sono state da parte di altri designate come scienze dello spirito, è decisamente diretta a rappresentare nel modo più compiuto ed esauriente un evento singolo, più o meno esteso, con una  sua realtà singolare e limitata nel tempo. Anche da questo lato  gli oggetti e gli strumenti tecnici particolari con cui è assicurata la loro comprensione sono quanto mai diversi. Si può infatti  trattare di un singolo avvenimento o di una serie complessiva  di azioni e di vicende, dell'essenza e della vita di un singolo  uomo o di un intero popolo, del carattere specifico e dello  sviluppo di una lingua, di una religione, di un ordinamento  giuridico, oppure di un prodotto letterario, artistico, scientifico  — e ognuno di questi oggetti richiede una trattazione adeguata  alla sua particolare fisionomia. Ma sempre lo scopo conoscitivo  rimane quello di riprodurre e di intendere nella sua realtà di  fatto una formazione della vita umana, che si è presentata nella  sua configurazione singolare. È chiaro che con ciò si designa l’intero ambito delle discipline storiche. Noi ci troviamo quindi di fronte a una divisione puramente metodologica delle scienze empiriche, che deve essere fondata su concetti logici sicuri. Il principio di divisione è costitui- to dal carattere formale dei loro fini conoscitivi. Le une cercano leggi generali, le altre fatti storici particolari: per esprimerci nel linguaggio della logica formale, il fine delle une è il  giudizio generale, apodittico, mentre quello delle altre è la  proposizione singolare, assertoria. Questa distinzione si ricollega così a quell’importantissimo e decisivo rapporto presente  nell’intelletto umano, che fu riconosciuto da Socrate come la  relazione fondamentale di ogni pensiero scientifico: il rapporto dell’universale con il particolare. A partire da questo punto si  è divisa la metafisica antica, in quanto Platone cercava la realtà negli immutabili concetti di genere, mentre Aristotele la  cercava nell’essere singolo che si sviluppa secondo uno scopo.  La moderna scienza della natura ci ha insegnato a definire ciò che è in base alle necessità durevoli dell’accadere che in esso sì compie; ha messo la legge naturale al posto dell’idea platonica. Perciò possiamo dire che nella conoscenza del reale le scien- ze empiriche cercano o il generale nella forma di legge di natura o il singolare nella forma storicamente determinata;  esse considerano da un parte la forma sempre permanente,  dall’altra il contenuto singolare, in sé determinato, dell’accadere reale. Le prime sono scienze di leggi e le seconde sono  scienze di avvenimenti; quelle insegnano ciò che è sempre, e  queste ciò che è stato una volta. Il pensiero scientifico — se è  consentito elaborare nuove espressioni — è nel primo caso n0motetico, nel secondo idiografico. Se vogliamo attenerci alle  vecchie espressioni, possiamo pure parlare in questo senso di  un’antitesi tra discipline naturali e discipline storiche, fermo  restando che in questo senso metodologico lo psicologia dev’essere senz’altro compresa tra le scienze naturali.   In generale, rimane da considerare che quest’antitesi metodologica classifica solo il modo di trattazione e non il contenuto del sapere. Resta possibile — ed è di fatto vero — che gli  stessi oggetti possono essere sottoposti a un'indagine nomotetica  e al tempo stesso a un'indagine idiografica. Ciò dipende dal  fatto che l’antitesi tra il sempre eguale e il singolare è, per un  certo verso, relativa. Ciò che all’interno di periodi di tempo  assai grandi non subisce nessun mutamento immediatamente  percepibile e può quindi venir considerato nomoteticamente in  base alle sue forme immutabili, può tuttavia risultare da una  prospettiva ulteriore valido per un periodo di tempo pur sempre limitato, cioè qualcosa di singolare. Così una lingua è  dominata, in tutte le applicazioni particolari, dalle sue leggi  formali, che rimangono le medesime in ogni mutamento dell’espressione; ma d’altra parte questa stessa lingua particolare,  con le sue specifiche leggi formali, è soltanto una manifestazione singolare e transitoria nella vita linguistica dell’uomo. Lo  stesso vale per la fisiologia del corpo, per la geologia e in un certo senso perfino per l'astronomia: con ciò il principio storico viene trasferito nel campo delle scienze naturali.   L’esempio classico a questo proposito è costituito dalla scien- za della natura organica. Come sistematica, essa riveste caratte- re nomotetico in quanto, nel paio di millenni per cui è stata finora condotta l’osservazione umana, può considerare i tipi identici dell'essere vivente come la loro forma conforme a leg- gi. In quanto storia dello sviluppo, che rappresenta l’intera  successione degli organismi terrestri come un processo di discendenza o di trasformazione che si compie gradualmente nel  corso del tempo e la cui ripetizione su qualche altro pianeta  non soltanto non possiede nessuna garanzia di certezza, ma  neppure qualche probabilità, essa è invece una disciplina idiografica, cioè storica. Già Kant, anticipando il concetto della  moderna teoria della discendenza, chiamava colui che avesse  osato affrontare quest’« avventura della ragione » col nome di  futuro « archeologo della natura ».   Se ci chiediamo come la teoria logica si sia finora atteggiata  nei confronti di quest’antitesi decisiva tra le scienze particolari, ci imbattiamo esattamente nel punto in cui questa è rimasta più che altrove bisognosa di riforma. Il suo intero sviluppo  mostra la più decisa predilezione per le forme di pensiero nomotetico. Certamente si tratta di un fatto ben spiegabile. Dal  momento che ogni ricerca e dimostrazione scientifica si svolge  nella forma del concetto, l’indagine sull’essenza, sulla fondazione e sull’applicazione di ciò che è generale rimane l'interesse  più prossimo e più importante della logica. A ciò si aggiunga  l'influenza del corso storico. La filosofia si è sviluppata muovendo da ricerche di scienza naturale, dalla questione della pbsic,  cioè dalla permanenza dell'essere nel mutare dei fenomeni; e  seguendo un corso parallelo — che non mancava neppure della  mediazione causale rappresentata dalla tradizione storica del  Rinascimento — la filosofia moderna è pervenuta alla propria  autonomia con l’aiuto della scienza della natura. Perciò non  poteva accadere se non che la riflessione logica si rivolgesse in  primo luogo alle forme di pensiero nomotetico, facendo dipendere durevolmente da queste le sue teorie generali. Ciò vale  ancor sempre: tutta la nostra dottrina tradizionale del concetto, del giudizio e del sillogismo è ancor sempre ritagliata sul presupposto aristotelico che il principio generale sta al centro dell'indagine logica. Basta aprire un qualsiasi manuale di logi- ca per convincersi che non soltanto la grande maggioranza degli esempi viene scelta dalle discipline matematiche e dalle scienze naturali, ma che anche i logici che si mostrano piena- mente sensibili al carattere specifico della ricerca storica cercano pur sempre i punti di riferimento ultimi delle loro teorie  sul versante del pensiero nomotetico. Sarebbe auspicabile — ma  le premesse in questo senso sono ancora troppo scarse — che la  riflessione logica rendesse giustizia alla grande realtà presente  nel pensiero storico, nella stessa misura in cui ha inteso cogliere le forme dell'indagine naturale fin nei suoi particolari.  Concedetemi per ora di considerare un po’ da vicino il  rapporto tra sapere nomotetico e sapere idiografico. Come si è  detto, all’indagine naturale e alla conoscenza storica è comune  il carattere di scienza empirica: entrambe hanno cioè come  punto di partenza — o, in termini logici, come premesse delle  loro dimostrazioni — delle esperienze, dei fatti della percezione. Esse coincidono inoltre nel fatto che né l’una né l’altra  possono appagarsi di ciò che l’uomo ingenuo pensa solitamente  di esperire. Entrambe hanno bisogno, come loro fondamento,  di un'esperienza scientificamente purificata, criticamente vagliata e sottoposta a esame nel lavoro concettuale. Nella stessa  misura in cui bisogna disciplinare accuratamente i propri sensi  per stabilire le sottili distinzioni presenti nella conformazione  di esseri strettamente imparentati, per vedere con successo attraverso un microscopio, per cogliere con sicurezza Îa sincronia  dell’oscillazione di un pendolo e della posizione di una lancetta, nello stesso modo occorre fatica per determinare il carattere  specifico di una scrittura, per osservare lo stile di uno scrittore  o per cogliere l'orizzonte spirituale e l'ambito di interessi di  una fonte storica. Per natura l’una e l’altra cosa possono essere  fatte soltanto in maniera imperfetta. Se quindi la tradizione  del lavoro scientifico ha fatto sorgere, in entrambe le direzioni, una quantità di strumenti tecnici sempre più raffinati — di  cui il discepolo della scienza si appropria nella pratica — ogni  metodo specifico poggia da un lato su punti di vista oggettivi  già acquisiti o per lo meno accolti in via ipotetica, dall’altro su  connessioni logiche spesso assai complicate. Qui occorre osservare di nuovo che finora l’interesse della logica si è rivolto molto di più alla tendenza nomotetica che alla tendenza idiografica. Sul significato metodologico degli strumenti di precisione, sul- la teoria dell’esperimento, sulla determinazione della probabili- tà in base a molteplici osservazioni di un medesimo oggetto, e su questioni analoghe, si hanno indagini logiche approfondite;  ma i problemi paralleli della metodologia storica non hanno  trovato eguale attenzione da parte della filosofia. Ciò è connesso con il fatto che — com'è nella natura stessa della cosa, e  come conferma la storia — l’ingegno e l’opera della filosofia e  della scienza naturale si sono incontrati molto più spesso di  quanto non sia avvenuto tra la filosofia e la storia. Eppure  sarebbe di estremo interesse per la dottrina generale della conoscenza portare alla luce le forme logiche in base alle quali si  compie, nella ricerca storica, la critica reciproca delle percezioni, formulare le «massime di interpolazione » delle ipotesi e  determinare così anche qui quale parte assumono nell’edificio  della conoscenza del mondo, che si sorregge reciprocamente  con tutti i suoi elementi, da una parte i fatti e dall’altra i  presupposti generali con cui li interpretiamo.   Tutte le scienze empiriche coincidono in definitiva però nel  principio ultimo, che consiste nell’accordo senza contraddizione di tutti gli elementi della rappresentazione relativi al medesimo oggetto: la distinzione tra indagine naturale e storia ha  inizio soltanto dove si tratta di utilizzare i fatti a scopo conoscitivo. Qui vediamo che l’una cerca leggi, l’altra forme. Nella  prima il pensiero conduce dall’accertamento del particolare all'apprendimento di relazioni generali, mentre nella seconda esso si arresta alla caratterizzazione accurata del particolare. Per  lo scienziato naturale il singolo oggetto dato alla sua osservazione non possiede mai, in quanto tale, valore scientifico; esso gli  serve solo in quanto si ritiene giustificato a considerarlo come  un tipo, come un caso specifico di un concetto di genere, e a  trarne fuori questo concetto: in ciò egli riflette soltanto su  quei caratteri che sono appropriati alla comprensione di una  generalità conforme a leggi. Allo storico si pone invece il  compito di far rivivere una formazione del passato nella sua  intera configurazione individuale, rendendola idealmente presente. Egli deve compiere nei confronti di ciò che è realmente esistito un’opera analoga a quella dell’artista nei confronti di ciò che è nella sua fantasia. Qui ha le sue radici l’affinità della creazione storica con quella estetica, delle discipline storiche con le Belles lettres. Da ciò consegue che nel pensiero naturalistico predomina la tendenza all’astrazione, nel pensiero storico quella all’intuitivi- tà. Quest’affermazione risulterà inattesa soltanto a chi si è abituato a limitare materialisticamente il concetto di intuizione  alla recezione psichica di ciò che è presente in modo sensibile,  e ha dimenticato che c’è intuitività — cioè vitalità individuale  di ciò che è presente idealmente — tanto per l’occhio dello  spirito quanto per l'occhio del corpo. Certamente quella concezione materialistica è al giorno d’oggi molto diffusa, ma suscita serie riserve. Quanto più ci si abitua, ovunque si presentano  delle rappresentazioni, a mettere in evidenza il più possibile quel  che vi è da toccare e da vedere, tanto più si espone la spontanea facoltà dell’intuizione — a causa del prevalere dell’intuizione ricettiva — al pericolo di rattrappirla per mancanza di  esercizio, e poi ci si meraviglia quando la fantasia sensibile  diventa pigra e incapace di funzionare non appena non può  più toccare e vedere in modo corporeo. Per la pedagogia vale  infatti lo stesso che per l’arte, e in particolare per l’arte drammatica, dove oggi ci si dà ogni pena per tenere impegnati gli  occhi, sicché non rimane più nulla per l’intuizione interiore  delle forme poetiche.   Che però la forza dell’indagine naturale consista nell’astrazione e invece quella della storia nell’intuitività, risalta ancor  più chiaramente se si comparano i risultati della loro ricerca.  Per quanto intricato possa essere il lavoro concettuale di cui la  critica storica ha bisogno per elaborare i dati della tradizione,  il suo fine ultimo è tuttavia quello di trarre fuori dalla massa  del materiale la vera forma del passato per tradurlo in chiarezZa piena di vita; ciò che essa fornisce sono immagini di uomini  e di vita umana, con tutta la ricchezza delle loro configurazioni singolari, conservate nella loro piena vitalità individuale.  Così per bocca della storia ci parlano lingue e popoli passati,  sollevati dalla dimenticanza a nuova vita, e così pure la loro  fede e le loro figure, la loro lotta per il potere e per la libertà,  la loro poesia e il loro pensiero. Quanto diverso è il mondo che l'indagine naturale costruisce davanti ai nostri occhi! Per quanto intuitivi possano essere i suoi punti di partenza, i suoi scopi conoscitivi sono le teorie, sono le formulazioni — in ulti- ma istanza matematiche — delle leggi del movimento: essa lascia dietro di sé — in modo autenticamente platonico — la singola cosa sensibile che nasce e perisce, in un’apparenza  priva di realtà, e aspira alla conoscenza della necessità legale  che domina, in un'immutabilità atemporale, ogni accadere. Dal  variopinto mondo dei sensi essa estrae un sistema di concetti  costruttivi entro cui vuol cogliere la vera essenza delle cose che  sta dietro i fenomeni, un mondo di atomi, incolore e muto,  senza la terrestre fragranza delle qualità sensibili — il trionfo  del pensiero sulla percezione. Indifferente a ciò che è transitorio, essa getta la sua àncora in ciò che rimane eternamente  eguale a se stesso. Non cerca il mutevole in quanto tale, ma la  forma immutabile del mutamento.   Ma se l’antitesi tra i due tipi di scienze empiriche è così  profonda, si comprende perché tra di esse deve scoppiare, ed è  di fatto scoppiata, la battaglia per esercitare un'influenza decisiva sulla visione generale del mondo e della vita. Ci si domanda  che cosa sia più prezioso per lo scopo complessivo della nostra  conoscenza, se il sapere concernente le leggi o quello riguardante gli eventi, se la comprensione dell’universale essenza atemporale o quella dei singoli fenomeni temporali. È chiaro fin dall’inizio che questa questione può venir decisa soltanto in base a  una riflessione sui fini ultimi del lavoro scientifico.   Mi limito ad accennare di sfuggita alla valutazione che si  fonda sull’utilità. Di fronte ad essa entrambe le direzioni di  pensiero sono in egual misura legittime. Il sapere riguardante  leggi generali ha sempre il valore pratico di rendere possibile  la previsione di situazioni future e l’intervento in vista di scopi  dell’uomo nel corso delle cose. Ciò vale sia per i movimenti del  mondo interno sia per quelli del mondo materiale esterno:  nell’ultimo, in particolare, la conoscenza acquisita in virtù del  pensiero nomotetico consente la produzione degli strumenti  con cui si amplia in misura sempre crescente il dominio dell’'uomo sulla natura. Ma l’attività diretta a scopi nella vita comune  dell’uomo dipende in grado non minore dalle esperienze del  sapere storico. L'uomo è — per variare un antico detto — l’animale che ha una storia. La sua vita culturale è una connessio- ne storica che diventa più spessa di generazione in generazio- ne: chi vuole entrare in questa per cooperarvi in modo attivo deve possedere la comprensione del suo sviluppo. Una volta spezzatosi questo filo bisogna poi — lo ha mostrato la storia stessa — rintracciarlo e riannodarlo di nuovo con fatica. Se la  cultura contemporanea dovesse essere sepolta a causa di un  evento elementare — o nella configurazione esterna del nostro  pianeta o nella configurazione interna del mondo umano —  possiamo star certi che le generazioni successive ne scaveranno  con diligenza le vestigia così come noi facciamo con quelle  dell’antichità. Già per questi motivi l'umanità deve portare il  suo grande fardello storico, e se col trascorrere del tempo esso  minaccia di diventare sempre più pesante, al futuro non mancheranno i mezzi per alleggerirlo con cautela e senza danno.   Ma non è questo l’utile in questione: qui si tratta infatti  del valore intimo del sapere, non certamente della soddisfazione personale che il ricercatore ha nel suo conoscere, e soltanto  in virtù di esso. Questo godimento soggettivo che proviene  dalla scoperta e dall’accertamento è in definitiva presente in  egual modo in ogni tipo di sapere. La sua misura viene determinata molto meno dall’importanza dell’oggetto che dalla difficoltà dell'indagine.   Senza dubbio vi sono accanto a ciò distinzioni oggettive, c  quindi puramente teoretiche, nel valore conoscitivo degli oggetti: ma la loro misura non è altro che il grado in cui essi  contribuiscono alla conoscenza complessiva. L’elemento singolo  rimane oggetto di curiosità oziosa se non diventa pietra di  costruzione in una struttura più generale. In senso scientifico il  « fatto » è così già un concetto teleologico. Non una qualsiasi  realtà costituisce un fatto per la scienza, ma soltanto ciò da cui  — per dirla in breve — essa può apprendere qualcosa. Questo  vale soprattutto per la storia. Accadono molte cose che non  sono fatti storici. Che nel 1780 Goethe si sia fatto costruire una  campana di casa e una chiave, e il 22 febbraio una cassetta per  le lettere, è documentato dal conto di un fabbro tramandato in  modo assolutamente autentico: ciò è quindi accaduto del tutto  realmente e con certezza, ma non per questo è un fatto storico  — né storico-letterario, né biografico. Si deve d’altra parte obiettare che è impossibile, entro certi limiti, decidere in anticipo se al singolo elemento, a ciò che si offre all’osservazione o alla tradizione, spetti o no questo valore di «fatto». Perciò la scienza deve fare come Goethe in tarda età: fare provvista, raccogliere ciò di cui può impadronirsi, paga dell’idea di non trascurare nulla di ciò che potrebbe utilizzare in seguito, e  della fiducia che il lavoro delle generazioni future — nella  misura in cui non ne sarà impedito dalle vicende esteriori  della tradizione — conserverà, come un grande setaccio, quanto è utilizzabile e lascierà cadere ciò che è inutile.   Ma questo scopo essenziale di ogni sapere particolare, cioè  lo scopo di inserirsi in un grande complesso unitario, non è  affatto limitato alla subordinazione induttiva del particolare al  concetto di genere o al giudizio universale: esso si realizza in  egual misura dove la caratteristica singola diventa elemento  significativo di un’intuizione complessiva. Quell’attenersi a ciò  che è conforme al genere è una unilateralità del pensiero greco,  diffusasi dagli Eleati fino a Platone, che trovava il vero essere,  come la vera conoscenza, soltanto nell’universale. Da lui si è  poi trasmessa fino ai giorni nostri, in cui Schopenhauer si è  fatto portavoce di questo pregiudizio rifiutando alla storia il  valore di scienza autentica perché essa coglierebbe sempre il  particolare, e mai l’universale. È certamente esatto che l'intelletto umano può rappresentarsi il molteplice soltanto perché coglie il contenuto comune dei singoli elementi dispersi; ma  quanto più aspira al concetto e alla legge, tanto più deve  lasciare dietro di sé il singolare in quanto tale, dimenticarlo e  abbandonarlo. È ciò che vediamo laddove si tenta, in modo  specificamente moderno, di « fare della storia una scienza naturale », come si è proposta la cosiddetta filosofia della storia del  positivismo. Che cosa rimane in definitiva, in una simile induzione di leggi, della vita dei popoli? Un paio di banali generalità, che si fanno scusare soltanto se accompagnate da un’accurata analisi delle loro numerose eccezioni.   Di fronte a ciò occorre tener fermo il fatto che ogni interesse e ogni valutazione, ogni determinazione di valore dell’uomo  si riferiscono al singolo e a ciò che è singolare. Pensiamo soltan- to come si indebolisce presto il nostro sentimento non appena il suo oggetto si moltiplica o si mostra come un caso eguale tra mille. «Non è la prima» — così suona uno dei passi più crudeli del Faust!. Nella singolarità e nell’incomparabilitàdel- l'oggetto si radicano tutti i nostri sentimenti di valore. Su ciò  poggia la dottrina spinoziana del superamento dei moti dell’animo attraverso la conoscenza: per essa la conoscenza è infatti  un tuffarsi del particolare nell’universale, del singolare nell'eterno.   Ma che ogni valutazione vitale dell’uomo dipenda dall’unicità dell’oggetto, risulta anzitutto dalla nostra relazione con le  personalità. Non è forse un'idea insopportabile che un essere  caro e amato possa esistere tal quale anche soltanto una seconda  volta? Non è pauroso e impensabile che debba esistere nella  realtà un secondo esemplare di noi stessi, con questa nostra  peculiarità individuale? Di qui l’orrore, la spettralità inerente  alla rappresentazione del sosia — anche se a una distanza temporale molto grande. È sempre stato per me penoso il fatto che  un popolo pieno di gusto e di sentimenti raffinati come quello  greco si sia abbandonato alla dottrina, che attraversa tutta la  sua filosofia, secondo cui nel ricordo periodico di tutte le cose  deve ritornare anche la personalità, con tutto il suo agire e il  suo patire. Come è svalutata la vita se si conosce con esattezza  quante volte è già esistita e quante volte si ripeterà! com'è  spaventosa l’idea che già una volta io sono vissuto e ho sofferto,  ho desiderato e lottato, amato e odiato, pensato e voluto, e che  quando il grande anno cosmico è trascorso e il tempo ritorna,  devo recitare sempre di nuovo lo stesso ruolo sulla stessa scenal E ciò che vale per la vita individuale dell’uomo vale ancor  più per l’insieme del processo storico: esso ha valore soltanto  se è singolare. Questo è il principio che la filosofia cristiana ha  vittoriosamente affermato nella Patristica contro l’Ellenismo.  Al centro della visione del mondo erano in primo piano la  caduta e la redenzione del genere umano come fatti singolari.  Si trattava della prima grande e forte percezione dell’inalienabile diritto metafisico della conoscenza storica, ossia del diritto  di mantenere il passato, in questa sua realtà singolare, per il  ricordo dell’umanità.    1. GoerHE, parte I, scena « Giornata cupa - campagna » (è la scena in prosa, immediatamente successiva al « Sogno della notte di Valpurga »). D'altra parte le scienze idiografiche hanno però bisogno a ogni passo di princìpi generali, che possono prendere a pre- stito in una fondazione completamente corretta soltanto dalle discipline nomotetiche. Ogni spiegazione causale di un processo storico presuppone rappresentazioni generali del corso delle co- se; e se si vuol ricondurre le dimostrazioni storiche alla loro  pura forma logica, esse conservano sempre — come premesse  supreme — le leggi naturali dell’accadere, in particolare dell’accadere psichico. Chi non avesse alcuna notizia del modo in cui  gli uomini pensano, sentono e vogliono, non naufragherebbe  soltanto nell’abbracciare insieme i singoli eventi per giungere  alla conoscenza degli avvenimenti, ma già nell’accertamento  critico dei fatti. È certamente assai strano con quanta indulgenza siano state in fondo accolte le pretese della scienza dello  spirito nel campo della psicologia. Il grado notoriamente molto  imperfetto con cui sono state finora formulate le leggi della  vita psichica non è mai stato di impedimento agli storici: in  virtù di una conoscenza naturale dell’uomo, in virtù della sensibilità e dell’intuizione geniale essi sapevano quel che basta a  intendere gli eroi e le loro azioni storiche. Ciò dà molto da  pensare e mette seriamente in dubbio se la concezione dei  processi psichici elementari, impostata dai moderni secondo  uno schema matematico-naturale, possa fornire un contributo  apprezzabile alla nostra comprensione della vita reale dell’uomo.   Nonostante tali insufficienze di realizzazione nel caso singolo appare chiaramente che nella conoscenza complessiva, in cui  ogni lavoro scientifico deve in definitiva unificarsi, questi due  momenti rimangono l’uno accanto all’altro nella loro particolare  posizione metodologica. Quella conformità delle cose a leggi generali offre il saldo quadro della nostra immagine del mondo  esprimendo, al di sopra di ogni mutamento, l'essenza eternamente eguale del reale; e all’interno di questo quadro si dispiega alla memoria della specie la connessione vivente di tutte le  singole configurazioni fornite di valore per l'umanità.   Questi due momenti del sapere umano non possono essere  ricondotti a una fonte comune. Certamente la spiegazione cau-sale del singolo accadimento con la sua riduzione a leggi gene- rali induce a ritenere che dovrebbe essere possibile, in ultima istanza, comprendere in base alla conformità delle cose a leggi naturali anche la particolare configurazione storica dell’evento reale. Così Leibniz riteneva che tutte le vérités de fai: abbiano le loro cause sufficienti nelle vérizés eternelles. Ma egli poteva postularlo soltanto per il pensiero divino, non realizzarlo per quello umano. È possibile illustrare questo punto con un semplice schema logico. Nella considerazione causale qualsiasi evento partico- lare assume la forma di un sillogismo in cui la premessa mag- giore è una legge naturale, ossia un certo numero di necessità legali, la premessa minore è una condizione data nel tempo o un complesso unitario di condizioni del genere, e infine la conclusione è il singolo avvenimento reale. Nello stesso modo in cui la conclusione presuppone dal punto di vista logico le due premesse, l’accadere presuppone due specie di cause: da un lato la necessità atemporale in cui si esprime l’essenza durevo- le delle cose, dall’altro la condizione particolare che si pre- senta in un determinato momento del tempo. La causa di un'esplosione è nel primo significato — quello nomotetico — la natura del materiale esplosivo che esprimiamo in forma di leggi fisico-chimiche, mentre nell’altro significato — quello idiografico — è un movimento singolo, cioè una scintilla, una vibrazione o qualcosa di simile. Soltanto i due elementi presi insieme causano e spiegano l'avvenimento, ma nessuno è una conseguenza dell’altro: la loro connessione non appare fonda- ta in essi stessi. Quanto poco la premessa minore presente nella sussunzione sillogistica è una conseguenza di quella mag- giore, altrettanto poco nel corso dell’accadere la condizione che si aggiunge all’essenza universale della cosa può essere derivata da questa essenza legale. Occorre piuttosto ricondurre a sua volta questa condizione, in quanto evento temporale, a un’altra condizione temporale da cui essa è derivata secondo una necessità legale; e così via 17 infinitum. Non si può pensa- re concettualmente un termine iniziale di questa serie infinita; e anche quando si tenti di rappresentarlo, la situazione iniziale risulterà pur sempre qualcosa di nuovo che si aggiunge all’es- senza universale delle cose, senza derivare da essa. Spinoza ha espresso questo punto attraverso la distinzione tra due forme di causalità, quella infinita e quella finita, e ha così eliminato con geniale semplicità molte obiezioni su cui i logici moderni si sono affannati 2 proposito del « problema della pluralità del- le cause». Nel linguaggio della scienza odierna si potrebbe dire che lo stato presente del mondo consegue dalle leggi gene- rali della natura soltanto presupponendo lo stato immediata- mente precedente, e questo a sua volta presupponendo il suo precedente, e così via; ma una particolare determinata disposi- zione degli atomi non deriva mai dalle leggi generali del movi- mento. Da nessuna « formula universale » si può pervenire im- mediatamente alla particolarità di un singolo punto tempora- le: a questo scopo occorrerebbe ancor sempre la subordinazio- ne alla legge dello stato precedente. Dal momento che non esiste alcun termine fondato su leggi generali al quale si possa pervenire seguendo a ritroso la catena causale delle condizioni, nessuna sussunzione sotto quel- le leggi può aiutarci ad analizzare il dato temporale fino ai suoi fondamenti ultimi. In ogni esperienza storica e individuale rimane quindi per noi un residuo di incomprensibilità — qual- cosa che non può essere espresso né definito. In tal modo l'essenza ultima e intima della personalità resiste all’analisi condotta con categorie generali; e questo elemento impenetrabi- le si manifesta alla nostra coscienza come il sentimento dell’irri- ducibilità causale del nostro essere, cioè come il sentimento della libertà individuale. A questo punto è già venuta fuori una quantità di concetti e di problemi metafisici. Per quanto quelli possano essere infelici e questi mal posti, ne sussiste pur sempre il motivo. L'insieme del dato temporale si manifesta nella sua indeducibile autono- mia accanto alla conformità a leggi generali in base alle quali esso pure si realizza. Il contenuto dell’accadere del mondo non può essere compreso in base alla sua forma. Su questo scoglio sono naufragati tutti i tentativi di derivare concettualmente il particolare dal generale, i «molti» dall’«uno», il «finito» dall’« infinito », l’«esistenza» dall’« essenza ». Si tratta di una frattura che i grandi sistemi di spiegazione filosofica del mon- do sono soltanto riusciti a nascondere, ma non a riempire. Ciò è quanto vide Leibniz allorché indicò l’origine delle vérités eternelles nell’intelletto divino e l'origine delle vérités de fait nella volontà divina. Ciò è quanto vide Kant allorché trovò nel felice ma inafferrabile fatto che tutto quanto è dato nella percezione può essere ricondotto sotto le forme dell’intel- letto, e quindi ordinato e compreso, un indizio di connessioni teleologiche divine che va molto al di là del nostro sapere teoretico. Di fatto nessun pensiero può fornire risposte conclusive a ta- li questioni. La filosofia può mostrare fin dove giunge la forza conoscitiva delle singole discipline; ma al di là di queste, nep- pure essa può conquistare un punto di vista oggettivo. La legge e l'avvenimento rimangono l’una accanto all’altro come le gran- dezze ultime e incommensurabili della nostra rappresentazione del mondo. Qui sta uno dei punti-limite in cui il pensiero scientifico può soltanto determinare il compito e porre la que- stione, con la chiara coscienza che non sarà mai in grado di risolverli. RICKERT nasce a Danzica. Frequenta dapprima l’Università di Berlino e poi quella di Strasburgo, dove consegue il dottorato — sotto la guida di Windelband — con la dissertazione Zur Lehre von der Definition (Freiburg i.B.). Dopo aver ottenuto l’abilitazione a Heidelberg, con il volume Der Gegenstand der Erkenntnis (Tibingen), divienne professore a  Friburgo, dove  succede al filosofo positivista Riehl. In questo periodo egli pubblica le sue opere più significative, da Die Grenzen der naturwissenschafilichen Begriffsbildung (Tiibingen) a Kulturwissenschaft und Naturwissenschaft (Tibingen), dal saggio Geschichisphilosophie (Heidelberg) ad alcuni importanti articoli sulla teoria dei valori apparsi nella rivista « Logos ». Nel 1916, dopo la morte di Windelband, gli succede sulla cattedra di Heidelberg, dove continuerà a insegnare fino alla morte, avvenuta il 28 luglio 1936. Anche Rickert muove da un’impostazione neocriticistica, e in questa prospettiva egli affronta, in Der Gegenstand der Erkenntnis, il proble ma del rapporto tra soggetto e oggetto. Ma già in questo libro la garanzia della validità della conoscenza viene individuata in un « dover essere » che appare indipendente dalle condizioni psicologiche del cono- scere, cosicché l’analisi gnoseologica risulta ricondotta ai presupposti della teoria dei valori. Successivamente, in Die Grenzen der naturtwis- senschaftlichen Begriffsbildung e in Kulturwissenschaft und Naturivis- senschaft, Rickert riprende la distinzione windelbandiana tra scienze nomotetiche e scienze idiografiche cercando di recuperare, al tempo stesso, una distinzione oggettiva tra la natura e il mondo storico-sociale, identificato con la cultura. Egli cerca infatti di derivare dalla distinzione tra i due gruppi di discipline, e dalla diversità del loro orientamento conoscitivo, le caratteristiche differenzianti della natura e della cultura. La medesima realtà si presenta come natura oppure come cultura secon- do il punto di vista dal quale essa è considerata: perciò la natura è la realtà considerata in riferimento al generale, cioè determinata nella sua struttura di leggi, mentre la cultura è la realtà considerata in riferimen- to all’individuale, cioè costituita da un complesso di fatti e di rapporti particolari. Ma l’individualità dell'oggetto storico non è altro, per Rickert, che la sua relazione con determinati valori culturali, i quali presiedono all’elaborazione concettuale della conoscenza storica e valgono come suoi criteri di scelta. Scienza naturale e conoscenza storica si differenziano quindi non soltanto per il loro diverso orientamento cono- scitivo e per il diverso modo di configurarsi della realtà che costituisce il loro oggetto, ma anche per la presenza o l’assenza di un riferimento ai valori: mentre la conoscenza della natura prescinde da qualsiasi relazione di valore, cosicché la natura si presenta come un sistema di rapporti regolati da leggi generali, la conoscenza storica seleziona il dato empirico in base a criteri di valore. La cultura — oggetto della conoscenza storica — è perciò la realizzazione storica dei valori, di valori incondizionati che sussistono di per sé, indipendentemente dall’e- ventuale riconoscimento che' possono ricevere da parte degli uomini. Questo rapporto con i valori costituisce il « senso» della cultura, e dà perciò significato all’azione storica degli individui e alle varie forme storiche di cultura. Negli anni successivi al 1g1o Rickert appare sempre più impegnato nel tentativo di dare una formulazione sistematica della teoria dei valori, alla quale fa riscontro un’interpretazione metafisica del processo storico. E questo tentativo appare accompagnato, soprattutto in Die Philosophie des Lebens (Tibingen, 1920), dalla presa di posizione pole- mica contro i più svariati indirizzi della filosofia del Novecento, respon- sabili ai suoi occhi di negare la trascendenza e l’assolutezza dei valori e ricondotti all’etichetta della filosofia della vita — una designazione che serve per qualificare tanto Nietzsche, Dilthey, Simmel, Spengler, quanto James e Bergson, e che verrà in seguito estesa anche a Weber e a Jaspers. Nel primo volume, il solo pubblicato, del System der Philosophie (Tibingen, 1921), Rickert cerca di elaborare un sistema dei valori fondato sulla distinzione di sei sfere di valori: tre sfere di carattere contemplativo, che sono quelle della scienza, dell’arte e della religiosità, e tre sfere di carattere pratico, che sono quelle della comunità etica, della comunità erotica e della comunità religiosa con la divinità. In questo quadro la storia viene interpretata come l'organo di riconoscimen- to dei valori, in quanto questi, pur avendo una loro autonoma esistenza su un piano trascendente rispetto alla realtà empirica, possono essere individuati soltanto sulla base di determinati beni culturali storicamente realizzati. L'ultima fase del pensiero di Rickert — da Die Logik des Pridikats und das Problem der Ontologie (Heidelberg, 1930) a Grundprobleme der Philosophie (Tibingen, 1934) e ai saggi raccolti nel volume postumo Unmittelbarkeit und Sinndeutung (Tibingen, 1939) — è caratterizzato dall'accentuazione del carattere ontologico della teoria dei valori e dal duplice richiamo a Hartmann e a Heidegger. I! problema del rapporto tra cultura e mondo dei valori viene a configurarsi come il problema del posto dell’uomo nel mondo; e l’analisi antropologica appare fondata sulla determinazione del legame dell’uomo con i diversi modi dell’esse- re. L'uomo nasce e cresce come essere naturale, e diventa «uomo culturale » ponendosi in relazione con i valori, cioè con una realtà trascendente che stabilisce il senso della sua esistenza e del suo sforzo di realizzazione storica dei valori. Ricordiamo qui le altre opere di Rickert: Psycho-physische Kausalitàt und psycho-physischer Parallelismus, Tibingen, 1900; Das Eine, die Ein- heit und die Eins: Bemerkungen zur Logik des Zahlbegriffs, Heidelberg, 1911, 1924?; Kant als Philosoph der modernen Kultur, Tiibingen, 1924; Die Heidelberger Tradition und Kants Kritizismus, Berlin, 1934. Nume- rosi sono gli articoli apparsi in « Logos », nelle « Kantstudien » e in va- rie altre riviste, dei quali indichiamo qui soltanto i principali: Uber die Aufgabe einer Logik der Geschichte, « Archiv fir systematische Philoso- phie », VIII, 1902, pp. 137-63; Zwei Wege der Erkenninistheorie, « Kant- studien », XIV, 1909, pp. 169-228; Vom Begriff der Philosophie, « Lo- gos », I, I9I0, pp. 1-34; Lebenswerte und Kulturwerte, « Logos », II, 191I- 1912, pp. 131-142; Vom System der Werte, « Logos », IV, 1913, pp. 295-327; Uber logische und ethische Geltung, « Kantstudien », XIX, 1914, pp. 182- 221; Psychologie der Weltanschauungen und Philosophie der Werte, « Lo- gos », IX, 1920-21, pp. 1-42 (in polemica con Jaspers); Die Methode der Philosophie und das Unmittelbare, «Logos», XII, 1923-24, pp. 235-80; Vom Anfang der Philosophie, « Logos », XVI, 1925, pp. 121-62; Die Er- kenninis der intelligibeln Welt und das Problem der Metaphysik, « Logos », XVI, 1927, pp. 162-203, e XVIII, 1929, pp. 36-82; Geschichte und System der Philosophie, « Archiv fiir Geschichte der Philosophie », XL, 1931, pp. 7-46 e 403-48; Wissenschaftliche Philosophie und Weltanschauung, « Logos », XXII, 1933, pp. 37-57. Le opere di Rickert non sono state più ristampate in epoca recente, né di esse esistono traduzioni italiane. Tra gli studi dedicati alla filosofia di Rickert segnaliamo i seguenti: O. ScHLunke, Die Lehre vom Bewusstsein bei Heinrich Rickert, Leipzig, IQII. A. Faust, Heinrich Rickert und seine Stellung innerhalb der deutschen Philosophie der Gegenwart, Tibingen, 1927. F. FepeRIcI, La filosofia dei valori di Heinrich Rickert, Firenze, 1933. G. GurvitcH, La théorie des valeurs de H. Rickert, « Revue philosophique de la France et de l’étranger », CKXIV, 1937, pp. 80-88. ScHescHics, Die Kategorienlehre der Badischen philosophischen Schule, Berlin, 1938. E. Pact, Pensiero esistenza e valore, Milano, 1940, pp. 47-53. G. Rammino, Karl Jaspers und Heinrich Rickert. Existentialismus und Wertphilosophie, Bern, 1948. C. Rosso, Figure e dottrine della fiosofia dei valori, Torino, 1949, e Na- poli, 1973”, cap. IX. A. Mitter-Rostowsra, Das individuelle als Gegenstand der Erkenninis: eine Studie zur Geschichtsmethodologie Heinrich Rickerts, Winterthur, 1955. H. Sere, Wert und Wirklichkeit in der Philosophie Heinrich Rickerts, Bonn, 1968. Una bibliografia ormai invecchiata, ma che fornisce molte indicazioni sugli scritti di Rickert e su Rickert nei primi decenni del secolo, si trova in F. FeperIci, La filosofia dei valori di Heinrich Rickert. All’inizio del secolo xx le scienze filosofiche si trovano anco- ra, in gran parte, sotto il segno della restaurazione. La loro ultima fioritura è dipesa dal ridestarsi dell’interesse per Kant, e anche le idee con cui la filosofia di orientamento kantiano deve oggi combattere non sono sorte nella nostra epoca, ma derivano da un periodo ancora precedente dello sviluppo filosofico. Si tratta per lo più di respingere di nuovo il naturalismo illumini- stico, su cui l’idealismo di Kant non è riuscito a riportare una vittoria definitiva. Nello stesso modo, se qualcuno volesse soste- nere che anche Kant è almeno in parte superato, non si potreb- be dire che ciò sia avvenuto ad opera di idee elaborate di recente: quasi tutti i progressi reali compiuti rispetto a Kant risiedono essenzialmente nella direzione imboccata dai suoi im- mediati successori, a cui oggi ci si comincia a rifare. Per questo motivo lo studio della storia della filosofia riveste oggi un grosso significato, e per questo motivo festeggiamo un uo- mo come Kuno Fischer, che non soltanto ha molto contribui- to a rianimare la comprensione di Kant, ma ha anche riavvici- nato alla nostra epoca le idee dei suoi grandi discepoli. Non bisogna temere di dover ripercorrere il processo di sviluppo che * Geschichtsphilosophie, in Die Philosophie im Beginn des zwanzigsten Jahrhun- derts: Festschrife fiir Kuno Fischer (a cura di W. Windelband), Heidelberg, Carl Winter*s Universitàtsbuchhandlung, 1904-5, vol. II, pp. 51-133 (traduzione di San- dro Barbera e Pietro Rossi). 1. Kuno Fischer (1824-1907), storico della filosofia di orientamento hegeliano, au- tore di un'importante Geschichte der neueren Philosophie (1854-77) e della monografia Hegels Leben, Werke und Lehre (1901): la sua opera ha largamente ispirato l'interpre- tazione in senso idealistico dello sviluppo del pensiero filosofico moderno. 342 HEINRICH RICKERT ha condotto da Kanta Fichte, da questi a Schelling o a Schopen- hauer, e poi fino a Hegel. La nuova epoca comporta nuove questioni, che esigono risposte nuove: nulla si è mai ripetuto nella vita storica. Ma non si deve chiudere gli occhi dinanzi alla prospettiva che l’idealismo kantiano e post-kantiano contie- ne un tesoro di idee che è ancora lungi dall’esser stato utilizza- to completamente e dal quale possiamo trarre, se dobbiamo misurarci con i problemi filosofici della nostra epoca, una quan- tità di idee preziose. Ciò vale per nessun'altra disciplina filosofica più che per la filosofia della storia. Benché negli ultimi tempi l’interesse per essa sia straordinariamente aumentato, la filosofia della storia non può, almeno per quanto riguarda i suoi concetti fondamen- tali, avanzare la pretesa di insegnare qualcosa di mai udito, di nuovo. Proprio le speculazioni che vengono considerate partico- larmente « moderne » vivono quasi esclusivamente di idee che hanno trovato la loro formulazione nell’Illuminismo; e anche la tendenza che combatte questi indirizzi illuministici è costret- ta a riconoscere con gratitudine che alcune delle sue armi migliori sono state forgiate in parte da Kant, e in parte ancora maggiore dagli idealisti post-kantiani, in particolare da Fichte e da Hegel. Chi volesse quindi avere un quadro della situazio- ne attuale della filosofia della storia e dei suoi movimenti, dei suoi problemi principali e delle diverse direzioni che Ja loro soluzione assume, potrebbe tentare — per acquisire i concetti fondamentali — di seguire all’indietro i fili che portano all'i- dealismo tedesco e più in là, procedendo verso il passato, fino all’Illuminismo. Ma anche nell’ambito della filosofia della sto- ria non si tratterà di una mera restaurazione dei precedenti. Per rendersene conto basta pensare allo sviluppo della scienza storica nel secolo xx; e in ogni caso nei sistemi del passato dobbiamo distinguere ciò che è valido in modo durevole da ciò che è « storicamente » divenuto. Per la filosofia della storia ciò è stato fatto soltanto in parte. Occorreranno ancora varie inda- gini, del tipo di quelle condotte da Lask? sull’idealismo di 2. Emil Lask (1875-1915), filosofo tedesco allievo di Windelband, autore di Die Logik der Philosophie und die Kategorienlehre (1911) e di Die Lehre vom Urteil (1912). Rickert si riferisce qui al volume Fichtes Idealismus und die Geschichte, Tibingen. Fichte e la storia, perché emerga il significato durevole di queste idee. Già per questo motivo l’orientamento storico non si presta a un rapido sguardo sul presente. E anche a prescinde- re da ciò, qui non è consigliabile procedere in modo esclusiva- mente storico. Nonostante tutta la gratitudine che proviamo per il nostro passato filosofico, nonostante il riconoscimento della sua superiorità di originalità creativa, occorre augurarsi di venir fuori della nostra situazione di epigoni, di non procede- re soltanto dall’epoca dell’Illuminismo all’epoca di Kant, ma di tentare di percorrere la nostra via; e proprio la filosofia della storia ha forse più occasioni per porre in rilievo che il filosofo non può mai essere soltanto uno storico, che la filosofia non può mai arrestarsi alla storia. Lasciamo quindi da parte il passato e tentiamo di sviluppare un orientamento sistematico. Ma anche su questa via ci imbattiamo in difficoltà. L’inten- sa familiarità con la storia ha recato con sé non soltanto una grande ricchezza di idee filosofiche, ma anche una confusione considerevole e quindi un’insicurezza che si estende ai concetti più elementari del nostro lavoro. Alla questione di che cosa sia in generale la filosofa non esiste alcuna risposta che goda di riconoscimento generale, e ciò che vale per la totalità varrà per le sue parti. Se vogliamo procedere senza arbitrio, dobbiamo anzitutto richiamare i diversi significati che si connettono all’e- spressione « filosofia della storia » e giustificare il nostro concet- to di tale scienza. Anzitutto tre concetti emergono chiaramente. Della filosofia in generale si dice che sarebbe la scienza dell’universale, in antitesi alle scienze particolari. Filosofare vorrebbe quindi dire cercare una conoscenza complessiva della realtà, fornire l’insie- me di ogni conoscenza scientifica. Se su questa base si determi- nano i compiti di una filosofia della storia, essa deve raccoglie- re — mentre le scienze storiche particolari hanno a che fare con i campi particolari della vita storica — ciò che quelle singole discipline hanno scoperto in un quadro complessivo uni- tario, in uno sguardo d’insieme sulla totalità, in breve, in una storia universale. Filosofia della storia in questo primo significa- to del termine equivarrebbe quindi a storia universale. Ma la generalità di un’esposizione può essere intesa in modi diversi. Se, per richiamarci nuovamente al concetto della filosofia in generale, si pone ad essa il compito di fornire una conoscenza complessiva della realtà, allora non si può ritenere che essa possa accogliere in sé tutta la pienezza di contenuto del mate- riale conosciuto dalle discipline particolari. La sua generalità deve piuttosto essere sempre connessa con una generalizzazione nel senso che il contenuto del sapere specialistico va perduto in grado maggiore o minore, e in definitiva tale generalizzazione può spingersi al punto che soltanto i « principi » generali diven- tano oggetto di indagine. Di qui deriva anche un nuovo concet- to della filosofia della storia. In questo modo tale disciplina deve lasciar da parte il contenuto particolare della vita storica, per indagare sul suo «senso» universale o sulle sue «leggi» universali. Anche senza un’ulteriore determinazione dei concet- ti di senso e di legge, sorge così il concetto di una scienza dei princìpi storici, che si distingue nettamente dal concetto di storia universale. E infine, se storia non significa ciò che è ac- caduto, bensì rappresentazione di ciò che è accaduto o scien- za della storia, si perviene a un terzo concetto. In ogni caso, quest’ultimo concetto si accorda con un punto di vista, varia- mente rappresentato, in merito ai compiti della filosofia in ge- nerale, per cui essa — specialmente nella sua parte teoretica — deve avere per oggetto non tanto le cose stesse, quanto il sapere relativo alle cose. La filosofia della storia può quindi essere considerata anche come scienza del conoscere storico o come una parte della logica nel senso più ampio del termine. Forse si sentirà ancora la mancanza di una disciplina che si occupi del significato del pensiero storico per la trattazione dei problemi generali dell’intuizione del mondo e della concezione della vita. Ma a tali questioni sarà facile rispondere se il lavo- ro finora solo indicato è stato compiuto e non c'è quindi moti- vo di elencare un quarto tipo di filosofia della storia. Certamen- te la storia universale, la dottrina dei princìpi della vita storica e la logica della scienza storica sembrano essere, di fatto, tre scienze egualmente legittime, ognuna delle quali ha i suoi problemi particolari, e che hanno però tutte diritto al nome di filosofia della storia. Ma se si guarda con maggior precisione, si presenta subito un quadro diverso. Come la storia universale deve sussistere accanto alle singole discipline storiche? Dev’essere concepita come una mera somma delle scoperte di quelle? Certamente no. Da essa si esigerà al minimo che esponga in modo unitario la totalità storica. Ma che cos’è questa totalità, in cui con- siste il principio della sua unità e della sua articolazione? Attra- verso questioni di questo genere il primo tipo di filosofia della storia conduce, nella trattazione dei suoi concetti fondamenta- li, al secondo tipo. Ma anche i concetti di cui la scienza dei princìpi ha bisogno per determinare il suo compito non posso- no venir presupposti come ovvi, sia che si pensi a «leggi» universali a cui dev'essere sottoposta ogni vita storica, sia che si voglia porre a fondamento della totalità dello sviluppo storico un «senso» unitario. In questi concetti vi sono dei problemi. Mentre ognuno ritiene ovvio cercare le leggi natura- li, si contesta però decisamente la possibilità di indicare leggi storiche; prescindendo da questo, perché nel campo delle scien- ze naturali le leggi vengono ricercate dalle stesse discipline particolari, mentre per la storia questo compito spetta a una disciplina filosofica? Con quale diritto, inoltre, ipotizziamo un senso del corso storico, e quali strumenti abbiamo per ricono- scerlo? La filosofia della storia come scienza dei princìpi non può cominciare il suo lavoro senza affrontare questioni di tal genere; né potrà rispondere ad esse se non ha chiara l’essenza del conoscere storico in generale, cioè se non possiede nozioni logiche. Vediamo così la seconda delle tre discipline condurre alla terza, nello stesso modo in cui la prima conduceva alla se- conda. Da ciò deriva pertanto tra i diversi tipi di filosofia della storia — che a prima vista sembravano costituire tre scienze indipendenti, ognuna con problemi differenti — una connessio- ne tale che la logica della storia deve costituire il punto di partenza e il fondamento di tutte le indagini di filosofia della storia. Fino a quale punto, poi, i problemi della scienza dei princìpi e della storia universale debbano trasformarsi in proble- mi logici, se devono poter essere risolti in generale, è cosa che soltanto l’indagine concreta può stabilire. Ma già da ora è certo che non è arbitrio, ma necessità, se prendiamo qui le mosse da uno sguardo d'insieme sui problemi e sui dibattiti più importanti della logica della storia. Anteponendo questa parte entriamo immediatamente nel campo della filosofia della storia, in cui la nostra epoca può maggiormente pretendere una certa originalità. Per la formula- zione e la trattazione logica dei problemi si trovano nella filoso- fia dell’idealismo tedesco osservazioni sì molto valide, ma isola- te e asistematiche; e nella filosofia pre-kantiana del passato e del presente non si è fatto nulla per rispondere a tali questio- ni. Nonostante l’evidente connessione tra logica della storia e filosofia della storia in senso lato, i primi tentativi di compren- dere a fondo, nel suo carattere specifico, l’essenza logica della scienza storica non risalgono molto all’indietro di Paul*, di Navil- le‘, di Simmel e soprattutto di Windelband. Anche sulle questio- ni più elementari, infatti, domina finora in questo campo il più violento contrasto di opinioni; anzi, una logica della storia che meriti questo nome deve ancora combattere per la giustifi- cazione della sua esistenza. Non soltanto si crede — come fa per esempio Lindner® — di poter trattare scientificamente i problemi della filosofia della storia senza una fondazione logi- ca, ma si è addirittura contestato il diritto di esporre un concet- to puramente logico della storia e del metodo storico. I moti- vi non consistono soltanto nel fatto che in tali questioni sono intervenuti molti ai quali fa difetto la preparazione necessa- ria per trattare problemi del genere. E neppure derivano sol- tanto dalle difficoltà che si presentano in questo campo: solo che si imbocchi la via giusta, l'essenza logica della storia non è più difficile da comprendere di quella di altre scienze. Ma proprio su questa strada non esiste, stranamente, alcuna concor- dia. Sembrerebbe ovvio che chi va alla ricerca di chiarezza in questo campo cerchi un orientamento, almeno preliminare, nel- 3. Hermann Paul (1846-1921), glottologo tedesco, autore dei Prinzipien der Sprach- geschichte (1880), fu un rappresentante del metodo storico nello studio della lin- guistica. 4. Adrien Naville (1845-1930), filosofo svizzero di origine positivistica, autore del volume De la classification des sciences, Paris, 1888 — al quale si riferisce qui Rickert — e di altri scritti di teoria della conoscenza. 5. Theodor Lindner (1843-1919), filosofo e storico tedesco, autore della Geschichts- philosophie: das Wesen der geschichtlichen Entwicklung (1901), e di una Weltgeschich- te scit der Volkerivanderung (1901-16). le opere dei grandi storici universalmente riconosciuti, e stabili- sca anzitutto ciò che distingue il pensiero storico da quello delle altre scienze. Sembrerebbe poi ovvio che debba essere anzitutto compresa la struttura logica della scienza storica qua- le essa esiste, prima di pronunciare un giudizio sul suo valore scientifico. Ma in questo caso l’ovvio non coincide con ciò che avviene di solito. Talvolta il riferimento alle opere dei grandi storici viene piuttosto respinto — per esempio da Lamprecht* e da Tònnies” — come non scientifico: queste esposizioni non conterrebbero vera scienza. In particolare, proprio coloro che per tutto il resto non si stancano di celebrare l’esperienza co- me unico fondamento di ogni sapere, nell’indagine logica delle scienze empiriche si mettono al lavoro utilizzando un concetto di scienza storica fissato in precedenza e mai realizzato; e poiché non trovano mai gli storici sulla via che conduce al loro ideale, pensano che sia anzitutto necessario elevare a scienza la storia. In teste di questo genere si è così fissata l’idea di un’antitesi tra scienza e storia, e proprio questi pensatori si sentono stranamente chiamati a istruire la scienza storica sui suoi veri fini. Non ci si deve meravigliare del fatto che la maggior parte degli storici non vuole saperne di simili speculazioni estranee alla storia. Così avviene che storia e filosofia spesso non si comprendono più, ed entrambe soffrono di questa situazione. L’astorica filosofia della storia che un tempo aveva avuto larga risonanza soprattutto nella forma delle teorie (non della pras- si) di un Taine® e di un Buckle e che oggi viene rinnovata, 6. Karl Lamprecht (1856-1915), storico tedesco, autore di importanti saggi meto- dologici come Alte und neue Richtungen in der Geschichtswissenschaft (1896), Was ist Kulturgeschichte? (1896-97), Die kulturhistorische Methode (1900) e della Einf@zhrung in das historische Denken (1912), nonché di una monumentale Deutsche Geschichte in dodici volumi (1891-1904), è il maggiore rappresentante dell’orientamento positivi. stico nella storiografia tedesca dî fine Ottocento. 7. Ferdinand Tònnies (1855-1936), sociologo tedesco, autore di Gemeinschaft und Gesellschaft (1887), di Die Sitte (1909), della Kritik der òffentlichen Meinung (1922), del- la Einfiihrung in die Soziologie (1931), nonché di una nota monografia su Hobbes (1896) e di vari scritto sul marxismo. 8. Hippolyte-Adolphe Taine (1828-1893), storico e filosofo positivista francese, au- tore della Philosophie de l'art (1865), del libro De l'intelligence (1870), di numerosi saggi di critica e di storia letteraria, nonché di un'ampia opera, rimasta incompiuta, su Les origines de la France contemporaine (1876-93), fu il maggiore rappresentante dell'impostazione positivistica nell’ambito dell'estetica. più con passione che con chiarezza, per esempio da Lamprecht, è stata abbastanza respinta, per gli scopi della scienza storica empirica, da Droysen’, Bernheim”, von Below", Eduard Me- yer e altri. Ma in questo dibattito metodologico tra storici — in cui sono state introdotte anche questioni come quelle della libertà e della necessità, della conformità alle leggi e dell’acci- dentalità, della teleologia e del meccanicismo — molto è rimasto non chiarito da un punto di vista filosofico, nonostante alcuni preziosi risultati: perciò anche gli storici si mostrano talvolta assai perplessi quando, seguendo la «caratteristica dell’epoca » che torna a farsi più filosofica, passano dalle loro indagini specialistiche a considerazioni più generali. Ma di questa situa- zione soffre molto di più la filosofia. A causa della incompren- sione del pensiero storico, che proprio nella nostra epoca è quanto mai importante, la filosofia è condannata a una profon- da mancanza di influenza; e fino a qual punto tale mancanza d’influenza sia connessa alla separazione dalla storia risulta in modo particolarmente chiaro dal fatto che, se oggi si manifesta talora un interesse filosofico nei rappresentanti delle cosiddette scienze dello spirito, esso è per lo più mediato dal legame con indagini di metodologia della storia. Ai nostri giorni l’incomprensione dell’essenza del lavoro sto- rico viene naturalmente in luce con la massima chiarezza nei rappresentanti dei dogmi naturalistici, oggi nuovamente di mo- da; e non fa una differenza essenziale se questo naturalismo si presenta come materialismo o come psicologismo. In entrambi i casi il riconoscimento della storia come scienza significhereb- be uno scuotimento dei concetti naturalistici fondamentali. In- fatti dove si identifica la realtà con la natura, vi è tanto meno spazio per la storia quanto più si pensa in modo coerente. Ma l’estraneità della nostra filosofia alla storia ha motivi ancor più 9- Johann Gustav Droysen (1808-1884), storico tedesco, autore della Geschichte des Hellenismus (1836-43) e della Geschichte der preussischen Politik (1855-86), nonché di un Grundriss der Historik (1868) che espone in forma sistematica i principi del me- todo storico. ro. Ernst Bernhcim (1850-1942), metodologo della storia tedesco, autore di un fortunato Le/lrbuch der historischen Methode und der Geschichtsphilosophie (1889). rt. Georg von Below (1858-1927), storico tedesco, autore di Der deutsche Staat des Mittelalters (1914), di Die deutsche Geschichtsschreibung von den Befreiungskriegen an bis zu unseren Tagen (1916), nonché di altri studi di storia costituzionale ed economica. profondi. Per quanto il naturalismo come intuizione del mon- do sia stato in linea di principio completamente superato per merito di Kant, nella sostanza tale superamento non procede in direzione del pensiero storico. Nel seguace di Newton vi sono al massimo le premesse per una comprensione di questo pensie- ro, e la metodologia di Kant è ancora dominata quasi del tutto — e proprio nella sua più importante opera teoretica — dall’interesse per la matematica e per la scienza naturale. Dfatto, quindi, ci si può richiamare a Kant — come fa per esempio Max Adler! — con una certa parvenza di legittimità se si ricusa al lavoro storico un vero e proprio carattere scientifi- co. Si aggiunga infine che tra le scienze della natura — nella misura in cui sono scienze sistematiche — e la filosofia — che anch'essa aspira a un sistema — c’è un’affinità formale maggio- re di quella che esiste tra la filosofia e la storia, la quale non può mai diventare una scienza sistematica. Si deve anzi parlare di un antagonismo tra pensiero storico e pensiero filosofico, che nessuno può anche soltanto desiderare di accantonare: la filoso- fia dovrà sempre combattere lo storicismo come intuizione del mondo. Ma tutto ciò fa apparire ancor più urgenti i compiti di una logica della storia. Il naturalismo viene respinto non meno dello storicismo, e la filosofia può sperare di aver ragione dello storicismo soltanto se ha compreso a fondo l’essenza e il significato del pensiero storico. Da tutto ciò deriva per la logi- ca il compito di superare completamente nella sua unilateralità il naturalismo metodologico, ancora rappresentato pure da Kant, e di pervenire così a una comprensione di ogri lavoro scien- tifico. L'affermazione che finora poco si è fatto per la soluzione di questo compito incontrerà forse opposizioni se si tengono pre- senti le molte indagini sull’essenza delle «scienze dello spiri- to» intraprese da Mill in poi; e certamente non si può dire che 12. Max Adler (1873-1937), sociologo e filosofo austriaco, autore di Marx als Denker (1908), di Marxistische Probleme (1913), di Kant und der Marxismus (1925), di Das Soziologische in Kants Erkenntniskritik (1925), del Lehrbuch der materialistischen Ge- schichtsauffassung (1930) e di varie altre opere, fu uno dei maggiori esponenti del cosiddetto austro-marxismo, orientato verso un’interpretazione in chiave kantiana di Marx, Rickert si riferisce qui al volume Kausalitàt und Teleologie im Streite um die Wissenschaft, Wien. tutti questi lavori siano privi di valore. Ma nelle indagini (per altro verso estremamente preziose) condotte per esempio da Dilthey, Wundt!, Miinsterberg! e da altri, il punto decisivo, che rende possibile una reale comprensione logica della storia, non è stato affatto toccato (come da parte di Wundt e di Miinsterberg) oppure (come in Dilthey) non è stato elaborato in modo preciso e posto al centro, in modo da diventare real- mente fecondo in una logica della storia. Ciò trova già espres- sione nella terminologia consueta, che contrappone le scienze dello spirito alle scienze della natura. L’antitesi tra natura e spirito è oggi tutt'altro che univoca. I pensatori che si sono occupati dell'essenza delle scienze dello spirito determinano in modo assai diverso anche il concetto fondamentale di spirito, e sono d'accordo soltanto su un punto, cioè che esistono in gene- rale due gruppi diversi di scienze empiriche. E nemmeno si può sperare che dal concetto di spirito si pervenga a un accor- do sull’essenza del pensiero storico. Questi tentativi contengo- no alla loro base troppi presupposti per lo più di carattere metafisico, che offrono soltanto degli appigli a un naturalismo estraneo alla storia. L'unico concetto di spirito con cui oggi si può lavorare senza bisogno di una fondazione più precisa è quello di realtà psichica in antitesi a quella fisica: che ciò che chiamiamo piacere o ricordo o volontà non sia un corpo, è infatti ammesso da tutti i pensatori che meritano di essere presi in considerazione. Ma quest’unico concetto di spirito, sen- z’altro utilizzabile, è del tutto inadeguato per una delimitazio- ne delle diverse scienze e per la comprensione dell’essenza della 13. Wundt, psicologo e filosofo tedesco, autore dei Bei- trige zur Theorie der Sinneswahrnehmung (1858-62), delle Vorlesungen fiber die Men- schen- und Tierseele (1863-64), dei Grundziige der physiologischen Psychologie (1874), della Logik (1880-83), della Eekik (1886), del Systera der Philosophie (1889), della Einleitung in° die Philosophie (1901), della Volkerpsychologie e di varic altre opere, fu il maggiore esponente del positivismo in Germania: è considerato il fonda- tore della moderna psicologia scientifica, basata sul metodo sperimentale. Rickert si riferisce qui alla terza parte della Logik, che reca il titolo Logi der Geisteswissen- schaften (vol. Il-2, 2° cd. Stuttgart, 1895). 14. Hugo Miinsterberg (1863-1916), psicologo c filosofo tedesco, autore dei Grund- zige der Psychologie, della Philosophie der Werte (1908), di Psychologie und Wirtschaftsleben (1912), dei Grundzige der Psychotechnik (1914) e di varie altre opere, si ispirò da una parte all'insegnamento di Wundt e dall'altra alla filosofia dei valori. storia. Il naturalismo può a buon diritto sostenere che, se l’ele- mento spirituale nel senso sopra indicato non è certamente corpo, appartiene però del tutto alla natura, e dev'essere quin- di indagato scientificamente allo stesso modo di tutti gli altri oggetti naturali. Esso può sostenere che non si tratta soltanto di una teoria, ma che la prassi della psicologia moderna eleva questa certezza al di sopra del conflitto tra le diverse prospetti- ve metodologiche. Di fronte a queste affermazioni i sostenitori dell’antitesi tra scienze della natura e scienze dello spirito saran- no disarmati finché non avranno determinato il loro concetto fondamentale in modo incontestabile, e nel caso del concetto di spirito ciò non sarà mai possibile con mezzi logici, o in ogni caso lo sarà soltanto qualora si sia già acquisito il concet- to logico della storia. La dottrina del metodo non ha alcun bisogno di impegnarsi dapprima in tutte queste questioni controverse, se rivolge la sua attenzione soltanto a ciò che vuol porre in chiaro, cioè al metodo. Il metodo consiste nelle forme utilizzate dalla scien- za nell’elaborazione del suo materiale. Con ciò non si vuol negare che il metodo sia variamente condizionato dal carattere specifico del materiale. Anche un’indagine che rifletta sulla diversità di contenuto delle singole scienze può condurre quin- di a questo o a quel risultato, prezioso dal punto di vista logico. Ma questi risultati si presenteranno in modo più o me- no accidentale, e una logica che vuol raggiungere il suo fine con sicurezza e per la via più breve prescinde pertanto da tutte le distinzioni di contenuto delle singole scienze, per poter me- glio comprendere le distinzioni metodologiche di carattere for- male. Essa deve soltanto riflettere sul fatto che nelle scienze empiriche agli oggetti si contrappone sempre un soggetto cono- scente che — siano essi oggetti spirituali o corporei, processi naturali o prodotti culturali — li assume come « dati », e che il soggetto si prefigge il fine di conoscere questa o quella parte, o anche la totalità del mondo dato. Si riconoscerà allora facilmen- te che la conoscenza non consiste in una riproduzione o in una copia, ma in una comprensione trasformatrice degli oggetti. A dimostrarlo già basta, prescindendo da tutti gli altri motivi, la semplice riflessione che la realtà data — da cui muove ogni scienza empirica — si presenta, nella totalità come in ogni sua parte, come una molteplicità sterminata che nessuno è in grado di riprodurre. Il contenuto di ogni giudizio che asserisca qual- cosa sulla realtà è necessariamente, in confronto alla realtà stes- sa, una grossa semplificazione. La scienza può perciò anche essere considerata come una trasposizione del materiale dato intuitivamente in immagini di pensiero, per le quali si preferi- sce usare il nome di concetto per distinguerle dall’intuizione. In questo processo di trasformazione concettuale consiste il me- todo della scienza. Inoltre — ed è questa la cosa principale — le forme del lavoro scientifico, in quanto strumenti per il conseguimento del fine scientifico, devono dipendere nel loro carattere specifico dalla specificità formale dei fini a cui il soggetto tende nel conoscere. La logica deve quindi indagare i compiti, formalmente diversi tra loro, che le diverse scienze si pongono e cercare di comprendere i metodi scientifici nella loro diversità come gli strumenti, necessariamente differenti, per il conseguimento di questi diversi fini o come i modi, anch'essi necessariamente differenti, della trasformazione e del- l’elaborazione concettuale del materiale intuitivamente dato. Ovviamente, le distinzioni metodologiche che ne risultano so- no, al pari delle distinzioni dei fini, puramente formali; ma proprio in virtù di questo loro carattere puramente formale esse devono valere come elementi fondamentali e decisivi per la comprensione dell’essenza logica di un metodo scientifico. La logica ha a che fare sempre e soltanto con le forme del pen- siero. Se da queste determinazioni generali del compito di una logica delle scienze particolari ci volgiamo ai concetti fonda- mentali che la logica della scienza storica deve sviluppare in modo particolare, sarà necessario in primo luogo recare alla coscienza la massima antitesi formale presente nella nostra con- cezione della realtà empirica, cioè chiedersi che cosa significhi logicamente quest’antitesi e indicare quale termine dell’antitesi sia determinante per la rappresentazione storica della realtà. Che vi siano due tipi sostanzialmente diversi di apprendimento della realtà, si può forse comprenderlo nel modo migliore guar- dando alle conoscenze pre-scientifiche che possediamo di una parte più o meno grande del mondo. Sarebbe illusorio credere di avere qui una copia della realtà quale essa è. Prima che la scienza si accinga al suo lavoro è sorta già sempre qualche specie di elaborazione concettuale, e la scienza trova come pro- prio materiale i prodotti di questa elaborazione concettuale pre- scientifica, non la realtà libera da interpretazioni. La massima distinzione formale in questa elaborazione concettuale pre-scien- tifica è però quella seguente. La maggior parte delle cose e degli eventi ci interessano solamente per quello che hanno in comune con altri; e quindi noi facciamo attenzione a questo elemento comune, anche se di fatto ogni parte della realtà è individualmente diversa da ogni altra e nulla nel mondo si ripete esattamente. Poiché l’individualità della maggior parte degli oggetti ci è del tutto indifferente, noi non la conosciamo; per noi questi oggetti non sono che esemplari di un concetto di genere, che possono essere sostituiti da altri esemplari dello stesso concetto: anche se non sono mai identici, noi li vediamo come tali e quindi li designamo soltanto con nomi di genere. Questa delimitazione, a tutti nota, dell’interesse a ciò che è generale (nel senso di ciò che è comune a un gruppo di ogget- ti), o apprendimento generalizzante, sulla cui base riteniamo a torto che nel mondo esista qualcosa come l’identità e la ripeti- zione, è per noi al tempo stesso di grande valore pratico. Esso articola in un modo determinato la molteplicità e la policro- mia della realtà, e ci rende possibile di orientarci in essa. D'altra parte l'apprendimento generalizzante non esaurisce affatto ciò che ci interessa nel nostro ambiente, e che quindi conosciamo di esso. Questo o quell’oggetto viene piuttosto pre- so in considerazione proprio per quello che è ad esso peculia- re, e che lo distingue da tutti gli altri oggetti. Il nostro in- teresse e la nostra conoscenza si riferiscono quindi proprio alla sua individualità, a ciò che lo rende insostituibile; e se anche sappiamo che esso si lascia cogliere, al pari degli altri oggetti, come esemplare di un concetto di genere, tuttavia non voglia- mo considerarlo identico ad altre cose, ma vogliamo estrarlo espressamente dal suo gruppo: ciò trova la sua espressione lin- guistica nella designazione con un nome proprio anziché con un sostantivo di genere. Anche questo tipo di articolazione, o apprendimento individualizzante della realtà, è così corrente che non richiede una ulteriore analisi. Ma una cosa è importan- te e dev'essere sottolineata: la conoscenza dell’individualità di un oggetto non costituisce neppur essa una copia nel senso che noi conosciamo l’intera molteplicità del suo contenuto, ma an- che qui si compie una determinata scelta e trasformazione, cioè si estrae un complesso di elementi che, in questa partico- lare composizione, appartiene soltanto a quell’urico oggetto de- terminato. Dobbiamo quindi distinguere l’individualità che spet- ta a qualsiasi cosa o evento — il cui contenuto coincide con la sua realtà, e la cui conoscenza non può essere raggiunta né merita di essere oggetto di aspirazione — dall’individualità per noi significativa, e consistente di elementi determinati; e dobbiamo aver chiaro che questa individualità in senso stretto (la sola a cui di solito si allude) non costituisce una realtà, al pari del concetto di genere, ma è soltanto un prodotto del nostro apprendimento della realtà, della nostra elaborazione concettuale pre-scientifica. La distinzione qui illustrata deve suscitare in alto grado l'interesse della logica. In primo luogo, non soltanto ogni lavo- ro scientifico si richiama a processi pre-scientifici e ai loro risul- tati, ma dev'essere in larga misura inteso come elaborazione sistematica di ciò che è stato cominciato in modo non arbitra- rio. Inoltre tale distinzione è particolarmente significativa sia perché è puramente formale — in quanto qualsiasi oggetto può essere appreso in modo generalizzante e in modo individualiz- zante — sia perché, come antitesi tra generale e particolare, rappresenta la massima distinzione che si possa pensare da un punto di vista logico. Se deve avere un significato per i metodi delle singole scienze, la logica deve anche fare di esse il punto di partenza delle proprie indagini. Per quanto riguarda la considerazione generalizzante degli oggetti, non c'è alcun dubbio non soltanto sulla sua importan- Za pratica, ma anche sulla sua importanza teoretica per la scienza. Il metodo di molte scienze consiste in una subordina- zione del particolare al generale, che coincide con la formazio- ne di concetti di genere e con la considerazione degli oggetti come esemplari di questi. Conoscere significa allora comprende- re ciò che non è conosciuto come caso particolare di ciò che è noto, in modo da eliminare l’individuale, il singolare, e da accogliere nella scienza soltanto l'elemento comune. Il fine su- premo di questa conoscenza è di ricondurre la realtà da conoscere sotto concetti universali in modo che questi ultimi si uniscano, mediante rapporti di sovra-ordinazione e di subordi- nazione, in un sistema unitario, e che si tenda — dove è possibile — a concetti il cui contenuto valga ir modo incondi- zionatamente universale per gli oggetti da indagare. Dove si perviene a questo tipo di conoscenza, si è colto ciò che chiamia- mo le leggi della realtà. Del tutto legittimo è poi anche il tentativo di applicare questo metodo di comprensione a tutti i campi della realtà e di andare quindi ovunque alla ricerca di leggi, sia nella realtà spirituale o in quella corporea, sia nei processi naturali o nella vita culturale. Ciò può essere certamen- te più difficile in un campo che in un altro, e anzi qualche volta i concetti incondizionatamente universali sono inconoscibi- li all'uomo; ma la considerazione generalizzante non è mai esclusa in linea di principio, e da ciò sembra risultare una conseguenza metodologica fondamentale. Si può cioè conclude- re che il pensiero scientifico coincide con la formazione di concetti generali e che quindi, da un punto di vista puramente formale, esiste soltanto “r metodo scientifico. L’antitesi tra ap- prendimento generalizzante e apprendimento individualizzante avrebbe allora significato per la logica soltanto nella misura in cui la scienza elimina ovunque l’individuale mediante concetti generali; e proprio perché nella nostra analisi non si è tenuto alcun conto della peculiarità del materiale delle diverse scien- ze, la divisione consueta in scienze della natura e scienze dello spirito sembra svanire, almeno nel suo significato metodologico formale. Piuttosto, la vita spirituale dev'essere trattata in modo generalizzante al pari del mondo corporeo: perciò anche la scienza storica è naturalmente costretta ad applicare il metodo generalizzante. Di fatto, sono questi i motivi migliori su cui poggiare la proclamazione di un metodo universale, perché si tratta di motivi puramente formali e, nella misura in cui l’apprendimen- to generalizzante celebra i suoi massimi trionfi nelle scienze della natura, qui abbiamo nel medesimo tempo il miglior fon- damento del naturalismo metodologico. Ma una logica che vo- glia comprendere le scienze così come realmente esistono non si accontenterà di questo. Dal giusto principio che ogni realtà può essere sottomessa a una considerazione generalizzante essa non concluderà che la formazione di concetti generali è senz'altro identica con il procedimento scientifico. Essa si chie- derà piuttosto se tutte le scienze applicano effettivamente que- sto procedimento e dovrà rispondere negativamente osservando il lavoro scientifico che è presente nelle opere di tutti gli stori- ci. Questo fatto è così evidente che anche i sostenitori di un metodo universale di tipo generalizzante o del naturalismo me- todologico non possono negarlo. Essi cercano di aiutarsi dicen- do che la scienza storica è oggi ancora imperfetta e per questo motivo non si adegua al sistema sopra indicato, ma che quanto più progredirà, tanto più si servirà anch'essa dell’unico meto- do scientifico, cioè del metodo generalizzante. Questo punto di vista è però insostenibile, e non soltanto — come si deve sem- pre sottolineare nel modo più energico — per il fatto che la realtà di cui la storia tratta non può essere ricondotta sotto concetti generali — e infatti questa è un’affermazione indimo- strabile per la logica che procede in modo formale — ma semplicemente perché rientra nell’essenza della scienza storica che, non appena comprende se stessa, essa non vole compiere un'elaborazione della realtà in riferimento a ciò che vi è di comune negli oggetti, e non vuole compierla perché su questa via non è mai possibile conseguire i fini che essa si pone in quanto storia. Ma quali sono questi fini, nel loro carattere formale? Se l'oggetto storico — si tratti di una personalità, di un popo- lo, di un’epoca, di un movimento economico o politico, religio- so o artistico — dev'essere rappresentato come una totalità, occorre in ogni caso coglierlo nella sua singolarità e nella sua individualità irripetibile, e assumerlo nella rappresentazione co- me se non potesse essere sostituito da nessun'altra realtà. Per- ciò la storia non può servirsi, se si prende in considerazione il suo fine ultimo, ossia la rappresentazione dell’oggetto nella sua totalità, del procedimento generalizzante, poiché questo coinci- de con un’esclusione dell’individuale e conduce così al contra- rio logico di ciò a cui la storia aspira. È quindi ancora una volta del tutto indifferente che l’oggetto storico sia un oggetto corporeo o spirituale, un prodotto culturale o un processo natu- rale; importa solo che, dove è presente in generale un interesse storico per una qualsiasi realtà, si tende a una rappresentazione con un contenuto individuale, perché questa soltanto si presta alla soluzione del compito proprio della scienza storica. Ciò non deve significare che la storia cerchi di fornire una copia dell’individualità del suo oggetto: tanto poco essa potrebbe in- fatti ottenerla, quanto poco nelle conoscenze pre-scientifiche possediamo copie degli oggetti designati con nomi propri. Né deve significare che la storia rappresenti il suo oggetto indivi- dualizzandolo in tutte le sue parti, ma vuol dire che viene anzitutto presa in considerazione soltanto l’individualità del tutto e che questa non coincide affatto, se prescindiamo dall’i- dea di una copia, con la somma delle individualità delle sue parti. Infine, non si può negare che per raggiungere il suo fine la storia ha bisogno di concetti generali e procede in modo generalizzante, così come, all’inverso, nelle scienze generaliz- zanti non si può fare a meno della rappresentazione dell’indivi- duale come punto di partenza per la formazione di concetti generali. Si deve provvisoriamente rendere consapevole il carat- tere logico del fize ultimo di ogni rappresentazione storica, e la struttura logica del risultato che necessariamente corrispon- de a questo fine. Se si va alla ricerca di esempi, è naturalmente del tutto indifferente l’«indirizzo » a cui appartiene l’opera storica che si prende in considerazione. Prendiamo la Weltgeschichte di Ranke o Les origines de la France contemporaine di Taine, la Deutsche Geschichte im 19. Jahrhundert di Treitschke! o la History of Civilisatton in England di Buckle, la Begrindung des Deutschen Reiches durch Wilhelm I di Sybel! o la Caltur 15. Heinrich von Treitschke (1834-1896), storico tedesco, autore del volume Die Gesellschaftswissenschaft, ein kritischer Versuch (1858), della Deutsche Geschichte im 19. Jahrkundert (1879-95), degli Historische und politische Aufsitze (1886-97), delle Vorlesungen iiber Politi (pubblicate postume nel 1897-98) e di numerosi altri scritti, fu il maggiore rappresentante della storiografia ottocentesca tedesca di ispi- razione nazionalistica. Egli si richiama a Hegel per formulare una concezione dello stato come fine supremo della società, polemizzando contro il liberalismo e negando \la possibilità di una scienza sociale autonoma nei confronti della scienza politica. 16. Heinrich von Sybel (1817-1895), storico tedesco, autore della Geschichte des ersten Kreuzzuges (1841), di Die Entstchung des deutschen Konigtums (1844), della Geschichte der Revolutionszeit, 1789-1800 (1853-79), di Die Begriindung des deut- schen Reiches durch Wilhelm I (1889-94) e di varie altre opere, fu uno dei principali rappresentanti del punto di vista nazionale-liberale nella storiografia tedesca dell'Ottocento; nel 1856 fondò la « Historische Zeitschrift ». Sotto il profilo der Renaissance in Italien di Burckhardt, lo Scharnhorst di Max Lehmann" o la Deutsche Geschichte di Karl Lamprecht: ovunque, in corrispondenza ai titoli delle opere, che indicano la totalità storica, troviamo una serie di avvenimenti trattati così come si sono svolti una sola volta nel mondo e — quale che sia il modo in cui li ha plasmati lo storico — rappresentati nella loro particolarità e individualità. Forse che la Deutsche Geschichte di Lamprecht (il quale crede di lavorare con un metodo nuovo) contiene come elemento costitutivo soltanto ciò che è dato trovare in altri esemplari del concetto generico di nazione, vale a dire nello sviluppo del popolo francese, inglese o russo, e ciò che si è ripetuto spesso e si ripeterà in tempi diversi e in luoghi diversi? Basta porre questa domanda per vedere che anche uno storico che rifiuta in teoria la concezione « individualistica », nella prassi tratta sempre il suo oggetto in modo individualizzante. Ma tale procedimento, che appartiene all'essenza di ogni rappresentazione storica, non è applicato in nessun'opera di discipline non storiche — sia che si occupino di corpi o della vita spirituale. La Lehre von den Tonempfindun- gen di Helmbholtz ! o il Keimplasma di Weismann", la Medizi- metodologico è importante il suo saggio Uber den Stand der neueren deutschen Ge- schichtsschreibung (1856). 17. Max Lehmann (1845-1929), storico tedesco, fu allievo di Droysen e soprat- tutto di Ranke; insegnò a Marburg e poi a Gòttingen. Le sue opere principali sono Ja biografia di Scharnhorst (Leipzig, 1886-87) — alla quale si riferisce Rickert nel testo — e un'altra importante biografia di Stein (apparsa nel 1902-1905). 18. Hermann Ludwig Ferdinand von Helmholtz (1821-1894), fisico, anatomista e fisiologo tedesco, autore del volume Uber die Erhaltung der Kraft (1847), dello Handbuch der physiologischen Optik (1856-67), di Die Lehre von den Tonempfin- dungen als physiologische Grundlage fiir die Theorie der Musik (1863), dei Populàre wissenschafiliche Vortrige (1865-76), delle Wissenschafiliche Abhandiungen (1882-95), e di numerosi altri scritti, fu uno dei maggiori scienziati della scconda metà del- l’Ottocento. I suoi contributi vanno dalla fisica (scoprì la legge della conservazione dell'energia) all'elettrologia, dalla geometria all'ottica geometrica, dall'anatomia alla fisiologia del sistema nervoso. 19. August Weismann (1834-1914), zoologo e biologo tedesco, autore di Uber die Berechtigung der Darwinschen Theorie (1868), di Uber den Einfluss der Isolierung auf die Artbildung (1872), delle Studien zur Deszendenztheorie (1875-76), di Die Konti- nuiràt des Keimplasmas als Grundlage einer Theorie der Vererbung (1885), di Uber den Riickschritt in der Natur (1886), degli Aufsitze tiber Vererbung (1892), di Das Keim- plasma (1892), di Die Allmacht der Naturziichtung (1893), di Uber Germinalselektion (1896), dci Vortrige tiber Deszendenziheorie (1902) e di varie altre opere, si richiamò a Darwin, di cui riprese e sviluppò la teoria della selezione naturale. È considerato uno dei fondatori della genetica moderna. nische Psychologie di Lotze”® o la Entwicklungsgeschichte der Tiere di von Baer”, il Treatise on Electricity and Magnetism di Maxwell? o Gemeinschaft und Gesellschaft di Tonnies — nell’esposizione definitiva tutte queste opere considerano nei loro oggetti — come risulta già dai titoli — soltanto ciò che consente di ritenerli eguali ad altri esemplari dello stesso concet- to di genere, e di cui si può quindi dire che si ripete a piaci- mento. Che vi siano non soltanto scienze generalizzanti dello spirito, ma anche scienze individualizzanti dei corpi, non ha alcuna importanza in questo contesto. Noi non ci occupiamo della differenza tra spirito e corpo, ma soltanto della diffe- renza formale dei fini e dei metodi scientifici; e anche ai fanatici del metodo scientifico sarà difficile rifiutare la differen- za che abbiamo indicato. È quasi inconcepibile che si possa ancora discuterne. Stabiliamo quindi come punto di partenza di una logica della storia che non soltanto nelle nostre conoscenze pre-scienti- fiche vi sono due modi di apprendimento della realtà distinti in linea di principio, quello generalizzante e quello individua- lizzante, ma che ad essi corrispondono due modi di elaborazio- ne scientifica della realtà differenti nei loro fini ultimi e così pure nei loro risultati ultimi. Ciò non vuol dire ovviamente che si debbano separare tra loro due gruppi di scienze, in modo che ne risulti al tempo stesso il principio di una divisione del lavoro scientifico. Distinzione logica non significa divisione reale, e l’antitesi formale non deve né può servire alla divisione reale, poiché quest’ultima si collega a differenze oggettive del materiale, non già a differenze logiche. È quindi del tutto erroneo combattere il valore logico dell’antitesi dicendo che essa frantumerebbe il lavoro scientifico in modo contraddittorio rispetto ai fatti e che vorrebbe separare ciò che di fatto è 20. Rickert si riferisce qui alla Medizinische Psychologie oder Physiologie der Scele, Leipzig, 1852. 21. Karl Ernst von Bacr (1792-1876), zoologo c biologo tedesco, autore di Uber Entwicklungsgeschichte der Tiere (1828-37), delle Reden und kleine Aufsàtze (1864-76), del volume Zum Streit îîber den Darwinismus (1873), delle Studien auf dem Gebiete der Naturwissenschaften (1874). 22. James Clerk Maxwell (1831-1879), fisico inglese, autore del Treatise on Electricity and Magnetism (1873), di Matter and Motion (1876) c di varie altre opere, diede un contributo decisivo alla formulazione della teoria elettromagnetica della luce. ovunque in un rapporto di cooperazione. Si tratta soltanto del- la distinzione concettuale di due diverse tendenze di apprendi- mento nelle scienze, che possono molto spesso, e fors’anche sempre, cooperare di fatto; e questa distinzione concettuale sa- rebbe necessaria anche se non si potessero separare due tipi di scienze neppure in riferimento ai loro fini ultimi. Se si cerca ora di determinare in modo più preciso l'essenza del procedimento individualizzante, occorre anzitutto porre in rilievo che il metodo della scienza non coincide con quell’ap- prendimento individualizzante della realtà che possediamo nel- le nostre conoscenze pre-scientifiche. Anche nel caso dell’ap- prendimento generalizzante noi parliamo di metodo soltanto dove l'elaborazione concettuale viene compiuta sistematicamen- te. Che cosa corrisponde nella storia a quella connessione siste- matica di concetti più o meno generali? Nell’indicazione di questi elementi che costituiscono la scientificità del metodo indi- vidualizzante la logica della storia dovrà scorgere — una volta che abbia trovato il suo punto di partenza — il suo ulteriore compito. Qui si potranno naturalmente porre in luce soltanto alcuni punti che in tempi recenti hanno dato occasione a que- stioni controverse, e che sono particolarmente adatti a chiarire la differenza del procedimento individualizzante da quello ge- neralizzante. Cominciamo con un'ulteriore analisi del concetto che abbiamo posto in risalto fin dall’inizio: il concetto di totalità storica. L'individualizzazione pre-scientifica estrae spesso gli oggetti dal loro ambiente in modo da separarli l’un l’altro e quindi da isolarli. Ma l'elemento isolato in quanto tale non è oggetto di interesse scientifico, e nulla è più sbagliato che identificare il metodo individualizzante con il mettere insieme fatti isolati — così come fanno i suoi avversari. Piuttosto la storia, al pari delle scienze generalizzanti, deve cogliere tutto in una connes- sione. Ma in che cosa consiste la connessione storica? A parti- re da ogni oggetto storico essa si estende in certo modo lungo due dimensioni, che si potrebbero designare come la dimensione della larghezza e quella della lunghezza; occorre cioè anzitut- to stabilire le relazioni che uniscono l'oggetto con il suo a1- biente e poi seguire nel loro legame reciproco i diversi stadi che percorre dall'inizio alla fine, ossia, come si usa dire, imparare a conoscerne lo sviluppo. Certamente, un oggetto così rappresentato è poi, a sua volta, parte di un ambiente più grande e di uno sviluppo anteriore, e lo stesso vale poi per questa connessione più comprensiva, di modo che scorge una serie a due dimensioni che conduce fino ai limiti della totalità storica ultima. Dove stia questo limite, non è ancora possibile chiarirlo con i concetti finora acquisiti. In una specifica ricerca storica il punto dove si cessa di perseguire la connessione stori- ca dipende dalla scelta del tema. Qui si tratta provvisoriamente soltanto di fissare il concetto di una connessione storica in gene- rale come connessione di una serie evolutiva di stadi diversi reciprocamente connessi, concepita nel legame col proprio am- biente. Ciò è tanto più necessario quanto più sono derivati di qui errori largamente diffusi sull'essenza del metodo storico. La connessione può essere definita, in antitesi ai singoli oggetti, come l’elemento generale della storia; e da ciò è poi sorto il punto di vista secondo cui anche la scienza storica procederebbe in modo generalizzante. L'inserimento di un oggetto nel suo ambiente — così come lo storico lo compie — è un processo estraneo al procedimento delle scienze generalizzanti. Il mi- lieu è sempre individuale, e viene preso in considerazione  dallo storico nella sua individualità. Esso è generale soltanto  nel senso che i singoli individui in esso inseriti ne costituiscono le parti. Ma che il rapporto della parte con il tutto non sia  identico al rapporto tra l'esemplare e il concetto di genere ad  esso sovra-ordinato, è cosa che non dovrebbe richiedere discussione. Proprio perché la storia deve sempre considerare il particolare nel generale, cioè considerarlo come elemento di un tutto, essa deve venir assegnata (in riferimento ai suoi fini ultimi) alle scienze individualizzanti: lo stesso risultato si ricava  da una considerazione dello sviluppo storico. Anche lo sviluppo  è generale soltanto nel senso che costituisce una totalità la  quale comprende le sue parti. Nella storia lo sviluppo significa  sempre il sorgere di qualcosa di nuovo, di qualcosa non mai  esistito finora; e poiché nei concetti di legge entra soltanto ciò  che può essere considerato come qualcosa che si ripete a piacimento, i concetti di sviluppo storico e di legge si escludono a  vicenda. Soltanto l’equivocità del termine «sviluppo» rende possibile unificare un procedimento storico-evolutivo con un  procedimento scientifico fondato su leggi e parlare di «leggi  dello sviluppo »; per esempio dove — come nell’embriologia storico-evolutiva » — si guarda alle serie evolutive per quel che hanno di comune, e dove quindi z07 si deve prendere in considerazione il divenire storico del nuovo nel suo carattere specifico. In  breve, gli sviluppi storici non sono altro che individualità storiche  concepite nel loro divenire e nel loro crescere, e pertanto la  loro rappresentazione è possibile, analogamente a quella della  connessione con l’ambiente storico, soltanto con un metodo individualizzante. Anzi, la connessione storica « generale » non  è che la totalità storica stessa, non già un sistema di concetti  universali: la storia considera appunto sempre questa totalità  nella sua particolarità, nella sua singolarità e nella sua individualità.  Se poi indaghiamo anche sul ruolo che i concetti generali  hanno nella scienza storica, ci imbattiamo anzitutto nel fatto  che tutti gli elementi dei giudizi e dei concetti storici sono  generali. E tali devono essere già perché li si indica con parole  generalmente comprensibili, e perché le parole debbono la loro  comprensibilità soltanto al fatto di possedere un significato generale, cioè comune a più oggetti. La storia lavorerà quindi  sempre con concetti generali di realtà, che costituiscono gli  elementi ultimi dei propri concetti individuali, e perverrà alla  loro rappresentazione individualizzante solo mediante una determinata combinazione di questi elementi generali. Ma ciò  non esaurisce ancora il significato dei concetti generali nella  storia. Essi risultano indispensabili proprio anche per istituire  la connessione storica. Il nesso reciproco dei diversi stadi di una  serie storico-evolutiva o di un oggetto storico con il suo ambiente  è sempre un legame causale, e la scienza storica deve rappresentare questi rapporti di causa ed effetto per esprimere il legame  delle parti con la totalità. Certamente non di rado si afferma  che gli oggetti dell'indagine storica — o una parte di essi —  sono esseri « liberi » e che perciò lo storico non dovrebbe indagarne le connessioni causali. Tuttavia, anche prescindendo dalla questione se il concetto di libertà sia da identificare in genere con quello di assenza di causa, e se il problema della libertà  non debba essere trasferito dalla filosofia teoretica all’etica, in ogni caso il concetto di assenza di causa non ha alcun senso per  una scienza empirica. Anche la storia deve presupporre che  ogni suo oggetto sia l’effetto necessario di avvenimenti precedenti, e deve quindi indagare anche la connessione causale.  Ancora una volta ci imbattiamo in un punto che può suscitare molte questioni controverse. Si è cioè proclamata l’esistenza  di un « metodo causale » della storia che dovrebbe essere analogo al metodo delle scienze generalizzanti. Ciò può essere ritenuto esatto soltanto se si identifica il concetto di causalità con il  concetto di conformità a leggi. Se si fa questo, certamente ogni  scienza che indaghi connessioni causali — e quindi anche la  storia — è una scienza di leggi; ma questa identificazione non  ha alcuna legittimità. Per possedere realtà empirica, i legami  causali devono piuttosto essere realtà individuali, poiché non vi  sono altre realtà al di fuori di quelle empiriche individuali.  Invece le leggi sono sempre generali e possono perciò valere, se  devono essere più che concetti, soltanto come realtà metafisiche. Ma la dottrina del metodo deve mantenersi libera da presupposti metafisici; essa può quindi parlare soltanto di legami  causali individuali in quanto realtà empiriche e di leggi in  quanto concetti generali. L'espressione « metodo causale» —  che è particolarmente usata come antitesi al procedimento « teleologico» — è perciò un'espressione polemica che non dice  nulla, proprio perché ogni scienza empirica ha a che fare con  connessioni causali, e le connessioni causali in quanto tali sono  ancora indifferenti rispetto alle differenze di metodo: esse permettono, al pari di ogni altra realtà empirica e individuale, sia  un apprendimento generalizzante sia un apprendimento individualizzante.  Ma — e con ciò ritorniamo al significato dei concetti generali — anche se ogni connessione causale storica tra due stadi di  una serie storico-evolutiva è un processo in cui la causa produce qualcosa che non esisteva prima, la rappresentazione di questi nessi causali storici è possibile, al pari di ogni rappresentazione dell’individuale, soltanto utilizzando elementi concettuali  che abbiano ognuno per sé un contenuto generale e che solo nella  loro composizione particolare esprimono l’individualità del reale; nella rappresentazione di legami causali individuali si aggiunge invece qualcosa che richiede di fatto l’uso di concetti generali in un senso particolare. Lo storico non vuole cioè  indicare soltanto la successione temporale di causa ed effetto,  ma anche acquisire uno sguardo sulla recessità con cui da  questa causa individuale e irripetibile scaturisce quest’effetto individuale e irripetibile; e qui non si può evitare una deviazione  attraverso concetti generali di rapporti causali ed eventualmente attraverso leggi causali. Per quanto il legame causale non  possa essere generalmente designato come realtà empirica, per  esprimere scientificamente la sua necessità noi possediamo soltanto lo «schema» spaziale e temporale del « dovunque» e del  « sempre », e perciò alla rappresentazione scientifica anche della  necessità causale individuale si collega sempre la formazione di  un concetto generale o (dove si può pervenire ad essa) di una  legge causale generale — circostanza che spiega al tempo stesso  il consueto scambio tra legge e causalità. Ciò costringe anche  la storia, se vuol gettare un ponte tra una causa individuale e  il suo effetto individuale in modo che la connessione causale si  lasci cogliere come necessaria, a impiegare concetti generali di  connessioni causali. Essa raggiunge il proprio fine scomponendo il concetto dell’oggetto individuale — che dev'essere colto  come effetto necessario — nei suoi elementi sempre generali e  poi connettendo questi elementi, egualmente generali, del concetto della causa individuale, in modo che ognuno di questi  legami tra elementi concettuali generali esprima la connessione  causale necessaria delle realtà ad essi sottoposte. Fatto questo, la storia ricompone gli elementi generali del concetto di  causa, considerati di per sé, in un concetto che rappresenta  l'individualità di questa causa: essa ottiene in tal modo,  mediante una deviazione attraverso concetti causali generali,  una prospettiva scientifica sul legame necessario della causa storica individuale con l’effetto storico individuale. Ovviamente,  in questo modo è stato indicato soltanto un ideale logico la cui  realizzaziorie può essere raggiunta solo parzialmente dove non  si riesce a collegare causalmente tutti gli elementi del concetto  di effetto a elementi del concetto di causa; e quindi soltanto di  rado potrà scomparire dalle rappresentazioni storiche un residuo causalmente non derivabile. In casi del genere si parla  anche di libertà, perché manca la possibilità di scorgere la  necessità causale. Non sì può in questa sede discutere più da vicino quali mezzi la storia possegga per cogliere nel modo più  compiuto possibile la necessità di un nesso causale storico, e in  quale rapporto stia quindi con le scienze generalizzanti. Ma è  fin d’ora chiaro che anche per lo storico è importante la conoscenza di leggi causali — circostanza che spiega perché si vuol  fare della storia una scienza di leggi. Altrettanto chiaro è però  che con questa importanza dei concetti di legge non cambiano  per nulla i fini della storia. I prodotti del pensiero generalizzante sono per essa sempre soltanto deviazioni o strumenti e servono, al pari degli elementi generali dei concetti storici, a una  rappresentazione che vuol cogliere la totalità storica in modo  individualizzante.  Neppure mediante un'esposizione di tutti i casi in cui il  procedimento generalizzante è soltanto mezzo di una rappresentazione individualizzante si potrebbe esaurire il significato  che i concetti generali hanno nella storia. Ciò che si prende in considerazione nella sua singolarità e individualità è sempre e soltanto la totalità storica, non già tutte le sue parti. Molte di es- se non vengono rappresentate dalla storia qualora non abbiano alcun significato per l’individualità del tutto, e anche la mag- gioranza delle parti rappresentate viene raccolta sotto concetti generali di gruppo. Anzi, si può sostenere che in una rappresen- tazione storica non c'è bisogno che siano presenti concetti di oggetti parziali, i quali contengano soltanto ciò che è singolare e individuale, e che in essa si formano esclusivamente concetti di gruppo che contengono ciò che è comune a una pluralità di  oggetti. Tali concetti di gruppo sorgono necessariamente quando lo storico non sa abbastanza degli avvenimenti che rappresenta per poter penetrare nella loro individualità, ed è perciò  costretto ad accontentarsi di un concetto generale. Ma in moltissimi casi, e forse anche in tutti, lo storico vuole formare di  fatto un unico concetto di gruppo, e allora sembra procedere,  anche riguardo al suo fine, in modo generalizzante. In relazione a ciò si può meglio comprendere anche una questione assai  dibattuta. Si è ritenuto che la « vecchia tendenza » della storiografia sia «individualistica », ma soltanto perché attribuisce  troppo valore ad avvenimenti politici o di altro genere, e quindi a singole persone. La « nuova » tendenza dovrebbe, per non  rimanere in superficie, occuparsi di meno delle azioni politiche di singole personalità e di più dei movimenti di massa,  penetrando così l'essenza autentica dello sviluppo culturale. AI  vecchio metodo « individualistico » si contrappone pertanto un  nuovo metodo « collettivistico », e questo viene valutato, proprio  perché forma soltanto concetti generali, come il nuovo metodo  della storia, l’unico veramente scientifico e da tempo in uso nelle scienze naturali.  Ammettiamo pure, per comprendere il significato logico di  questo punto di vista, che sia vero che lo storico operi soltanto  con concetti di gruppo — infatti questa proposizione è logicamente assurda come quella secondo cui la storia dovrebbe formare un sistema di concetti generali — e immaginiamoci per  esempio una rappresentazione della Rivoluzione francese che  tenga conto soltanto dei movimenti di massa, perché ciò che le  singole persone hanno compiuto appare inessenziale. Si potrebbe allora dire che la storia procede realmente, in base al nuovo  metodo, in maniera non soltanto collettivistica ma anche generalizzante, come una scienza naturale? Tanto ovvia quest'idea  appare ai rappresentanti del nuovo metodo, altrettanto essa è  falsa, perché — e questo motivo è sempre determinante — soltanto le parti della totalità possono essere ricondotte a concetti  generali. Anche una storia che proceda in maniera collettivistica considera sempre la totalità nella sua individualità, e anche  i concetti generali di gruppo devono venir formati in modo da  essere adatti alla rappresentazione dell’individualità del tutto.  Di metodo generalizzante si potrebbe parlare soltanto nel caso  che si dovesse rappresentare una rivoluzione qualsiasi e non  già — come presupponiamo e come dobbiamo presupporre finché la rappresentazione ha carattere di storia — questa determinata Rivoluzione francese, che ha avuto inizio nel 1789 e così  via. La contrapposizione tra metodo « individualistico » e metodo « collettivistico » è quindi fuorviante. Tutti gli storici procedono in modo più o meno collettivistico, e lo hanno sempre  fatto. La circostanza che oggi qualcuno lavora il più possibile  con espressioni generali come quelle di epoche e di movimenti  di massa, parlando soltanto di fattori psico-sociologici e dichiarando inutilizzabile ogni « psicologia individuale » (che del resto soltanto i dilettanti possono porre in relazione con la concezione « individualistica » della storia), per dare a intendere a sé e agli altri di procedere al modo della scienza naturale, può  forse dar luogo a una storia vaga e indeterminata oppure condurre, trascurando le personalità essenziali, a una falsificazione diretta dei fatti, ma non può cambiare per nulla il carattere individualizzante del metodo storico. Dobbiamo anzi fare  un passo più in là. Anche i concetti generali di gruppo impiegati dalla storia non sono — pur contenendo soltanto ciò che è  comune a una pluralità di oggetti — concetti generali nel senso  di quelli che forma una scienza generalizzante procedente in  modo sistematico. Lo storico può cioè ritenersi soddisfatto di  un concetto di gruppo soltanto se in esso è già contenuta nel  medesimo tempo l’individualità di tutti gli elementi di tale  gruppo, per lui significativa nella connessione storica. Perciò il  fine in riferimento al quale sono formati i concetti storici di  gruppo non costituisce una generalizzazione del tipo di quella  compiuta dalle scienze generalizzanti, bensì una rappresentazione dell’individualità di gruppo. Anche questi concetti generali  sono sempre prodotti di un procedimento individualizzante,  nella misura in cui il principio che determina i loro elementi  può essere compreso soltanto in base ai fini della storia individualizzante. Si può anche designarli come concetti collettivi  individualizzanti, per distinguerli sia dai concetti collettivi ai  quali si tende nelle scienze generalizzanti, sia dai concetti generali impiegati strumentalmente nella storia.  Questa distinzione può forse suonare un po’ sofistica finché  non si sarà trattato di un altro aspetto del metodo storico.  Occorre cioè richiamare ora l’attenzione sulla circostanza, già  rammentata, che l'apprendimento individualizzante non considera tutta la molteplicità individuale di una realtà, ma comporta una scelta trasformatrice. Alla base di questa scelta e di questa  trasformazione dev'esserci nella scienza storica un principio, e  soltanto il suo chiarimento esplicito completerà la comprensione dell’essenza logica del metodo storico.  Per pervenire a un tale principio riflettiamo nuovamente  sulle nostre conoscenze pre-scientifiche. Esse dipendono dall’interesse che il nostro ambiente suscita in noi. Ma che cosa vuol  dire avere interesse per gli oggetti? Vuol dire che non ci limitiamo a rappresentarceli, ma che li riferiamo al tempo stesso alla nostra volontà e li poniamo in relazione con le nostre valutazioni. Dove apprendiamo qualcosa in modo individualizzante, la particolarità dell'oggetto deve in qualche modo essere  collegata con valori che non sono collegati a loro volta con  nessun altro oggetto; se ci arrestiamo a un apprendimento generalizzante, il collegamento con il valore dipende soltanto da  ciò che è allo stesso modo presente in altri oggetti e che può  quindi essere sostituito da altri esemplari del medesimo concetto di genere. Questo è l’aspetto non ancora illustrato della  differenza tra apprendimento generalizzante e apprendimento  individualizzante: anche in riferimento ad esso i due metodi  scientifici mostrano un’antitesi di principio.  Se dalla generalizzazione pre-scientifica si procede a subordinare scientificamente gli oggetti a un sistema di concetti generali, non soltanto si astrae dall’interesse per ciò che è singolare e  individuale, ma si allenta sempre più, con il progredire del  processo di formazione del sistema, il legame dell’elemento comune a più oggetti con i valori. Se cioè ogni concetto generale  è subordinato a un concetto ancor più generale, e se alla fine  tutti i concetti sono ricondotti al concetto generalissimo verso  cui tende l’indagine, allora anche gli oggetti per i quali il  sistema deve valere possono essere considerati come egualmente  forniti di valore o egualmente privi di valore: infatti il princi- pio che determina ciò che è essenziale in un oggetto non può più essere ora l'interesse originario, ma può essere soltanto la posizione che l’oggetto assume nel sistema di concetti generali. La divisione tra essenziale e inessenziale, originariamente com- piuta sempre in base a punti di vista valutativi, viene così respinta da una scienza generalizzante, e al tempo stesso sosti- tuita dal fatto che l'elemento generale o comune coincide ora, in quanto tale, con l’essenziale. Lo svincolarsi degli oggetti da tutte le relazioni di valore costituisce perciò l’altro aspetto, non ancora considerato, del metodo generalizzante, e ci indica  contemporaneamente l’altro aspetto, non ancora considerato, dell’individualizzazione scientifica. Può quest’ultima egualmente  distinguersi dall’individualizzazione pre-scientifica per il fatto  di svincolare gli oggetti da tutti i valori? Non si scorge in virtù  di quale principio diverso dalla relazione di valore debba sorgere  l'apprendimento individualizzante. Se sciogliamo un oggetto da  tutte le connessioni con i nostri interessi, esso potrà venir considerato semplicemente come esemplare di un concetto generale.  L’individuale può diventare essenziale soltanto in riferimento a  un valore, e quindi eliminando ogni relazione di valore si eliminerebbe anche l’interesse storico e la storia stessa. Viene così alla  luce non soltanto una connessione necessaria tra considerazione  generalizzante e considerazione avalutativa, ma anche una connessione altrettanto necessaria tra apprendimento individualizzante e apprendimento legato ai valori: per cogliere la struttura logica della storia anche sotto questo aspetto, occorre perciò  conoscere più da vicino il tipo dei valori e del loro legame con  gli oggetti storici. Anche qui è necessario, naturalmente, una  volta accertato l’elemento comune presente nella relazione di  valore pre-scientifica e scientifica, separarle nettamente tra loro.  Che i valori abbiano nella scienza un ruolo determinante,  anzi debbano essere princìpi dell’elaborazione concettuale, sembra contraddire l’essenza della scienza. A buon diritto proprio  dallo storico si esige che rappresenti le cose il più « oggettivamente » possibile, e per quanto questo fine non possa essere  raggiunto completamente da nessuno, si può però in ogni caso  indicarlo come ideale logico. Come si accorda con tutto ciò  l’affermazione che le relazioni di valore appartengono all’essenza del metodo storico? Per comprendere questo fatto occorre  chiarire che c’è un tipo di relazione di valore che non coincide  con una presa di posizione e con una valutazione pratica, e che  gli oggetti possono essere riferiti ai valori anche in maniera  puramente teoretica. Certamente, se dalla molteplicità del reale si trae fuori questo elemento come essenziale, e si lascia  in disparte quell’ altro come inessenziale, si può sempre designare tutto ciò come una presa di posizione nei confronti della realtà, nella misura in cui l’essenziale è ciò che è fornito di valore per la conoscenza scientifica. Ma questo tipo di valutazione non manca in nessuna elaborazione concettuale della scienza — sia essa generalizzante o storica — perché il fine della scienza deve sempre valere come valore per conferire un senso al lavoro scientifico. Se si vuol comprendere nella sua particolarità l’essenza della relazione di valore nella scienza storica si deve perciò prescindere totalmente da questa valuta- zione, per quanto importante la sua presenza possa essere per la trattazione di altri problemi filosofici. Qui importa soltanto stabilire se, per il fatto che l’individualità di un oggetto diventa essenziale in virtù del riferimento a un valore, ne derivi  necessariamente anche una valutazione positiva o negativa dell'oggetto; e a tale domanda occorre rispondere in modo decisamente negativo. La rappresentazione storica implica una relazione di valore soltanto nella misura in cui l'oggetto, appreso  in modo individualizzante, ha un qualche significato per un  valore; ma non ha bisogno di pronunciarsi sul fatto se esso  possegga un valore positivo o negativo e può quindi prescindere del tutto da ogni valutazione, che dev'essere sempre positiva  o negativa. Noi dobbiamo distinguere con precisione la valuta  zione pratica e la relazione puramente teoretica di valore. Anzi, se pensiamo che non conosciamo mai la realtà così com’era,  ma che ogni conoscenza è già una trasformazione della realtà,  diventa chiaro che non si può disputare del valore positivo o  negativo di un’individualità se tra coloro che disputano non c’è  già un comune apprendimento individualizzante della realtà,  sorto da una relazione di valore puramente teoretica e indipendente dalla diversità delle loro valutazioni pratiche; altrimenti  non si disputerebbe affatto della stesse individualità. Perciò,  quanto il conoscere teoretico e la valutazione positiva o negativa sono due processi distinti in linea di principio, tanto poco  la relazione puramente teoretica di valore è in contraddizione  con la conoscenza scientifica. Lo storico non valuta i suoi  oggetti in quanto storici, ma trova di fronte a sé dei valori —  come quelli dello stato, delle organizzazioni economiche, dell’arte, della religione ecc.; e in virtù della relazione teoretica  degli oggetti con questi valori, vale a dire in riferimento al  fatto se e come la loro individualità significhi qualcosa per  questi valori, la realtà si articola ai suoi occhi in elementi  essenziali e inessenziali, senza ch’egli debba pronunciare un  giudizio di valore diretto, positivo o negativo, sugli oggetti.  L'essenza della relazione di valore storica diventa del tutto  chiara se fissiamo ancora un secondo punto, in virtù del quale  l’individualizzazione scientifica si distingue da quella pre-scientifica; e già i concetti di valore prima utilizzati come esempi  vi alludono. La relazione teoretica di valore nella storia non è  soltanto indipendente da una valutazione positiva o negativa, ma deve anche essere 207 arbitraria sotto un altro punto di vista, cioè in riferimento ai valori con cui gli oggetti vengono posti in relazione. Ciò si consegue però solamente in quanto lo storico articola la realtà in elementi essenziali e inessenziali in relazione a valori universali, ossia a valori quali quelli incorpo- rati negli esempi sopra indicati dello stato, dell’arte, della reli- gione ecc. Per quanto ciò sia in fondo semplice, anche di qui sono sorte molte contese e molte incomprensioni. In particola- re, si è ancora una volta ritenuto che il metodo della storia sia un metodo generalizzante a causa dell’universalità dei valori. Certamente — così si può giustificare questo punto di vista — lo stato è per esempio un concetto generale, e se gli eventi storici vengono rappresentati come eventi politici, l’elemento politico in essi presente, in virtù del quale sono storicamente essenziali, è pur sempre l'elemento comune. Così essi vengono ricondotti sotto il concetto generale di politico nello stesso mo- do in cui nelle scienze generalizzanti gli oggetti vengono appre- si come esemplari di un concetto di genere. È veramente giusto questo? È esatto che valori universali sono nel medesimo tem- po concetti generali. Ma, in primo luogo, la storia non si prefigge mai di formare o anche soltanto di ordinare sistematicamente questi concetti universali di valore, come dovrebbe  fare se fosse una scienza generalizzante; essa si trova già di  fronte concetti universali di valore, e solamente la filosofia della storia, non già la scienza storica empirica può — come  vedremo avanti — porsi il compito di pervenire a un sistema di  concetti universali di valore. Inoltre — e questa è la cosa principale — l’universalità del valore non ha per la storia il significato di contenere ciò che è comune a più valori particolari:  importa soltanto il fatto che la storia riferisce i suoi oggetti a  valori i quali valgono come valori per tutti coloro a cui si  rivolge, o per lo meno vengono da tutti intesi come valori. Del  resto, il riferirsi degli oggetti ai valori conduce a un apprendimento individualizzante, poco importa che i valori siano puramente individuali oppure universali nel senso indicato: questa  differenza riguarda infatti soltanto la validità dei valori, non  già la struttura logica della relazione di valore. In breve, che  per giungere a risultati universalmente validi la scienza storica  abbia bisogno di valori universali non incide affatto sull’antitesi  tra il metodo storico individualizzante riferito ai valori e il metodo generalizzante avalutativo delle scienze di leggi. Volendo, si può anzi dire che ogni scienza, per avere validità universale, deve sempre «subordinare » il particolare all’universale.  Ma questa frase è, per la sua indeterminatezza, molto equivoca  e in ogni caso non dice nulla. Se si vuole adoperarla nella  dottrina del metodo occorre distinguere rigorosamente una « subordinazione » generalizzante a concetti avalutativi di genere  o di legge da una « subordinazione » individualizzante a concetti universali di valore; e la cosa migliore sarà di impiegare il  termine « subordinazione » soltanto per designare il rapporto  reciproco dei concetti generali e il rapporto dell’esemplare con  il concetto di genere ad esso superiore, altrimenti possono sorgere soltanto errori.  Se con questa prospettiva più esatta sull’essenza del procedimento individualizzante ritorniamo ancora una volta ai concetti storici che sembravano costituire, per la generalità del loro  contenuto, un’istanza negativa contro la caratterizzazione della  storia come scienza individualizzante, è possibile comprendere  meglio i concetti storici di gruppo nella loro differenza dai concetti storici di gruppo generalizzanti. Essi non hanno soltanto —  come tutti i concetti relativi a parti storiche — lo scopo di esprimere l’individualità del tutto storica a cui appartengono; ma anche la scelta di ciò che è essenziale è determinata, nella loro formazione, dal valore universale dominante. In altri termini, non  già l'elemento comune in quanto tale costituisce di per sé l’essenziale, ma la circostanza che il suo contenuto consiste dell’elemento comune a una pluralità di oggetti ha per unico fondamento il  fatto che soltanto l’individualità del gruppo, e non l’individualità delle singole parti, riveste significato per il valore universale, e che quindi già il concetto di gruppo contiene individualità  sufficiente a esprimere ciò che è essenziale per la rappresentazione individualizzante riferita ai valori. Il principio di elaborazione concettuale dei concetti storici collettivi è quindi esattamente lo stesso che per tutti gli altri concetti storici: ancora una  volta risulta quanto poco senso abbia definire collettivistico il  procedimento della storia, in riferimento al suo carattere /ogico. La polemica tra il cosiddetto metodo collettivistico e il  cosiddetto metodo individualistico è una polemica sul contenuto della scienza storica, e non ha nulla a che fare con i problemi logici del metodo. Anche una rappresentazione che proceda  in modo puramente collettivistico non soltanto sarebbe — come  si è già visto — individualizzante, ma sarebbe anche guidata,  al pari di qualsiasi rappresentazione storica, da punti di vista  valutativi.  Il grosso ruolo che i punti di vista valutativi hanno nella  storia viene del resto sempre più riconosciuto e meglio compreso nei tempi recenti, anche se non sempre l’attenzione è rivolta ai due punti più importanti, cioè alla distinzione della relazione teoretica di valore dalla valutazione pratica e all’universalità dei valori. Naturalmente qui non è possibile trattare in modo esaustivo tutte le questioni connesse con i valori; ci limiteremo però a porre in rilievo almeno due punti.  Un'indagine logica non potrà mai proibire allo storico di  oltrepassare la relazione teoretica di valore per assumere una  posizione valutativa nei confronti dei suoi oggetti; e forse nessuna rappresentazione storica è mai del tutto libera da valutazioni positive o negative. Si deve però anche stabilire che, dove sembra essere presente un giudizio di valore, non sempre si intendeva realmente formularlo. In ogni rappresentazione stori- ca si troveranno cioè proposizioni che accompagnano soprattut- to le azioni umane con un predicato di lode o di biasimo, che constatano qui un atto di bontà o di coraggio, là un delitto; e proprio questo sembra distinguere la storia dalle scienze di leggi, per le quali il vizio e la virtù sono prodotti quanto lo sono il vetriolo o lo zucchero. È anche chiaro che lo storico può prendere posizione con proposizioni del genere. Ma in moltissimi casi i predicati di valore servono soltanto all’accerta- mento di fatti e alla caratterizzazione puramente teoretica degli  avvenimenti. Quando per esempio un’azione viene designata  come criminale, ciò può anche voler dire che le fonti costringono ad assumere che siamo di fronte a un atto che generalmente  si definisce delitto; e se un altro storico accompagna quest’azione con un altro predicato, ciò non significa necessariamente che  egli valuti altrimenti lo stesso stato di fatto, ma che egli può  anche assumere un altro stato di fatto che poi deve, naturalmente, designare in modo diverso. Nella trattazione dei fattori  valutativi presenti nella storia ci si dovrebbe porre in ogni caso  la domanda se il predicato di valore ha realmente l’intenzione di valutare, o se non serva piuttosto soltanto allo scopo di  utilizzare il significato terminologico ad esso generalmente connesso per stabilire un fatto, nello stesso modo in cui ciò avviene con significati che non possono essere impiegati a scopo  di valutazione.  Se quindi la comparsa di valutazioni può sembrare in parecchi casi più frequente di quanto non sia in realtà, occorre  d’altra parte porre in rilievo che in certo senso anche le valutazioni sono un elemento indispensabile della scienza storica. Se  è certo che la relazione teoretica di valore non è una presa di  posizione pratica e che perciò lo storico può sempre astenersi  da qualsiasi valutazione dei suoi oggetti, altrettanto certo è che  nell’ambito dei valori a cui riferisce i suoi oggetti egli dev’essere in qualche modo, anche come storico, un uomo che compie  valutazioni. Nessuno che non ponga i valori politici in relazione alle proprie valutazioni positive o negative, che non abbia  cioè un qualche rapporto valutativo nei confronti di questioni  politiche, scriverà o leggerà di storia politica: senza essere egli  stesso un uomo che compie valutazioni in questo campo, non  comprenderebbe infatti i valori che guidano la selezione del  materiale storico, e non avrebbe quindi il minimo interesse  storico per esso. Ma ciò che vale per la storia politica deve  parimenti valere per la storia dell’arte, della religione, dell’economia ecc. Spesso ciò non viene neppur osservato, come certe  cose evidenti: vi sono anzi molti storici i quali credono non  soltanto di stare con i loro oggetti in un rapporto semplicemente conoscitivo, ma anche di essere, in quanto storici, puri spettatori. Di fatto lo storico si distingue dal ricercatore che procede  in modo generalizzante anche perché nel suo lavoro non soltanto deve riconoscere come valore il fine scientifico ch'egli persegue, ma prende anche posizione se non verso gli oggetti storici,  almeno nei confronti dei valori universali a cui riferisce in  modo individualizzante i suoi oggetti. Quale significato abbia  per l’« oggettività » delle scienze storiche il fatto che c’è storia  soltanto per esseri capaci di valutazione, in quale rapporto questa oggettività stia con l’oggettività delle scienze generalizzanti o scienze di leggi, le quali non hanno bisogno di riconoscere  altro valore se non quello stesso della scienza generalizzante,  non può venir discusso in questa sede. Qui si deve soltanto comprendere la struttura logica della scienza storica quale esiste di fatto, e in particolare descrivere l’essenza del suo metodo riferito ai valori e individualizzante, così come viene realmente esercitato, e penetrare questo metodo nella sua necessità  logica che risulta dai fini della storia.  In base ai fondamenti indicati non si è finora parlato del  carattere specifico del materiale storico, e non si è quindi neppure potuto rispondere alla questione del modo in cui perveniamo a rappresentare non soltanto in modo generalizzante, ma  anche in modo individualizzante, il materiale di cui trattano le scienze storiche. Il motivo di ciò dev'essere finalmente  indicato per rendere comprensibile l’essenza della scienza storica, e ciò in quanto lo specifico carattere materiale degli oggetti  storici può essere inteso in base all’essenza logica del metodo  storico. Decisiva è qui, ancora una volta, la connessione dell’apprendimento individualizzante con l'apprendimento riferito ai  valori. La rappresentazione individualizzante costituisce cioè  un bisogno soprattutto dove più stretto è il nesso degli oggetti  con i valori. Se ripensiamo all’elaborazione concettuale prescientifica, vediamo che essa è sempre caratterizzata dal fatto  che sono in prevalenza uomini quelli che vengono considerati  come individui, e che in questi uomini è particolarmente significativo in virtù della sua individualità ciò che è espressione  della loro vita psichica. Anzi, il nostro apprendimento individualizzante è talmente dominato dall’interesse per la vita psichica degli uomini che equipara addirittura il concetto di individuo con quello di personalità, e si è costretti a riflettere  esplicitamente sul fatto che un qualsiasi oggetto mostra parimenti un’impronta assolutamente individuale. Se e fino a qual  punto la storia in quanto scienza che riferisce i suoi oggetti  non a valori individuali puramente personali, ma a valori universali, debba rappresentare le personalità, dipende soltanto da  ciò che le personalità significano nella loro singolarità per i  valori universali; perciò l’individualizzazione scientifica può allontanarsi di molto da quella pre-scientifica. Dal momento però che ogni storia viene fatta da uomini, anche la rappresentazione scientifica del singolare e del particolare dev'essere prevalentemente rivolta alla vita psichica degli uomini; e questo è il  motivo per cui le scienze storiche sono sempre state inserite tra le «scienze dello spirito». Comprendiamo ora con tutta chiarezza perché questa designazione esprime una caratteristica secondaria dal punto di vista logico e non è neppure adatta,  anche prescindendo da ciò, a caratterizzare in modo compiuto  il materiale della scienza storica. Infatti non è soltanto la vita  spirituale, ma è in misura prevalente Ja vita spirituale che  interessa lo storico nella connessione con i processi corporei;  inoltre non tutta la vita spirituale, e neppure tutta la vita  psichica dell’uomo, ma soltanto una determinata e relativamente piccola parte della vita psichica degli uomini viene presa in  considerazione come materiale da parte della scienza storica.  Anche volendo limitare questa parte per conseguire una caratterizzazione ancor più esatta del materiale storico, ciò può  avvenire ancora una volta soltanto in base alla comprensione  che abbiamo realizzato dell’essenza del metodo storico, e cioè  appunto in riferimento alla particolarità dei punti di vista valutativi che nell’elaborazione concettuale individualizzante sono  determinanti per la selezione di ciò che è essenziale. Il fatto  che si tratti sempre di valori umani universali può venir espresso anche dicendo che diventano storicamente essenziali soltanto  gli oggetti che posseggono un significato in relazione a interessi sociali. Perciò, in virtù della connessione storica delle parti  con la totalità storica o con la società, l’oggetto principale della  ricerca storica non è l’uomo in genere, concepito come svincolato da essa, ma è l’uomo come essere sociale — e ciò soprattutto  perché partecipa alla realizzazione dei valori sociali. Certamente, il concetto di societas dev'essere qui preso in senso tanto  ampio da comprendere anche comunità come quelle degli scienziati o degli artisti. Se chiamiamo con il nome di cultura il  processo con cui i valori sociali universali si realizzano nel  corso dello sviluppo storico, l’oggetto principale della storia  dev'essere la rappresentazione delle parti o della totalità della  vita culturale umana, e ogni materiale storicamente importante  deve avere un qualche legame con la vita culturale umana,  poiché soltanto allora vi è un motivo per riferirla ai valori  universali e indagarla nella sua particolarità e individualità. I  valori che guidano la selezione di ciò che è essenziale nella  storia devono perciò essere designati anche come valori culturali universali — così come li abbiamo incontrati, per esempio, nei concetti di valore dello stato, del diritto, dell’arte, della  religione, dell’organizzazione economica. S'intende che lo storico non può dire che cosa sia progresso culturale o regresso  culturale, poiché in tal caso passerebbe dalla relazione teoretica di valore alla valutazione pratica. Non c'è bisogno che i  suoi ideali culturali assumano un'importanza determinante per  l'elaborazione del suo materiale; ma egli dev'esserein grado di  comprendere i valori culturali universali degli uomini e dei  popoli che rappresenta, per poter separare l’essenziale dall’inessenziale in virtù di una relazione puramente teoretica di valore.  Inoltre l'indagine storica non è limitata ai processi culturali.  Particolarmente quando occorre conoscere le cause degli avvenimenti storici, possono risultare significativi anche oggetti che appartengono semplicemente alla « natura », e che diventano importanti proprio con riguardo alla loro individualità: per esempio  la particolarità del clima di una determinata regione, la posizione geografica di un paese, e così via. Ma per trovare posto in  una rappresentazione storica questi oggetti devono sempre sia  connettersi causalmente con processi culturali sia essere considerati nel loro significato per i valori culturali; e al centro di  una scienza individualizzante resterà sempre una qualche parte  dello sviluppo singolare della vita culturale. Che con ciò non sì  intenda affatto vantare un particolare « metodo storico-culturale», come oggi sovente vien fatto in antitesi al metodo della  storia politica, non richiede un’esplicita assicurazione. La logica non può decidere la questione del « campo di lavoro specifico» della storia, e neppure perviene alla questione dell'essenza  del metodo storico. Se si vuol parlare di un’antitesi tra storia  politica e storia culturale in genere, l’una e l’altra devono però  applicare il medesimo procedimento individualizzante; può soltanto darsi che la storia culturale, nel senso più ristretto in cui  oggi talvolta la si intende, applichi concetti di gruppo in misura più ampia di quanto non faccia la storia dei processi politici. Noi sappiamo però che un numero maggiore o minore di  concetti di gruppo non cambia per nulla l’essenza del metodo  storico. A prescindere da ciò, non è affatto stabilito che la  storia culturale sia configurata in modo più « collettivistico »  della storia politica.  Tali questioni hanno a che fare con la dottrina del metodo soltanto nella misura in cui devono essere tenute scrupolosamente lontane dalle indagini logiche. Il dilettantismo logico dei  giorni nostri ha anche qui prodotto disorientamento, ma non  possiede ancora un'importanza tale da giustificare un esame  più ravvicinato in questa sede. Il termine « cultura » viene qui  usato nel senso che la vita politica è una parte della vita culturale in genere. Esso non designa altro che l’insieme degli oggetti  che hanno un significato diretto per la realizzazione dei valori  universali e che, a causa di questa relazione di valore, non  possono mai essere rappresentati in modo esaustivo da una  scienza generalizzante, ma richiedono invece di essere appresi  da una scienza individualizzante. Con ciò è subito chiaro in  qual senso la scienza storica sia una necessità per gli uomini  civili. L'uomo civile riferirà sempre la realtà ai valori culturali  universali, cosicché deve sorgere la domanda relativa al modo  in cui si è compiuta la realizzazione della cultura nel suo  sviluppo singolare: a tale questione può dare risposta soltanto  la storia individualizzante, mai una scienza generalizzante. Se guardiamo ancora una volta indietro, utilizzando i concetti che abbiamo fornito si può delineare un sistema delle  scienze empiriche in cui alla storia è assegnato — in riferimento sia al suo metodo che al suo materiale — un posto stabile;  sulla base di questa prospettiva si possono comprendere e affrontare gli altri gruppi di problemi di filosofia della storia.  Dal punto di vista del metodo le scienze particolari procedono  o in modo generalizzante e sistematico o in modo individualizzante e quindi non sistematico. Il loro materiale consiste o di  oggetti naturali, svincolati dai valori, o di processi culturali,  che sono invece riferiti a valori. Questo è soltanto uno schema  generalissimo: non si deve quindi dire — si dovrà sempre  sottolinearlo — che le diverse discipline lavorano in modo esclusivamente generalizzante o esclusivamente individualizzante,  che trattano soltanto di oggetti naturali o soltanto di processi  culturali, e che gli oggetti naturali devono essere rappresentati  soltanto in forma generalizzante e i processi culturali soltanto in forma individualizzante. Al contrario, i diversi metodi sono  strettamente congiunti nella trattazione dei diversi materiali, e  i princìpi di divisione qui forniti possono collegarsi in maniera  differente. Il procedimento generalizzante parte da fatti individuali, mentre quello individualizzante ha bisogno di concetti  generali come strumenti di rappresentazione e di connessione.  Accanto alle scienze naturali generalizzanti vi sono discipline  che trattano dei processi naturali in modo individualizzante e  quindi, anche se mediatamente e indirettamente, in riferimento  ai valori, come per esempio la storia dell'evoluzione degli organismi; e viceversa la vita culturale può, nonostante la relazione di valore, essere sottoposta a una rappresentazione generalizzante. Anzi, anche prescindendo del tutto dalla psicologia, molte delle cosiddette scienze dello spirito — come per esempio  almeno in parte la linguistica, la giurisprudenza, l'economia —  sono scienze culturali non certo storiche, ma sistematiche; il  loro metodo non coincide necessariamente con quello delle  scienze naturali generalizzanti, e la loro struttura logica costituisce quindi uno dei problemi più difficili e interessanti della  dottrina del metodo. Ma per quanto grande possa essere la varietà delle aspirazioni scientifiche che la logica non deve  criticare, ma semplicemente riconoscere come fatti, e per quanto i princìpi logici di divisione debbano quindi limitarsi a  distinguere concettualmente ciò che è strettamente connesso nella realtà, la storia — la quale tratta degli uomini, delle loro  istituzioni e delle loro imprese — può essere solamente designata, con riguardo ai suoi fini ultimi, come scienza individualizzante della cultura. Il suo scopo è sempre la rappresentazione  di una serie di sviluppo singolare, più o meno comprensiva; e i  suoi oggetti sono essi stessi” processi culturali oppure stanno in  relazione con valori culturali. In tal modo questa scienza risulta in linea di principio distinta per il suo contenuto da tutte  le scienze naturali, procedano esse in modo generalizzante o individualizzante, e metodologicamente distinta anche da tutte le  scienze culturali che trattano i loro oggetti in modo sistematico.  La logica della storia deve muoversi entro questo quadro. Soltanto allora essa può penetrare che cosa è realmente la storia, e soltanto così può essere utile a una filosofia che voglia comprendere  il significato della storia reale per la soluzione dei suoi problemi. La costruzione di scienze del futuro, oggi particolarmente cara  alla logica della storia, non ha invece alcun valore né per la  ricerca particolare né per la filosofia, se non quello di un esempio scoraggiante.   Anche la questione d ei princìpi dell’accadere storico, che  prendiamo ora in esame, può trovare risposta soltanto se ci si  appoggia sul concetto di ciò che viene di fatto rappresentato  come storia dalle scienze storiche. Già sappiamo che questi  princìpi vengono cercati o in leggi generali o nel senso generale della vita storica. Se si vuole pervenire a chiarezza sui compiti della filosofia della storia come dottrina dei princìpi, occorre  determinare che cosa si può intendere quando si parla di legge  oppure di storia, e chiedersi che cosa meriti il nome di principio della storia. Ne risulterà che l’alternativa tra legge e senso  della storia, al pari della lotta tra metodo generalizzante e  metodo individualizzante, investe le due tendenze principali  contrapposte della filosofia della storia contemporanea, e che la  decisione in questo scontro dipende essenzialmente, ancora una  volta, dalla comprensione dell'essenza logica della scienza storica empirica.   Il termine «legge» appartiene a quelle espressioni la cui  equivocità ha dato occasione a molteplici oscurità e fraintendimenti. Mentre nell’identificazione tra legge e causalità la causa lità viene unilateralmente considerata come forma dell’apprendimento generalizzante, esiste d’altra parte un uso linguistico  secondo cui « conforme a legge » equivale senz'altro a « necessario ». Il termine può allora designare la necessità di ciò che è  singolare e particolare, e anche la necessità di un imperativo o  di un valore. Pretendere di vietare in ogni caso quest’uso sarebbe pedantesco, e non avrebbe successo. Nella filosofia, però,  bisognerebbe evitarlo almeno nei punti decisivi; e in ogni caso,  se alla filosofia della storia viene posto il compito di cercare le  leggi della storia, ciò ha un senso chiaro soltanto se per legge  si intende la legge naturale. La necessità della legge non significa allora la necessità di una realtà individuale, ma universalità  incondizionata di un concetto, e più precisamente il nesso necessario di almeno due concetti generali e il nesso necessario  delle realtà corrispondenti soltanto nella misura in cui la legge  dice che, quando un oggetto individuale mostra tra le altre caratteristiche anche quelle che costituiscono gli elementi di un  concetto generale, con esso è dovunque e sempre connesso realmente un altro oggetto che, tra le altre caratteristiche, possiede anche quelle che costituiscono gli elementi dell’altro concetto generale. In breve, la conoscenza della legge è la forma di  apprendimento della realtà a cui tende, come ideale supremo,  ogni scienza generalizzante della natura.   Che la scienza storica empirica non si ponga mai il fine  ultimo di trovare leggi in quest’accezione, già lo sappiamo. Lo  storico che fa questo cessa di essere storico e di volere una  rappresentazione storica del suo oggetto. Perciò, dal momento  che scienza storica empirica e scienza di leggi si escludono  concettualmente tra loro, si può dire che il concetto di « legge  storica » contiene una contradictio in adiecto — dove ovviamente il termine «storico» ha soltanto il senso formale o logico  già indicato, e questo principio riveste carattere logico anche  nella misura in cui è indipendente non soltanto da ogni idea  sul materiale della storia, ma anche da ogni visione sull’essenza della realtà in genere. Esso vale tanto presupponendo il  materialismo o il parallelismo psico-fisico quanto presupponendo una metafisica spiritualistica o una dottrina metafisica della  libertà. Anche la storia di un oggetto le cui leggi ci fossero  note senza alcun residuo non consisterebbe mai di queste leggi, ma le utilizzerebbe soltanto come mezzi.   Ma ciò che vale per la scienza storica empirica non vale  necessariamente per la filosofia della storia. Poiché è logicamente legittimo rivestire ogni realtà con un sistema di concetti  generali, e poiché non occorre essere seguaci del materialismo o  del parallelismo psico-fisico per ritenere possibile che ogni essere accessibile alle scienze empiriche possa venir ricondotto a  leggi generali, sembra che si possa senz'altro ritenere che il  filosofo della storia — il quale, in quanto filosofo, non è uno  storico, ma ha sempre a che fare con l’universale — scopra  leggi valide per lo stesso materiale che le scienze storiche empiriche tendono ad apprendere in modo individualizzante. Dal  momento che tale materiale è costituito principalmente dalla  vita sociale degli uomini, da ciò sorge l’idea di una sociologia  come filosofia della storia che ricerca leggi — un'idea che è più  vecchia della terminologia di Comte, ma che trova molti seguaci anche ai giorni nostri. Per tale via, questi sociologi cercano  una conoscenza che conduca al di là delle singole rappresentazioni storiche, con la loro aderenza al particolare, e penetri  l'essenza universale di tutto lo sviluppo storico. Evidentemente  — così ritengono almeno i più cauti rappresentanti di questo  punto di vista — la conoscenza storica di ciò che è singolare e  individuale non è priva di valore, ma costituisce, al contrario,  l'indispensabile fondamento di una considerazione ulteriore —  ossia costituisce, dal punto di vista della filosofia della storia,  soltanto il fondamento, il lavoro preparatorio. Su questa base si  deve poi innalzare l’edificio di una filosofia della storia comprensiva, che abbracci nelle sue leggi il ritmo e quindi i princìpi di tutta la vita storica.   Se passiamo a valutare questo punto di vista, vediamo infatti che, se il termine «storico» designa non già il metodo,  ma il materiale della storia, il concetto di legge storica non  contiene per lo meno nessuna contraddizione logica; e in ogni  caso è un'impresa del tutto legittima ricercare le leggi della  vita sociale degli uomini. Del tutto diverso è però chiedersi se  abbia un senso designare come princìpi dell’accadere storico le  leggi eventualmente trovate attraverso la considerazione generalizzante del materiale che la storia rappresenta in modo individualizzante, e se sia quindi corretto chiamare la sociologia col  nome di filosofia della storia. Questa è qualcosa di più che una  questione terminologica; e se ad essa si risponde affermativamente in base al principio che si possono trovare leggi per  ogni realtà, quindi anche per gli oggetti delle scienze storiche,  si trascurano due punti d'importanza decisiva. I princìpi storici  devono cioè essere in primo luogo princìpi della cultura e in  secondo luogo princìpi dell'universo storico. Sono appropriate  a tale scopo le leggi nel senso di leggi naturali?   Ciò che soprattutto importa può venir chiarito nel modo  migliore se si ripensa al fatto che né la conoscenza pre-scientifica, né una qualsiasi conoscenza scientifica della realtà empirica  riproduce questa realtà quale esiste indipendentemente dalla  nostra elaborazione concettuale, ma che ogni conoscenza si costituisce soltanto in virtù di un apprendimento che trasforma  la realtà. Nel suo processo di formazione la scienza può essere  guidata soltanto dai fini che si è posta come scienza generalizzante o individualizzante, e una scienza generalizzante potrà  quindi sperare di pervenire a leggi soltanto se si libera da tutti  gli interessi per la realtà che non siano quelli indirizzati a  determinare concetti incondizionatamente generali per il proprio campo. Essa deve poter separare ciò che ad altri modi di  apprendimento appare connesso, e deve comprendere sotto un  concetto ciò che in rapporto ad altri interessi non sembra  avere assolutamente nulla in comune. Quanto essa si allontani  così dall’apprendimento pre-scientifico risulta particolarmente  chiaro allorché si determinano le leggi più comprensive. Basta  considerare che le scienze di leggi conducono a una separazione di principio dell’elemento fisico spaziale dall’elemento psichico inesteso, e quindi alla rappresentazione di due mondi tra  i quali non è più possibile istituire alcuna connessione reale,  mentre per il nostro apprendimento pre-scientifico — e anche  per il nostro apprendimento storico — i due campi sono inscindibilmente legati tra loro. Oppure si pensi come il trattamento  imposto dalle scienze di leggi faccia sempre più scomparire il  carattere di cosalità della nostra immagine del mondo e introduca al suo posto, in misura crescente, concetti di relazione.  Una scienza della vita sociale degli uomini richiederà evidentemente, in linea di principio, la medesima libertà di trasformare la realtà mediante l’elaborazione concettuale generalizzante; se ciò viene applicato al suo rapporto con la vita storica, ne  risulta che la sociologia — nel caso che voglia essere al tempo  stesso filosofia della storia — non possiede questa libertà di  distruggere ogni forma di apprendimento della realtà diversa  da quella determinata dal suo fine di una conoscenza di leggi.   Se della sociologia si deve realmente poter dire che tratta il  medesimo materiale della storia, essa dovrà per lo meno cercare  le leggi della vita culturale, in quanto ogni scienza storica ha a  che fare o con processi culturali o con realtà che sono in relazione con questi. Ma la cultura non è affatto una realtà libera da  interpretazioni, che possa venir sottomessa a una qualsiasi elaborazione e trasformazione concettuale; da una parte la cultura è  una sezione determinata della realtà, di cui non si sa se per  essa, e soltanto per essa, valgano concetti di legge, dall’altra  tale sezione è una realtà già articolata e trasformata in modo  ben determinato da valori culturali. Chi può dire se questa articolazione, dalla cui consistenza dipende se designamo una  realtà come cultura, si conserva allorché cerca di farsi valere  l'apprendimento generalizzante? Se però questo non avviene,  allora la sociologia in quanto scienza di leggi rappresenta insieme con l’altra vita sociale — non storica — anche la medesima  realtà trattata dalla storia, ma non l’apprende come la medesima realtà, ossia non la rappresenta come cultura; e quanto  poco importi da questo punto di vista la comunanza del materiale, appare chiaro non appena si pensi che l'oggetto comune  non è che una parte di quella sterminata molteplicità che, in  quanto tale, non soltanto non può confluire in nessuna scienza,  ma di cui possiamo parlare solo in generale, mai in particolare, perché non la conosciamo libera da interpretazioni. C'è  perciò non soltanto un’inconciliabilità tra metodo generalizzante e metodo individualizzante nelle scienze particolari, ma manca pure ogni garanzia di conciliabilità tra la considerazione  delle scienze di leggi e la considerazione delle scienze della  cultura; anzi a causa della stretta relazione tra pensiero individualizzante e pensiero riferito ai valori è, se non logicamente  impossibile, almeno molto improbabile che i concetti di legge  possano sempre coincidere nel loro contenuto con i concetti  culturali generali. Con ciò è tolto il terreno, già in linea di  principio, al programma di una sociologia intesa come filosofia  della storia, la quale poggi sul principio che dev'essere possibile  trovare leggi per una qualsiasi realtà. Il tentativo di determinare leggi della vita sociale mantiene ovviamente il suo buon  diritto, ma nulla ci autorizza a considerare queste leggi come  princìpi della vita culturale, semplicemente perché sono leggi  della medesima realtà libera da interpretazioni di cui tratta la  storia. A ciò si può credere soltanto se, indulgendo a un ingenuo realismo concettuale, si scambia il nostro apprendimento  pre-scientifico e scientifico della realtà con la realtà stessa.   Poiché in un certo senso qui non andiamo al di là delle  possibilità logiche e — almeno secondo quanto si è detto finora  — soltanto un caso miracoloso potrebbe far sì che i concetti di  legge e i concetti culturali coincidano sempre, per giungere a  chiarezza occorre ancora mostrare esplicitamente in quale caso  ogni ricerca di leggi della vita culturale è priva di senso. Il  punto decisivo sta nuovamente nel concetto del rapporto che la totalità ha con le sue parti. Anzitutto, in quali casi l’apprendimento della realtà come cultura può accompagnarsi con l’apprendimento generalizzante? Dal momento che i valori culturali sono sempre, in quanto valori universali, anche concetti di  contenuto generale, gli avvenimenti storici — i quali diventano  essenziali in virtù della loro individualità in riferimento a un  valore culturale universale — possono essere considerati come  esemplari di questo concetto generale. Infatti, anche se il procedimento individualizzante è sempre riferito a valori, questo  principio non può essere rovesciato in modo da affermare che  ogni valore universale rende individualizzante la rappresentazione. Anche quei processi che vengono in luce, per esempio,  in una storia dell’arte o del diritto possono essere visti come  esemplari del concetto generale di «arte » o di « diritto»; e se  in tal modo si deve sciogliere anche la relazione di valore che  le cose hanno, in virtù della loro individualità, con il valore  culturale di arte o di diritto, una rappresentazione generalizzante di questo tipo rimane tuttavia rappresentazione di processi  culturali anche nel senso che essa considera gli oggetti come cultura; infatti il concetto culturale di arte o di diritto  è ciò che delimita il campo e determina quali oggetti diventano esemplari di tale sistema di concetti generali. Ciò  che vale per questi valori culturali può naturalmente valere  anche per tutti gli altri: si può quindi pensare che quelle  grandi unità della vita storica che chiamiamo popoli civili vengano tutte concepite come esemplari di un sistema di concetti  generali in cui poi si esprimono le leggi che valgono per lo  sviluppo sempre ricorrente d’un qualsiasi popolo civile. Certamente, per i motivi prima addotti, non si può mai chiamare  tutto questo col nome di storia; inoltre, se tale compito viene  indicato come possibile, si deve pensare soltanto alla possibilità  logica, lasciando da parte le difficoltà di fatto che si oppongono  a una siffatta impresa. Infatti qui importa solamente concedere al programma di una scienza della vita culturale fondata  su leggi tutto quanto è pensabile per poi, fatto questo, poter  decidere con maggiore sicurezza se la scienza di leggi a cui si  aspira, concepita nella sua perfezione, sia in grado di soddisfare le pretese di una filosofia della storia come dottrina dei  princìpi della vita storica. Se si vuol rispondere a questa domanda occorre tener presente che la filosofia della storia, comunque si possa altrimenti  determinare il suo compito, non dev'essere filosofia dell’oggetto  di un'indagine storica particolare, bensì filosofia dell’oggetto  di una storia universale, e deve al tempo stesso stabilire i  princìpi dell’universo storico. Per universo storico si deve però  in ogni caso intendere — per quanto indeterminato possa essere  questo concetto — la totalità storica più comprensiva possibile,  e quindi qualcosa di singolare e di individuale nel suo concetto,  a cui ogni oggetto considerato da una scienza storica particolare appartiene come elemento individuale; inoltre, dai princìpi  della storia pretendiamo che siano i princìpi dell’unità di questo universo. Già da questo risulta che una scienza di leggi, in  quanto dottrina dei princìpi storici, non soltanto incontra difficoltà più o meno grandi, ma è anche logicamente impossibile.  Non si obietti che anche la totalità dell’universo è, in base al  suo concetto, qualcosa di singolare e che quindi, se quest’argomentazione fosse giusta, non dovrebbero esserci leggi che valgono — come assumiamo per esempio nel caso della legge di  gravità — per la totalità dell’universo. Le scienze generalizzanti non hanno mai a che fare con la totalità dell’universo nello stesso modo in cui la filosofia della storia ha a che fare  con l'universo storico. Esse vanno alla ricerca di leggi soltanto nel senso che vogliono stabilire ciò che vale per tutte le  sue parti. Mai però pensiamo di considerare queste parti come  elementi della totalità, e le leggi generali non possono affatto  essere princìpi dell’unità di questo tutto. Quanto più esse sono  generali, tanto più ogni parte è soltanto esemplare di un genere, ed è quindi sciolta da tutte le determinazioni che la rendono un elemento della totalità. Se assumiamo quindi che la  sociologia abbia raggiunto il suo fine supremo e abbia trovato  leggi per tutte le parti dell’universo storico, ad esempio per lo  sviluppo di tutti i popoli civili, allora questi sarebbero diventati per essa esemplari di un genere, e — in quanto esemplari —  concettualmente isolati l’uno dall’altro. Essi non potrebbero venir ricondotti all'unità dell’universo storico individuale, poiché  come elementi di una connessione storica dovrebbero sempre  essere individui, e le leggi trovate dalla sociologia non potrebbero venir utilizzate come princìpi dell’unità degli elementi individuali dell’universo individuale. Il concetto di legge come principio dell'universo storico è quindi per la filosofia della storia  logicamente assurdo, tanto quanto lo è il concetto di legge  storica inteso come fine di una scienza storica empirica. Certamente la filosofia della storia guarda al « generale », ma soltanto nella misura in cui essa ha a che fare con l'universo storico,  e proprio perciò il suo oggetto rimane sempre uno sviluppo  singolare e individuale, che ha come suoi elementi degli individui. La sociologia come scienza di leggi può quindi, per quanto possa essere fornita di valore sotto altri aspetti, offrire alla  storia concetti ausiliari per l’analisi di connessioni causali, ma  non può mai prendere il posto della filosofia della storia.   Da questo punto di vista devono essere valutati anche tutti i  tentativi di riconoscere « fattori » o « forze » generali della vita  storica. Dal momento che ogni storia tratta di uomini, e in  ogni uomo si possono distinguere un aspetto corporeo e un  aspetto spirituale, è evidentemente possibile effettuare una divisione di tali forze in fisiche e psichiche, e si potrà fors’anche  dare con successo uno sguardo d’insieme ancor più specializzato a quei fattori che agiscono nell’accadere storico. Ma, quale  che sia il giudizio che si può dare nel singolo caso sul valore  di tali sforzi, non soltanto è necessaria, a causa della separazione tra apprendimento naturale e apprendimento culturale della  realtà, la massima precauzione nell'impiego di tali teorie generalizzanti, ma soprattutto non ci si deve mai illudere che queste forze e questi fattori generali siano — e neppure determinino — ciò che è storicamente essenziale. Si tratta piuttosto soltanto di condizioni senza le quali non possono esserci avvenimenti storici; ma proprio perché sono condizioni assolutamente  generali, non hanno interesse né per lo storico empirico né per  il filosofo della storia. Così, per esempio, il calore del sole è  un fattore che non possiamo eliminare da nessun avvenimento  storico; e tutta la storia avrebbe avuto un corso diverso — anzi  non ci sarebbe stata nessuna cultura — se gli uomini non si  fossero potuti capire con il linguaggio. Ma il calore del sole  e il linguaggio non sono certamente « princìpi storici ». È proprio il carattere di incondizionata generalità che toglie ad essi  interesse storico. Anzi, prescindendo del tutto dal fatto che una  scienza delle forze e dei fattori generali della vita sociale possa essere chiamata filosofia della storia, si può ben dubitare che  le molteplici conoscenze naturali, psicologiche e culturali che  vengono qui prese in considerazione possano congiungersi in  una scienza unitaria. Almeno finora questa scienza non esiste  affatto, né ci sarà in futuro; e se lo storico sente il bisogno di  una visione delle « forze » generali che agiscono nel campo di  cui egli tratta, si rivolge alle scienze particolari generalizzanti,  cioè all’antropologia, alla psicologia, alla sociologia e così via,  che lo informeranno nel modo più preciso.   Non recheremmo un contributo essenziale al chiarimento  del principio generale a cui dobbiamo qui limitarci se pretendessimo di approfondire nei particolari i diversi gruppi di problemi considerati; si deve soltanto sottolineare ancora che lo  storico può cercare insegnamento presso le scienze particolari  generalizzanti solamente per quanto riguarda i fattori più o  meno costanti della vita storica, mentre non deve attendersi  dalle scienze generalizzanti alcuna risposta per parecchie questioni che si riferiscono all'essenza generale della vita storica  — e in particolare per le questioni che vengono qualificate  come problemi di filosofia della storia. Qui ci limitiamo a un  esempio sul quale le più diverse tendenze della scienza storica  empirica e della filosofia della storia cadono in errore. Si tratta  della questione concernente il ruolo che hanno nella storia gli  individui abitualmente designati in modo eminente come individuo, cioè le singole personalità. Qui proprio la concezione che  rifiuta sia la trattazione empirica sia la trattazione filosofica  della storia in favore di una scienza di leggi ha interesse a  sottolineare che questo problema non è suscettibile di una soluzione generale in senso cosiddetto « individualistico »; e ciò risulta ancora una volta da una prospettiva logica. Certamente è  del tutto sbagliato dire che nella storia non interessano affatto  le singole personalità, e che determinante è solamente la vita  « generale » delle masse; ma altrettanto falso è cercare sempre i  fattori decisivi nelle imprese di singole personalità e spiegare  la storia — seguendo Carlyle — come una somma di biografie.  Purtroppo, l’alternativa che qui viene in luce è molto spesso  posta in connessione con la questione dell’essenza logica della  storia, cosicché i rappresentanti del punto di vista secondo cui  la storia procede in modo individualizzante (nel senso da noi indicato) vengono al tempo stesso ritenuti seguaci di una storia  di personalità; e invece il metodo individualizzante non ha il  minimo rapporto con il culto degli eroi. Al contrario, proprio  perché la storia è la scienza dell’individuale, la filosofia della  storia non può decidere in favore dei grandi uomini la questione del significato che posseggono le singole personalità. Il motivo è lo stesso che vieta di cadere nell’estremo opposto e di fare  dell’elaborazione di concetti collettivi un principio di metodo.  L'affermazione che importano sempre le personalità sarebbe  anzi prodotto di un’elaborazione concettuale generalizzante, ossia una legge storica. Per ogni aspetto particolare dell’accadere  storico si deve indagare quali movimenti di massa e quali imprese meramente personali abbiano avuto un’importanza decisiva per i valori culturali dominanti: soltanto allora è possibile  rispondere alla questione del significato dei singoli uomini per  tutti gli aspetti particolari della storia. Di fatto, né le affermazioni generali sull’importanza decisiva delle masse, né quelle  sul ruolo delle singole personalità devono la loro popolarità a  un'elaborazione concettuale generalizzante; esse devono venir  ricondotte a un’arbitraria unilateralità nel privilegiamento di  questi o quei valori culturali, e quindi a una scelta arbitraria  del materiale storicamente essenziale — come risulterà ancor  più chiaramente rispondendo alla domanda sui princìpi della  vita storica.   Per quanto riguarda la questione del significato delle leggi  storiche, concludiamo accennando ancora a un punto che ha  dato parimenti occasione a dispute. Si tratta cioè ancora di  mostrare che non soltanto certi problemi largamente trattati di  filosofia della storia non ammettono nessuna decisione generale, ma che anche dove uno storico afferma un principio valido  per ogni vita storica, non è affatto detto che si tratti sempre di  un prodotto dell’apprendimento generalizzante. Prendiamo come esempio una tesi di Ranke che ha avuto una parte rilevante nella polemica sulle leggi storiche. Essa contiene — come  dice von Below — una «verità universale: la nozione che la  vita interna degli stati dipende in larga misura dai rapporti  reciproci tra gli stati, dai rapporti mondiali », e viene al tempo stesso designata come una scoperta scientifica di prim’ordine. Ci si può chiedere se questa verità universale non sia una legge storica, anche se soltanto nel senso, logicamente privo di  contraddizione, di una legge valida per il materiale rappresentato in modo individualizzante dalla storia. Chi conosce la concezione storica di Ranke, risponderà negativamente a tale domanda. Per questo grande storico i « rapporti mondiali » costituiscono un complesso determinato di stati civili in connessione reciproca, e Ranke considera come facenti parte del suo « mondo »  storico soltanto gli stati che sono in connessione con questi  stati civili, e che quindi ne sono anche influenzati. Nel principio sopra menzionato — se esso deve valere in modo assolutamente generale ed essere quindi libero da ogni contenuto propriamente storico — abbiamo di fronte non già un prodotto  della scienza generalizzante e una «scoperta» scientifica, ma  soltanto la formulazione di un presupposto metodologico con  cui Ranke si accosta, e deve accostarsi — se vuole trattare  tutto in termini di storia universale, nel senso da lui inteso —  alla rappresentazione individualizzante dei singoli stati. Lo stesso vale per altre affermazioni generali, come per esempio quella che ogni individuo, per quanto grande, è rinchiuso entro  confini dati dalla situazione culturale del suo popolo. Ciò è  assolutamente evidente, poiché anche qui non si afferma altro  che la connessione reale di ogni parte storica con la totalità  storica. Un sistema di princìpi generali siffatti non potrebbe  mai servire come scienza ausiliaria generalizzante della storia  nella ricerca di connessioni causali, ma può soltanto contenere i  presupposti che dobbiamo assumere se dev'essere in generale  possibile la storia in quanto rappresentazione scientifica di connessioni storiche. Così si mostra nuovamente che non ha alcun  senso cercare nelle leggi i princìpi dell’accadere storico.   Ma proprio perché il rifiuto di una filosofia della storia  come scienza di leggi è risultato come conseguenza necessaria  della comprensione dell’essenza logica della storia, sembra con  ciò di essere andati troppo in là nella dimostrazione. Infatti,  per quanto false siano nel loro contenuto tutte le teorie sociologiche che pretendono di essere filosofia della storia, esistono di  fatto dei tentativi di determinare leggi valide per la totalità  singolare dello sviluppo storico, e questi sarebbero senz’altro  impossibili se il concetto di una scienza di leggi come filosofia  della storia contenesse una contraddizione logica. Ciò è certamente esatto, e pertanto occorre ancora mostrare che, laddove i  princìpi dell’accadere storico sembrano determinati in forma di  leggi, essi non sono mai enunciati, da un punto di vista  formale, come leggi nel senso delle leggi naturali. E dal fatto  che intendiamo ciò che qui è realmente presente deriva al tempo  stesso una risposta alla questione di ciò che può essere designato come principio della vita storica.   È caratteristico di quasi tutti i tentativi di trovare la legge  naturale dell’universo storico il fatto che tale legge debba contenere contemporaneamente la formula del progresso della storia: con ciò è subito posto in chiaro l’elemento essenziale. Si  capisce quanto debba essere allettante abbracciare d’un solo colpo legge naturale, legge di sviluppo e legge di progresso, come  credeva di aver fatto Comte con la sua legge dei tre stati —  teologico, metafisico e positivo — e quanta popolarità goda quindi ancor oggi questo tipo di sociologia, che promette di rendere tanto. Ma si capisce anche, non appena si sia ottenuta chiarezza sull’essenza logica della storia, che tali promesse non  potranno mai essere mantenute. In primo luogo, progresso o  regresso sono concetti di valore, più esattamente concetti che  esprimono un incremento o una diminuzione di valore; e di  progresso si può parlare soltanto se si possiede un criterio di  valore. In secondo luogo, il progresso indica il sorgere di qualcosa di nuovo, che non è mai esistito nella sua individualità.  Ma il concetto di un criterio di valore, come concetto di ciò  che dev'essere, non può mai coincidere con un concetto di  legge, che contiene sempre ciò che è o deve necessariamente  essere, e che non ha quindi alcun senso esigere. Dover essere  ed essere necessariamente si escludono l’un l’altro sotto il proftlo concettuale, e solamente a causa della già menzionata equivocità del termine «legge » si può parlare di una legge di progres Inoltre il sorgere di qualcosa di nuovo, di non ancora  esistito, non rientra in alcuna legge, poiché una legge contiene  soltanto ciò che ricorre ripetutamente. Se per progresso si intende quindi in primo luogo il sorgere di qualcosa di nuovo e in  secondo luogo un incremento di valore, e per legge una legge  naturale, allora il concetto di legge di progresso è due volte  logicamente assurdo. Quando l’universo storico è unificato in  virtù di una «legge», articolato in riferimento al sorgere di qualcosa di nuovo e designato come progresso, la legge non  può mai essere una legge naturale. Perciò la «legge» di Comte è anche di fatto una formula valutativa. Per lui il positivo  vale come dover essere, come ideale assoluto. In base a questo  egli considera lo sviluppo dell’umanità e stabilisce ciò che i  suoi diversi stadi rappresentano di nuovo e di valido per la  realizzazione del suo ideale. Una scienza di leggi, che deve  sciogliere i propri oggetti da ogni vincolo valutativo e considerarli come esemplari indifferenti di un genere, non può fare  nulla di simile.   Qui non è possibile — e neppure necessario per il chiarimento del principio — illustrare criticamente i vari tentativi compiuti per porre in luce presunte leggi come princìpi dell’accadere storico e per dimostrare che queste leggi contengono, più o  meno celati, concetti di valore, e quindi non sono leggi. Basti  ricordare esplicitamente quello che è legato al nome di Darwin  e che può essere definito come il tentativo di dare al concetto  di sviluppo storico un carattere puramente naturalistico in virtù della dimostrazione che proprio la legge naturale dello sviluppo garantisce il suo necessario incremento di valore. Ogni  progresso da un livello inferiore a uno superiore è condizionato  — così si sostiene — dalla legge universalmente valida della  selezione, che sempre più elimina ciò che è cattivo e aiuta ciò  che è buono a riportare la vittoria. Perciò tale legge deve nel  medesimo tempo essere il principio dello sviluppo storico e del  progresso. A parecchi ciò suona assai plausibile, ma non occorre pervenire a un'illustrazione più ravvicinata delle idee sulla  cui base si sono ottenuti i più diversi concetti di progresso per  mostrare che siamo qui dinanzi a un fraintendimento totale  della biologia di Darwin. Se questa teoria deve fornire una  spiegazione puramente naturalistica, essa deve rinunciare a qualsiasi teleologia dei valori, e quindi anche evitare completamente  l'impiego di concetti valutativi come «superiore » e « inferiore». La selezione naturale non elimina affatto ciò che è cattivo  conservando il buono, ma aiuta semplicemente a far vincere il  più adatto alla vita in determinate condizioni; e questo processo può essere chiamato progresso soltanto se si fa della vita in  quanto tale, in qualsiasi forma si manifesti, un valore assoluto.  Ma ciò sarebbe del tutto privo di senso, perché ogni vita ha dimostrato capacità vitale per il fatto stesso di esistere, e  quindi da questo punto di vista cade ogni differenza di valore.  Sulla base dei concetti darwiniani non si può valutare la vita  umana superiore a quella animale, e quindi designare come un  progresso lo sviluppo che conduce all'uomo. Perciò è del tutto  impossibile formulare u na qualsiasi distinzione di valore all’interno della vita umana in base a punti di vista propri della  scienza naturale. Soltanto quando si è già presupposta come  fornita di valore — sulla base di un criterio di valore — una  determinata formazione, si può definire come progresso lo sviluppo che conduce ad essa. Ma non sarà mai possibile derivare  dalle leggi naturali del processo di sviluppo — che devono  essere le medesime per ogni stadio, se devono essere leggi  generali — il principio del progresso. La circostanza che certe  formazioni naturali, come per esempio gli uomini, vengono  valutate come «evidentemente » superiori rispetto ad altre forme ci spiega sì la possibilità di una storia evolutiva individualizzante degli organismi e conduce i rappresentanti di una filosofia naturalistica della storia a ingannarsi sull’uso che continuamente fanno di princìpi di valore, ma non cambia nulla al fatto  che dai concetti propri della scienza naturale non si può derivare alcun valore. Da quest’illusione sono infine dominati anche  coloro che vogliono costruire una filosofia della storia sul concetto di razza — per lo più ispirati dalla nozione darwiniana di  «razze favorite nella lotta per l’esistenza ». Essi trascurano il  fatto che, per edificare una qualsiasi filosofia della storia, sono  costretti a utilizzare questo concetto in modo del tutto acritico  e infondato, come concetto di valore; e tale procedimento è  tanto più sospetto in quanto con ciò discreditiamo il concetto —  estremamente importante per la filosofia della storia — di nazione, che è un concetto culturale e designa l’individualità di  un popolo. Il concetto di nazione civile non ha nulla in comune con il concetto naturalistico di razza — tutt'altro che esente  da obiezioni, del resto, anche dal punto di vista della scienza  naturale — di cui si fa oggi un abuso così dilettantesco. La  germanità non risiede nel sangue ma nell'animo — ha detto  Lagarde”, un uomo non sospettabile di apprezzare poco l’ele  23. Paul Anton de Lagarde, orientalista c filosofo tedesco, autore mento nazionale; e alla base di questa espressione sta la stessa  idea che proibisce di elevare concetti naturali, come quello di  razza, a princìpi di filosofia della storia.   La dimostrazione che le presunte leggi storiche sono formule di valore ci ha al tempo stesso indicato la strada attraverso  cui devono essere effettivamente cercati i princìpi dell’accadere  storico: ancora una volta è qui decisiva la comprensione dell’essenza logica della scienza storica. L'universo storico non è nient'altro che la totalità storica più ampia possibile, concepita in  modo individualizzante, e poiché la relazione di valore è la  conditio sine qua non dell’apprendimento individualizzante in  genere, possono essere solo concetti di valore quelli che costituiscono il concetto dell’universo storico. Ma soltanto ciò che esegue questo lavoro e rende possibile connettere in unità — come  elementi individuali — le diverse parti dell’universo storico,  merita il nome di principio storico; perciò la filosofia della  storia in quanto scienza dei princìpi è, se deve avere un compito, la dottrina dei valori da cui dipende l’unità e l’articolazione dell’universo storico. In riferimento a questi valori si  può anche interpretare il senso unitario dell’intero sviluppo.  L'’interpretazione di tale senso ha sempre rappresentato di fatto  l'aspirazione della filosofia della storia, anche quando si credeva di dover cercare leggi perché non si distingueva tra legge e  valore, tra essere necessariamente e dover essere, tra essere e  senso, e non si era consapevoli che ciò che non si può riferire  a valori è assolutamente privo di senso. Neppure il naturalismo  ha voluto rinunciare a interpretare il senso della storia, né del  resto sarebbe facile rinunciarvi. Tutta la vita culturale è vita  storica e gli uomini civili — a cui appartengono anche i naturalisti — non possono in quanto tali tralasciare di rendersi conto  del senso della cultura, e quindi del senso della storia. Sorge  qui un compito che non può essere assolto né dal naturalismo,  che scioglie la realtà da ogni relazione di valore, né dalla  scienza storica empirica, che rappresenta il corso storico in base    di Uber das Verhdltnis des deutschen Staates zu Theologie, Kirche und Religion  {1873), dei Politische Aufsitze (1874), di Uber die gegenwirtige Lage des deutschen  Reiches (1876) e di vari altri scritti, cditore di Giordano Bruno, formulò una filosofia della storia di ispirazione teologica. a una relazione di valore puramente teoretica; perciò ci si  attende dalla filosofia della storia, come dottrina dei princìpi  dell’accadere storico, la soluzione di questo compito necessario  e inevitabile .   Meno semplice della questione dell'oggetto di questa filosofia della storia è affrontare il problema del modo di trattazione. Qui è possibile prospettare soltanto #2 compito, contro la  cui possibilità di soluzione non vengono avanzate obiezioni di  rilievo. Esso si riallaccia alle operazioni effettive degli storici e  dei filosofi della storia, cercando di mostrarvi la funzione dei  valori culturali come princìpi della rappresentazione. Per qualche lavoro questo compito è, almeno in parte, di così facile  soluzione da non aver affatto bisogno di un’indagine particolare. In una storia dell’arte o della religione devono in ogni caso  esserci dei valori artistici e religiosi, ai quali vengono riferiti  gli oggetti da rappresentare. Ma non sempre le cose vanno nel  senso che un determinato punto di vista valutativo emerge subito come elemento dominante. Soprattutto nelle opere più comprensive, le quali hanno per oggetto lo sviluppo di interi popoli o intere epoche, si incontrano i punti di vista più diversi, ed  è un’occupazione assai attraente quella di chiarire perché lo storico tratti estesamente certi avvenimenti e soltanto brevemente  altri, e non tratti per nulla di processi altrettanto reali. Gli  storici stessi non sempre sono consapevoli dei motivi di questo  fatto. Non possono esserlo perché spesso non sanno nulla della  struttura logica della loro attività e credono di non stabilire  relazioni di valore in genere. Tanto più importante è allora  chiarire esplicitamente i loro presupposti e mostrare da che  cosa essi dipendano nell’elaborazione del loro materiale. Occorre perciò mostrare che ogni storico, specialmente quando non si  limita a indagini particolari, possiede una specie di filosofia  della storia che è decisiva per ciò che egli ritiene importante e  non importante; ed è certamente un compito che vale la pena  affrontare quello di porre in luce la filosofia della storia presente soprattutto nei grandi storici. Anche in uno storico così  «oggettivo », com'è per esempio Ranke, agiscono presupposti  filosofici ben determinati intorno al senso della storia, e così  dev'essere per il fatto stesso che egli voleva trattare tutto dal punto di vista della storia universale. Giustamente Dove ha  osservato che Ranke si è opposto alla partecipazione unilaterale non già mediante la neutralità, ma mediante l'universalità  del sentimento simpatetico, riconoscendo in tal modo implicitamente la relazione ai valori. Ma se le cose stanno così, non  ci si può limitare a questo. In che cosa consiste l'universo dei  sentimenti simpatetici in questo grande storico? Un’indagine  orientata in vista di tale scopo recherebbe forse maggiore luce  sulla questione riguardante le tanto discusse «idee » di Ranke.  Si potrebbe mostrare che la filosofia della storia di Ranke è  stata soggetta a trasformazioni, ma che tra i fattori di cui si  compongono queste idee tutt'altro che semplici hanno sempre  avuto un ruolo essenziale i punti di vista valutativi dominanti  della concezione della storia di Ranke. In tali indagini, e in  altre analoghe, storia e filosofia devono avere uno stretto contatto.   Ancor più importante tra i punti di vista filosofici è però  l’analisi dei tentativi che procedono oltre la scienza storica empirica in quanto stabiliscono esplicitamente princìpi della vita  storica, e cioè princìpi che servono alla comprensione dell’intero sviluppo umano e all’interpretazione del suo senso. Qui  occorre quindi non soltanto l’analisi, ma anche la critica; occorre cioè — dopo aver determinato fino a qual punto i principi  della vita storica siano valori, e in che cosa essi consistano —  indagare con quale diritto questi punti di vista valutativi vengano considerati decisivi per il senso generale dello sviluppo universale. Naturalmente anche qui possiamo di nuovo indicare  soltanto qualche esempio. Si prenda, come esempio particolarmente caratteristico, la cosiddetta concezione materialistica della storia, proprio nella forma originaria del Manifesto comunista e nella misura in cui si limita — del tutto indipendentemente dal materialismo teoretico o metafisico — a un’interpretazione della vita storica empirica. Già il fatto che essa sia sorta  come elemento di un programma politico indica dove devono    24. Alfred Dove (1844-1879), storico tedesco, autore della Deutsche Geschichte  im Zeitalter Friedrichs des Grossen und Joseph l (1883), della Kaiser Wilhelms  geschichtliche Gestalt (1888), di Grossherzog Friedrich von Baden als Landesherr  und deutscher Fiirst (1902) e di varie altre opere, editore delle opere complete di  Ranke. essere cercati i punti di vista valutativi che la ispirano. Essa  può venir compresa soltanto se si considera che gli interessi dei  suoi fondatori si rivolgevano alla lotta del proletariato contro la  borghesia e che la vittoria del proletariato ne costituiva il valore centrale, assoluto. Poiché la cosa essenziale in riferimento a  questo valore è oggi la lotta tra le due classi, si cerca di  comprendere l’intera storia come storia di lotte di classe e di  ricondurla in tal modo a unità. I nomi dei partiti in lotta  cambiano: liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della  gleba, artigiani e garzoni si contrappongono tra loro. Ma ogni  volta è essenziale, in riferimento al punto di vista valutativo  dominante, il fatto che si tratta di oppressori e oppressi, di  sfruttatori e sfruttati i quali lottano tra loro ai diversi gradi  dello sviluppo storico. Così si ottengono i princìpi generali  dell’accadere storico, e anche la formazione futura viene parimenti determinata dal valore assoluto, dall’auspicata vittoria  del proletariato sulla borghesia. Nella fase attuale di lotta la  cosa principale, l'elemento decisivo, è la lotta per i beni economici. Perciò nella storia la vita economica dev'essere sempre la  cosa principale, e le epoche della storia devono articolarsi in  base alle diverse formazioni economiche: da ciò deriva la concezione « materialistica », cioè economica. Quanto tutta questa  concezione dipenda da punti di vista valutativi, è cosa che non  richiede un’ulteriore dimostrazione. Che poi non si accontenti  di considerare come elemento essenziale ciò che è riferito al  suo valore assoluto, ma faccia coincidere l'essenziale — secondo un realismo concettuale ingenuo a cui si aggiunge qui  ancora il realismo concettuale nient’affatto ingenuo degli hegeliani — con ciò che è « propriamente reale », e conceda a tutta  la restante vita culturale soltanto un'esistenza di grado inferiore, non cambia in nulla il quadro che abbiamo delineato. Questo errore è tipico delle costruzioni di filosofia della storia che  non sono consapevoli di utilizzare come punti di vista dominanti dei valori, e al tempo stesso serve a mantenere l'oscurità sul  principio direttivo perché, una volta compiuta la separazione  tra due diversi tipi di reale e trovata nella vita economica —  in conseguenza di un platonismo con segno rovesciato — la  «causa vera e propria» di tutti gli altri avvenimenti storici,  deve poi necessariamente sorgere la parvenza che la concezione materialistica della storia constati semplicemente dei fatti,  partendo sempre dalla vita economica intesa come fondamento.  Queste ipostatizzazioni metafisiche dell’elemento economico sono però soltanto esagerazioni, e possono essere eliminate senza  intaccare il nucleo filosofico del materialismo storico. In ogni caso, uno sguardo ai princìpi di valore di questa filosofia della storia fornisce anche il punto di vista da cui deve prendere le  mosse la critica. La questione decisiva consiste nel sapere se sia  legittimo scorgere il valore assoluto nella vittoria del proletariato in campo economico, e quindi in un bene economico. Naturalmente la questione non dev'essere decisa in questa sede. Si  potrà al massimo ritenere fin d’ora poco probabile il fatto che  princìpi di valore ottenuti in base a punti di vista politici di  partito siano adatti anche all’interpretazione del senso della  storia universale. Infatti una quantità sterminata di aspirazioni  e di imprese umane di tutti i secoli appare, da questo punto di  vista, del tutto priva di senso.   Non ci si può tuttavia limitare a queste supposizioni. Proprio l’idea che la filosofia della storia non soltanto deve chiarificare analiticamente i principi delle opere di storia empirica e  delle costruzioni di filosofia della storia, ma deve anche assumere criticamente posizione nei loro confronti non appena questi  princìpi avanzano una pretesa di validità universale, indica  che il compito principale di una scienza dei princìpi storici si  colloca in una direzione del tutto diversa. La critica è possibile  sempre soltanto sulla base di un criterio di valore; inoltre, per  poter definire unilaterale una concezione della storia, si deve  in qualche modo disporre di una concezione onnilaterale. La  dottrina dei princìpi dell’accadere storico si svilupperà quindi  in una scienza autonoma soltanto se nella determinazione dei  princìpi storici aspira tanto alla completezza sistematica  quanto a. una fondazione critica. Essa deve cioè porsi come fine  la determinazione di un sistema di valori; inoltre essa prende  in considerazione non soltanto la valutazione di fatto, ma anc he la questione della validità dei valori culturali, e per questo  ha bisogno di un valore assoluto a cui poter commisurare le  valutazioni effettive. Questo valore fornirà al tempo stesso anche il punto di vista decisivo per la determinazione di un  sistema di valori, cosicché il problema della sistematizzazione e quello della validità dei valori culturali si connettono strettamente tra loro. Ma come la filosofia della storia deve pervenire  a un sistema di valori che renda ad essa possibile interpretare il  senso dell'intero corso storico? Con questa domanda perveniamo all'ultima e più importante questione della dottrina dei  princìpi storici.   Si affaccia qui l’idea di attribuire questo compito a un tipo  particolare di indagine psicologica: certamente non alla psicologia «esplicativa» — sia che si tratti di « psicologia individuale » della vita psichica in generale oppure di psicologia della vita  sociale, condotta secondo un metodo naturalistico — ma soltanto  a una psicologia dei valori culturali. Tutta la storia non solo  tratta essenzialmente di uomini civili, ma è scritta esclusivamente da uomini civili. I valori generalmente riconosciuti dall’uomo civile devono — a quanto sembra — essere nel medesimo  tempo i princìpi di una storia universale dell'umanità civile. È  così possibile concepire una psicologia della cultura che indaghi  il complesso dei valori culturali universali e li rappresenti sistematicamente, fornendo contemporaneamente un sistema dei  princìpi dell’accadere storico in cui trovino il loro posto tutti i  sistemi di valore ottenuti analizzando le opere storiche e di  filosofia della storia, e a cui essi debbano essere commisurati. È  questo in ogni caso il senso più profondo, anzi l’unico, che si  può attribuire all’affermazione che la psicologia dev'essere la  base della filosofia della storia: esso sta anche alla radice dello  sforzo di Dilthey, totalmente incompreso dagli psicologi, per  delineare il programma di una « psicologia descrittiva e analitica» da affiancare alla psicologia esplicativa. Per quanto suggestiva possa apparire l’idea di procurare in questo modo alla  filosofia della storia un fondamento puramente empirico, e  quindi sicuro, la sua realizzazione incontra una difficoltà insuperabile. Questa psicologia della cultura non può limitarsi all’indagine « dell’uomo civile » nel senso di accertare e sistematizzare le valutazioni comuni a tutti gli uomini civili, poiché  da questo procedimento generalizzante deriverebbe un sistema  di valori estremamente povero, in cui potrebbero essere contenuti soltanto pochi dei princìpi di una storia dell’universo storico. La psicologia della cultura dovrebbe piuttosto rivolgersi  alla vita storica stessa in tutta la sua pienezza e molteplicità, per conoscere tutti i valori culturali; e come potrebbe pervenire  in questo modo a punti di vista che rendano possibile un’articolazione e un dominio di questo materiale? Per separare entro  la molteplicità della valutazione l’essenziale dall’inessenziale,  essa dovrebbe già possedere ciò che deve invece cercare: la  conoscenza dei valori che sono princìpi di una storia universale  e princìpi dello stesso universo storico. Così la psicologia della  cultura come filosofia della storia entra in un circolo da cui  non può sfuggire.   Non è possibile avvicinarsi al fine di una rappresentazione e  fondazione sistematica dei princìpi storici per via puramente  empirica, attraverso la mera analisi delle valutazioni effettive.  Occorre piuttosto in primo luogo riflettere, prescindendo del  tutto dalla molteplicità del materiale storico, su ciò che vale  assolutamente ed è presupposto di ogni giudizio di valore, ossia  che pretende a una validità più che individuale. Soltanto quando si siano trovati valori validi atemporalmente si può riferire  ad essi tutti quanti i valori culturali empiricamente constatabili, che si sono sviluppati nel corso della storia, e tentare così  una disposizione sistematica e al tempo stesso una presa di  posizione critica. Solamente se è possibile ottenere valori soprastorici, si può allora realizzare una filosofia della storia come  scienza particolare dei princìpi dell’universo storico e interpretare il senso della storia dell’universo. Ma la riflessione sui valori  sopra-storici non appartiene più al campo della filosofia della  storia come disciplina filosofica particolare; essa può venir intrapresa soltanto in connessione con la determinazione di un sistema filosofico in generale. La filosofia della storia come dottrina  dei principi viene così a dipendere dal complesso delle indagini filosofiche, in particolare dalla dottrina del senso del mondo  o — nel caso che tale questione non sia una questione scientifica — dalla dottrina del senso della vita umana. I fondamenti  della filosofia della storia coincidono pertanto con i fondamenti di una filosofia come scienza dei valori in generale.   L'indagine volta a determinare il concetto della filosofia  della storia come dottrina dei princìpi storici in generale può  essere condotta soltanto fino a questo punto. Non si può qui  rispondere alla questione se la determinazione di valori assoluti possa ancora rientrare nei compiti della scienza, poiché essa è identica alla questione riguardante il concetto di filosofia  scientifica in generale. Qui importava solamente mostrare che  le leggi non possono essere princìpi della storia, e quindi mostrare che, se possono ancora esserci problemi di filosofia della  storia al di fuori della logica della storia, questi devono riassumersi nella questione del senso della storia, e inoltre che l’interpretazione di questo senso richiede ancora un criterio di valore  fornito di validità sopra-storica. Si deve ancora aggiungere che  la filosofia come scienza critica e sistematica dei valori non ha  bisogno di presupporre come criterio nessun valore assoluto determinato dal punto di vista del contenuto. Anche se si riesce  soltanto a ottenere un valore incondizionato puramente formale, si può tuttavia trarre l’intero contenuto del sistema dei  valori dalla vita storica, per quanto questa sia asistematica per  definizione. Anzi, la filosofia della storia che ricerca il senso  della storia dovrà servirsi di princìpi di valore puramente formali, proprio perché questi devono essere tali da valere per  tutta la vita storica. Certamente, in base a questo presupposto  si può concepire un sistema di valori che possegga completezza  sistematica soltanto sotto il profilo formale, mentre riguardo al  contenuto non può mai essere concluso perché la vita storica  continua a svilupparsi e quindi sorgono valori culturali sempre  nuovi, determinati nel contenuto, i quali devono trovare la loro  collocazione nel sistema. Perciò il sistema di valori può essere  definito sistematico in riferimento al suo contenuto soltanto  nella misura in cui la conclusione sistematica ci si presenta  come un compito altrettanto necessario quanto insolubile, e  l'oggetto della filosofia come scienza dei princìpi risulta pertanto un’« idea » nel senso kantiano — come sempre avviene quando l'oggetto è l’incondizionato nella pienezza del suo contenuto. Alla realizzazione dell'idea di un siffatto sistema di valori  dovrebbero quindi contribuire tutte le epoche, con la coscienza  che esse non potranno mai condurlo a termine. Ciò non cancella però il significato di questo lavoro. Al contrario, chi si  decide a compierlo trarrà coraggio tanto da uno sguardo sul  passato quanto da uno sguardo verso il futuro. Se prescindiamo  dai problemi che nel corso dei secoli si sono svincolati dalla  filosofia e sono stati attribuiti alle scienze particolari, ne risulta  che tutti i filosofi importanti hanno cercato di lavorare in vista di un sistema di valori nel senso sopra indicato, poiché tutti  hanno indagato sul senso della vita, e già questa domanda  presuppone un criterio assoluto di valore. Essi devono quindi  venir considerati tutti come precursori. Ma il fatto che a tale  questione fondamentale per ogni filosofia non soltanto non si è  ancora risposto, ma non si potrà neppure mai rispondere con  una completezza di contenuto, finché sorgerà nuova vita storica, costituisce appunto soltanto un motivo che accresce l’importanza del lavoro diretto a risolverlo: infatti la coscienza tanto  della grande necessità quanto dell’insolubilità di un compito ci  dà la sicurezza della sua «eternità », e quindi il conforto fichtiano che coloro i quali collaborano alla soluzione della questione diventano, in virtù del loro lavoro, «eterni» come lo è il  compito stesso. Ora possiamo finalmente rivolgerci ai problemi della terza  disciplina che pretende il nome di filosofia della storia. Essa  vuol fornire, in antitesi alle scienze storiche particolari, una  storia universale, cioè rappresentare il « mondo » storico o l’universo storico. Come può conseguire il suo fine? Il suo compito  consiste forse nell’abbracciare in una totalità le rappresentazioni delle scienze particolari e — se per questa via non è possibile  ottenere una totalità realmente conclusa — nel riempire con  costruzioni più o meno ipotetiche le lacune che la ricerca delle  scienze particolari lascia ancora nella storia universale? Un semplice riassunto non può avere valore come lavoro scientifico  autonomo, e il tentativo di formulare supposizioni laddove lo  sguardo dello specialista non perviene a ipotesi realmente fondate susciterebbe lo scherno di tutti gli storici. Una filosofia della  storia del genere è superflua se non altro per il fatto che la  storia universale viene scritta dagli storici stessi. Come la filosofia in generale non ha più, in quanto scienza dell'essere, compiti autonomi che si riferiscano alla realtà empirica da quando  su ogni campo specifico della realtà ha avanzato le sue pretese  una scienza particolare, così una conoscenza complessiva della  totalità storica, la quale si distingua dalle indagini scientifiche particolari soltanto per il fatto di non limitarsi a una parte,  non può certamente essere più compito della filosofia della  storia. Non soltanto la rappresentazione di ambiti storici particolari, ma anche la storia universale dev'essere — come scienza  storica — lasciata esclusivamente agli storici, che ne sono i  soli competenti, nello stesso modo in cui soltanto gli addetti  alla ricerca empirica possono accertare scientificamente qualcosa in merito all’essere della natura, in generale come in particolare. La filosofia si renderebbe ridicola se credesse di poter fare  in questo campo più delle scienze.   Ma con ciò il problema di una trattazione filosofica del  materiale rappresentato dal complesso delle scienze storiche empiriche è tutt'altro che deciso. Anche se considera non soltanto  le forme ma altresì il contenuto della totalità storica, la filosofia ha nei confronti di essa un compito che non può essere  affrontato da nessuna scienza storica empirica; e proprio la  circostanza che la storia universale viene scritta in modo puramente storico da storici può servire alla determinazione di  questo compito filosofico. Cerchiamo quindi, in base alla comprensione dell'essenza logica della scienza storica, di chiarire  anzitutto il concetto di una rappresentazione empirica della  storia universale, e poi di vedere quali questioni, a cui gli  storici non possono in quanto tali dare una risposta, rimangano  ancora alla filosofia.   La «storia universale » — così come l’ha scritta per esempio  Ranke — non si distingue affatto nel modo dalla rappresentazione di oggetti particolari; e così ha voluto, del resto, il suo  autore. Egli era anzi convinto — come riferisce Dove? —  che «in ultima analisi non si può scrivere nient'altro che  storia universale »; e in ogni caso la «storia universale» è  scaturita in Ranke dal lavoro scientifico particolare, senza l’aggiunta di un principio nuovo. Per noi è qui soprattutto importante considerare che cosa Ranke, come storico, intenda per  «mondo » storico, cioè per la totalità di cui egli tratta. In un  passo egli dice che l'impulso alla conoscenza viene trascinato    25. La frase citata da Rickert si trova negli Aufsétze und Veròffentlichungen zur  Kenntnis Ranke, in Ausgewihlte Schriften vornelimlich historischen Inhalts, Leipzig. ad abbracciare l’intero ambito dei secoli e degli imperi dalla  convinzione che nulla di umano gli è distante ed estraneo. Ma,  di fatto, Ranke è ben lungi dal trattare nella sua storia universale di tutti i secoli e di tutti gli imperi, e non l’avrebbe fatto  neppure se gli fosse stato concesso di portare a termine la sua  opera. Egli stesso lo osserva quando dice che, se la vocazione  di Alessandro non fosse stata quella di attraversare l’India e di  scoprire la parte orientale dell'Asia, questa regione « per secoli  ancora non sarebbe entrata a far parte dell'ambito della storia  universale ». L’« universo» di Ranke può essere determinato  soltanto come una parte della storia dell'umanità a noi nota, e  non come l’ultima più comprensiva totalità storica in senso  logico; anzi, la sua esigenza di una trattazione storico-universale del materiale storico consiste essenzialmente solo nel fatto  che egli non vuole limitarsi a un popolo singolo, ma seguire le  connessioni che i diversi popoli appartenenti a un determinato  ambito culturale stringono tra di loro. Non soltanto Ranke non  ha mai tentato di fatto di stabilire concettualmente l’universo  storico, ma neppure poteva tentarlo, se voleva restare uno storico. In primo luogo, un compito di questo genere può essere  risolto soltanto con l’ausilio di un sistema di valori culturali nel  senso già indicato, dalla cui determinazione lo storico è quanto  mai lontano; in secondo luogo il «senso storico» deve fare  resistenza non soltanto alle leggi storiche, ma a ogni altra  specie di sistematica, poiché questa lo priverebbe della libertà e  dell’ampiezza di considerazione di cui ha bisogno per un apprendimento impregiudicato di ogni avvenimento storico nel  suo carattere specifico. Perciò tutti gli storici, anche quando  scrivono di storia universale rimanendo tuttavia storici, non  procederanno in linea di principio in maniera diversa da Ranke. Tale supposto difetto è stato di recente sottolineato decisamente in una «storia universale» su base «etno-geografica ».  Ma questo tentativo di trattare storicamente suite le parti della  terra ha realmente cambiato qualcosa da un punto di vista di  principio? Esso non può valere, in ogni caso, come delimitazione sistematica dell’universo storico. Anzi, ciò che la storia guadagna in generalità esteriore e quantitativa, va necessariamente  perduto come unità interna, perché il principio direttivo non è  un concetto culturale. L’inevitabile « difetto » di ogni rappresentazione puramente  storica della storia universale ci indica al tempo stesso i compiti di una trattazione filosofica dell’universo storico. In antitesi alla storia, la filosofia non rinuncerà mai alla tendenza  alla sistematizzazione. Ovviamente, finché si tratta di fatti storici essa deve sempre appoggiarsi alla scienza storica empirica e  sottomettersi senza condizioni alla sua autorità. Ma per il resto  può vedere in tutte le rappresentazioni puramente storiche,  incluse le più ampie, soltanto del materiale che essa elabora  sistematicamente a modo suo. Certamente, essa può farlo solo  se ha risolto in misura maggiore o minore il suo compito di  scienza dei princìpi. Ma se è pervenuta anche soltanto all’inizio di un sistema criticamente fondato dei valori culturali, nel  senso prima indicato, la filosofia può apprendere anche il contenuto della storia in modo tale che non ne derivi un sistema di  concetti generali come in una scienza generalizzante, ma una  delimitazione e articolazione sistematica dell’universo storico.  Per quanto riguarda la delimitazione, nel concetto di totalità  storica ultima rientra così tutto ciò che è essenziale, per la  sua individualità, in riferimento ai valori culturali universali  suscettibili di venir fondati criticamente, e quindi più che empirici. Certamente, l’universo storico che sorge in questo modo  può essere soltanto un’« idea » in senso kantiano, cioè non può  mai essere definitivamente concluso — al pari del sistema dei  valori culturali — dal punto di vista del contenuto; esso appartiene quindi — per dirla con Medicus* — alla « dialettica  trascendentale » di una critica della ragione storica. Ma questa  circostanza non esclude l’autonomia della sua trattazione sistematica, in quanto filosofia della storia. Anzi, la relazione al  sistema di valori permette al tempo stesso un'articolazione della totalità storica: è cioè possibile delimitare reciprocamente  determinate parti come suoi elementi più importanti, come le    26. Fritz Medicus (1876-1956), filosofo tedesco, autore di uno studio sulla  Kants Philosophie der Geschichte (1902) e di importanti lavori sulla vita e sul pensiero di Fichte, nonché di varie opere teoriche come le Grundfragen der Aestetik  (1917), Die Freiheit des Willens und ihre Grenzen (1826), Macht und GerechtigKeit, Vom Wahren, Guten und Schònen (1943), nonché editore delle opere  di Fichte. Rickert sì riferisce al saggio Kant und Ranke, «Kantstudien. sue «epoche » o i suoi « periodi », ordinandole in modo che il  senso della storia non si esprima soltanto in un’astratta formula  di valore, ma anche nella rappresentazione dello sviluppo stesso. In una filosofia della storia siffatta anche la selezione di ciò  che è essenziale deve distinguersi da quella che compiono le  scienze empiriche: infatti non appena si considerano non già  tutti i valori culturali forniti di universalità empirica, ma soltanto quelli che hanno trovato la loro fondazione nel sistema  dei valori, la ricchezza dei particolari storici retrocederà e si  parlerà soltanto delle « grandi» epoche o periodi.   Dove si vogliano scorgere i rappresentanti di queste epoche  — se in singole personalità o in movimenti di massa — può  naturalmente essere deciso, ancora una volta, soltanto caso per  caso. Così pure non si può rispondere pregiudizialmente rispetto all’ ‘indagine storica alla questione se gli elementi più comprensivi del processo di sviluppo singolare siano le diverse epoche che si susseguono, oppure le diverse individualità dei popoli che in parte cooperano nel medesimo tempo. Qui importa  soltanto chiarire il carattere sistematico di una trattazione filosofica dello stesso oggetto che le scienze storiche trattano storicamente, e distinguere in tal modo nettamente la filosofia della  storia dalle scienze storiche empiriche. Anche con la storia la  filosofia, nel senso sopra indicato, deve procedere astoricamente. Perciò Ranke aveva ragione quando si sentiva in opposizione alle costruzioni di storia universale intraprese dai filosofi, e  temeva un’irruzione della filosofia nel campo dello storico. T'uttavia egli non ha reso giustizia, nel suo giudizio, alla filosofia  della storia, perché sentiva questa differenza più che formularla  concettualmente in modo netto. Egli stesso ha cercato — se non  nella Weltgeschichte, almeno nelle conferenze Uber die Epochen der neueren Geschichte — qualcosa che si accosta per un  certo verso a una filosofia della storia. Ma questa rappresentazione è impostata in modo troppo storico per essere una filosofia e si presenta quindi come una forma di trapasso o una  forma mista, che evidentemente non perde affatto il valore  come manifestazione di una personalità geniale, ma che tuttavia, riguardo alla sua struttura logica, dev'essere definita appunto come una forma di trapasso. Essa vuole cioè essere per un  certo verso sistematica, e nel medesimo tempo non riconosce in parte i presupposti di cui nessuna sistematica di filosofia  della storia può fare a meno. In tal modo essa dimostra quanto  sia necessario distinguere concettualmente in modo netto tra  scienza storica empirica, non sistematica, e filosofia della storia. Se ciò è avvenuto, e se il filosofo della storia rinuncia a  fare irruzione nelle scienze storiche, la sua considerazione sistematica dello sviluppo storico complessivo possiede un diritto  incontestabile 4ccazzo alla rappresentazione storica e non sistematica della vista storica.   Ma affinché tale distinzione, e al tempo stesso anche la  necessità di questo tipo di filosofia della storia risulti perfettamente chiara, bisogna ancora prendere in considerazione un  secondo punto, che è connesso nel modo più stretto con l’aspirazione alla sistematizzazione. All'essenza del senso storico non  appartiene soltanto la mancanza di sistematicità; l’apprendimento impregiudicato del corso storico presuppone anche una  fede nel « diritto » di ogni realtà storica. Perciò lo storico deve  cercare, in quanto storico, di astenersi da un giudizio di valore  diretto sui suoi oggetti, e la logica della storia deve pertanto  separare nettamente la relazione teoretica di valore dalla valutazione pratica. Invece la filosofia, che deve assumere criticamente posizione nei confronti dei valori culturali, non sa nulla di  un «diritto» proprio dell'elemento storico in quanto tale; in  modo altrettanto deciso di quello in cui riconosce il procedimento puramente storico dell'indagine specifica, lo storicismo  come intuizione del mondo appare ad essa un’assurdità. Questo storicismo, che si crede così positivo, si manifesta come  una forma di relativismo e di scetticismo e, se pensato fino in  fondo in modo coerente, può condurre al nichilismo completo.  Si sottrae a quest'apparenza soltanto perché rimane aderente a  una qualche struttura della molteplicità storica, collegando ad  essa il « diritto di ciò che è storico» e traendone quindi una  ricchezza di vita positiva. Ciò lo distingue sì dal relativismo e  dal nichilismo formulati in modo astratto, ma in linea di principio non lo innalza affatto al di sopra di questi. Se fosse  coerente, esso dovrebbe concedere a qualsiasi essere storico il  diritto di ciò che è storico; ma non è in grado di aderire a  nulla, proprio perché dovrebbe aderire a tutto. In quanto intuizione del mondo, esso assume come principio la completa assenza di princìpi, e quindi dev'essere combattuto nel modo più  deciso dalla filosofia della storia.   Nella concezione dell’universo storico l'opposizione allo storicismo si manifesta nel fatto che la filosofia della storia abbandona la considerazione storica, riferita ai valori in modo puramente teoretico, in favore della valutazione critica. Che cosa  ciò significhi, risulta chiaro nel modo migliore per il fatto che  così riacquista il suo diritto il concetto di progresso. Tale categoria non appartiene certamente ai princìpi della scienza storica empirica. Al pari della relazione a un sistema di valori,  questa categoria eliminerebbe la valutazione impregiudicata dei  processi storici nel loro carattere specifico e toglierebbe sovranità — come Ranke ha giustamente detto — al passato. La  filosofia della storia, invece, non può fare a meno di questa  categoria se vuol superare il nichilismo storicistico. Essa deve  giudicare, in connessione con l’articolazione dell’universo storico, i diversi stadi del processo di sviluppo singolare con riguardo alla funzione che essi hanno assolto per la realizzazione dei  valori criticamente fondati. A tale scopo la filosofia della storia  deve non soltanto togliere sovranità al passato — in consapevole antitesi rispetto alla considerazione puramente storica — in  vista del presente e del futuro, ma deve pure giudicarlo, cioè  commisurare il suo valore a ciò che dev'essere. Ovviamente,  alla questione se il corso della storia rappresenti ovunque, o  anche soltanto in alcune parti, una serie progressiva continua o  un incremento di valore, può rispondere solo l’indagine stessa.  All’inizio sussiste la possibilità sia di un regresso continuo sia  di un’oscillazione in su e in giù, cioè di un'alternativa di  progresso e di irrigidimento. Si può anzi pensare che nella  vita storica non sia possibile mostrare, in riferimento ai valori,  né un avanzamento né una decadenza. Ma, quale che possa  essere la decisione in proposito, in ogni caso tutti i filosofi che  si sono realmente occupati in modo individualizzante di storia,  cioè dello sviluppo culturale umano, e non hanno soltanto cercato come sociologi le leggi della vita sociale, si sono accinti  alla considerazione del corso storico impiegando un criterio di  valore; e soltanto così hanno potuto articolare e giudicare le  epoche dell’universo storico. Anche un filosofo come Schopenhauer, che non voleva saperne di filosofia della storia perché lo sviluppo storico non mostrava ai suoi occhi alcun progresso  e gli pareva quindi completamente privo di senso, ha contribuito a una filosofia della storia nel senso sopra indicato; e soltanto per il suo risultato puramente negativo — ma non riguardo  alla posizione del problema della filosofia della storia — è  differente, in linea di principio, dagli altri filosofi della storia.  Il carattere sistematico e al tempo stesso valutativo della trattazione filosofica dell’universo storico può rimanere poco chiaro  soltanto dove, come spesso avviene, non si è in grado di distinguere tra essere e dover essere, tra realtà e valore, oppure  dove, a causa della diffidenza dominante contro la fondazione  scientifica dei valori, ci si azzarda solo in modo celato a esprimere giudizi di valore, per suscitare la parvenza di una trattazione puramente contemplativa. La ricerca dei giudizi di valore e  la dimostrazione della loro sostanziale inevitabilità diventano, a causa dell’oscurità e dell’indeterminatezza oggi molto  diffuse in questo campo, un compito tanto più urgente della  filosofia.   Queste considerazioni hanno però soltanto lo scopo di mostrare quale compito si pone alla filosofia accanto alle scienze  storiche empiriche, non appena essa può presupporre come idea  un sistema di valori culturali. Un’indicazione in proposito sarebbe possibile soltanto in connessione da un lato con un sistema filosofico e dall'altro con i risultati delle scienze storiche  — cosa che non si può dare in questa sede. Perché l’esposizione  non rimanga troppo schematica, gettiamo ora uno sguardo indietro sul passato della filosofia della storia. Una comparazione dei concetti prima enunciati di universo storico e di una  storia universale di carattere filosofico, che ne deriva, con la  configurazione attuale — ancor oggi sostenibile — di questa  disciplina può forse servire nel modo migliore a illuminare la  situazione odierna. Inoltre, collegarsi al passato è qui vantaggioso anche perché ora abbiamo a che fare con /a forma dei  problemi in cui la filosofia della storia ha occupato inizialmente e prevalentemente gli uomini, e perché occorre nello stesso  tempo mostrare, mediante uno sguardo retrospettivo, quanto  poco arbitrario sia il mostro modo di considerare la filosofia  della storia, orientato in base alla logica. Ne risulterà infatti  che anche per questa via arriviamo alla fine ai problemi che sono stati una volta i problemi principali della filosofia della  storia.   È stato sovente sottolineato — e l’ha mostrato soprattutto  Dilthey — che, se non il concetto di storia in generale, almeno  quello di universo storico era estraneo ai Greci, e che soltanto  il Cristianesimo ha reso possibile l’idea di una « storia universale » nel senso rigoroso del termine. Decisiva è qui la rappresentazione dell’unità del genere umano. Nel suo aspetto principale, essa appare prodotta dalla relazione delle sue diverse parti  con Dio: infatti tutti i popoli devono cercare Dio, e in tal  modo il genere umano nel suo sviluppo singolare assurge all’idea di una totalità conclusa. Dio ha creato il mondo e gli  uomini, e tutti gli uomini discendono da una sola coppia. Così  la storia universale ha inizio in un determinato momento del  tempo, e terminerà col giudizio universale. Quest'ultimo decide  in quale misura lo sviluppo abbia assolto il suo compito di  esprimere il suo significato. Peccato originale e redenzione sono  i due termini che articolano le epoche di questo processo in  modo tale che ne scaturisce una serie di gradi di sviluppo. È  chiaro come su tale base sia possibile delineare una storia universale in cui ogni avvenimento, che è significativo in riferimento  al senso della storia, diventa elemento della totalità, grado di  sviluppo di una connessione unitaria.   Manca però, per completare il quadro nei particolari, un  elemento essenziale. Per quanto all’inizio nella filosofia cristiana ci si dia poca pena dei problemi del mondo esterno, le  rappresentazioni religiose si legano gradualmente nel modo più  intimo con una determinata immagine del cosmo, tratta essenzialmente dall’antichità. Il corso del tutto è delimitato non  solo temporalmente dalla creazione e dal giudizio universale,  ma anche trasferito su una scena che si può abbracciare spazialmente. Si pensi per esempio al mondo di Dante — un mondo  che può essere disegnato nella sua totalità. Esso forma un  globo in sé concluso, in mezzo al quale sta il teatro della storia universale, la terra. Sopra questo globo, spazialmente  separato da esso, vi è la sede di Dio, a cui sulla terra fa  riscontro Gerusalemme, e così via. Con questi presupposti si  può realmente parlare di una «storia universale » nel senso  rigoroso del termine, e nell’ambito esattamente delimitato di tale rappresentazione si può anche abbozzare un quadro efficace di tale storia universale. Mentre lo sguardo dei pensatori  greci si posava sul ritmo eterno dell’accadere, oppure doveva  rivolgersi all'immagine di un regno di forme soprannaturali,  ma in ogni caso del tutto astoriche e atemporali, ora l’essenza  vera e propria del mondo è vista nello sviluppo singolare del  mondo, riferito a Dio. La molteplicità dei tentativi di filosofia  della storia intrapresi su questo terreno comune non ci riguarda in questa sede. È lampante che il loro concetto e la loro  articolazione dell’universo storico mostrano logicamente la medesima struttura del concetto prima esaminato e dell’articolazione della totalità storica ultima; e che, in particolare, i loro  princìpi fondamentali siano concetti di valore risulta chiaro già  considerando il loro carattere filosofico-religioso — Dio è il  valore assoluto. La storia universale vuol essere una specie di  « giudizio universale », e proprio in un senso che questo termine non ha in Schiller. Essa vuol fornire in maniera provvisoria  un conto del valore del corso storico, che deve poi essere saldato in modo definitivo da Dio nel giudizio universale.   Qui ci interessa inoltre stabilire che cosa ha tolto il terreno  a tutti questi tentativi di filosofia della storia. Si tratta in larga  misura della trasformazione, avvenuta all’inizio del mondo moderno, delle rappresentazioni del cosmo — di quella trasformazione ancora oggi importante perché ha creato in linea di  principio l’immagine del mondo che dobbiamo ritenere definitiva, e in ogni caso l’unica finora scientificamente sostenibile.  Come ha mostrato soprattutto Riehl ”’, qui non è decisiva tanto la  sostituzione del punto di vista geocentrico con quello eliocentrico, poiché mutando la posizione della terra entro l'universo si  sarebbe ben potuto concludere un compromesso. Decisiva è piuttosto la distruzione dell’idea diun cosmo chiuso, che si può  abbracciare con un solo sguardo. La dottrina dell’infinità del  mondo di Giordano Bruno fu lo scoglio su cui doveva naufragare ogni filosofia della storia che voleva essere « storia universa- Richl, filosofo austriaco, autore di Redlistische Grundziige  (1870), di Moral und Dogma (1871), di Uber Begriff und Form der Philosophte (1872),  di un'ampia opera su Der philosophische Kritizismus und scine Bedeutung fiir die  positive Wissenschaft, di Zur Einfàhrung in die Philosophie der Gegenwart  (1903), nonché di vari volumi storici su Kane, Nietzsche, ecc. le » nel senso rigoroso del termine. Di ciò che è temporalmente  e spazialmente illimitato vi è soltanto scienza di leggi; e la  storia universale perde così per sempre il suo significato vero e  proprio. Nel medesimo tempo diventa problematico anche il  concetto di una totalità storica in generale, e non sembrano  esserci vie di soluzione. Anche la storia del « mondo» umano  non è più quell’unità necessariamente riferita, nella sua individualità, al valore assoluto. Il suo teatro, la terra, ha perduto il  suo significato nel cosmo infinito. Essa è diventata l’esemplare  indifferente di un genere, e altrettanto indifferente diventa,  nella prospettiva di una scienza di leggi, tutto quanto di singolare e di particolare avviene su di essa. È importante sottolineare che tutte queste trasformazioni sono avvenute, in linea di  principio, per opera delle dottrine di Copernico e di Giordano  Bruno e non già — come molti ritengono — per opera della  biologia moderna. La teoria dell’evoluzione ha certamente un  valore straordinario per la scienza. Abbiamo prima mostrato  che essa non è in grado di fornire princìpi filosofici positivi  per una considerazione storica; dobbiamo ora aggiungere che  essa non trova più da distruggere gli elementi essenziali della  vecchia filosofia della storia, almeno per chi abbia anche soltanto pensato fino in fondo l’idea dell’illimitatezza temporale del  mondo. Tra le scienze naturali è stata quindi realmente importante per le questioni relative all’intuizione del mondo non già  la biologia ma l'astronomia, e anche quest’ultima ha semplicemente avuto un significato negativo, almeno per i problemi di  filosofia della storia.   Possiamo anzi dire che il passo decisivo per la nuova svolta  positiva nella trattazione dei problemi di filosofia della storia  era già stato compiuto prima che la biologia evoluzionistica fosse  giunta anche soltanto ai suoi inizi: infatti questa trasformazione  prendeva le mosse — come sempre accade quando si tratta dei  fondamenti ultimi del nostro pensiero filosofico — da Kant,  che oggi si crede in modo alquanto sorprendente di poter confutare con il darwinismo, cioè partendo dalla funzione del  tutto particolare presente nella connessione tra problemi gnoseologici e problemi etici. Kant stesso ha paragonato la sua teoria  della conoscenza all'impresa di Copernico, e noi possiamo segu ire questo paragone anche in un’altra direzione. L'idealismo trascendentale ha significato, proprio in virtù del « punto di  vista copernicano », una conversione nella via che la filosofia  credeva di dover imboccare sulla base della nuova immagine  del mondo fornita dall’astronomia: una conversione, però — e  questo è l'elemento decisivo — la quale lascia del tutto intatta  la nuova immagine del mondo e ciononostante rende possibile  riprendere i vecchi problemi. Grazie a Kant l’uomo viene posto di nuovo — con il pieno riconoscimento della moderna  scienza della natura — al «centro» del mondo: certamente  non in senso spaziale, ma in modo ancor più significativo per  i problemi della filosofia della storia. Ora tutto «gira» nuovamente intorno al soggetto. La «natura» non è la realtà  assoluta, ma è determinata nella sua essenza universale da  forme di apprendimento soggettive, e proprio la totalità « infinita» del mondo non è che un’«idea » del soggetto, l’idea  di un compito a lui necessariamente posto, ma nello stesso  tempo insolubile. In virtù di questo « soggettivismo » i fondamenti della scienza empirica della natura risultano non soltanto intatti, ma addirittura più saldi; completamente sepolti sono invece i fondamenti del naturalismo come intuizione del  mondo che rifiuta ogni senso a ciò che è storico. Questo lavoro  di distruzione, che sgombra anzitutto la via dagli impedimenti  che si frappongono a concepire un essere come storia, è tanto  più importante in quanto, dato lo stretto legame della teoria  della conoscenza con l’etica, comporta immediatamente la fondazione di una costruzione positiva di filosofia della storia.  L'uomo non sta al centro della « natura » solamente con la sua  ragione teoretica, ma si comprende al tempo stesso, con la sua  ragione pratica, come ciò che dà un senso oggettivo alla vita  culturale, cioè come personalità consapevole del dovere, autonoma, «libera»; e questa ragione pratica possiede il primato.  Che cosa può ancora significare di fronte a questo il fatto che  il teatro della storia rappresenta spazialmente e temporalmente  una piccola particella destinata a scomparire, posta in un punto  qualsiasi dell'universo? Per il soggetto autonomo, teoricamente  e praticamente « legislatore », questi rapporti spaziali e temporali sono ora diventati del tutto indifferenti nella trattazione  delle questioni di valore. Nell'indagine della « natura », inclusa  la vita psichica, l’uomo autonomo lascia piena libertà alla scienza che ha distrutto la vecchia immagine del mondo. Ma egli  non concederà mai che questa scienza concernente l'essere  delle cose abbia qualcosa da dire sul valore o sul disvalore, sul  senso o sulla mancanza di senso del corso del mondo, poiché è  assolutamente certo — in quanto ragione pratica — della sua  « libertà », che costituisce il senso autentico del mondo e della  sua storia.   Kant non ha creato egli stesso un sistema di filosofia della  storia, ma sulla base del suo pensiero ne sono sorti uno dopo  l’altro, e in ciò dobbiamo riconoscere certo un'influenza non  inessenziale. Il corso singolare dello sviluppo dell'umanità ha  nuovamente potuto essere concepito — con l’aiuto dei concetti  assoluti di ragione e di libertà — come unità, e venir articolato nei suoi diversi stadi in modo tale da misurare ogni stadio  in base al suo contributo specifico alla realizzazione del senso  del mondo. Questa possibilità di acquisire di nuovo un rapporto positivo con la vita storica è ciò che conferisce alla filosofia dell’idealismo tedesco il suo significato predominante  e intramontabile per il futuro che possiamo prevedere. Una  filosofia che ne sia in linea di principio incapace potrà sì  compiere qualcosa di significativo per problemi specifici, ma  non produrrà mai un'intuizione del mondo veramente comprensiva, soddisfacente per gli uomini civili, e tanto meno potrà avanzare la pretesa di essere progredita al di là della filosofia dell’idealismo tedesco. Dominato dall’idea che lo scopo della vita terrena dell’umanità sia quello di orientare con la libertà tutti i suoi rapporti secondo ragione, Fichte ha costruito  filosoficamente, per la prima volta dopo Kant, la «storia universale » come totalità unitaria; e anche Hegel ha abbozzato  in base al concetto di libertà il suo sistema di filosofia della  storia, che abbraccia molto più delle postume Vorlesungen,  raggiungendo in tal modo il culmine — ancor oggi per molti  versi incompreso — di questo tipo di considerazione filosofica  della storia. Non possiamo addentrarci qui nel contenuto del  suo sistema; e neppure importa sottolineare le differenze che  separano tra loro i concetti di libertà di Kant, di Fichte e di  Hegel. Qui importa soltanto che la filosofia dell’idealismo tedesco ha trovato un concetto di valore incondizionato che le ha  permesso di trattare filosoficamente, nel modo che si è detto, la totalità del corso storico, che questo concetto di valore era al  tempo stesso abbastanza formale da servire come punto di riferimento per la storia universale — come viene grandiosamente  espresso soprattutto da Hegel — e infine che non c’era più  bisogno, almeno in linea di principio, di presupposti del tipo  di quelli adoperati dalla filosofia della storia distrutta dalla  moderna scienza della natura. Per la filosofia della storia del  nostro tempo sorge così la questione se sia possibile, sul terreno dell’idealismo fondato da Kant e nel pieno riconoscimento  di tutti i risultati della moderna scienza della natura, trovare  anzitutto un punto di vista valutativo che consenta di trattare  filosoficamente la storia universale, e quindi pervenire a una  filosofia della storia che in linea di principio mostri — con  riferimento al sapere storico del nostro tempo, e mantenendo  intatta ogni diversità di contenuto — la stessa struttura formale dei sistemi di filosofia della storia di Fichte e di Hegel.   Ma con questo, e proprio richiamandoci a quei pensatori, il  problema di una trattazione filosofica dell’universo storico non  sembra ancora sufficientemente chiarito. La filosofia della storia dell’idealismo tedesco è sì indipendente dalle dottrine della  scienza naturale, ma proprio per questo è tanto più dipendente  da presupposti sull'essenza merafisica che sta alla base del  «mondo fenomenico » della storia. Già la dottrina della libertà  di Kant è connessa con il suo concetto metafisico di un carattere intelligibile, e in Hegel appare del tutto chiaro quanto la  sua filosofia della storia sia fondata metafisicamente. È possibile svincolare la filosofia della storia dalla metafisica, oppure  essa presuppone sempre due specie di essere, cioè un mondo dei  fenomeni in cui si svolgono gli avvenimenti storici e un mondo  della realtà vera, posta al di là dei fenomeni, a cui gli avvenimenti storici devono essere riferiti se devono raccogliersi in uno  sviluppo unitario e articolato? Soltanto ora siamo pervenuti al  punto decisivo, e in virtù della connessione che lega tra loro i diversi problemi di filosofia della storia l’importanza di tale questione risale ancora più indietro. Abbiamo scoperto che l’interpretazione del senso generale della storia presuppone l’idea di un  sistema di valori incondizionati, a cui sia possibile commisurare i  valori culturali forniti di generalità empirica. Questo sistema  non sarà forse realmente fondato soltanto se lo si è ancorato —  per così dire — metafisicamente e si può quindi essere certi che  l’essere storico, nel suo fondamento metafisico, è anche disposto alla realizzazione di ciò che dev'essere? Anche per la scienZa storica empirica i presupposti metafisici sembrano indispensabili. Vi sono pensatori a cui la storia appare come qualcosa di  « spettrale » finché i suoi oggetti, e in particolare le personalità  storiche, vengono considerati semplicemente come realtà immanenti. Quelle che agiscono sul teatro della storia devono essere  anime dotate di essenza, metafisiche, e noi dobbiamo poterle  pensare in certa misura inserite in una grande connessione  « spirituale », che si innalza al di sopra delle anime singole e  di cui nulla sa Ia semplice esperienza, ma che costituisce il  sostegno dei valori incondizionati e senza la quale tutta la  storia sarebbe un disordine senza senso, che non avrebbe nessun  significato indagare.   È necessario almeno accennare a una presa di posizione  anche nei confronti di questi problemi; e noi cominciamo con  la questione dei presupposti metafisici di cui neppure la scienza storica empirica può fare a meno, perché soltanto così si  può rispondere alla domanda sulla necessità di assunzioni metafisiche per la ricerca del senso della storia e per la trattazione  filosofica della storia universale.   Bisogna in primo luogo ammettere incondizionatamente che  molti storici hanno una fede che, a volerla formulare concettualmente, assumerebbe un carattere metafisico; altrettanto certo è che questa fede contribuisce a far apparire loro veramente  significativa l'indagine della vita storica. Anche qui si può rinviare di nuovo a Ranke, il quale designa le grandi tendenze  della storia come idee di Dio, attraverso cui si realizza il piano  provvidenziale divino; e nel medesimo modo si potrebbe mostrare che altri storici assumono presupposti sovra-empirici.  Non ne sono certamente liberi soprattutto coloro che ritengono  di aver trovato le «leggi di sviluppo» di ogni vita storica:  infatti presso di loro tale fede assume sì, sotto l'influenza della  moda, un abito naturalistico, diventando la fede in concetti di  leggi intesi come forze operanti, ma non per questo cessa di  essere metafisica. Né si può respingere il problema presente in  una fede come quella manifestata da Ranke spiegando che  tutto ciò sta al di fuori della scienza e non esercita la minima    HEINRICH RICKERT 417    influenza su di essa, poiché quest'idea è giusta soltanto nel  senso che la fede — come dice Ranke della sua dottrina delle  idee — non fa mai violenza sulle particolarità della vita storica. Per il resto, anch'essa appartiene ai presupposti della ricerca storica, nella misura in cui vi è presente la convinzione che,  quando conferiamo alla vita storica in genere un significato  «oggettivo », si tratta di qualcosa di più che di un'assunzione  arbitraria.   Ma con questo non si è ancora detto, d'altra parte, che  proprio l'elemento metafisico presente nella fede sia importante a tal fine. Lo storico in quanto storico farà bene in ogni  caso a considerare la sua fede come semplice fede e a guardarsi  dal pericolo di immettere nelle sue indagini una qualsiasi metafisica formulata scientificamente. Egli si porterebbe altrimenti  sul terreno della teoria delle due specie di essere, a cui abbiamo già accennato, e si imbatterebbe subito in grandi difficoltà  se dovesse fare dichiarazioni sul rapporto degli avvenimenti  storici, che si svolgono soltanto nel mondo dell'esperienza, con  la realtà trascendente. Anzi, già l’idea che gli avvenimenti  storici siano semplici « fenomeni» di un essere metafisico ad  essi sottostante non è adatta a far apparire allo storico più  significativa la sua ricerca, ma al contrario gli guasta necessariamente ogni gioia nel suo lavoro. Allo studioso di scienze  naturali può forse essere indifferente che i suoi oggetti siano fenomeni o realtà assolute. Egli li considera soltanto come esemplari di un genere, e i concetti generali di cui va in  cerca mantengono in ogni caso la loro validità. Invece gli  avvenimenti che sono essenziali nella loro individualità perdono il loro significato se non possono venir considerati come  realtà, e se nell’essere immediatamente accessibile alla scienza  non si realizzano anche i valori a cui lo storico riferisce gli  oggetti. L'esigenza di una realtà autentica presente dietro di  essi non deve quindi mai la propria origine a un interesse della  scienza storica. Essa deve piuttosto venir ricondotta agli effetti  di quella strana « teoria della conoscenza » che riduce il mondo  dell’esperienza a mera parvenza, a velo di Maia, affermando  che il suo riconoscimento come realtà condurrebbe al sonnambulismo o — come si dice oggi — all’illusionismo. Per il  pensiero non sfigurato in questa o in analoga maniera la vita data immediatamente non può mai essere un sogno o un fantasma; e lo storico empirico deve in ogni caso attenersi al  mondo accessibile alla sua esperienza. In esso egli deve vedere  l’unica realtà che gli importa come storico, accantonando la  questione del suo « substrato » metafisico.   Ma possiamo arrestarci a un sistema di valori inteso come  definitivo anche se cerchiamo i princìpi della storia e ne interpretiamo il senso? Oppure l’assunzione di una validità incondizionata di questi valori include l'assunzione di una realtà trascendente, e da ciò non deriva per la filosofia — che non può  lasciare in sospeso tali questioni — il compito di determinare il rapporto dei valori con questo mondo metafisico?   Anche qui si deve ammettere che il presupposto di una  validità incondizionata dei valori ci conduce fuori del mondo  immanente, e quindi nel trascendente, e che affinché nulla  rimanga oscuro si deve affermare — nei confronti di una filosofia puramente immanente — la validità di valori trascendenti.  Ma assai poco si è fatto se si crede di dover andare oltre,  spiegando che questi valori indicano anche un qualche essere  trascendente. In primo luogo non ci si può spingere, con buona  coscienza scientifica, oltre questa indicazione del tutto indeterminata; inoltre ogni tentativo di determinare più da vicino la  realtà trascendente deve trarre il proprio materiale dalla realtà  immanente o arrestarsi a pure negazioni. Non c’è bisogno di  dimostrare che non si può asserire nulla di scientificamente  attendibile in merito al rapporto di una realtà del tutto indeterminata, o determinata in modo puramente negativo, con il  mondo immanente. La realtà trascendente rimane quindi un  concetto completamente vuoto e infecondo anche per la filosofia della storia come dottrina dei princìpi. Questa disciplina ha  perciò fatto abbastanza chiarendo a se stessa questo punto e  accontentandosi dell’aspirazione a determinare un sistema di  valori incondizionati. Non si obietti che il concetto di un dover essere trascendente, che è qui presupposto, potrebbe essere  dimostrato vuoto e infecondo con i medesimi argomenti impiegati per il concetto di essere trascendente. Certamente non è  possibile determinare che cosa significa un essere trascendente  se non dicendo che qui si tratta di valori forniti di validità  sopra-storica, atemporale, incondizionata; anche qui il concetto viene perciò acquisito per mezzo della negazione, in quanto  partiamo dal valore condizionato e togliamo ad esso la condizionatezza. Il concetto che ne deriva ha però un significato del  tutto differente da quello che sorge quando, per ottenere il  concetto di essere trascendente, partiamo dal concetto dell’essere immanente e neghiamo la sua immanenza. Con questa negazione togliamo all’essere ogni contenuto, mentre al dover  essere lasciamo il contenuto e gli togliamo soltanto una limitazione, che gli impedisce il pieno dispiegarsi di una tendenza in  esso presente — la tendenza a valere. Questa differenza tra  essere trascendente e dover essere trascendente può forse venir  chiarita nel modo migliore richiamandoci al concetto kantiano  di idea. Kant trasforma appunto il concetto di realtà trascendente nel concetto di dover essere trascendente, stabilendo in  tal modo sia il diritto sia l'illegittimità di una scienza che  aspiri all’incondizionato. La stessa cosa avviene se ci arrestiamo  al dover essere trascendente e rifiutiamo un essere trascendente: proprio la filosofia della storia come scienza dei princìpi  non ha alcun motivo di seguire l’indicazione dei valori trascendenti verso un essere trascendente. Sono, appunto, soltanto valori quelli che essa trova come princìpi della vita storica, e ad  essa interessa solamente la validità dei valori in quanto valori.  Inoltre, questa validità incondizionata deve già essere salda prima che si possa anche soltanto parlare di un’indicazione verso  una realtà trascendente; occorre cioè che l’unico problema significativo per la dottrina dei princìpi storici sia già risolto prima  che si presenti il problema di una realtà trascendente in generale. Perciò anche la filosofia della storia, nella misura in cui ha  a che fare con i princìpi della vita storica, può lasciare in  sospeso i problemi metafisici così come fa la scienza storica  empirica, perché in ogni caso tali problemi non appartengono  a questa parte della filosofia.   Ma che cosa accade allora con la storia universale filosofica  se siamo costretti ad arrestarci, dinanzi alla questione della  realtà trascendente e del suo rapporto con l’essere immanente,  a un won liquet, o addirittura a respingere l’idea di una realtà  metafisica in generale? Forse che la rappresentazione filosofica  sistematica dell’universo storico, la quale non si limita ai  valori ma li pone esplicitamente in collegamento con il contenuto dell’essere storico, non perde ogni senso se in certa misura  avvicina soltanto dall’esterno i suoi valori alla vita storica e  non può affatto presupporre se e come l’essere storico immanente è connesso non soltanto mediante la relazione di valore, ma  anche realmente, con il proprio fine della realizzazione dei  valori? Non c’è dubbio che qui siamo di fronte a un problema  straordinariamente difficile, e che le aspirazioni metafisiche della nostra epoca — così come si esprimono soprattutto nelle  opere di Eucken® — acquistano, da questo punto di vista, un  significato da non sottovalutare anche per la filosofia della storia. Neppure in questo contesto si può certamente ammettere  che il mondo dell’esperienza abbia bisogno di una struttura  metafisica, perché altrimenti il mondo non sarebbe, per così  dire, abbastanza reale e acquisterebbe qualcosa di spettrale.  Infatti, se non possiamo abbracciare abbastanza realtà nell’esperienza immediata, nessun pensiero che si muova in concetti  astratti potrà riempire questa lacuna. Ma — ci si può effettivamente chiedere — la relazione necessaria della realtà storica  con valori incondizionati non presuppone un legame superiore  tra essere e dover essere, e nel medesimo tempo una specie di  realtà che non possiamo più concepire come immanente? Qui  l’idea di una realtà metafisica sembra inevitabile, e quindi la  filosofia della storia appare connessa alla metafisica nel modo  in cui avviene, per esempio, in Hegel.   Ma non dobbiamo forse anche qui dire che con la semplice  idea di un'indicazione verso un legame metafisico dei valori  con la realtà empirica si esaurisce pure tutto ciò che la scienza  è in grado di pensare, e che è del tutto sufficiente assumere una  qualsiasi relazione necessaria — non ulteriormente determinabile — della realtà con i valori? Se consideriamo ancora, per    28. Rudolf Christoph Eucken (1846-1926), filosofo tedesco, autore dei Prolegomena zu Forschungen tiber die Einhcit des Geisteslebens in Bewusstsein und Tat  der Menschhest (1885), del fortunato volume Die Lebensanschauungen der grossen  Denker (1890), di Der Kampf um einen geistigen Lebensinhalt (1896), di Der Wakrheitsgchalt der Religion (1901), delle Grundlinien einer neuen Lebensanschauung  (1907), di Der Sinn und der Wert des Lebens (1908), della Einfiihrung in cine Philosophie des Geisteslebens (1908), di Mensch und Welt (1918) c di numerose altre opere,  anche di argomento storico, cbbe larghissima notorietà per le sue doti di scrittore  € per il carattere al tempo stesso popolareggiante e retorico del suo idcalismo, Nel  1908 cbbe il premio Nobel per la letteratura.  esempio, la filosofia della storia di Hegel, troveremo che la  metafisica ha un peso molto limitato nella descrizione di tutte  le particolarità. Per delimitare e articolare l’universo storico è  importante solamente il concetto di libertà come concetto di  valore e la convinzione generalissima che lo sviluppo verso la  libertà è in qualche modo inerente all’essenza stessa del mondo.  Qui sono però presenti solo i due presupposti già accennati di  un valore assoluto e della sua necessaria relazione con la realtà  storica in generale. Per il resto la filosofia della storia di Hegel  si muove entro concetti che derivano dalla vita storica immanente e che si riferiscono soltanto a questa vita immanente.  Non si procede così in tutti i tentativi di filosofia della storia  che hanno la forma di una storia universale? non dobbiamo  anzi dire che anche per il filosofo della storia una maggiore  quantità di metafisica non soltanto non è richiesta, ma può  addirittura diventare dannosa? A lui, come allo storico empirico, ciò che interessa è lo sviluppo della cultura nel mondo  immanente, nel mondo spazio-temporale. Se questo mondo immanente viene perciò ridotto da qualche metafisica a una  realtà di secondo grado, se la vera realtà — in cui i valori  supremi coincidono con l’essere supremo — viene concepita  come atemporale e aspaziale, lo sviluppo spazio-temporale, singolare e individuale, perde allora subito ogni senso anche dal  punto di vista della filosofia della storia, così come dal punto  di vista della storia empirica. A quale scopo tutto quel processo di lotta dell'umanità, che nel corso dei millenni riesce a  realizzare solo approssimativamente e imperfettamente ciò che  è per sempre reale nella più profonda essenza del mondo? Se  nel tempo possiamo scorgere soltanto un filo del tessuto del  velo di Maia, allora non esiste più una filosofia positiva della  storia. In tal caso il suo compito consiste solo nel comprendere  la vanità di tutto ciò che è storico, in quanto scorre necessariamente nel tempo, e nel negare con Schopenhauer ogni senso  alla storia. Se dev’esserci non soltanto una scienza storica empirica, ma anche una filosofia della storia, proprio l’elemento  temporale presente nel mondo dev'essere in ogni caso assolutamente reale.   Ma — ci si potrebbe infine ancora domandare — non si può  forse attribuire anche a ciò che è temporale una realtà metafisica, € l’essere trascendente deve proprio venir concepito come  necessariamente atemporale, se si vuole pensarlo? Qui sembra  aprirsi ancora un’ultima strada per la quale unificare tra loro  filosofia della storia e metafisica. Ma si tratta di una semplice  apparenza, perché nella filosofia della storia il nervo del pensiero metafisico viene reciso dall'assunzione di una realtà metafisica di ciò che è temporale. Quel che ci dava soltanto un’indicazione sull’essenza trascendente del mondo era appunto la convinzione della validità trascendente dei valori e l'esigenza del  loro nesso reale con la realtà storica. Ma la trascendenza del  valore significa proprio la sua validità atemporale, e soltanto  una realtà atemporale potrebbe essere il sostegno metafisico di  valori atemporali; ma per instaurare un legame necessario dello  sviluppo storico con valori atemporali non si può fondare la  validità dei valori su un essere metafisico che si esaurisce nel  tempo. Una metafisica che voglia essere la base della filosofia  della storia si imbatte quindi nelle maggiori difficoltà non appena aspira a una formulazione concettuale dei suoi presupposti  trascendenti che sia in qualche modo diversa da quella contenuta nel concetto di dover essere trascendente. Per trovare nel corso storico temporale un senso oggettivo, abbiamo bisogno dell’atemporale. Ma non appena poniamo questo elemento  atemporale come realtà metafisica e priviamo quindi della vera  realtà il corso storico, annulliamo ogni senso della storia e  ogni possibilità di una sua trattazione filosofica. C'è una via  per sfuggire a questo circolo, oppure ogni metafisica della storia deve naufragare in esso? Non siamo costretti, anche in una  trattazione filosofica della storia universale, a scorgere nei valori atemporali e nella loro relazione necessaria, ma scientificamente indeterminabile, con la realtà temporale i presupposti  ultimi a cui dobbiamo arrestarci ?   Se si dovesse rispondere positivamente a questa domanda —  e almeno finora non vediamo alcuna via che ci permetta una  risposta negativa — i compiti della filosofia della storia, che  all’inizio sembrava scindersi in tre diverse discipline, si configurerebbero in modo del tutto unitario. Dovendo lasciare all’indagine delle scienze particolari l’intero campo dell’essere empirico e rinunciare a cogliere l’essenza metafisica del mondo, alla  filosofia rimane come campo specifico il regno dei valori. Essa deve trattare questi valori come valori, indagare sulla loro validità e penetrare le connessioni teleologiche di valore. Uno di  questi campi di valori è quello della scienza, in quanto essa  aspira alla realizzazione dei valori di verità, e la filosofia della  storia ha quindi a che fare anzitutto con l’essenza della scienza  storica. Essa la concepisce come la rappresentazione individualizzante dello sviluppo singolare della cultura, vale a dire dell’essere e dell’accadere fornito di significato, nella sua individualità, in riferimento ai valori culturali. Da ciò deriva allora che  i princìpi della vita storica sono essi stessi valori, e la trattazione di questi valori con riguardo alla loro validità diventa perciò  il secondo compito della filosofia della storia, che però coincide  in ultima analisi con il compito della filosofia come scienza dei  valori in generale. In tal modo le due indagini che risultano  necessarie stanno in una connessione sistematica, e in questa  connessione si inserisce infine anche il terzo gruppo di questioni di filosofia della storia. Esso costituirà la conclusione dell’intero sistema filosofico, poiché in esso si cerca di mostrare quanto dei valori criticamente fondati si è realizzato nel corso precedente della storia, e quali sono state le grandi epoche di questa  realizzazione dei valori, per comprendere dove oggi stiamo in  questo processo di sviluppo e dove dobbiamo cercare il nostro  compito per il futuro. La filosofia della storia, partendo dalla  logica della storia, tratta perciò sempre di valori: in primo  luogo dei valori da cui si possono derivare le forme concettuali  e le norme della ricerca storico-empirica, quindi dei valori che  costituiscono — in quanto principi del materiale storicamente  essenziale — la storia stessa, infine dei valori la cui graduale  realizzazione si compie nel corso della storia. SIMMEL nasce a Berlino. Compe gli studi universitari a Berlino, dove segue i corsi di storici come Mommsen  e Treitschke, di psicologi come Lazarus e Steinthal, di etnologi come Bastian, nonché dello storico  della filosofia antica Zeller. Fin da questi anni la personalità di  Simmel rivela interessi culturali molteplici, che caratterizzeranno anche  in seguito la sua produzione filosofica. A Berlino egli consegue il dottorato, con la dissertazione Das Wesen der Materie nach Kants  Physischer Monadologie. I pregiudizi razziali ancora largamente diffusi negli ambienti universitari tedeschi, uniti all’impressione di dilettantismo che il suo  stile filosofico puo a prima vista suscitare, rendeno lenta e difficile  (nonostante l’appoggio di amici influenti, come lo stesso Weber) la  carriera accademica di Simmel, relegandolo per molti anni nella posizione di libero docente; e soltanto egli ottenne la nomina a  professore straordinario. Ma le sue lezioni berlinesi sono largamente  frequentate, e da esse trassero spunto allievi destinati a diventare famosi, come per esempio il giovane Gyorgy Luk£4cs. Soltanto Simmel è chiamato a coprire una cattedra di filosofia, a Strasburgo; e qui muore.   Le prime opere di Simmel sono caratterizzate da un prevalente  interesse per le scienze sociali, che si traduce — sul piano filosofico —  nello sforzo di affrontare il problema critico delle scienze sociali e, in  connessione con queste, della conoscenza storica. Dal saggio Uber soziale  Differenzierung (Leipzig) alla Einleitung in die Moralwissenschaft  (Stuttgart-Berlin) e alla Philosophie des Geldes (Leipzig),  la ricerca positiva sui fenomeni sociali si intreccia con il tentativo di  determinare l'ambito e l'orientamento di indagine delle scienze sociali,  ponendo in luce la loro struttura logica e la loro relazione con altre  forme di conoscenza scientifica. Su questo terreno Simmel prende posizione nei confronti della concezione positivistica delle scienze sociali,  affermandone il compito descrittivo e respingendo il postulato dell’esistenza di una struttura legale della realtà storico-sociale. Nello stesso tempo egli si propone, richiamandosi a una prospettiva kantiana, di determinare le categorie che stanno a base dell’elaborazione concettuale delle  scienze sociali. Ma queste categorie vengono da lui interpretate non già  come princìpi 2 priori, bensì come punti di vista relativi sulla base dei  quali le singole discipline si organizzano metodologicamente. Infatti  Simmel intende non tanto stabilire in linea generale il campo di ricerca  delle scienze sociali, quanto analizzarle nei loro procedimenti specifici e  nei loro rapporti reciproci. Nell'Einleitung in die Moralwissenschaft  egli affronta il problema dell’impostazione della scienza morale — considerata come una scienza che si pone al confine tra psicologia, scienze  sociali e ricerca storica — nell’intento di svincolare l’etica dal dominio di concetti generali per portarla sul terreno dell’osservazione empirica e quindi della descrizione dei comportamenti umani. Nella Philosophie des Geldes egli analizza il significato del concetto di denaro in  relazione al concetto di valore, ponendo in luce la sua trasformazione da  valore sostanziale in valore funzionale, cioè in designazione simbolica  del diverso valore delle cose. Nell'ambito di questa prospettiva di origine kantiana, anche se profondamente modificata, Simmel si è pure  proposto, in Die Probleme der Geschichtsphilosophie (Leipzig), di determinare le condizioni di validità della conoscenza  storica, considerata nelle sue basi psicologiche e nei suoi rapporti con le  scienze sociali. Egli ha individuato il fondamento della conoscenza storica nell'identità tra soggetto e oggetto — identità che rende appunto  possibile la comprensione; cosicché le categorie storiografiche diventano  presupposti psicologici, i quali assolvono la funzione di organizzare  concettualmente il dato empirico. Perciò la loro validità risulta relativa,  e parimenti relativi sono i risultati a cui pervengono sia le scienze  sociali sia la conoscenza storica.   Il culmine di questa prima fase della produzione simmeliana è  rappresentato dalla Soziologie: Untersuchungen iiber die Formen der  Vergesellschaftung (Leipzig), in cui Ja distinzione della sociologia  dalle altre scienze sociali viene formulata su una base puramente formale, attribuendo a queste il compito di studiare i fenomeni sociali nel  loro diverso contenuto (morale, economico, politico, e così via) e a  quella l’analisi delle forme di associazione che costituiscono la struttura  propria della società in quanto tale. La sociologia così intesa prescinde  quindi dallo studio del contenuto della società, per limitare la sua  indagine ai modi di relazione tra gli individui; essa ha per oggetto la  maniera in cui i rapporti tra gli individui si costituiscono come fenomeni sociali. L'autonomia della sociologia dalle altre discipline storico-sociali viene perciò ottenuta attraverso la rigorosa determinazione del suo  carattere « formale ».   Già prima della Soziologie, attraverso la critica della nozione kantiana di a priori e lo studio di Goethe, di Schopenhauer e di Nietzsche —  filosofi a lui particolarmente congeniali — Simmel veniva enunciando i  princìpi di quel relativismo destinato ben presto a tradursi in una filosofa della vita. Dal volume su Kant (Leipzig, 1904; tr. it.  Padova) a Schopenhauer und Nietzsche (Leipzig, 1907; tr. it.  Torino, 1923), fino a Hauptprobleme der Philosophie (Leipzig, 1910; tr.  it. Firenze, 1920) e ai saggi raccolti col titolo di Philosophische Kultur  (Potsdam, 1911), egli ha respinto il tentativo di cercare un fondamento  assoluto del conoscere, così come delle altre manifestazioni della vita  umana, affermando la necessità di riconoscere il carattere relativo dell’attività dell’uomo in ogni campo — e quindi anche il carattere relativo  della verità filosofica. Nel periodo successivo, e soprattutto negli anni di  Strasburgo, questa prospettiva relativistica mette capo all'affermazione  dell’intrascendibilità della vita. In Der Konflikt der modernen Kultur  (Miinchen-Leipzig, 1918; tr. it. Torino, 1925) e in Lebensanschauung  (Miinchen-Leipzig, 1918; tr. it. Milano, 1938) la vita si configura come il  principio ultimo e incondizionato dal quale traggono origine tutte le forme  della realtà, le quali sono poste in essere dalla vita e tuttavia si contrappongono al suo fluire. La vita è infatti un processo infinito, creatore di forme  finite che si organizzano su un piano trascendente rispetto alla vita, costituendo così i diversi mondi ideali dello spirito: la vita cerca di travolgere  queste forme, mentre esse cercano di sfuggire a una distruzione inevitabile. La vita può essere quindi definita al tempo stesso come « più-vita » e  « più-che-vita »: « più-vita » in quanto processo temporale continuo che  cresce su se stessa, superando i limiti che essa si pone, e « più-che-vita »  in quanto produzione di forme finite che emergono da tale processo.   Simmel ha applicato questa impostazione all'analisi dei più svariati  fenomeni culturali, in particolare dei fenomeni artistici. Egli ha anche  ripreso in esame — in alcuni saggi che vanno da Das Problem der  historischen Zeit (1916) a Die historische Formung e a Vom  Wesen des historischen Verstehens (Berlin) — il problema della  storicità, considerata dal punto di vista della dialettica tra la vita e le  sue forme. Il rapporto tra la vita e la storia si presenta, in questi scritti,  come il rapporto tra il processo temporale della vita (che, in quanto tale,  non è ancora storico) e un mondo ideale che emerge da esso, contrapponendosi alla vita e cercando di resistere alla sua opera distruttrice.  L'elaborazione concettuale della conoscenza storica coincide quindi con  lo sforzo di costituzione di questo mondo ideale, e il procedimento della  comprensione sul quale la storiografia si fonda appare qualificato non  già come un rapporto immediato, bensì come una relazione che presuppone il riferimento all’alterità di un diverso individuo. Ricordiamo qui le altre opere di Simmel: Philosophie der Mode, Berlin, 1905; Kan und Goethe, Berlin, 1906, e Leipzig, 1907 ?, 1916?, 19184;  Die Religion, Frankfurt a.M., 1906, 19122, 19225; Goethe, Leipzig, 1913;  Rembrandt: cin Runstphilosophischer Versuch, Leipzig, 1916; Grundfragen der Soziologie: Individuum und Gesellschaft, Berlin-Leipzig, 1917;  Der Krieg und die geistigen Entscheidungen, Miinchen-Leipzig, 1917. Altre raccolte di saggi sono le seguenti: Zur Philosophie der Kunst: Philosophische und kunstphilosophische Aufsétze (a cura di Gertrud Simmel),  Potsdam, 1922; Schulpidagogik (lezioni a cura di K. Hauter), Osterwieck /  Harz, 1922; Fragmente und Aufsitze aus dem Nachlass und Veròffentlichungen der letzen Jahre (a cura di G. Kantorowicz), Miinchen, 1923;  Rembrandtstudien, Basel, 1953; Bricke und Tiìr: Essays des Philosophen  zur Geschichte, Religion, Kunst und Gesellschaft (a cura di M. Landmann,  in collaborazione con M. Susman), Stuttgart, 1957. Dei numerosi articoli  di Simmel ci limitiamo a segnalare quelli non compresi nelle raccolte che  abbiamo menzionato: Zur Metaphysik des Todes, « Logos », I, I9I0, pp.  57-70; Das individuelle Gesetz, « Logos », IV, 1913, pp. 117-60, poi anche  in forma di volume (a cura di M. Landmann), Frankfurt a.M., 1968; Der  Fragmentcharackter des Lebens, « Logos », VI, 1916-17, pp. 29-40; Fragment iiber die Liebe, « Logos », X, 1921-22, pp. 1-54; tr. it. Milano, 1927.   Le opere di Simmel sono state largamente ripubblicate nel dopoguerra.  Tra le ristampe della Scientia Verlag citiamo quella della Einle:tung in  die Moralwissenschaft, Aalen, 1964‘, quella della Philosophie des Geldes,  Aalen, 1958, e quella della Soziologie, Aalen, 19584; sono stati inoltre  riediti Uber soziale Differenzierung, Amsterdam, 1966 2, e Haupitprobleme  der Philosophie, Berlin, 19507, 1966. Un'importante raccolta di documenti è il Buch des Dankes an Georg Simmel. Briefe, Erinnerungen, Bibliographie (a cura di K. Gassen e M. Landmann), Berlin, 1958, apparso in  occasione del centenario della nascita.   Oltre alle traduzioni italiane già pubblicate sono in preparazione quella della Philosophie des Geldes (per i « Classici della sociologia » U.T.E.T.)  e della Soziologie (per i « Classici della sociologia » delle Edizioni di Comunità). Dell’ampia letteratura critica concernente l’opera e il pensiero di Sim mel segnaliamo gli studi seguenti:   A. MAMELET, Le relativisme philosophique chez Georg Simmel, Paris, 1914.   M. Apter, Georg Simmels Bedeutung fiir die Geistesgeschichte, WienLeipzig, 1919.   M. FriscHersen-KonLER, Georg Simmel, « Kantstudien », XXIV, 1919,  pp. 1-51.   W. Kwevets, Simmels Religionstheorie: ein Beitrag zum religibsen Problem der Gegenwart, Leipzig, 1920.   S. Kragaver, Georg Simmel, « Logos », IX, 1920-21, pp. 307-38.   W. Frost, Die Soziologie Simmels, « Acta Universitatis Latviensis » (Riga), XII, 1925, pp. 219-313, e XIII, 1926, pp. 149-225.   V. JANKÉLÉvITcH, Georg Simmel, philosophe de la vie, « Revue de métaphysique et de morale », XXXII, 1925, pp. 213-57 e 373-86.   N. J. Sevrman, The Social Theory of Georg Simmel, Chicago, 1925, e  New York, 19662.   M. Srernuorr, Die Form als soziologische Grundkategorie bei Georg Simmel, « Kélner Vierteljahrshefte fiir Soziologie », IV, 1925, pp. 214-59.   W. Fagran, Kritik der Lebensphilosophie Georg Simmels, Breslau, 1926.   G. Loose, Die Religionssoziologie Georg Simmels, Dresden, 1933.   H. MiLLEr, Georg Simmel als Deuter und Fortbildner Kants, Dresden,  1935.   R. Heserte, The Sociology of Georg Simmel: The Forms of Social In  teraction, nel volume An Introduction to the History of Sociology (a  cura di H. E. Barnes), Chicago, 1948, pp. 249-73.    « American Journal of Sociology », LXIII, 1958, n. 2 (fascicolo commemorativo del centenario della nascita di Durkheim e di Simmel), con articoli di K, D, Narcete, K. H. Wotrr, L. A. Coser, T. M. Mis.   Georg Simmel, 1858-1918 (a cura di K. H. Wolff), Columbus (Ohio),  1959.   M. Susman, Die geistige Gestalt Georg Simmels, Tibingen, 1959.   H. Miier, Lebdensphilosophie und Religion bei Georg Simmel, BerlinMiinchen, 1960.    A Banri, Filosofi contemporanei (a cura di R. Cantoni), Milano-Firenze. Bauer, Die Tragik in der Existenz des modernen Menschen bei G.  Simmel, Berlin, 1962.    R. H. WeincartNER, Experience and Nature: the Philosophy of Georg  Simmel, Middletown (Conn.), 1962.    P. Gorsen, Zur Phinomenologie des Bewusstseinsstroms: Bergson, Dilthey,  Husserl, Simmel und die lebensphilosophischen Antinomien, Bonn,  1966.    H. LiepescHùtz, Von Georg Simmel zu Franz Rosenzweig: Studien zum  jiidischen Denken im deutschen Kulturbereich, Tiibingen, 1970.    Un elenco completo degli scritti di Simmel è dato da E. RosenTHAL  e K. OsertaenDER, Books, Papers and Essays by Georg Simmel, « American Journal of Sociology », LI, 1945, pp. 238-47. Ma la bibliografia più  completa degli scritti di e su Simmel è quella di K. Gassen, in Buch des  Dankes an Georg Simmel cit., pp. 309-65, la cui ultima parte — concernente la letteratura critica — è riprodotta in Georg Simmel. Se la teoria della conoscenza in generale muove dal fatto  che il conoscere — considerato da un punto di vista formale —  è un mero rappresentare e il suo soggetto è un’anima, la teoria  del conoscere storico è ulteriormente determinata dal fatto che  la sua materia è il rappresentare, il volere e il sentire di personalità, e che i suoi oggetti sono anime. Tutti i processi esterni —  politici e sociali, economici e religiosi, giuridici e tecnici —  non sarebbero per noi né interessanti né comprensibili se non  scaturissero da movimenti psichici, e non suscitassero altri movimenti psichici. Se non vuol essere un gioco di marionette, la  storia dev'essere storia di processi psichici, e tutti gli avvenimenti esterni che essa descrive non sono che ponti gettati tra gli  impulsi e gli atti di volontà, da un lato, e i riflessi del sentimento suscitato da quegli avvenimenti esterni, dall’altro. Questo  fatto non è cambiato neppure dalla concezione materialistica  della storia, la quale vuol derivare i movimenti storici dai  bisogni fisiologici degli uomini e dal loro ambiente geografico.  Infatti non c'è fame che metta mai in movimento la storia  universale se non fa male; e ogni lotta per i beni economici è  una lotta per le sensazioni di comodità e di godimento, dal cui  carattere di scopo trae il suo significato ogni possesso esteriore.  Anche le condizioni del terreno e del clima sarebbero indifferenti per il corso della storia, tanto quanto il terreno e il clima  di Sirio, se non influenzassero direttamente e indirettamente  la costituzione psicologica dei popoli. Se vi fosse una psico  * Die Probleme der Geschichtsphilosophie, cap. I: Von den Psychologischen Vor  aussetzungen in der Geschichesforschung, Lcipizig, Verlag von Duncker und Humblot (traduzione di Barbera e R.). logia come scienza di leggi, la scienza storica sarebbe psicologia applicata nello stesso senso in cui l'astronomia è matematica applicata. Se il compito della filologia è quello di conoscere  ciò che è conosciuto, la ricerca storica ne costituisce soltanto  un ampliamento, in quanto accanto a ciò che è conosciuto —  ossia a ciò che è teoreticamente rappresentato — deve conoscere anche ciò che è sentito. Questo carattere di interiorità dei  processi storici, che fornisce il punto di partenza e il termine di  ogni descrizione della loro esteriorità, richiede una serie di  presupposti specifici che è compito della teoria della conoscenza  storica porre in luce.   Dietro l’4 priori assoluto dell’intelletto, da cui prendiamo le  mosse, c'è un secondo « priori valido all’interno dell'intelletto  e quindi relativo. Quando varie rappresentazioni particolari  vengono raccolte in un concetto generale, quando un soggetto e  un predicato vengono riuniti in un giudizio, più giudizi in una  massima, il materiale è separabile dalla forma che lo contiene,  e ciascuno dei due elementi può essere rappresentato da solo.  Per quanto in questo materiale possa già essere presente molto  o poco di aprioristico e di spontaneo, nella relazione che qui  consideriamo vi è un contenuto dato su cui l’intelletto compie  un'ulteriore funzione, la quale è da parte sua 4 priori nei  confronti di quel materiale; essa non è presente nel contenuto,  ma si aggiunge ad esso. Se però, secondo la schematizzazione  kantiana, esistono soltanto tre specie di 4 priori — quello della  sensibilità, che ha per materiale le sensazioni, quello dell’intelletto, che ha per materiale le intuizioni, e quello della ragione,  che ha per materiale i giudizi — o propriamente una sola  specie, poiché le altre devono essere ricondotte all’ priori  dell’intelletto, la considerazione empirica mostra facilmente l’ingiustificata angustia di questa divisione. Vi sono chiaramente  moltissimi gradi di 4 priori, così come vi sono mescolanze  molto diverse tra la forma aggiunta e il contenuto preesistente.  In particolare, poi, non c'è alcun metodo che ci conduca a un  sistema saldamente concluso — e garantito da ogni spostamento di confine — delle funzioni con cui elaboriamo il materiale  conoscitivo dato di volta in volta. Tra le forme più generali,  accessibili a ogni materiale e superiori all’esperienza individuale, e le forme specifiche, acquisite empiricamente e applicabili come a priori soltanto a certi contenuti, non vi sono distinzioni nette e sistematiche, ma trapassi graduali: così per esempio  tra la legge causale o la connessione in un concetto di ciò che  è identico in oggetti diversi, da un lato, e i presupposti metodici (o di altro tipo) di un particolare settore della vita, di una  particolare scienza, dall’altro. Ogni formazione giuridica presuppone l’aspirazione a un determinato stato. Che i rapporti  umani consentano il conseguimento di uno stato del genere  solamente mediante norme stabilite e determinazioni di pene  per la loro trasgressione è un 4 priori molto generale che ha  per conseguenza una certa formazione, cioè un legame di rappresentazioni preesistenti. Ma per la formazione di leggi questa forma di connessione non è tanto generale quanto può  esserlo la connessione causale tra motivazione psichica e azione  esteriore, che — parimenti necessaria per l’elaborazione giuridica — può essere istituita tra i fenomeni, ma non tratta immediatamente da essi. D'altra parte l’a priori che costituisce la  forma del diritto è, a sua volta, un elemento generale rispetto  ai presupposti da cui scaturisce nel caso particolare la formulazione giuridica. Così il principio che la prova spetta all’accusatore, o la diversa validità del diritto consuetudinario, produce  un'elaborazione dei fatti in vista dello scopo di conoscere che  cosa sia giusto — un’elaborazione che non è presente nel materiale stesso, ma che solo in esso compie la sua funzione interpretativa,   Con pieno diritto Kant ha rivolto il proprio senso critico  contro gli empiristi che volevano limitare le loro ricerche alla  semplice recezione di impressioni sensibili, alla registrazione di  elementi di fatto comprovabili immediatamente. Egli ha mostrato che, senza neppure avvedersene, essi fanno continuamente uso di proposizioni metafisiche non dimostrate e che soltanto in base a queste istituiscono quella connessione tra i dati  sensibili che fa di quest'ultimi un'esperienza intelligibile. Ma  l'influenza e la necessità dei presupposti inconsci e indimostrati  si estende molto al di là di ciò che mostrano le indagini di  Kant. In ogni momento sia la teoria che la prassi fanno uso di  forme di connessione del materiale empirico, cioè di quella  facoltà plastica dello spirito in grado di fondere ogni contenu  b ce)  to dato — attraverso il modo di ordinarlo, di accordarlo e di sottolinearlo — nelle più diverse forme definitive. Queste connessioni che — espresse in forma di principi — appaiono come  presupposti 4 priori, rimangono inconscie nella misura in  cui la coscienza in generale si dirige più al dato, a ciò che è  relativamente esterno, che non alla propria funzione interna.  Infiniti contenuti di pensiero attraversano lo spirito, prima che  abbia coscienza del fatto che pensa; esso osserva gli oggetti del  mondo esterno molto prima dei processi che avvengono al suo  interno, e quanto più il processo è interno, ossia quanto più è  — si potrebbe dire — psichico, tanto più tardi esso ne consegue  la coscienza, che inerisce piuttosto ai suoi stimoli esterni. E  tanto più la coscienza inerisce a questi ultimi quanto più essi,  con la varietà del loro mutare e la nettezza delle loro antitesi,  stimolano continuamente la sensibilità psichica alla distinzione,  mentre le funzioni formali dell'anima sono di numero più limitato e si offrono ai contenuti più diversi in modo sempre eguale, producendo in virtù della loro esistenza permanente e della  loro universalità endemica quella consuetudine ad esse che fa  scivolare la coscienza al di sopra di loro come su qualcosa di  assolutamente ovvio. Anche qui vale la profonda osservazione di  Aristotele che ciò che viene per primo nell’ordine razionale  delle cose — la funzione conoscitiva dello spirito — viene per  ultimo nella nostra considerazione e osservazione. Ma in quale  misura questo dominio inconscio delle forme di connessione si  estenda sul materiale dei fatti, non è stato riconosciuto da  Kant in tutta la sua ampiezza a causa della netta separazione  da lui operata tra l’a priori e ogni elemento empirico. Poiché  oggi estendiamo l’esperienza molto più in alto di quanto non  facesse Kant, per noi l’4 priori si estende anche molto più in  profondità. Nel rapporto reciproco tra gli uomini ognuno deve  in ogni momento presupporre negli altri la presenza di processi  spirituali che non può constatare immediatamente, ma senza i  quali le azioni di questi altri apparirebbero una mescolanza di  impulsi improvvisi, priva di senso e di connessione: noi li  completiamo così come completiamo la macchia cieca che interrompe la nostra immagine, senza avvertire l'interruzione, dato  che tale integrazione ci appare cosa ovvia. Come comprendiamo l’interno soltanto per analogia con l’esterno — cosa che il  linguaggio già indica quando designa tutti i processi psichici con termini tratti dal mondo dell’intuizione esterna — così  d’altra parte intendiamo l’esteriorità degli uomini soltanto in  base all’interiorità sottostante. Ma proprio per questo motivo  integriamo anche l’esterno così come lo richiede la connessione  interna già postulata, cioè in quanto esiste in generale una  connessione interna. Si può ben affermare che nessun cronista  ci racconta in modo preciso ciò che ha visto dello sviluppo di  un avvenimento al quale ha assistito: lo conferma ogni interrogatorio giudiziario di testimoni, ogni narrazione di un tumulto. Pur con la migliore intenzione di attenersi alla verità, il  narratore aggiunge a ciò che ha immediatamente visto elementi  che completano l’avvenimento nel senso che egli ha tratto fuori  dal dato: e anche l’ascoltatore deve sempre vedere nel suo  spirito, in base alle sue esperienze e alla fantasia da esse determinate, più di quanto gli viene effettivamente detto. La fisiologia dei sensi ci ha mostrato innumerevoli casi in cui integriamo inconsciamente, in oggetti e movimenti particolari, le impressioni frammentarie dei sensi così come lo richiedono le  esperienze già fatte. Nel caso di avvenimenti complessi avviene  esattamente lo stesso; nel caso degli avvenimenti storici l’integrazione esterna è essenzialmente determinata da ipotesi psichiche, dalle esperienze relative alla continuità e allo sviluppo  della vita psichica, alla correlazione esistente tra le sue energie, al corso dei processi teleologici. Non soltanto tutto questo  è presupposto per impulso da parte dei rapporti esterni, ma,  una volta che ciò sia presupposto, gli avvenimenti esterni vengono integrati nella misura in cui anch'essi — commisurati alle  leggi dell’esperienza relative alla connessione tra interno ed  esterno — forniscono ora ai processi interni una serie parallela  ininterrotta. Proprio questa integrazione spontanea di ciò che è  esterno costituisce una delle prove più forti del fatto che anche  l'interno non è semplicemente derivato dai fatti, ma viene aggiunto ad essi sulla base di presupposti generali. Partendo dall'aspetto puramente esterno che uno offre all'altro si inferiscono, in base a innumerevoli presupposti, le idee e i sentimenti  dell’altro — che al massimo rappresenta un’inferenza dall’ effetto  alla causa. Nelle faccende quotidiane troviamo sufficienti occasioni di comprovare la correttezza di tale inferenza, poiché il  comportamento esterno dell’altro, previsto in anticipo, risponde realmente senza eccezione al nostro agire che giunge fino a lui.  Soltanto per processi psichici superiori e più complicati queste  inferenze diventano incerte, inducono a innumerevoli errori  e forniscono così la prova che anche nei casi più sicuri si  tratta solo di presupposti, i quali vengono collocati dinanzi al  dato e debbono la loro sicurezza all’utilità pratica, ma non a  un’interna necessità che li fa scaturire in maniera razionale da  quel dato.   Questi presupposti della vita quotidiana si ripetono ora nella ricerca storica in modo più compiuto e più ricco di influenza  che in qualsiasi altra scienza, compresa perfino la psicologia.  Quest'ultima assume infatti i presupposti in questione come  oggetti d'indagine ®. La ricerca storica assume invece i presupposti psicologici senza che siano comprovati e in modo non  metodico. Anche se questi presupposti fossero così ovvi che  ogni fatto esterno potesse disporsi senza difficoltà e in modo  del tutto univoco sotto il presupposto ad esso adatto, la loro  determinazione costituirebbe già un compito considerevole. Questo diventa però estremamente più sottile e più difficile in quanto talvolta vediamo connesse allo stesso avvenimento interno  conseguenze esterne totalmente differenti. Ciò è per noi comprensibile soltanto in virtù di una diversità degli elementi concomitanti o delle conseguenze psichiche di quel primo avvenimento, che dev'essere quindi ricondotto ora sotto una norma  psicologica, ora sotto un’altra del tutto opposta. Per esempio  Sybel® racconta, a proposito del rapporto tra il Comitato di  salute pubblica e gli hebertisti nel 1793: «Essi {gli hebertisti]  erano stati fin allora in rapporti eccellenti con Robespierre,  perché quest’ultimo si era appoggiato sulle loro forze e aveva  perciò assecondato i loro desideri. Ciò che però li separava fin  da allora in modo irrevocabile era la semplice circostanza che  Robespierre era diventato la guida del supremo potere statale,  mentre gli hebertisti erano rimasti in una posizione subordina  a. Certamente essa assume, anche da parte sua, parecchi presupposti  che rimangono impliciti in tutte le conoscenze di altro genere da essa  dipendenti.   b. Cfr. H. von SyBet, Geschichte der Revolutionszeit von 1789 bis  1798, Diisseldorf. ta». I fatti esterni — Robespierre asseconda i desideri degli  hebertisti; essi si legano a lui; egli ottiene una posizione dominante; essi si distaccano da lui — costituiscono, in base ai  presupposti psicologici sottostanti, una serie ben comprensibile.  E tuttavia tali presupposti non sono affatto così cogenti e univoci come appaiono a prima vista. Abbastanza spesso accade che,  assecondando i desideri di qualcuno, dimostrandogli favore con  le proprie azioni, se ne ottenga la simpatia e la dedizione  pratica; ma accade anche il contrario. Così si racconta, nelle sanguinose faide familiari del Trecento, di un nobile ravennate  che aveva riunito tutti i suoi nemici in una casa e che avrebbe  potuto senz'altro sopprimerli; invece di farlo, li lasciò liberi e  per di più fece loro ricchi doni: quelli avrebbero allora agito  contro di lui con raddoppiata violenza e malizia e non avrebbero avuto pace fino al suo annientamento — e ciò, aggiunge il  racconto, perché la vergogna per il beneficio ricevuto non li  avrebbe lasciati in pace. Anche qui la serie degli avvenimenti  esterni ci è pienamente comprensibile perché integriamo come  presupposto psicologico e come elemento di mediazione appunto quella depressione del sentimento di personalità che spesso  trasforma il beneficio ricevuto in un tarlo roditore nel beneficato, rendendolo nemico del benefattore. Per il nostro scopo è  indifferente il fatto che nell'esempio precedente siano tramandate testimonianze dirette di partecipanti, che ne esprimano la  costituzione psicologica, di modo che lo storico aveva bisogno di addurle come presupposto: infatti non soltanto egli  deve accettare la tradizione immediata in. innumerevoli casi  analoghi, in cui viene riferito qualcosa di puramente esterno,  ma l’accetterebbe anche soltanto se riconosce come possibile sia  l’una sia l’altra costituzione psicologica e può ricostruirla in  virtù della propria esperienza connessa. Inoltre noi comprendiamo che l’assunzione di Robespierre a capo del governo comportava azioni ostili degli hebertisti contro di lui, per il solo fatto  che ne suscitava l’odio e la gelosia. Accetteremmo però senz'altro come probabile anche la narrazione del risultato opposto:  che cioè il pieno dispiegarsi della potente personalità di Robespierre, la posizione dominante a cui era pervenuto, avesse  spezzato anche interiormente ogni opposizione di quel partito    te)  in quanto esso, sapendo di non poter far nulla contro, avrebbe voluto almeno mantenere con la docilità e la subordinazione  una qualche partecipazione al potere — un comportamento che  comprendiamo benissimo, in base alle norme psicologiche presupposte se, per esempio, ci viene raccontato a proposito del  senato romano nell’epoca della dittatura militare.   Nell’un caso ci soddisfa il fatto che il beneficio o il conseguimento del potere abbia un effetto psichico di adesione, nell’altro che abbia un effetto di distacco, senza però trovare in esso,  come atto esterno, il fondamento di questa diversità. Piuttosto,  sulla costituzione psicologica che ha deciso tra le due alternative ci informa soltanto l'avvenimento successivo, che però è  comprensibile solo in virtù dell’ipotesi di quella precedente affezione psichica.   Facciamo ancora un secondo esempio. Knapp* dice, a proposito della situazione agraria russa dopo l’abolizione della servirtù della gleba: «I contadini si impegnarono a fornire al  signore fondiario determinate prestazioni in cambio di un salario. I contadini lo fecero molto mal volentieri, poiché il mutamento di base giuridica non consolava il contadino della continuità del fatto di lavorare per il signore; e neppure al signore  la cosa era di grande aiuto perché la prestazione dei contadini,  ora pattuita anziché obbligata, veniva effettuata malamente nonostante che fosse pagata ». La prima motivazione presuppone  come ovvio, o almeno tale da non richiedere un’ulteriore discussione, che la conseguenza di una determinata situazione sul  modo di sentire non muta finché questa rimane esteriormente  la medesima, anche se è mutato del tutto l'elemento interno  che produceva in origine quella conseguenza. La seconda motivazione presenta come cosa chiarissima il fatto che il contadino su cui non si ha più un potere assoluto, ma con cui  bisogna scendere a patti, lavori peggio di prima. Se i fatti  mostrassero che in Russia i redditi economici sono costantemente aumentati dopo il 1864, motivi psicologici esattamente opposti  avrebbero connesso causa ed effetto in modo non meno plausibile; si sarebbe senz’altro considerato che non già l’agire esterno, ma il fondamento etico e il motivo per cui ciò accade    a. G. F. Knapp, Die Bauern-Befreiung und der Ursprung der Landarbeiter in den dlteren Theilen Preussens, Leipzig. sono decisivi riguardo al fatto di lavorare con piacere e amore  oppure con sentimenti opposti. E riguardo alla coercizione al  lavoro contadino, dalla Prussia ci giunge invece, prima dell’abolizione della servitù della gleba, la lamentela costante che la  corvée è il lavoro peggiore, il più negligente e privo di coscienziosità. Senza voler trarre da esempi di questo genere — che si  trovano in ogni parte di qualsiasi opera storica — uno scetticismo  a basso prezzo e ingiustificato nei confronti dell’interpretazione  psicologica in generale, tali differenze di interpretazione possibile devono renderci attenti al fatto che non si può considerarle  come un fattore sempre eguale, e quindi trascurabile. Piuttosto,  la constatazione dell’una o dell’altra conseguenza, sulla base di  un ulteriore avvenimento esterno, è decisiva per stabilire la  costituzione psichica che dominava la situazione iniziale e pertanto — come la direzione di una retta è determinata da due  punti stabiliti — il carattere complessivo dello sviluppo. Ma  questi presupposti, e il significato della scelta tra di essi, rivestono una particolare importanza negli innumerevoli casi in cui le  imprese esterne non sono tramandate in modo scevro di dubbio  e univoco, e in cui l'accertamento e l'ordinamento dipendono  dalla loro probabilità psicologica. Anche nei casi più sicuri,  però, non è il «semplice fatto» che decide dell’intelligibilità  della conseguenza, ma sono i principi psicologici a cui il « semplice fatto » si subordina come premessa minore, per far apparire l'avvenimento successivo come possibile e intelligibile. Dietro le azioni visibili degli uomini si sottintendono scopi e sentimenti invisibili, che sono necessari per connettere in modo  intelligibile quelle azioni. Se non potessimo procedere al di là  del materiale storico realmente constatabile, sarebbe in forse la  costruzione di un qualsiasi sviluppo, la possibilità di comprendere un qualsiasi elemento singolo in base a un altro. Helmholtz ha detto una volta che la dimostrazione della legge causale sarebbe assai debole se dovesse venir derivata dall’esperienza; i casi della sua piena dimostrabilità sono rari in rapporto  al numero sterminato di quelli che si sottraggono a una più  completa penetrazione causale. Se ciò vale già per i processi  della natura sottostante la vita psichica, ancora più rara deve  diventare la dimostrazione della causalità in base alla stretta  esperienza laddove il complicato e oscuro elemento dei processi cerebrali si inserisce tra i processi visibili dei quali si indaga il  legame causale. È chiaro che avremmo una prospettiva completa se penetrassimo fino in fondo le influenze e le trasposizoni  esterne e corporee che hanno luogo tra i singoli atti di una  personalità storica, e conoscessimo inoltre il valore psichico di  ogni processo cerebrale presente in questa serie. Questo è però  un ideale irraggiungibile; cosicché noi ci aiutiamo almeno inserendo dei processi psichici dietro e tra i processi esterni. Qui  l'elemento ipotetico, che esige una particolare considerazione  metodologica, non è tanto l’ipotesi di un elemento psichico in  generale, che risieda inafferrabile dietro i fenomeni, quanto il  contenuto specifico dei processi di coscienza supposti. Certamente anche tale elemento — per quanto possa sembrare straordinario considerarlo ancora come ipotesi — non è affatto un fondamento così semplice e indiscutibile della narrazione storica; e  non lo è perché il rapporto tra processi coscienti e processi  inconsci in noi è assai incerto. In particolare, quando si tratta  di movimenti di interi gruppi che possiamo spiegare anche  soltanto in base a posizioni di scopo e a impulsi sentiti, sono  spesso determinanti processi organici che non hanno alcun  aspetto di coscienza. Tanto qui quanto negli individui singoli  moltissimo di ciò che, per la sua conformità formale a uno  scopo, viene ricondotto a cause interne alla coscienza accade  per suggestione, o per un meccanismo motorio ormai fissato da  cui sono da lungo tempo esclusi gli elementi coscienti, o per  uno stimolo inconsapevole. Come la formazione conforme a  scopi dell'essere vivente induce gli spiriti che riflettono ad ammetterne una causa intelligente, perché si è abituati a considerare la conformità a scopi soltanto come conseguenza di una  volontà cosciente e pensante, così noi ci rappresentiamo — compiendo lo stesso errore — le più svariate azioni umane come  effetti di una posizione cosciente di scopi, anche se procedono  da tendenze del tutto meccaniche e da necessità inconscie. Se i  movimenti dei nostri organi interni, il lavoro del cuore, i processi di digestione, avvengono nel modo più utile per il conseguimento degli scopi vitali, e senza che ne abbiamo affatto  coscienza, lo stesso sviluppo che ha regolato questi processi  poteva ben ordinare anche i nostri processi cerebrali in modo  tale da promuovere la vita senza bisogno di una coscienza.    GEORG SIMMEL 443    Anche se si affermasse che la scienza storica deve descrivere  soltanto la storia dei processi coscienti, tuttavia i processi inconsci si inseriscono in modo così vario tra quelli coscienti e ne  costituiscono così diffusamente il substrato che senza il ricorso  ad essi non si può conseguire una spiegazione sufficiente dell’elemento cosciente; e questa spiegazione fallisce necessariamente se alla base di ogni azione visibile si vogliono porre idee  chiare e una cosciente conformità a scopi. Stabilire se dietro  l’azione stia un processo psichico cosciente esprimibile con parole — e una risposta positiva costituisce il presupposto di ogni  narrazione storica — è una questione particolarmente difficile  nel caso di quei processi che devono realmente a una coscienza  la conformità della loro forma a uno scopo e l’impulso alla  loro realizzazione in determinate situazioni, ma che in seguito  l'hanno perduta poiché l’azione si è gradualmente trasformata  in un’azione meramente riflessa e istintiva. Se per esempio la  conformità a scopi e la necessità hanno indotto un gruppo a  guerre ripetute, da ciò può svilupparsi una tendenza bellica, e  dinanzi alle sue successive manifestazioni sarebbe vano cercarne  la ragion sufficiente nella coscienza di chi agisce. Oppure, la  sottomissione e la servilità di un ceto rispetto a un altro possono essere sorte da cause del tutto coscienti; se però queste sono  durate un lungo periodo, non si può più interrogare la coscienza degli individui per averne informazioni sullo scopo del particolare comportamento in questione: per quanto uno scopo possa essere ancora sempre presente, la coscienza di esso è in ogni  caso tramontata e l’azione se ne presenta priva. È però evidente  che l’azione comparirà facilmente anche quando lo scopo non  sussiste più, e un qualsiasi impulso esterno o abitudine interna  produce uno stimolo formalmente affine a cui l’azione risponde  in modo riflesso. È perciò ben chiaro a base di quali errori stia  il presupposto ingenuo che cerca senz'altro in processi psichici  coscienti la connessione significativa tra le azioni dei singoli o  dei gruppi, facendole scaturire dal carattere teleologico di quei  processi.   Del resto la scienza storica lavora di fatto anche in base al  presupposto di un inconscio parziale o totale. Sentiamo parlare  dalla tendenza di parecchie stirpi a impadronirsi irresistibilmente di ciò che sta intorno e a spostare in avanti senza sosta, come spinte da un impulso di crescita fisica, i loro confini; si  parla dell’oscura spinta dei popoli tedeschi verso l’Italia come  dell’istinto dell’uccello migratore, che impulsi del tutto inconsci spingono a seguire determinate direttrici del cielo; d'altro  lato si parla dell'immobilità e dell’indolenza di alcune stirpi, le quali certamente spesso non pervengono alla coscienza  del singolo ma determinano il suo comportamento come una  forza naturale, mentre egli crede di essere attivo e capace di  reazione. Occorre infine ricordare quelle formazioni oggettive  che fondano propriamente — come un possesso collettivo spirituale — la società: il diritto e il costume, il linguaggio e il  modo di pensare, il culto e la forma di commercio. Certamente, tutto ciò non sarebbe mai sorto senza l’attività cosciente  degli individui; ma questa non si è quasi mai orientata verso la  formazione che alla fine ne risulta come se costituisse il suo  scopo. Ciascuno lavora piuttosto alla propria parte, mentre la  totalità di cui è parte si sottrae al suo sguardo; il confluire dei  contributi, il costituirsi della forma sociale che questo materiale  individuale assume non rientra più nella coscienza del singolo  lavoratore. Nella coesistenza con gli altri egli cerca l’espressione più adeguata per la sua inclinazione e per il suo ritegno, per  la sua indifferenza e per il suo interesse, scoprendo in tal modo  certe parti delle forme di rapporto speciale; il suo bisogno  religioso lo spinge a parole e ad azioni in cui crede di trovare i  ponti più sicuri verso il principio divino, e in questo modo  costruisce l’edificio del culto; mediante certe regole di prudenza cerca di proteggersi dalle soperchierie nella conduzione degli affari, e così fonda le usanze commerciali comuni. Di ogni  azione mossa dall’interesse particolare che non abbia carattere  distruttivo, di qualsiasi relazione tra uomini rimane — quasi  come caput mortuum — un contributo alla formazione dello  spirito pubblico, dopo che i suoi effetti sono stati distillati  attraverso mille sottili canali sottratti alla coscienza dell’individuo, Ciò vale particolarmente per il tessuto della vita sociale:  nessun tessitore sa che cosa sta tessendo. Tuttavia le formaziono sociali superiori possono sorgere soltanto tra esseri che posseggano una coscienza degli scopi; ma essc sorgono, per così  dire, accanto alla coscienza degli scopi propria degli individui,  in virtù di un processo formativo che non ha luogo in essa — e ciò già per il fatto che per ottenere quell’effetto sociale è richiesta la conformità e la contemporaneità di innumerevoli azioni  di altri, che l'individuo può prevedere soltanto in casi rarissimi. In breve, dietro le manifestazioni storiche visibili non si  può ipotizzare come loro funzione costante una piena coscienza, al fine di interpretarle e di collegarle; ma sebbene una tale  coscienza debba costituire nel complesso il presupposto dello  storico, egli lo sospende abbastanza spesso. Una filosofia della  storia dovrebbe stabilire in quali casi Io storico — guidato dall’istinto o dalla riflessione — astrae dalla conformità cosciente a  scopi nelle azioni umane. Essa dovrebbe cioè indagare quando  dobbiamo porre a base della spiegazione dell’accadere una volontà e un pensiero cosciente, e quando siamo soliti rinunciare  a tale ipotesi. Il compito specifico non consisterà qui nel determinare per la storiografia leggi pratiche in merito alla giustificazione di questa o quell’ipotesi. Ciò sarebbe possibile soltanto  alla psicologia. La teoria della conoscenza dovrebbe piuttosto  soltanto stabilire in quali casi al nostro bisogno di spiegazione  basta l’una e in quali l’altra ipotesi. Le rappresentazioni storiche — non come devono essere, ma come esse sono realmente  — dovrebbero venir analizzate in base ai princìpi secondo cui,  anche inconsciamente, decidono sull’ipotesi di una coscienza o  di un’inconsapevolezza sottostante alle azioni fisiche.  Presupponendo questa coscienza, passiamo ora a ipotizzare i  suoi contenuti. Anzitutto, anche a questo proposito si tratta di  un presupposto molto generale. Che tali elementi psicologici di  connessione che lo storico aggiunge agli avvenimenti siano veri  oggettivamente, cioè valgano a indicare realmente gli atti di  coscienza delle persone che agiscono, non avrebbe alcun interesse per noi se non comprendessimo questi processi in base ai  loro contenuti e al loro corso. Se ciò non avvenisse, quella  interpretazione corretta potrebbe essere ottenuta con qualsiasi  mezzo — come per esempio quando essa non ha bisogno della  ricostruzione psicologica da parte dello storico, ma è in apparenza immediatamente data dalle manifestazioni e dalle confessioni delle singole personalità; tuttavia non potremmo concedere ad essa il carattere di verità. Che cosa significa allora  questo comprendere, e quali sono le sue condizioni? La prima  condizione consiste chiaramente nel fatto che quegli atti di    446 GEORG SIMMEL    coscienza vengono riprodotti in noi, cioè che possiamo (come si  dice) « trasferirci nell'anima delle persone ». Comprendere una  proposizione significa che i processi psichici di colui che parla,  consegnati nelle parole, vengono da queste appunto stimolati  nell’ascoltatore; non appena si ha una differenza essenziale tra  le rappresentazioni di due persone, la parola che va dall’una  all'altra viene fraintesa o non è compresa. Una riproduzione  diretta di questo genere ha luogo ed è sufficiente soltanto dove  si tratti di contenuti teoretici di pensiero, per i quali non è  essenziale che essi abbiano il loro punto di partenza nelle rappresentazioni proprio di questo individuo. Nelle conoscenze oggettive o logiche io mi rapporto all’oggetto del conoscere nell’identico modo di colui di cui « comprendo » le rappresentazioni; egli me ne comunica soltanto il contenuto e dopo di ciò  viene di nuovo, per così dire, escluso. Da allora il contenuto è  presente parallelamente nel mio pensiero e nel suo, senza dover  subire trasposizioni o modificazioni per il fatto di avere in  questo la propria origine.   Questo rapporto già si modifica in qualche maniera laddove  si tratta non di un semplice processo teoretico di idee, che ci si  può rappresentare come rispecchiamento del comportamento oggettivo dello cose (che si offre a tutti nella stessa misura) nelle  forme logiche, ma è in questione la comprensione di processi  soggettivi. Noi pretendiamo tuttavia di comprendere ogni specie e ogni grado di amore e di odio, di coraggio e di disperazione, di volontà e di sentire, senza che le manifestazioni in base  a cui comprendiamo tali affetti ci pongano nella stessa parzialità ad essi propria. Tuttavia quel processo psichico che chiamiamo comprensione può consistere solamente in una trasformazione psicologica, in una condensazione o anche in un rispecchiamento sbiadito di quegli affetti: in tale processo deve in qualche modo-esserci il loro contenuto. Se sopra abbiamo indicato  come compito della storia quello di conoscere non soltanto ciò  che è conosciuto, ma anche ciò che è voluto e sentito, questo  compito può essere risolto solamente in quanto esiste qualche  specie di trasposizione psichica per partecipare al voluto e al  sentito. Infatti quell’essere sentito reale, che ha avuto luogo in  qualche momento del passato, non costituirebbe altrimenti la  condizione sotto la quale avviene ciò che chiamiamo comprensione. Chi non ha mai amato non comprenderà mai colui che  ama, il debole non comprenderà mai l’eroe, né il collerico  comprenderà il flemmatico; e viceversa la nostra comprensione  dei movimenti, dei tratti del volto e delle azioni altrui si  esprime tanto più facilmente quanto più sovente abbiamo noi  stessi sentito gli affetti di cui costituiscono il simbolo; si esprime anzi più o meno facilmente nella misura in cui la nostra  situazione interiore del momento ci dispone a sensazioni analoghe o a sensazioni distanti, agevolando o rendendo difficile la  riproduzione psicologica. La ripetizione degli atti di coscienza  che si compiono nell’altro individuo è quindi presente in qualche forma — della cui origine non possiamo ancora farci un  quadro positivo — nella comprensione dei propri, ed è indispensabile a questo scopo.   La trasformazione che diventa così necessaria mostra ora un  approfondimento significativo se, più che al contenuto della  comprensione, si guarda al fatto che si tratta del processo  di rappresentazione di un altro, di un non-io, che è appunto  un non-io. Certamente, nel caso di oggetti umani si pongono  in dubbio le conseguenze gnoseologiche della convinzione che  gli oggetti conoscitivi non ci sono dati nel loro in sé, ma  soltanto come rappresentazione. La storia — si potrebbe dire —  ci è accessibile in un modo completamente diverso dalla natura.  La distinzione tra io e non-io avrebbe un senso completamente  diverso se entrambi i termini fossero anime; infatti essi sarebbero differenti soltanto dal punto di vista numerico, e non in linea  generale, e se nessuno spirito può penetrare all’interno della  natura, potrebbe però penetrare all’interno di un altro spirito  che esso rispecchierebbe in sé in modo del tutto adeguato. Con  un pilastro così esile non è quindi ancora possibile gettare un  ponte sull’abisso tra io e non-io. Anzitutto, la loro identità  generale non elimina la necessità di esteriorizzazioni, di trasposizioni e di simbolizzazioni di ogni sorta che servano a mediarli. Un rispecchiamento immediato, una comprensione immediata derivante dall’identità di natura sarebbe una lettura del pensiero e telepatia,oppure presupporrebbe un'armonia prestabilita  non meno mirabile di quella leibniziana. Piuttosto, la stessa conoscenza di un processo spirituale costituisce, da parte sua, un  processo che può venire soltanto stimolato e dev'essere compiuto dal soggetto. Ma ciò trasformerebbe alla fine il parallelismo  di fatto da un rapporto diretto in un rapporto indiretto; in  definitiva, nonostante tutte le inevitabili complicazioni, un processo psichico potrebbe rispecchiarsi in un’altra anima con la  medesima precisione con cui le parole affidate a un apparecchio  telegrafico si riproducono in quello della stazione ricevente,  anche se ciò che sta nel mezzo e che fa da tramite sono  processi completamenti eterogenei. Ma la difficoltà più profonda consiste nel fatto che i processi così prodotti in me, nel  medesimo tempo non sono i miei: io li penso come storici,  anche se li rappresento ed essi sono quindi mie rappresentazioni come processi (e rappresentazioni) di un altro.   E neppure basta, se vogliamo conoscere un altro, che riproduciamo in noi stessi i suoi processi psichici e aggiungiamo:  non sono io, è lui a sentire così! In primo luogo, infatti,  secondo questo presupposto io sento effettivamente così, e quell'aggiunta non può essere i forma di supplemento al contenuto, di modo che entrambi rimangano reciprocamente isolati,  ma deve penetrare quel contenuto, accompagnarlo immediatamente come suo esponente. Questo sentire ciò che propriamente non sento, questo riprodurre una soggettività che è però  possibile, ancora una volta, soltanto in una soggettività che si  contrappone oggettivamente a quella — ecco l'enigma del conoscere storico, per la cui comprensione le nostre categorie logiche e psicologiche sono chiaramente strumenti ancora troppo  grossolani. In questo conoscere sono certamente presenti entrambi gli elementi — vale a dire il compimento da parte  propria dell’atto in questione e la coscienza che è accaduto in  altri; ma questa è soltanto una scomposizione successiva in  elementi di cui il processo della conoscenza storica non mostra  coscienza alcuna. Qui non si tratta tanto di una scomposizione  successiva di elementi che preesistevano separati, così come nell'intuizione del mondo esterno la sensazione e l'intuizione spaziale non esistono separatamente per poi riunificarsi in quella.  La proiezione di un rappresentare e di un sentire sulla personalità storica è un atto unitario, la cui condizione preliminare è  che io abbia provato nella mia vita soggettiva i processi psichici  in questione. Ma poiché vengono ora riprodotti come rappresentazioni di un altro, essi subiscono una trasformazione psichica che li distacca dall’esperienza soggettiva della personalità conoscente così come vengono distaccati da quella della personalità  conosciuta. Anche se queste ultime due coincidono in linea  generale, anche se amore e odio, pensiero e volontà, piacere e  dolore sono — come avvenimenti personali nell'anima del soggetto conoscente — esattamente i medesimi che hanno avuto  luogo nell’anima dell’oggetto conosciuto, non già la conoscenza storica, bensì quel processo di rappresentazione trasformato dalla proiezione su un altro, costituisce questa identità  immediata. Una cosa del tutto analoga avviene nel rapporto tra  pensiero e materia: se il substrato trascendente dell'anima e  quello del mondo esterno fossero realmente identici, ciò non  comporterebbe ancora che le rappresentazioni che l’anima si fa  del mondo esterno siano effettivamente identiche a quelle che  formerebbe l’in sé del mondo o un suo immediato rispecchiamento. La conoscenza del mondo rimarrebbe sempre nelle forme di esperienza ad essa proprie, indipendentemente dall’identità dei substrati che la delimitano da entrambe le parti, anche  se quest’identità istituisce forse la possibilità del rappresentare  in generale. In esatta analogia, l’identità psicologica tra conoscente e conosciuto è sì il fondamento, nell’ambito storico, della  possibilità di conoscenza in generale, ma di per sé non significa  ancora che la rappresentazione proiettata fuori del soggetto possegga un'identità di contenuto con i processi soggettivi presenti nella personalità storica.   Non seguirò qui oltre questa metamorfosi, la quale procede  col contenuto psichico primario in quanto questo è reso oggettivo  e con esso sì conosce un’altra personalità: piuttosto, assumendola  come presupposto, metterò l’accento sull'identità psicologica di  contenuto tra il soggetto e l'oggetto del conoscere storico che  questo esige. Se si potessero comprendere i processi storici semplicemente subordinando gli atti psichici i quali si distanziano  troppo da quelli che si compiono nell'anima dell’osservatore, di  fatto non li si comprenderebbe e la loro descrizione susciterebbe  nella nostra anima tanto poca reazione quanto un discorso fatto  in una lingua a noi sconosciuta. In primo luogo, quindi, lo  storico presuppone che la sua anima possa istituire in sé gli  stati psichici dei suoi personaggi, cioè che una qualche analogia, per quanto remota, delle loro azioni accertate con le proprie azioni permetta di concludere che lo sfondo di coscienza, che le  stesse azioni hanno o avrebbero in lui, sia presente anche in  quelli. Quando Ranke esprime il desiderio di dissolvere il proprio io per vedere le cose così come sono state in sé, il compimento di tale desiderio eliminerebbe proprio il risultato che ci  si aspetta. Una volta dissoltosi l’io, non rimarrebbe nulla con  cui cogliere il non-io. L’intromissione dell’io non è un’imperfezione della quale un tipo ideale di conoscenza possa fare a  meno; questa può eliminare soltanto certi aspetti dell'io, ma  voler dissolvere l'io in generale è una contraddizione logica  non soltanto perché esso costituisce, alla fine, il sostegno di  ogni rappresentare in generale — infatti anche Ranke aveva  limitato a questo la sua manifestazione — ma anche perché i  suoi contenuti specifici sono punti di passaggio indispensabili  di qualsiasi comprensione di altri individui. Questa partecipazione simpatetica alle motivazioni delle persone, al complesso e  ai singoli aspetti del loro essere, del quale vengono tramandate  soltanto espressioni frammentarie, questo processo di trasposizione in tutta la molteplicità di un enorme sistema di forze,  ognuna delle quali viene compresa soltanto perché la si rispecchia in sé — questo è il senso vero e proprio della pretesa che  lo storico sia e debba essere artista. La concezione comune  secondo la quale questa pretesa sarebbe giustificata solamente  una volta che si sia conclusa la ricerca dei fatti, e limitatamente all’esposizione per il lettore, è del tutto errata; infatti  anche il fisico, il filologo, il giurista, in breve ogni studioso che  scriva per gli altri, in particolare per cerchie più vaste, dev’essere artista nell'esposizione. Ma già per il fatto che lo storico  interpreta, elabora, ordina i fatti in modo che producano l’immagine coerente di un processo psicologico, la sua attività si  avvicina a quella poetica, e ne risulta distinta soltanto di grado, per la libertà che quest’ultima possiede nell’organizzione  del suo materiale. Una volta che il poeta si è deciso per un  determinato carattere, una volta che ha spinto i rapporti tra i  suoi personaggi in una determinata direzione, anch'egli non è  più libero, e tutto ciò che fa accadere si discosta soltanto in  misura limitata dall’esperienza psicologica media su uomini e  casi analoghi. Se il processo poetico che, muovendo dalla libera invenzione, deve legarne la successiva organizzazione nell’opera d’arte definitiva alle leggi conosciute dell’accadere ha per  motto «siamo liberi al primo momento, nel secondo siamo  schiavi», la ricerca storica si limita a rovesciarlo. Nel primo  momento, cioè rispetto al materiale di fatti con cui ha inizio il  suo lavoro, essa è vincolata; invece è libera nell’elaborazione di  tale materiale in una totalità del corso storico, cioè è lasciata  al funzionamento di categorie soggettive e al processo formativo nell’anima dello storico. Ciò che Schopenhauer spiega a  proposito dell’essenza dell’attività estetica — che cioè l’intelletto si spoglia della preoccupazione del proprio io per trasferirsi  completamente nell’oggetto da cui non lo separa più nessuna  duplicità di essenza, ma che anzi si rispecchia senza residuo in  esso, cosicché in questo attimo non è affatto altro da quest’oggetto — rappresenta di fatto, prescindendo dal rivestimento  metafisico, l'elemento decisivo anche per lo storico, anzi per  chiunque acquista una qualsiasi conoscenza storica. Ogni riproduzione e ogni comprensione di un oggetto psicologico significa che il soggetto comprendente percorre in sé il processo psichico nella cui conoscenza si immerge e che esso è realmente  — nella misura in cui l’io consiste nel suo processo di rappresentazione — in questo attimo *.    a. Per lo storico la difficoltà particolare consiste nel fatto che egli può  ricavare l'immagine complessiva di una personalità soltanto dalle sue manifestazioni specifiche, ma d'altro lato può interpretare e raggruppare correttamente questi elementi soltanto in base all'immagine complessiva della  personalità che sta a loro fondamento. Questo circolo logico viene, al pari  di molti altri simili, risolto nella prassi in quanto gli elementi che si presuppongono a vicenda si sviluppano in un’azione reciproca e gradualmente. La conoscenza assolutamente corretta del carattere e della tendenza complessiva di una persona potrebbe naturalmente essere ottenuta soltanto sulla base di un’interpretazione assolutamente corretta delle sue espressioni, e  viceversa; se quindi occorresse l’incondizionata correttezza e completezza  di entrambe le conoscenze, non si potrebbe pervenire a nessuna delle due.  Soltanto perché sia l’una sia l’altra sono ottenute pezzo per pezzo, in quanto in entrambe si ha un incremento graduale che dalla congettura e dall'assunzione ipotetica conduce fino alla certezza, ognuna delle due parti serve  all’altra come punto saldamente accertato per la determinazione di un analogo punto dall’altra parte, la cui connessione con punti successivi conferma ulteriormente il primo. Da qualche parte si deve cominciare in modo dogmatico o ipotetico, e soltanto l'attendibilità delle indagini successive  che da esso procedono può decidere sulla verità del fondamento; nell’ele- Per quanto riguarda la questione generale attinente alla teoria della conoscenza, non è che lo storico colga le personalità  storiche perché è identico ad esse — infatti questo è appunto  da stabilire — ma presuppone la propria identità con esse perché vuole coglierle e non può farlo altrimenti. Si ha qui lo  stesso rapporto che Kant aveva affermato a proposito della conoscenza della natura: noi non conosciamo la realtà perché il  pensiero e l’essere coincidono, ma essi coincidono perché noi  conosciamo la realtà, ossia perché il nostro intelletto introduce  la sue forme conoscitive nell’essere, perché lo elabora come sua  rappresentazione secondo le leggi di cui ha bisogno in vista  dell'esperienza. Lo storico respinge come improbabili o non  vere le azioni tramandate quando esse fanno riferimento a una  base psichica che gli sembra insostenibile nel suo processo .di  penetrazione dello stato psicologico della persona altrimenti  presupposto, e che quindi urta contro la logica dei fatti psicologici. Nel caso di un’improbabilità esteriore, fisica, la differenza  rispetto al rifiuto della tradizione è chiaramente soltanto graduale, ed esiste soltanto nella misura in cui le leggi fisiche  della natura sono da noi conosciute in modo più certo delle  leggi psichiche.   A proposito di questa riproduzione degli avvenimenti psichici da parte dello storico occorre considerare due aspetti: in  primo luogo le forze naturali e le categorie presenti nella sua    mento spirituale non solo il fondamento sorregge l'edificio, ma anche l’edificio sorregge il fondamento. Il rapporto della totalità con il particolare,  che ovunque presenta alla metodica del conoscere gli enigmi più ardui,  mostra le proprie difficoltà anche dove si tratta della totalità e della singolarità di un individuo. La medesima difficoltà conoscitiva si presenta in  riferimento all'essenza e alla tendenza di interi popoli e gruppi, di interi  periodi di tempo, oltre che di avvenimenti particolari. Uno dei compiti più  sottili della-teoria della conoscenza sarebbe quello di elevare alla coscienza, e di indicare nel caso singolo, il modo effettivo di questa reciprocità —  come la nostra interpretazione storica consideri gli elementi particolari che  sono ambigui, se non privi di senso senza un’immagine del tutto; quali  siano i mutamenti tipici a cui la tendenza generale, assunta a titolo di prova, porta nell’apprendimento degli elementi particolari; se le conoscenze  orientate verso il particolare e verso la totalità siano collocate in modo  stratificato l'una sull’altra; in quale rapporto questi strati si estendano quanto più s'innalza l’edificio complessivo, e così via. anima, il cui campo di validità delimita l'ambito di ciò che può  in generale essere intelligibile e penetrato simpateticamente  mediante la sua coscienza; in secondo luogo le esperienze di  fatto che dànno contenuto a queste facoltà e a queste forme,  indicando alla coscienza quali, tra le sensazioni e le idee che  sono in generale possibili alla sua anima, vengono realizzate  nel mondo animato che lo circonda. La critica della conoscenza  deve distinguere per bene i due momenti. Lo storico può infatti  respingere alcuni avvenimenti come impossibili e ordinarne altri soltanto in un determinato modo, perché i processi psichici  che dovrebbe altrimenti stabilire non gli sono intelligibili,  cioè non possono essere compiuti da lui stesso. Qui come altrove non si tratterà ovviamente di idee o di impulsi particolari  dei personaggi storici, bensì della connessione tra di loro, del  comparire di un’idea o di un impulso a condizione che ne  siano già stati accolti altri. D'altro lato egli potrà sì seguire  interiormente tali avvenimenti psichici e determinate combinazioni tra di essi, che la tradizione sembra offrire, ma dovrà  modificarli perché la sua esperienza della vita gli mostra che è  possibile riprodurli nella fantasia, ma che non si presentano  nella realtà. Qui Ia filosofia della ricerca storica trova i suoi  oggetti di ricerca nelle influenze a cui sono sottoposte da entrambi i lati le immagini storiche, e che vengono di solito  osservate almeno nei casi in cui superano troppo la misura  media della soggettività. Le differenze che devono essere istituite non soltanto nella rappresentazione storica, ma anche nella  determinazione, per esempio, del corso della vita di Cesare o di  Gregorio VII o di Mirabeau, a seconda che la natura dello  storico sia grande o limitata, risultano evidenti; lo stesso vale  per quelle che derivano dall'ambito di esperienza dello storico  — se cioè egli ha formato la sua intuizione della vita in base a  ristretti rapporti piccolo- borghesi o nel grande commercio mondiale, se in una comunità politicamente sottomessa o in una  comunità libera. In sostanza già lo sappiamo, perché possiamo  immaginarcelo anche senza una particolare considerazione, e  perché vi sono alcuni esempi flagranti che impediscono di trascurare questo fatto. Ma la conoscenza scientifica richiede indagini sul numero più grande possibile di casi, anche proprio su  quelli in cui la soggettività sembra ritrarsi del tutto — indagini che avrebbero bisogno di quella fine capacità investigativa  che ha prodotto risultati così splendidi soprattutto nella filologia classica.   Certamente, pregiudizi e toni soggettivi sono sempre correggibili nel caso particolare. Nel momento stesso in cui si pongono in luce e se ne mostra l’origine psicologica, si può anche  prescindere da essi. Ma con ciò si dimentica di solito che,  anche dopo aver rifiutato questa scorza, non rimane soltanto  oro puro, che la nuova conoscenza è sì libera da questo determinato presupposto soggettivo, ma non da ogni presupposto in  generale. Si corregge una data concezione, ma la si corregge  solo introducendone un’altra. Non soltanto i presupposti del  conoscere in generale, dell’intellectus ipse nelle sue forme più  generali, devono essere accettati da ogni contenuto empirico  particolare, poiché a volerne prescindere nell'interesse di una  verità puramente oggettiva non si potrebbe più rappresentare  nulla; ma queste forme universalmente date esistono di nuovo  solo negli spiriti particolari, e quindi nella loro tonalità e modificazione individuale, di modo che questo spirito individuale  costituisce in certa misura, nella sua tendenza complessiva e  nella sua disposizione caratteriologica, l’a priori per l’a priori  generale nella sua momentanea realizzazione. Comunque ci  rappresentiamo sistematicamente quelle forme universali, esse  hanno soltanto il significato di concetti generali che non si  ritrovano tal quali nella realtà — e qui nella realtà del conoscere — ma che compaiono sempre e solo con una differenza  specifica, che si può certo mettere da parte, ma soltanto se se ne  pone al suo posto un’altra. Ciò che concepiamo come unità e  sviluppo del carattere, come coerenza tra scopo e mezzi, come  causazione psicologica, si presenta a ogni uomo che opera con  il loro aiuto non in una forma astratta ma in forma personale,  esercitando i suoi effetti sul materiale storico non come categoria logica — questo sarebbe l’ideale irraggiungibile del conoscere — ma come forza psicologica, sostenuta dalla personalità  con il complesso delle sue esperienze, dei suoi istinti, dei suoi  sentimenti. Come nessun uomo è uomo in generale, né consiste  soltanto delle proprietà comuni a tutti gli uomini, così il conoscere non è mai un conoscere in generale, né consiste soltanto  dell’esercizio delle forme @ priori universali del pensiero. Si può certo costruire l'uomo in generale in modo astratto e sottraendo tutte le differenze specifiche, ma non appena si vuol  avere un uomo reale occorre nuovamente aggiungere qualcosa  di specifico e di individuale — anzi, soltanto nell’ambito  di questo lo si può rappresentare intuitivamente; ed esattamente  lo stesso avviene con le forme 4 priori del pensiero e con la  loro conferma pratica *.   Nell’organizzazione del materiale storico in base alle esperienze interne ed esterne dello storico agisce certamente una  grandezza incommensurabile che ne rende assai difficile l’analisi gnoseologica. Noi possiamo, nonostante tutto, ricostruire negli altri — e con la sicura sensazione della loro piena esattezza  — processi psichici che non abbiamo provato né in noi né in  altri. È molto facile spiegare tutto questo come una semplice  trasformazione di esperienze reali. In primo luogo, infatti, il    a. Qui si tratta di un 2 priori singolare, e il cui carattere specifico non  è di facile comprensione. Se ammettiamo l’a priori nella teoria della conoscenza, pensiamo a rappresentazioni determinate nel contenuto e da stabilire concettualmente, che si possano poi indicare in modo sempre eguale  nell'esperienza conclusa; cosicché l'universalità e necessità dell’4 priori ne  costituisce la caratteristica essenziale. Qui si tratta però di un « priori il  cui contenuto non è universale ma individuale, e in cui non c’è nulla di  universale e necessario se non il fatto che questa posizione della conoscenza viene riempita e determinata da qualche 4 priori, mentre rimane completamente indeterminato e accidentale quale degli infiniti compimenti possibili debba avere nel caso presente. La questione così importante per la  critica kantiana, se cioè l’4 priori del conoscere possa esso stesso venir conosciuto 4 priori, trova in questo caso una soluzione in quanto resta ferma  la sua generale necessità 4 priori — cioè la conoscenza che le categorie logiche agiscono soltanto nella tonalità di un’intera individualità — ma il  contenuto specifico di questo 4 priori dell'a priori è del tutto variabile e può  essere costruito solo caso per caso. Che la conoscenza storico-psicologica  accordi all’4 priori dell’individualità un'influenza molto maggiore della conoscenza della natura esterna, dipende dal fatto che sulle categorie dell’ordine e della valutazione (su cui esso manifesta la sua influenza) non si  può raggiungere, per motivi facilmente spiegabili, un accordo così largo  come quello che si ha in riferimento alle categorie relative al mondo esterno. Nel caso di quest'ultime l'individualità non si rileva nella tonalità delle categorie logiche perché in tale direzione si hanno soltanto differenze  individuali evanescenti, anche se ben nette per i grandi periodi culturali.  L'elemento logico e l'elemento psicologico possono qui concrescere in una  unità che non vi sarebbe ragione di scindere.  confine tra forma e materia potrebbe, in questa prospettiva,  essere assai arbitrario e significare più una denominazione aggiunta dall’esterno che non una distinzione oggettiva — prescindendo del tutto dal fatto che la formazione spontanea della forma, oppure della materia, non sostituirebbe per noi un  enigma minore; inoltre rimarrebbe ancora da spiegare perché  una forma in cui rechiamo dall’interno il contenuto empirico  dato per altra via possegga appunto quella sicurezza soggettiva della sua possibilità e della sua realtà, mentre altre, che  sono altrettanto possibili per la nostra fantasia e che non mancano, al pari di quella, di una conferma empirica, non comportano una tale sensazione. Il talento più appariscente e imprevedibile sotto questo aspetto viene di solito designato come genialità: il genio sembra creare da sé le conoscenze che l’uomo non  geniale può ricavare soltanto dall'esperienza. In base agli stimoli più tenui si presenta nel genio un’immagine intimamente  coerente e convincente di processi spirituali, di connessioni di  idee e di passioni di personaggi storici, della cui mentalità non  esistono più esempi da gran tempo; accostando gli elementi più  disparati e interpretando quelli più straordinari, la sua fantasia domina un materiale che non può avergli messo a disposizione la sua esperienza. Accontentarsi di una completa inesplicabilità di questa genialità storico-psicologica è quindi particolarmente pericoloso, perché la questione non riguarda soltanto  pochi grandi geni, ma tra questi e l’uomo comune vi sono  innumerevoli manifestazioni intermedie, anzi proprio quest’ultimi mostrano abbastanza spesso le premesse occasionali della  riproduzione geniale, apparentemente sovra-empirica, di processi psichici ad essi altrimenti estranei. Questo fatto ci tocca  tanto più da vicino, in quanto il genio storico può, a sua volta,  soltanto affidare le sue deduzioni a parole le quali possono  stimolare e agevolare negli altri i processi che rivestono interesse per lui, ma le quali devono in definitiva lasciarne a loro il  compimento. Per non dover considerare del tutto come un miracolo questo grande campo della comprensione di processi  psichici che non sono oggetto della propria esperienza, possiamo interpretarla come un processo in cui diventano coscienti  certe disposizioni ereditarie latenti. Le generazioni precedenti  hanno lasciato in eredità alle successive, in una forma qualsiasi, le modificazioni organiche connesse in modo non ancora spiegato ai loro processi psichici; la smisurata ricchezza, la piccolezza e la reciprocità delle singole parti di questa eredità non pervengono però in generale a una chiara coscienza.  Ora, noi chiamiamo genio un uomo in cui questo insieme dato  è ordinato in modo così favorevole che la sua riproduzione ha  luogo facilmente, in base a stimoli minimi, e perviene in misura  sufficiente a una chiara coscienza. In lui si compiono processi  psichici quanto mai lontani dalla sua esperienza individuale,  perché essi sono immagazzinati nel suo organismo come ricordi  della specie ed eccezionalmente in modo che le innumerevoli  contro-tendenze e gli innumerevoli offuscamenti che scaturiscono dalla stessa fonte non li escludono dalla coscienza. In base a ciò comprendiamo anche gli occasionali lampi di genio  di persone per altri versi non geniali, e la generale possibilità di seguire la comprensione aperta dal genio, se alle disposizioni ereditarie presenti anche in loro vengono assicurati, attraverso la chiara espressione e stimolazione di gruppi affini, gli aiuti psicologici necessari per arrivare alla coscienza. La dottrina mistica di Platone, secondo cui ogni apprendere non è che un ricordare!, assumerebbe così un senso  reale. Se riproduciamo in noi uomini da tempo scomparsi con  tutta la ricchezza dei loro più intimi impulsi, se il loro carattere — formatosi in condizioni completamente estranee, mai viste da noi — viene incontro al nostro sguardo emergendo da  una tradizione frammentaria, è chiaramente vano voler spiegare questa capacità in base alle esperienze della vita individuale  nello stesso modo in cui non si può derivare da questa fonte la  conformità allo scopo di movimenti istintivi o la direzione e la  correttezza degli impulsi etici. Come il nostro corpo racchiude  in sé le acquisizioni di uno sviluppo millenario e conserva  ancora immediatamente in organi rudimentali le tracce di epoche precedenti, così il nostro spirito contiene — come mostra  la più semplice riflessione — i risultati e le tracce di processi  psichici trascorsi dei più diversi gradi di sviluppo della specie.  L'intera misura della nostra comprensione, anche per quegli  esseri viventi che si discostano molto dal nostro modo di senti  I. Simmel si riferisce qui alla teoria della reminiscenza, esposta nel Fedone.  re, può quindi venire dal fatto che l'eredità della specie contiene però, oltre al nostro carattere essenziale, tracce del carattere  degli antenati e ci rende così possibile il comprendere — vale a  dire il compimento dei loro medesimi processi psichici. Il conoscitore geniale di uomini è soltanto l’erede prediletto (per questo aspetto) della specie, e lo storico geniale rappresenta solo  un suo rafforzamento. Infatti la comprensione storica è distinta  solo per grado dalla comprensione dei personaggi e dei rapporti contemporanei. Anche questi ultimi ci offrono fenomeni esteriori, non mai completi, e dal punto di vista dell’empiria sensibile ogni altro uomo è per noi un automa, ogni sua parola è  mero suono, in cui possiamo introdurre un’anima soltanto in  base al nostro proprio io. Il processo del conoscere storico è  solo quantitativamente differente dal processo del comprendere  che noi compiamo sull’esteriorità di tali immagini: esso trova  soltanto un materiale molto più incompleto e incoerente, indicazioni ancora più insicure, uno spazio ancora maggiore per le  congetture e una necessità più comprensiva. Ma se per tutto  ciò dobbiamo rimandare alle oscure disposizioni ereditarie che  ci rendono comprensibile anche ciò che non abbiamo vissuto di  persona, la scissione tra i presupposti universalmente validi,  che applichiamo agli avvenimenti per poterli comprendere, e le  interpretazioni soltanto personali, si aggrava straordinariamente. Se la comprensione geniale — ma anche ogni altra forma di  comprensione — dell’accadere storico scaturisce da questa fonte, ai nostri strumenti conoscitivi è del tutto precluso scomporre analiticamente quei presupposti fino ai loro elementi ultimi  e ricondurli alle loro fonti; per questi casi dovrà bastare una  constatazione e una registrazione di fatto.   Se la ricostruzione psicologica del consueto contenuto storico procede con relativa sicurezza e in accordo generale, ciò  deriva dal fatto che qui si tratta essenzialmente di interessi c  di movimenti di interi gruppi, e che essi costituiscono il fondamento e il punto di arrivo anche delle azioni dei singoli personaggi storici. Questi sono straordinariamente più semplici e  univoci delle condizioni individuali. Nel caso di grandi masse si tratta sempre delle basi primarie dell’esistenza, degli interessi generali, grandi e grossi, in cui molti uomini possono  incontrarsi e al di sopra dei quali si sollevano solamente le individualizzazioni più sottili e difficili dei moti psichici.  Nello stesso modo in cui una collettività non può dissimulare  di proposito la sua volontà e il suo pensiero — cosa che è  invece possibile all'individuo — essa non lo fa neppure involontariamente, ma documenta invece le sue tendenze, le sue azioni  e reazioni psichiche con la stessa chiarezza delle manifestazioni degli impulsi semplici propri di una massa in quanto tale,  contrapposti agli impulsi differenziati di una persona. Proprio  per questo motivo le basi psichiche dei movimenti storici diventano ora più comprensibili a chiunque: quanto più è sicuro che  in ogni individuo si trovano gli interessi più bassi e primitivi, e quindi ereditati da più lungo tempo, tanto più probabile  gliene riuscirà la riproduzione. Dove sono in gioco questioni  puramente individuali, la diversità delle individualità impedirà spesso la riproduzione, cioè la comprensione; ma ciò che  vogliono gruppi interi — e che l’individuo vuole in relazione  ad essi — è presente con alto grado di sicurezza in ogni  individuo, e può quindi essere stimolato. Perciò anche nel conoscere storico si cela la soggettività e la personalità della penetrazione simpatetica, che attribuiamo più facilmente ai processi  della personalità singola. Assumendo come oggetto i processi  psichico-sociali e penetrandoli simpateticamente, noi non abbiamo l’idea di essere relegati nella nostra soggettività e nell’accidentalità delle sue esperienze interne, ma dobbiamo rappresentarci qualcosa di oggettivo. E tuttavia questo elemento oggettivo è, qui come altrove, soltanto un elemento soggettivo molto  generale, e contiene solo sensazioni che sembrano rimosse dalla sfera personale perché nessuna personalità può sottrarsi ad  esse. Ma, alla base, anche le sensazioni che portano in luce  movimenti sociali (la necessaria sovra- e subordinazione nei  gruppi, l'unificazione per scopi generali o la divisione in vista  dell’utilità individuale, l'elevazione e la trasformazione da parte di idee religiose e politiche) possono essere valutate, anzi  constatate, soltanto in virtù di una penetrazione simpatetica di  carattere personale. Anche quello che, in movimenti del genere, pensiamo di poter cogliere con le mani, possiamo in realtà  coglierlo soltanto con l’anima.   La diversità dell’ priori con cui interpretiamo e ordiniamo  i fatti storici trova quindi propriamente la sua manifestazione più appariscente in un punto del tutto differente, cioè quando  la rappresentazione è diretta da un pregiudizio determinato nel  contenuto. Il caso più decisivo è quello in cui una tendenza  preesistente assegna alla ricerca il fine a cui deve pervenire,  considerandola e presentandola come corretta e compiuta soltanto nel momento in cui vi perviene — proprio come si dichiara  corretta una qualsiasi ricerca soltanto se soddisfa la legge causale. Se qui prescindiamo dalle falsificazioni coscienti o semi-consapevoli che avvengono per scopi pratici, personali o di partito,  soprattutto la difficoltà trattata nella nota di pp. 451-52 aprirà un  vasto campo all’a priori tendenzioso. Alcuni elementi particolari di una personalità o di un periodo sono dati; in base ad essi  si forma un'immagine della loro totalità e del loro carattere  interno; a questo punto nuovi elementi particolari verranno  molto facilmente considerati apocrifi se non si adattano a questa immagine già fissata, oppure saranno modificati fin quando  non si accordano con essa. La convinzione oggettiva orientata  in questo senso riceverà facilmente appoggio dagli interessi  dell'animo: quando, per esempio, in certi momenti sorge l’impressione di un carattere grandioso o di elevata eticità, allora  subentra un interesse personale per esso che stabilirà in una  direzione determinata i presupposti per l’apprendimento di  ogni fatto futuro. Anche qui si fa valere il significato psicologico della prima impressione. Come le prime convinzioni della  vita trovano ancora sgombro il campo dello spirito e possono  stabilirsi in vario modo con una forza che non incontra ostacoli, in modo da decidere dell’accettazione o del rifiuto delle  convinzioni future, così lo stesso processo si ripete per il particolare campo e problema del conoscere. Il giudizio ricavato in  modo impregiudicato dal primo fenomeno diventa pregiudizio  rispetto al secondo, e ogni fenomeno che si presenti successivamente trova davanti a sé una direzione prestabilita dell’intuire  e del giudicare, da cui viene abbastanza sovente trascinato senZa opporre resistenza o almeno costretto a un compromesso. È  facile scorgere che qui siamo davanti a un problema a due  facce: l’una rivolta verso l’aspetto soggettivo, alla forza di  gravità del pensiero che tende a mantenerlo nella direzione già  presa, cioè nel pregiudizio soggettivo che assume 4 priori il  vecchio a criterio del nuovo; l’altra rivolta verso l’aspetto oggettivo, in quanto nelle persone e negli avvenimenti viene presupposta l’unità e la continuità che quella tendenza psicologico-soggettiva sembra rendere possibile e giustificare. La questione  della parte rispettiva dell’oggetto e del soggetto nella conoscenza, da Kant limitata in modo inopportuno ai rapporti più  generali che sono immodificabilmente comuni a tutti i processi  del pensiero, sorge anche di fronte a questi processi specifici del  conoscere, diretti da princìpi già molto complessi. Quell’unità  caratteriologica sia degli individui che dei gruppi appartiene  chiaramente ai presupposti 4 priori di ogni ricerca storica*.  Ora, però, questa unità non è qualcosa di formale, non è uno  schema generale in base a cui sia possibile determinare in anticipo il rapporto dei suoi contenuti empirici. Un errore profondo  è insito nella fede che in base all'unità della personalità umana si possa inferire il suo comportamento necessario secondo    a. Attraverso una singolare svolta dell’unità così presupposta viene alla luce il quadro delle manifestazioni di interi gruppi. Soltanto singole voci o singoli accidenti diventano di solito consapevoli in modo esatto; soltanto quando si collocano in un ambito tenuto insieme da interessi o da  legami noti per altra via, essi sono manifestazioni dell’insieme di tale ambito. Come dell’individuo sono sempre note soltanto singole manifestazioni, che tuttavia circoscrivono per noi l'insieme della sua personalità, così  i sintomi particolari si estendono a partire da un gruppo fino a un movimento psichico — caratterizzato in modo determinato — del gruppo nella  sua totalità. Cito a caso dalla Romische Geschichte di THEoDoR MoMmMSsEN  (Berlin, 1854-55): « un grido di sdegno attraverso l’Italia intera » (vol. II,  p. 145); Mario si dimostrò «un condottiero che manteneva ? soldati disciplinati e tuttavia di buon animo, guadagnandone al tempo stesso l’amore con un rapporto cameratesco » (vol. II, p. 192); l'aristocrazia « non si  dette la minima pena di nascondere la sua rabbia e la sua apprensione »  (vol. III, p. 190); « i partiti respirarono » (vol. III, p. 193). E da Die Cultur  der Renaissance in Italien di Jacos BurcKHarDT (Basel, 1860): « con un’ingenuità terrificante Firenze confessa la sua simpatia guelfa per i Francesi »  (vol. I, p. 89); « nei momenti cattivi sorge qua e là la vampa della penitenza medievale, e il popolo impaurito vuole impietosire il cielo con flagellazioni e alte invocazioni di misericordia » (vol. II, p. 232). Mentre l’unità  dello sviluppo caratteriologico costruisce una successione completa in base a singoli elementi dati, qui si ha la stessa cosa per la loro coesistenza  l'uno accanto all'altro. Come là viene presupposta l’anima individuale, qui  viene presupposta per così dire l’anima sociale come talmente unitaria che  il dato immediato, rna solo frammentario, permette anche di inferire un'eguale costituzione di ciò che non è dato. certe norme e certe conseguenze. Al contrario, osserviamo piuttosto un certo ordine e una certa serie di sviluppo dei fenomeni psichici che li percorre tutti, e l’unità della personalità è  solamente un nome che designa la loro connessione di fatto —  non già una connessione da costruire in modo puramente logi Parlando di questa unità in generale s'intende che le  azioni e le rappresentazioni di un uomo sono costituite in modo che noi le comprendiamo come produzioni di un'anima  numericamente semplice e immutabile. Ma dal momento che  si tratta di una semplice x di cui non possiamo dire nulla di  più, l’unità di tale essere significa che possiamo ricondurre  l’una all’altra le rappresentazioni dell’uomo e spiegarle reciprocamente. C’è però bisogno di certi princìpi il cui dominio  ci rappresenta l’unità della personalità, la quale non può essere  percepita immediatamente. Se individuiamo quindi l’unità della personalità nel fatto che quest'uomo, la cui vita è amareggiata da una pesante sventura, vede anche nel mondo che lo  circonda soltanto dolore e dissonanze, e se diciamo che si  tratta dello stesso elemento per il quale egli teme sempre  nuova sventura per sé e rende difficile la vita ai suoi simili,  noi conosciamo appunto delle regole psicologiche in base a cui  possiamo ricondurre geneticamente tali processi l’uno all’altro.  Queste sintesi non sono intelligibili perché siano unitarie, ma  le chiamiamo unitarie perché sono intelligibili; e ci appaiono  intelligibili perché siamo abituati a osservarle. Perciò non si  reca alcun disturbo all'unità della personalità se accanto al  proprio dolore si scorge l'aspirazione a rendere felici gli altri,  o se accanto ad esso emerge, in certo senso come surrogato, un  ottimismo teoretico — come spesso accade in uomini fisicamente disgraziati. In un avaro, l’unità della sua personalità ci  sembra garantita sia ch’egli non ceda ciò che ha ottenuto in  vista di alcuna probabilità futura, sia che lo getti a piene mani  non appena speri in un guadagno da usura. I fenomeni considerati in sé e per sé, e in base al loro contenuto, non sono ancora  decisivi rispetto al fatto di costituire un’unità, ma sono decisivi  soltanto rispetto alla possibilità di scoprire, in base a qualche  regola nota, un legame causale tra di essi. Così noi ipotizziamo  da un lato un’affinità di contenuto tra le azioni di un individuo, dall’altro una certa dissomiglianza — quando cioè circostanze esterne mutate influenzano il suo agire. E mentre ciò presuppone l’immutabilità del nucleo interno, proprio una trasformazione di questo nucleo rientra nell'immagine di una personalità unitaria quando si prendano in considerazione le diverse  età della vita. La conclusione che si trae, in base a certi modi  di azione di una persona, in merito alla possibilità o all'impossibilità di altri modi di azione non è una conclusione logica  immediata, ma dipende da un'esperienza psicologica reale assunta come premessa maggiore. C’è appena bisogno di accennare all'influenza che tutto questo — e la sua estensione a periodi e a gruppi — esercita sulla costruzione del processo storico, sull’interpretazione dei fatti particolari, sull’integrazione  della tradizione e sulla sua critica. Il compito più importante  per la filosofia della ricerca storica sarebbe ora quello di determinare le norme particolari che assumiamo — sulla base dell’« unità » dei caratteri — come criteri delle tradizioni e come  veicoli di rappresentazione; la latitudine entro la quale spieghiamo tuttavia come possibili azioni divergenti; gli sviluppi e  le modificazioni che riteniamo ovvie seguendo il principio interno della personalità, e quelle per cui dobbiamo invece cercare  una spiegazione nelle circostanze esterne. Vi sono indubbiamente procedure ben precise di questo genere, in base alle quali si  agisce, che vengono tacitamente presupposte tra lo storico e il  lettore, ma alla cui consapevole constatazione non si è ancora  pervenuti. Un problema ancora più profondo si apre poi quando indaghiamo sulla duplicità di motivazione, sopra menzionata, della presupposta unità dei soggetti storici: in quale misura l’esperienza psicologica oggettiva e in quale misura la  tendenza soggettiva al rafforzamento della capacità di pensiero  e alla semplificazione della conoscenza cooperano nella formazione delle immagini storiche — vale a dire alla formazione  che in base ai fatti originariamente dati abbozza uno schema  del processo successivo, limitando così la portata della divergenza caratteriologica da ciò che si era stabilito all’inizio. Nel  caso dei presupposti più generali con cui elaboriamo il materiale della conoscenza — gli assiomi matematici, le rappresentazioni primarie di sostanza e di forza, la legge causale, i princìpi  logici e così via — tale questione può trovare risposte più  semplici. L’idealismo deriverà senz'altro questi presupposti dal soggetto, negando qualsiasi partecipazione dell’oggetto e dell’esperienza al loro sorgere. Il realista empirico, al contrario,  affermerà proprio per queste rappresentazioni fondamentalissime l’accordo incondizionato con l’oggetto, e la loro fondazione nell’esperienza continua di esso. Una così chiara separazione di principio non è possibile nella nostra questione. Già  l’identità generale tra l’anima che indaga e l’anima che è indagata rende probabile che le tendenze più generali della prima  trovino un riflesso nella seconda, giustificando quindi la loro  assunzione, e che il risultato della ricerca sia determinato nello  stesso senso da entrambi i lati. Il realista deve concedere che  abbastanza spesso, e in modo abbastanza osservabile anche senza una critica particolare, presupposti e massime soggettive  che servono all’unità e alla semplicità del pensiero sono decisivi per l'elaborazione storica. D'altra parte, anche ammettendo le influenze psicologiche di più vasta portata su tale elaborazione, non si potrà negare che, pur con la rinuncia a ogni  convinzione monistica che ci si porta dietro, la realtà offre  prove sufficienti in favore dell’interpretazione realistica; e in  generale, quanto più alti e complicati sono gli ambiti a cui ci  solleviamo, tanto più è impossibile separare di un tratto e con  un'alternativa netta i loro elementi costitutivi 4 priori e quelli  a posteriori. Uno dei compiti più alti della filosofia della storia  potrebbe essere però la determinazione dei loro limiti e in  particolare della loro azione reciproca, il vicendevole rafforzamento tra il fattore soggettivo e il fattore empirico di quella rappresentazione di un'unità presente negli uomini, negli avvenimenti, nei gruppi e nelle epoche.   Queste considerazioni possono essere riassunte nella proposizione: la psicologia è l’4 priori della scienza storica. Il  compito della teoria della conoscenza nei suoi confronti è quello di determinare le regole mediante le quali si perviene, in  base ai documenti e alle tradizioni esteriori, ai processi psichici, e le regole sufficienti a istituire una connessione « intelligibile» tra questi ultimi.  Se è vero che il conoscere umano si è sviluppato partendo  da necessità pratiche, perché la conoscenza del vero è un’arma  nella lotta per l’esistenza tanto nei confronti dell’essere extraumano quanto nella concorrenza degli uomini tra di loro, da  lungo tempo esso non è però più legato a questa origine, e da  semplice mezzo per gli scopi dell'agire è diventato esso stesso  uno scopo definitivo. Ciononostante il conoscere, perfino nella  forma sovrana della scienza, non ha rotto dappertutto le relazioni con gli interessi della prassi, anche se esse non si presentano ora come meri effetti di quest'ultima, bensì come azioni  reciproche dei due domini esistenti ciascuno per diritto autonomo. Infatti non soltanto il conoscere scientifico si presta, nella  tecnica, alla realizzazione di fini esteriori della volontà, ma,  d’altro lato, dalle situazioni pratiche, interne ed esterne, sorge  il bisogno di comprensione teorica; talvolta si manifestano nuove direzioni di pensiero, e con il loro carattere puramente astratto gli interessi di un nuovo modo di sentire e di volere penetrano nella problematica e nelle forme della vita intellettuale.  Così le pretese che la scienza sociologica ama far valere costitui  scono la prosecuzione e il rispecchiamento teorico della potenza  pratica raggiunta nel secolo xtx dalle masse rispetto agli interessi dell'individuo. Il fatto che il senso di importanza e l’attenzione che i ceti inferiori pretendono da quelli superiori sia  sostenuto proprio dal concetto di « società » dipende però dalla    * Soziologie: Untersuchungen îiber die Formen der Vergesellschaftung, cap. 1:  Das Problem der Soziologie, Leipzig, Verlag von Duncker und Humblot, 1908,  Pp. 1-46 (traduzione di Giorgio Giordano, per i «Classici della sociologia » delle  Edizioni di Comunità). circostanza che, in virtù della distanza sociale, i primi si presentano agli altri non nei loro individui, ma soltanto come massa  unitaria, c che appunto questa distanza non permette agli uni e  agli altri di essere uniti sotto alcun altro aspetto di principio se  non quello che essi costituiscono insieme «una società ». Dal  momento che le classi, la cui efficacia risiede non già nell’importanza percepibile dei singoli, bensì nel loro essere « società », attiravano su di sé la coscienza teorica — in conseguenza  dei rapporti di forza pratici — il pensiero si accorse a un  tratto che ogni fenomeno individuale è determinato in genere  da un'infinità di influenze provenienti dalla sua cerchia ambientale umana. E quest’idea acquistò per così dire forza retrospettiva: accanto a quella presente, anche la società passata apparve  come la sostanza che costituiva l’esistenza individuale, così come il mare costituisce le onde. Qui parve conquistato il terreno  in base alle cui forze diventavano suscettibili di spiegazione le  forme particolari nelle quali esso formava gli individui. Questo  orientamento di pensiero fu favorito dal relativismo moderno,  cioè dalla tendenza a risolvere il singolare e il sostanziale in  azioni reciproche; l'individuo era solamente il luogo în cui si  collegano dei fili sociali, la personalità era soltanto il modo  particolare in cui ciò accade. Una volta raggiunta la coscienza  del fatto che ogni agire umano si svolge nell’ambito della società e che nessun agire può sottrarsi alla sua influenza, tutto ciò  che non era scienza della natura esterna doveva essere scienza  della società. Questa appariva come il territorio onnicomprensivo in cui si trovavano insieme l’etica e la storia della cultura,  l'economia politica e la scienza della religione, l’estetica e la  demografia, la politica e l’etnologia, poiché gli ‘oggetti di queste scienze si realizzavano nel quadro della società: la scienza  dell’uomo si configurava come scienza della società. A_ questa  concezione della sociologia come scienza di tutto ciò che è  umano in generale contribuì il fatto che essa era una scienza  nuova e che di conseguenza verso di essa si affollavano tutti i  possibili problemi che non trovavano altrove una sede precisa  — così come un territorio scoperto da poco diventa sempre, in  principio, l’eldorado di esistenze senza patria e sradicate: l’inevitabile indeterminatezza c mancanza di protezione dei confini  dànno a ognuno il diritto di insediarvisi. Considerato però più da vicino, questo ammassamento di tutti i precedenti campi del  sapere non ne produce affatto uno nuovo. Esso significa soltanto che tutte le scienze storiche, psicologiche, normative vengono versate in un grande calderone al quale viene attaccata  l'etichetta di sociologia. In tal modo si sarebbe dunque trovato  soltanto un nuovo 707, mentre tutto ciò che esso designa è  ià stabilito nel suo contenuto e nei suoi rapporti o viene prodotto nell’ambito dei settori di ricerca precedenti. Il fatto che  il pensiero e l’agire umano si svolgano nella società e siano  determinati da essa non fa della sociologia la scienza onnicomprensiva di quello, così come non si possono trasformare la  chimica, la botanica e l’astronomia in contenuti della psicologia per il fatto che i loro oggetti diventano in definitiva reali  soltanto nella coscienza umana e sottostanno ai presupposti di  questa.   Alla base di questo errore sta un fatto certamente frainteso,  ma di per sé molto significativo. L’intuizione che l’uomo è, in  tutta la sua essenza e in tutte le sue manifestazioni, determinato dal fatto di vivere in azione reciproca con altri uomini deve  certo condurre a una nuova forma di considerazione in tutte  le cosiddette scienze dello spirito.” Non è ora più possibile spiegare i fatti storici, nel senso più ampio della parola, cioè i  contenuti della cultura, i tipi di economia, le norme della moralità partendo dall’uomo singolo, dal suo intelletto e dai suoi  interessi e, dove ciò non riesce, ricorrere subito a cause metafisiche o magiche. Per esempio, a proposito del linguaggio non si è  più posti di fronte all’alternativa se esso sia stato inventato da  individui geniali oppure dato da Dio agli uomini; nelle forme  della religione non c’è più bisogno di distinguere l’invenzione  di astuti sacerdoti e la rivelazione immediata, e così via. Piuttosto noi crediamo ora di comprendere i fenomeni storici in base  all’agire reciproco e all’agire in comune degli individui, in  base alla somma e alla sublimazione di innumerevoli contributi  individuali, in base al concretarsi delle energie sociali in formazioni che stanno e si sviluppano di là dell'individuo. La sociologia, nella sua relazione con le scienze esistenti, è quindi un  nuovo metodo, uno strumento ausiliario della ricerca, per avvicinarsi ai fenomeni di tutti quei campi in modo nuovo. Con  ciò essa non si comporta in maniera essenzialmente diversa da quella in cui si comportava a suo tempo l'induzione, la quale  penetrava come nuovo principio di ricerca in tutte le scienze  possibili, si acclimatava per così dire in ognuna di esse e l’aiutava a trovare nuove soluzioni nell’ambito dei compiti stabiliti.  Ma come l’induzione non costituisce per questo una scienza  particolare o addirittura una scienza onnicomprensiva, così  non lo diventa, per gli stessi motivi, la sociologia. Nella  misura in cui si appoggia alla considerazione che l’uomo dev’essere compreso come essere sociale e che la società è la portatrice di ogni accadere storico, essa non contiene alcun oggetto  che non venisse già trattato in una delle scienze esistenti, ma è  soltanto una nuova via per tutte queste, un metodo scientifico  che non costituisce — proprio per la sua applicabilità alla totalità dei problemi — una scienza a sé.   Ma quale può essere l’ oggetto proprio e nuovo, la cui indagine fa della sociologia una scienza autonoma e dai confini determinati? È ovvio che per questa sua legittimazione quale scienza nuova non occorre la scoperta di un oggetto la cui esistenza  fosse prima ignota. Tutto ciò che indichiamo in generale come  oggetto è un complesso di determinazioni e di relazioni di cui  ciascuna, proiettata su una pluralità di oggetti, può diventare  oggetto di una scienza particolare. Ogni scienza poggia su  un’astrazione, in quanto considera la totalità di una qualche  cosa, che non possiamo afferrare in modo unitario per mezzo  di nessuna scienza, secondo uno dei suoi aspetti, cioè dal  punto di vista di un determinato concetto. Di fronte alla totalità della cosa e delle cose ogni scienza si sviluppa attraverso la  loro scomposizione — in base alla divisione del lavoro — in  qualità e funzioni particolari, dopo che si è trovato un concetto che permette di individuare quest'ultime e di coglierle  nel loro ricorrere nelle cose reali secondo connessioni metodiche. Così, per esempio, i fatti linguistici che vengono ora raggruppati a costituire il materiale della linguistica comparativa  esistevano già da lungo tempo in fenomeni trattati scientifica  mente; ma quella scienza particolare sorse con la scoperta del  concetto sotto il quale quei medesimi fenomeni, prima separati  nei diversi complessi linguistici, si coordinano in maniera unitaria e vengono regolati da leggi specifiche. Così anche la sociologia come scienza particolare potrebbe trovare il suo oggetto particolare soltanto tracciando una nuova linea attraverso certi  fatti che, in quanto tali, sono perfettamente noti; solo che fino  ad ora non era diventato operante appunto il concetto il quale  consente di riconoscere l’aspetto di questi fatti che cade su   uella linea, come l’aspetto comune ad essi tutti e costituente  un'unità metodico-scientifica. Di fronte ai fatti quanto mai  complicati della società storica, assolutamente non coordinabili  sotto un rico punto di vista scientifico, i concetti della politica, dell'economia, della cultura ecc. producono tali serie conoscitive sia collegando certe parti di quei fatti — ad esclusione  o con il concorso soltanto accidentale degli altri — in processi  storici singolari, sia individuando i raggruppamenti di elementi  che, indipendentemente dal singolo «qui » e «ora», comportano una connessione atemporalmente necessaria. Se deve dunque  esserci una sociologia come scienza particolare, occorre pertanto che il concetto di società in quanto tale sottoponga i dati  storico-sociali — al di là della raccolta estrinseca di quei fenomeni — a un nuovo processo di astrazione e di coordinamento,  in modo che certe determinazioni degli stessi, prima considerate in altre e molteplici relazioni, vengano riconosciute come  reciprocamente connesse e quindi come oggetti di un’uricascienza.   Questo punto di vista risulta da un’analisi del concetto di  società, che si può designare come distinzione tra forma e  contenuto della società — sottolineando che qui si tratta propriamente soltanto di un paragone per dare approssimativamente un nome all’antitesi degli elementi da distinguere: quest’antitesi dovrà essere colta direttamente nel suo senso singolare,  senza essere pregiudicata da altri significati di questi nomi  provvisori. In ciò prendo le mosse dalla rappresentazione più  ampia della società, da quella che evita il più possibile la polemica sulla sua definizione: che essa esiste là dove più individui  entrano in azione reciproca. Quest’azione reciproca sorge sempre da determinati impulsi o in vista di determinati scopi.  Impulsi erotici, religiosi o semplicemente socievoli, scopi di  difesa e di attacco, di gioco e di acquisizione, di aiuto e di  insegnamento, nonché innumerevoli altri, fanno sì che l’uomo  entri con altri in una coesistenza, in un agire l'uno per l’altro,  con l’altro e contro l’altro, in una correlazione di situazioni,  ossia che eserciti effetti sugli altri e ne subisca dagli altri.  Queste azioni reciproche significano che dai portatori individuali di quegli impulsi e scopi occasionali sorge un'unità, cioè  appunto una « società ». Infatti l’unità in senso empirico non è  altro che azione reciproca di elementi: un corpo organico è  un'unità perché i suoi organi stanno tra loro in uno scambio  reciproco di energie più stretto che con qualsiasi essere esterno; uno stato è 470 perché tra i suoi cittadini sussiste il corrispondente rapporto di influenze reciproche; e non potremmo  considerare come unitario neppure il mondo se ognuna delle  sue parti non influenzasse in qualche modo ogni altra parte,  se la reciprocità, comunque mediata, delle influenze fosse eliminata. Quella unità o associazione può presentare gradi molto  diversi, secondo il modo e la prossimità dell’azione reciproca —  dall’effimera riunione per una passeggiata alla famiglia, da tutti i rapporti validi « fino alla disdetta » all’appartenenza a uno  stato, dal fuggevole insieme di una compagnia di albergo all’intima unione di una gilda medievale. Tutto ciò che negli individui, nei luoghi immediatamente concreti di ogni realtà storica  è presente come impulso, interesse, scopo, inclinazione, situazione psichica e movimento, in modo che da ciò o in ciò sorga  l’azione su altri o la recezione delle loro azioni — tutto ciò lo  designa come il contenuto, quasi come la materia dell’associazione. In sé e per sé questi materiali di cui è piena la vita,  queste motivazioni che la sospingono, non sono ancora di carattere sociale. Né la fame o l’amore, né il lavoro o la religiosità,  né la tecnica o le funzioni e i risultati dell’intelligenza costituiscono ancora — così come sono dati immediatemente, e secondo il loro senso puro — un'associazione: la costituiscono soltanto quando strutturano la coesistenza isolata degli individui uno  accanto all’altro in determinate forme di coesistenza con e per  l’altro, le quali rientrano sotto il concetto generale dell’azione  reciproca. L'associazione è dunque la forma, realizzantesi in  innumerevoli modi diversi, in cui gli individui raggiungono  insieme un'unità sulla base di quegli interessi — sensibili o  ideali, momentanei o durevoli, coscienti o inconsci, che spingono in modo causale o che attirano teleologicamente — e nell’ambito della quale questi interessi si realizzano.   In ogni fenomeno sociale esistente il contenuto e la forma sociale costituiscono una realtà unitaria; una forma sociale non  può acquistare un’esistenza scissa da ogni contenuto, così come  una forma spaziale non può sussistere senza una materia di cui  essa costituisca la forma. Questi sono piuttosto gli elementi,  inseparabili nella realtà, di ogni essere e accadere sociale: un  interesse, uno scopo, un motivo e una forma o maniera di  azione reciproca tra gli individui, mediante la quale o nella  cui forma quel contenuto acquista realtà sociale.   Ciò che rende appunto tale la «società », in ogni senso  della parola finora valido, sono evidentemente i modi sopra  indicati di azione reciproca. Un dato numero di uomini non  diviene società per il fatto che in ognuno di essi sussiste un  contenuto vitale determinato oggettivamente o che lo muove  individualmente; soltanto quando la vitalità di questi contenuti acquista la forma dell’influenza reciproca, quando ha luogo un’azione di un elemento sull’altro — immediatamente o  mediata da un terzo elemento — la pura e semplice prossimità  spaziale o anche la successione temporale degli uomini si traduce in una società. Se deve quindi esserci una scienza il cui  oggetto è la società e nient'altro, essa può voler indagare solamente queste azioni reciproche, questi modi e forme di  associazione. Infatti tutto ciò che si trova ancora nell’ambito della  « società », tutto ciò che viene realizzato per mezzo e nel quadro di essa, non è società, ma soltanto un contenuto che assume  o viene assunto da questa forma di coesistenza e che soltanto  insieme ad essa dà luogo alla formazione reale, che si chiama  «società » nel senso più vasto e usuale. Che questi due elementi inseparabilmente uniti vengano separati nell’astrazione scientifica, che le forme di azione reciproca o di associazione vengano collegate tra loro, concettualmente isolate dai contenuti che  soltanto mediante esse diventano sociali, e metodicamente sottoposte a un punto di vista scientifico unitario — questo mi  sembra fondare l’unica e intera possibilità di una scienza specifica della società in quanto tale. Soltanto con essa i fatti che  designamo come realtà storico-sociale sarebbero realmente proiettati sul piano del puro e semplice sociale.   Ma per quanto siffatte astrazioni, che dalla complessità o  anche dall’unità della realtà producono la scienza, possano essere stimolate dagli intimi bisogni del conoscere, una qualsiasi    472 GEORG SIMMEL    loro legittimazione deve tuttavia risiedere nella struttura dell’oggettività stessa: infatti soltanto qualche relazione funzionale con la realtà di fatto può mettere al riparo da impostazioni  sterili, da un carattere occasionale dell’elaborazione concettuale della scienza. Se un naturalismo ingenuo sbaglia pensando  che il dato contenga già le disposizioni analitiche o sintetiche  mediante le quali esso diventa contenuto di una scienza, tuttavia le determinazioni che esso effettivamente possiede sono più  o meno adatte a quelle disposizioni — all’incirca come un  ritratto deforma fondamentalmente la figura naturale, eppure  l'una si presta meglio dell’altra a questa forma ad essa radicalmente estranea. A ciò si può poi commisurare il migliore o  peggiore diritto di quei problemi e metodi scientifici. Così  il diritto di sottoporre i fenomeni storico-sociali all’analisi secondo forme e contenuti e di ricondurre i primi a una sintesi si fonderà su due condizioni, le quali possono essere verificate soltanto in base ai fatti. Si deve da un lato trovare  che la medesima forma di associazione ricorre con un contenuto del tutto diverso, per scopi completamente differenti, e che,  al contrario, il medesimo interesse assume come sue portatrici 0  modi di realizzazione forme completamente diverse di associazione — così come le medesime forme geometriche si ritrovano  nelle materie più diverse e la medesima materia si configura  nelle forme spaziali più diverse, o come avviene tra le forme  logiche e i contenuti materiali della conoscenza.   Entrambe le cose sono però innegabili in quanto fatti. In  gruppi sociali i più diversi che si possano immaginare per i  loro scopi e per il loro intero significato, noi troviamo tuttavia  i medesimi modi formali di atteggiamento reciproco tra gli  individui. Sovra-ordinazione e subordinazione, concorrenza,  imitazione, divisione del lavoro, formazione di partiti, rappresentanza, contemporaneità del raggruppamento all’interno e  della chiusura verso l’esterno, nonché innumerevoli aspetti simili, si ritrovano in una società statale e in una comunità religiosa, in una banda di congiurati e in una consociazione economica, in una scuola artistica e in una famiglia. Per quanto molteplici possano essere gli interessi dai quali si perviene a queste  associazioni, le forme in cui esse si attuano possono tuttavia  essere le medesime. E d'altra parte lo stesso interesse può configurarsi in associazioni di forma molto differente: per esempio,  l’interesse economico si realizza tanto mediante la concorrenza  quanto mediante l’organizzazione pianificata dei produttori,  ora attraverso l'esclusione di altri gruppi economici ora attraverso l'aggregazione ad essi; i contenuti della vita religiosa stimolano, rimanendo identici nella sostanza, una forma di comunità  ora liberistica ora centralistica; gli interessi che stanno a base  delle relazioni tra i sessi si soddisfano nella molteplicità quasi  sterminata delle forme di famiglia; l'interesse pedagogico conduce a una forma di rapporto ora liberale ora dispotica tra  maestro e allievo, ora ad azioni reciproche individualistiche tra  il maestro e il singolo allievo, ora a forme più collettivistiche  tra quello e il complesso degli allievi. Come può restare identica la forma nella quale si attuano i contenuti più divergenti,  così può rimanere costante la materia mentre la coesistenza  degli individui, che ne è portatrice, si muove in una molteplicità di forme. In tal modo i fatti, benché materia e forma costituiscano nella loro concretezza un’unità inscindibile della vita  sociale, offrono quella legittimazione del problema sociologico  che esige la constatazione, l’ordinamento sistematico, la motivazione psicologica e lo sviluppo storico delle forme pure di  associazione.   Questo problema è direttamente contrapposto al procedimento secondo il quale sono state finora create le scienze sociali  particolari. Infatti la divisione del lavoro tra queste scienze è  stata completamente determinata dalla diversità dei contenuti.  Economia politica e sistematica delle organizzazioni ecclesiastiche, storia dell’organizzazione scolastica e storia dei costumi,  politica e teorie della vita sessuale ecc. si sono divise il campo  dei fenomeni sociali in modo tale che una sociologia, la quale  voleva comprendere la totalità di questi fenomeni con la loro  connessione di forma e contenuto, non poteva risultare nient’altro che un riassunto di quelle scienze. Finché le linee che  .tracciamo attraverso la realtà storica per suddividerla in campi  di ricerca separati congiungono soltanto quei punti che rivelano i medesimi contenuti di interessi, questa realtà non concede  nessun posto a una sociologia particolare. Occorre piuttosto una  linea che, attraversando tutte quelle finora tracciate, sciolga il  puro fatto dell’associazione, considerato nelle sue molteplici configurazioni, dal suo collegamento con i contenuti più divergenti e lo costituisca come campo particolare. Essa diventa in  tal modo una scienza specifica nello stesso senso in cui lo è  diventata — con tutte le ovvie differenze di metodo e di risultati — la teoria della conoscenza, astraendo le categorie o funzioni del conoscere in quanto tali dalla molteplicità delle conoscenze delle cose singole. Essa appartiene al tipo di scienza il cui  carattere specialistico non consiste nel fatto che il loro oggetto  venga compreso insieme ad altri sotto un concetto complessivo  superiore (come la filologia classica e la germanistica, oppure  l’ottica e l’acustica), bensì nel fatto di accostare un intero campo di oggetti da un punto di vista particolare. Non il suo  oggetto, ma la sua forma di considerazione, la particolare astrazione da essa compiuta, la differenzia dalle altre scienze storico-sociali.   Il concetto di società copre due significati che devono essere  tenuti rigorosamente distinti nella trattazione scientifica. Essa  è da un lato il complesso degli individui associati, il materiale  umano formato socialmente, che costituisce l’intera realtà storica. Ma d’altro lato la «società» è anche la somma di quelle  forme di relazione, in virtù delle quali dagli individui sorge  appunto la società nel primo senso. Così si definisce « sfera »  sia una materia formata in un determinato modo, sia anche, in  senso matematico, la pura e semplice figura o forma in virtù  della quale dalla semplice materia sorge la sfera nel primo  senso. Quando si parla di scienze della società in quel primo  significato, il loro oggetto è tutto ciò che accade nella e con la  società; mentre la scienza della società nel secondo senso ha per  oggetto le forze, le relazioni e le forme mediante le quali gli  uomini si associano, e che costituiscono quindi, nella loro configurazione autonoma, la «società » sensu strictissimo — il che  evidentemente non viene alterato dal fatto che il contenuto  dell’associazione, le modificazioni specifiche del suo scopo e  interesse materiale decidono spesso o sempre della sua formazione specifica. Del tutto errata sarebbe qui l’obiezione che tutte  queste forme — gerarchie e corporazioni, forme di concorrenza  e forme di matrimonio, amicizie e costumi socievoli, forme di  potere da parte di una persona o di più persone — sono soltanto costellazioni di avvenimenti in società già esistenti: se non esistesse già una società, mancherebbe il presupposto e l’occasione per il sorgere di tali forme. Questa concezione nasce dal  fatto che in ogni società a noi nota agisce un gran numero di  forme di connessione, cioè di forme di associazione del genere.  Se anche una di esse venisse meno, rimarrebbe ancor sempre la  «società », cosicché di ciascuna può certo sembrare che si aggiunga a una società già compiuta o sorga nell’ambito di essa.  Ma se si immagina di eliminare tutte queste forme, non rimane più nessuna società. La società sorge soltanto quanto siffatte  relazioni reciproche, suscitate da certi motivi e interessi, diventano operanti. Se la storia e le leggi della formazione complessiva che così si sviluppa sono quindi certamente materia della  scienza della società nel senso più ampio, è pur vero che —  essendosi questa già suddivisa nelle scienze sociali particolari  — a una sociologia nel senso più stretto, cioè in quello che  pone un compito particolare, rimane soltanto più la considerazione delle forme astratte, le quali non tanto producono l’associazione quanto piuttosto soro l’associazione. La società, nel  senso che può impiegare la sociologia, è allora o l’astratto concetto generale che designa queste forme, il genere di cui esse  sono specie, oppure la loro somma di volta in volta operante.  Da questo concetto consegue inoltre che un dato numero di  individui può essere società in grado maggiore o minore: a  ogni nuovo fiorire di formazioni sintetiche, a ogni costituzione  di gruppi di partito, a ogni unificazione in vista di un’opera  comune o in comunione di sentimento e di pensiero, a ogni  divisione più netta tra servi e padroni, a ogni pasto in comune, a ogni adornarsi per gli altri, lo stesso gruppo diventa  appunto più «società» di quanto lo fosse prima. Non esiste  mai società in generale, nel senso che quei particolari fenomeni  di connessione si siano formati soltanto presupponendo la sua  esistenza; infatti non esiste alcuna azione reciproca in quanto  tale, ma particolari modi di essa, con il cui manifestarsi la  società esiste e che non sono né la causa né la conseguenza di  questa, ma sono immediatamente già essa stessa. Soltanto la  sterminata quantità e diversità con cui esse sono in ogni attimo operanti ha conferito al concetto generale di società una  realtà storica apparentemente autonoma. Forse in questa ipostasi di una mera astrazione risiede la causa della peculiare nebulosità e insicurezza che hanno circondato tale concetto e le precedenti trattazioni della sociologia generale — così come non si è  fatta molta strada con il concetto di vita, finché la scienza non  lo ha considerato come un fenomeno unitario di realtà immediata. La scienza della vita ha raggiunto un terreno solido  soltanto quando sono stati indagati i singoli processi all’interno degli organismi la cui somma o il cui tessuto costituisce la  vita, soltanto quando si è riconosciuto che la vita consiste solo in  questi processi particolari dentro e tra gli organi e le cellule.   Soltanto in questa maniera si può cogliere ciò che nella  società è veramente « società », così come soltanto la geometria  determina che cosa negli oggetti spaziali costituisce realmente  la loro spazialità. La sociologia come dottrina dell’essere-società dell’umanità — la quale può ancora essere oggetto di scienza  sotto innumerevoli altri aspetti — sta dunque con le altre scienze speciali nello stesso rapporto in cui la geometria sta con le  scienze fisico-chimiche della materia: essa considera la forma  mediante la quale la materia si traduce in corpi empirici — la  forma che certamente di per sé sola esiste soltanto nell’astrazione, proprio come le forme di associazione. Tanto la geometria  quanto la sociologia lasciano ad altre scienze l'indagine dei  contenuti che si presentano nelle loro forme, o dei fenomeni  totali di cui esse considerano la pura e semplice forma. C'è  appena bisogno di avvertire che quest’analogia con la geometria  non va più in là della chiarificazione che abbiamo qui tentato  del problema di principio della sociologia. Soprattutto la geometria ha il vantaggio di trovare già pronte nel suo campo  forme estremamente semplici, nelle quali possono essere risolte  le figure più complicate; perciò è possibile, partendo da relativamente poche determinazioni fondamentali, costruire l’intero  ambito delle figure possibili. Per quanto riguarda le forme di  associazione non c'è da aspettarsi, almeno per lungo tempo  ancora, una risoluzione anche soltanto approssimativa in elementi semplici. La conseguenza di questo fatto è che le forme  sociologiche, se devono avere qualche determinatezza, valgono  soltanto per una cerchia relativamente ristretta di fenomeni.  Quando si dice per esempio che la sovra-ordinazione e la subordinazione sono una forma presente in quasi ogni associazione  umana, con questa conoscenza generale si è fatta poca strada. Occorre piuttosto scendere alle specie particolari di sovra-ordinazione e di subordinazione, alle forme specifiche della loro  realizzazione, che perdono allora naturalmente ambito di validità in rapporto alla loro determinatezza.   Se l’alternativa che si usa proporre ora a ogni scienza — se  cioè essa proceda alla scoperta di leggi atemporalmente valide  o alla rappresentazione e alla comprensione di processi storicoreali singolari — non esclude comunque innumerevoli forme  intermedie nell’esercizio effettivo della scienza, il concetto  problematico qui stabilito non viene toccato fin dall'inizio dalla  necessità di questa scelta. Questo oggetto astratto dalla realtà  può essere da un lato considerato sotto il profilo delle relazioni  legali che, poste semplicemente nella struttura oggettiva degli  elementi, rimangono indifferenti alla loro realizzazione spaziotemporale: esse sono appunto valide, poco importa che le realtà storiche le mettano in azione una o mille volte. D'altra  parte quelle forme di associazione possono anche essere considerate nel loro verificarsi in un luogo e in un tempo, nel loro  sviluppo storico entro determinati gruppi. La loro determinazione sarebbe, in quest’ultimo caso, uno scopo autonomo per così  dire storico, mentre nel primo sarebbe materiale induttivo per  la scoperta di rapporti legali atemporali. Sulla concorrenza,  per esempio, siamo edotti dai campi più diversi: la politica e  l'economia politica, la storia delle religioni e quella dell’arte ce  ne presentano innumerevoli esempi. In base a questi fatti si  tratta allora di stabilire che cosa significhi la concorrenza come  forma pura di atteggiamento umano, in quali circostanze essa  sorga, come si sviluppi, quali modificazioni subisca per effetto  della specie particolare del suo oggetto, da quali contemporanee determinazioni formali e materiali di una società essa venga potenziata o frenata, come la concorrenza tra gli individui  si differenzia da quella tra i gruppi — in breve, che cosa essa  sia come forma di relazione degli uomini tra loro, la quale può  accogliere in sé tutti i contenuti possibili ma, attraverso l’identità del suo manifestarsi nella grande varietà di questi ultimi,  dimostra di appartenere a un campo regolato da leggi proprie e  legittimato all’astrazione. Nei fenomeni complessi ciò che è  uniforme viene messo in evidenza con una specie di sezione trasversale, mentre ciò che in essi è difforme — cioè in questo  caso gli interessi sostanziali — viene d’altra parte paralizzato.  In modo corrispondente si deve dunque procedere con tutti i  grandi rapporti e le azioni reciproche che formano la società:  con la formazione dei partiti, con l'imitazione, con la formazione di classi, di cerchie e di suddivisioni secondarie, con l’incorporarsi delle azioni sociali reciproche in formazioni particolari  di carattere oggettivo, personale, ideale, con lo sviluppo e il  ruolo delle gerarchie, con la «rappresentanza » di collettività  da parte di singoli, con il significato di un antagonismo comune per la coesione interna del gruppo. A tali problemi principali si aggiungono poi, sostenendo in modo uniforme la determinatezza formale dei gruppi, dei fatti da una parte più specifici  e dall’altra più complicati, come per esempio il significato dell’«apartitico », quello del « povero » come elemento organico  delle società, quello della determinatezza numerica degli elementi dei gruppi, del primus inter pares e del tertius gaudens.  Come procedimenti più complicati si dovrebbero ricordare l’incrociarsi di cerchie molteplici nelle singole personalità, la particolare importanza del «segreto» nella formazione di cerchie,  la modificazione dei caratteri di gruppo a seconda che essi  comprendano individui che si trovano insieme localmente oppure individui separati da elementi estranei, nonché innumerevoli altri fenomeni.   Con ciò lascio impregiudicata — come già si è accennato —  la questione se nella diversità dei contenuti si presenti un’eguaglianza assoluta delle forme. L'eguaglianza approssimativa che  esse mostrano in circostanze materialmente molteplici — così  come il fenomeno contrario — è sufficiente per ritenerlo possibile in linea di principio; nel fatto che ciò non si realizzi completamente si manifesta appunto la differenza tra l’accadere psichico-storico, con le sue fluttuazioni e complicazioni mai interamente razionalizzabili, e la capacità della geometria di separare con assoluta purezza le forme sottoposte al’ suo concetto  dalla loro realizzazione nella materia. Si tenga pure presente  che questa eguaglianza del modo di azione reciproca in qualsiasi diversità del materiale umano e oggettivo, e viceversa, è  anzitutto soltanto uno strumento per compiere e legittimare nei  singoli fenomeni complessivi la separazione scientifica di forma e contenuto. Metodologicamente questa sarebbe stata richiesta  anche nel caso che le costellazioni di fatto non lasciassero pervenire a quel procedimento induttivo che fa cristallizzare l’eguale  rispetto al differente, proprio come l’astrazione geometrica della forma spaziale di un corpo sarebbe legittimata anche qualora  questo corpo così formato si presentasse di fatto una sola volta  nel mondo. Che ciò implichi una difficoltà di procedimento è  innegabile. Si prenda per esempio il fatto che, verso la fine del  Medioevo, certi maestri di corporazione erano spinti, a causa  dell'estensione delle relazioni commerciali, a un approvvigionamento di materiali, a un impiego di apprendisti, a nuovi  mezzi per attrarre i clienti che non si conciliavano più con i  vecchi princìpi corporativi secondo i quali ogni maestro doveva  avere lo stesso «nutrimento » dell’altro, e che cercavano per  questo di porsi al di fuori della stretta unione prima esistente.  Considerato sotto il profilo della forma puramente sociologica,  che astrae dal contenuto specifico, ciò vuol dire che l’ampliamento della cerchia con la quale l’individuo è legato in virtù  delle sue azioni procede di pari passo con una maggiore configurazione della specificità individuale, con una maggiore libertà e differenziazione reciproca dei singoli. Ma non esiste, a  quanto vedo, nessun metodo sicuramente efficace per ricavare  questo significato sociologico da quel fatto complesso, realizzato in virtù del suo contenuto. Quale configurazione meramente  sociologica, quale particolare rapporto reciproco di individui,  facendo astrazione dagli interessi e dagli impulsi che rimangono nell’individuo e dalle condizioni di carattere puramente oggettivo, siano contenuti nel processo storico — ciò può essere  spiegato rispetto a quest’ultimo in molteplici direzioni; non  soltanto, ma i fatti storici che ricoprono la realtà di determinate forme sociologiche possono essere indicati soltanto nella loro  totalità materiale, e manca un mezzo per rendere dimostrabile,  e attuabile in tutte le circostanze, la loro separazione in un  momento materiale e in un momento sociologico-formale. Ci si  comporta qui allo stesso modo che con la dimostrazione di una  proposizione geometrica sulla base dell’inevitabile accidentalità  e rozzezza di una figura disegnata. Ma il matematico può ora  contare sul fatto che il concetto della figura geometrica  ideale è noto e operante, e viene intimamente considerato come l’unico senso ora essenziale del tratto di gesso o d’inchiostro. Ma qui non si può partire dal presupposto corrispondente,  in quanto non si può ricavare logicamente dal fenomeno totale  complessivo ciò che è realmente la pura associazione.   Occorre qui affrontare il rischio di parlare di procedimento  intuitivo — per quanto distante esso sia dall’intuizione metafisico-speculativa — di una particolare messa a fuoco con la quale  si attua quella separazione e che può essere insegnata soltanto  adducendo degli esempi, finché essa non sarà colta con metodi  esprimibili concettualmente e di sicuro affidamento. Questa  difficoltà è accresciuta dal fatto che non soltanto l’impiego del  concetto sociologico fondamentale manca di un appiglio indubitabile, ma che anche quando si opera efficacemente con esso,  per molti aspetti degli avvenimenti l'inserimento sotto di esso o sotto il concetto della determinatezza di contenuto rimane  sovente arbitrario. Si potrà per esempio avere opinioni opposte  sulla questione se e fino a qual punto il fenomeno del « povero» sia di natura sociologica, ossia un risultato dei rapporti  formali all’interno di un gruppo, condizionato dalle correnti e  dagli spostamenti generali che si producono necessariamente  nel confluire degli uomini, oppure se la povertà sia da considerare come una determinazione soltanto materiale di certe esistenze individuali, esclusivamente dall’angolo visuale del contenuto di interesse economico. I fenomeni storici potranno essere  considerati, nel loro complesso, da tre punti di vista distinti in  linea di principio: da quello delle esistenze individuali che  costituiscono i portatori reali delle situazioni; da quello delle  forme di azione reciproca formale, che certamente si attuano  anche soltanto in esistenze individuali, ma che vengono ora  considerate non già sotto il profilo di queste, bensì sotto quello  del loro insieme, del loro esistere l’una con e per l’altra; da  quello dei contenuti concettualmente formulabili di situazioni e  avvenimenti, in presenza dei quali non si indaga in questo caso  sui loro portatori o sui loro rapporti, bensì sul loro significato  puramente oggettivo — l'economia e la tecnica, l’arte e la  scienza, le norme giuridiche e i prodotti della vita affettiva.  Questi tre punti di vista si intrecciano continuamente, e la  necessità metodologica di tenerli distinti si scontra a ogni passo con la difficoltà di ordinare ogni elemento in una serie indipendente dall'altra, e con l'aspirazione a un'immagine complessiva della realtà, comprendente tutte le posizioni. Né si  trà mai stabilire per tutti i casi quanto profondamente un  elemento, fondante e fondato, penetri nell'altro, con la conseenza che — nonostante tutta la chiarezza e precisione metodologica dell’impostazione di principio — a stento si potrà  evitare l’equivocità: la trattazione del singolo problema sembra  rientrare ora nell’una ora nell’altra categoria, e anche nell’ambito di una categoria non sempre può essere delimitata con sicurezza rispetto alla forma di trattazione dell’altra. Del resto  spero che la metodologia della sociologia qui proposta risulterà  più sicura e forse addirittura più chiara attraverso le analisi  dei suoi problemi singoli che non da questa fondazione astratta. Nelle cose dello spirito non è fenomeno tanto raro — ma è  anzi presente in tutti i campi di problemi più generali e più  profondi — che ciò che dobbiamo chiamare, con inevitabile  paragone, il fondamento non sia così solido come la costruzione eretta al di sopra. Anche la pratica scientifica non potrà  fare a meno, particolarmente in campi finora inesplorati, di una  certa misura di procedimento istintivo, i cui motivi e le cui  norme acquistano soltanto in seguito una coscienza del tutto  chiara e un'elaborazione concettuale. E se il lavoro scientifico  non può mai adagiarsi completamente su quei modi di procedere ancora indistinti, istintivi, adottati soltanto nella ricerca particolare, esso sarebbe d'altra parte condannato alla sterilità se di  fronte a compiti nuovi si volesse porre come condizione già del  primo passo una metodologia compiutamente formulata.  Nell'ambito del campo di problemi che viene costituito separando le forme di azione reciproca associativa dal fenomeno  totale della società alcune parti delle indagini qui proposte si  collocano ormai, per così dire, quantitativamente al di là dei    a. Considerando l’infinita complicazione della vita sociale, nonché i  concetti e metodi — delineantisi appunto dalla prima sgrossatura — con i  quali essa dev'essere padroneggiata spiritualmente, sarebbe una pretesa immodesta voler già ora sperare in una chiarezza di domande e in un’csattezza di risposte che arrivi fino in fondo. Mi sembra più dignitoso fare fin  dall’inizio quest'ammissione, poiché in questo modo almeno il primo passo  è più netto, piuttosto che mettere in questione, con l'affermazione della  conclusione, addirittura gweszo significato di tentativi del genere. compiti altrove riconosciuti come sociologici. Appena si pone  la questione delle influenze reciproche tra gli individui, la cui  somma produce quella coesione nella società, si rivela immediatamente una serie — anzi, per così dire, un mondo — di forme  di relazione che finora non venivano comprese affatto nella  scienza della società, o lo erano senza cogliere la loro importanza fondamentale e vitale. In complesso la sociologia si è propriamente limitata a quei fenomeni sociali nei quali le forze in  azione reciproca sono già cristallizzate in base ai loro portatori  immediati, per lo meno a costituire unità ideali. Stati e unioni  sindacali, gruppi sacerdotali e forme di famiglia, costituzioni  economiche ed eserciti, corporazioni e comuni, formazione di  classi e divisione del lavoro industriale — questi e i grandi  organi e sistemi del genere sembrano costituire la società ed  esaurire l’ambito della scienza che la riguarda. È ovvio che,  quanto più una regione di interessi e una direzione di azione  sociale è grande, significativa e dominante, tanto più presto il  vivere e l’agire immediato, inter-individuale, si realizzerà in  formazioni oggettive, in un'esistenza astratta al di là dei processi particolari e primari. Ma questa osservazione richiede un'integrazione importante in due direzioni. Oltre a quei fenomeni  macroscopici, che si impongono da tutte le parti per la loro  estensione e per la loro importanza esterna, esiste un numero  sterminato di forme di relazione e di modi di azione reciproca  tra gli uomini che sono di dimensioni minori e meno appariscenti nei casi particolari, ma che vengono offerti da questi casi  particolari in una quantità inestimabile e che, sia pure infiltrandosi tra le formazioni sociali più comprensive, per così dire  ufficiali, sono quelli che soli dànno origine alla società quale  noi la conosciamo. La limitazione ai primi fenomeni ricorda la  scienza primitiva del corpo umano interno, che si limitava ai  grandi organi, nettamente delimitati, come il cuore, il fegato,  i polmoni, lo stomaco ecc., e trascurava invece gli innumerevoli  tessuti, privi di una denominazione popolare o non conosciuti,  senza i quali quegli organi più distinti non darebbero mai  luogo a un corpo vivente. Con le formazioni della specie sopra  indicata, che costituiscono gli oggetti tradizionali della scienza  della società, non sarebbe assolutamente possibile comporre la  vita reale della società così come si presenta nell’esperienza:    GEORG SIMMEL 483  senza l’intervento di innumerevoli sintesi, singolarmente meno  comprensive — alle quali devono essere in gran parte dedicate  queste indagini — la vita sociale si sfalderebbe in una molteplicità di sistemi discontinui. Ciò che rende più difficile fissare  scientificamente tali forme sociali poco appariscenti, le rende al  tempo stesso infinitamente importanti per la più profonda comprensione della società: il fatto cioè che in generale esse non  sono ancora consolidate in formazioni stabili, sovra-individuali,  ma mostrano la società per così dire allo status nascens — naturalmente non nel suo primo inizio assoluto, storicamente imperscrutabile, bensì in quello che si ha ogni giorno e ogni ora.  L'associazione tra gli uomini si allaccia, si scioglie e si riallaccia continuamente, come un eterno fluire e pulsare che incatena gli individui, anche quando non perviene a organizzazioni  vere e proprie. Qui si tratta quasi di processi microscopico-molecolari all’interno del materiale umano, i quali però costituiscono l’accadere reale che si concatena o si ipostatizza in quelle  unità e sistemi macroscopici e stabili. Il fatto che gli uomini si  guardano l’un l’altro e che sono reciprocamente gelosi; il fatto  che si scrivono lettere o pranzano insieme; il fatto che riescono  simpatici o antipatici prescindendo completamente da tutti gli  interessi tangibili; il fatto che la gratitudine per la prestazione  altruistica produce nel tempo un vincolo indissolubile; il fatto  che uno chiede la strada all’altro o si veste e si adorna per  l’altro — tutte le mille relazioni che si riflettono da persona a  persona, momentanee o durevoli, coscienti o inconscie, superficiali o ricche di effetti, da cui questi esempi sono scelti del  tutto a caso, ci legano in modo indissolubile. In ogni attimo  questi fili vengono filati, vengono lasciati cadere, ripresi di  nuovo, sostituiti da altri, intessuti con altri. Qui risiedono le  azioni reciproche — accessibili soltanto alla microscopia psicologica — tra gli atomi della società, che sorreggono tutta la  tenacia ed elasticità, tutta la varietà e unitarietà di questa vita  così chiara e così enigmatica della società. Si tratta di applicare  il principio delle azioni infinitamente numerose e infinitamente  piccole anche alla prossimità caratteristica della società, così  come si è dimostrato efficace nelle scienze che studiano la successione — la geologia, la teoria dello sviluppo biologico, la storia. I passi incommensurabilmente piccoli producono la connessione dell’unità storica, e le azioni reciproche, altrettanto impercettibili, tra persona e persona producono la connessione dell’unità sociale. Soltanto ciò che accade nel dominio dei contatti  fisici e spirituali, della causazione reciproca di piacere e di  sofferenza, dei discorsi e dei silenzi, degli interessi comuni e  antagonistici, soltanto questo costituisce la meravigliosa indissolubilità della società, il fluttuare della sua vita con cui i suoi  elementi acquistano, perdono, spostano incessantemente il loro  equilibrio. Forse con questo riconoscimento la scienza della  società può raggiungere il punto che per la scienza della vita  organica ha rappresentato l’inizio della microscopia. Se fino ad  allora l'indagine era limitata ai grandi organi corporei, nettamente divisi, le cui differenze di forma e di funzione si presentavano evidenti, soltanto a questo punto il processo vitale si è  mostrato nel suo legame con i suoi più piccoli portatori — le  cellule — e nella sua identità con le innumerevoli e incessanti  azioni reciproche tra di esse. Soltanto osservando come le cellule si uniscano o si distruggano tra loro, si assimilino o si  influenzino chimicamente, è possibile comprendere a poco a  poco come il corpo crei la sua forma, la mantenga o la cambi.  I grandi organi, nei quali questi fondamentali portatori della  vita e le loro azioni reciproche si sono riuniti in formazioni  particolari e in funzioni percepibili a livello macroscopico, non  avrebbero mai permesso di comprendere la connessione della  vita se quegli innumerevoli processi, che si svolgono tra i più  piccoli elementi e sono per così dire soltanto riassunti da quelli macroscopici, non si fossero svelati come la vita vera e propria, la vita fondamentale. AI di là di ogni analogia sociologica  o metafisica tra le realtà della società e dell'organismo si tratta  qui soltanto dell’analogia del metodo di trattazione e del suo  sviluppo; della scoperta dei tenui fili, delle relazioni minime  tra gli uomini, dalla cui ripetizione continuativa vengono fondate e sorrette tutte quelle grandi formazioni che, diventate  oggettive, presentano una storia vera e propria. Questi processi  primari, che creano la società dall’immediato materiale individuale, sono quindi da sottoporre a una considerazione formale  accanto ai processi e alle formazioni superiori e più complicate; e le particolari azioni reciproche che si offrono in queste  misure non del tutto consuete all’analisi teorica devono essere esaminate come forme costitutive della società, come parti dell'associazione in generale. Anzi, a questi tipi di relazione apparentemente privi di importanza sarà opportuno dedicare una  considerazione tanto più approfondita quanto più la sociologia  è solita trascurarli.  Ma proprio con questa svolta le indagini qui progettate  sembrano destinate a diventare nient'altro che capitoli della  psicologia, in ogni caso della psicologia sociale. Certamente  non c’è nessun dubbio che tutti i processi e gli istinti sociali  hanno la loro sede nelle anime, che l’associazione è un fenomeno psichico e che nel mondo della realtà corporea non c'è  nessuna analogia col suo fatto fondamentale, che cioè una pluralità di elementi si traduce in unità, poiché in esso tutto rimane  confinato all’insuperabile esteriorità dello spazio. Qualsiasi accadimento esterno che possiamo indicare come sociale sarebbe un  gioco di marionette, non più comprensibile e non più significa  tivo dell’ammassarsi delle nuvole o dell’incrociarsi dei rami di  un albero, se non fossimo in grado di riconoscere in modo del  tutto evidente motivazioni psichiche, sentimenti, pensieri, bisogni non soltanto come portatori di quegli elementi esteriori,  ma anche come loro elemento essenziale e come l’unico che  propriamente ci interessi. La comprensione causale di ogni accadere sociale sarebbe quindi raggiunta di fatto quando le constatazioni psicologiche e il loro sviluppo permettessero di dedurre completamente questi avvenimenti in conformità a «leggi  psicologiche » — per quanto problematico ci appaia questo concetto. E non c'è neppure nessun dubbio che gli aspetti dell’esistenza storico-sociale che noi possiamo cogliere non sono altro  che concatenazioni psichiche, che ricostruiamo con una psicologia istintiva o con una psicologia metodica e riduciamo a un’interna plausibilità, al senso di una necessità psichica degli sviluppi in questione. In questo senso ogni storia, ogni analisi di una  situazione sociale è un esercizio di sapere psicologico. Tuttavia  è della massima importanza metodologica, e addirittura decisivo per i princìpi delle scienze dello spirito in generale, riconoscere che la trattazione scientifica di fatti psichici non ha affatto bisogno di essere psicologia; anche dove facciamo ininterrottamente uso di regole e di conoscenze psicologiche, dove la  spiegazione di ogni fatto singolo è possibile soltanto per via    486 GEORG SIMMEL    psicologica — come nell’ambito della sociologia — il senso e  l'intenzione di questo procedimento non devono necessariamente sfociare nella psicologia, cioè nella legge del processo psichico, che può portare soltanto un determinato contenuto, ma  deve pervenire proprio a questo contenuto e alle sue configurazioni. Abbiamo qui una differenza soltanto di grado rispetto  alle scienze della natura esterna che, in quanto fatti della vita  spirituale, si svolgono anch'esse — in ultima analisi — soltanto  nell’ambito dello spirito: la scoperta di ogni verità astronomica  o chimica, così come la riflessione su di essa, è un avvenimento  della coscienza che una psicologia compiuta potrebbe dedurre  integralmente soltanto da condizioni e sviluppi psichici. Ma  quelle scienze sorgono in quanto assumono come proprio oggetto, in luogo dei processi psichici, i loro contenuti e le loro  connessioni, all'incirca come noi consideriamo un dipinto nel  suo significato estetico e storico-artistico e non lo deduciamo  dalle oscillazioni fisiche che costituiscono i suoi colori, e che  naturalmente creano e sorreggono l’intera esistenza reale del  dipinto. È sempre na realtà che non possiamo abbracciare  scientificamente nella sua immediatezza e totalità, ma che dobbiamo cogliere da una serie di punti di vista separati e configurare quindi in una pluralità di oggetti di scienze tra loro indipendenti. Ciò è necessario anche nei confronti di quegli avvenimenti psichici i cui contenuti non si raccolgono in un mondo  spaziale indipendente e non si contrappongono visivamente  alla loro realtà psichica. Per esempio le forme e le leggi di una  lingua, che pure è certamente formata soltanto da forze dell’anima e per scopi dell'anima, vengono tuttavia trattate da una scienza linguistica che prescinde del tutto da quella realizzazione data  del suo oggetto e che lo rappresenta, lo analizza e lo costruisce  soltanto nel suo contenuto oggettivo, insieme alle formazioni  esistenti soltanto in questo contenuto stesso. Analogamente avviene con'i fatti dell’associazione. Che gli uomini si influenzino l’un l’altro, che uno faccia o subisca qualcosa, che presenti  un essere o un divenire, perché altri esistono o si manifestano,  agiscono o sentono — tutto questo è naturalmente un fenomeno psichico, e la realizzazione storica di ogni singolo caso può  essere compresa solamente attraverso una rielaborazione psicologica, attraverso la plausibilità di serie psicologiche, attraverso    GEORG SIMMEL 487    l’interpretazione di ciò che è constatabile dall’esterno per mezzo di categorie psicologiche. Ma una particolare intenzione  scientifica può trascurare del tutto questo accadere psichico in  quanto tale e seguirne, scomporne, metterne in relazione i  contenuti così come si coordinano sotto il concetto di associazione. Si osservi per esempio come il rapporto di un individuo più  potente con altri più deboli, che ha la forma del primus inter pares, graviti in modo tipico nel senso di tradursi in una posizione  di potere assoluto del primo e di escludere a poco a poco gli  aspetti di eguaglianza. Benché nella realtà storica questo sia  un processo psichico, a noi interessa ora soltanto dal punto di  vista sociologico — come si dispongano qui i diversi stadi di  sovra-ordinazione e di subordinazione, fino a qual punto in  una determinata relazione un rapporto di sovra-ordinazione  sia compatibile con un rapporto di equiparazione in altre relazioni, e a partire da quale punto di preponderanza esso distrugga completamente quest’ultimo; se la connessione, la possibilità  di cooperazione sia maggiore nel primo o nel successivo stadio  di tale sviluppo, e così via. Oppure si constata che gli antagonismi raggiungono il massimo accanimento quando sorgono sulla  base di una precedente comunanza o appartenenza reciproca  che sia ancora in qualche modo sentita, per cui si indica come  uno degli odi più feroci quello tra consanguinei. Ciò potrà  essere reso comprensibile, anzi descritto, come avvenimento soltanto in termini psicologici. Ma, considerata come formazione  sociologica, non interessa la serie psichica che si svolge in ciascuno dei due individui, bensì la sinossi di entrambe sotto la  categoria dell’unione e della discordia. Anche se la descrizione  singolare o tipica del processo può sempre essere soltanto psicologica, ciò che ora importa è stabilire fino a qual punto il  rapporto tra due individui o partiti possa implicare antagonismo e appartenenza reciproca, per lasciare ancora al tutto la  colorazione di quest’ultima o dargli quella del primo; quali  specie di appartenenza reciproca, sotto forma di ricordo o di  istinto insopprimibile, forniscano i mezzi per danneggiare in  modo più crudele e più profondamente lesivo di quello possibile nel caso di una precedente estraneità; in breve, come quell’osservazione debba essere presentata quale realizzazione di forme  di relazione tra gli uomini, quale particolare combinazione di categorie sociologiche essa rappresenti. Riprendendo un accenno precedente, si può paragonare questo procedimento — pur  con tutte le differenze — alla deduzione geometrica che si  compie su una figura disegnata sulla lavagna. Tutto ciò che  qui può essere dato e visto sono tratti di gesso riportati fisicamente; ma ciò che noi intendiamo nella trattazione geometrica  non sono questi tratti, bensì il loro significato dal punto di  vista del concetto geometrico, che è completamente eterogeneo  rispetto a quella figura fisica come disposizione di particelle di  gesso — mentre d'altra parte possono essere inquadrati in categorie scientifiche anche sotto la specie di questa formazione  fisica, facendo oggetto di indagini particolari per esempio la  loro origine fisiologica o la loro composizione chimica o la loro  impressione ottica. I dati della sociologia sono dunque processi  psichici, la cui realtà immediata si offre in primo luogo alle  categorie psicologiche. Ma queste, pur essendo indispensabili  per la descrizione dei fatti, rimangono al di fuori dello scopo  dell’osservazione sociologica, il quale consiste piuttosto soltanto nella realtà oggettiva dell’associazione sorretta dai processi  psichici e spesso descrivibile solamente per mezzo di questi —  così come, per esempio, una composizione teatrale contiene dall’inizio alla fine processi psicologici, può essere compresa soltanto psicologicamente, e tuttavia la sua intenzione non risiede in  conoscenze psicologiche, bensì nelle sintesi che i contenuti dei  processi psichici costituiscono dal punto di vista del tragico,  della forma artistica, dei simboli vitali ?.   Se la dottrina dell’associazione in quanto tale, distinta da  tutte le scienze sociali che sono determinate da un particolare  contenuto della vita sociale, è apparsa come l’unica scienza  legittimata ad assumere senz'altro il nome di scienza della società, l'importante non sta naturalmente in questa denominazio  a. L'introduzione di una nuova forma di considerazione dei fatti deve  sostenere i diversi aspetti del suo metodo mediante analogie con campi  riconosciuti; ma soltanto il processo — forse senza fine — in cui il principio determina le sue attuazioni nell’ambito della ricerca concreta, e in  cui queste attuazioni legittimano il principio come fecondo, può ripulire  tali analogie dagli aspetti in cui la diversità di materia copre l’eguaglianza formale che è ora decisiva. Ma questo processo le libera della loro  equivocità soltanto nella misura in cui le rende superflue. ne, bensì nella scoperta di quel nuovo complesso di problemi  particolari. La polemica su ciò che significhi propriamente sociologia mi sembra assolutamente priva di rilievo finché verte  soltanto sul riconoscimento di questo titolo ad ambiti di problemi già esistenti e trattati. Se invece per indicare questo insieme di compiti si sceglie il titolo di sociologia con la pretesa di  coprire completamente ed esclusivamente il concetto di sociologia, ciò dev'essere ancora giustificato nei riguardi di un altro  gruppo di problemi che, non meno degli altri, cercano innegabilmente — al di là delle scienze della società determinate in  base al contenuto — di pervenire ad asserzioni sulla società in  quanto tale e considerata nel suo complesso.   AI pari di ogni altra scienza esatta, rivolta alla comprensione  immediata del dato, anche la scienza sociale è delimitata da  due campi filosofici. Il primo comprende le condizioni, i concetti fondamentali, i presupposti della ricerca particolare, che  non possono trovare sistemazione in questa perché stanno piuttosto già a base di essa; nel secondo questa ricerca particolare  viene recata a completamenti e a connessioni e messa in relazione con domande e concetti, che non trovano posto nell’ambito  dell'esperienza e del sapere immediatamente oggettivo. Quello  è la teoria della conoscenza, questo la metafisica dei campi  particolari in questione. La seconda implica propriamente due  problemi, che però nell’effettiva trattazione concettuale restano  di solito giustamente indivisi: l’insoddisfazione per il carattere  frammentario delle conoscenze particolari, per la rapida fine  delle constatazioni oggettive e delle serie dimostrative conduce  all'integrazione di queste lacune con i mezzi della speculazione; e appunto questi mezzi servono all'esigenza parallela di integrare la mancanza di connessione e la reciproca estraneità di quei frammenti nell'unità di un quadro complessivo.  Accanto a questa funzione metafisica, orientata verso il grado  del conoscere, un’altra procede verso una diversa dimensione  dell’esistenza, nella quale risiede il significato metafisico dei  suoi contenuti: noi la esprimiamo come il senso o lo scopo,  come la sostanza assoluta tra i fenomeni relativi, o anche come  il valore o il significato religioso. Di fronte alla società questa  attitudine spirituale suscita domande come questa: la società è  lo scopo dell’esistenza umana o un mezzo per l'individuo? non    490 GEORG SIMMEL    è essa per l’individuo un mezzo, ma al contrario un ostacolo?  il suo valore consiste nella sua vita funzionale o nella produzione di uno spirito oggettivo o nelle qualità etiche che essa desta  nei singoli? nei tipici stadi di sviluppo delle società si manifesta un “analogia cosmica, in modo tale che le relazioni sociali  degli uomini debbano essere inserite in una forma o in un ritmo  generale, che di per sé non compare nel fenomeno ma che  fonda tutti i fenomeni, e che guida anche le forze dei fatti  materiali? può esserci in generale un significato metafisico-religioso di collettività, oppure questo significato è riservato alle  anime individuali?   Ma queste e innumerevoli domande analoghe non mi sembrano possedere quell’autonomia categoriale, quel caratteristico  rapporto tra oggetto e metodo che le legittimerebbe a fondare  la sociologia come una scienza nuova, coordinata con quelle  esistenti. Tutte queste sono infatti senz'altro domande filosofi  che, e il fatto che esse abbiano assunto come loro oggetto la  società significa soltanto l’estensione a un campo più vasto di  un modo di conoscenza già dato nella sua struttura. Che si  riconosca oppure no la filosofia come scienza, la filosofia della  società non ha alcun diritto di sottrarsi ai vantaggi o agli  svantaggi della sua appartenenza alla filosofia in generale attraverso la costituzione in una particolare scienza sociologica.   Non diversamente stanno le cose con i problemi filosofici  che non hanno la società come loro presupposto (come nel  caso dei precedenti), ma che ricercano invece essi stessi i presupposti della società — non già in senso storico, come se si  dovesse descrivere il sorgere di una qualche società particolare  o le condizioni fisiche e antropologiche sulla cui base può sorgere una società. Né si tratta qui degli stimoli particolari che  muovono il loro soggetto quando incontra altri soggetti e i cui  modi sono descritti dalla sociologia. Si tratta invece di questo:  quando un soggetto siffatto sussiste, quali sono i presupposti  della sua coscienza di costituire un essere sociale? In quelle  parti considerate di per sé non si ha ancora una società; ma  essa è già reale nelle forme di azione reciproca: quali sono  dunque le condizioni interne e di principio in base alle quali  gli individui forniti di tali stimoli dànno origine alla società in  generale, l’a priori che rende possibile e forma la struttura empirica dell'individuo in quanto essere sociale? Come sono  possibili non soltanto le formazioni particolari che sorgono empiricamente, e che rientrano nel concetto generale di società,  ma la società in generale come forma oggettiva di anime soggettive ? COME È POSSIBILE LA SOCIETÀ? Kant poteva porre e dare una risposta alla questione fondamentale della sua filosofia — come è possibile la natura? —  soltanto perché per lui la natura non era altro che la rappresentazione della natura. Ciò non significa soltanto che «il mondo  è la mia rappresentazione », e che noi possiamo quindi parlare  anche della natura solamente in quanto essa è un contenuto  della nostra coscienza; ma significa che ciò che chiamiamo  natura è un modo particolare in cui il nostro intelletto raccoglie, ordina, dà forma alle sensazioni. Queste sensazioni « date » — del colorato e del gustabile, dei suoni e delle temperature, delle resistenze e degli odori — che attraversano la nostra  coscienza nella successione accidentale di un'esperienza vissuta  soggettiva, non sono di per sé ancora « natura », ma lo diventano attraverso l’attività dello spirito che le compone in oggetti e in serie di oggetti, in sostanze e in proprietà, in collegamenti causali. Così come ci sono dati immediatamente, gli elementi  del mondo non posseggono per Kant quella conmessione che  sola costituisce l'unità comprensibile, e conforme a leggi della  natura, o meglio che significa appunto l’essere-natura di quei  frammenti di mondo in sé incoerenti e manifestantisi senza  regola. Così l’immagine kantiana del mondo si delinea in un  contrappunto quanto mai caratteristico: le nostre impressioni  sensibili sono per lui puramente soggettive, poiché dipendono  dall’organizzazione fisico-psichica — che in altri esseri potrebbe essere diversa — e dall’accidentalità dei suoi stimoli, e esse  diventano «oggetti» quando vengono accolte dalle forme del  nostro intelletto, configurate da queste in regolarità stabili e in  un'immagine coerente della « natura »j ma d'altra parte quelle  sensazioni sono pur sempre il dato reale, il contenuto del mondo da assumere nella sua invariabilità e la garanzia di un    492 GEORG SIMMEL    essere indipendente da noi, cosicché ora proprio quelle elaborazioni intellettuali delle sensazioni in forma di oggetti, di connessioni, di regolarità causali appaiono come soggettive, come  qualcosa di aggiunto da noi in antitesi a ciò che riceviamo  dall’esistenza, come le funzioni dell’intelletto stesso che — esse  pure immutabili — avrebbero con un altro materiale sensibile  formato una natura diversa per contenuto. La natura è per  Kant un determinato modo di conoscere, un’immagine che si  sviluppa attraverso le nostre categorie conoscitive e in esse. La  questione: come è possibile la natura? — ossia quali sono le  condizioni che devono sussistere perché vi sia una natura — si  risolve quindi per lui mediante la ricerca delle forme che costituiscono l’essenza del nostro intelletto e che in tal modo producono la natura in quanto tale.   Si sarebbe tentati di trattare in modo analogo la questione  delle condizioni 4 priori in base alle quali è possibile la  società. Infatti anche qui sono dati elementi individuali che in  certo senso sussistono anch'essi nella loro esteriorità reciproca,  al pari delle sensazioni, e raggiungono la loro sintesi nell’unità  di una società soltanto attraverso un processo di coscienza che  pone l'essere individuale del singolo elemento in relazione con  quello dell’altro in determinate forme e secondo determinate  regole. Ma la differenza decisiva tra l’unità di una società e  l’unità della natura consiste in questo: che la seconda — dal  punto di vista kantiano qui presupposto — sussiste esclusivamente nel soggetto conoscente e viene prodotta esclusivamente  da lui sulla base degli elementi sensibili di per sé privi di  legame, mentre l’unità sociale viene realizzata senz'altro dai  suoi elementi, poiché essi sono coscienti e sinteticamente attivi,  e non ha bisogno di alcun osservatore. Il principio kantiano  secondo il quale la connessione non può mai risiedere nelle  cose, poiché viene posta in essere soltanto dal soggetto, non  vale per ia connessione sociale, che di fatto si compie piuttosto  immediatamente nelle « cose » — che qui sono le anime individuali. Anch’essa rimane naturalmente, come sintesi, qualcosa  di puramente psichico e senza parallelo con le formazioni spaziali e con le loro azioni reciproche. Ma l’unificazione non ha  qui bisogno di nessun fattore al di fuori dei suoi elementi,  perché ciascuno di questi esercita la funzione che nei confronti del mondo esterno compie l’energia psichica dell'osservatore:  la coscienza di costituire con gli altri un’unità è qui effettivamente tutta l’unità in questione. Naturalmente ciò non designa  la coscienza astratta del concetto di unità, bensì le innumerevoli relazioni singolari, il sentimento e il sapere di questo determinare e venir determinato nei confronti degli altri, e d’altra  parte non esclude affatto che un terzo osservatore compia ancora tra le persone una sintesi fondata soltanto su di lui, al pari  che tra gli elementi spaziali. Quale settore dell’essere dato all'intuizione esterna debba essere raccolto in un’unità non risulta dal suo contenuto immediato e semplicemente oggettivo, ma  viene determinato dalle categorie del soggetto e in base ai suoi  bisogni conoscitivi. La società è invece l’unità oggettiva che  non ha bisogno dell'osservatore non compreso in essa.   Le cose della natura sono da una parte assai più distanti tra  loro che non le anime: l’unità di un uomo con l’altro — che è  implicita nel comprendere, nell'amore, nell'opera comune —  non trova alcuna analogia nel mondo spaziale, in cui ogni  essere occupa il suo posto che non può dividere con nessun  altro. Ma d’altra parte i frammenti dell’essere spaziale si compongono, nella coscienza dell’osservatore, in un’unità che di nuovo non viene raggiunta dall’insieme degli individui. Infatti,  dal momento che gli oggetti della sintesi sono qui esseri indipendenti, centri psichici, unità personali, essi si ribellano contro quell’assoluto comporsi nell'anima di un altro soggetto, al  quale deve adattarsi il « disinteresse » delle cose inanimate. Così un gruppo di uomini è un’unità in misura molto superiore  realiter, ma idealiter in misura molto inferiore di quanto un  tavolo, sedie, un divano, un tappeto e uno specchio non costituiscano l’«ammobiliamento di una stanza » o di quanto un fiume, un prato, alberi, una casa non costituiscano «un paesaggio », o, su un dipinto, « un quadro ». — La società è « la mia  rappresentazione », ossia poggia sull’attività della coscienza, in  un senso del tutto diverso dal mondo esterno. Infatti l’altra  anima ha per me appunto la stessa realtà che possiedo io, cioè  una realtà che si differenzia molto da quella di una cosa materiale. Per quanto Kant garantisca che gli oggetti spaziali hanno esattamente la medesima sicurezza della mia propria esistenza, con quest’ultima possono essere intesi soltanto i singoli contenuti della mia vita soggettiva: infatti il fondamento del  rappresentare in generale, il sentimento dell'io, possiede una  incondizionatezza e una incrollabilità che non viene conseguita  da nessuna particolare rappresentazione di un oggetto esterno  materiale. Ma anche il fatto del tu possiede per noi — si possa  o no giustificarla — questa stessa sicurezza; € come causa o  come effetto di questa sicurezza noi sentiamo il tu come qualcosa di indipendente dalla nostra rappresentazione di esso, qualcosa che esiste di per sé esattamente come la nostra propria  esistenza. Che questo per-sé dell’altro non ci impedisca tuttavia  di farne una nostra rappresentazione, che qualcosa che non si  può risolvere affatto nel nostro rappresentare divenga ciononostante contenuto, e quindi anche prodotto di questo rappresentare — questo è lo schema e il problema psicologico-gnoseologico più profondo dell’associazione. Entro la nostra coscienza  noi distinguiamo molto esattamente tra la fondamentalità dell'io, presupposto di ogni rappresentare, la quale non partecipa  alla problematica dei suoi contenuti che non si può mai mettere completamente da parte, e questi contenuti che, col loro  andare e venire, con la loro dubitabilità e correggibilità, si  presentano come semplici prodotti di quella forza ed esistenza  assoluta e ultima del nostro essere psichico. Ma noi dobbiamo  trasporre nell’altra anima, anche se in ultima analisi la rappresentiamo pure, appunto queste condizioni, (e) piuttosto questi  aspetti incondizionati del nostro io; essa possiede per noi quella misura estrema di realtà che il nostro io possiede di fronte  ai suoi contenuti e che siamo sicuri debba spettare anche a  quell’altra anima nei confronti dei suoi contenuti. In queste  circostanze la questione come sia possibile la società riveste un  senso metodologico completamente diverso dalla questione come sia possibile la natura. Infatti alla seconda rispondono le  forme conoscitive mediante le quali il soggetto compie la sintesi di elementi dati nella « natura », mentre alla prima rispondono invece le condizioni poste 4 priori negli elementi stessi, in  virtù delle quali essi si associano realmente nella sintesi « società ». In certo senso l’intero contenuto di quest'opera, così come  si sviluppa in base al principio che abbiamo stabilito, è un  inizio di risposta a tale questione. Infatti essa indaga i processi  che si compiono in ultima analisi negli individui e che condizionano il loro essere-società — non già come cause antecedenti  rispetto a questo risultato, bensì come processi parziali della  sintesi che noi chiamiamo riassuntivamente società. Ma la questione dev'essere intesa anche in un senso più fondamentale.  Ho detto che la funzione di attuare l’unità sintetica, che nei  confronti della natura riposa sul soggetto osservatore, nei confronti della società sarebbe passata appunto agli elementi di  questa. La coscienza di costituire una società non è presente  all'individuo in maniera astratta, ma ognuno sa pur sempre  che l’altro è legato a lui, per quanto questo sapere dell’altro  come associato, questo conoscere tutto il complesso come società si attui di solito soltanto in particolari contenuti concreti.  Ma forse le cose qui non stanno diversamente che nel caso  dell’« unità del conoscere », secondo la quale noi procediamo  nei processi della coscienza coordinando un contenuto concreto  con l’altro, senza tuttavia averne una coscienza distinta se non  in rare e tardive astrazioni. La questione è dunque la seguente:  qual è in linea del tutto generale e 4 priori il fondamento,  quali presupposti devono agire affinché i particolari processi  concreti della coscienza individuale siano realmente processi di  socializzazione, quali elementi in essi contenuti permettono che  la loro funzione sia, in termini astratti, quella di costruire  un’unità sociale in base agli individui? Le apriorità sociologiche avranno lo stesso doppio significato di quelle che « rendono  possibile» la matura: da una parte esse determineranno, in  maniera più compiuta o più difettosa, i processi reali di associazione; d’altra parte esse costituiscono i presupposti ideali e  logici della società perfetta, anche se forse mai realizzata in  questa perfezione — così come la legge causale da un lato vive  e opera negli effettivi processi della conoscenza e dall'altro costituisce la forma della verità in quanto sistema ideale di conoscenze compiute, indipendentemente dal fatto che questa venga  realizzata attraverso tale dinamica psichica temporale e relativamente accidentale oppure no, e indipendentemente dalla maggiore o minore approssimazione della verità realmente presente nella coscienza alla verità idealmente valida.   È una pura questione di titolo se l'indagine di queste condizioni del processo di socializzazione debba essere definita  gnoseologica oppure no, poiché la formazione che ne deriva, e che è regolata dalle sue forme, non consiste in conoscenze,  bensì in processi e stati esistenziali pratici. Ma ciò che qui  intendo, e che dev'essere esaminato dal punto di vista delle sue  condizioni come il concetto generale di associazione, è qualcosa  di conoscitivo: la coscienza di associarsi o di essere associati.  Forse lo si definirebbe meglio un sapere che non un conoscere.  Infatti il soggetto non sta qui di fronte a un oggetto di cui  esso acquisti gradualmente un'immagine teorica, ma la coscienza dell’associazione è immediatamente il suo sostegno o il suo  intimo significato. Si tratta dei processi dell’azione reciproca, i  quali per l'individuo significano il fatto — non astratto, ma  tuttavia suscettibile di espressione astratta — di essere associato. Quali forme debbano stare a base di essi, ossia quali  categorie specifiche l’uomo debba per così dire recare con sé  affinché sorga questa coscienza, quali siano perciò le forme che  la coscienza così sorta — la società come un fatto di sapere —  deve sorreggere, tutto ciò può ben essere chiamato la teoria  della conoscenza della società. Cercherò qui di delineare come  esempio di una tale indagine alcune di queste condizioni o  forme 2 priori dell’associazione, le quali non possono certamente essere designate con ur4 sola parola come le categorie kantiane.    I. L'immagine che un uomo si fa di un altro in base al  contatto personale è condizionata da certi spostamenti che non  sono semplici illusioni dovute a un'esperienza incompiuta, a  deficiente acutezza della vista, a pregiudizi simpatici o antipatici, ma sono modificazioni di principio della costituzione dell’oggetto reale. E queste si muovono anzitutto in due dimensioni.  Noi vediamo l’altro in qualche misura generalizzato, forse perché non ci è dato di rappresentare pienamente in noi un’individualità divergente dalla nostra. Ogni riproduzione di un'anima  è condizionata dalla somiglianza con essa, e sebbene questa  non sia assolutamente l’unica condizione del conoscere psichico — poiché appare necessaria da un lato una contemporanea  diseguaglianza, per poter acquistare distanza e oggettività, dall’altro una capacità intellettuale che rimane al di là dell’eguaglianza o diseguaglianza dell'essere — tuttavia il conoscere perfetto presupporrebbe un’eguaglianza perfetta. Sembra che ogni uomo abbia in sé un punto di individualità più profondo che  non può essere internamente riprodotto da nessun altro uomo  nel quale questo punto sia qualitativamente divergente. E il  fatto che questa esigenza non sia conciliabile, già sotto il profilo logico, con quella distanza e valutazione oggettiva sulle quali poggia inoltre la rappresentazione dell’altro, dimostra soltanto che ci è negato il sapere perfetto intorno all’individualità  dell’altro; e tutti i rapporti degli uomini tra loro sono condizionati dal diverso grado di questo difetto. Quale che sia la sua  causa, la conseguenza è però in ogni caso una generalizzazione  dell'immagine psichica dell’altro, uno sfumare dei contorni che  aggiunge all’unicità di questa immagine una relazione con altre. Noi rappresentiamo ogni uomo — con particolari conseguenze per il nostro rapporto pratico con lui — come il tipo  di uomo al quale la sua individualità lo fa appartenere; lo  pensiamo, insieme a tutta la sua singolarità, sotto una categoria generale che certamente non lo ricopre del tutto e che egli  non ricopre del tutto, e in virtù di tale determinazione questo  rapporto si differenzia dal rapporto tra il concetto generale e il  particolare che in esso rientra. Per conoscere l’uomo noi non lo  vediamo nella sua pura individualità, ma lo vediamo sorretto,  elevato o anche abbassato dal tipo generale al quale lo assegniamo. Anche quando questa trasformazione è così impercettibile  che non possiamo più riconoscerla immediatamente, anche quando vengono meno tutti i consueti concetti caratterologici — morale o immorale, libero o vincolato, signorile o servile ecc. —  noi denominiamo internamente l’uomo secondo un tipo tacito  col quale il suo puro essere per sé non coincide.   E ciò conduce ancora un gradino più in giù. Proprio in  base alla piena unicità di una personalità noi ci formiamo  un'immagine di essa che non è identica alla sua realtà, ma che  tuttavia non è un tipo generale, ma è piuttosto l’immagine che  egli mostrerebbe se fosse per così dire interamente se stesso, se  realizzasse, in senso buono o cattivo, la possibilità ideale insita  in ogni uomo. Noi siamo tutti frammenti non soltanto dell’uomo in generale, ma anche di noi stessi. Noi siamo tutti abbozzi non soltanto del tipo uomo in generale, non soltanto del  tipo del buono e del cattivo e simili, ma siamo abbozzi anche  di quella individualità e unicità di noi stessi — non più denominabile in linea di principio — la quale circonda, quasi disegnata con linee ideali, la nostra realtà percepibile. Lo sguardo  dell’altro integra però questo materiale frammentario in quel  che noi non siamo mai puramente e interamente. Egli non può  vedere soltanto uno accanto all’altro i frammenti che sono realmente dati, ma come noi completiamo la macchia cieca nel  nostro campo visivo in modo tale che non si è coscienti di  essa, così da questo materiale frammentario perveniamo alla  compiutezza della sua individualità. La prassi della vita ci  spinge a formare l’immagine dell’uomo soltanto in base ai  frammenti reali che conosciamo empiricamente di lui; ma essa  poggia appunto su quelle modificazioni e integrazioni, sulla  trasformazione di quei frammenti dati nella generalità di un  tipo e nella compiutezza della personalità ideale.   Questo procedimento di principio, anche se in realtà raramente attuato fino alla perfezione, opera nell’ambito della società già esistente come l’a priori delle ulteriori azioni reciproche  che si sviluppano tra gli individui. Entro una cerhia legata da  una qualche comunanza di professione o di interessi ogni membro vede l’altro non già in modo puramente empirico, ma in  base a un 4 priori che questa cerchia impone a ogni coscienza  che ne faccia parte. Nelle cerchie degli ufficiali, dei fedeli di  una chiesa, dei funzionari, dei dotti, dei familiari ognuno vede l’altro partendo dall’ovvio presupposto che egli è un membro della sua cerchia. Dalla base di vita comune scaturiscono  certe supposizioni attraverso le quali ci si guarda reciprocamente come attraverso un velo. Certamente questo non soltanto  nasconde il carattere specifico della personalità, ma le conferisce una nuova forma, fondendosi con la sua consistenza individuale-reale in una formazione unitaria. Noi vediamo l’altro  non già semplicemente come individuo, bensì come collega o  camerata o compagno di partito, in breve come coabitatore del  medesimo mondo particolare; e questo presupposto inevitabile,  che opera in modo del tutto automatico, è uno dei mezzi per  portare la sua personalità e la sua realtà nella rappresentazione  dell’altro alla qualità e alla forma richiesta dalla sua sociabilità.   Ciò vale evidentemente per il rapporto tra appartenenti a  cerchie diverse. Il borghese che fa la conoscenza di un ufficiale  non può affatto liberarsi dal pensiero che questo individuo è un ufficiale; e per quanto l’essere ufficiale possa far parte di questa  individualità, non ne fa però parte nell’identica forma schematica in cui, nella rappresentazione dell’altro, ne pregiudica l’immagine. E così accade al Protestante di fronte al Cattolico, al  commerciante di fronte al funzionario, al laico di fronte al  sacerdote, e così via. Ovunque abbiamo qui offuscamenti del  profilo della realtà ad opera della generalizzazione sociale, i  quali ne precludono in linea di principio la scoperta nell’ambito di una società socialmente assai differenziata. Così l’uomo  incontra nella rappresentazione dell’uomo spostamenti, sottrazioni e integrazioni — poiché la generalizzazione è sempre, nel  medesimo tempo, più o meno dell’individualità — rispetto a  tutte queste categorie operanti 4 priori: rispetto al suo tipo  come uomo, all’idea del suo proprio compimento, alla collettività sociale a cui egli appartiene. Su tutto ciò aleggia — come  principio euristico del conoscere — l’idea della sua determinatezza reale, assolutamente individuale. Ma mentre sembra che  l'acquisizione di questa determinatezza conduca a una relazione correttamente fondata con lui, di fatto quelle modificazioni  e formazioni nuove che ostacolano la sua conoscenza ideale  sono proprio le condizioni in virtù delle quali diventano possibili le relazioni, che sole conosciamo come sociali, all’incirca come in Kant le categorie dell'intelletto, che formano i dati  immediati in oggetti del tutto nuovi, rendono esse soltanto  conoscibile il mondo dato.    II. Un’altra categoria sotto la quale i soggetti guardano se  stessi e si guardano reciprocamente, in modo da poter produrre  — così formati — la società empirica, può venir formulata con  la proposizione apparentemente banale che ogni elemento di  un gruppo non è soltanto parte di una società, ma è inoltre  ancora qualcosa. Ciò opera come 4 priori sociale nella misura  in cui la parte dell’individuo che non è rivolta alla società o  non si risolve in essa mon se ne sta semplicemente priva di  relazione accanto alla sua parte socialmente significativa, cioè  non è soltanto un corpo estraneo alla società a cui questa,  volente o nolente, fa posto. Il fatto che l’individuo non sia per  certi aspetti elemento della società costituisce la condizione positiva della possibilità di esserlo con altri aspetti del suo essere: il modo del suo essere-associato è determinato o condeterminato  dal modo del suo non-essere-associato. Dalle indagini seguenti  risulteranno alcuni tipi il cui significato sociologico è fissato,  addirittura nel suo nucleo e nella sua essenza, dal fatto che essi  sono in qualche modo esclusi dalla società per la quale la loro  esistenza è significativa: così avviene nel caso dello straniero,  del nemico, del criminale, perfino del povero. Ma ciò non vale  soltanto per questi caratteri generali, ma anche, in innumerevoli modificazioni, per qualsiasi fenomeno individuale. Il fatto  che ogni momento ci trovi circondati da relazioni con uomini e  che il suo contenuto ne sia determinato direttamente o indirettamente non parla affatto in senso contrario; l’inserimento sociale in quanto tale riguarda appunto esseri che non sono completamente abbracciati da esso. Del funzionario sappiamo che non  è soltanto funzionario, del commerciante che non è soltanto  commerciante, dell’ufficiale che non è soltanto ufficiale; e questo essere extra-sociale, il suo temperamento e il precipitato dei  suoi destini, i suoi interessi e il valore della sua personalità, per  quanto poco possano modificare la sostanza delle attività compiute quale funzionario, commerciante, militare, gli conferiscono tuttavia ogni volta — per chiunque gli stia di fronte — una  determinata zuance e intrecciano nella sua immagine sociale  imponderabili elementi extra-sociali. L'intero sistema di rapporti degli uomini nell’ambito delle categorie sociali sarebbe diverso se ognuno si presentasse all’altro soltanto come quel che è  nella sua categoria, come portatore del ruolo sociale che proprio ora gli spetta. Certamente gli individui, al pari delle professioni e delle situazioni sociali, si differenziano secondo la  misura di quell’«inoltre» che essi possiedono o ammettono  insieme con il loro contenuto sociale. Un polo di questa serie è  costituito per esempio dall'uomo nei rapporti di amore o di  amicizia. Qui ciò che l’individuo riserva per sé, al di là degli  sviluppi e delle attività rivolte all’altro, può avvicinarsi quantitativamente al valore-limite zero; siamo in presenza di un’unica vita, che può essere considerata o viene vissuta per così dire  da due lati — per un verso dal lato interno, dal terminus a quo  del soggetto, e poi anche, come vita del tutto immutata, nella  direzione dell’individuo amato, sotto la categoria del suo termi  nus ad quem, che essa accoglie senza residuo. Sotto una tendenza del tutto diversa il sacerdote cattolico presenta un fenomeno formalmente identico, nel senso che la sua funzione ecclesiastica ricopre e ingloba completamente il suo essere-per-sé individuale. Nel primo di questi casi estremi l’« inoltre » dell’attività sociologica scompare, perché il suo contenuto si è risolto  completamente nel rivolgersi all'individuo che gli sta di fronte, nel secondo perché il tipo corrispondente di contenuti è  scomparso in linea di principio. Il polo opposto è offerto per  esempio dai fenomeni della cultura moderna determinata dall’economia monetaria, nella quale l'uomo come produttore, compratore o venditore, e in generale come soggetto di una prestazione, si avvicina all’ideale dell’oggettività assoluta. Prescindendo dalle posizioni elevate, di carattere direttivo, la vita individuale e cioè il tono della personalità complessiva è scomparso  dalla prestazione; gli uomini sono soltanto i portatori di un  equilibrio di prestazione e contro-prestazione regolato secondo  norme oggettive, e tutto ciò che non fa parte di questa pura  oggettività è anche di fatto sparito da essa. L’«inoltre» ha  assorbito completamente in sé la personalità con la sua colorazione particolare, la sua irrazionalità, la sua vita interiore,  lasciando a quelle attività sociali — nettamente separate — soltanto le energie ad esse specifiche.   Gli individui sociali si muovono sempre tra questi estremi,  in modo tale che le energie e le determinatezze rivolte al  centro interno mostrano un qualche significato per le attività e  il modo di sentire validi per l’altro. Infatti — nel caso-limite  — perfino la coscienza che quest'attività o questo stato d’animo  sociale sia qualcosa di separato dal resto dell’uomo e 707 entri,  con ciò che egli è e significa altrimenti, nella relazione sociologica, ha un'influenza del tutto positiva sull’atteggiamento che  il soggetto assume di fronte agli altri e che gli altri assumono  di fronte ad esso. L’a priori della vita sociale empirica è il  fatto che la vita non è del tutto sociale; noi formiamo le nostre  relazioni reciproche non soltanto con la riserva negativa di una  parte della nostra personalità che non entra in esse, e questa  parte influisce sui processi sociali nell'anima non soltanto mediante connessioni psicologiche generali, ma proprio il fatto  formale che essa sta al di fuori di tali processi determina il  modo di questa influenza. — Il fatto che le società siano forma  502 GEORG SIMMEL    zioni derivanti da esseri che stanno allo stesso tempo dentro e  fuori di esse è anche alla base di una delle più importanti  formazioni sociologiche: quella, cioè, per cui tra una società e  i suoi individui può sussistere — anzi forse, in modo più aperto  o più latente, sussiste sempre — un rapporto simile a quello tra  due partiti. In tal modo la società produce forse la più cosciente, almeno la più generale configurazione di una forma fondamentale della vita in genere: il fatto che l’anima individuale  non può mai stare in una connessione senza stare contemporaneamente al di fuori di essa, che non è mai inserita in un  ordinamento senza trovarsi nel medesimo tempo contrapposta  ad esso. Ciò va dalle connessioni trascendenti e generalissime  fino alle più singolari e accidentali. L'uomo religioso si sente  completamente circondato dall’essere divino, come se fosse soltanto un battito della vita divina, e la sua propria sostanza è  data senza riserve, anzi in una mistica indistinzione con quella  dell’assoluto. Eppure, per dare anche soltanto un senso a questa  fusione, egli deve conservare un qualche essere autonomo, un  termine personale a lui contrapposto, un io separato per il  quale la risoluzione in questo essere divino onnicomprensivo  rappresenta un compito infinito, un processo che non sarebbe  né metafisicamente possibile né religiosamente percepibile se  non partisse da un essere per sé del soggetto: l’essere-uno con  Dio è condizionato nel suo significato dall’essere-altro rispetto  a Dio. AI di là di questo innalzamento nel trascendente la  relazione che lo spirito umano rivendica, attraverso tutta la  sua storia, con la natura come un tutto rivela la medesima  forma. Noi ci sappiamo da un lato inseriti nella natura, come  uno dei suoi prodotti che sta da eguale tra eguali accanto a  qualsiasi altro, come un punto che le sue materie ed energie  raggiungono e abbandonano, nello stesso modo in cui circolano  attraverso l’acqua corrente e la pianta in fiore. E tuttavia l’anima ha il sentimento di un essere-per-sé indipendente da tutti  questi intrecci e da queste relazioni, che si designa col concetto — così malsicuro sotto il profilo logico — di libertà, il  quale offre a tutto questo meccanismo, di cui noi siamo pur  tuttavia un elemento, un termine contrapposto e un ripagamento che culmina nel radicalismo per il quale la natura viene  considerata soltanto una rappresentazione presente nelle anime umane. Come però qui la natura, con tutta la sua propria  innegabile legalità e con la sua dura realtà, è pur sempre inclusa nell’io, così d’altra parte questo io, con tutta la sua libertà  e il suo essere per sé, con la sua antitesi nei confronti della  mera natura, è pur sempre un elemento di essa. La connessione  usurpatrice della natura è appunto tale che essa comprende  questo essere autonomo, anzi spesso ostile ad essa, e che ciò  che nel suo più profondo sentimento vitale sta al di fuori  dev'essere invece un suo elemento. Questa formula vale egualmente per il rapporto tra gli individui e le singole cerchie dei  loro legami sociali, oppure — se questi vengono riassunti nel  concetto o nel sentimento di essere associati in generale — per  il rapporto tra gli individui in quanto tale. Noi ci sappiamo da  una parte prodotti della società: la serie fisiologica degli antenati, i loro adattamenti e le loro fissazioni, le tradizioni del loro  lavoro, del loro sapere e delle loro credenze, l’intero spirito del  passato cristallizzato in forme oggettive determinano le disposizioni e i contenuti della nostra vita, cosicché può sorgere la  questione se l'individuo sia qualcosa di diverso da un recipiente  nel quale si mescolano in misura variabile elementi preesistenti.  Infatti, anche se questi elementi fossero in ultima analisi prodotti dagli individui, il contributo di ognuno sarebbe una grandezza infinitesimale, e soltanto mediante il loro riunirsi in specie e in società si produrrebbero i fattori nella cui sintesi consisterebbe poi di nuovo l’individualità che si può specificare.  D'altra parte noi ci sappiamo membri della società, intessuti  con il nostro processo vitale, con il suo senso e il suo scopo in  modo tanto poco indipendente nella sua prossimità come nella  sua successione. Come non possediamo un essere per noi in  quanto esseri naturali, perché la circolazione degli elementi  naturali pervade tanto noi quanto formazioni completamente  prive di un io, e l'eguaglianza di fronte alle leggi naturali  risolve senza residui la nostra esistenza in un mero esempio della loro necessità, così in quanto esseri sociali non viviamo intorno a un centro autonomo, ma siamo in ogni attimo composti  dalle relazioni reciproche con gli altri; e in tal modo siamo  comparabili con la sostanza corporea, che per noi sussiste soltanto più come somma di molteplici impressioni sensibili, ma non  come esistenza di per sé. Noi sentiamo però che questa diffusione sociale non risolve completamente la nostra personalità.  Non si tratta soltanto delle riserve già avanzate, di particolari  contenuti il cui senso e il cui sviluppo risiedono 4 priori solamente nell'anima individuale e non trovano assolutamente posto  nella connessione sociale; non si tratta soltanto della formazione  dei contenuti sociali, la cui unità come anima individuale non ha  essa stessa carattere sociale, così come la forma artistica nella  quale confluiscono le macchie di colore sulla tela non è derivabile dall’essenza chimica dei colori. Si tratta, in primo luogo,  del fatto che l’intero contenuto della vita, per quanto possa  essere completamente spiegato in base agli antecedenti sociali e  alle relazioni reciproche, dev'essere contemporaneamente considerato sotto la categoria della vita individuale, come esperienza vissuta dell’individuo e interamente orientata verso di  esso. L'uno e l’altro elemento non sono che categorie diverse  sotto le quali ricade lo stesso contenuto, proprio come la medesima pianta può essere vista ora nelle condizioni biologiche del  suo sviluppo, ora nella sua utilizzabilità pratica, o ancora sotto  il profilo del suo significato estetico. Il punto di vista dal quale  l’esistenza dell’individuo viene ordinata e compresa può essere scelto tanto all’interno quanto all’esterno di esso; la totalità della vita, con tutti i suoi contenuti socialmente derivabili,  può essere tanto concepita come il destino centripeto del suo  portatore, quanto valere — con tutte le sue parti riservate all’individuo — come prodotto ed elemento della vita sociale.   Il fatto dell’associazione colloca dunque l’individuo nella duplice posizione dalla quale sono partito: egli è compreso in  essa e contemporaneamente si contrappone ad essa, è un elemento del suo organismo e al tempo stesso è un tutto organico  concluso, è un essere per essa e un essere per sé. Ma l’aspetto  essenziale e il senso del particolare 4 priori sociologico che si  fonda su tale fatto è che tra individuo e società l’interno e  l'esterno non costituiscono due determinazioni sussistenti l’una  accanto all’altra — benché si possano occasionalmente sviluppare anche in questo modo, fino all’ostilità reciproca — ma definiscono la posizione del tutto unitaria dell’uomo che vive socialmente. La sua esistenza non è soltanto parzialmente sociale e  parzialmente individuale in una divisione di contenuti; ma si  colloca sotto la categoria fondamentale, formativa, non ulteriormente riducibile di una unità che non possiamo esprimere altrimenti che mediante la sintesi o la contemporaneità delle due  determinazioni logicamente contrapposte dell'essere membro  della società e dell’essere per sé, dell’essere prodotto e  compreso dalla società e del vivere in base al proprio centro e  per il proprio centro. La società non consiste soltanto — come  è risultato sopra — di esseri che in parte non sono associati,  ma anche di esseri che si sentono da una parte esistenze completamente sociali, e dall’altra, conservando lo stesso contenuto,  completamente personali. E questi non sono due punti di vista  che coesistano privi di relazione, come quando si considera per  esempio lo stesso corpo sotto il profilo ora del suo peso, ora  del suo colore, ma costituiscono insieme l’unità che chiamiamo  essere sociale, la categoria sintetica — nello stesso modo in cui  il concetto di causazione è un'unità 4 priori, anche se include  entrambi gli elementi, del tutto differenti per il loro contenuto,  del causante e del causato. Il fatto che abbiamo a disposizione  questa formazione, questa capacità di produrre — sulla base  di esseri ognuno dei quali può sentirsi come ferminus a quo e  terminus ad quem dei suoi sviluppi, dei suoi destini e delle sue  qualità — un concetto di società che fa leva proprio su tali elementi, e di concepire quest’ultimo come terminus a quo e  terminus ad quem di quelle vitalità e determinatezze esistenziali, costituisce un 4 priori della società empirica, e rende possibile la sua forma quale la conosciamo.    III. La società è una formazione composta da elementi diseguali. Infatti anche dove tendenze democratiche o socialistiche  programmano o parzialmente raggiungono un’« eguaglianza »,  si tratta sempre soltanto di un’eguaglianza di valore delle persone, delle prestazioni, delle posizioni, mentre un’eguaglianza di  qualità, di contenuti vitali e di destini tra gli uomini non può  neppure venir presa in considerazione. E dove d'altra parte una  popolazione ridotta in schiavitù costituisce soltanto una massa  — come nei grandi regimi dispotici orientali — quest’eguaglianza riguarda sempre solamente certi aspetti dell’esistenza,  per esempio quelli politici o economici, ma mai la sua totalità,  in quanto le sue qualità congenite, le sue relazioni personali, i  suoi destini vissuti avranno inevitabilmente una specie di unicità e di insostituibilità non soltanto per il lato interno della vita,  ma anche per le sue relazioni reciproche con altre esistenze. Se ci  si rappresenta la società come uno schema puramente oggettivo,  essa sì rivela quale ordinamento di contenuti e di prestazioni  che stanno in una relazione reciproca per spazio, tempo, concetti, valori, permettendo così di prescindere dalla personalità,  dalla forma dell'io che sostiene la loro dinamica. Se quella  diseguaglianza di elementi fa apparire ogni prestazione o qualità nell’ambito di questo ordine come caratterizzata individualmente, come inequivocabilmente fissata al suo posto, la società  si configura come un cosmo la cui molteplicità è sì sterminata  nel suo essere e nel suo movimento, ma in cui ogni punto può  essere costituito e svilupparsi soltanto in quel determinato modo, se la struttura del tutto non dev'essere mutata. Ciò che è  stato detto della costruzione del mondo in generale — che  nessun granello di sabbia potrebbe essere formato e collocato  diversamente da com'è, senza che questo abbia come presupposto e come conseguenza una modificazione dell'intera esistenza  — vale anche per la costruzione della società, considerata come un intreccio di fenomeni qualitativamente determinati. Quest'immagine della società in generale trova un’analogia (come  in una miniatura, infinitamente semplificata e per così dire  stilizzata) in una struttura di funzionari che consiste, in quanto tale, in un determinato ordine di « posizioni », in una predeterminatezza di funzioni che, staccate dai loro portatori, dànno  luogo a una connessione ideale; nell’ambito di questa ogni  nuovo individuo che entra a farne parte trova un posto inequivocabilmente determinato, che lo ha per così dire aspettato e  al quale le sue energie devono adattarsi armonicamente. Naturalmente ciò che qui è fissazione consapevole e sistematica di  contenuti di prestazioni è, nella totalità della società, un inestricabile intreccio di funzioni; le posizioni al suo interno non  sono date da una volontà costruttiva, ma si possono cogliere  soltanto attraverso l’attività creativa e l’esperienza vissuta degli  individui. E nonostante questa enorme differenza, nonostante  tutto ciò che di irrazionale, di imperfetto, di riprovevole dal  punto di vista del valore la società storica presenta, la sua  struttura fenomenologica — vale a dire la somma e il rapporto  del modo di esistenza e delle prestazioni offerte da ogni elemento sotto il profilo oggettivo-sociale — rimane un ordine fatto  di elementi ciascuno dei quali occupa un posto individualmente  determinato, una coordinazione di funzioni e di centri di funzioni dotate di senso, anche se non sempre di valore, oggettivamente e nel loro significato sociale; mentre l’elemento puramente personale, l'elemento internamente produttivo, gli impulsi e i riflessi dell’io vero e proprio restano completamente  fuori considerazione. Ossia, in altri termini, la vita della  società scorre — non già psicologicamente, bensì fenomenologicamente, considerata puramente sotto il profilo dei suoi contenuti «sociali in quanto tali — come se ogni elemento fosse  predestinato alla sua posizione in questa totalità; con tutta la  disarmonia rispetto alle istanze ideali essa scorre come se tutti  i suoi elementi stessero in un rapporto unitario che fa dipendere ciascuno, proprio perché esso è questo particolare elemento,  da tutti gli altri e tutti gli altri da questo.   Ciò permette di scorgere l’a priori del quale dobbiamo ora  parlare, e che per l’individuo significa un fondamento e la  « possibilità » di appartenere a una società. Che ogni individuo  sia di per sé orientato dalla sua qualità verso una determinata  posizione nell’ambito del suo miliew sociale; che questa posizione che idealmente gli appartiene sia anche realmente presente  nel complesso sociale — questo è il presupposto in base al  quale l'individuo vive la sua vita sociale e che si può definire  come il valore di universalità inerente all’individualità. Esso è  indipendente dalla sua elaborazione in una chiara coscienza  concettuale, ma anche dalla sua realizzazione nel corso della  vita reale — così come l’apriorità della legge causale quale  presupposto formativo del conoscere è indipendente dal fatto  che la coscienza la formuli in concetti distinti e che la realtà  psicologica proceda sempre in conformità ad essa oppure no.  La nostra vita conoscitiva poggia sul presupposto di un’armonia prestabilita tra le nostre energie spirituali, anche se ancora  individuali, e l’esistenza esteriore, oggettiva: infatti questa rimane sempre l’espressione di un fenomeno immediato, non importa se si possa poi ricondurla metafisicamente o psicologicamente alla produzione dell’esistenza ad opera dell'intelletto stesso. Parimenti la vita sociale in quanto tale poggia sul presupposto di una fondamentale armonia tra l’individuo e il complesso sociale, anche se ciò non impedisce le crasse dissonanze tra la  vita etica e la vita eudemonistica. Se la realtà sociale fosse  conformata senza ostacoli e senza difetti in base a questo presupposto di principio, noi avremmo la società perfetta — di  nuovo non nel senso di una perfezione etica o eudemonistica,  ma nel senso di una perfezione concettuale: per così dire non  la società perfetta, ma la perfetta società. Finché l’individuo  non realizza o non trova realizzato questo 4 priori della sua  esistenza sociale — vale a dire la penetrante correlazione del  suo essere individuale con le cerchie circostanti, la necessità  integrante per la vita del tutto della sua particolarità determinata dalla vita personale interiore — fino ad allora egli non è  associato, e la società non è quell’attività reciproca priva di  lacune che il suo concetto enuncia.   Questo comportamento acquista una consapevole accentuazione con la categoria della professione. L’antichità non ha  conosciuto questo concetto nel senso di una differenziazione  personale e di una società articolata in base alla divisione del  lavoro. Ma anche nell’antichità sussisteva il fenomeno che ne  costituisce il fondamento: che l’agire socialmente efficace è l’espressione unitaria della qualificazione interiore, che l’aspetto  totale e permanente della soggettività si oggettiva praticamente  in virtù delle sue funzioni nella società. Soltanto che questa  relazione si attuava in un contenuto generalmente più uniforme; il suo principio emerge nell’osservazione aristotelica che  alcuni sono destinati per la loro natura al SovAzbew, altri al  Seorétew. A un grado più elevato di elaborazione il concetto presenta la struttura caratteristica per cui da una parte la società produce e offre in sé una « posizione » che è si differenziata da altre  per contenuto e contorni, ma che può in linea di principio essere  occupata da molti ed è quindi per così dire qualcosa di anonimo; e dall’altra parte questa posizione, nonostante il suo carattere di generalità, viene assunta dall’individuo in base a una  «chiamata » interiore, a una qualificazione sentita come del  tutto personale. Affinché esista in generale una « professione »  deve sussistere quell’armonia — comunque essa sia sorta — tra  la costruzione e il processo vitale della società, da un lato, e le  qualità e gli impulsi individuali, dall'altro. Su questo presupposto generale si fonda in ultima analisi l’idea che per ogni personalità vi sia, nell’ambito della società, una posizione e  funzione alla quale essa è « chiamata », e l'imperativo di cercare finché la si trova.   La società empirica diventa « possibile » soltanto mediante  questo 4 priori che culmina nel concetto di professione, e che  certamente — al pari di quelli finora trattati — non può essere  designato con una semplice parola d’ordine, come consentono  di fare le categorie kantiane. I processi di coscienza con i  quali l’associazione si compie — l’unità a partire dai molti, la  determinazione reciproca degli individui, il significato reciproco degli individui per la totalità degli altri e di questa totalità  per l’individuo — hanno luogo in base a questo presupposto di  principio, non già astrattamente consapevole ma che si esprime  nella realtà della prassi: il presupposto secondo cui l’individualità del singolo trova un posto nella struttura dell’universalità,  anzi che questa struttura, nonostante l’aspetto imprevedibile  dell’individualità, è rivolta in certa misura a questa e alla sua  funzione. La connessione causale che intesse ciascun elemento  sociale nell’essere e nell’agire di ogni altro, dando così luogo  alla rete esteriore della società, si trasforma in una connessione  teleologica non appena la si considera dal punto di vista dei  portatori individuali, di coloro che la producono, i quali si  sentono come io e il cui atteggiamento cresce sul terreno della  personalità che è per sé e si determina da sé. Il fatto che  quella totalità fenomenica si adatta allo scopo di queste individualità che quasi le si fanno incontro dall’esterno, che offre al  processo vitale di queste, determinato dall’interno, il luogo in  cui la sua particolarità diventa un elemento necessario nella  vita del tutto — tutto ciò, assunto come categoria fondamentale, conferisce alla coscienza dell’individuo la forma che lo designa come elemento sociale.    È una questione abbastanza oziosa se le indagini sulla teoria  della conoscenza della società, che dovevano essere esemplifica  te da questi abbozzi, rientrino nella filosofia sociale o non già  addirittura nella sociologia. Ammettendo pure che esse costituiscano una zona di confine tra i due metodi, la sicurezza del    DI problema sociologico — quale è stato tratteggiato avanti — e la delimitazione nei confronti della problematica filosofica non  ne soffrono più di quanto la determinatezza dei concetti di  giorno e di notte non soffra del fatto che esiste un crepuscolo, o quella dei concetti di uomo e di animale non soffra del  fatto che forse si possono trovare gradi intermedi che riuniscono le caratteristiche di entrambi in maniera per noi concettualmente non separabile. Quando il problema sociologico si rivolge all’astrazione di ciò che nel complesso fenomeno che chiamiamo vita sociale è realmente soltanto società, vale a dire  associazione; quando esso elimina dalla purezza di questo concetto tutto ciò che viene sì realizzato storicamente soltanto entro la società, ma non costituisce la società come tale, come  forma singolare e autonoma di esistenza — allora viene individuato un nucleo di compiti assolutamente inequivocabile; e pur  potendo accadere che la periferia di questa cerchia di problemi  entri, temporaneamente o durevolmente, in contatto con altre  cerchie, che la delimitazione dei confini diventi dubbia, non  per questo il centro rimane meno saldo al suo posto.   Passo ora a mostrare la fecondità di questo concetto e problema centrale in indagini particolari. Lungi dalla pretesa di esaurire il numero delle forme di azione reciproca che costituiscono  la società, esse mostrano soltanto la via che potrebbe condurre  all’isolamento scientifico dell’intero ambito della « società » dalla totalità della vita; cioè si propongono di mostrarla compiendo i primi passi su tale cammino. La relazione di uno spirito con un altro, che noi definiamo  comprendere, costituisce un avvenimento fondamentale della  vita umana, la cui recettività e attività propria è unificante in  un modo non più scomponibile, ma che è soltanto oggetto di  esperienza vissuta. Nell’esame del comprendere in generale è  incluso l'esame del comprendere propriamente storico. Infatti,  nello stesso modo in cui tutte le nostre produzioni ideali, puramente spirituali, trovano i loro abbozzi frammentari in quelle  forme e in quei modi di procedere che lo spirito ha sviluppato  per esigenze pratiche e per i progressi della vita, così anche la  storia scientifica si è preformata in maniera indicativa nelle  formazioni e nei metodi con cui la prassi si costruisce le immagini del passato come condizioni della vita che avanza. Ma dal  momento che senza di ciò è del tutto impensabile ogni passo  della vita, sorretto dalla coscienza del passato, qui non si tratta  del caos sterminato e senza forma dell’intera materia ricordata  o tramandata della vita; al contrario, già la sua valutazione  pratica è condizionata dalla sua scomposizione e dalla sua sintesi, dall'ordinamento in concetti e in serie, dall’attribuzione e  dallo spostamento di accento, da interpretazioni e da integrazioni. Così diverse categorie teoretiche funzionano qui in vista di  un interesse non teoretico, continuamente incorporate nelle con  * Vom WWesen des historischen Verstehens, « Geschichtliche Abende in Zentralinstitut fur Erziehung und Unterricht », 5, Berlin, E. S. Mittler und Sohn, 1918,  poi raccolto in Briicke und Tiir: Essays der Philosophen zur Geschichte, Religion,  Kunst und Gesellschaft (a cura di M. Landmann, in collaborazione con M. Susman),  Stuttgart, Kochler Verlag, 1957, pp. 59-85 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro  Rossi). nessioni della vita al pari di qualsiasi coordinamento di movimenti, di qualsiasi impulso o riflesso. La storia come scienza  sorge non appena quelle categorie che elaborano il materiale  della vita in un'immagine spiritualmente intuibile, logicamente  fornita di senso e quindi in primo luogo suscettibile di applica  zione pratica, si svincolano da questa subordinazione a uno  scopo € costituiscono autonomamente, in base a un interesse  teoretico libero da legami, in una nuova completezza e con un  nuovo valore specifico, le immagini della vita passata. Come  noi siamo sempre, per così dire, storici embrionali di noi  stessi, così d'altra parte noi completiamo e assolutizziamo —  in quanto storici scientifici — gli orientamenti e le elaborazioni della vita pre-scientifica. Sulla base di questo rapporto  reciproco del tutto generale l’analisi della comprensione storica  appare condizionata dall’esame del modo in cui può accadere  che un uomo ne comprenda un altro. Infatti, per quanto differenti possano essere i punti di partenza e le vie, l’interesse e il  materiale, la comprensione di Paolo e di Luigi XIV è alla fine  essenzialmente identica a quella di un uomo che conosciamo  personalmente.   La struttura di ogni comprendere è una sintesi intima di  due elementi inizialmente separati. Ciò che è dato è un fenomeno fattuale, che in quanto tale non è ancora compreso. Da  parte del soggetto a cui questo fenomeno è dato si aggiunge  un secondo elemento, emergente in modo immediato da questo  soggetto, oppure da esso assunto ed elaborato — il pensiero  comprendente, che penetra per così dire il fenomeno dato e ne  fa qualcosa di compreso. Questo secondo elemento psichico è  talvolta cosciente di per sé, talvolta rintracciabile soltanto nel  suo effetto, vale a dire, appunto, in ciò che ora viene compreso.  Tale rapporto fondamentale trova tre configurazioni tipiche,  che trapassano tutte dalla loro più o meno grande realizzazione in forma pre-scientifica alla metodica della storia scientifica.   In primo luogo si tratta di comprendere i fenomeni e le  azioni di un individuo che sono dati ai sensi esterni in modo  tale che essi siano motivati psichicamente, cioè in questo caso  di comprendere gli avvenimenti psichici attraverso queste manifestazioni sensibili che li accompagnano. A prima vista l’altro  uomo è per noi una somma di impressioni esterne. Noi lo vediamo, lo tocchiamo, lo udiamo; ma che « dietro » tutto ciò  viva un’anima, che tutti questi elementi esterni abbiano un  significato psichico, un aspetto interno che non si esaurisce  nella loro immagine sensibile — in breve, che l’altro non sia  una marionetta, ma qualcosa di comprensibile interiormente —  ciò non è dato in eguale misura, ma rimane sempre una congettura non suscettibile di essere provata in modo assoluto. E come l’individuo deve comunicare l’essere animato all’altro, anziché sentirlo come una concretezza cogente, ossia come un’impressione sensibile, la stessa cosa avviene naturalmente anche in relazione ai contenuti psichici particolari. Ciò che  quello vuole e pensa e sente, noi non possiamo vederlo: tutto  quanto si vede è solamente un ponte e un simbolo per stimolare e guidare il soggetto alla creazione costruttiva di ciò  che può accadere nell’anima dell’altro. Ulteriore conseguenza  di ciò è il fatto che ogni sapere relativo a questi processi  dell’altro, ogni loro comprensione, rappresenta una trasposizione di avvenimenti interni vissuti dal soggetto stesso: ogni sentimento, il sorgere di rappresentazioni sulla base di rappresentazioni passate, il dominio degli impulsi da parte dell’intero ambito di idee — tutto ciò deve prima avvenire in me per poter  essere imputato all’altro. Da dove, se non dalla mia anima,  dovrei infatti prendere il materiale per la conoscenza e la comprensione degli altri, che non si presentano davanti a me in modo leggibile? E in ciò sta manifestamente anche il problema fondamentale del comprendere propriamente storico. Se già posso  comprendere l’uomo che si offre ai miei occhi e alle mie  orecchie solamente in quanto lo fornisco, al di là di tutto ciò  che ho visto e udito, dei contenuti della mia anima, un uomo  da lungo tempo passato — del quale ci sono tramandate soltanto azioni oggettive, manifestazioni frammentarie, tracce oggettive della sua esistenza — sarebbe per me un semplice complesso  di elementi esterni non compresi qualora non collocassi dietro  tutto ciò situazioni e movimenti psichici, il cui senso e la cui  connessione non possono venirmi se non dalle esperienze della  mia propria interiorità. La comprensione della persona storica  presupporrebbe quindi, per quanto essa sia per altri versi diversa da me, un'identità essenziale tra noi due rispetto ai punti  da comprendere. Mi richiamo a quest’apparente inevitabilità, per la quale si  offrono come prove alcune osservazioni. L'esperienza sembra  indicare che chi non ha mai amato o odiato non comprende  chi ama o chi odia, che la sobrietà dell’uomo pratico non  comprende il comportamento dell’idealista sognatore e viceversa, che il flemmatico non comprende le connessioni di idee del  sanguigno e viceversa. Così lo storico pedantesco, adatto ai  rapporti piccolo-borghesi, non comprenderà mai le manifestazioni della vita di Mirabeau o di Napoleone, di Goethe o di  Nietzsche, per quanto visibili e chiare esse siano. L’assenza di  speranza con cui la comprensione dell'Europa si pone dinanzi  all'anima orientale viene comprovata dai conoscitori di cose  orientali in modo tanto più netto quanto più profonde e ampie  sono le loro esperienze. Meno imperativo ma — ritengo — non  meno fondato è il dubbio se l’uomo moderno comprenda nella  loro reale interiorità l’Ateniese delle guerre persiane, il  monaco medievale o anche solamente la società di corte dipinta da Watteau. Non parlo qui della mancanza o dell’equivocità delle fonti, ma di un’impossibilità di comprensione a cui  non può essere di aiuto la quantità e il contenuto dei documenti, poiché la costituzione del soggetto non fornisce quella reazione all’oggetto che costituisce il comprendere.   Sarebbe tuttavia avventata la conclusione che alla base della  comprensione sta l’identità tra soggetto e oggetto. Se si osservano un po’ più da vicino quei fatti, risulterà che essi sono  esclusivamente di carattere negativo, ossia che una certa misura  di diseguaglianza sostanziale impedisce certo la comprensione;  ma da ciò non discende affatto che l’identità la produca positivamente. Sarebbe un errore eguale al voler concludere, sulla  base di un disturbo psichico provocato da determinate lesioni  cerebrali, che questo punto della corteccia cerebrale abbia prodotto il processo di coscienza in questione nella sua normalità.  Il mutamento o l’assenza di una tra le varie complicate condizioni, più o meno prossime, dei processi organici e in particolare di quelli psichici basta spesso a determinare una completa  deviazione, senza che per questo essa possa valere come loro  causa positiva. Si potrà soltanto dire che una certa misura di  diversità psichica è di ostacolo alla comprensione di date manifestazioni. Che però questa sia prodotta dall’identità di essenza è tanto meno dimostrato quanto più vediamo infinite volte che  i fraintendimenti peggiori sorgono proprio tra uomini maggiormente simili per disposizione naturale.   Il presupposto logico del presunto condizionamento del comprendere da parte dell’identità di essenza è che le qualità psichiche presenti nell'altro debbano essere inferite soltanto in base a  certi simboli e indizi esterni. Anche questo è a prima vista  plausibile. Quando il bambino ha un dolore, sente se stesso gridare; in base a questo, e soltanto in base a questo, può inferire che  un altro, che egli sente gridare, prova dolore come lui, e così  via. Contro la generalizzazione di questa ipotesi voglio addurre  però una sola obiezione, puramente empirica. Una delle percezioni che ci rivelano nel modo più univoco e impressionante la  costituzione psichica di un altro è Io sguardo del suo occhio;  ma proprio per questo ci manca ogni analogia tratta dalla  percezione di noi stessi. Chi non è attore e non ha studiato  davanti allo specchio l’espressione degli occhi — di collera e di  tenerezza, di languore e di estasi, di spavento e di desiderio  — non ha quasi mai occasione di osservarla in se stesso. Qui  non può quindi sussistere nessuna associazione tra la propria  esperienza interna e la propria percezione esterna, tale che  l'inferenza dalla percezione esterna di un altro all’interpretazione dell’interiorità altrui possa configurarsi come un richiamo a  tale associazione. Quest’unico fatto mi sembra costituire una  prova sufficiente che la propria esperienza interna-esterna non  può fornire la chiave per penetrare l’esperienza esterna-interna  di altri. Di un'esperienza del genere c’è però bisogno se non  altro per l’infelice separazione dell’uomo in corpo e anima, la  quale riserva al corpo di per sé preso una percezione concreta  che si presuppone soltanto fisico-esteriore, mentre per la constatazione dell'elemento psichico ha bisogno di quella trasposizione — mediata da rapporti di associazione — dell’esperienza  soggettiva interna negli altri, cioè di un atto che è tanto complicato (anzi mistico) quanto insufficiente per la funzione che  da esso si pretende. Piuttosto, io sono convinto che noi percepiamo l'uomo intero e che soltanto in virtù di un’astrazione successiva ne percepiamo la corporeità isolata — proprio come anche  nel soggetto percipiente non è l’occhio anatomicamente isolato  che vede, ma è l’uomo intero, la cui vita complessiva è come canalizzata dal singolo organo di senso. Questa percezione dell'esistenza totale può essere oscura e frammentaria, suscettibile  di perfezionamento mediante la riflessione e l’esperienza personale e stimolata dai particolari, sfumata secondo il grado di  capacità e finora non localizzabile in un organo determinato —  essa è il modo fondamentalmente unitario in cui l’uomo agisce  sull’uomo, è l'impressione complessiva non ben analizzabile intellettualmente, la conoscenza prima e per lo più decisiva degli altri, anche se ancora aperta a molti completamenti. E come  la comprensione storica in generale è soltanto un modo del  comprendere identico nel tempo, e del tutto attuale, così la  creazione o il discorso, l’azione o l'influenza a noi tramandati  dall'uomo del passato lo contengono realmente, in linea di  principio, e lo presentano alla nostra — altrettanto indivisa —  facoltà recettiva; ogni elemento particolare che l’uomo offre è  una pars pro toto. Certamente nella realtà storica gli stimoli  sono più scarsi, la via per ottenere l’immagine compiuta è più  lunga e tortuosa, il risultato è più incompleto e problematico.  In definitiva, però, nella misura in cui viene raggiunta, l’immagine della personalità storica e del suo comportamento sta dinanzi a noi come quella di un uomo conosciuto di persona,  accessibile e còlto nelle sue determinazioni particolari e nel loro  legame causale, senza essere in alcun modo un calco delle  nostre proprie qualità o delle nostre esperienze vissute. E se,  anche soltanto per giungere alla sua constatazione, vi fosse  bisogno di una trasposizione dei fatti psichici dalla loro sede  propria, non per questo sarebbe in alcun modo data la comprensione di questi fatti. Quantosovente ci troviamo infatti del tutto incapaci di comprendere di fronte al nostro proprio passato, quanto sovente l’uomo maturo non capisce più  azioni e sentimenti della sua gioventù, quanto di appena sentito e voluto dobbiamo accettare come fatto muto della nostra  esistenza senza comprendere come abbia potuto sorgere dalle  sue condizioni e dal nostro carattere, anzi senza comprendere  che cosa sig nifica nel suo senso autentico! Qui l'oggetto della  volontà di comprensione è certamente dato nella propria esperienza, e niente può dimostrare in modo più decisivo che la  presunta trasposizione della propria esperienza interna non rappresenta la via alla comprensione della personalità storica. Può darsi che si colga soltanto lo spirito al quale in qualche modo  si somiglia: può darsi che le azioni di un essere vivente su  Sirio ci risultino magari intelligibili — ma per il fatto di  assomigliare in modo essenziale a uno spirito, non lo si coglie  ancora.   Al modo di pensare greco con il suo solido sostanzialismo,  con la sua aderenza alla sicurezza plastica della forma e la sua  immediata forza di convinzione, corrispondeva il principio che  si può conoscere soltanto «il simile con il simile ». Ciò appare  però un dogma ingenuamente meccanicistico — come se la rappresentazione del comprendere e il suo oggetto fossero due  grandezze da far coincidere, mentre in questo modo si fa  straordinariamente violenza ai fatti. Nessuno potrà infatti negare di saper cogliere in altri dei sentimenti che non ha provato  egli stesso, di comprendere nodi del destino interiore che non  ha mai vissuto, di rappresentarsi impulsi della volontà che siano completamente estranei alla sua volontà. Non si può mettere in disparte questa difficoltà, a cui va incontro la concezione  della propria esperienza come presunta condizione del comprendere, concedendo che naturalmente il processo psichico vissuto  in sé non coincide precisamente con quello vissuto da un altro,  e che si devono apportare in esso alcune trasformazioni, diversità di tono, certi mutamenti quantitativi e qualitativi. Infatti,  se si concepisce la differenza tra i due processi come una differenza poco importante o solo formale, essa non risulta più  facile da superare; e dove starebbe poi il criterio che consente  di giudicarla oggettivamente più grande o più piccola? Il principio per cui noi comprendiamo negli altri solo ciò che abbiamo esperito in noi stessi può solamente valere o non valere;  ed esso viene infranto dal più insignificante contenuto psichico, che sappiamo presente nell'anima altrui senza che si sia  presentato nella nostra, così come dal più esteso. Ciò che trascina in queste difficoltà l’intera teoria è il realismo, che pretende  di assumere nel conoscere le cose « come esse sono realmente ».  La propria esperienza vissuta è — in base al suo stesso concetto — realtà immediata, e solamente quando l’esperienza vissuta  dell’altra anima può essere rappresentata in identità con essa  questo ingenuo modo di pensare crede di essere certo — in  virtù dell'identità dei fenomeni esterni — anche del processo veramente avvenuto nell’altro. Dal fatto che posso certo rappresentare l’esperienza vissuta altrui si inferisce, del tutto erroneamente, che io devo rappresentarmela come rappresento la mia  — nello stesso modo in cui i teorici dell'etica dell’egoismo  inferiscono, in base al fatto che sono il soggetto della mia  volontà, che devo esserne anche l'oggetto; e si giunge a questa  conclusione perché soltanto la propria esperienza vissuta si presenta come realtà piena, mentre non si può essere certi di  quella altrui, se non in virtù di una possibile trasposizione da  quella a questa o considerandola come questa. Anche nella  teoria della « penetrazione simpatetica » dei miei processi interiori negli altri dovrei sapere in anticipo quale parte delle mie  esperienze vissute devo delegare a tale missione; ma così viene  già presupposta l’intuizione del processo esterno che dovevo  invece ottenere per questa via.   Ritengo piuttosto che l’incorporazione della propria anima  nell’altro, per percepirlo come animato, costituisca una trasposizione — del tutto indimostrata — da esperienze di altra specie  a questo fenomeno non comparabile; ritengo cioè che il tu sia  piuttosto un fenomeno originario allo stesso titolo dell’io, e  che la teoria della proiezione valga per il tu tanto poco quanto vale per le cose date nello spazio. Le cose non sono compiute una volta per tutte nella nostra testa, e poi proiettate  con un procedimento misterioso in un spazio pronto a riceverle  — come si trasloca con i propri mobili in un appartamento  vuoto; riconoscere questo spazio costituirebbe pur sempre un  problema non minore del riconoscere in anticipo tale oggetto  come oggetto spaziale. Piuttosto, se per una volta poniamo la  questione partendo dal soggetto, la spazialità dell’oggetto è un  modo o forma originaria dell’intuire. In questo caso, intuire  non significa altro che intuire spazialmente e la duplicazione  della cosa — come se essa fosse dapprima in noi e poi fuori di  noi — è del tutto superflua. Così l’anima non è dapprima  qualcosa che sappiamo presente in noi e che poi proiettiamo in  un corpo appropriato a tale scopo, in modo da pervenire a un  tu soltanto attraverso questo strano processo; in noi sorgono  piuttosto — anche qui ci atteniamo al punto di vista dell’idealismo — certe rappresentazioni che fin dall’inizio costituiscono  un tu e vengono percepite come suoi contenuti psichici. L’espressione linguistica in base a cui si colloca l’essere animato  dell’uomo «dietro » il suo aspetto visibile e palpabile, questa  simbolizzazione spaziale del tutto superficiale, contribuisce molto a separare gnoseologicamente tale essere animato, inteso come l’aldilà misteriosamente inattingibile, dall’« esterno » che è  invece immediatamente accessibile. Soltanto se abbiamo prima  scisso il fenomeno dell’altro uomo in un’anima e in un corpo,  dobbiamo allora costruire un ponte tra di essi, per ricucire  l’unità che era invece data fin dall’inizio: noi abbandoniamo il  corpo esclusivamente alla sensibilità ottica, e altrettanto esclusivamente consegnamo l’anima alla nostra anima, lasciando poi  trasmigrare quest’anima inquel corpo mediante un processo di  introduzione, di trasposizione, di proiezione o comunque si  voglia chiamare quest’atto mai dimostrabile. Ma tale scomposizione è l’atto di violenza di un pensiero atomizzante.  Certamente, anche la prassi quotidiana, al pari della formazione dell’immagine storica, sembra legalizzare — partendo da  un materiale sempre accidentale e lacunoso, spesso soltanto superficialissimo — questa scomponibilità e la distanza, che il  pensiero deve quindi superare, tra esterno e psichico. Ma tale  separazione, prodotta dalla precarietà e dalla discontinuità materiale della vita, ha tuttavia come punto di partenza e come  punto di arrivo il fondamentale fatto unitario che si può chiamare il tu — l’altro immediatamente compreso come animato.  Anche quando la considerazione del sintomo più esterno conduce per la via più lunga e tormentosa alla sua comprensione  psichica, questa categoria sta a base di essa, e si trova di  nuovo, pienamente realizzata, al termine della via. La categoria del tu — che è decisiva per la costruzione del mondo  pratico e del mondo storico, quasi come quelle di sostanza o di  causalità lo sono per il mondo della scienza naturale — non  può essere paragonata a nessun'altra. Non posso designare il  tu come mia rappresentazione nel medesimo senso in cui designo ogni altro oggetto: debbo attribuirgli un essere per sé,  così come lo percepisco, distinto da tutti gli altri oggetti, soltanto nel mio proprio io. Perciò si spiega il fatto che noi percepiamo l’altro uomo, il tu, al tempo stesso come l'immagine più  distante e impenetrabile e come quella più prossima e familiare. Il tu animato è da una parte l’unico nostro pari nel cosmo, l’unico essere con cui possiamo comprenderci reciprocamente e  sentirci come «uno» come con nient'altro, cosicché collochiamo nella categoria del tu ciò che per altri versi è natura, dove  riteniamo di sentirci in unità con essa: così Francesco poteva  parlare agli animali e agli esseri inanimati come a fratelli. D'altra parte, però, il tu possiede una propria autonomia e sovrani  tà accanto a noi che nient'altro possiede, una resistenza contro  la dissoluzione nel processo di rappresentazione soggettivo dell’io, quell’assolutezza della realtà che l'io sente in se stesso.   Il tu e il comprendere sono la stessa cosa, espressa una volta  come sostanza e una volta come funzione — un fenomeno  originario dello spirito umano come il vedere e l’udire, il pensare e il sentire, oppure come l’oggettività in generale, come lo  spazio e il tempo, come l’io; è il fondamento trascendentale  del fatto che l’uomo sia uno %éov roArrwxév. Certamente, si  tratta di un grado successivo del nostro sviluppo; certamente,  di rado esso possiede la medesima univocità del suo contenuto;  certamente, esso compare soltanto sulla base di condizioni psicologiche più complicate. Ma anche gli atti della coscienza che si  presentano come primari sono condizionati da ciò che è trascorso; anch'essi hanno bisogno di uno sviluppo. Qui c’è soltanto  una differenza di grado: è perciò erronea l’opinione che tali  fenomeni psichici non possano essere in sé nulla di semplice e  di primario per il fatto che compaiono soltanto tardi, incompleti e in situazioni variamente condizionate. Che l'insufficienza  delle condizioni in cui si leva l’immagine o la comprensione le  mantenga incomplete, non prova affatto che esse vengano prodotte per associazione mettendo semplicemente insieme quelle  condizioni. Le differenze all’interno di questo fenomeno originario sono innegabili, soprattutto tra la comprensione di un  avvenimento attuale o di una persona convivente e la comprensione di oggetti divenuti storici. Che i dati siano qui di solito  numericamente più scarsi e accidentali, che siano affidati alla  mediazione intellettuale piuttosto che all’immediatezza sensibile, che nessuna atmosfera temporale comune unisca il soggetto  comprendente e il suo oggetto — tutto ciò può, nel caso particolare, escludere in parte o del tutto la comprensione, ma sotto  questo rispetto non esiste una differenza necessaria di principio  tra il presente e il passato. Certamente, noi possiamo avere un'esperienza vissuta soltanto di ciò che è presente; ma anche  nei confronti di questo possiamo avere il rapporto di comprensione storica, che ognuno ha verso il proprio passato. Per lo  sguardo che scruta le distanze storiche l’avvenimento esterno e  l'avvenimento psichico sono spesso molto più separati l’uno dall’altro di quanto non siano per l’intuizione immediata, ed esso  ha più sovente bisogno di compiere inferenze dall’uno all’altro;  ma tutte queste sono soltanto strade di accesso allungate, le  quali in definitiva conducono a quel comprendere che assume  unità attraverso l’unità; oppure costituiscono le sue frammentarie realizzazioni. Per questo comprendere, che spesso viene scisso nelle sue condizioni a causa di insufficienze pratiche e accidentali, e perciò appare all’analisi intellettuale come un’interpretazione di sintomi esterni autonomi sulla base di un elemento psichico che sta dietro di essi, è adeguato il concetto di  intuizione, che pure di per sé è poco attraente. Ma ciò che  suscita sospetto, l'elemento mistico abusivamente presente in  esso, scompare proprio se noi abbiamo chiaro il fatto che l’applicazione dell’intuizione al comprendere storico è circondata  dall’uso, del tutto inevitabile, che se ne fa in ogni momento della vita pratica.   Una struttura più complicata mostra il secondo tipo di comprendere, con cui un atto già conosciuto come psichico dev’essere compreso mediante un altro atto appartenente alla stessa  sfera psichica. Se di un legittimista dello Hannover degli anni  successivi al 1866 sentiamo dire che ha odiato Bismarck, noi  comprendiamo anzitutto questo sentimento in modo immediato, così com’esso è. L’odio è un affetto a noi immediatamente  noto. Noi conosciamo interiormente il significato soggettivo —  che non richiede un’ulteriore analisi — di questo affetto, poco  importa in quali circostanze e attraverso quale portatore esso  ci viene incontro. Questa comprensione di un contenuto psichico particolare è trans-storica e, per così dire, oggettiva: infatti  si tratta sempre del medesimo processo psicologico fondamentale, sia che lo applichi a Brunilde contro Crimilde', allo hannoveriano contro Bismarck, all’inquilino contro il padrone di casa  che lo angaria. La duplicità di elementi che ogni comprendere    I. Noti personaggi femminili della leggenda dei Nibelunghi. presuppone consiste, in questa comprensione immediata dell’elemento psichico, nel fatto che un caso individuale viene compreso in virtù di un contenuto generale preesistente nel soggetto.  Però comprendo storicamente l’odio dello hannoveriano se conosco la guerra del ’66 e l'annessione prussiana, ossia se lo  riconosco in generale come elemento di una connessione temporale complessiva. Ma, a questo punto, ogni momento di tali  connessioni dev'essere di nuovo compreso, a sua volta, in quel  primo senso. Come comprendo l’odio, devo ora comprendere  che cos’è l'attaccamento a una casa regnante o il valore attribuito all'indipendenza politica. Mentre quel primo comprendere  sembrava riguardare un contenuto atemporale o sovra-individuale e l’altro la connessione reale di un divenire molto articolato, di fatto anche quest’ultimo si scinde in una successione di  singoli punti di comprensione, ognuno dei quali dev'essere di  nuovo compreso in modo sopra-storico e psicologico. Pertanto  il comprendere storico in quanto tale viene alla luce in modo  manifesto quando questi momenti discontinui, e compresi per  così dire atemporalmente in modo discontinuo, vengono riempiti da parte dell’osservatore di una corrente vitale continua che  li lega insieme, che apre la porta di uno agli altri, che permette  di sentirli come pulsazioni del corso temporale della vita. Il  comprendere isolato di prima si mostra ora fondato su una  certa astrazione, in quanto dalla vita che sale e si abbassa  senza posa esso trae fuori la cresta di un’onda come un oggetto circoscritto del comprendere, mentre nella realtà questa è  legata in modo continuo con la precedente e con la successiva,  con tutte le onde della medesima vita. L'istituzione di questa  connessione continua è ciò che imprime alla tradizione di quanto è meramente accaduto la forma della storia. Stabilire che  un determinato avvenimento ha avuto luogo in un certo anno  non lo trasformerebbe ancora in un avvenimento storico, se  l’anno si collocasse isolatamente in uno schema temporale per  altri versi vuoto. Infatti sarebbe ancor sempre possibile com‘prendere l'avvenimento in base al suo significato interno, alla  sua specificità indipendente dal tempo. Certo questo deve avvenire in ogni caso; con ciò è però soltanto dato il materiale in  cui il divenire della storia si compie come una formazione  determinata. La storia non è il passato che ci è dato immediatamente €, più precisamente, in veste di frammenti sempre discontinui, ma è invece una determinata forma o somma di  forme con cui lo spirito sintetico che osserva penetra e domina  il materiale accertato in precedenza, ossia la tradizione di ciò  che è accaduto. Per il fatto che comprendo una serie come  storica non si aggiunge ad essa niente di nuovo per quanto  riguarda il suo contenuto; si è soltanto conseguita o istituita  una specie di connessione funzionale da parte dell’intuizione  interna. Come la considerazione storica in genere sottrae il  particolare contenuto di realtà alla rappresentazione limitata a  quest’ultimo e lo colloca — come elemento prodotto e produttivo — in connessioni senza fine, così procede ora anche la  funzione del comprendere quando coglie come storiche le realtà psichiche date. Questi dati devono anzitutto venir compresi  di per sé come unità psichiche in qualche modo chiuse: senza  tale presupposto non possono essere storicizzate. Esse però lo  diventano soltanto se si fluidificano in qualche misura, se si  mostrano come le formazioni particolari, di volta in volta determinate, di una dinamica della vita che le collega tutte tra  loro. È quindi’ possibile determinare con maggiore profondità e  precisione il concetto della comprensione storica di una qualsiasi realtà psichica particolare dicendo che esso significa la comprensione di questo elemento singolo in base alla totalità vivente del suo portatore.   È un errore assai diffuso ritenere che la successione di certi  dati psichici, ognuno dei quali presenta soltanto il suo contenuto circoscritto, concettualmente determinabile, fornisca anche la  comprensione del dato successivo. Ciò corrisponde al principio  atomistico e meccanicistico che fa coagulare la vita psichica, intorno ai suoi contenuti esprimibili logicamente, in singole « rappresentazioni », e che vorrebbe coglierla come la somma dei movimenti delle parti così separate l’una dall'altra. In tal modo la  comprensione dovrebbe procedere immediatamente — di contenuto in contenuto — sulla base di quella che si potrebbe chiamare la logica della psicologia, ma che in realtà è soltanto una  mescolanza indistinta di logica e di psicologia. Ma in questo  modo viene meno la connessione dinamica, la compenetrazione, l’unificazione del molteplice, e quindi proprio la comprensione di un elemento mediante l’altro. Quest'ultima esige infatti la visione interiore di un movimento continuo della vita, le  cui tappe sono soltanto quei momenti particolari indicabili in  base al contenuto. Soltanto se in ognuno di essi si percepisce  l’uomo intero, che non è una sostanza rigida ma uno sviluppo  vivente, noi comprendiamo il momento successivo, poiché la  direzione della corrente che conduce fino ad esso è indicata da  quello precedente. Però, come si è già detto, questo sviluppo  non è comprensibile come un saltare di contenuto in contenuto,  ma soltanto in virtù del processo di attualizzazione della vita  che rende ora intelligibili come proprie fulgurazioni quei contenuti particolari suscettibili di essere denominati — sia che questa vita sia attuale o trascorsa. Ciò può estendersi, senza alcun  mutamento di principio, al di là dell’individuo, poiché nella  medesima corrente della vita, che produce onde su onde, noi  scorgiamo una moltitudine di individui. Il fenomeno originario  del comprendere si realizza allora in quella successione — che  si estende in modo del tutto sovra-individuale — della vita che  continuamente spinge contro tale singolarità.   Sono qui dunque presenti due modi di comprendere, sulla  cui distinzione e sul cui intreccio si esige tanta maggior chiarezza quanto più lo storicismo ha commesso, con la sua superficiale  concezione, i peggiori fraintendimenti. Quando comprendo la  poesia Warum gabst du uns die tiefen Blicke® nel suo contenuto e nel suo significato poetico, ciò avviene in modo del tutto astorico. Quando però comprendo il contenuto e il tono della poesia in base al rapporto di Goethe con la signora von Stein, e comprendo che essa designa — nello sviluppo di questo rap- porto — un'epoca ben determinata, tale comprensione è ora comprensione storica. Ciò può essere illustrato in modo partico- larmente chiaro nella storia dell’arte. Con l’ultima pennellata del pittore al proprio dipinto, il suo significato si pone al di là della storia. Ma il dipinto può a sua volta diventare un fattore storico in virtù dei suoi destini esteriori, in virtù del mutamen- ‘to di interpretazione e di valutazione, in virtù della sua influenza sull'arte posteriore. Ma quell’altro significato — vale a dire  le leggi della sua formazione e del suo complesso cromatico, il  2. È il verso iniziale di una poesia di Gocthe della primavera del 1776, dedicata all'amico Charlotte von Stein. rapporto del suo oggetto con il suo stile particolare, la passionalità o la calma dell’esecuzione, l’accentuazione del disegno o  dell'elemento specificamente pittorico, in breve la specificità del  suo essere — non ne viene toccato; esso ha consumato in sé i  movimenti del suo divenire e, inteso in quelle determinazioni  puramente immanenti, è diventato indifferente nei loro confronti.  La linca di demarcazione così tracciata tra comprensione  oggettiva e comprensione storica di un elemento spirituale ha  il suo punto di appoggio in una problematica assai profonda  del nostro conoscere relativamente alla sua sicurezza e univocità. Una creazione dello spirito che dev'essere compresa deve  venir paragonata a un enigma che il suo creatore ha costruito  su una determinata parola risolutiva. Se chi indovina trova ora  un’altra parola altrettanto adeguata, con cui l’enigma — preso  in senso oggettivo — perviene al medesimo risultato logico e  poetico, questa costituisce una soluzione completamente « corretta » al pari di quella che si era proposta il poeta, e che non  ha così il minimo vantaggio rispetto alla prima o rispetto a  tutte le altre parole risolutive che si possono ancora escogitare  — e, in linea di principio, in numero illimitato. Se un processo  creativo è riuscito a trovare la forma dello spirito oggettivato,  tutti i più diversi tipi di comprensione sono parimenti giustificati nella misura in cui ognuno di essi è in sé conclusivo,  esatto, oggettivamente soddisfacente. Non hanno alcun bisogno  di riandare alla realtà psichica individuale di quel processo  creativo, assumendolo a criterio di questa coscienza. La comprensione immanente di un’opera d’arte, per esempio, è infinitamente variabile così come lo sono i sentimenti che essa suscita e che non sono affatto vincolati a quelli che il creatore vi  ha investito: i complessi affettivi e valutativi dell’uomo moderno dinanzi al duomo di Strasburgo o alla sonata Chiaro di  luna, i supporti profondi della sua comprensione non possono  essere ritenuti infondati o falsi soltanto perché non coincidono  con quelli di Erwin von Steinbach* o di Beethoven. E ciò vale  non solo per domini ideali secondo il loro contenuto. Il tecni3. Architetto della seconda metà del secolo XII, ebbe gran parte nella costruzione della facciata del duomo di Strasburgo. co empirico può inventare un dispositivo meccanico che gli  risulta pienamente intelligibile in base al rapporto tra i congegni da lui combinati e l’effetto che si propone; un ricercatore  più profondo, riandando alle leggi generali di natura che agiscono in quei congegni, può scoprire che lo stesso apparecchio  può venir impiegato per scopi a cui l'inventore non ha pensato.  Soltanto se si fossero esaurite senza residui le possibilità in essa  racchiuse, l’invenzione sarebbe realmente compresa così com'è,  cioè sarebbero realizzate le possibilità di comprensione virtualmente presenti nella sua oggettività. Non diversamente stanno  le cose con le costituzioni politiche o con singole leggi. Ciò  che esse propriamente significano dal punto di vista logico o  pratico, i loro creatori lo sanno spesso in modo assai incompleto, o non lo sanno affatto; altre personalità, la casistica, lo  sviluppo reale mostrano sovente gli effetti in esse riposti, che  non si possono però definire come errori o storture per il fatto  che la genesi soggettiva non li conteneva. Ovunque tra creatore  e opera c’è questo rapporto, in qualche modo inquietante: l’opera pervenuta alla sua autonomia contiene qualcos'altro (in  più o in meno, qualcosa che è dotato di maggiore o minor  valore) rispetto all’intenzione del creatore. In questo senso il  processo di creazione è sempre soltanto un'espressione 4 potiori; ciò che il creatore ha voluto e, più esattamente, ha potuto  è sempre soltanto un elemento di ciò che è stato effettivamente  creato, e solo cogliendo le sterminate possibilità in cui esso si  dispiega, al di là di questo elemento, il suo contenuto oggettivo  sarebbe realmente compreso. In tutto ciò ch e creiamo esiste,  oltre a quello che z0i creiamo realmente, ancora un significato, una legalità, una fecondità che oltrepassano la nostra forza  e la nostra intenzione. Tuttavia noi abbiamo senza dubbio creato il tutto, e non si tratta affatto di elementi raccolti che  dispiegavano la loro peculiarità e le loro potenzialità entro la  nostra creazione; il problema consiste proprio nel senso e nella  capacità della nostra creazione, i quali diventano incondizionatamente possibili e reali solo con il fatto di essere stati creati da noi. Da questo sentimento nascono le rappresentazioni che sempre ricorrono con una certa tonalità mistica — come se tutto ciò che creiamo fosse già idealmente preformato e noi fossimo in certa misura soltanto le levatrici che aiutano un ente metafisico a nascere nella realtà. Inteso come un dato di fatto interno, ciò spiegherebbe in ogni caso come mai quello che apparentemente è creato solo da un soggetto possiede signi- ficati innumerevoli di ogni specie, i quali oltrepassano tutte le intenzioni creative e le forze di questo soggetto; come mai, quindi, anche la comprensione spirituale di una creazione del genere non costituisca, in linea di principio, un problema con un’unica soluzione possibile. Con ciò quell’antitesi tra i due significati del comprendere si sviluppa ulteriormente. In base a quanto si è detto finora,  nel comprendere dal punto di vista teorico ed estetico il Faust,  per esempio, si prescinde del tutto dalla sua origine psichica.  Se i diversi tipi del comprendere soddisfano in eguale misura le  esigenze di connessione logica e artistica, di esplicazione unitaria delle oscurità, di sviluppo reciproco delle parti, allora sono  tutti corretti in eguale misura. Se devo invece comprendere il  Faust storicamente e psicologicamente, cioè comprendere tale  formazione sulla base degli atti e degli sviluppi psichici che si  sono determinati, momento per momento, nella coscienza di  Goethe, è esclusa in linea di principio una corrispondente pluralità di significati: questo processo di creazione si è infatti  rispecchiato in un determinato modo che la nostra conoscenza  può cogliere o non cogliere, ma che essa non può rappresentare in diversi modi tra loro equivalenti. Una pluralità di forme  storiche di comprensione dell’origine del Faust, create dal processo psichico, che siano tutte parimenti corrette — nello stesso  modo in cui può esserlo una pluralità di forme di comprensione oggettiva — è un’assurdità. Anche a proposito della comprensione storica può esserci, naturalmente, una pluralità di  ipotesi; di esse, però, una è vera e l’altra è falsa — alternati  va di fronte a cui non si trova la comprensione in base al  contenuto oggettivo, la quale la sostituisce piuttosto con altri  criteri di valore. Nei confronti di uno stesso contenuto oggettivo si può così soddisfare in modo compiuto l'esigenza di comprenderlo storicamente; ma non si può invece mai soddisfare in  maniera compiuta l’altra esigenza di comprenderlo oggettivamente, in base a tutti i significati che racchiude in sé. In ciò  consiste il profondo paradosso che, dove il comprendere storico  è comprendere psichico, esso non può mai pervenire a una completa univocità, non può mai decidere in assoluto tra una  pluralità, anzi tra una contrapposizione di princìpi esplicativi.  La ricchezza e la mobilità delle connessioni psichiche sono così  grandi che nessuna «legge psicologica » è in grado di determinare in modo vincolante gli sviluppi successivi di una determinata costellazione psichica; spesso tale sviluppo, procedendo  per una certa direzione, ci appare altrettanto plausibile di quello che procede in direzione precisamente opposta. Che il beneftcio ricevuto produca riconoscenza, lo comprendiamo tanto quanto il fatto che esso lasci dietro di sé umiliazione e risentimento; che l’amore dichiarato risvegli un amore corrispondente, lo riteniamo altrettanto comprensibile del fatto che provochi assenza di attrazione e indifferenza, e via dicendo. Quando  serie genetiche vengono alla luce mediante un’interpolazione  psicologica — cosa che accade sempre, più o meno consapevolmente — non si tratta di una necessità accertata, quale la  richiede, in modo univoco, la comprensione scientifica. In ogni  caso, l'ipotesi di una data via psicologica è quella corretta secondo la realtà; qualunque altra è erronea — poco importa se poi  questa correttezza o questa erroneità può essere da noi stabilita  incondizionatamente. In tal modo viene stabilita la differenza  fondamentale della comprensione storica rispetto alla comprensione del contenuto oggettivo in quanto tale.  Lo storicismo radicale vuol esaurire l’intera problematica di  una formazione così creata tracciando le condizioni e i gradi  del suo sorgere nel tempo. Le qualità oggettive dell’essere,  sottratte alla temporalità, si risolvono — come compiti conoscitivi — nel loro divenire; adesso la questione riguarda le premesse e i momenti preparatori, gli sviluppi e le condizioni favorevoli o gli impedimenti che hanno suscitato tale formazione, e  una comprensione sufficiente del contenuto oggettivo dev'essere  identica alla risposta a questo problema.  S’intende che sostituire la comprensione di un oggetto nella  sua atemporalità con la comprensione del modo in cui si è  pervenuti all’oggetto reale nel tempo non ha più senso che  equiparare la vista dalla vetta di un monte col percorrere la  via che ha condotto passo passo il viandante fino a questa  vetta: ciò vorrebbe dire infatti tagliar via arbitrariamente tutta  una dimensione del problema del comprendere. Ma il problema apparentemente eliminato ha la sua legittimità non sol- tanto al di fuori della realtà storica, ma anche proprio all’inter- no di essa. La comprensione in apparenza puramente storica fa infatti continuo uso della comprensione oggettiva sopra-storica, senza peròrendersene conto metodologicamente. Non capirem- mo mai la natura della cosa in base al suo sviluppo storico se non la comprendessimo in qualche modo in se stessa; altrimen- ti quell’impresa sarebbe chiaramente del tutto priva di senso. Con ciò si apre un terzo tipo di processi di comprensione, la cui fondamentale duplicità di elementi non è quella tra es terno e interno, né quella tra fisico e psichico, bensì la duplicità tra  contenuto psichico e contenuto atemporale. Tra questi si presentano ora nessi di reciprocità assai singolari, dal momento che  la comprensione oggettiva trans-storica non riguarda soltanto i  contenuti particolari, che pervenivano a un contatto reciproco e  a un ordinamento unitario solo in quanto eranoassunti nella  corrente dello sviluppo storico. Quei contenuti mostrano però  già nel loro stato ideale delle relazioni e delle disposizioni, e  costituiscono per così dire simboli atemporali della loro realizzazione psichica temporale — sempre in una dipendenza reciproca fondata nel profondo. Se uno storico della filosofia afferma  che comprendere Kant significa spiegarlo storicamente, le dottrine pre-kantiane gli appariranno come gradini che conducono  in direzione della dottrina kantiana, stabilendo quindi in modo  intelligibile il suo contenuto e il suo momento temporale. Ma ciò  non avrebbe successo se tutte queste dottrine — e qui sta il punto  decisivo — non costituissero nel loro contenuto logico oggettivo, e senza riferimento alla loro comparsa storica, una serie  intelligibile. Le cose non stanno diversamente che per qualsiasi  inferenza realizzata sul piano psichico. Noi comprendiamo del  tutto il movimento psichico che, aggiungendo alla convinzione  che tutti gli uomini sono mortali, l’altra che Caio è un uomo,  porta per così dire organicamente la coscienza fino al contenuto: Caio è mortale. Tuttavia lo comprendiamo soltanto perché  tutte queste idee erano valide nel loro contenuto oggettivo, e  quindi sono del tutto atemporali e indifferenti rispetto al fatto  che possiamo rappresentarle soltanto in una serie temporale.  Noi percepiamo il carattere di verità — indipendente dalla  nostra rappresentazione — della proposizione «tutti gli uomini sono mortali», che non esiste prima o dopo il carattere di  verità delle proposizioni « Caio è un uomo » e « Caio è mortale »; tutte e tre le idee valgono in una coordinazione assolutamente atemporale: la morte di Caio non risulta quindi come  conseguenza temporale dopo gli altri due fatti; l'ordine che in  base alle prime due conduce a quest’ultima non costituisce una  successione, come lo è il fatto di rappresentarla e di esprimerla, ma è un ordine oggettivo puramente interno, che ha luogo  in una ideale contemporaneità. Se esso non esistesse, non riconosceremmo neppure la direzione e la legittimità dello sviluppo  psichico che essa realizza in una determinata successione. La  stessa cosa avviene nel caso della comprensione storica di Kant.  Il razionalismo, che declassa ogni esperienza sensibile e colloca  la verità incondizionata soltanto nellaragione @ priori; il sensismo, che rifiuta quest’ultima e scorge soltanto nell’esperienza  la fonte di una conoscenza valida; la soluzione kantiana secondo cui soltanto l’esperienza ci dà una conoscenza oggettiva —  come vuole l’empirismo — soltanto che essa è già formata da  quei principi della ragione, e di conseguenza questi valgono  incondizionatamente, ma solo per gli oggetti dell’esperienza e  mai di per sé, al di là di essa — queste impostazioni hanno un  ordine ideale, determinato soltanto dal loro senso oggettivo  atemporale. Se non comprendessimo il senso di tale ordine  soltanto di per sé, indipendentemente dalle sue realizzazioni  psichiche in forma storica, non comprenderemmo mai neppure  l'ordinamento temporale di queste ultime, che ci apparirebbero  piuttosto come una semplice successione discontinua. La razionalità della loro successione, mediante la quale cogliamo la  direzione della corrente della vita nei soggetti che la sorreggono e che la realizzano in sé, è possibile soltanto come rispecchiamento temporale di quell’ordine puramente oggettivo. Accanto  al principio che la comprensione di Kant è condizionata dalla  sua spiegazione storica, si può porre l’altro principio che la  spiegazione storica di Kant è condizionata dalla sua comprensione. Se noi penetriamo attraverso gli avvenimenti l’unità di  una corrente vitale e la vediamo determinata dai momenti  precedenti e orientata verso i successivi, e se quindi — in altri  termini — comprendiamo ogni momento successivo in base al  precedente, tale processo acquista legittimità e impulso soltanto in base a quella comprensione oggettiva dei suoi contenuti, cioè in base al loro reciproco rapporto logico, non già al  loro rapporto vitale e temporale.  Qui si fa però valere un presupposto metodologico che mostra una connessione molto più stretta, e per così dire incondizionata, tra comprensione storica e comprensione oggettiva.  Prenderò le mosse dall’esempio (non importa se effettivamente  vero o da correggere) dello sviluppo del punto di vista kantiano dal dogmatismo, attraverso lo scetticismo sensistico, fino al  criticismo. Su quale base possiamo dire che uno di questi punti  di vis ta o di questi concetti si «sviluppa» fino all’altro in modo intelligibile? Ognuno di essi esprime esattamente soltan- to il suo proprio contenuto, è totalmente concluso in sé, e dire che « procede oltre se stesso» è un'espressione simbolica che lascia impregiudicato ciò di cui si discute qui Ja possibilità: è un tentativo del tutto disperato voler spremere da questi concet- ti disposti l’uno accanto all’altro uno sviluppo che renda l’uno comprensibile in base alla comprensione dell’altro. Che tuttavia noi scorgiamo qui di fatto uno sviluppo del genere, ciò può avvenire soltanto perché poniamo a base di questa serie pura- mente oggettiva di punti di vista, e che nessuna vita individua- le concreta può abbracciare, un soggetto ideale — prodotto per così dire di finzione — la cui vivente continuità spirituale percorre questi stadi e li connette in modo tale da scioglierli dalla chiusura di un senso di volta in volta limitato a se stes- so e da trasformarli quindi in momenti di uno sviluppo. Que- sto è lo strumento applicato continuamente e senza particolare  coscienza, lo strumento per così dire tecnico, con cui uno stadio c i diventa intelligibile sulla base dell’altro, che è ad esso  collegato ora in un tempo quasi atemporale, mediante una vita  atemporale. La stessa cosa avviene quando si concepiscono le  opere di un periodo più lungo della storia dell’arte come uno  sviluppo. Per esempio, i dipinti si dispongono l’uno dopo l’altro in modo discontinuo, e ognuno costituisce un’unità isolata  — ognuno entro il proprio ambito in cui nessuno sa nulla  dell’altro. Lo storico dell’arte costruisce tra di essi uno  sviluppo graduale dalla rigidità alla mobilità, dalla povertà alla  pienezza, dall’insicurezza al padroneggiamento sovrano dei mezzi, dall’accidentalità della composizione a un equilibrio armo532 GEORG SIMMEL  nico che abbraccia ogni elemento in modo dotato di senso, e  così via. Non si può quindi assolutamente dire che il creatore  dell’opera collocata al punto più alto abbia percorso, nel suo  sviluppo personale, tutti gli stadi precedenti. E non è neppure  in questione questo, bensì la possibilità di costruire tale serie  « evolutiva » in base a criteri oggettivi tratti dal complesso delle  opere, come se ognuna di esse fosse caduta dal cielo. Ma proprio questa possibilità risiede in ciò che si potrebbe chiamare il  soggetto metodologico, cioè in una formazione ideale che percorre queste creazioni in un’evoluzione che si può cogliere psichicamente, nei suoi momenti preparatori, nel suo crescere e  nel suo decadere, unificando l’ordine oggettivo della loro coesistenza in un processo vitale concepito come temporale, la cui  continuità non si rinserra nell’ambito della singola opera. Anche  l’uso linguistico sembra legittimare quest’interpretazione. Noi  diciamo che l’arte, il diritto, la chimica si sviluppano. È però  chiaro che l’arte, il diritto, la chimica ecc., in quanto tali, non  sono realtà, ma formulazioni riassuntive di fenomeni particolari separati tra loro, anche se collegati da molteplici relazioni,  sotto concetti astratti. Se l’arte, nel senso storico qui in questione, consiste della somma delle opere d’arte, il termine « arte »  non designa un'unità concreta e neppure, quand’anche essa lo  fosse, un’unità vivente, in grado di sviluppar« si »; in tal caso  dovrebbe essere « l’arte » a produrre i quadri, mentre sono gli  artisti a farlo. Se però applichiamo quest’espressione, abbiamo  creato l’ipostatizzazione di un concetto strumentale e un soggetto del tutto nuovo, che ha quella capacità di auto-sviluppo  riservata esclusivamente al vivente e le cui espressioni o tappe  sono le singole opere d’arte. Questo soggetto viene percepito in  uno sviluppo temporale, e ciò ancora per il fatto che i momenti  di tale sviluppo posseggono quel rapporto di sviluppo sopratemporale, puramente oggettivo. Noi ne abbiamo bisogno già  per casi isolati: quando comprendiamo l’amore o l’odio in generale, senza rapporto con la realtà di un individuo, attribuiamo loro per così dire un portatore ideale, una vita in generale  che nel suo complesso risponde con essi a qualsiasi stimolo e  che è, per così dire, versata in queste forme momentanee.  Come concetti rigidamente conclusi, strappati dalla connessione della vita, essi sarebbero per noi poco più che parole, e in  ogni caso attendevano soltanto di essere compresi in modo appropriato. Ciò diventa ancora più chiaro laddove un avvenimento particolare media la comprensione di un altro avvenimento  particolare. Il fatto che noi «comprendiamo» un sentimento  di vendetta — poco importa se rappresentato storicamente o in  astratto — in base a un'ingiustizia subìta in precedenza, non  avviene in virtù di uno strettissimo accostamento tra i due  processi, ma in quanto possiamo rappresentare un fluire unitario della vita, del quale costituiscono due onde legate dalla  corrente stessa.  Così risulta pure che il ritmo, la continua mobilità della  vita è il sostegno formale della comprensione, anche in quelle  connessioni logiche di contenuti oggettivi che, da parte loro,  rendono intelligibile il concreto accadere vivente di questi  contenuti oggettivi. Ma la vitalità specifica e operante di quel  soggetto ideale è una trasformazione o un’oggettivazione di  quella che noi rintracciamo in noi stessi — ma come vitalità  sovra-individuale, di cui noi siamo per così dire solo un esempio. All’interno dell’accadere e dell’ondeggiare incessante percepiamo tuttavia in noi, più o meno sicura, una finalità almeno formale, una realizzazione di disposizioni, un dispiegarsi di germi che noi abbiamo o, piuttosto, che noi siamo. Tale sensa- zione trova una manifestazione parziale o una concentrazione quando i contenuti psichici si ordinano in una serie, di cui ogni momento successivo ci diventa consapevole, rispetto al precedente, come arricchimento, come promessa mantenuta, co- me incremento ed estensione della nostra situazione. In quanto, dopo aver posto le premesse, pervengo alla conclusio- ne; in quanto percorro le teorie filosofiche del secolo xviI finché compare il criticismo; in quanto, considerando l’arte italiana, giungo dalla rigidità bizantina e dalla scarsa articolazione delle figure del Trecento fino al rilassarsi individualizzante  del Quattrocento e quindi all'unità armoniosamente raccolta della composizione del primo Rinascimento, sento il mio spirito  — nella misura in cui vive in queste sue espressioni — ampliarsi gradualmente, sempre più attualizzato nelle sue forze intuitive. Mentre vive in questa successione di contenuti e passa attraverso di essi, lo spirito si sente non soltanto mosso, ma anche dotato dello specifico valore dello « sviluppo ». Così considerato, questo è forse qualcosa di originario e di non ulteriormente  risolvibile, e neppure dipendente da un fine posto in precedenza, ma costituisce soltanto una ritmica imposta dallo stesso  movimento spirituale, una particolare specie di crescita interna. Che poi io designi l'ordinamento storico o ideale delle cose  come il loro sviluppo, non sarebbe chiaramente un arbitrio;  anzi, esse devono, nel senso più preciso, questo tono valutativo  al processo di auto-dispiegamento dello spirito, che le rivive  nella loro successione non appena sono diventate suoi contenuti. Se si considerano quindi i contenuti svincolati dall’anima  che se li rappresenta, sotto la categoria di un’oggettività esprimibile concettualmente, allora essi formano una serie evolutiva  oggettiva; essi sono attraversati dalla corrente del sentimento  vivente di aspirazione e di sviluppo del soggetto rappresentante, dal quale però si è ora astratto, che ha lasciato loro soltanto  la connessione interna e la costruzione mediante cui l'elemento  successivo è condizionato dal precedente, e quindi risulta intelligibile proprio nella sua posizione. Se « comprendere » un contenuto particolare non è in linea di principio (secondo l’opinione  che abbiamo qui esposto) nulla di diverso dalla sua comprensione come manifestazione della totalità della vita — di modo che  il «comprendere » ne è soltanto l’espressione abbreviata — ciò  risulta ora valido, attraverso il soggetto ideale che ha esperienza vissuta o il soggetto reale che'osserva, anche per quei contenuti che si offrono come puramente oggettivi o come realizzati  da portatori diversi.  Così si presenta dunque l’unione dei motivi storico-psichici  e dei motivi oggettivi all’interno del fenomeno complessivo del  comprendere. Noi comprendiamo lo sviluppo psichico reale di  una serie, i cui elementi si fondano in una successione temporale, soltanto sulla base della relazione oggettiva, trans-vitale,  dei suoi contenuti. Senza un incremento o una diminuzione  visibile in questa relazione, senza la nozione del fatto che i  contenuti oggettivi in quanto tali si richiamano a vicenda e che  l'uno fonda o condiziona l’altro prescindendo dalla realizzazione temporale, essi non possono neppure venir compresi come  successione psichica, come successione temporale-reale. E d’altra parte questo ordinamento ideale in forma di sviluppo è tra di essi possibile in quanto ne viene percorsa la continuità del  movimento psichico. Lo sviluppo oggettivo dei contenuti richiede, come 4 priori che dà loro forma, quel progredire della  coscienza, non ulteriormente definibile, che si annuncia come  sentimento specifico: esso soltanto può allentare la chiusura  senza ponti di ogni contenuto, e la trasporta in quella continuità che solo si può chiamare sviluppo. Così lo sviluppo psichico  è condizionato ed è comprensibile in base a quello oggettivo, e  questo è condizionato e comprensibile in base a quello. Ciò  significa che entrambi sono soltanto i due aspetti, resi metodologicamente autonomi, di un’unità: l’unità dell’accadere compreso storicamente. E poiché il comprendere è un fenomeno originario nel quale si esprime un rapporto universale dell’uomo,  gli elementi in cui esso si realizza o gli aspetti unilaterali tra  cui si muove la riflessione si compenetrano, cioè — rappresentati come autonomi — si costruiscono in correlazione tra di loro.  Considerato dall’altra parte, questo circolo è inevitabile perché  la vita è istanza determinante dello spirito, cosicché la sua  forma determina infine anche le formazioni mediante cui deve  diventare comprensibile a se stessa. La vita può essere appunto  compresa soltanto dalla vita, e a tal fine si dispone in strati di  cui l'uno media la comprensione dell'altro, e che nella loro  dipendenza reciproca annunciano la sua unità.   A questo punto appare chiaro che il motivo vitalistico per la  soluzione del problema del comprendere era già prefigurato  nelle considerazioni con cui ho cercato di chiarirlo respingendo le interpretazioni che di esso si offrono a prima vista.  Infatti queste interpretazioni, considerate in modo preciso, risultano in linea generale discendenti da una fondamentale intuizione meccanicistica. Ad essa risponde il fatto che l’uomo  offre all'uomo solo il suo aspetto fisico esterno, dietro il quale  soltanto un atto intellettuale, mediato da associazioni, colloca  un'anima e determinati processi psichici. L'unità e la totalità del vivente si sottrae infatti al meccanicismo; esso può incollar- lo insieme soltanto in base ai singoli frammenti che, per una concezione organica, sono il risultato di scomposizioni successi- ve della sua unità. Perciò esso non può concepire il comprende- re come fenomeno originario che si manifesta tra un uomo nella sua totalità e un altro uomo anch'esso nella sua totalità, ma lo concepisce come sintesi secondaria di fattori separati. In base alla medesima mentalità gli sfugge l'elemento creativo — si può ben dire così — del processo del comprendere, che permette al soggetto di produrre in sé ciò che gli è estraneo e  distante, ciò che non ha vissuto personalmente, come immagine  di un’altra anima. La sua aspirazione finale di risolvere ogni  relazione in equivalenze lo conduce a fondare o a ridurre anche  il comprendere esclusivamente all’identità tra soggetto e oggetto. Esso può concepire il compreso soltanto come ripetizione  meccanica di ciò che già preesiste nel comprendente; e doveva  quindi — dato che evidentemente ciò non è conciliabile con i  fatti — attaccarsi al mezzo disperato di costruire gli avvenimenti psichici nella personalità storica partendo da singoli frammenti, che si possono raccogliere insieme sulla base delle esperienze interne del soggetto della conoscenza storica: un tentativo che non è possibile discutere seriamente, e del tutto privo  di valore già per il fatto che la comprensione della vita interiore corre appunto lungo le continue comnessioni e unificazioni  dei contenuti che si possono designare singolarmente. Ciò che è  decisivo per la vita e per l’individualità, ossia l’unificazione,  non si potrebbe quindi raggiungere con la semplice trasposizione dei frammenti messi insieme. Rientra in tutto nell’essenza  dell’intuizione meccanicistica voler rappresentare anche il comprendere storico come una mera copia dell'accaduto «come  esso era realmente », anziché scorgere che anche questa è un’attività del soggetto dipendente dalle categorie e dalle forme in  cui assume il suo oggetto (alle quali, per esempio, quel soggetto metodologico appartiene come una necessità 4 priori), una  formazione spirituale specifica; e che anche qui la sua verità  relativa a un oggetto è qualcosa di vivente, di funzionale e di  elaborato, non già la riproduzione meccanica di una lastra fotografica. Forse con ciò il problema del comprendere storico diventa qualcosa di molto più difficile e profondo che nell’intuizione semplice, e tuttavia assai più strana, secondo cui la  comprensione di un’altra anima si compie come ripetizione  dell’esatto contenuto di quest’anima nello spirito che l’accoglie  — e ha luogo solamente in quanto l’esperienza vissuta propria  di questo spirito viene trasposta in quella. In queste diverse interpretazioni della comprensione psichica si fa valere l’antitesi tra un punto di vista meccanicistico e  un punto di vista organicistico e vitalistico. E come avviene in  ogni conflitto spirituale, spinto fino alla sua istanza suprema,  ogni decisione tra i due punti di vista risulta dipendente da  quella che l’uomo ha preso in merito alla totalità e alla profondità della propria intuizione del mondo. WEBER nasce a Erfurt, figlio di un avvocato  impegnato nella politica attiva e di una donna di forti interessi morali e religiosi, alla quale egli rimane sempre profondamente attaccato. Condotto a Berlino, dove il padre — divenuto deputato  del partito liberale-nazionale — accoglie in casa alcuni dei maggiori esponenti della vita politica e della cultura tedesca dell’età bismarckiana, Weber compe gli studi liceali nella capitale. In questo ambiente Weber rivela ben presto la sua acuta intelligenza e una straordinaria capacità di applicazione nello studio filosofico. Frequenta successivamente le università di Heidelberg, Berlino, Gòttingen e poi di nuovo Berlino. A Berlino consegue il dottorato con  una dissertazione sulle società commerciali nel medio evo, Zur Geschichte  der Handelsgesellschaften im Mittelalter (Stuttgart). In seguito  gli interessi di Weber si sviluppano in due direzioni principali. Da una  parte, soprattutto sotto l'ispirazione e la guida di Mommsen,  egli si dedica allo studio della STORIA ECONOMICO-SOCIALE DELLA ANTICA ROMA, scrivendo un saggio ancor oggi fondamentale sul diritto agrario  romano, Die ròmische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung fiir das Staatund Privatrecht (Stuttgart; tr. it. Milano) — con la quale  ottiene l’abilitazione — e soffermandosi in particolare  sui rapporti tra la crisi sociale del tardo impero e il tramonto della  civiltà antica. Dall'altra parte, sotto l'influenza dei cosiddetti socialisti  della cattedra (Schmoller, Wagner, Brentano ecc.) e  attraverso la partecipazione all'attività del « Verein fir Sozialpolitik »,  Weber si accosta alla ricerca sociologica empirica e collabora a un  progetto di studio delle condizioni del lavoro agricolo in Germania con  un'inchiesta sulla situazione delle regioni orientali. Nel volume Die  Verhiltnisse der Landarbeiter im ostelbischen Deutschland (Leipzig,  1892), nonché in vari saggi che ne sviluppano le implicazioni più propriamente politiche, egli pone in luce il trapasso dalla tradizionale proprietà di tipo signorile alla proprietà capitalistica, cercando di determi nare le conseguenze che ne risultano sul piano politico-sociale: la forma- zione di una classe di imprenditori fondiari e la proletarizzazione della manodopera agricola, con la necessità che da essa deriva di ricorrere alla im- migrazione polacca per colmare il vuoto prodottosi tra i contadini tedeschi. Attraverso questa inchiesta comincia a delinearsi quello che sarà il problema centrale dell’opera di Weber, cioè il problema del capitalismo moderno e della sua individualità storica. E difatti, in una serie di  saggi di poco posteriori la sua attenzione si concentra sui vari aspetti  dell'organizzazione capitalistica dell'economia e sulle condizioni del lavoro industriale.   Conseguita l'abilitazione, Weber sposa nel 1893 Marianne Schnitger  (che alla sua figura intellettuale dedicherà, dopo la morte, una celebre  biografia). L’anno seguente egli intraprende la sua carriera accademica  quale professore di economia politica a Friburgo e, dal 1896, a Heidelberg. Ma nel 1897 una gravissima crisi nervosa lo costringe a sospendere  l'insegnamento e a interrompere il lavoro scientifico. Questa crisi durerà  parecchi anni: soltanto dopo un lungo periodo di riposo, di cure e di  viaggi, con l’amorevole assistenza della moglie, Weber potrà far ritorno  al lavoro nel 1901, abbandonando però al tempo stesso la cattedra  universitaria. Egli rimane a Heidelberg come studioso privato, ma nel  1903 assume — insieme a Edgard Jaffé e a Werner Sombart — la  direzione dell’« Archiv fir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik »; e questa rivista, sulla quale compariranno molti dei suoi saggi più importanti,  diventa per opera sua un centro di attività a cui collaborano i più  insigni studiosi tedeschi di scienze sociali.  In questi stessi anni, a contatto con l’ambiente filosofico di Heidelberg, si vengono precisando le lince della riflessione metodologica weberiana. In un primo saggio, Roscher und Knies und die logischen Probleme der historischen Nationalòkonomie (pubblicato nello « Schmollers  Jahrbuch » del 1903-1906), Weber rivolge la sua critica ai presupposti  organicistici della scuola storica di economia, respingendo la pretesa di  assegnare alla scienza economica il compito di scoprire tendenze evolutive fornite di valore legale. Ma la critica della scuola storica (a cui fa  riscontro l'accettazione dei princìpi della teoria marginalistica, soprattutto nella formulazione datane da Carl Menger) si allarga in una presa di  posizione polemica nei confronti dell’eredità metodologica romantica, e  in particolare dell'interpretazione della conoscenza storica come un procedimento di comprensione immediata, diretto a cogliere intuitivamente i  fenomeni storici nella loro individualità. La piattaforma di questa polemica è offerta a Weber dal richiamo all'impostazione metodologica  rickertiana. Dinanzi all’alternativa tra la definizione della conoscenza  storica come complesso delle scienze dello spirito, formulata da Dilthey,  e la sua qualificazione come sapere idiografico, proposta da Windelband  e da Rickert, egli sceglie infatti la seconda soluzione. Né la specificità  dell'oggetto né la specificità del procedimento di ricerca, di per sé prese, sono in grado di garantire l'autonomia della conoscenza storica:  la contrapposizione tra natura e spirito è un'antitesi di carattere metafisico, mentre la distinzione tra spiegazione e comprensione rischia di  ridurre la conoscenza storica a una specie di penetrazione immediata, a  una forma di intuizione. L'oggetto delle scienze storico-sociali deve  perciò essere definito in correlazione al loro metodo, cioè in base all’orientamento verso l’individualità; mentre l’intendere dev’essere concepito  come una comprensione capace di trovare una verifica empirica e di  tradursi in spiegazione causale.  Per questa via si è venuto delineando il problema centrale della  metodologia di Weber, vale a dire il problema dell'oggettività delle  scienze storico-sociali. Nel saggio Die « Objektivitàt » sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnis, che inaugura la nuova serie  dell'« Archiv » (1904; tr. it. Torino, 1958) e in alcuni saggi successivi,  in particolare nelle Kritische Studien auf dem Gebiet der kulturwissenschaftlichen Logik (1906; tr. it. Torino, 1958), Weber ha enunciato le due  condizioni fondamentali di oggettività delle scienze storico-sociali, indicandole da un lato nell’esclusione dei giudizi di valore e dall'altro nel  ricorso alla spiegazione causale. La prima condizione stabilisce la differenza di principio tra il compito delle scienze storico-sociali in quanto  scienze e il compito dell’attività politica, e più in generale di qualsiasi  presa di posizione valutativa; la seconda stabilisce invece la funzione  esplicativa delle scienze storico-sociali e l’applicabilità al loro dominio  della categoria di causalità. Su questa base Weber si richiama alla  distinzione rickertiana tra giudizio di valore e relazione ai valori. Se il  giudizio di valore è estraneo alle scienze storico-sociali come a ogni altra  disciplina scientifica, ciò che distingue la loro struttura da quella delle  scienze naturali è proprio il riferimento a certi valori in virtù dei quali  avviene la selezione del dato empirico. Weber lascia però cadere il  presupposto della validità incondizionata dei valori, a cui Rickert faceva  appello: i valori sono sì criteri di scelta che permettono la selezione del  dato empirico e la costruzione dell'oggetto storico, ma sono essi stessi  assunti in rapporto allo specifico punto di vista da cui si pone l’indagine. I valori non sono quindi forniti di un'esistenza metastorica; essi  sono sempre i valori di una certa cultura, a cui appartiene il soggetto  della ricerca, La relazione ai valori designa pertanto il condizionamento  culturale delle scienze storico-sociali, il punto di partenza « soggettivo »  che stabilisce la direzione dell'indagine. Entro questa direzione è possibile una determinazione oggettiva di rapporti, che può essere conseguita mediante il ricorso alla spiegazione causale. Ma in tale maniera la stessa spiegazione causale di un oggetto storico risulta inevitabilmente parzia- le, anzi unilaterale. Essa non mette capo alla scoperta di rapporti necessari, ma procede alla formulazione di giudizi di possibilità oggettiva che si collocano entro i due casi-limite della causazione adeguata e della causazione accidentale. Le scienze storico-sociali individuano quin- di, di volta in volta, una serie di condizioni che — accanto ad altre, parimenti importanti — rendono possibile il verificarsi di un determina- to avvenimento. In quest'opera esse si avvalgono pure di concetti generali e di regole generali che hanno il carattere di «tipi ideali» e che  possono organizzarsi, con una relativa autonomia, in discipline teoriche  come la scienza economica o la sociologia. Questi concetti e queste  regole assolvono una funzione strumentale rispetto allo scopo primario  delle scienze storico-sociali, che è la spiegazione degli avvenimenti nella  loro individualità, ma sono nondimeno indispensabili. La via verso l’individuale passa sempre attraverso il sapere nomologico. Perciò l’edificio  del sapere storico comprende non soltanto la ricerca storiografica, ma  anche le scienze sociali astratte, costituite mediante l’organizzazione  sistematica di concetti tipico-ideali e dirette alla determinazione delle  uniformità di comportamento dei fenomeni sociali.  Negli stessi anni Weber ha affrontato il problema dell’individualità  storica del capitalismo moderno, con i due saggi Die protestantische  Ethik und der Geist des Kapitalismus (1904-1905; tr. it. Roma, 1945) e Die  protestantischen Sekten und der Geist des Kapitalismus (1906). Weber  definisce il capitalismo moderno come una struttura economica a orientamento razionale, che si colloca nel quadro del processo di razionalizzazione della vita che è caratteristico della civiltà moderna; per cui esso si  differenzia anche da quelle forme di economia che — come il capitali  smo antico — possono presentare tratti simili. Alla ricerca storica  si pone pertanto il compito di spiegare per quali motivi, cioè in rapporto a quali condizioni, questa struttura sia sorta soltanto in Occidente e nell'età moderna, e di determinare le linee del processo attraverso cui essa si è formata. Weber sostiene, in polemica con la concezione  materialistica della storia, l'impossibilità di fornire una spiegazione  della genesi del capitalismo moderno che faccia appello soltanto a condizioni economiche; e si propone di mostrare che ad esso ha contribuito in  modo decisivo, accanto a un certo tipo di organizzazione dell'impresa e  a una certa configurazione dei rapporti « materiali », anche una particolare mentalità — lo spirito capitalistico — la quale è il risultato di una  trasformazione dell’etica calvinistica e della sua specifica forma di ascesi  mondana, diretta a comprovare la grazia divina mediante il lavoro e il  successo negli affari. Questa tesi costituisce il presupposto anche dell’analisi che Weber ha successivamente dedicato alla religione cinese, all’Induismo e al Buddismo, alla religione ebraica, negli studi raccolti sotto  il titolo complessivo Die Wirtschafesethik der Weltreligionen.  Attraverso lo studio comparativo delle varie etiche economiche a cui le  religioni universali hanno dato origine, cercando di regolare con esse la vita economica, egli si propone infatti di mostrare — per via negativa —  che soltanto nel capitalismo moderno è presente quella particolare mentalità che costituisce lo spirito capitalistico, e che soltanto l’ascesi di tipo  calvinistico poteva offrire le condizioni adatte per la sua formazione.  L'analisi weberiana si rivolge così a determinare la diversità dell'etica  economica del Protestantesimo da quella delle altre religioni, cioè — in  ultima analisi — a spiegare i caratteri peculiari del capitalismo moderno. Pertanto la « sociologia della religione » di Weber appare, in fondo,  una ricerca storica che si avvale strumentalmente di concetti tipico-ideali, subordinando l’analisi tipologica a un preciso scopo di individuazione.   Soltanto nel saggio Uber einige Kategorien der verstehenden Soziologie (1913; tr. it. Torino, 1958), e più esplicitamente nella trattazione  sistematica di Wirtschaft und Gesellschaft (edita postuma nel 1922 a  Tiibingen; tr. it. Milano, 1961), la sociologia cessa di costituire un  momento astratto nell’ambito di un'indagine orientata in senso storiografico, per configurarsi come una disciplina autonoma che si pone in  antitesi rispetto alla ricerca storica, delimitando un proprio campo di  ricerca. La sociologia assume a oggetto le uniformità dell’atteggiamento  umano in quanto fornite di senso, e le forme di relazione che sorgono  sulla base dei diversi tipi di atteggiamento — l’atteggiamento razionale  rispetto allo scopo, l'atteggiamento razionale rispetto al valore, l’atteggiamento affettivo, l'atteggiamento tradizionale. In questa prospettiva Weber ha condotto, in Wirtschaft und Gesellschaft, un'analisi sistematica  dei rapporti tra i vari settori della vita sociale e le forme di economia;  cosicché il problema dell’individualità storica del capitalismo moderno  risulta trasposto sul piano di una tipologia delle strutture economiche,  considerate nel loro rapporto reciproco con gli altri campi della vita di  una società.   Negli anni successivi al 1903 lo sviluppo della riflessione metodologica e della ricerca storico-sociologica si intreccia, in Weber, con il rinnovato interesse per le vicende politiche tedesche e per la situazione europea.  Comincia a delinearsi, in questo periodo, la posizione sempre più critica  di Weber nei confronti dell’eredità bismarckiana, che lo condurrà a  formulare un severo giudizio sulla struttura politica della Germania,  incapace di favorire la formazione di una classe dirigente preparata e  responsabile. Questa critica, che Weber ha sviluppato durante la prima  guerra mondiale dalle colonne della «Frankfurter Zeitung», viene  espressa in modo compiuto — poco prima della fine del conflitto — in  Parlament und Regierung im neugeordneten Deutschland (Munchen,  1918; tr. it. Bari, 1919), in cui egli affronta il problema dell'imminente  ricostruzione politica della Germania. Successivamente Weber partecipa  in maniera diretta alla vita politica, prima come consulente della Commissione di armistizio a Versailles e poi collaborando alla redazione del  progetto di costituzione della repubblica di Weimar. Nel 1918 ritorna  all'insegnamento, accettando una chiamata all’Università di Monaco, dove tiene due celebri conferenze sul senso della scienza e sul senso della  politica (Wissenschaft als Berut e Politik als Beruf, 1919; tr. it. Torino,  1948) e il suo ultimo corso di lezioni, dedicato a un'analisi delle  categorie sociologiche. Risale a questi anni anche la Wirtschaftsgeschichte,  pubblicata postuma (Berlin, 1923). La morte lo coglie a Monaco il 14  giugno 1920, in pieno fervore di attività.  L'ultimo periodo della vita di Weber è caratterizzato anche dallo  sforzo di sviluppare le implicazioni filosofiche della propria analisi.  Non a caso il problema che viene in primo piano, durante questi anni, è  il problema dei valori, che gli veniva riproposto con urgenza dal  conflitto mondiale e dalle questioni etico-politiche che esso aveva sollevato. Riprendendo, nel saggio Der Sinn der « Wertfreiheit» der soziologischen und dkonomischen Wissenschaften (1917; tr. it. Torino, 1958), la  tesi dell’avalutatività delle scienze storico-sociali, Weber ha dato una  formulazione esplicita della propria concezione dei valori. I valori non  posseggono una validità incondizionata, e tanto meno sono entità trascendenti; la loro validità coincide con la possibilità di trovare una realizzazione nell’agire umano. D’altra parte i valori non possono essere riportati a un'unità sistematica: la loro molteplicità è irriducibile, e sia tra le  diverse sfere di valori sia all’interno di ogni sfera si verificano sempre  conflitti di valori. Ciò vale nei rapporti tra etica e politica, tra scienza e  religione, e via dicendo; ma vale perfino all’interno della sfera etica, che  è dominata dall’antitesi tra etica dell’intenzione ed etica della responsabilità. L’agire dell’uomo è la sede in cui si manifesta il contrasto reciproco  dei valori, in quanto l'accettazione di certi valori comporta inevitabilmente il rifiuto di altri, e il primato accordato a una certa sfera implica  la subordinazione o la negazione di altre sfere. Il rapporto dell’agire  umano con i valori si presenta quindi come una relazione problematica  definita mediante una scelta — la scelta che l’uomo compie dei valori  che devono servire come criterio di orientamento per la propria condotta. Su questa base Weber ha affrontato, in Wissenschaft als Beruf, il  problema del senso della scienza, cioè il problema del significato che la  scienza riveste in relazione al posto dell’uomo nel mondo. Egli ha  indicato tale significato nella chiarezza, cioè nella presa di coscienza del  rapporto tra gli scopi dell’agire e i mezzi necessari alla loro realizzazione, a cui l’uomo perviene in virtù della conoscenza scientifica. La  scienza mette in questione la possibilità di realizzare i valori, determinando le condizioni dalle quali essa dipende; la sua è quindi una  funzione problematizzante e critica. In maniera analoga Weber ha impostato, in Politik als Beruf, il problema del senso della politica. Se è vero che la politica implica sempre rapporti di forza e mira a conseguire o a  mantenere un certo potere, è altrettanto vero che essa è dedizione a un  compito, a una causa. In quanto tale, la politica presuppone una scelta  in favore di certi valori, a cui si accompagna il rifiuto di altri; cosicché  nel conflitto tra le varie forze si riflette una lotta tra valori diversi e  inconciliabili. Il senso della politica è perciò differente dal senso della  scienza — il che consente a Weber di ribadire la tesi dell’indipendenza  reciproca di conoscenza scientifica e di attività politica. Ma la base sulla  quale essi vengono determinati è la medesima: un’interpretazione del  posto dell’uomo nel mondo che risulta fondata sul rapporto di scelta  che intercorre tra l'uomo e i valori. I saggi metodologici di Weber sono raccolti nei Gesammelte Aufsitze  zur Wissenschaftslehre, Tùbingen, 1922, 1951 ? (a cura di J. Winckelmann),  1968?, 19734. Il volume comprende i seguenti saggi: Roscher und Knies  und die logischen Probleme der historischen Nationalòkonomie (1903-1906),  Die « Objektivitit » sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnis (1904), Kritische Studien auf dem Gebiet der kulturwissenschaftlichen Logik (1906), R. Stammlers « Ùberwindung » der materialistischen  Geschichtsauffassung (1907) con il relativo Nachtrag, Die Grenznutzlehre und das « psychophysische Grundgesetz » (1908), Uber einige Kategorien der verstehenden Soziologie (1913), Die drei Typen der legitimen Herr- schaft (apparso postumo nel 1922), Der Sinn der « Wertfreiheit » der so- ziologischen und Gkonomischen Wissenschaften (1918), Wissenschaft als Beruf (1919) — nonché il primo capitolo di Wirtschaft und Gesellschaft. Di questi saggi il secondo, il terzo, il sesto e l’ottavo sono tradotti nel vo- lume 7 metodo delle scienze storico-sociali (a cura di P. Rossi), Torino, 1958; Wissenschaft als Beruf è invece tradotto — insieme a Politik als Beruf — nel volume Il lavoro intellettuale come professione (tr. it. di A. Giolitti, intr. di D. Cantimori), Torino, 1948, 1966 2. Gli altri scritti di Weber sono raccolti per buona parte nei seguenti volumi: Gesammelte Aufsitze zur Religionssoziologie, Tiùbingen, 1920-21, con va- rie riedizioni fototipiche (una traduzione italiana completa è in corso di preparazione per i « Classici della sociologia » delle Edizioni di Co- munità): il primo volume comprende i due saggi Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus e Die protestantischen Sekten und der Geist des Kapitalismus, nonché l'introduzione e la prima par- te di Die Wirtschaftsethik der Weltreligionen, dedicata a Konfuzia- nismus und Taoismus; il secondo comprende la seconda parte, dedi- cata a Hinduismus und Buddismus; il terzo comprende la terza par- te, dedicata a Das antike Judentum. Una nuova edizione dei saggi sul- l'etica protestante, corredata della relativa discussione, è stata fornita da J. Winckelmann, col titolo Die protestantische Ethik: cine Aufsatz- sammlung, Miinchen, 1968, e Hamburg. Gesammelte politische Schriften, Miinchen, 1921, e Tiibingen, 1958? (a cura di J. Winckelmann), 19713; tr. it. (parziale) Catania, 1970: di questa traduzione non fanno parte né Parlament und Regierung im neugeordneten Deutschland, già tradotto fin dal 1919, né il saggio Politik als Beruf, tradotto invece nel volume // Zavoro intellettuale co- me professione cit. Gesammelte Aufsitze zur Sozial- und Wirtschaftsgeschichte, Tiubingen, 1924: il volume comprende Agrarverhaltnisse im Altertum (1909) e una serie di altri saggi di storia economico-sociale del mondo antico e del Medioevo, nonché Die lindliche Arbeitsverfassung (1893), Ent- wickelungstendenzen in der Lage der ostelbischen Landarbeiter e Der Streit um den Charakter der altgermanischen Sozialverfassung in der deutschen Literatur des letzten Jahrzehnts (1905). Gesammelte Aufsitze zur Soziologie und Sozialpolitik, Tùbingen, 1924: il volume comprende diversi saggi di sociologia empirica, tra cui so- prattutto Zur Psychophysik der industriellen Arbeit (1908-1909), e gli interventi alle riunioni del « Verein fir Sozialpolitik ». Rimangono al di fuori di queste raccolte: i due volumi Die ròmische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung fiir das Staat- und Privatrecht e Die Verhdltnisse der Landarbeiter im ostelbischen Deutschland, già menzio- nati; l’opera sociologica fondamentale Wirtschaft und Gesellschaft, Tù- bingen, 1922, 19257, 19473, 19564 (a cura di J. Winckelmann), 19725, tr. it. Milano, 1961, 1968, 1974?; le lezioni sulla Wirtschaftsgeschichte: Abriss der universalen Sozial- und Wirtschaftsgeschichte (a cura di S. Hellmann e M. Palyi), Miinchen-Leipzig, 1923 (una traduzione italiana è in preparazione presso Einaudi). Rimangono inoltre al di fuori delle varie raccolte e dei volumi qui elencati numerosi scritti, discorsi, interventi con- gressuali, nonché gli Jugendbriefe, Tiibingen, s.d. (ma 1936). Di grande importanza per la comprensione della personalità di Weber è la biografia scritta dalla moglie Marianne Weser, Max Weber, cin Le bensbild, Tiibingen, 1921, e Heidelberg, 19507. Due importanti raccolte di documenti sono state pubblicate rispettivamente da E. BAuMGARTEN, col titolo Max Weber: Werk und Person, Tiibingen, 1964, e da R. KénIG e J. WincKELMANN, col titolo Max Weber zum Gedichinis (fascicolo spe- ciale della « Kòlner Zeitschrift fir Soziologie und Sozialpsychologie », XVI, 1964). La letteratura critica sull'opera e sul pensiero di Weber ha acquistato, particolarmente negli ultimi due decenni, dimensioni sempre più cospicue. Tra di essa ci limitiamo a segnalare gli studi seguenti: 550 MAX WEBER A. von ScHELTING, Die logische Theorie der historischen Kulturwissen- schaft von Max Weber und im besonderen sein Begriff des Idealtypus, «Archiv fiir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik », XLIX, 1920, pp. 623-752. H. OrrenHEMER, Die Logik der soziologischen Begriffsbildung (mit be- sonderer Beriicksichtigung von Max Weber), Tiibingen, 1925. A. Warter, Max Weber als Soziologe, « Jahrbuch fir Soziologie », II, 1926, pp. 1-65. H. J. Graz, Der Begriff des Rationalen in der Soziologie Max Webers, Karlsruhe, 1927. B. Prisrer, Die Entwicklung zum Idealtypus (Eine methodologische Un- tersuchung iiber das Verhaltnis von Theorie und Geschichte bei Men- ger, Schmoller und Max Weber), Tibingen, 1928, parte III. S. LanpsHut, Kriti der Soziologie, Minchen-Leipzig, 1929, e Neuwied- Berlin, 1968 ?, parte II. W. Bienrair, Max Webers Lehre vom geschichilichen Erkennen, Berlin, 1930. E. Wotr, Max Webers ethischer Kritizismus und das Problem der Me- taphysik, « Logos», XIX, 1930, pp. 359-70. W. StrzeLEWIcz, Die Grenzen der Wissenschaft bei Max Weber, Frank- furt a.M., 1931. K. Jasrers, Max Weber: Deutsches Wesen im politischen Denken, im Forschen und Philosophieren, Oldenburg, 1932; nuova edizione col ti- tolo Max Weber: Politiker, Forscher, Philosoph, Bremen, 1946, e Miin- chen, 19582; tr. it. Napoli, 1969. K. LéwrrH, Max Weber und Karl Marx, « Archiv fiir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik », LXVII, 1932, pp. 53-99 € 175-214, poi raccolto nel- le Gesammelte Abhandlungen zur Kritik der geschichilichen Existenz, Stuttgart, 1960, pp. 1-67; tr. it. Napoli, 1967, pp. g-110. A. Scnurz, Der sinnhafte Aufbau der sozialen Welt (Eine Einleitung in die verstehende Soziologie), Wien, 1932. C. Stepine, Politit und Wissensschaft bei Max Weber, Breslau, 1932. A. MertLer, Max Weber und die philosophische Problematik in unserer Zeit, Leipzig. A. SaLomon, Max Webers Methodology, « Social Research », I, 1934, pp. 147-68. A. von ScuettIno, Max Webers Wissenschafeslehre, Tiibingen, 1934. R. Lennert, Die Religionstheorie Max Webers, Stuttgart, 1935. A. Saromon, Max Weber's Sociology, « Social Research », II, 1935, pp. 60-73. A. Saromon, Max Weber's Political Ideas, « Social Research », II, 1935, pp. 368-84. T. 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Un elenco degli scritti di Weber (compresi gli articoli di giornale) è stato fornito per la prima volta da Marianne Weser, Max Weber, ein Lebensbild cit., pp. 755-60; esso è stato completato da J. WINcKELMANN  nell’antologia di testi weberiani Soziologie, Weltgeschichtliche Analysen,  Politik, Stuttgart, 1956, pp. 490-503. Per una bibliografia degli studi su  Weber si veda l’articolo di H. H. GertH e H. I. GertH, Bibliography on  Max Weber, « Social Research », XVI, 1949, pp. 70-89, nonché le importanti integrazioni fornite da W. Mommsen, Max Weber und die deutsche  Politik. La prima questione *, che di solito si pone presso di noi a  una rivista di scienza sociale che sia al tempo stesso una rivista  di politica sociale, nel momento del suo apparire oppure del  a. Ogni qual volta, nella prima parte delle seguenti considerazioni, si  parlerà esplicitamente in nome degli editori, 0 si determineranno i compiti dell’« Archivio », non si tratterà naturalmente di opinioni private dell’autore, bensì di formulazioni che hanno avuto l’espressa approvazione  dei coeditori. Per la seconda parte la responsabilità, tanto per la forma  quanto per il contenuto, spetta soltanto all'autore.  Che l’« Archivio » non cadrà mai nella proclamazione settaria di una  determinata posizione scolastica, è garantito dalla circostanza che il punto  di vista non solo dei suoi collaboratori, ma anche dei suoi editori, è  tutt'altro che identica, perfino sotto il profilo metodologico. D'altra parte  una convergenza su certe concezioni fondamentali ha costituito naturalmente il presupposto dell'assunzione collettiva della redazione. Questa  convergenza si riferisce in particolare alla considerazione del valore della  conoscenza seorica da punti di vista « unilaterali », nonché all'esigenza  dell’elaborazione di concetti precisi e della rigorosa distinzione tra sapere  empirico e giudizio di valore, nel senso in cui essa verrà qui presentata  — naturalmente senza la pretesa di chiedere qualcosa di « nuovo ».  L'ampiezza della discussione (nella seconda parte) e la frequente ripetizione dello stesso pensiero servono allo scopo esclusivo di pervenire al  massimo possibile di comune intelligibilità in tali considerazioni. Per que* Die « Objektivitit » sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnis,  « Archiv fiir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik », XIX, 1904, pp. 22-87, raccolto  nel volume Gesammelte Aufsitze zur Wissenschaftslehre, Tubingen, ]. C. B. Mohr,  1922, 4° cd. (a cura di Johannes Winckelmann) 1973, pp. 146-214 (L’« oggettività »  conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, tr. it. di Pietro Rossi, in Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino, Einaudi. passaggio sotto una nuova redazione, è quella concernente la  sua « tendenza ». Anche noi non possiamo sottrarci a tale questione, e dobbiamo a questo punto — in riferimento alle osservazioni formulate nella nostra Nota introduttiva! — addentrarci in un'impostazione problematica più fondamentale. Si offre  in questa maniera l’opportunità di illustrare lungo varie direzioni il carattere specifico del lavoro della «scienza sociale» in  genere, quale noi lo intendiamo, di modo che ciò possa essere  utile — per quanto, o piuttosto proprio in quanto si tratta di  «nozioni di per sé evidenti» — se non per lo specialista,  almeno per il lettore che è più lontano dalla prassi del lavoro  scientifico.  Scopo esplicito dell’« Archivio » è stato, fin dall’inizio, quello di promuovere, accanto all'estensione della nostra conoscenza intorno alle «situazioni sociali di tutti i paesi», e quindi  intorno ai fazti della vita sociale, anche l'educazione del giudizio sui suoi problemi pratici e pertanto — in quella maniera,  certo assai modesta, in cui un fine siffatto può venir perseguito  da studiosi privati — la critica del lavoro pratico di politica  sociale, fino ai fattori legislativi. E tuttavia l’« Archivio » si è  proposto sempre di essere una rivista esclusivamente scientifica,  e di lavorare soltanto con i mezzi della ricerca scientifica —  cosicché si presenta subito il problema del modo in cui quello  sto interesse molto — c'è da sperare non troppo — si è sacrificato di  precisione dell’espressione, ed è stato pure del tutto tralasciato il tentativo  di presentare, in luogo di un’'elencazione di alcuni punti di vista metodologici, un'indagine sistematica. Ciò avrebbe richiesto l'inserimento di  una quantità di problemi di teoria della conoscenza, che in parte si situano a un livello ancora maggiore di profondità. Qui ci si propone non già  di fare della logica, bensì di rendere utili per noi dei risultati noti della  logica moderna; e quindi non di risolvere dei problemi, ma di illustrarne  il significato ai non specialisti. Chi conosca i lavori dei logici moderni —  io cito solo Windelband, Simmel e, per i nostri scopi, specialmente Heinrich Rickert — osserverà subito come ogni cosa essenziale sia qui legata  ad essi,  1, Si tratta della Nota introduttiva alla nuova serie dell’« Archiv fir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik », che enunciava il programma della nuova redazione,  costituita — oltre che da Weber — da Edgard Jaffé e da Werner Sombart. Cfr.  « Archiv », XXI, 1904, pp. ivi  scopo possa conciliarsi, in linea di principio, con la limitazione  a questi mezzi. Allorché l’« Archivio » procede nelle sue pagine a valutare le misure legislative o amministrative, oppure le  proposte per tali misure, che cosa significa questo? Quali sono  le zorme per questi giudizi? Quale è la validità dei giudizi di  valore che talvolta esprime da parte sua colui che giudica, o  che un autore, nell’avanzare proposte pratiche, pone a fondamento di queste? E in quale senso egli si mantiene allora sul  terreno della discussione scientifica, dal momento che la caratteristica della conoscenza scientifica deve essere rintracciata nella  validità « oggettiva » dei suoi risultati — cioè nella sua verità?  Noi intendiamo illustrare dapprima il nostro punto di vista di  fronte a questa questione, per trattarne in seguito un’altra più  ampia: in qual senso vi soro in generale « verità oggettivamente valide » sul terreno delle scienze che studiano la vita culturale? È una questione che, in considerazione del continuo mutare e della lotta accanita che investe anche i problemi apparentemente più elementari della nostra disciplina, il metodo del suo  lavoro, il modo di formazione dei suoi concetti e la loro validità, non può essere evitata. Noi vogliamo quindi non già offrire  delle soluzioni, ma piuttosto porre in luce dei problemi — quei  problemi a cui la nostra rivista, per essere giustificata nel suo  lavoro passato e futuro, dovrà dedicare la propria attenzione.  Noi tutti sappiamo che la nostra scienza, anzi — con l’eccezione forse della storia politica — ogni disciplina che abbia per oggetto le istituzioni e i processi culturali della vita umana, è storicamente sorta in relazione a punti di vista prati- ci. Il suo scopo prossimo, e all’inizio anche esclusivo, era quel- lo di produrre giudizi di valore su determinati provvedimenti politico-economici dello stato. Essa costituiva una « tecnica » all'incirca nello stesso senso in cui lo sono anche le discipline cliniche nell’ambito delle scienze mediche. È noto pure come questa  posizione sia venuta gradualmente mutando, senza che tuttavia  fosse realizzata una distinzione di principio tra la conoscenza  di «ciò che è» e la conoscenza di «ciò che deve essere ».  Contro questa distinzione operava dapprima la convinzione che  i processi economici siano regolati da leggi di natura immutabilmente eguali, e in seguito l’altra convinzione che essi dipendano da un principio di sviluppo univoco; e pertanto si riteneva  che ciò che deve essere coincidesse 0 con ciò che è immutabilmente, nel primo caso, oppure con ciò che diviene immancabilmente, nel secondo caso. Con il risveglio del senso storico la  nostra scienza fu dominata da una combinazione di evoluzionismo etico e di relativismo storico, la quale tentava di spogliare  le norme etiche del loro carattere formale, di determinarle nel  contenuto mediante l’incorporazione dell'insieme dei valori culturali nell’ambito della sfera «etica», e di elevare perciò l’economia politica alla dignità di una « scienza etica » su fondamento empirico. Dal momento in cui si contrassegnava l’insieme di  tutti gli ideali culturali possibili con l'impronta della sfera «etica», svaniva però la dignità specifica degli imperativi etici,  senza acquisire d’altra parte nulla per l’«oggettività» di quegli ideali. Per il momento noi possiamo e dobbiamo lasciar qui  da parte una confutazione di principio di tale posizione; e ci  soffermeremo semplicemente a osservare che anche oggi non è  scomparsa l'opinione inesatta — comune ovviamente soprattutto ai pratici — che l'economia politica produca e debba produrre giudizi di valore, derivandoli da una specifica « intuizione  economica del mondo ».  La nostra rivista, in quanto rappresentante di una disciplina  empirica, deve respingere in maniera fondamentale questa posizione — come vogliamo mostrare fin dall’inizio — poiché siamo convinti che non può mai essere compito di una scienza  empirica quello di formulare norme vincolanti e ideali, per  derivarne direttive per la prassi.  Che cosa discende però da questa proposizione? Non ne  discende in nessun modo che i giudizi di valore, in quanto essi  si basano in ultima istanza su determinati ideali e sono perciò  di origine « soggettiva », siano sottratti alla discussione scientifica in genere. La prassi e lo scopo della nostra rivista avrebbe  sempre smentito un principio siffatto. La critica non si arresta  di fronte ai giudizi di valore. La questione è piuttosto la seguente: che cosa significa e a che cosa tende una critica scientifica di ideali e di giudizi di valore? Essa richiede una considerazione alquanto approfondita.  Ogni riflessione pensante sugli elementi ultimi di un agire  umano fornito di senso è vincolata anzitutto alle categorie di  « scopo » e di « mezzo ». Noi vogliamo qualcosa, in concreto, o  « per il suo proprio valore» oppure come mezzo al servizio di  ciò che si vuole in ultima analisi. Alla considerazione scientifica è quindi accessibile in primo luogo, incondizionatamente, la  questione dell’appropriatezza dei mezzi in vista di un dato  scopo. In quanto noi (entro i limiti del nostro sapere) possiamo validamente stabilire quali mezzi sono appropriati o non  appropriati per raggiungere uno scopo prospettato, possiamo  per questa strada misurare le possibilità di conseguire con determinati mezzi a disposizione uno scopo determinato, e quindi  criticare indirettamente la stessa determinazione di tale scopo,  in base alla situazione storica presente, come praticamente fornita di senso oppure come priva di senso in base alla configurazione dei rapporti esistenti. Noi possiamo inoltre, se sembra  data la possibilità di raggiungere uno scopo prospettato, stabilire — naturalmente sempre entro i limiti del nostro sapere — le  conseguenze che avrebbe l’impiego dei mezzi richiesti accanto  all'eventuale conseguimento dello scopo prefisso, sulla base della connessione complessiva di ogni accadere. Noi offriamo in  tale maniera a colui che agisce la possibilità di misurare tra  loro le conseguenze non volute e quelle volute del suo agire, e  perciò la risposta alla questione: che cosa « costa » il conseguimento dello scopo voluto, in forma di pregiudizio prevedibilmente recato ad altri valori? Dal momento che, nella grande  maggioranza dei casi, ogni scopo al quale si tende «costa »  oppure può costare qualcosa, l’auto-riflessione di uomini che  agiscano in modo responsabile non può prescindere dalla reciproca misurazione dello scopo e delle conseguenze dell’agire;  e renderla possibile è infatti una delle funzioni essenziali della  critica tecnica, quale noi l'abbiamo finora considerata. Tradurre quella misurazione in una decisione nor è certo più un  possibile compito della scienza, ma è compito dell’uomo che  vuole: egli misura e sceglie tra i valori in questione secondo la  propria coscienza e secondo la sua personale concezione del  mondo. La scienza può condurlo alla coscienza che ogri agire, e naturalmente anche (secondo le circostanze) il zon-agire, significa nelle suc conseguenze una presa di posizione in favore  di determinati valori, e perciò — cosa che oggi viene così  volentieri dimenticata — di regola contro altri. Compiere la  scelta è però cosa sua.  Ciò che noi possiamo ancora offrirgli per questa decisione è  la conoscenza del significato di ciò che viene voluto. Noi possiamo insegnargli a conoscere nella loro connessione e nel loro  significato gli scopi che egli vuole, e tra cui sceglie, rendendo  esplicite e sviluppando in maniera logicamente coerente le «idee » che stanno, o che possono stare, a base dello scopo concreto. Infatti è evidentemente uno dei compiti essenziali di ogni  scienza della vita culturale dell’uomo quello di schiudere alla  comprensione spirituale queste «idee », per le quali si è lottato  e si lotta, in parte realmente e in parte apparentemente. Ciò  non va oltre i limiti di una scienza che tende a un « ordinamento concettuale della realtà empirica», sebbene i mezzi necessari per questa interpretazione dei valori spirituali non costituiscano « induzioni » nel senso comune del termine. Tuttavia questo  compito cade, almeno parzialmente, al di fuori dell'ambito della disciplina economica nella sua specializzazione, quale è definita in base alla consueta divisione del lavoro scientifico; si  tratta piuttosto di un compito della filosofia sociale. Solo che la forza storica delle idee è stata così predominante per lo svilup- po della vita sociale, e lo è tuttora, che la nostra rivista non può sottrarsi a tale compito, e deve piuttosto considerarlo nel- l'ambito dei suoi doveri più importanti. Ma la trattazione scientifica dei giudizi di valore può non soltanto farci comprendere e rivivere gli scopi che ci prefiggia- mo e gli ideali che stanno alla loro base, ma soprattutto può insegnarci anche a «valutarli» criticamente. Questa critica può certo avere soltanto un carattere dialettico, cioè può soltan- to essere una valutazione logico-formale del materiale che ci è offerto dai giudizi di valore e dalle idee storicamente date, e  quindi un esame degli ideali in base al postulato della n0n contraddittorietà interna di ciò che viene voluto. Essa può, proponendosi questo scopo, condurre colui che agisce volontariamente a un’auto-riflessione su quegli assiomi ultimi che stanno a  base del contenuto del suo volere, vale a dire a quei criteri di  Max Weber intorno al 1916. valore ultimi da cui egli inconsapevolmente muove o da cui —  per essere coerente — dovrebbe muovere. Recare alla coscienza  questi criteri ultimi, che si manifestano nei giudizi concreti di  valore, è in ogni caso l’ultima cosa che essa può compiere,  senza penetrare nel campo della speculazione. Che il soggetto  che giudica debba conformarsi a questi criteri ultimi è un suo  affare personale, e riguarda il suo volere e la sua coscienza, non  già il sapere empirico.  Una scienza empirica non può mai insegnare a nessuno ciò  che egli deve, ma può insegnargli soltanto ciò che egli può  e — in determinate circostanze — ciò che egli vuole. È  vero che, entro il campo delle nostre scienze, i vari modi  personali di concepire il mondo penetrano di continuo anche  nell’argomentazione scientifica, intorbidandola sempre e conducendola a considerare in maniera diversa il peso di argomenti  scientifici, pur sul terreno della determinazione di semplici  connessioni causali tra i fatti; e che di conseguenza risultano  diminuite o aumentate, a seconda dei casi, le possibilità degli  ideali personali, cioè la possibilità di volere qualcosa di determinato. Anche gli editori e i collaboratori della nostra rivista  ritengono sotto questo rispetto che in verità « nulla di umano  sia loro alieno ». Ma molto intercorre tra questa confessione di  debolezza umana e la fede in una scienza «etica » dell’economia politica, che dovrebbe dalla propria materia produrre degli  ideali, oppure dar luogo a norme concrete mediante l’applicazione di imperativi etici universali a tale materia. — Ed è  anche vero che proprio quegli elementi intimi della personalità,  i supremi e ultimi giudizi di valore che determinano il nostro  agire e che dànno senso e significato alla nostra vita, sono da  noi avvertiti come qualcosa di « oggeztivamente » valido. Noi  possiamo rappresentarceli soltanto se essi si presentano a noi  come validi, come derivanti dai nostri supremi valori, e se  quindi essi sono così sviluppati, nella lotta contro le resistenze  della vita. E certamente la dignità della « personalità » consiste  tutta nel fatto che per essa vi sono valori a cui riferisce la  propria vita: anche se nel caso singolo questi valori sussistono  esclusivamente entro la sfera della propria individualità, tuttavia l’«estrinsecarsi» in quelli dei suoi interessi, per i quali  reclama la validità dei valori, diventa l’idea alla quale essa si riferisce. Soltanto in base al presupposto della fede nei valori  ha senso, in ogni caso, il tentativo di formulare giudizi di  valore. Giudicare la validità di tali valori è però una questione  di fede, ed è inoltre forse un compito della considerazione  speculativa e dell’interpretazione della vita e del mondo nel  loro senso, ma non è sicuramente oggetto di una scienza empirica nel significato adottato in queste pagine. Per questa distinzione non ha rilievo decisivo — come spesso si ritiene — il  fatto empiricamente determinabile che quei fini ultimi sono  storicamente mutevoli e contestati. Infatti anche la conoscenza  dei princìpi più sicuri del nostro sapere teorico — anche del  sapere delle scienze naturali esatte o della matematica — è in  primo luogo prodotto della cultura, nello stesso modo in cui lo  sono la sensibilità e il raffinamento della coscienza. Soltanto  quando riflettiamo in maniera specifica sui problemi pratici della  politica economica e sociale (nel senso consueto del termine),  risulta chiaro che vi sono numerose, anzi innumerevoli questio  ni particolari di carattere pratico, per la cui discussione si  muove, in generale accordo, da certi scopi assunti come di per  sé evidenti — sì pensi per esempio ai crediti in caso di necessità, ai compiti concreti dell’igiene sociale, all’assistenza dei poveri, a provvedimenti come le ispezioni di fabbriche, i tribunali  del lavoro, gli uffici di collocamento, cioè a gran parte della  legislazione protettiva dei lavoratori — e che di questi scopi si  discute, almeno in apparenza, solo in riferimento ai mezzi  adatti per conseguirli. Ma anche se si scambiasse qui l’apparenza dell’auto-evidenza con la verità — ciò che la scienza non  potrebbe mai fare impunemente — e se si volessero considerare i conflitti, entro i quali subito conduce il tentativo della  realizzazione pratica, come questioni puramente pratiche di  opportunità — il che sarebbe molto spesso erroneo — dovremmo tuttavia osservare che anche questa apparenza di auto-evidenza dei criteri regolativi di valore svanisce appena procediamo dai problemi concreti dei servizi assistenziali alle questioni  della politica economica e sociale. Il contrassegno del carattere  politico-sociale di un problema consiste precisamente nel fatto  che esso non può venir sbrigato sulla base di considerazioni  meramente tecniche che facciano riferimento a scopi stabiliti, e   che si può, anzi si è costretti a disputare intorno agli stessi criteri regolativi di valore, dal momento che il problema rientra nella regione delle questioni culturali di portata generale. E la disputa si svolge non soltanto, come oggi così volentieri si crede, tra «interessi di classe», ma anche tra intuizioni  del mondo — e con ciò tuttavia rimane naturalmente vero che  l'adesione dell'individuo a una certa intuizione del mondo è  decisa anche, oltre che da vari altri elementi, e di sicuro in  misura molto elevata, dal grado di affinità che la unisce al suo  « interesse di classe » (se vogliamo qui accogliere in via provvisoria questo concetto solo apparentemente univoco). Di certo  c'è, in ogni circostanza, soltanto una cosa, che quanto più « generale » è il problema del quale si tratta, vale a dire quanto  più esteso è il suo significato culturale, tanto meno esso può  trovare una risposta univocamente determinata in base al materiale del sapere empirico, e di conseguenza tanto maggiore  rilievo hanno gli ultimi assiomi, così personali, della fede e  delle idee di valore. È semplicemente una ingenuità — sebbene  essa sia tuttora condivisa talvolta da specialisti — ritenere possibile di stabilire in primo luogo per la scienza sociale pratica  «un principio » e di trovare una conferma scientifica della sua  validità, per dedurne quindi in maniera univoca le norme per  la soluzione dei problemi pratici particolari. Per quanto le discussioni « di principio » di problemi pratici, condotte per riportare i giudizi di valore che si impongono in maniera irriflessa al loro contenuto di idee, siano indispensabili nella scienza sociale, e per quanto la nostra rivista intenda dedicarsi in ma- niera particolare anche ad esse, non può tuttavia essere suo compito — come non può essere il compito di nessuna scienza empirica in genere — la creazione di un denominatore comune  di portata pratica per i nostri problemi, in forma di ideali  ultimi universalmente validi; esso sarebbe non soltanto di fatto  insolubile, ma anche in sé privo di senso. E quale che sia l’interpretazione del fondamento e del modo di obbligatorietà degli  imperativi etici, è però certo che da essi, in quanto costituiscono norme per l’agire concretamente condizionato dell’;dividuo, non si possono dedurre in maniera univoca dei contenuti  di cultura che debbano essere accolti, e che anzi ciò è tanto  meno possibile quanto più comprensivi sono i contenuti in questione. Soltanto le religioni positive — o più precisamente le sette legate da un vincolo dogmatico — possono attribuire al  contenuto dei valori culturali la dignità di comandi etici incondizionatamente validi. Al di fuori di esse gli ideali culturali,  che l’individuo rsole realizzare, e i doveri etici, che egli deve  compiere, sono di dignità fondamentalmente differente. Il destino di un’epoca di cultura che ha mangiato dall’albero della  conoscenza è quello di sapere che noi non possiamo cogliere il  senso dell’accadere cosmico in base al risultato della sua investigazione, per quanto perfettamente accertato esso sia, ma che  dobbiamo essere in grado di crearlo, e che di conseguenza le  «intuizioni del mondo » non possono mai essere prodotto del  sapere empirico nel suo progredire, mentre gli ideali supremi,  che ci muovono nella maniera più potente, agiscono in tutte le  età solo nella lotta con altri ideali, che ad altri sono sacri come  a noi i nostri.  Soltanto un sincretismo ottimistico, quale risulta talvolta  prodotto dal relativismo storico-evolutivo, può illudersi teoricamente sull’estrema gravità di questo stato di cose oppure sottrarsi praticamente alle sue conseguenze. È ovvio che nel caso  singolo può essere soggettivamente doveroso per il politico pratico cercare una mediazione tra le antitesi di opinioni esistenti,  proprio come può esserlo prendere partito per una di esse. Ma  ciò non ha proprio nulla a che fare con l’« oggettività » scientifica. La «linea di mezzo» non è verità scientifica in nessun  modo più di quanto lo siano gli estremi ideali di parte, di  destra oppure di sinistra. Mai l’interesse della scienza è alla  lunga così mal garantito come le volte in cui non si vuole  guardare in faccia i fatti scomodi e le realtà della vita nella  loro durezza. L°« Archivio» combatterà senza sosta la grave  auto-illusione che si possano ottenere norme pratiche di validità scientifica attraverso la sintesi di diversi punti di vista,  oppure in base a una diagonale tracciata tra di loro, in quanto  essa — amando rivestire relativisticamente i propri criteri di  valore — è molto più pericolosa per una ricerca impregiudicata  di quanto non lo sia la vecchia ingenua fede dei diversi partiti  nella « dimostrabilità » scientifica dei propri dogmi. La capacità di realizzare la distinzione tra il conoscere e il valutare, cioè  tra l'adempimento del dovere scientifico di vedere la realtà dei  fatti e l'adempimento del dovere pratico di difendere i propri ideali — questo è il principio al quale dobbiamo attenerci più  saldamente.  In ogni epoca c’è e rimarrà sempre — questo è ciò che ci  interessa — una differenza insormontabile tra un’argomentazione la quale si diriga al nostro sentimento e alla nostra capacità  di entusiasmarci per fini pratici concreti o per forme e contenuti culturali, oppure anche alla nostra coscienza — nel caso in  cui sia in questione la validità di norme etiche — e un’argomentazione la quale si rivolga invece alla nostra capacità e al  nostro bisogno di ordinare concettualmente la realtà empirica,  in maniera da pretendere una validità di verità empirica. E  questa proposizione rimane corretta nonostante che quei « valori» supremi che stanno a base dell’interesse pratico siano e  restino sempre di decisiva importanza, come si porrà ancora in  luce, per la direzione che l’attività ordinatrice del pensiero  assume ogni volta nel campo delle scienze della cultura. È e  resta vero, infatti,che una dimostrazione scientifica metodicamente corretta nel campo delle scienze sociali deve essere riconosciuta come giusta, allorché essa abbia realmente conseguito  il proprio scopo, anche da un Cinese. Il che vuol dire, più  precisamente, che essa deve in ogni caso aspirare a questo fine,  benché forse non pienamente attuabile per l’insufficienza del  materiale, e che l’analisi logica di un ideale, considerato nel  suo contenuto e nei suoi assiomi ultimi, nonché l’indicazione  delle conseguenze che logicamente e praticamente derivano dalla sua realizzazione, deve essere valida per chiunque, anche  per un Cinese, una volta posto che sia riuscita. E ciò mentre a  lui può mancare la « sensibilità » per i nostri imperativi etici,  e mentre egli può respingere e certo respingerà spesso quell’ideale e le valutazioni concrete che ne discendono, senza tere  in tal modo il valore scientifico dell’analisi concettuale.  sicuro la nostra rivista non ignorerà i tentativi, che i. e  inevitabilmente si ripetono, di determinare in maniera univoca  il sezso della vita culturale. Al contrario, essi appartengono ai  prodotti più importanti di questa vita culturale, e in determinate circostanze anche alle sue più potenti forze direttive. Perciò  noi seguiremo sempre con cura il corso delle discussioni di  « filosofia sociale» in questo senso. Anzi, noi siamo quanto  mai alieni dal pregiudizio che le considerazioni della vita culturale, le quali tentano di pervenire a interpretare metafisicamente il mondo, procedendo oltre l’ordinamento concettuale del  dato empirico, non possano per questo loro carattere adempiere alcun compito in servizio della conoscenza. In che cosa  consista questo compito è certo un problema in primo luogo di  teoria della conoscenza, la cui soluzione deve, e può anche,  essere qui messa in disparte per ciò che concerne i nostri scopi.  Poiché una cosa dobbiamo stabilire per il nostro lavoro: che  una rivista di scienza sociale nel senso da noi illustrato, in  quanto essa aspira al carattere di scienza, deve essere una sede  nella quale si cerca la verità, e una verità tale — per rimanere  all'esempio — che esiga anche per il Cinese la validità propria  di un ordinamento concettuale della realtà empirica.  Certamente gli editori non possono proibire una volta per  sempre, a se stessi e ai collaboratori, di esprimere i propri  ideali anche in forma di giudizi di valore. Solo che da ciò  scaturiscono due importanti doveri. In primo luogo, viene il  dovere di rendere ben consapevole in ogni momento il lettore e  se stesso dei criteri a cui viene commisurata la realtà e da cui è  derivato il giudizio di valore, invece di illudersi, come troppo  spesso accade, intorno ai conflitti tra gli ideali, mediante un’imprecisa congiunzione di valori di diverso tipo, e di volere « offrire qualcosa a ognuno ». Se questo dovere viene rigorosamente osservato, la presa di posizione valutativa di carattere pratico  può risultare non soltanto innocua, ma anche direttamente utile nel puro interesse scientifico; poiché nella critica scientifica  delle proposte legislative, nonché di altre proposte pratiche, la  chiarificazione dei motivi del legislatore e degli ideali dell’autore criticato non può venir compiuta in tutta la sua portata, in forma intelligibile, se non mediante il confronto dei criteri di valore che sono alla loro base con altri, e naturalmente anche, in primo luogo, con i propri. Ogni valutazione fornita di senso del volere di un altro può essere soltanto una critica condotta in base alla propria intuizione del mondo, cioè una lotta contro l'ideale altrui sulla base di un proprio ideale. Se nel caso parti- colare l’assioma valutativo ultimo, che sta a fondamento di un volere pratico, deve essere non soltanto determinato e analizza- to scientificamente, ma anche illustrato nelle sue relazioni con altri assiomi valutativi, rimane inevitabile una critica « positiva» per mezzo di un “esposizione sistematica di questi ultimi.  Nelle pagine di questa rivista, specialmente in occasione  della discussione di leggi, si tratte rà inevitabilmente, oltre che  di scienza sociale — e cioè dell’ordinamento concettuale dei  fatti — anche di politica sociale — e cioè della rappresentazione di ideali. Ma noi non pensiamo di presentare siffatte discussioni polemiche come « scienza », € ci guarderemo con tutte le  nostre forze dal mescolare e scambiare le due cose. Non è più  allora la scienza che parla; e infatti la seconda fondamentale  prescrizione di un discorso scientifico impregiudicato è di illustrare con chiarezza in tali casi al lettore (e, lo ripetiamo, in  primo luogo di chiarire a se stesso) che, e dove, finisce il  ricercatore con la sua opera di pensiero e dove comincia a  parlare l’uomo che vuole, dove gli argomenti concernono l’intelletto e dove si dirigono invece al sentimento. La continua  mescolanza della discussione scientifica dei fatti e del ragionamento valutativo è una delle caratteristiche ancora più diffuse,  ma anche più dannose, dei lavori della nostra disciplina. E le  considerazioni precedenti si dirigono appunto contro questa mescolanza, non già contro l'enunciazione dei propri ideali. L’indifferenza e l’« oggettività » scientifica non posseggono nessuna  affinità interna. L’« Archivio » non è mai stato, e non deve  neppur diventare — almeno secondo la sua intenzione — un  luogo nel quale si conduca una polemica contro determinati  partiti politici o politico-sociali, e tanto meno una sede in  cui si faccia opera di proselitismo a favore di, oppure in opposizione a ideali politici o politico- sociali; per tale scopo sussistono  altri organi. Il carattere proprio della rivista è stato fin dall’inizio, e dovrà essere anche in futuro, per quanto dipende dagli editori, quello di riunire insieme nel lavoro scientifico i più aspri avversari politici. Essa non è stata finora un organo « socialista » e  non diventerà in avvenire un organo «borghese». Essa non  esclude dalla propria cerchia di collaboratori nessuna persona  che voglia porsi sul terreno della discussione scientifica. Essa  non può costituire un’arena di « risposte », repliche e contro-repliche, ma d’altra parte non può evitare a chiunque, neppure ai  suoi collaboratori e tanto meno ai suoi editori, di essere soggetti nelle proprie pagine alla più severa critica scientifica. Chiun568 MAX WEBER  que non possa sopportare ciò, o che ritenga di non poter collaborare, neppure al servizio della conoscenza scientifica, con gente che lavora per ideali diversi dai suoi, può rimanere lontano  dalla rivista.  Certo con questa ultima proposizione — non vogliamo illuderci in proposito — si è però detto praticamente molto di più  di quanto non appaia ad un primo sguardo. In primo luogo,  come si è già accennato, la possibilità di incontrarsi con avversari politici su un terreno neutrale — sociale o ideale — ha  purtroppo, in base a ciò che risulta empiricamente, i suoi limiti psicologici dovunque, e in particolare nella situazione tedesca. Degno di essere combattuto senz’altro di per sé come segno  di una ristrettezza mentale basata sul fanatismo e di una cultura politica arretrata, questo ostacolo viene accresciuto in misura considerevole, nel caso di una rivista come la nostra, dalla  circostanza che nel campo delle scienze sociali l'impulso a considerare i problemi scientifici è dato di regola da « questioni »  pratiche, di modo che il puro riconoscimento della sussistenza  di un problema scientifico sta in unione personale con il volere  di uomini viventi, diretto a un determinato scopo. Nelle colonne di una rivista, la quale viene in vita sotto l'influenza dell’interesse generale per un problema concreto, si troveranno perciò  di regola insieme, come collaboratori, uomini che dedicano a  tale problema il loro interesse personale, in quanto ad essi  sembra che determinate situazioni concrete siano in contraddizione con valori ideali a cui credono, e che quei valori siano in  pericolo. E quindi un’affinità elettiva di ideali siffatti unirà la cerchia dei collaboratori e consentirà di reclutarne degli altri, di modo che essa acquisterà almeno nella trattazione dei problemi politico-sociali di portata pratica un determinato carattere, quale inevitabilmente si accompagna a ogni cooperazione di uomini forniti di una viva sensibilità, la cui presa di posizione valutativa di  fronte ai problemi non è sempre del tutto repressa anche nel puro  lavoro teoretico, e si esprime pure in maniera del tutto legittima  — entro l’ambito dei presupposti prima discussi — attraverso la  critica di proposte e di misure pratiche. L’« Archivio » apparve in  un periodo nel quale stavano in primo piano, nelle discussioni  della scienza sociale, determinati problemi pratici costituenti la  «questione dei lavoratori» nel senso tradizionale della parola.  Quelle personalità per cui i supremi e decisivi ideali valutativi si  congiungevano ai problemi che esso intendeva trattare, e che pertanto divennero i suoi più consueti collaboratori, furono proprio per questo anche rappresentanti di una concezione culturale atteggiata in maniera identica o simile in base a quelle idee  di valore. Ognuno sa pertanto che, sebbene la rivista abbia  decisamente rifiutato di seguire una « tendenza » mediante l’esplicita limitazione alle discussioni «scientifiche » e mediante  l’esplicito invito agli «appartenenti a ogni settore politico »,  essa tuttavia ha posseduto sicuramente un «carattere » nel senso che si è detto. Esso fu creato in base alla cerchia dei suoi  collaboratori regolari. Furono in generale uomini che, nonostante ogni altra divergenza di opinioni, ritenevano proprio  fine quello di proteggere la salute fisica delle masse dei lavoratori e di rendere loro possibile una crescente partecipazione ai  beni materiali e spirituali della nostra cultura; uomini che consideravano come mezzo in vista di tale fine la connessione  dell'intervento statale nella sfera degli interessi materiali con il  libero sviluppo ulteriore dell'ordinamento esistente dello stato e  del diritto, e che — quale potesse essere la loro opinione sulla  formazione dell'ordinamento della società nel remoto futuro —  sostenevano per il presente lo sviluppo capitalistico, non già  perché questo sembrasse loro la migliore nei confronti delle più  vecchie forme di organizzazione sociale, ma perché esso pareva  praticamente inevitabile, e d’altra parte il tentativo di una lotta  a fondo contro di esso risultava non tanto un vantaggio quanto  un ostacolo per il progredire della classe operaia verso la luce  della cultura. Nelle condizioni oggi esistenti in Germania —  che non hanno qui bisogno di un'ulteriore chiarificazione —  questo non era, e non sarebbe neppure oggi, da evitare. Anzi,  ciò giovò senz'altro alla partecipazione di tutte le parti alla  discussione scientifica, e costituì per la rivista un elemento di  forza, e forse anche — data la situazione — uno dei titoli che  ne giustificavano l’esistenza. È fuor di dubbio che lo sviluppo di un «carattere» in questo senso può, e anzi dovrebbe per forza significare, in una rivista scientifica, un pericolo per un lavoro scientifico im- pregiudicato, nel caso in cui la scelta dei collaboratori sia stata di proposito unilaterale: in questo caso l'adozione di quel « ca- 570 MAX WEBER rattere » varrebbe praticamente come la presenza di una « ten- denza ». Gli editori sono pienamente consapevoli della responsa- bilità che questa situazione impone loro. Essi non si propongo- no né di mutare di proposito il carattere dell’« Archivio », né di conservarlo artificiosamente mediante un’accurata limitazio- ne della cerchia dei collaboratori agli studiosi che abbiano determinate convinzioni politiche. Essi lo accettano come dato, e  confidano nel suo ulteriore « sviluppo ». Come esso si configurerà in futuro, e come forse si trasformerà per l'inevitabile ampliamento della nostra cerchia di collaboratori, dipenderà in primo  luogo dal carattere di quelle personalità che entreranno in tale  ambito con l’intenzione di servire il lavoro scientifico, e che  diverranno o rimarranno di casa sulle colonne della rivista. E  ciò sarà ulteriormente condizionato dall’estensione dei problemi, al cui avanzamento la rivista si propone di tendere.  Con questa osservazione noi perveniamo alla questione, finora non ancora discussa, della delimitazione di contenuto del  nostro campo di lavoro. Ma ad essa non si può fornire una  risposta senza prendere in esame anche la questione della natura del fine conoscitivo della scienza sociale in genere. Noi  abbiamo presupposto, distinguendo in linea di principio « giudizi di valore» e « sapere empirico », che vi sia di fatto un tipo  incondizionatamente valido di conoscenza, cioè di ordinamento  concettuale della realtà empirica, nel campo delle scienze sociali. Questa assunzione diventa però ora un problema, dal momento che noi dobbiamo discutere che cosa può significare nel  nostro campo la «validità» oggettiva della verità alla quale  tendiamo. Che il problema sussista come tale, e che non venga  qui creato in maniera sofisticata, non può sfuggire a nessuno  che assista alla lotta di metodi, « concetti fondamentali » e presupposti, al continuo mutamento dei « punti di vista» e alla  continua rielaborazione dei concetti che vengono impiegati, e  che constati come la considerazione teorica e la considerazione  storica siano ancor sempre divise da un abisso apparentemente  insuperabile — quasi a costituire, come si lagnava a suo tempo  con tono lamentoso un disperato esaminando viennese, « due  economie politiche ». Che cosa vuol qui dire oggettività? Semplicemente questa questione vogliono affrontare le considerazioni seguenti Fin dall’inizio questa rivista ha considerato gli oggetti dei  quali si occupava come oggetti ecozomico-sociali. Per quanto  abbia poco senso anticipare qui determinazioni concettuali e  delimitazioni di discipline scientifiche, dobbiamo tuttavia porre brevemente in chiaro che cosa ciò significhi.   Che la nostra esistenza fisica, al pari del soddisfacimento  dei nostri più alti bisogni ideali, urti sempre contro la limitazione quantitativa e l’insufficienza qualitativa dei mezzi esterni  che occorrono a tale scopo, e che per tale soddisfacimento vi  sia appunto bisogno di una previdenza organizzata e del lavoro, della lotta contro la natura e dell’associazione con gli uomini, questo è — espresso in forma molto imprecisa — il fatto  fondamentale al quale si riferiscono tutti quei fenomeni che  noi indichiamo nel senso più ampio come « economico-sociali ».  La qualità di un processo, che lo rende un fenomeno « economico-sociale », non è qualcosa che inerisca ad esso in quanto tale,  « oggettivamente ». Essa è piuttosto condizionata dalla direzione del nostro interesse conoscitivo, quale risulta dallo specifico  significato culturale che attribuiamo nel caso singolo al processo in questione. Ogni qual volta un processo della vita culturale, considerato in quegli aspetti della sua particolarità in cui  risiede il suo significato specifico per noi, è ancorato in maniera diretta — o anche in maniera mediata — a tale situazione, esso contiene, oppure può per lo meno contenere, nella  misura in cui ciò ha luogo, un problema di scienza sociale,  vale a dire un compito per una disciplina che si propone per  oggetto la chiarificazione della portata di quella situazione fondamentale.  Noi possiamo, entro l'ambito dei problemi economico-sociali, distinguere processi e complessi di norme, istituzioni ecc., il  cui significato culturale consiste per noi essenzialmente nel loro  aspetto economico, e che ci interessano in primo luogo — come  per esempio i processi della vita delle borse e delle banche —  soltanto da questo punto di vista. Ciò avverrà di regola (anche  se non esclusivamente) quando si venga a trattare di istituzioni  le quali siano state create o siano utilizzate consapevolmente per scopi economici. Noi possiamo chiamare questi oggetti del  nostro conoscere con il nome di processi oppure di istituzioni  « economiche ». Ad essi se ne aggiungono altri — come per  esempio i processi della vita religiosa — che non ci interessano, oppure sicuramente non ci interessano in primo luogo, dal punto di vista del loro significato economico e in virtù  di questo, ma che tuttavia in certe circostanze acquistano significato da questo punto di vista, poiché ne derivano effetti che ci  interessano sotto il punto di vista economico: essi sono fenomeni «economicamente rilevanti». Infine, tra i fenomeni che  non sono economici nel nostro senso, ve ne sono alcuni i cui  effetti economici non presentano per noi nessun interesse, o  almeno non un interesse considerevole — come per esempio  l'orientamento del gusto artistico di un'epoca — ma che sono  da parte loro inffuenzati in misura più o meno forte, nel caso  specifico, in certi aspetti importanti della loro fisionomia, da  motivi economici, per esempio dal tipo di organizzazione sociale del pubblico che si interessa all’arte: essi sono fenomeni  condizionati economicamente. Quel complesso di relazioni umane, di norme e di rapporti determinati normativamente, che  noi chiamiamo lo « stato », è per esempio un fenomeno « economico » per ciò che riguarda la sua economia finanziaria; è un  fenomeno «economicamente rilevante » in quanto agisce, per  via legislativa o altrimenti, sulla vita economica (anche quando punti di vista assai diversi da quelli economici determinano consapevolmente il suo atteggiamento); ed è infine un  fenomeno «condizionato economicamente » in quanto il suo  atteggiamento e il suo carattere sono condeterminati, anche in  relazioni che non siano « economiche », da motivi economici. È  implicito in ciò che si è detto che da una parte l’ambito dei fenomeni « economici » è fluido, e non delimitabile in maniera precisa, e che d’altra parte naturalmente gli aspetti « economi- ci» di un fenomeno non sono mai soltanto «condizionati eco- nomicamente » oppure soltanto « economicamente operanti », € che in genere un fenomeno mantiene la qualità di fenome- no «economico» in quanto, e solamente per il periodo in cui il nostro interesse si dirige esclusivamente al significato che esso possiede per la lotta materiale per l’esistenza. La nostra rivista — come del resto anche la scienza economico-sociale a partire da Marx e da Roscher? — si è occupata non soltanto di fenomeni «economici », ma anche di fenomeni  «economicamente rilevanti » e di fenomeni « condizionati economicamente ». L'ambito di siffatti oggetti si estende naturalmente — in maniera fluida, in quanto è legato al diverso  orientamento del nostro interesse — attraverso l’insieme di  tutti i processi culturali. Motivi specificamente economici —  cioè motivi che sono ancorati, nella loro fisionomia per noi  significativa, a quel fatto fondamentale — operano sempre là  dove il soddisfacimento di un bisogno, per quanto immateriale  esso sia, è legato all'impiego di mezzi esterni limitati. Il loro  peso ha pertanto condeterminato e trasformato ovunque non  soltanto la forma del soddisfacimento, ma anche il contenuto  dei bisogni culturali perfino di tipo interiore. L’influenza indiretta di relazioni sociali, di istituzioni, di raggruppamenti  umani che stanno sotto la pressione di interessi « materiali» si  estende (spesso inconsapevolmente) a tutti i campi della cultura  senza eccezione, raggiungendo perfino le più sottili sfumature  del sentimento estetico e religioso. I processi della vita quotidiana non meno degli avvenimenti «storici » dell’alta politica, i  fenomeni collettivi e di massa al pari delle azioni « singolari »  di uomini di stato o dei prodotti letterari e artistici di origine  individuale subiscono questa influenza — e sono così « condizionati economicamente ». D'altra parte l’insieme di tutti i fenomeni e di tutte le condizioni di vita di una cultura storicamente data opera sulla formazione dei bisogni materiali, sul modo  del loro soddisfacimento, sulla formazione dei gruppi di interessi e sul tipo dei loro strumenti di potere, e perciò sul modo in  cui si svolge lo «sviluppo economico» — esso diventa cioè  « economicamente rilevante ». In quanto la nostra scienza imputa, nel regresso causale, i fenomeni economici a cause individua2. Wilhelm Gcorg Friedrich Roscher (1817-1894), economista tedesco, autore  del Grundriss zu Vorlesungen tiber die Staatswissenschaft nach geschichtlicher Methode (1843), del Systeni der Volkswirtschafislehre (1854-94), delle Ansichten der Volkswirtschaft (1861) e di varie altre opere, fu il fondatore della scuola storica di economia. Alla critica della sua impostazione è dedicato il primo saggio metodologico di  Weber, Roscher und Knîes und die logischen Probleme der historischen Nationalokonomie, «Schmollers Jahrbuch fir Gesetzgebung, Verwaltung und Volkswirtschaft », XXVII, 1903, pp. 1181-1221; XXIX, 1905, pp. 1323-84; XXX, 1906,  Pp. 81-120 (ora in Gesammelte Aufsitze zur Wissenschaftslehre, pp. 1-145).  574 MAX WEBER  li — di carattere economico e non economico — essa mira a  conseguire una conoscenza « storica ». E in quanto segue ur  elemento specifico dei fenomeni culturali, quello economico,  determinandolo nel suo significato culturale attraverso le più  diverse connessioni di cultura, essa mira a conseguire una inzerpretazione della storia da uno specifico punto di vista, offrendo  un’immagine parziale, un lavoro preliminare per la piena conoscenza storica della cultura.   Sebbene un problema economico-sociale non sussista ovunque ha luogo una connessione di elementi economici in quanto  conseguenza o in quanto causa — poiché esso sorge soltanto  dove il significato di quei fattori è problematico, e può venir  determinato con sicurezza solo mediante l’impiego dei metodi  della scienza economico-sociale — da ciò che si è detto finora  risulta stabilito l'ambito quasi sconfinato del campo di lavoro  della considerazione economico-sociale.  La nostra rivista ha finora di solito rinunciato, in base a  una ponderata auto-limitazione, alla considerazione di un’intera serie di campi particolari molto importanti della disciplina,  e in modo speciale alla considerazione dell'economia descritti  va, della storia economica in senso stretto e della statistica.  Allo stesso modo essa ha lasciato ad altri organi la discussione  delle questioni tecnico-finanziarie e dei problemi economico-tecnici della formazione del mercato e dei prezzi della moderna  economia di scambio. Il suo campo di lavoro è costituito dalla  considerazione del significato odierno e del processo storico di  certe costellazioni di interessi e di certi conflitti che sono sorti  in virtù della funzione preminente dell’impiego di un capitale  in cerca di investimento nell’economia dei paesi moderni. Essa  non si è quindi limitata ai problemi pratici e storico-evolutivi  che definiscono la «questione sociale » in senso stretto, cioè  alle relazioni della moderna classe di lavoratori salariati con  l'ordinamento sociale esistente. È certo che l’approfondimento  scientifico dell'interesse che, negli anni dopo l’'80, veniva estendendosi presso di noi per questa speciale questione, ha rappresentato dapprima uno dei suoi compiti essenziali. Quanto più  la considerazione pratica della condizione operaia è diventata  anche presso di noi oggetto permanente dell’attività legislativa  e della discussione pubblica, tanto più il centro di gravità del lavoro scientifico ha dovuto spostarsi verso la determinazione  delle connessioni di carattere più universale in cui questi problemi trovavano il proprio posto, sfociando in un'analisi di tuzti i  problemi culturali creati dalla fisionomia particolare dei fondamenti economici della nostra cultura, e in quanto tali specificamente moderni. La rivista ha perciò cominciato assai presto a  trattare storicamente, statisticamente e teoricamente i più diversi rapporti, in parte « condizionati economicamente » e in parte  « economicamente rilevanti », che si presentano anche nelle altre grandi classi delle nazioni moderne nelle loro relazioni  reciproche. Noi traiamo soltanto le conseguenze di questo atteggiamento allorché indichiamo ora come campo di lavoro  più particolarmente proprio della mostra rivista la ricerca  scientifica del gezerale significato culturale della struttura economico-sociale della vita della comunità umana e delle sue  forme storiche di organizzazione. — Questo e non altro abbiamo inteso, chiamando la nostra rivista « Archivio per la  scienza sociale ». La parola deve comprendere qui la trattazione storica e teorica degli stessi problemi la cui soluzione pratica è oggetto della « politica sociale » nel senso più ampio del  termine. Noi facciamo perciò uso del diritto di impiegare l’espressione « sociale » nel suo significato determinato in base ai  problemi concreti del presente. Se si vuol chiamare « scienze  della cultura » quelle discipline che considerano i processi della vita umana dal punto di vista del loro significato culturale,  la scienza sociale nel nostro senso appartiene a questa categoria.  Vedremo ora quali conseguenze di principio ne derivano.  Senza dubbio isolare l’aspetto economico-sociale della vita  culturale rappresenta una delimitazione assai sensibile del nostro tema. Si dirà che il punto di vista economico o — come lo si è imprecisamente definito — « materialistico », in base a cui è qui considerata la vita della cultura, è « unilaterale ». Certa- mente, e questa unilateralità è intenzionale. La fede che sia compito del lavoro scientifico nel suo progredire quello di gua- rire la considerazione economica dalla sua « unilateralità », in maniera da ampliarla in una scienza sociale generale, è inficia- ta anzitutto dal fatto che il punto di vista del « sociale », cioè della relazione tra gli uomini, possiede una determinatezza sufficiente per la delimitazione dei problemi scientifici solo quando è accompagnato da qualche predicato specifico che lo  qualifica nel suo contenuto. Altrimenti esso, in quanto oggetto  di una scienza, comprenderebbe naturalmente la filologia al  pari della storia della chiesa, e in modo particolare tutte quelle  discipline che si occupano del più importante elemento costitutivo di ogni vita culturale, cioè dello stato, e della più importante forma della sua regolamentazione normativa, cioè del diritto. Che l’economia sociale prenda in esame delle relazioni « sociali » non è un buon motivo per pensare che essa precorra una  « scienza sociale generale », allo stesso modo in cui la circostanza che essa si riferisca a fenomeni della vita o che abbia a che  fare con processi di un corpo celeste non autorizza a considerarla rispettivamente parte della biologia oppure parte di un’astronomia artificialmente accresciuta e migliorata. Non già le connessioni « di fatto » delle « cose », bensì le connessioni concettuali  dei problemi stanno a base dei campi di lavoro delle scienze:  dove si procede ad affrontare con un nuovo metodo un nuovo  problema, e si scoprono in tale maniera verità le quali aprano  nuovi importanti punti di vista, là sorge una nuova « scienza ».  Non è un caso che il concetto di « sociale », il quale sembra  avere un senso così generale, rechi con sé, ogni qual volta lo si  controlla nel suo impiego, un significato particolare, specificamente atteggiato, quand’anche di solito indeterminato; l’elemento «generale» sussiste in esso di fatto soltanto nella sua  indeterminatezza. Qualora lo si assuma nel suo significato « generale », esso non offre nessun punto di vista specifico dal  quale illustrare il significato di certi elementi della cultura.   Liberi ormai dalla fiducia antiquata nella possibilità di dedurre la totalità dei fenomeni culturali come prodotto oppure  come funzione di costellazioni di interessi « materiali », noi  riteniamo però d'altra parte che l’analisi dei fenomeni sociali e  dei processi culturali dal punto di vista specifico del loro condizionamento economico e della loro portata economica sia stata,  € possa ancora rimanere in ogni tempo prevedibile, con un’applicazione oculata e con libertà da ogni restrizione dogmatica, un principio scientifico fornito di fecondità creativa. La  cosiddetta « concezione materialistica della storia » come « intuizione del mondo » 0 come denominatore comune di spiegazioMAX WEBER 577  ne causale della realtà storica deve essere rifiutata nel modo  più deciso; invece l’accurato impiego dell’interpretazione economica della storia è uno degli scopi essenziali della nostra rivista. Ma ciò richiede una più precisa illustrazione.   La cosiddetta « concezione materialistica della storia », nel  vecchio senso, genialmente primitivo, che compare per esempio  nel Manifesto comunista, sopravvive oggi soltanto nella testa  di persone prive di competenza specifica e di dilettanti. Presso  questa gente è tuttora diffusa la circostanza che il loro bisogno  causale di spiegazione di un fenomeno storico non è soddisfatto  finché non si mostrano (oppure non sembrano essere) in gioco,  in qualche modo o in qualche luogo, delle cause economiche:  ma proprio in questo caso essi si accontentano delle ipotesi a  maglie più larghe e delle formulazioni più generali, in quanto  il loro bisogno dogmatico è soddisfatto nel ritenere che le « forze istintive » economiche siano quelle « proprie », le sole « vere», e anzi «in ultima istanza sempre decisive ». Il fenomeno  non è però affatto singolare. Quasi tutte le scienze, dalla filologia alla biologia, hanno talvolta avanzato la pretesa di dare  origine non soltanto a un sapere specializzato, ma anche a  «intuizioni del mondo ». E sotto l'impressione del profondo  significato culturale delle moderne trasformazioni economiche,  in particolare della portata predominante della « questione operaia », l'ineliminabile carattere monistico di ogni forma di conoscere priva di consapevolezza critica nei confronti del proprio  lavoro condusse naturalmente per questa strada. Lo stesso carattere viene ora in luce nell’antropologia, mentre si viene sviluppando con crescente asprezza la lotta politica e politico-commerciale tra le nazioni per il dominio del mondo: è diffusa la fede  che «in ultima analisi » ogni accadere storico sia una derivazione del gioco reciproco di «qualità razziali» innate. In luogo  di una mera descrizione acritica dei «caratteri dei popoli» è  subentrata la costruzione ancor più acritica delle proprie « teorie della società » su fondamento « naturalistico ». Noi seguiremo con cura nella nostra rivista lo sviluppo della ricerca antropologica, in quanto essa abbia significato per i nostri punti di  vista. C'è però da sperare che venga gradualmente superata,  mediante un lavoro metodicamente disciplinato, la situazione  in cui il ricondurre causalmente i processi culturali alla « razza» documenta soltanto il nostro 0n-sapere — proprio come  avviene nel caso del riferimento ali’« ambiente » 0, prima ancora, alle « condizioni dell’epoca ». Se qualcosa ha finora danneggiato questa ricerca, è certo la presunzione di alcuni fervidi  dilettanti di poter fornire per la conoscenza della cultura un  orientamento specificamente diverso, e superiore, rispetto all’estensione della possibilità di una sicura imputazione di singoli  concreti processi culturali della realtà storica a concrete cause  storicamente date, conseguita mediante un esatto materiale di  osservazione determinato in base a specifici punti di vista.  Esclusivamente nella misura in cui possono fornirci questo, i  loro risultati hanno interesse per noi e qualificano la « biologia  razziale » come qualcosa di più di un prodotto della moderna  febbre di fondazione scientifica.   Non diversamente stanno le cose per quanto riguarda il  significato dell’interpretazione economica del corso storico. Se  oggi, dopo un periodo di illimitata sopravvalutazione, incombe  su di essa il pericolo di essere sottovalutata nella sua capacità  orientativa per il lavoro scientifico, ciò è Ja conseguenza dell’acriticità senza pari con cui l’interpretazione economica della  realtà fu impiegata come metodo «universale », nel senso di  una deduzione di tutti i fenomeni culturali — vale a dire di  tutto ciò che in essi risulta per noi essenziale — come in ultima istanza economicamente condizionati. Oggi la forma logi- ca, nella quale essa si presenta, non è del tutto unitaria. Là dove si presentano difficoltà per una spiegazione puramente economica, vi sono a disposizione diversi mezzi per mantenere in piedi la sua validità universale come elemento causale decisi- vo. Talvolta si considera tutto ciò che nella realtà storica 707 è deducibile da motivi economici come qualcosa che proprio per- ciò risulta scientificamente privo di significato, e quindi come qualcosa di « accidentale ». Oppure si estende il concetto di ciò che è economico fino a renderlo irriconoscibile, in maniera da inserire nell'ambito di quel concetto tutti gli interessi umani  che siano in qualche maniera legati a mezzi esterni. Se è storicamente stabilito che in due situazioni eguali sotto il profilo  economico si è tuttavia reagito in maniera diversa — per le  differenze di determinanti politiche e religiose, o climatiche, o  di innumerevoli altre non economiche — allora si procede a  degradare tutti questi elementi, allo scopo di conservare la supremazia dell'elemento economico, a «condizioni » storiche accidentali, dietro Ie quali i motivi economici operano in qualità  di « cause ». S’intende però che tutti quegli elementi che risultano «accidentali» per la considerazione economica seguono le  loro proprie leggi, proprio al pari degli elementi economici, e  che per una considerazione la quale vada dietro al loro significato specifico le « condizioni » economiche sono « storicamente  accidentali » nel medesimo senso del rapporto inverso. Un tentativo prediletto di giustificare, ciò nonostante, l’importanza  predominante dell'elemento economico, consiste infine nell’interpretare la costante correlazione e successione dei singoli elementi della vita culturale nel senso di una dipendenza causale  o funzionale dell’uno dall’altro, o piuttosto di tutti i rimanenti  da uno solo, e cioè da quello economico. Dove una determinata  istituzione 202 economica ha storicamente compiuto anche una  determinata « funzione» al servizio di interessi economici di  classe, dove, per esempio, determinate istituzioni religiose si  lasciano impiegare, e sono impiegate, come « polizia nera »,  l’intera istituzione viene allora presentata o come creata appunto per questa funzione o — in maniera assolutamente metafisica — come orientata in base a una «tendenza di sviluppo »  che muove dall’elemento economico.   Non c'è più bisogno oggi di illustrare a nessun specialista  che questa interpretazione dello scopo dell'analisi economica è  espressione in parte di una determinata costellazione storica, la  quale indirizzava il proprio interesse scientifico verso determinati problemi culturali condizionati economicamente, e in parte  di un rabbioso patriottismo scientifico, e che essa risulta ormai  per lo meno invecchiata. La riduzione esclusiva a cause economiche non è in qualsiasi senso esauriente in nessun campo dei  fenomeni culturali, e neppure in quello dei processi « economici». In linea di principio una storia della banca di qualsiasi  popolo, che volesse per la spiegazione avvalersi soltanto di  motivi economici, sarebbe naturalmente impossibile nello stesso  modo in cui lo sarebbe una « spiegazione » della Madonna Sistina in base ai fondamenti economico-sociali della vita culturale  dell’epoca in cui è sorta — e non sarebbe, sempre in linea di  principio, più esaustiva di quanto non potrebbe esserlo per  esempio la derivazione del capitalismo da certe trasformazioni  di contenuti della coscienza religiosa che hanno cooperato alla  genesi dello spirito capitalistico, o la derivazione di qualsiasi  altra formazione politica da condizioni geografiche. In tutti  questi casi è decisiva, per misurare l’importanza che dobbiamo  assegnare alle condizioni economiche, la classe di cause alla  quale devono essere imputati quegli elementi specifici del fenomeno in questione, a cui nel caso singolo attribuiamo un sigrificato in virtù del quale esso ci interessa. Il diritto dell’analisi  unilaterale della realtà culturale da «punti di vista» specifici  — nel nostro caso dal punto di vista del suo condizionamento  economico — deriva però anzitutto, in linea puramente metodica, dalla circostanza che l’educazione della vista a osservare  l’azione di categorie causali qualitativamente omogenee, e il  continuo impiego del medesimo apparato metodico-concettuale,  offrono tutti i vantaggi della divisione del lavoro. Che essa non  sia troppo arbitraria è provato dal suo risultato, cioè dal fatto  che fornisce la conoscenza di connessioni le quali si rivelano  fornite di valore per l'imputazione causale di processi storici  concreti. Ma l’« unilateralità » e la irrealtà dell’interpretazione  puramente economica del corso storico è soltanto un caso specifico di un principo generale che vale per la conoscenza scientifica della realtà culturale. Illustrarlo nei suoi fondamenti logici e nelle sue conseguenze metodiche generali è lo scopo essenziale delle discussioni che seguono.  Non c’è nessuna analisi scientifica puramente « oggettiva »  della vita culturale o — ciò che forse è più ristretto, ma che  non significa certo nulla di essenzialmente diverso per il nostro  scopo — dei « fenomeni sociali », indipendentemente da punti  di vista specifici e « unilaterali», in base a cui essi sono —  espressamente o tacitamente, consapevolmente o inconsapevolmente —.scelti come oggetto di ricerca, analizzati e organizzati nell'esposizione. Il fondamento di ciò sta nel carattere specifico del fine conoscitivo di ogni lavoro di scienza sociale, che  voglia procedere oltre una considerazione puramente formale  delle norme — giuridiche o convenzionali — della coesistenza  sociale.  La scienza sociale, quale noi vogliamo promuoverla, è una  scienza di realtà. Noi vogliamo intendere la realtà della vita che ci circonda, e in cui noi siamo collocati, nel suo carattere  proprio — noi vogliamo cioè intendere da un lato la connessione e il significato culturale dei suoi fenomeni particolari nella  loro configurazione presente e dall’altro i motivi del suo essere  storicamente divenuto così-e-non-altrimenti. Allorché cerchiamo  di riflettere sul modo in cui essa si presenta immediatamente a  noi, la vita ci offre una molteplicità, senz’altro infinita, di  processi che sorgono e scompaiono in un rapporto reciproco di  successione e di contemporaneità, «in» noi e «al di fuori di»  noi. E l'assoluta infinità di questa vita molteplice non diminuisce anche quando prendiamo in considerazione un singolo « oggetto » isolatamente — per esempio un atto concreto di scambio — e vogliamo studiarlo con serietà allo scopo di descrivere  questo oggetto «singolo» esaurientemente in tutti i suoi elementi individuali, per non parlare poi di coglierlo nel suo  condizionamento causale. Ogni conoscenza concettuale della  realtà infinita da parte dello spirito umano finito poggia infatti sul tacito presupposto che soltanto una parte finita di essa  debba formare l’oggetto della considerazione scientifica, e perciò risultare «essenziale » nel senso di essere « degna di venir  conosciuta ». Ma in conformità a quali princìpi si procede a  isolare questa parte? Si è ripetutamente creduto di poter trovare anche nelle scienze della cultura il criterio decisivo nel ricorrere « conforme a leggi» di determinate connessioni causali. Il  contenuto delle «leggi» che noi riusciamo a conoscere nel  corso sempre molteplice dei fenomeni deve costituire — secon- do questa concezione — il solo aspetto scientificamente « essen- Ziale » in essi presente: quando abbiamo dimostrata valida sen- za eccezione, con i mezzi di una induzione storica complessiva, la «legalità » di una connessione causale, oppure quando l’ab- biamo recata a un’evidenza intuitiva immediata per l’esperienza interna, allora ogni formula così ritrovata subordina a sé  qualsiasi numero, per quanto grande si possa pensarlo, di casi  omogenei. Ciò che della realtà individuale rimane al di fuori di  questa determinazione dell’aspetto « conforme a leggi» o vale  come un residuo ancora privo di elaborazione scientifica, che  dev'essere sottoposto ad analisi attraverso il completamento progressivo del sistema «di leggi», oppure rimane da parte come  qualcosa di « accidentale » e proprio perciò di scientificamente inessenziale, in quanto esso non è « comprensibile legalmente», e quindi non appartiene neppure al « tipo » del processo e  può essere soltanto oggetto di «oziosa curiosità ». Sempre ricompare di conseguenza — anche presso i rappresentanti della  scuola storica — la convinzione che l’ideale a cui ogni conoscenza, e quindi pure la conoscenza della cultura, tende e può  tendere, anche se in un lontano futuro, sia un sistema di  proposizioni teoriche, da cui possa venir « dedotta» la realtà.  Un rappresentante eminente della scienza naturale ha ritenuto,  com’è noto, di poter indicare come fine ideale (di fatto non  attuabile) di una siffatta elaborazione della realtà culturale una  conoscenza « astronomica» dei processi della vita. Ci sia consentito qui di prendere in esame più da vicino tale tesi, per  quanto queste cose siano già state discusse. In primo luogo  risulta ovvio che quella conoscenza « astronomica », a cui si è  pensato, non è una conoscenza di leggi, ma assume piuttosto le  «leggi» di cui si serve come presupposti del suo lavoro da  altre discipline, quale la meccanica. Essa stessa si interessa però di un’altra questione, e cioè di stabilire il risultato individuale che è prodotto dall’azione di quelle leggi su una costellazione individuale, poiché queste costellazioni individuali hanno  per noi significato. Ogni costellazione individuale, che essa ci  « spiega» o predice, può certo venir spiegata causalmente solo  come conseguenza di un’altra costellazione del pari individuale  che l’abbia preceduta; e per quanto si possa risalire indietro  nella nebbia grigia del più remoto passato, la realtà per la  quale Je leggi valgono rimane sempre individuale, e quindi  non deducibile da leggi. Uno «stato originario » del cosmo,  che non rechi in sé un carattere individuale, o che lo rechi in  misura minore della realtà cosmica presente, sarebbe naturalmente un'idea priva di senso. E tuttavia un resto di simili  rappresentazioni non viene fuori nel nostro campo in quelle  assunzioni, ora intese giusnaturalisticamente ora invece verificate in base all'osservazione dei « popoli primitivi», di «stati  originari » economico-sociali che sono privi di « accidentalità »  storiche — come nel caso del « comunismo agrario primitivo »,  della « promiscuità » sessuale ecc., da cui lo sviluppo storico  individuale scaturisce poi attraverso una specie di caduta nel  concreto? Punto di partenza dell'interesse della scienza sociale è senza  dubbio la configurazione reale, e quindi individuale, della vita  culturale che ci circonda, considerata nella sua connessione che  è sì universale, ma non per questo meno individualmente atteggiata, e nel suo procedere da altri stati sociali di cultura,  a loro volta evidentemente atteggiati in forma individuale. Senza dubbio la situazione che abbiamo illustrato a proposito dell’astronomia come un caso-limite (che è regolarmente considerato anche dai logici allo stesso scopo), si presenta qui in una  misura assai più ragguardevole. Mentre per l’astronomia i corpi  cosmici hanno interesse soltanto nelle loro relazioni quantitative, accessibili a un’esatta misurazione, nella scienza sociale ciò  che ci interessa è invece la configurazione qualitativa dei processi. A ciò si aggiunga che nelle scienze sociali siamo di fronte a  una cooperazione di processi spirituali, e che « intendere » questi processi rivivendoli costituisce naturalmente un compito di  tipo specificamente diverso da quello che le formule della conoscenza esatta della natura in genere possono o vogliono risolvere. E tuttavia queste differenze non sono in sé così fondamentali come può sembrare a un primo sguardo. Senza la considerazione delle qualità non procedono — prescindendo dalla meccanica pura — neppure le scienze esatte della natura; inoltre nel  nostro campo specifico incontriamo l'opinione — certo distorta  — che il fenomeno della circolazione monetaria, fondamentale  almeno per la nostra cultura, possa venir espresso quantitativamente e proprio per ciò sia comprensibile «legalmente»; e  infine dipende da un’accezione più stretta o più larga del concetto di «legge» se si comprendono nel suo ambito anche  regolarità che, in quanto non esprimibili quantitativamente,  non sono neppur accessibili a nessuna considerazione di carattere numerico. Per ciò che riguarda in particolare la cooperazione di motivi « spirituali », essa non esclude in nessun caso la  determinazione di regole dell'agire razionale; e soprattutto  non è ancora scomparsa oggi la convinzione che sia compito  della psicologia quello di adempiere, nei confronti delle singole  « scienze dello spirito », a una funzione analoga a quella della  matematica, analizzando i fenomeni più complicati della vita sociale nelle loro condizioni e nei loro effetti psichici, riportandoli  a fattori psichici il più possibile semplici, classificando quindi questi ultimi nelle loro varie specie e infine studiandoli nelle loro  connessioni funzionali. In tale maniera si darebbe vita, se non a  una « meccanica », almeno a una specie di « chimica » della vita  sociale, considerata nei suoi fondamenti psichici. Se indagini di  questo genere possono mai essere valide e — il che è cosa diversa  — fornire risultati particolari utilizzabili per le scienze della cultura, non possiamo qui deciderlo. Ciò non avrebbe però alcuna  importanza per la questione di cui ci occupiamo, cioè se il fine  della conoscenza economico-sociale nel nostro senso, costituito  dalla conoscenza della realtà nel suo significato culturale e  nella sua connessione causale, possa venir raggiunto mediante  l’investigazione di ciò che ricorre in conformità a leggi. Posto  il caso che si pervenga un giorno, sia per mezzo della psicologia sia per altre vie, ad analizzare in base ad alcuni semplici  « fattori » ultimi tutte le connessioni causali dei processi della  convivenza umana finora osservate, e inoltre anche quelle concepibili in qualsiasi tempo futuro, e che si possa quindi abbracciarle in maniera esauriente in un'immensa casistica di concetti  e di regole che valgono come leggi rigorose — quale rilievo  avrebbe il risultato di tutto questo per la conoscenza del mondo culturale storicamente dato, o anche soltanto di qualche  suo particolare fenomeno, come per esempio del capitalismo  nel suo divenire e nel suo significato culturale? Esso varrebbe  come mezzo conoscitivo né più né meno di un lessico delle  combinazioni chimico-organiche per la conoscenza bio-genetica  del mondo animale e vegetale. Nell’uno come nell’altro caso si  sarebbe compiuto un lavoro preliminare sicuramente importan- te e utile. Nell’uno come nell’altrocaso la realtà della vita non si lascerebbe però dedurre da quelle «leggi» e da quei « fatto- ri»; e ciò non già perché nei fenomeni della vita debbano risiedere altre superiori e misteriose « forze » (« potenze », «en telechie » o come altrimenti le si è chiamate) — questa è una questione del tutto a sé — ma semplicemente perché per la conoscenza della realtà ha per noi importanza la costellazione in cui si trovano quei « fattori » (ipotetici!), raggruppati in un fenomeno culturale che sia storicamente per noi significativo, e perché, se vogliamo « spiegare causalmente » questo raggruppamento individuale, noi dovremmo sempre rifarci ad altri raggruppamenti, del pari individuali, in base ai quali « spiegarli », naturalmente attraverso l’impiego di quei concetti (ipoteticil) di «legge». Determinare quelle «leggi» e quei « fattori »  (ipotetici) sarebbe per noi in ogni caso solo il primo dei diversi  lavori che dovrebbero condurre alla conoscenza a cui aspiriamo. L’analisi e Ja coordinazione del raggruppamento individuale storicamente dato di quei « fattori » e della loro cooperazione concreta, condizionata in tale maniera, che risulta sigrificativa nel suo modo specifico, e soprattutto la chiarificazione del  fondamento e del tipo di questa significatività — questo sarebbe il suo compito successivo, da risolvere certo con il ricorso a  quel lavoro preliminare, ma tuttavia pienamente nuovo e a4t0nomo nei suoi confronti. Seguire nel loro divenire le specifiche  caratteristiche individuali, significative per il presenze, di tali  raggruppamenti, risalendo il più possibile nel passato, e spiegarle storicamente in base alle costellazioni precedenti, che sono a  loro volta individuali, costituirebbero un terzo compito che si  può concepire — e la predizione di possibili costellazioni nel  futuro, infine, sarebbe il quarto.  Per tutti questi scopi sarebbe chiaramente di grande importanza come mezzo conoscitivo — ma anche soltanto in quanto  tale — e anzi sarebbe senz'altro indispensabile in vista di essi,  la presenza di concetti chiari e la conoscenza di quelle « leggi » (ipotetiche). Ma anche in questa funzione si mostra subito,  in #2 punto decisivo, il limite della loro portata, e mediante la  loro determinazione perveniamo a cogliere il carattere specifico  decisivo della considerazione propria delle scienze della cultura.  Noi abbiamo designato come «scienze della cultura» quelle  discipline che aspirano a conoscere i fenomeni della vita nel  loro significato culturale. Il significato della configurazione di  un fenomeno culturale, nonché il suo fondamento, non può  però essere derivato, motivato e reso intelligibile in base a  nessun sistema di concetti di leggi, per quanto completo esso  sia, poiché esso presuppone la relazione dei fenomeni culturali  con idee di valore. Il concetto di cultura è un concetto di  valore. La realtà empirica è per noi «cultura» in quanto la  poniamo in relazione con idee di valore; essa abbraccia quegli  elementi della realtà che diventano per noi significativi in base  a quella relazione, e soltanto questi elementi. Una minima  parte della realtà individuale di volta in volta considerata è investita dal nostro interesse, condizionato da quelle idee di  valore; essa soltanto ha significato per noi, e lo ha in quanto  rivela relazioni che sono per noi importanti a causa della loro  connessione con idee di valore. Esclusivamente in questo caso,  infatti, essa è per noi degna di venir conosciuta nel suo carattere individuale. Ciò che per noi riveste significato non può  naturalmente essere determinato attraverso nessuna indagine  del dato empirico, che sia condotta «senza presupposti»; al  contrario, la sua determinazione è il presupposto per stabilire  che qualcosa diviene oggetto dell'indagine. Ciò che è significativo non coincide naturalmente, in quanto tale, con l'ambito di  nessuna legge, e tanto meno vi coincide quanto più universalmente valida è quella legge. Infatti il significato specifico che  ha per noi un elemento della realtà 207 si trova naturalmente  in quelle tra le sue relazioni che esso ha in comune con molti  altri. La relazione della realtà con idee di valore, che dànno ad  essa significato, nonché l’isolamento e l’ordinamento degli elementi del reale così individuati sotto il profilo del loro significa  to culturale, rappresenta un punto di vista del tutto eterogeneo  e disparato rispetto all’analisi della realtà in base a leggi, e al  suo ordinamento in concetti generali. I due tipi di ordinamento  concettuale del reale non hanno tra di loro relazioni logiche  necessarie di nessuna specie. Essi possono eventualmente coincidere in un caso singolo, ma sarebbe molto pericoloso che questa congiunzione accidentale ingannasse sulla loro eterogeneità  di principio. Il significato culturale di un fenomeno, per esempio quello dello scambio in un'economia monetaria, può consistere nel fatto che esso si presenta come fenomeno di massa, in  quanto costituisce una componente fondamentale della vita culturale odierna. E tuttavia è proprio il fatto storico che esso  assolve questa funzione ciò che dev'essere reso comprensibile  nel suo significato culturale, e spiegato causalmente nella sua  origine storica. L'indagine dell’essenza dello scambio în generale e della tecnica della circolazione di mercato è un lavoro  preliminare — invero molto importante e indispensabile! Non  soltanto non si è risposto così alla questione concernente il  modo in cui storicamente lo scambio è pervenuto al suo fondamentale significato odierno; ma soprattutto — ciò che in ultima analis i ci interessa — il significato culturale dell'economia monetaria, in virtù del quale soltanto ci interessiamo di quella  descrizione della tecnica della circolazione monetaria, e in virtù del quale soltanto c’è oggi una scienza che studia tale tecnica, risulta inderivabile da qualsiasi di quelle «leggi ». Le carat  teristiche di conformità a un genere dello scambio, del negozio  ecc. interessano i giuristi — mentre ciò che ci concerne è il  compito di analizzare proprio quel significato culturale del  fatto storico che oggi lo scambio è fenomeno di massa. Allorché esso deve venir spiegato, allorché vogliamo intendere che  cosa distingue la nostra cultura economico-sociale da quella,  per esempio, dell’antichità, in cui lo scambio mostrava le medesime qualità generiche di oggi, e quando si deve spiegare in  che cosa consista il significato dell’« economia monetaria », intervengono nell’indagine princìpi logici di origine del tutto eterogenea. Noi impieghiamo infatti quei concetti, che ci offre la  ricerca degli elementi generici dei fenomeni economici di massa, come mezzo di rappresentazione, e ciò nella misura in cui  vi sono contenuti elementi della nostra cultura forniti di significato; ma il fire del nostro lavoro non è conseguito mediante  una rappresentazione, per quanto precisa, di quei concetti e di  quelle leggi, poiché al contrario la questione di che cosa dev’essere fatto oggetto di un’elaborazione di concetti di genere non  è «senza presupposti », bensì è stata decisa proprio in riferimento al significato che posseggono per la cultura determinati  elementi di quella molteplicità infinita, che noi diciamo « circolazione ». Noi aspiriamo alla conoscenza di un fenomeno storico, cioè di un fenomeno fornito di significato nel suo carattere  specifico. E la cosa decisiva è questa: soltanto in base al presupposto che esclusivamente una parte fizita dell’infinito numero  dei fenomeni risulta fornita di significato, acquista un senso  logico il principio di una conoscenza dei fenomeni individuali  in genere. Noi ci troveremmo perplessi, anche se fossimo prov- visti della più completa conoscenza possibile di tutte le « leg- gi» dell’accadere, di fronte a questa questione: come è possibi- le in genere la spiegazione causale di un fatto individuale — dal momento che già una descrizione anche della più piccola sezione di realtà non può mai essere concepita come esaustiva? Il numero e il tipo delle cause, che hanno determinato un qualsiasi avvenimento individuale, è infatti sempre infinito, e non c’è una caratteristica inerente alle cose stesse la quale con- senta di isolarne una parte, che venga essa soltanto presa in  considerazione. Un caos di « giudizi esistenziali » sopra infinite  osservazioni particolari sarebbe il solo esito a cui potrebbe recare il tentativo di una conoscenza della realtà che fosse seriamente « priva di presupposti». E anche questo risultato sarebbe  possibile solo in apparenza, poiché la realtà di ogni osservazione singola mostra, a uno sguardo più prossimo, infiniti elementi particolari, che non possono mai venire espressi in maniera esaustiva in giudizi di osservazione. In questo caos reca  ordine soltanto la circostanza che in ogni caso ha per noi  interesse e significato solo una parte della realtà individuale,  in quanto essa sta in relazione con idee di valori culturali con  le quali ci accostiamo alla realtà. Soltanto determinati aspetti  dei fenomeni particolari, sempre infinitamente molteplici, cioè  quelli ai quali attribuiamo un significato culturale universale,  sono quindi degni di essere conosciuti, ed essi solamente sono  oggetto della spiegazione causale. Anche questa spiegazione  causale pone però a sua volta in luce lo stesso fatto, che  cioè un regresso causale esaustivo da qualsiasi fenomeno concreto nella sua piera realtà non soltanto risulta praticamente impossibile, ma è semplicemente un’assurdità. Noi mettiamo in  luce soltanto quelle cause a cui devono essere imputati gli  elementi di un accadere che risultano « essezzziali » nel caso particolare: la questione causale, quando si tratta dell’individualità di un fenomeno, non è una questione di leggi bensì una  questione di connessioni causali concrete; non è una questione relativa alla formula alla quale si deve subordinare come esempio  specifico tale fenomeno, ma è una questione relativa alla costellazione individuale a cui esso deve venir imputato come suo  risultato — è cioè una questione di imputazione. Ogni qual  volta sia in questione la spiegazione causale di un « fenomeno  culturale » — cioè di un « individuo storico », come noi lo intendiamo in base a un’espressione già usata talvolta nella metodologia della nostra disciplina, e ora divenuta consueta nella logica in  una più precisa formulazione — la conoscenza delle leggi della  causalità può essere non già scopo, ma soltanto mezzo dell’indagine. Essa ci rende più agevole l'imputazione causale degli  elementi dei fenomeni, culturalmente significativi nella loro individualità, alle loro cause concrete. In quanto, e solo in quanto essa serve a questo fine, ha valore per la conoscenza di  connessioni individuali. Quanto più le leggi sono « generali »,  cioè astratte, tanto meno esse servono per i bisogni dell’imputazione causale di fenomeni individuali, e quindi indirettamente  r la comprensione del significato dei processi culturali.  Che cosa deriva da tutto ciò?  Naturalmente non ne deriva che la conoscenza del genera  le, la formazione di concetti astratti di genere, la conoscenza di regolarità e il tentativo di formulazione di connessioni  «legali » non abbiano nel campo delle scienze della cultura  alcuna giustificazione scientifica. Al contrario, se la conoscenza  causale dello storico è un’imputazione di effetti concreti a cause concrete, l'imputazione valida di qualsiasi effetto individuale non è possibile in genere senza l’impiego della conoscenza  «nomologica» — cioè della conoscenza delle regolarità delle  connessioni causali. Se si deve attribuire in concreto nella  realtà a un singolo elemento individuale di una connessione un  significato causale nei riguardi dell’effetto che intendiamo spiegare, questo può essere stabilito, in caso di dubbio, soltanto  attraverso la valutazione degli effetti che di solito ci aspettiamo  in generale da esso e dagli altri elementi del medesimo complesso, che consideriamo ai fini della spiegazione — vale a dire  attraverso la determinazione di quelli che sono gli effetti « adeguati» degli elementi causali in questione. In quale misura lo  storico (nel senso più ampio del termine) possa compiere con  sicurezza questa imputazione con la sua fantasia nutrita di  esperienza personale della vita e metodicamente disciplinata, e  in quale misura egli si rifaccia invece all’aiuto di discipline  speciali che gliela rendono possibile, è cosa che dipende dal  caso singolo. Ma ovunque, e così pure nel campo di complicati  processi economici, la sicurezza dell’imputazione è tanto maggiore quanto più assodata e comprensiva è la nostra conoscenza  generale. Che si tratti sempre, anche per tutte le cosiddette  «leggi economiche » senza eccezione, non già di connessioni  «legali » nel senso ristretto valido nel caso delle scienze esatte  della natura, ma di connessioni causali adeguate espresse in  forma di regole, cioè di un ‘applicazione della categoria di « ( possibilità oggettiva» che qui non può venir analizzata più da vicino, non fa la minima differenza per tale proposizione. Solo  che la determinazione di tali regolarità non è già fine, bensì  mezzo di conoscenza; ed è in ogni caso una questione di  opportunità se si debba o meno esprimere in una formula, sotto  forma di «legge», una regolarità di connessione causale nota  in base all’esperienza quotidiana. Per la scienza esatta della  natura le « leggi » sono tanto più importanti e fornite di valore  quanto più esse sono universalmente valide; per la conoscenza  dei fenomeni storici nel loro fondamento concreto le leggi pià  generali, in quanto sono le più vuote di contenuto, sono invece  di regola anche le più prive di valore. Infatti quanto più estesa  è la validità di un concetto di specie, cioè il suo ambito, tanto  più esso ci distoglie dalla realtà concreta; per racchiudere l’elemento comune di quanti più fenomeni, esso deve essere infatti  il più possibile astratto, e perciò povero di contenuto. La conoscenza del generale non è mai per noi, nelle scienze della  cultura, fornita di valore di per sé.   Da quanto si è detto finora risulta dunque che è priva di  senso una trattazione « oggettiva » dei processi culturali, per la  quale debba valere come scopo ideale del lavoro scientifico la  riduzione di ciò che è empirico a «leggi ». Essa non è priva di  senso, come sovente si è ritenuto, perché i processi culturali o  anche i processi spirituali si comportino « oggettivamente » in  maniera meno legale, bensì per i motivi seguenti: 1) perché la  conoscenza di leggi sociali non è conoscenza della realtà sociale, ma è soltanto uno dei diversi strumenti di cui il nostro  pensiero si avvale a tale scopo; 2) perché non si può concepire  una conoscenza di processi culturali se non sul fondamento del  significato che ha per noi la realtà della vita, sempre individual- mente atteggiata, in determinate relazioni particolari. In quale senso e in quali relazioni ciò avvenga non ci è svelato da nessuna legge, perché è deciso dalle idee di valore in base alle quali consideriamo nel caso singolo la «cultura». La «cultu ra» è una sezione finita dell’infinità priva di senso dell’accade- re del mondo, alla quale è attribuito senso e significato dal punto di vista dell’uomo. Essa è tale anche per gli uomini che si contrappongono a una cultura concreta come a un mortale nemico, e che aspirano a un «ritorno alla natura ». Infatti essi possono pervenire a questa presa di posizione solo in quanto riferiscono la cultura concreta alle loro idee di valore, e la  trovano « troppo leggera ». È questo fatto puramente logico-formale che si tiene presente allorché qui si parla della connessione logicamente necessaria di tutti gli individui storici con «idee di valore ». Presupposto trascendentale di ogni scienza della cultura non è già che noi riteniamo forzita di valore una  determinata, o anche in genere una qualsiasi « cultura », bensì è  il fatto che noi siamo esseri culturali, dotati della capacità e  della volontà di assumere consapevolmente posizione nei confronti del mondo e di attribuirgli un serso. Qualunque possa  essere questo senso, esso ci condurrà a valutare nella vita determinati fenomeni della coesistenza umana in base ad esso, e ad  assumere nei loro confronti una posizione (positiva o negativa)  in quanto fornita di significato. Quale che sia il contenuto di  tale presa di posizione, questi fenomeni hanno per noi un sign:  ficato culturale, e su questo significato soltanto poggia il loro  interesse scientifico. Quando qui si parla, in riferimento all’uso  linguistico dei logici moderni, del condizionamento della conoscenza della cultura da parte di idee di valore, si spera di non  essere esposti a fraintendimenti di specie così rozza come l’opinione che si debba attribuire un significato culturale soltanto ai  fenomeni forniti di valore. La prostituzione è un fenomeno  culturale al pari della religione o del denaro; e tutti e tre lo  sono in quanto e solamente in quanto, e nella misura in cui, la  loro esistenza e la forma che storicamente assumono tocchino,  direttamente o indirettamente, i nostri interessi culturali, e in  quanto essi suscitano il nostro impulso conoscitivo sotto punti  di vista orientati in base a idee di valore, le quali rendono per  noi significativo il settore di realtà che è pensato in quei  concetti.  Ogni conoscenza della realtà culturale è sempre, come risulta da tutto questo, una conoscenza da particolari punti di  vista. Quando noi richiediamo allo storico e allo studioso di  scienze sociali, come presupposto elementare, che egli sappia  distinguere ciò che è importante da ciò che non lo è, e che egli  disponga dei « punti di vista » indispensabili per questa distinzione, ciò vuol semplicemente dire che egli deve imparare a  riferire i processi della realtà — consapevolmente o inconsapevolmente — a «valori culturali » universali, e quindi a porre in luce le connessioni che sono per noi significative. Sebbene si  ripresenti sempre l’opinione che sia possibile « assumere dalla  materia stessa» quei punti di vista, ciò deriva dall’illusione  ingenua dello specialista il quale non riflette che egli ha dapprima isolato, in virtù delle idee di valore con cui si è inconsapevolmente accostato alla materia, un ristretto elemento da un’assoluta infinità come quello che solo lo interessa per la sua  trattazione. In questa scelta di singole « parti» dell’accadere,  che ha luogo sempre e ovunque in forma sia consapevole che  inconsapevole, viene in luce anche quell’elemento del lavoro  delle scienze della cultura che sta a base di un’affermazione  così sovente udita — che l’aspetto « personale» di un’opera  scientifica costituisca ciò che propriamente vale in essa, e che  in ogni opera, affinché sia degna di esistere, debba esprimersi  «una personalità ». Certo senza le idee di valore del ricercatore non vi sarebbe nessun principio per la scelta della materia, € nessuna conoscenza fornita di senso del reale nella sua  individualità; e come senza la fede del ricercatore nel significa  to di qualche contenuto culturale risulta senz'altro privo di  senso ogni lavoro diretto alla conoscenza della realtà individua  le, così l'orientamento della sua fede personale, cioè la rifrazione dei valori nello specchio della sua anima, indicherà la direzione anche al suo lavoro. E i valori a cui il genio scientifico  riferisce gli oggetti della sua ricerca potranno determinare la  «concezione » di un'intera epoca, potranno cioè essere decisivi  non solo per stabilire ciò che nei fenomeni è « fornito di valore», ma anche per stabilire ciò che è significativo o privo di  significato, ciò che è «importante » e ciò che è « senza importanza ».  La conoscenza delle scienze della cultura, nel senso che  abbiamo definito, è vincolata a presupposti «soggettivi» in  quanto essa si occupa soltanto di quegli elementi della realtà  che hanno una relazione — per quanto indiretta — con i  processi ai quali attribuiamo un significato culturale. Essa è  tuttavia naturalmente una pura conoscenza causale nel medesimo senso in cui può esserlo la conoscenza di processi naturali  individuali forniti di significato, i quali rivestano un carattere  qualitativo. Accanto alle varie confusioni prodotte dall’invasione del pensiero giuridico-formale nella sfera delle scienze della cultura, è stato di recente compiuto il tentativo di « confutare »  in linea di principio la «concezione materialistica della storia» mediante una serie di spiritosi sofismi, sostenendo che, in  quanto tutta la vita economica deve svolgersi in forme regolate  giuridicamente o convenzionalmente, qualsiasi « sviluppo » economico deve assumere la forma di tendenze alla creazione di  nuove forme giuridiche, e che esso è quindi comprensibile soltanto in base a massime etiche, e risulta su questa base diverso  nella propria essenza da ogni sviluppo « naturale ». La conoscenza dello sviluppo economico avrebbe pertanto un carattere  «teleologico »Î. Senza voler qui discutere il significato che  per la scienza sociale può avere l'equivoco concetto di « sviluppo »; 0 il concetto logicamente non meno equivoco di « teleologico», si deve tuttavia constatare che una conoscenza siffatta  non potrebbe mai essere « teleologica » ze/ senso presupposto da  questa prospettiva. Nonostante la più completa identità formale  delle norme giuridiche in vigore, il significato culturale dei  rapporti giuridici a cui le norme si riferiscono, e perciò anche  delle norme medesime, può mutare in maniera radicale. Certo,  se ci si vuole inoltrare per un momento almanaccando nelle  fantasie di un tempo futuro, si può per esempio concepire  teoricamente compiuta una «socializzazione dei mezzi di produzione » senza che sia sorta alcuna « tendenza » mirante consapevolmente a questa conseguenza e senza che venga eliminato  o aggiunto nessun paragrafo della nostra legislazione: la frequenza statistica di particolari relazioni giuridicamente regolate sarebbe cambiata certo alla base, e in molti casi ridotta a  zero, una gran parte delle norme giuridiche diventerebbe praticamente priva di significato, e il loro intero significato culturale sarebbe mutato in maniera da risultare irriconoscibile. La    3. Weber si riferisce qui al volume di Rudolf Stammler, Wirtschaft und Recht nach der materialistichen Geschichtsauffassung, Leipzig, 1896. Alla critica della seconda edizione di quest'opera (1906) sarà dedicato il saggio di Weber R. Stammlers « Uberwindung » der materialistischen  Geschichtsauffassung, « Archiv. fùr Sozial- wissenschaft und Sozialpolitik », XXIV, 1907, pp. 94-151 (ora in Gesammelte Aufsatze  zur Wissenschaftslehre, pp. 291-359). — Rudolf Stammler, filosofo  del diritto tedesco di orientamento neo-kantiano, scrisse inoltre Die Lehre voni  richtigen Recht (1902), la Theorie der Rechtsivissenschaft (1911), Die Gerechtigheit  in der Geschichte (1915), un Lelrbuch der Rechtsphilosophie (1922) e varie altre  opere.  teoria « materialistica » della storia poteva quindi con diritto  mettere da parte le discussioni de lege ferenda, poiché il suo  punto di vista centrale consisteva appunto nell’inevitabile mutamento di significato delle istituzioni giuridiche. Colui al quale  il semplice lavoro di comprensione causale della realtà storica  appare subalterno, può sì evitarlo — ma è impossibile sostituirlo con qualsiasi « teleologia ». « Scopo » è, per la rostra trattazione, la rappresentazione di un effetto, che diviene causa di  un'azione; e noi consideriamo anche questa al pari di ogni  causa che contribuisca o possa contribuire a un effetto fornito  di significato. Il suo significato specifico poggia soltanto sul fatto  che noi possiamo e vogliamo anche irztendere, oltre che constatare, l'agire umano.  Quelle idee di valore sono, fuor di ogni questione, « soggettive». Tra l’interesse «storico» per una cronaca di famiglia e  quello per lo sviluppo dei più grandi fenomeni di cultura, che  furono e sono comuni a una nazione o all'umanità per lunghe  epoche, c'è un'infinita gradazione di «significati », i cui momenti avranno per ognuno di noi un ordine differente. E così  pure esse mutano storicamente con il carattere della cultura e  delle idee che guidano gli uomini. Da ciò 207 consegue ovviamente che la ricerca delle scienze della cultura possa dar luogo  soltanto a risultati i quali siano «soggettivi» nel senso che  valgono per l’uno e non per l’altro. Ciò che cambia è piuttosto  il grado in cui essi interessano l’uno e non l’altro. In altri  termini, ciò che diventa oggetto dell’indagine, e in quale misura questa si estenda nell’infinità delle connessioni causali, è  determinato soltanto dalle idee di valore che dominano il ricercatore e la sua epoca; nel «come? », vale a dire nel metodo  della ricerca — come ancora vedremo — il « punto di vista» a  cui si ispira è determinante per l’elaborazione degli strumenti  concettuali che egli impiega — mentre nel modo della loro  applicazione il ricercatore è di certo, qui come ovunque, vincolato alle norme del nostro pensiero. Poiché verità scientifica è  soltanto ciò che esige di valere per tutti coloro che vogliono la  verità.   Da ciò risulta in ogni caso l’assurdità dell’idea — la quale  talvolta prevale anche presso gli storici della nostra disciplina  — che possa essere fine, per quanto remoto, delle scienze della cultura quello di costruire un sistema chiuso di concetti, nel  cui ambito la realtà possa venir compresa in un'articolazione  in qualsiasi senso definitiva, e da cui essa venga quindi di  nuovo dedotta. La corrente dell’accadere sconfinato procede senza fine verso l’eternità. E sempre nuovi e diversamente atteggiati si presentano i problemi culturali che muovono gli uomini, cosicché rimane fluido anche l’ambito di ciò che acquista  per noi senso e significato da quella infinita, e sempre eguale,  corrente dell’accadere, configurandosi come «individuo storico ». Mutano le connessioni concettuali in base a cui l’accadere  è considerato e colto scientificamente. I punti di partenza delle  scienze della cultura si protendono quindi mutevoli nel più  lontano futuro, finché qualche definitivo irrigidimento della  vita spirituale non farà desistere l’umanità dal porre nuove  questioni alla vita sempre inesauribile. Un sistema delle scienze della cultura, anche soltanto in forma di una fissazione  definitiva, oggettivamente valida, sistematizzante delle questioni e dei campi di cui esse dovrebbero trattare, sarebbe di per sé  un’assurdità: da un tentativo del genere potrebbe derivare sempre solo una collezione di punti di vista, specificamente diversi  e tra loro in vario modo eterogenei e disparati, in base ai quali  la realtà è risultata o risulta per noi « cultura », cioè fornita di  significato nella sua specificità.  Dopo queste lunghe discussioni, possiamo finalmente affrontare la questione che ci interessa metodicamente in vista di  una trattazione dell’« oggettività» della conoscenza della cultura: quale è la funzione e la struttura logica dei concetti con  cui la nostra scienza, al pari di ogni altra, lavora, e cioè — per  formulare la domanda con particolare riguardo al problema  decisivo — qual è il significato della teoria e dell’elaborazione  concettuale teorica per la conoscenza della realtà culturale?   L'economia politica è stata almeno originariamente — lo  abbiamo già detto — una «tecnica», per ciò che concerne il  centro di gravità delle sue discussioni: essa considerava i fenomeni della realtà da un punto di vista valutativo che, almeno  in apparenza, era univoco, stabile e pratico, vale a dire dal  punto di vista dell’accrescimento della « ricchezza » della popolazione. Ma d’altra parte, fin dall’inizio, essa non è stata soltanto una «tecnica », in quanto era inserita nella possente unità  dell’intuizione giusnaturalistica e razionalistica del mondo, formulata dal secolo xvi. Il carattere specifico di quell’intuizione  del mondo, con la sua fede ottimistica nella possibilità di una  razionalizzazione teoretica e pratica del reale, operava essenzialmente in maniera da ostacolare la scoperta del carattere problematico di tale punto di vista, assunto come di per sé evidente.  Sorta in stretta connessione con il moderno sviluppo della scienza naturale, la considerazione razionale della realtà sociale è  rimasta ad essa affine in tutto il suo modo di analisi. Nelle  discipline naturali il punto di vista pratico-valutativo, fondato  sulla determinazione di ciò che è immediatamente utile in senso tecnico, era strettamente legata alla speranza — ereditata  dall’antichità e in seguito ancora sviluppata — di pervenire  sulla via dell’astrazione generalizzante e dell’analisi del dato  empirico nelle sue connessioni legali a una conoscenza di tipo  monistico dell’intera realtà che fosse puramente « oggettiva »,  cioè svincolata da tutti i valori, e al tempo stesso razionale,  cioè liberata da ogni « accidentalità » individuale, e assumesse  la fisionomia di un sistema concettuale di validità metafisica e  di forma matematica. Le discipline naturali legate a punti di  vista valutativi, come la medicina clinica e ancor più quella che  abitualmente è detta « tecnologia », diventavano pure « dottri- ne» pratiche. I valori a cui esse dovevano servire, vale a dire la salute del paziente, il perfezionamento tecnico di un concre- to processo produttivo ecc., erano di volta in volta stabiliti per ognuna di esse. I mezzi impiegati erano, e potevano essere soltanto forniti dall'impiego dei concetti legali scoperti dalle discipline teoriche. Ogni progresso di principio nella formazione di tali concetti era, o poteva essere, anche un progresso della corrispondente disciplina pratica. Dato un certo scopo, la pro- gressiva riduzione delle particolari questioni pratiche (di un caso di malattia, di un problema tecnico) a leggi generalmente  valide di cui esse costituiscono un caso specifico, e quindi l’estensione del sapere teorico, era immediatamente connessa, ed  anzi coincidente, con l’allargarsi delle possibilità pratico-tecniche. Allorché la biologia moderna ha sottoposto anche quegli  elementi della realtà che ci interessano storicamente, cioè nel  modo in cui essi sono divenuti così-e-non-altrimenti, al concetto di un principio evolutivo universalmente valido, che almeno  apparentemente — ma non certo in verità — ha consentito di  subordinare tutto ciò che è essenziale in tali oggetti a uno  schema di leggi valide in generale, sembrò che si avvicinasse in  qualsiasi scienza il momento della fine per tutti i punti di vista  valutativi. Poiché il cosiddetto accadere storico era una parte  dell’intera realtà, e il principio causale, che costituisce il presupposto di ogni lavoro scientifico, sembrava esigere la riduzione  di ogni accadere a « leggi» generalmente valide, e poiché infine era evidente l’immenso successo delle scienze della natura  le quali avevano proceduto in base a questo principio, sembrò  allora inconcepibile un senso della ricerca scientifica diverso da  quello della scoperta delle leggi dell’accadere. Soltanto ciò che  è « conforme alle leggi » poteva essere scientificamente essenziale nei fenomeni, e i processi «individuali » venivano presi in  considerazione solamente in quanto «tipi », cioè in quanto rappresentanti illustrativi delle leggi; un interesse diretto ad essi  sembrava costituire un interesse « non scientifico ».  È impossibile seguire qui le forti conseguenze di questa  fiduciosa disposizione del monismo naturalistico sulle discipline economiche. Allorché la critica socialistica e il lavoro degli  storici cominciavano a tradurre in problemi gli originari punti  di vista valutativi, il potente sviluppo della ricerca biologica da  un lato e l'influenza del panlogismo hegeliano dall’altro impedirono all’economia politica di determinare in maniera distinta, nella sua piena portata, il rapporto tra concetto e realtà. Da ciò è risultato, per quanto ci interessa, che nonostante il  poderoso argine opposto alla penetrazione dei dogmi naturalistici dalla filosofia idealistica tedesca successiva a Fichte, dalle  indagini della scuola giuridica tedesca e dal lavoro della scuola  storica di economia politica tedesca, e in parte proprio în conseguenza di questo lavoro, i punti di vista del naturalismo rimangono ancora da superare in alcuni punti decisivi. Tra questi c’è  in particolare il rapporto, che rimane ancor sempre problematico, tra lavoro «teorico» e lavoro «storico » nell’ambito della  nostra disciplina.  Il metodo teorico « astratto » si contrappone ancora og  con un’asprezza priva di mediazione e apparentemente insormontabile, alla ricerca storico-empirica. Esso riconosce del tutto correttamente l'impossibilità metodica di sostituire la conoscenza storica della realtà con la formulazione di «leggi» o di  pervenire viceversa a « leggi» in senso stretto attraverso il mero accostamento di osservazioni storiche. Per ottenere tali leggi  — dal momento che per esso è certo che la scienza debba  aspirare a questo fine supremo — si procede dal fatto che noi  abbiamo un’esperienza immediata delle connessioni dell’agire  umano proprio nella Joro realtà, e quindi — così esso suppone  — possiamo rendere il suo corso immediatamente intelligibile  con evidenza assiomatica, e penetrarlo nelle sue «leggi». La  sola forma esatta di conoscenza, cioè la formulazione di leggi  evidenti che si possano immediatamente intuire, sarebbe al tempo stesso la sola che consente l’accesso ai processi non immediatamente osservati; e quindi, almeno per i fenomeni fondamentali della vita economica, la determinazione di un sistema di  princìpi astratti e — di conseguenza — puramente formali, in  analogia a quello delle scienze esatte della natura, sarebbe il  solo mezzo per dominare spiritualmente la molteplicità della  vita sociale. Nonostante la distinzione metodica di principio  tra conoscenza legale e conoscenza storica, che il creatore della  teoria aveva compiuto come primo e unico, alle proposizioni  della teoria astratta è stata però da lui attribuita una validità  empirica, nel senso di una deducibilità della realtà dalle « leggi». E ciò certo non nel senso di una validità empirica dei  princìpi economici astratti presi di per sé, bensì in maniera  che, quando si fossero elaborate corrispondenti teorie « esatte »  di tutti gli altri fattori che si possono considerare, tutte queste  teorie astratte prese insieme dovrebbero contenere in sé la vera  realtà delle cose — vale a dire ciò che della realtà è degno di  essere conosciuto. La teoria economica esatta determinava l’effetto di ur motivo psichico, mentre le altre teorie avrebbero il  compito di sviluppare in forma simile tutti i rimanenti motivi  in princìpi di validità ipotetica. Pertanto al lavoro teorico, cioè  alle teorie astratte della formazione del prezzo, dell’interesse,  delle rendite ecc., è stata talvolta attribuita la pretesa fantastica di servire, secondo la — pretesa — analogia dei princìpi  fisici, per dedurre da date premesse reali risultati quantitativa  mente determinati, e cioè leggi in senso rigoroso, valide per  la realtà della vita, in quanto l'economia dell’uomo sarebbe  MAX WEBER 599  univocamente « determinata », dato un certo scopo, in rapporto  ai mezzi. E non si è tenuto presente che, per poter aspirare a  questo risultato anche nei casi più semplici, si dovrebbe assumere come « data » € presupporre come nota la totalità della realtà storica attuale, insieme a tutte le sue connessioni causali, e   che, quando questa conoscenza fosse accessibile allo spirito finito, non si potrebbe attribuire nessun valore conoscitivo a una  teoria astratta. Il pregiudizio naturalistico, secondo il quale si  dovrebbe creare, con quei concetti, qualcosa di affine a ciò che  producono le scienze esatte della natura, aveva condotto appunto a un’errata comprensione del senso di queste formazioni  teoriche. Si è creduto che si trattasse dell'isolamento psicologico  di uno specifico «impulso » dell’uomo, dell'impulso al guadagno, oppure dell’osservazione isolata di una specifica massima  dell'agire umano, cioè del cosiddetto principio economico. La teoria astratta riteneva di potersi reggere su assiomi psicologici; e la  conseguenza era che gli storici invocavano una psicologia empirica, allo scopo di poter mostrare la non-validità di quegli  assiomi e derivare psicologicamente il corso dei processi economici. Noi non intendiamo criticare a fondo, in queste pagine,  la fede nell’importanza di una scienza sistematica della « psicologia sociale» — che del resto è ancor da creare — come  fondamento futuro delle scienze della cultura, e in particolare  dell'economia sociale. Proprio gli abbozzi finora compiuti, in  parte brillanti, di un’interpretazione psicologica dei fenomeni  economici mostrano in ogni caso che 707 si procede dall’analisi delle qualità psicologiche dell’uomo all’analisi delle istituzioni sociali, ma che viceversa il chiarimento dei presupposti e degli effetti psicologici delle istituzioni presuppone la precisa cono- scenza di queste ultime, nonché l’analisi scientifica delle loro connessioni. L'analisi psicologica significa allora semplicemente  un approfondimento, molto importante nel caso specifico, della  conoscenza del loro condizionamento storico-culturale e del loro significato culturale. Ciò che ci interessa nell’atteggiamento  psichico dell’uomo nelle sue relazioni sociali è appunto determinato in ogni caso specificamente, secondo il particolare significato culturale della relazione in esame. Si tratta infatti di  motivi e di influssi psichici tra loro molto eterogenei, cd estremamente compositi nel caso concreto. La ricerca psicologico-sociale costituisce un attento esame di diversi generi particolari,  e tra loro assai disparati, di elementi della cultura, considerati  in rapporto alla possibilità di interpretarli mediante la nostra  comprensione. Noi dobbiamo imparare mediante essi a intendere spiritualmente in misura crescente — partendo dalla conoscenza delle istituzioni particolari — il loro condizionamento  e il loro significato culturale, senza voler dedurre le istituzioni  da leggi psicologiche o volerle spiegare in base a fenomeni  psicologici elementari.  Anche la polemica così complessa che si è svolta intorno alla  giustificazione psicologica delle enunciazioni teoriche astratte,  intorno all'importanza dell’« impulso al guadagno » e del « principio economico » ecc., ha dato un frutto assai scarso.  Nel caso delle enunciazioni della teoria astratta, solo in apparenza ci troviamo di fronte a « deduzioni » da motivi. psicologici fondamentali; in verità si tratta piuttosto di un caso specifico di una forma di elaborazione concettuale che è propria, e in  certa misura indispensabile, delle scienze della cultura umana.  Vale qui la pena caratterizzare tale forma in maniera un po’  più approfondita, per accostarci così alla questione fondamentale del significato della teoria per la conoscenza fornita dalla  scienza sociale. E a tale fine noi lasceremo una volta per sempre  fuori discussione se le formazioni teoriche che rechiamo come  esempio, o alle quali accenniamo, corrispondano, così come  esse sono, allo scopo a cui vogliono servire, se cioè esse siano di fatto elaborate in maniera conforme allo scopo. In quale  misura l’odierna « teoria astratta » debba ancora essere sviluppata  è, alla fine, anche un problema di economia del lavoro scientifico, a cui si riferiscono altri problemi. Anche la «teoria dell'utilità marginale » sottostà alla « legge dell'utilità marginale ».  Noi abbiamo dinanzi a noi, nella teoria economica astratta,  un esempio di quelle sintesi che si designano di solito come  «idee » di fenomeni storici. Essa ci offre un quadro ideale dei  processi che avvengono in un mercato di beni, sulla base di  un'organizzazione sociale fondata sull'economia di scambio, di  una libera concorrenza e di un agire rigorosamente razionale.  Questo quadro concettuale unisce determinate relazioni e determinati processi della vita storica in un cosmo, in sé privo di  contraddizioni, di connessioni concettuali. Per il suo contenuto  questa costruzione riveste il carattere di un’ufopia, ottenuta  attraverso l’accentuazione concettuale di determinati elementi  della realtà. Il suo rapporto con i fatti empiricamente dati della  vita consiste solo in questo, che laddove vengono determinati o  supposti operanti, in qualsiasi grado, nella realtà connessioni  del tipo astrattamente rappresentato in quella costruzione, cioè  processi dipendenti dal « mercato », noi possiamo illustrare pragmaticamente e rendere intelligibile il carazzere specifico di questa connessione in un tipo ideale. Tale possibilità è indispensabile sia a scopo euristico sia a scopo espositivo. Il concetto tipicoideale serve a orientare il giudizio di imputazione nel corso  della ricerca: esso non è un’« ipotesi », ma intende orientare la  costruzione di ipotesi. Esso zon è una rappresentazione del  reale, ma intende fornire alla rappresentazione un mezzo di  espressione univoco. Esso è quindi « l’idea » di un’organizzazione moderna della società, fondata sull'economia di scambio,  che è storicamente data; esso è stato elaborato in base ai medesimi principi logici con cui si è proceduto a costruire l’idea  dell’«economia cittadina» medievale come concetto « genetico». Quando si fa così, si perviene a formare il concetto di  «economia cittadina » non già come una media dei princìpi  economici operanti di fatto nell’insieme delle città osservate,  ma appunto come un zipo ideale. Esso è ottenuto attraverso  l’accentuazione unilaterale di uno o di alcuni punti di vista, e  attraverso la connessione di una quantità di fenomeni particolari diffusi e discreti, esistenti qui in maggiore e là in minore  misura, e talvolta anche assenti — che corrispondono a quei  punti di vista unilateralmente sottolineati — in un quadro corcettuale in sé unitario. Considerato nella sua purezza concettuale, questo quadro non può mai essere rintracciato empiricamente nella realtà; esso è un’utopia, e al lavoro storico si presenta  il compito di determinare in ogni caso singolo la maggiore o  minore distanza della realtà da quel quadro ideale, stabilendo  per esempio in quale misura il carattere economico della situazione di una determinata città possa venir qualificato concettualmente come proprio dell’« economia cittadina ». Oculatamente  impiegato, quel concetto rende i suoi specifici servizi a sco602 MAX WEBER  po di indagine e di illustrazione. Proprio nello stesso modo si  può, per analizzare ancora un altro esempio, indicare l’« idea »  dell’« artigianato » in un’utopia, congiungendo determinati tratti che si possono rintracciare diffusamente presso gli artigiani  dei più diversi tempi e paesi — accentuati unilateralmente  nelle loro conseguenze — in un quadro ideale in sé privo di  contraddizione, e riferendoli a un'espressione concettuale, che  si trova manifestata nel loro ambito. Si può inoltre compiere il  tentativo di individuare una società nella quale tutti i rami di  attività economica, e anche spirituale, siano regolati da massime che ci appaiono come l’applicazione del medesimo principio caratteristico dell’« artigianato », elevato a tipo ideale. Si  può poi ancora contrapporre quel tipo ideale dell’artigianato a  un corrispondente tipo ideale di organizzazione industriale capitalistica, astratta da certe caratteristiche della grande industria moderna, e quindi compiere infine il tentativo di elaborare l’utopia di una cultura «capitalistica », dominata esclusivamente dall’interesse all'impiego di capitali privati. Essa dovrebbe congiungere, accentuandoli in un quadro concettuale non  contraddittorio per la nostra considerazione, determinati tratti  esistenti in maniera diffusa della moderna vita materiale e  spirituale, considerati nel loro carattere specifico. Ciò sarebbe  un tentativo di indicare l’«idea » della cultura capitalistica —  se e come a ciò si possa pervenire, non è ancora dato di saperlo.  È però possibile, o piuttosto dev’essere considerato come sicuro,  che si pervenga ad abbozzare più utopie di questo tipo, e certamente in misura assai numerosa, di cui nessuna è eguale alle altre, e di cui nessuna può venir osservata nella realtà empirica come ordinamento di fatto valido della situazione so- ciale; ognuna comporta però la pretesa di costituire una rappre- sentazione dell'«idea» della cultura capitalistica, e ognuna  può anche far valere questa pretesa in quanto ha assunto dalla  realtà, congiungendoli in un quadro ideale unitario, certi tratti  della nostra cultura forniti di significato nel loro specifico carattere. Infatti quei fenomeni che ci interessano come fenomeni  culturali derivano di regola questo interesse per noi — cioè il  loro « significato culturale » — da idee di valore assai differenti con le quali possiamo porli in relazione. Come vi sono perciò  « punti di vista » estremamente diversi dai quali possiamo considerarli per noi significativi, così si possono impiegare anche i  più diversi princìpi di scelta delle connessioni da assumere in  un tipo ideale di una determinata cultura.   Quale è però il significato di questi concetti tipico-ideali per  una scienza di esperienza, quale noi intendiamo promuoverla?  Si deve anzitutto porre in luce che la nozione di « ciò che deve  essere », vale a dire di un «modello normativo », deve essere  accuratamente distinto qui da questo quadro concettuale a cui  ci riferiamo, e che è «ideale» in senso puramente logico. Si  tratta della costruzione di connessioni che appaiono motivate in  maniera plausibile alla nostra faztasia, e quindi « oggettivamente possibili », cioè adeguate nei confronti del nostro sapere nomologico.   Chi ritenga che la conoscenza della realtà storica debba o  possa essere una riproduzione « priva di presupposti» di fatti  «oggettivi », rifiuterà ad essi qualsiasi valore. E anche chi ha  riconosciuto che non c'è un’« assenza di presupposti » in senso  logico sul terreno della realtà, e che pure il più semplice riassunto di documenti o la più semplice registrazione delle fonti  può avere qualche senso scientifico solo in base a un riferimento a « significati », e quindi in ultima istanza a idee di valore,  considererà tuttavia la costruzione di qualsiasi « utopia » storica  come un mezzo di illustrazione pericoloso per un lavoro storico  impregiudicato, e più spesso semplicemente come un gioco. E  infatti non si può mai decidere @ priori se si tratti con questo  di un puro gioco concettuale, oppure di un’elaborazione concettuale scientificamente feconda; anche qui esiste un solo criterio,  quello dell’efficacia per la conoscenza di fenomeni culturali  concreti nella loro connessione, nel loro condizionamento causale e nel loro significato. Non come fine, bensì come mezzo ha  dunque importanza la formazione di tipi ideali astratti. Ogni  attenta osservazione degli elementi concettuali della rappresentazione storica mostra però che lo storico, nell’intraprendere il  tentativo di determinare, al di là della mera constatazione di  connessioni concrete, il significato culturale di un processo individuale per quanto semplice possa essere, e quindi di « caratterizzarlo », lavora e deve lavorare con concetti che possono venir definiti in maniera precisa e univoca soltanto sotto forma di  tipi ideali. Oppure concetti come « individualismo », « imperialismo », « feudalesimo », « mercantilismo » ecc. sono «convenzionali », e le numerose formazioni concettuali del medesimo  tipo, con le quali cerchiamo di concepire e di intendere la  realtà, possono venir determinate nel loro contenuto mediante  una descrizione « priva di presupposti» di qualsiasi concreto  fenomeno, oppure mediante la congiunzione in forma astratta  di ciò che è comune a più fenomeni concreti? La lingua che  lo storico parla contiene in centinaia di parole questi quadri  concettuali indeterminati, elaborati per un bisogno di espressione che inconsapevolmente si fa valere, e il cui significato può  dapprima soltanto essere avvertito intuitivamente, non già concepito con chiarezza. In infiniti casi, particolarmente nel campo della storia politica descrittiva, l’indeterminatezza del loro  contenuto non è certo di alcun pregiudizio alla chiarezza della  rappresentazione. Basta infatti che nel caso singolo sia sentito  ciò che è in mente allo storico, oppure ci si può accontentare  che una particolare accezione del contenuto concettuale sia presupposta con un relativo significato per il caso singolo. Ma”  quanto più precisamente si deve recare alla coscienza la significatività di un fenomeno culturale, tanto più inevitabile diventa  il bisogno di lavorare con concetti chiari, determinati non solo  in maniera particolare ma anche in tutti i loro aspetti. Una  « definizione » di quelle sintesi formulate dal pensiero storico,  secondo lo schema gezus proximum-differentia specifica, è naturalmente un’assurdità; se ne faccia pure la prova. Una forma  siffatta di determinazione del significato verbale è possibile solo sul terreno di discipline dogmatiche, che lavorano con sillogismi. Non può esservi — o può esservi soltanto in apparenza —  una semplice «risoluzione descrittiva» di quei concetti nei  loro elementi, poiché ciò dipende proprio dalla determinazione di quali elementi debbano essere considerati come essenziali. Se si deve tentare una definizione genetica del contenuto  concettuale, rimane soltanto la forma del tipo ideale nel senso  sopra fissato. Esso costituisce un quadro concettuale, il quale  non è la realtà storica, e neppure l’« autentica » realtà, e tanto  meno può servire come uno schema nel quale la realtà debba  essere inserita come esempio; esso ha il significato di un puro  concetto-limite ideale, a cui la realtà deve essere misurata e  comparata, al fine di illustrare determinati elementi significati  MAX WEBER 605  vi del suo contenuto empirico. Questi concetti sono formazioni  nelle quali costruiamo, impiegando Ja categoria di possibilità  oggettiva, connessioni che la nostra fantasia, orientata e disciplinata in vista della realtà, giudica adeguate.   Il tipo ideale rappresenta, particolarmente in questa funzione, il tentativo di concepire gli individui storici o i loro elementi particolari in virtù di concetti genetici. Si prendano per  esempio i concetti di «chiesa» e di «setta». Essi si lasciano  risolvere, in via puramente classificatoria, in complessi di caratteristiche in cui non soltanto il confine tra l’uno e l’altro, ma  anche il contenuto concettuale deve rimanere sempre fluido. Se  però voglio concepire il concetto di «setta» geneticamente,  cioè in riferimento a certi importanti significati culturali che  lo «spirito di setta» ha avuto per la cultura moderna, allora  determinate caratteristiche dell’uno e dell’altro diventano essenziali, in quanto stanno in relazione causale adeguata con quegli  effetti. I concetti diventano però al tempo stesso tipico-ideali,  cioè essi non si presentano mai, o si presentano soltanto in  maniera sporadica, nella loro piena purezza concettuale. Qui  come ovunque ogni concetto non puramente classificatorio allontana dalla realtà. Ma la natura discorsiva del nostro conoscere, vale a dire la circostanza che noi possiamo cogliere la realtà soltanto mediante una catena di mutamenti di rappresentazione, postula una siffatta stenografia di concetti. La nostra  fantasia può certo fare sovente a meno di una espressa formulazione concettuale come mezzo di ricerca — ma per la rappre- sentazione, se essa vuol essere precisa, l’impiego di tali concetti è in innumerevoli casi del tutto indispensabile sul terreno dell’ana- lisi culturale. Chi la respinga in linea di principio deve limitar- si all’aspetto formale, per esempio a quello storico-giuridico, dei fenomeni culturali. Il cosmo delle norme giuridiche può naturalmente venire al tempo stesso determinato in forma con- cettualmente chiara e valere (in senso giuridico1) per la realtà sto- rica. Ma è del loro significato pratico che deve occuparsi il lavoro della scienza sociale nel nostro senso. Questo significato può però spesso essere reso consapevole in maniera precisa soltanto mediante il riferimento del dato empirico a un caso-limite ideale. Se lo storico (nel senso più ampio della parola) rifiuta un tentativo di formulazione di un tipo ideale siffatto  606 MAX WEBER  come « costruzione teorica », cioè come qualcosa di non adatto  o di non indispensabile per il suo concreto scopo conoscitivo,  la conseguenza è di regola che egli impiega, consapevolmente o  meno, altri concetti analoghi sezz4 una formulazione linguisti  ca e un'elaborazione logica, oppure che egli rimane attaccato al  campo di ciò che è « sentito » indeterminatamente.   Nulla è tuttavia più pericoloso di una mescolarza di teoria  e storia, derivante da pregiudizi naturalistici, sia che si creda di aver fissato in quei quadri concettuali di carattere teorico  il contenuto « proprio », l’«essenza» della realtà storica, sia  che li si impieghi invece come un letto di Procuste nel quale  debba essere costretta la storia, sia che si ipostatizzino infine le  «idee » come una realtà « vera e propria » che sussista dietro al  fluire dei fenomeni, cioè come « forze » reali che si manifestano nella storia.  Soprattutto quest’ultimo pericolo incombe su di noi quando  siamo abituati a comprendere tra le «idee » di un'epoca anche,  e anzi in prima linea, i principi o gli ideali che hanzo dominato le masse, oppure una parte storicamente considerevole degli  uomini di quell’epoca, e che perciò sono stati significativi come  componenti della sua configurazione culturale. A ciò si devono  ancora aggiungere due considerazioni — in primo luogo la  circostanza che tra l’«idea » nel senso di una direzione concettuale, pratica o teorica, e «idea » nel senso di un tipo ideale  di un’epoca da noi costruito come strumento concettuale sussistono di regola determinate relazioni. Un tipo ideale di determinate situazioni sociali, che si lascia astrarre da certi caratteristici fenomeni sociali di un’epoca, può — e questo è infatti  sovente il caso — avere ispirato l’uomo del tempo come ideale  da conseguire praticamente oppure come massima per la regolamentazione di determinate relazioni sociali. Ciò vale già per  l’«idea» della « garanzia del sostentamento » e di varie teorie  canonistiche, specialmente di san Tommaso, in rapporto al concetto tipico-ideale oggi impiegato dell’«economia cittadina »  del Medioevo, a cui abbiamo accennato sopra. E ciò vale maggiormente per il famigerato « concetto fondamentale » dell’economia politica, vale a dire per il concetto di « valore » economico. Dalla Scolastica fino alla teoria marxistica il principio di  qualcosa che sia « oggettivamente » valido, e che quindi deve essere, si è qui amalgamato con un’astrazione derivata dal corso empirico della formazione del prezzo. E quel principio, che  il «valore» dei beni debba essere regolato secondo determinati  princìpi « di diritto naturale », ha avuto e ha tuttora un'immensa importanza per lo sviluppo della cultura — non solo del  Medioevo. Esso ha intensamente influenzato soprattutto la formazione empirica dei prezzi. Ciò che però viene, e può venir  pensato sotto quel concetto teorico, può essere chiarito in maniera realmente univoca soltarzto in virtù di una precisa elaborazione concettuale, e cioè di un’elaborazione tipico-ideale — e a ciò  dovrebbe riflettere chi motteggia sulle « robinsonate » della teoria astratta, almeno finché non abbia da porre al loro posto  qualcosa di meglio, e cioè di più chiaro.  Il rapporto causale tra l’idea storicamente determinabile,  che governa gli uomini, e quegli elementi della realtà storica  dai quali è possibile astrarre il tipo ideale ad essa corrispondente, può naturalmente configurarsi in maniera assai diversa. In  linea di principio occorre però stabilire soltanto che si tratta di  due cose ovviamente eterogenee. Ma a ciò si deve inoltre aggiungere che noi possiamo comprendere con precisione concettuale quelle «idee » medesime che governano gli uomini di  un’epoca, e che operano in maniera diffusa tra di loro — dal  momento che si tratta qui di una più complicata formazione  concettuale — di nuovo soltanto zella forma di un tipo ideale;  e ciò perché vivono empiricamente nella testa di una indeterminata e mutevole molteplicità di individui, assumendo in essi le  più diverse gradazioni di forma e di contenuto, di chiarezza e  di senso. Per esempio, quegli elementi della vita spirituale degli individui singoli in una determinata epoca del Medioevo,  che di solito noi designamo come «il Cristianesimo» degli  individui in questione, costituirebbe naturalmente — rel caso  che si potesse rappresentarli in maniera compiuta — un caos di  connessioni concettuali e affettive di ogni tipo, infinitamente  differenziate e assai contraddittorie, sebbene la Chiesa medievale  abbia certo realizzato l’unità della fede e dei costumi in misura  particolarmente elevata. Se si propone la questione di che cosa  sia stato allora in questo caos i « Cristianesimo » medievale,  con il quale si deve nondimeno operare continuamente come se fosse un concetto ben determinato, e in che cosa consista l’elemento «cristiano » che noi troviamo nelle istituzioni del Medioevo, risulta subito che anche qui viene, in ogni singolo caso,  impiegata una pura formazione concettuale da noi creata. Esso  è una combinazione di proposizioni di fede, di norme giuridicoecclesiastiche e di norme etiche, di massime della condotta della vita e di innumerevoli connessioni particolari, che noi uniamo in un’«idea»: è una sintesi alla quale non possiamo pervenire in maniera non contraddittoria senza l’impiego di concetti  tipico-ideali.  La struttura logica dei sistemi concettuali in cui rappresentiamo tali «idee », e il loro rapporto con ciò che ci è immediatamente dato nella realtà empirica, sono naturalmente assai  diversi. La questione si presenta ancora in forma relativamente  semplice nei casi in cui vi siano uno oppure pochi princìpi  teorici direttivi che si possono facilmente esprimere in formule  — per esempio la fede nella predestinazione di Calvino — o  postulati etici chiaramente formulabili, i quali abbiano dominato gli uomini e prodotto effetti storici, in maniera da poter  articolare l’«idea » in una gerarchia di posizioni che si sviluppano logicamente in base a quei principi direttivi. Già allora si  scorda però con troppa facilità che, per quanto potente sia stata  nella storia l’importanza anche della forza coercitiva puramente Zogica del pensiero — il marxismo ne è un esempio eminente  — tuttavia il processo storico-empirico nella testa degli uomini  deve di regola venir inteso come condizionato psicologicamente  e non logicamente. E il carattere tipico-ideale di siffatte sintesi  di idee storicamente operanti risulta in maniera ancor più distinta allorché quei fondamentali principi direttivi e quei postu- lati non vivono, oppure non vivono più, nella testa degli indivi- dui dominati da posizioni che ne derivano logicamente, oppure per associazione, in quanto l’«idea » che in origine stava alla loro base è scomparsa, oppure ha trovato una diffusione solo nelle proprie conseguenze. In maniera ancor più decisiva il carattere della sintesi emerge come il carattere di un’« idea » che noi creiamo quando quei fondamentali princìpi direttivi fin dall’inizio sono pervenuti solo in forma incompiuta, o non sono pervenuti, a coscienza distinta, o per lo meno non hanno assunto la forma di chiare connessioni concettuali. Quando per- MAX WEBER 609 ciò adottiamo questo procedimento, come accade e deve accade- re molto sovente, ci troviamo con questa «idea» — sia essa l’idea del «liberalismo» di un determinato periodo o quella del « metodismo » o quella di qualsiasi specie di « socialismo » concettualmente non sviluppato — di fronte a un puro tipo ideale, che è analogo alle sintesi dei « princìpi » di un’epoca economica da cui abbiamo preso le mosse. Quanto più ampie sono le connessioni che si devono rappresentare, e quanto più molteplice è stato il loro significato culturale, tanto più la loro rappresentazione sistematica in un complesso concettuale si accosta al carattere del tipo ideale, e tazto meno è possibile  operare con uno solo di tali concetti; e tanto più naturali e  inevitabili diventano quindi i tentativi, sempre ripetuti, di recare a coscienza sempre nuovi aspetti significativi mediante l’elaborazione di concetti tipico-ideali. Tutte le formulazioni di  un’«essenza» del Cristianesimo, per esempio, sono tipi ideali  che hanno sempre, e necessariamente, soltanto una validità molto relativa e problematica se pretendono di essere considerate  come una rappresentazione storica di ciò che esiste empiricamente; e sono invece di alto valore euristico per la ricerca e di  alto valore sistematico per tale rappresentazione se vengono  impiegate semplicemente come mezzi concettuali per la comparazione e per la misurazione della realtà in riferimento ad esse.  In questa funzione esse risultano addirittura indispensabili. A  tali formulazioni tipico-ideali si aggiunge però di regola ancora  un altro elemento, che ne complica ulteriormente il significato.  Esse vogliono di solito essere, oppure sono inconsapevolmente,  tipi ideali non soltanto in senso /ogico, ma anche in senso  pratico: sono cioè modelli che — per attenerci all'esempio —  contengono ciò che il Cristianesimo deve essere secondo la convinzione dell’autore, cioè che in esso è per lui «essenziale »,  perché fornito di valore permanente. In questo caso, però, sia  esso consapevole o — più spesso — inconsapevole, siffatte formulazioni contengono degli ideali 4i quali l’autore riferisce  valutativamente il Cristianesimo: sono compiti e fini verso cui  egli orienta la sua «idea » del Cristianesimo, e che naturalmente possono essere assai diversi, e senza dubbio sempre lo saranno, dai valori ai quali gli uomini del tempo, per esempio i Cristiani primitivi, riferivano il Cristianesimo ‘. In questo significato le «idee» non sono naturalmente più puri strumenti  logici, non sono più concetti a cui la realtà viene misurata  comparativamente, bensì sono ideali in base ai quali essa è  giudicata valutativamente. Nor si tratta più del puro processo  teorico di riferimento di ciò che è empirico ai valori, ma di  giudizi di valore che vengono accolti nel « concetto » del Cristianesimo. Poiché qui il tipo ideale pretende una validità empirica, esso penetra nella regione dell’interpretazione valutativa del Cristianesimo; il terreno della scienza empirica è abbandonato, e di fronte a noi sta una professione personale, 707  un'elaborazione concettuale di carattere tipico-ideale. Per quanto questa distinzione sia una distinzione di principio, tuttavia  la mescolanza di quei due significati dell’« idea », così fondamentalmente diversi, si presenta molto spesso nel corso del  lavoro storico. Essa è sempre prossima allorché lo storico comincia a sviluppare la sua «concezione » di una personalità o di  un’epoca. In antitesi ai criteri etici costanti che uno Schlosser®  impiegava in conformità allo spirito del razionalismo, lo storico moderno educato relativisticamente, che vuole da un lato  «intendere in base a se stessa » e dall’altro tuttavia anche « giudicare»l’epoca di cui parla, sente il bisogno di assumere i  criteri del proprio giudizio « dalla materia», cioè di lasciar  scaturire l’«idea » nel senso di ideale dall’«idea » nel senso di  «tipo ideale ». E l’attrattiva estetica di un procedimento del  genere lo trascina continuamente a scordare la linea in cui  l’una e l’altra si distaccano — una deficienza che da un lato  non può fare a meno del giudizio valutativo, e dall'altro porta  a respingere da sé la responsabilità dei propri giudizi. Di fronte a ciò è tuttavia un dovere elementare dell’autocontrollo scien4. Weber si riferisce qui alle discussioni sull’« essenza » del Cristianesimo, particolarmente vive nella cultura filosofico-religiosa tedesca dci primi anni del secolo —  a partire dalla pubblicazione di Das Wesen des Christentums di Adolf von Harnack  (1900).  5. Friedrich Christoph Schlossser (1776-1861), storico tedesco, autore della Welegeschichte in zusammenhingender Darstellung (1816-24), della Geschichte des 18.  Jahrhunderts (1823), poi continuata col nuovo titolo di Geschichte des 18. Jahr  hunderts und des 19. bis zum Sturz des franzòsischen Kaiserreichs mit besonderer Riicksicht auf geistige Bildung (1836-49), di una Weltgeschichte fiir das deutsche  Volk (1844-56) di carattere divulgativo e di varic altre opere.  MAX WEBER 6II  tifico, e il solo mezzo per prevenire gli inganni, distinguere  con precisione la relazione logica comparativa della realtà con  tipi ideali in senso logico dalla valutazione della realtà in base  a ideali. Un «tipo ideale » nel nostro senso — si può ripeterlo  ancora una volta — è completamente indifferente nei confronti  del giudizio valutativo, e non ha nulla a che fare con una  « perfezione » che non sia puramente logica. Vi sono tipi ideali  tanto di bordelli quanto di religioni; e vi sono tipi ideali di  bordelli che possono sembrare tecnicamente « conformi allo scopo» dal punto di vista dell’odierna etica di polizia, come ve  ne sono di quelli per cui vale proprio l'opposto.   Deve qui necessariamente venir messa in disparte la discussione approfondita del caso che si presenta di gran lunga come  il più complicato e interessante — la questione della struttura  logica del concetto di stato. Si deve solamente osservare che,  chiedendoci che cosa corrisponda nella realtà empirica all’idea  dello « stato », noi troviamo un’infinità di comportamenti umani attivi e passivi, in forma diffusa e discreta, di relazioni  regolate di fatto e giuridicamente che presentano un carattere  in parte singolare e in parte regolarmente ricorrente, tenute  insieme da un'idea, cioè dalla fede in norme valide di fatto, o  che devono valere, e in rapporti di potere di uomini sugli  uomini. Questa fede è in parte un possesso spirituale concettualmente elaborato, in parte è invece oscuramente sentita, in parte ancora passivamente accolta e configurata nel modo più diverso nella testa di individui i quali, se concepissero l’«idea » come tale in maniera realmente chiara, non avrebbero bisogno della «dottrina generale dello stato» a cui tale idea intende dare origine. Il concetto scientifico di stato, in qualsiasi modo venga formulato, è naturalmente una sintesi che z0i assumiamo per determinati scopi conoscitivi. Ma d'altra parte esso è pure astratto dalle non chiare sintesi che sono state ritrovate nella testa degli uomini storici. Però il contenuto concreto che lo « stato » storico assume in quelle sintesi dei contemporanei può venire illustrato soltanto se ci orientiamo in base a concetti tipico-ideali. Inoltre non c’è il minimo dubbio che il modo in cui quelle sintesi sono effettuate, in forma sempre logicamente incompiuta, dai contem poranei, cioè il modo in cui essi si fanno le loro «idee » dello stato — per esempio la metafisica organica dello stato, sorta in Germania, in antitesi alla concezione « commerciale » americana — è di importanza eminentemente pratica; cioè anche qui, in altri termini, l’idea pratica  che si crede debba valere o valga e il zipo ideale teorico,  costruito a scopi conoscitivi, si accostano tra loro e mostrano la  continua tendenza a passare l’uno nell’altro.  Noi abbiamo sopra considerato di proposito il « tipo ideale »  essenzialmente — quand’anche non esclusivamente — come  una costruzione concettuale per la misurazione e la caratterizzazione sistematica di connessioni individuali, cioè significative  nella loro singolarità, come per esempio il Cristianesimo, il  capitalismo ecc. Ciò è avvenuto allo scopo di mettere da parte  la banale nozione che nel campo dei fenomeni culturali cid che  è astrattamente zipico sia identico con ciò che è astrattamente  conforme al genere. Questo non è il caso. Senza analizzare qui  in linea di principio il concetto di « tipico», più volte discusso  e assai screditato per l’abuso fattone, noi possiamo assumere dal  nostro precedente esame che l’elaborazione di concetti di tipo,  nel senso di un’eliminazione di ciò che è « accidentale », trova  la propria sede anche e precisamente in rapporto agli individui  storici. Naturalmente anche quei concetti di genere, che troviamo a ogni passo come elementi di esposizioni storiche e di  concreti concetti storici, possono però venir formati come tipi  ideali mediante un procedimento di astrazione e di accentuazio-ne di determinati elementi ad essi concettualmente essenziali.  Questo è appunto un caso di applicazione dei concetti tipicoideali particolarmente frequente e importante dal punto di vista  pratico; e ogni tipo ideale individuale si costruisce in base a  clementi concettuali che sono generici, e che sono stati formati  come tipi ideali. Anche in questo caso emerge però la specifica  funzione logica dei concetti tipico-ideali. Un semplice concetto  di genere, nel senso di un complesso di caratteristiche comuni a  più fenomeni, è per esempio il concetto di «scambio» — finché prescindo dal significato degli elementi concettuali e analizzo semplicemente l’uso linguistico quotidiano. Se però pongo  questo concetto in relazione, per esempio, con la «legge di  utilità marginale » ed elaboro il concetto di « scambio economico » come concetto di un processo economicamente RAZIONALE, allora questo contiene in sé, al pari di ogni concetto logicamente sviluppato in maniera compiuta, un giudizio sulle condizioni  «tipiche » dello scambio. Esso assume carattere genetico e diventa perciò al tempo stesso tipico-ideale in senso logico, cioè si  allontana dalla realtà empirica, la quale può solo essere comparata con esso e ad esso riferita. Una cosa analoga vale per tutti  i cosiddetti « concetti fondamentali » dell'economia politica: essi possono venir sviluppati in forma genetica soltanto come  tipi ideali. L’antitesi tra semplici concetti di genere, i quali  riuniscono ciò che è comune a certi fenomeni empirici, e tipi  ideali di carattere generico — come per esempio nel caso di un  concetto tipico-ideale dell’« essenza » dell’artigianato — è naturalmente fluida nel caso singolo. Ma nessun concetto di genere  ha in quanto tale carattere «tipico», e non c’è nessun tipo  « di media» che sia puramente conforme a un genere. Ovunque parliamo, per esempio in statistica, di grandezze « tipiche », si presenta qualcosa di più che una mera media. Quanto  più ci troviamo dinanzi a una semplice classificazione di processi che si presentano nella realtà come fenomeni di massa, tanto  più si tratta di concetti di genere; quanto più invece vengono  formate concettualmente complicate connessioni storiche, prese  in quei loro elementi su cui poggia il loro specifico significato  culturale, tanto più il concetto — o il sistema concettuale —  assumerà il carattere del tipo ideale. Poiché scopo dell’elaborazione di concetti tipico-ideali è sempre quello di rendere esplicito con precisione 207 già ciò che è conforme al genere, bensì,  al contrario, il carattere specifico di certi fenomeni culturali.  Che tipi ideali, anche di carattere generico, possano essere e  siano impiegati, presenta un interesse metodologico soltanto in  connessione con un altro fatto.  Finora abbiamo imparato a conoscere i tipi ideali essenzialmente soltanto come concetti astratti di connessioni che, permanendo nel flusso dell’accadere, sono da noi rappresentati come  individui storici, i cui si compiono determinate linee di sviluppo. Ora si presenta però una complicazione, la quale reintroduce in maniera molto facile, con l’aiuto del concetto di «tipico », il pregiudizio naturalistico che fine delle scienze sociali  debba essere la riduzione della realtà a «leggi». Anche le  linee di sviluppo possono venir costruite come tipi ideali, e  614 MAX WEBER  queste costruzioni possono avere un valore euristico assai considerevole. Ma così sorge, in misura particolarmente forte, il  pericolo che vengano tra loro confusi il tipo ideale e la realtà.  Si può per esempio pervenire al risultato teorico che in una  società organizzata in forma rigorosamente «artigianale » la  sola fonte di accumulazione del capitale sia la rendita fondiaria. Su tale base si può forse poi costruire — poiché non si deve  qui indagare la correttezza della costruzione — un quadro ideale della trasformazione dell'economia a carattere artigianale in  un'economia capitalistica, condizionato da determinati fattori  semplici — terreno limitato, popolazione crescente, afflusso di  metalli preziosi, razionalizzazione della condotta della vita. Se  il corso storico-empirico dello sviluppo sia stato di fatto quello  costruito può venir indagato soltanto con l’aiuto di questa costruzione in quanto mezzo euristico, mediante la comparazione  tra tipo ideale e «fatti». Se il tipo ideale è « correttamente »  costruito, e tuttavia il corso oggettivo zor corrisponde al corso  tipico-ideale, si verrebbe a conseguire la prova che la società  medievale 07 è stata, in determinate relazioni, una società a  carattere rigorosamente « artigianale ». E quando il tipo ideale  è stato costruito in maniera «ideale » euristica — se e come  ciò possa avvenire nel nostro caso, rimane qui del tutto fuori  della nostra considerazione — allora esso orienterà nel medesimo tempo la ricerca sulla via che conduce a una più precisa  penetrazione di quegli elementi della società medievale i quali  non presentano carattere artigianale, studiati nel loro specifico  carattere e nel loro significato storico. Esso ha attuato il suo  scopo logico, quando reca a questo risultato, proprio in quanto ha manifestato la sua propria irrealtà. Esso costituiva, in tale caso, la prova di un'ipotesi. Il procedimento non è esposto a nessuna riserva metodologica fin quando si tenga presente che la costruzione tipico-ideale di uno sviluppo e la storia sono due cose da tenere rigorosamente distinte, e che la costruzione è stata qui semplicemente il mezzo per compiere in maniera sistematica l'imputazione valida di un processo storico alle sue cause reali, entro l'ambito di quelle possibili in conformità allo stato della nostra conoscenza. Mantenere rigorosamente in piedi questa distinzione è reso sovente molto difficile — secondo quanto ci dice l’esperienza —dalla seguente circostanza. Nell’interesse della presentazio- ne in forma intuitiva del tipo ideale o dello sviluppo tipico-idea- le si cercherà di #lustrarlo mediante materiale intuitivo tratto dalla realtà storico-empirica. Il pericolo di questo procedimen- to, che pure è in sé del tutto legittimo, consiste nel fatto che  il sapere storico appare qui come servitore della teoria, anziché  viceversa. Il teorico si trova di fronte alla tentazione di considerare questo rapporto come normale, oppure — il che è peggio  — di accostare teoria e storia, e addirittura di scambiarle tra  loro. Questo caso si presenta in misura ancor più accentuata  allorché la costruzione ideale di uno sviluppo è effettuata in  maniera da inserirla, con la classificazione concettuale di tipi  ideali di determinate formazioni culturali (per esempio delle  forme di impresa industriale muovendo dall’« economia domestica chiusa », oppure dei concetti religiosi cominciando dalle  « divinità dell’attimo »), entro una classificazione genetica. La  serie dei tipi che risulta in base alle caratteristiche concettuali  prescelte appare quindi come una loro successione storica, legalmente necessaria. L'ordine logico dei concetti da un lato, e  dall’altro l'ordinamento empirico di ciò che viene concepito  nello spazio, nel tempo e nella connessione causale, sembrano  così legati tra loro che quasi irresistibile diventa la tentazione di fare violenza alla realtà, per confermare nella realtà la  validità effettiva della costruzione.   Di proposito si è evitato di condurre la dimostrazione in  riferimento a quello che per noi è di gran lunga il più importante caso di costruzioni tipico-ideali — cioè in riferimento a  Marx. Ciò è avvenuto per non complicare ancora l’esposizione  tirando dentro anche le interpretazioni di Marx, e per non  anticipare le discussioni con cui la nostra rivista farà di regola  oggetto di analisi critica la letteratura accumulatasi sul — oppure in rapporto al — grande pensatore. Qui ci si può pertanto  limitare a constatare che tutte le «leggi» e le costruzioni di  sviluppo specificamente marxistiche — in quanto sono teoricamente prive di errore — hanno naturalmente carattere tipicoideale. Chiunque abbia lavorato con concetti marxistici conosce  l’eminente, e anzi singolare significato euristico di questi tipi  ideali, quando li si impieghi per comparare con essi la realtà, e  conosce al tempo stesso la loro pericolosità quando si voglia presentarli come validi empiricamente, oppure come «forze  operanti », «tendenze » ecc. reali (cioè, in verità, metafisiche).  Concetti di genere; tipi ideali; concetti di genere tipico-ideali; idee nel senso di combinazioni concettuali empiricamente  operanti negli uomini storici; tipi ideali di queste idee; ideali  che dominano gli uomini storici; tipi ideali di questi ideali;  ideali a cui lo storico riferisce la storia; costruzioni zeoriche  effettuate mediante l’impiego illustrativo del dato empirico;  indagine storica condotta mediante l’impiego di concetti teorici come casi-limite ideali; e inoltre ancora le diverse complicazioni possibili a cui si è solo potuto accennare — sono tutte  formazioni concettuali, il cui rapporto con la realtà empirica  del dato immediato resta problematico in ogni caso particolare.  Questa elencazione mostra già da sola l’intrico senza fine dei  problemi metodico-concettuali, che rimangono sempre in vita  nel campo delle scienze della cultura. E noi abbiamo dovuto  astenerci assolutamente dall’esaminare le questioni metodologiche pratiche connesse ai problemi che si è potuto soltanto indicare, e dal discutere in maniera approfondita le relazioni della  conoscenza tipico-ideale con la conoscenza « legale », dei concetti tipico-ideali con i concetti collettivi, e così via.  Lo storico persevererà tuttora, dopo queste polemiche, nell’affermare che la prevalenza della forma tipico-ideale di elaborazione concettuale e di costruzione è un sintomo specifico  della giovinezza di una disciplina. E in questo gli si deve in  un certo senso dar ragione, ma con conseguenze diverse da  quelle che egli vorrebbe trarne. Prendiamo un paio di esempi  da altre discipline. È certo vero che lo scolaro infastidito, al  pari del filologo primitivo, concepisce anzitutto una lingua  «organicamente », cioè come una totalità sovra-empirica retta  da norme, ma concepisce il compito della scienza come la  determinazione di ciò che — in quanto regola linguistica —  deve valere. Elaborare logicamente la «lingua scritta », come  ha fatto ad esempio la Crusca, ridurne il contenuto a regole, è  normalmente il primo compito che una « filologia » si propone.  E quando invece oggi un insigne filologo proclama oggetto  della filologia il « modo di parlare di ogni individuo », la determinazione di un programma siffatto è possibile solo in quanto nella lingua scritta ci si trova dinanzi a un tipo ideale relativamente stabile, con cui può operare (almeno tacitamente) l’analisi dell’infinita molteplicità del modo di parlare, che altrimenti  sarebbe del tutto priva di orientamento e di approdo. Non  altrimenti le costruzioni delle teorie dello stato a carattere giusnaturalistico o organico, oppure — per rammentarci di un  ideale nel nostro senso — la teoria dello stato antico formulata da Benjamin Constant‘, funzionavano in certa misura come porti di rifugio, finché non si è imparato a orientarci  nell’immenso mare dei fatti empirici. La maturazione di una  scienza comporta infatti sempre il superamento del tipo ideale,  nella misura in cui esso viene concepito come empiricamente  valido oppure come concetto di genere. E perciò, per esempio,  l’impiego dell’acuta costruzione di Constant è ancor oggi del  tutto legittimo per l’illustrazione di determinati aspetti e di  caratteristiche storiche peculiari dell’antica vita statale, se si  tiene fermo con cura il suo carattere tipico-ideale. Non solo,  ma soprattutto vi sono scienze alle quali è assegnata un’eterna  giovinezza; e queste sono tutte le discipline storiche, tutte quelle cioè a cui il fluire sempre progrediente della cultura propone  di continuo nuove posizioni problematiche. È connesso all’essenza del loro compito che tuzte le costruzioni tipico-ideali  debbano tramontare, ma che al tempo stesso altre nuove siano  sempre indispensabili.  Di continuo si ripetono i tentativi di determinare il senso  « proprio» o «vero » dei concetti storici, e mai essi giungono  alla fine. Di conseguenza le sintesi, con cui la storia di continuo lavora, rimangono regolarmente nella forma di concetti  solo relativamente determinati, oppure, allorché si deve conse- guire a ogni costo l’univocità del contenuto concettuale, il con- cetto diventa un tipo ideale astratto e si rivela come un punto di vista teorico, quindi « unilaterale », dal quale la realtà può 6. Benjamin-Henri Constant de Rebecque, uomo politico francese del periodo napoleonico e dell'età della Restaurazione, esiliato da Napoleone, in seguito uno dei maggiori esponenti dell’opposizione liberale alla monarchia borbonica, autore del Cours de politique constitutionelle (1818), del famoso discorso De la liber:é des anciens comparée è celle des modernes (1819), dell’opera De la religion, considéré dans sa source, ses formes et ses dévelopments (1824-27), dei MÉlanges de politique et  de litiérature (1829) e di vari altri scritti, tra cui il volume postumo Du polytAdisme  romain (1833). essere illuminata e al quale essa può venir riferita — ma che si  mostra evidentemente inappropriato come schema in cui essa  potrebbe venir inserita senza residuo. Poiché nessuno di quei  sistemi concettuali, di cui non possiamo fare a meno per la  penetrazione degli elementi di volta in volta significativi della  realtà, può tuttavia esaurirne l’infinita ricchezza. Nessuno è  qualcosa di diverso da un tentativo di recare ordine, sulla base  della situazione del nostro sapere e delle formazioni concettuali  a nostra disposizione, nel caos di quei fatti che abbiamo compreso nell’ambito del nostro inzeresse. L'apparato concettuale  che il passato ha sviluppato mediante l'elaborazione, cioè piuttosto mediante la trasformazione concettuale della realtà immediatamente data e il suo inserimento in quei concetti che corrispondevano alla situazione della sua conoscenza e alla direzione del suo interesse, sta in continua contrapposizione con la  nuova conoscenza che noi possiamo e vogliamo ottenere dalla  realtà. In questa lotta si compie il progresso delle scienze della  cultura. Il suo risultato è un continuo processo di trasformazione di quei concetti con cui cerchiamo di penetrare la realtà. La  storia delle scienze della vita sociale è e rimane caratterizzata  da un continuo alternarsi tra il tentativo di ordinare concettualmente i fatti mediante un’opera di elaborazione concettuale, la  risoluzione dei quadri concettuali così ottenuti mediante l’estensione e l’approfondimento dell’orizzonte scientifico, e l’elaborazione di nuovi concetti sul fondamento così mutato. Non viene  qui affatto in luce l’erroneità del tentativo di formare sistemi di concetti 12 gezere — ogni scienza, anche la semplice  storia descrittiva, lavora con la provvista concettuale del suo  tempo — bensì la circostanza che nelle scienze della cultura  umana la formazione dei concetti dipende dalla posizione dei  problemi, e quest'ultima varia con il contenuto della cultura  stessa. Nelle scienze della cultura il rapporto tra il concetto e  il suo contenuto comporta la transitorietà di ogni sintesi siffatta. I grandi tentativi di costruzione concettuale hanno di regola  avuto il loro valore, nel campo della nostra scienza, nel rivelare  le limitazioni di significato del punto di vista che sta alla loro  base. I più importanti progressi nel campo delle scienze sociali  sono, dal punto di vista oggettivo, connessi alla trasposizione  dei problemi pratici della cultura, e si presentano nella forma  di una critica dell’elaborazione concettuale. Sarà uno dei principali compiti della nostra rivista servire allo scopo di questa  critica, e perciò all'indagine dei princìpi della sintesi nel campo della scienza sociale.  Traendo le conseguenze di quanto si è detto, noi perveniamo a un punto in cui le nostre opinioni si discostano talvolta  da quelle di alcuni, anche eminenti, rappresentanti della scuola  storica, tra i cui discendenti tuttavia ci siamo annoverati. Essi  permangono sovente, in maniera espressa o tacita, nella convinzione che il fine ultimo, lo scopo di ogni scienza sia quello di  ordinare la propria materia in un sistema di concetti il cui  contenuto deve essere ottenuto mediante l'osservazione di regolarità empiriche, l’elaborazione di ipotesi e la loro verifica,  finché non sia sorta su tale base una scienza «compiuta» e  perciò deduttiva. In vista di questo fine il lavoro storico-induttivo che si sta attualmente conducendo sarebbe un lavoro preliminare, condizionato dall’imperfezione della nostra disciplina:  nulla deve naturalmente apparire più sospetto, dal punto di  vista di questa forma di considerazione, della formazione e  dell’impiego di concetti precisi che vorrebbero anticipare prematuramente quel fine, proprio invece di un lontano futuro. Questa concezione sarebbe in linea di principio incontestabile sul  terreno della dottrina antica e scolastica della conoscenza, a cui  sono ancora profondamente attaccati gli specialisti della scuola  storica: scopo dei concetti si presuppone essere la riproduzione  rappresentativa della realtà «oggettiva», e da ciò deriva la  continua insistenza sull’irrealtà di ogni concetto preciso. Chi  pensa però fino in fondo il principio fondamentale della moderna dottrina della conoscenza, richiamantesi a Kant, che i concetti sono e possono essere solamente mezzi del pensiero foggiati allo scopo di dominare spiritualmente il dato empirico, non  potrà ritenere la circostanza che i concetti genetici siano necessariamente tipi ideali come un'obiezione valida contro la loro  elaborazione. Per lui il rapporto tra concetto e lavoro storico si  inverte: quel fine ultimo gli appare logicamente impossibile, e  i concetti si rivelano non già fire, bensì mezzo in vista della  conoscenza delle connessioni significative da puntì di vista individuali. Proprio in guanto i contenuti dei concetti storici sono necessariamente mutevoli, questi debbono essere ogni volta formulati in maniera precisa. Egli avanzerà soltanto l’esigenza  che nel loro impiego sia accuratamente tenuto fermo il loro  carattere di formazioni concettuali ideali, che cioè tipo ideale e  storia non vengano scambiati tra loro. Dal momento che non si  può considerare come fine ultimo quello di pervenire a concetti  storici realmente definitivi, per l’inevitabile mutamento delle  idee di valore direttive, egli riterrà che proprio in quanto concetti precisi e univoci vengono formulati in riferimento al particolare punto di vista, che ogni volta esplica una funzione direttiva, sia data la possibilità di mantenere chiari nella coscienza  i limiti della loro validità,  Si affermerà ora — e noi l’abbiamo già ammesso — che una  concreta connessione storica può nel caso particolare venir illustrata intuitivamente nel suo corso, senza che sia di continuo  posta in relazione con concetti definiti. E di conseguenza si  reclamerà per lo storico della nostra disciplina che egli, al pari  di ciò che si è detto dello storico politico, parli la «lingua  della vita ». Certamente! Occorre solamente aggiungere che in  questo procedimento rimane necessariamente accidentale, in un  grado spesso molto elevato, se il punto di vista in base a cui il  processo considerato ottiene significato pervenga, o meno, a  chiara coscienza. Noi non ci troviamo in genere nella felice  situazione dello storico politico, per il quale i contenuti di  cultura, a cui egli riferisce la sua esposizione, sono di regola  univoci — 0 almeno così sembrano. Ogni rappresentazione che  sia solo intuitiva assume il carattere proprio di una rappresentazione artistica: «ognuno vede ciò che reca in cuore». Giudizi  validi presuppongono sempre l’elaborazione logicz del dato intuitivo, cioè l'impiego di concetti; ed è certo possibile, e spesso  esteticamente soddisfacente, conservarli in petto, ma ciò minaccia di continuo il sicuro orientamento del lettore, sovente anche quello di chi scrive, per ciò che concerne il contenuto e la  portata dei suoi giudizi.  Estremamente pericolosa può però diventare l’omissione di  una precisa elaborazione concettuale per le discussioni pratiche  di politica economica e sociale. Quale confusione abbiano qui  prodotto per esempio l’impiego del termine « valore » — questo figlio del dolore della nostra disciplina, al quale può appunto essere dato un senso univoco soltanto su base tipico-ideale  — oppure parole come « produttivo », « dal punto di vista economico-politico » ecc., che non reggono a nessuna analisi concettualmente chiara, è addirittura incredibile per lo spettatore  che stia al di fuori. E a recar danno sono qui prevalentemente i concetti collettivi assunti dal linguaggio quotidiano. Si prenda, per fornire un'illustrazione il più possibile accessibile anche a chi non abbia competenza specifica, il concetto di « agricoltu- ra», quale si presenta nell’espressione « interessi dell’agricoltu- ra». Se assumiamo anzitutto gli « interessi dell’agricoltura » co- me le rappresentazioni soggettive più o meno chiare, ed empiri- camente determinabili, che i singoli operatori economici hanno dei loro interessi, e prescindiamo quindi del tutto dagli infiniti conflitti di interessi che qui sussistono tra allevatori di bestia- me, ingrassatori di bestiame, coltivatori di grano, consumatori di grano, distillatori di acquavite e così via, non ogni estraneo ma certo almeno ogni specialista si renderà conto dell'enorme groviglio di relazioni di valore, tra loro antagonistiche e con- traddittorie, che è qui sotto oscuramente implicato. Noi voglia- mo qui enumerarne solo alcune: interessi di agricoltori che vogliono vendere il proprio podere, e che perciò sono interessa- ti esclusivamente a un celere rialzo del prezzo del terreno; l'interesse contrapposto di coloro che intendono comperare, o accrescersi, o prendere in affitto; l'interesse di coloro che, per motivi di vantaggio sociale, desiderano conservare un determi- nato podere per i propri successori e sono quindi interessati alla stabilità della proprietà terriera; l'interesse contrapposto di coloro che desiderano, per sé e per i propri figli, un movimen- to del terreno in direzione di un padrone migliore oppure — il che non è senz'altro identico — di un acquirente fornito di disponibilità di capitali; l'interesse puramente economico dei « padroni più capaci», nel senso dell'economia privata, alla li- bertà di movimento economico; l'interesse antagonistico di de- terminati strati dominanti alla conservazione della tradizionale posizione sociale ed economica del proprio «ceto», e quindi della propria discendenza; l’interesse sociale degli strati di agri- coltori 207 dominanti al declino di quegli strati superiori, che opprimono la loro posizione; il loro interesse, che talvolta risul- 622 MAX WEBER ta in collisione col precedente, di possedere in quegli strati una guida politica per la protezione dei propri interessi di guada- gno. E l’elenco potrebbe ancora essere accresciuto a lungo, senza trovare una fine, per quanto si proceda in maniera sommaria e imprecisa. Noi trascuriamo il fatto che agli interessi  più «egoistici» di questo tipo possono mescolarsi o unirsi i  più diversi valori ideali, e che tali valori possono ostacolarli o  deviarli, per tenere soprattutto presente che, quando parliamo  di «interessi dell'agricoltura», pensiamo di regola z0n soltanto a quei valori materiali e ideali a cui gli agricoltori stessi  riferiscono i propri «interessi», bensì anche a quelle idee di  valore, in parte completamente eterogenee, a cui noi possiamo  riferire l'agricoltura: per esempio interessi produttivi, derivanti dall’interesse in una nutrizione più a buon mercato della  popolazione e dall’interesse, che non sempre coincide con quello, in una nutrizione qualitativamente migliore, a cui possono  contrapporsi in varia maniera gli interessi della città e della  campagna — mentre non c’è alcuna garanzia che l’interesse  della generazione presente sia identico con il probabile interesse di quelle future; oppure interessi demografici, in particolare interessi a una 24merosa popolazione agricola, derivanti  dagli interessi « dello stato» per motivi di politica di grande  potenza o di politica interna, oppure da altri interessi ideali di  specie più diversa, come dall’influenza prevista di una numerosa popolazione agricola sul carattere culturale di un paese —  interessi i quali possono contrastare con svariati interessi privati di tutte le parti della popolazione agricola, e presumibilmente anche con tutti gli interessi presenti della massa della  popolazione agricola. Oppure si può rammentare l’interesse a  un determinato tipo di organizzazione sociale della popolazione agricola, a causa delle influenze politiche o culturali che ne  derivano — interesse che può urtarsi per il suo orientamento  con tutti i presumibili interessi presenti e futuri, anche i più  urgenti, dei singoli agricoltori e anche « dello stato ». E — ciò  che complica ulteriormente la cosa — lo «stato », al cui « interesse » noi volentieri riferiamo questi e numerosi altri interessi  particolari del genere, è per noi spesso solo una designazione  che riveste un groviglio, in sé estremamente intricato, di idee  di valore, con cui esso è da parte sua posto in relazione nel caso singolo: sicurezza puramente militare verso l’esterno; sicurezza della posizione dominante di una dinastia o di determinate classi all’interno; interesse alla conservazione e all’estensione  dell’unità statale della nazione, per se stessa o in funzione della  conservazione di determinati beni culturali oggettivi, tra loro  di nuovo assai diversi, che noi crediamo di rappresentare in  forma di un popolo fornito di unità statale; trasformazione del  carattere sociale dello stato nel senso di determinati ideali culturali, ancora assai diversi — e si potrebbe continuare a lungo se  si volesse anche soltanto accennare che cosa corre sotto l’etichetta di «interessi statali », a cui possiamo riferire «l’agricoltura». L'esempio qui prescelto, e ancor più la nostra sommaria  analisi, è grossolano e semplificato. Chi è privo di competenza  specifica potrebbe ancora analizzare in maniera simile (e più a  fondo) per esempio il concetto di « interessi di classe dei lavoratori », per vedere quale groviglio, pieno di contraddizioni, in  parte di interessi e di ideali dei lavoratori, in parte di ideali  in base a cui noi consideriamo i lavoratori, stia al di sotto di  esso. È impossibile superare lo slogan della lotta di interessi  mediante un’accentuazione puramente empiristica della loro  «relatività»: una chiara e precisa determinazione concettuale  dei diversi punti di vista possibili è la sola via che ci consente  di procedere oltre l'oscurità della frase. L’« argomento del libero commercio » come intuizione del mondo o come norma valida è una cosa ridicola, ma gravi danni ha recato alle nostre  discussioni di politica commerciale — e lo stesso vale quali che  siano gli ideali di politica commerciale che il singolo vuole  rappresentare — il fatto che noi abbiamo sottovalutato nel suo  valore euristico l'antica esperienza di vita dei grandi mercanti  depositata in tali formule tipico-ideali. Solo mediante formule  tipico-ideali diventano realmente espliciti nel loro proprio carattere i punti di vista considerati nel caso singolo, e ciò attraverso un’opera di confronto del dato empirico con il tipo ideale.  L'uso dei concetti collettivi indifferenziati, con cui lavora il  linguaggio quotidiano, è sempre il rivestimento di oscurità del  pensiero o della volontà, ed è abbastanza spesso lo strumento di  ingannevoli raggiri — in ogni caso è però un mezzo per ostacolare lo sviluppo di una corretta impostazione problematica. Noi siamo alla fine di queste considerazioni, che miravano  semplicemente a porre in luce la linea, spesso molto sottile,  che separa scienza e fede, e a cogliere il senso dell’aspirazione  alla conoscenza economico-sociale. La validità oggettiva di ogni  sapere empirico poggia sul fatto, e soltanto sul fatto che la  realtà data viene ordinata in base a categorie che sono soggetti  ve in un senso specifico, in quanto cioè rappresentano il presupposto della nostra conoscenza, e che sono vincolate al presupposto del vglore di quella verità che soltanto il sapere empirico  può darci. A colui che non consideri fornita di valore questa  verità — e la fede nel valore della verità scientifica è infatti  prodotto di determinate culture, e non già qualcosa di naturalmente dato — non abbiamo nulla da offrire con i mezzi della  nostra scienza. Invano egli andrà in cerca di un’altra verità che possa sostituire la scienza in ciò che essa soltanto può  fornire — concetti e giudizi che non sono la realtà empirica, e  che neppure la riproducono, ma che consentono di ordinarla  concettualmente in modo valido. Nel campo delle scienze sociali empiriche della cultura — l'abbiamo visto — la possibilità  di una conoscenza fornita di senso di ciò che per noi è essenziale nell'infinità dell’accadere appare vincolata al costante impiego di punti di vista di carattere specifico, i quali sono tutti, in  ultima analisi, orientati verso idee di valore che da parte loro  possono essere empiricamente constatate e vissute come elementi di ogni agire umano fornito di senso, ma zor già fondate  come valide in base al materiale empirico. L’«oggettività » conoscitiva delle scienze sociali dipende piuttosto dal fatto che il  dato empirico è sì orientato continuamente verso quelle idee di  valore che sole gli forniscono un valore conoscitivo, ed è compreso nel suo significato in base ad esse, ma tuttavia non diventa mai piedestallo per la prova, empiricamente impossibile,  della loro validità. E la fede, che sempre è in qualche forma  presente in tutti noi, nella validità sovra-empirica delle ultime e  supreme idee di valore a cui ancorare il senso della nostra  esistenza, non esclude ma reca con sé l’incessante mutabilità dei  punti di vista concreti da cui la realtà empirica deriva un significato: la vita nella sua realtà irrazionale e il suo contenuto di  possibili significati sono inesauribili, perciò la concreta configurazione della relazione di valore rimane fluida, sottoposta com'è al mutamento nell’oscuro avvenire della cultura umana. La  luce, che emana da quelle supreme idee di valore, cade sempre  su una parte finita, e continuamente mutevole, dell’immensa e  caotica corrente degli avvenimenti che fluisce nel tempo.  Tutto ciò non dovrebbe venir frainteso nel senso che il  compito proprio della scienza sociale debba essere una continua caccia affannosa di nuovi punti di vista e di nuove costruzioni concettuali. Al contrario, nulla dovrebbe qui venir affermato in maniera più risoluta del principio che il contributo  alla conoscenza del significato culturale di connessioni storiche  concrete è l’esclusivo fine ultimo a cui, accanto ad altri mezzi,  intende servire anche il lavoro di elaborazione e di critica concettuale. Vi sono anche nel nostro campo, per usare un’espressione di F. T. Vischer?, « cercatori di materiale » e « cercatori di  significato ». La gola bramosa di fatti dei primi può essere  saziata solo con materiale documentario, con tavole statistiche  e con inchieste, ma è insensibile alla raffinatezza del nuovo  pensiero. La golosità dei secondi altera il proprio gusto con  sempre nuovi distillati concettuali. Quella genuina capacità artistica, che per esempio tra gli storici Ranke possedeva in misura  così grandiosa, si manifesta di solito nella capacità di creare  qualcosa di nuovo mediante il riferimento di fatti z0t a punti  di vista anch'essi noti.  Ogni lavoro delle scienze della cultura in un’epoca di specializzazione, dopo essersi diretto in base a determinate impostazioni problematiche a considerare una determinata materia, e  dopo essersi creato i suoi princìpi metodici, riterrà l’analisi di  questo materiale come uno scopo a sé, senza controllare di  continuo in maniera consapevole il valore conoscitivo dei singoli fatti in riferimento alle ultime idee di valore, e anche senza  rimanere consapevole del proprio legame con queste. Ed è bene  che sia così. Ma a un certo momento muta il colore: il significato dei punti di vista impiegato in maniera non riflessa diventa incerto, e la strada si perde nel crepuscolo. La luce dei  7. Friedrich Theodor Vischer (1807-1887), autore di una Aesthetik oder Wissenschaft des Schònes in sci volumi (1846-58), dì ispirazione hegeliana, e di numerosi  saggi di estetica e di critica artistico-letteraria. grandi problemi culturali è di nuovo spostata. Allora anche la  scienza si appresta a mutare la propria impostazione e il proprio apparato concettuale, e a guardare nella corrente dell’accadere dall'alto del pensiero. Essa segue quegli astri che, essi  soli, possono mostrare senso e direzione al suo lavoro:  ma sorge il nuovo impeto  e mi slancio per bere alla sua luce eterna.  Il giorno innanzi a me, la notte alle mie spalle,  su di me il cielo, sotto di me le onde”.  8. GoetHne, Faust, vv. 1085-88 (tr. it, di F. Fortini). Per « valutazione » si debbono qui di seguito intendere, se  nient'altro è detto esplicitamente o risulta di per sé evidente, le valutazioni « pratiche » di un fenomeno influenzabile mediante il nostro agire, il quale viene considerato come riprovevole oppure come degno di approvazione *. Con il problema della  « libertà» di una determinata scienza da valutazioni di questa  specie, cioè con un problema concernente la validità e il senso  a. Questo saggio è la trasformazione di una comunicazione, diffusa  in forma manoscritta, preparata per una discussione interna nella riunione  del 1913 del « Verein fr Sozialpolitik ». È stato eliminato il più possibile  tutto ciò che interessava soltanto questo gruppo di studio, mentre sono  state ampliate le considerazioni metodologiche generali. Tra le altre comunicazioni presentate per tale discussione è stata pubblicata quella del  prof. E. Spranger!, nello « Schmollers Jahrhbuch fir Gesetzgebung, Verwaltung und Volkswirtschaft », XXXVIII, 1914, pp. 33-57. Io confesso  di aver trovato stranamente debole, perché non maturato chiaramente, questo lavoro di un filosofo che anch'io stimo assai; ma evito qui, anche già  per ragioni di spazio, ogni polemica con lui, limitandomi a esporre il mio  proprio punto di vista.  * Der Sinn der « Wertfreiheit» der soziologischen und dlkonom:schen Wissenschaften, « Logos », VII, 1917, pp. 40-88, raccolto nel volume Gesammelte Aufsitze  zur Wissenschafeslehre, Tiùbingen, ]. C. B. Mohr, 1922, 4* ed. (a cura di Johannes  Winckelmann) 1973, pp. 489-540 (Il significato della «avalutatività » delle scienze  sociologiche ed economiche, tr. it. di Pietro Rossi, in !/ metodo delle scienze storicosociali, Torino, Einaudi, 1958, pp. 309-72).  1. Eduard Spranger (1882-1963), filosofo e pedagogista tedesco, autore di Lebensformen (1914), di Kultur und Erzichung (1919), di Lebenserfahrung (1947) e di  numerose altre opere, fu allievo di Dilthey, del quale sviluppò soprattutto la teoria  delle scienze dello spirito.  628 MAX WEBER  di questo principio logico, non ha nulla a che fare la questione  del tutto diversa, di cui si deve ora preliminarmente discutere — la questione se si debba, oppure no, fare « professione » nel- l'insegnamento accademico a favore delle proprie valutazioni pra- tiche, di carattere etico oppure fondate in riferimento a ideali di cultura o, in altra maniera, su un'intuizione del mondo. Questa non può venir discussa scientificamente. Infatti essa stessa è una questione del tutto dipendente da valutazioni pratiche, e quindi non può essere decisa per tale via. Per citare soltanto i poli estre- mi, vengono sostenuti: 2) sia il punto di vista per cui la separazio- ne di argomenti puramente logici o puramente empirici dalle valutazioni pratiche, o etiche, oppure connesse a un'intuizione  del mondo è sì giustificata, ma tuttavia (e forse proprio perciò)  entrambe le categorie di problemi appartengono all'ambito della cattedra; b) sia il punto di vista per cui, anche se quella  separazione n0n può essere realizzata logicamente in maniera  coerente, si deve raccomandare di tener distanti il più possibile  dall’insegnamento accademico tutte le questioni pratiche di valore.  Questo secondo punto di vista mi sembra inammissibile. In  particolare la distinzione, non di rado fatta per le nostre discipline, delle valutazioni pratiche in valutazioni « politiche di  parte » e in valutazioni di altro carattere mi sembra semplicemente ineseguibile, e appropriata soltanto a nascondere la portata pratica della presa di posizione suggerita agli ascoltatori.  Inoltre, l'opinione che alla cattedra si addica la « mancanza di  passione », e che di conseguenza debbano essere evitati gli argomenti che comportano il pericolo di discussioni «eccitate »,  sarebbe — una volta ammesso in genere che sulla cattedra si  possano enunciare valutazioni — una convinzione da burocrati,  che ogni insegnante indipendente dovrebbe respingere. Di quegli studiosi che 70» hanno ritenuto di dover rinunciare a valutazioni pratiche nelle discussioni empiriche, proprio i più appassionati — come per esempio Treitschke, e a modo suo pure  Mommsen® — furono quelli maggiormente tollerabili. Poiché  2. Theodor Mommsen, filologo e storico tedesco, autore di una  fondamentale Romische Geschichte rimasta incompleta (1849-85), di Uber das rimische Miinzivesen (1850), degli Unteritalische Dialekte (1850), della Romische Chronoappunto mediante la forte accentuazione emotiva l’ascoltatore è almeno posto nella situazione di poter da parte sua stabilire la soggettività della valutazione del professore, nella sua  influenza su un'eventuale distorsione delle sue proposizioni di  fatto, e di fare quindi da sé ciò che rimane precluso al temperamento del professore. Può quindi restar affidata all’autentico  pathos quell’efficacia sulle anime della gioventù che — come io  presumo — i sostenitori delle valutazioni pratiche pronunciate  dalla cattedra desiderano assicurare ad esse, senza che l’ascoltatore venga traviato alla confusione reciproca di diverse sfere —  come necessariamente accade quando la determinazione di fatti  empirici e l'esortazione a una presa di posizione pratica di  fronte a grandi problemi della vita sono entrambe immerse  nella stessa fredda assenza di temperamento.  Il primo punto di vista mi sembra accettabile, e così lo è dal  punto di vista soggettivo dei suoi sostenitori, solo se l’insegnante  si pone come dovere incondizionato — in ogni caso particolare, e  fino al pericolo di rendere priva di attrattive la propria lezione —  quello di rendere inesorabilmente chiaro ai suoi ascoltatori e, ciò  che costituisce la cosa principale, a se stesso, che cosa delle sue  asserzioni è dedotto con un puro procedimento logico o è determinazione puramente empirica di fatti, e che cosa è invece  valutazione pratica. Far questo mi sembra, d’altra parte, addirittura un imperativo di onestà intellettuale, una volta ammessa  l’estraneità delle due sfere; in questo caso è assolutamente il  minimo che si possa chiedere.  Invece la questione se dalla cattedra si debba o no, in generale (pur con tale cautela), enunciare valutazioni pratiche, è da  parte sua una questione di politica universitaria pratica, e può  in ultima analisi essere decisa soltanto dal punto di vista di  quei compiti che l’individuo vorrebbe assegnare, in base alle  sue valutazioni, alle università. Chi per esse, e quindi per se  stesso, pretende ancor oggi in virtù della sua qualificazione di  professore universitario la funzione universale di formare gli  logie bis auf Casar (1858), delle Romische Forschungen (1864-79), del Rémisches  Staatsrecht (1871-88), del Romisches Strafrecht (1899) e di varic altre opere, editore  del Corpus Inscriptionum latinarum (a partire dal 1863), fu il maggiore storico dell'antichità dell'Ottocento. uomini e di propagare una convinzione politica, etica, artistica, culturale o di altra specie, si comporterà in maniera differente da colui che ritiene di dover affermare il fatto (e le sue  conseguenze) che le aule accademiche svolgono oggi la loro  azione realmente fornita di valore soltanto mediante l’insegnamento specifico da parte di individui specificamente qualificati, e che pertanto l’« onestà intellettuale » è la sola virtù particolare alla quale essi devono educare. Si può sostenere il primo  punto di vista sulla base di posizioni ultime altrettanto svariate che il secondo. Quest'ultimo in particolare (che io personalmente accolgo) si può derivarlo sia da una smisurata sia da  una molto modesta valutazione del significato della formazione  « specifica ». Lo si può sostenere, per esempio, non già perché  si desideri che tutti gli uomini nel loro senso intimo diventino  il più possibile degli «specialisti»; ma, proprio al contrario,  perché si desidera vedere le ultime e più personali decisioni di  vita, che un uomo deve prendere da sé, non confuse insieme  con l'insegnamento specifico — per quanto alto il suo significato possa essere valutato non solo per la disciplina generale del  pensiero, ma anche, indirettamente, per l’auto-disciplina e per  l'orientamento etico del giovane — e vedere altresì la loro  soluzione in base alla coscienza propria dell’ascoltatore r07 eliminata da una suggestione che si esercita dalla cattedra.   Il pregiudizio di Schmoller*, favorevole alla valutazione dalla cattedra, mi risulta personalmente del tutto comprensi bile  come l’eco di una grande epoca, che egli e i suoi amici contribuirono a creare. Ma ritengo che neppure a lui possa sfuggire  la circostanza che anzitutto la situazione di fatto è, per la  giovane generazione, mutata notevolmente in un punto importante. Quarant'anni or sono, nel mondo degli studiosi delle  nostre discipline era assai diffusa la fede che nel campo delle  valutazioni pratico-politiche una soltanto delle possibili prese  di posizione dovesse essere quella eticamente giusta (anche se  3. Gustav von Schmoller (1838-1917), cconomista e storico economico tedesco, autore  di Uber einige Grundfragen des Rechts und Volkswirtschaft (1875), delle Grundfragen  der Sozialpolitix und der Volkswirtschaftslehre (1897), del Grundriss der allgemeinen Volkswirtschaftslehre (1900), di Die soziale Frage (1918) e di varic altre opere, fu  il fondatore della cosiddetta « giovane scuola storica » di economia, c difese l'impo- stazione storica dell’econo mia politica nei confronti della teoria marginalistica. Schmoller ha certamente rappresentato questo punto di vista solo in misura assai limitata). Ma questo non è oggi più il caso, come si può facilmente rilevare, proprio tra i sostenitori delle valutazioni dalla cattedra. La legittimità delle valutazioni dalla cattedra non viene più oggi sostenuta in nome di un’aspi- razione etica, i cui postulati di giustizia (relativamente) sempli- ci in parte si configuravano, e in parte sembravano essere, sia nel modo della loro giustificazione sia nelle loro conseguenze, (relativamente) semplici e soprattutto (relativamente) imperso- nali, in quanto erano univocamente sopra-personali. Essa viene invece sostenuta (per effetto di uno sviluppo inevitabile) in no- me di un variopinto mazzo di « valutazioni culturali », cioè in verità di pretese soggettive alla cultura — o, in termini chiari,  del supposto «diritto della personalità » dell’insegnante. Ci si  può anche indignare di fronte a questo punto di vista, ma non  lo si potrà confutare — e proprio in quanto esso implica appunto una «valutazione pratica » — che di tutti i tipi di profezia  la profezia professorale, atteggiata in tal senso « personalmente », è la sola realmente insopportabile. È una situazione senza  confronto quella di numerosi profeti accreditati dallo stato, i  quali non predicano per le strade o nelle chiese o altrove sulla  pubblica piazza, oppure, privatamente, in conventicole personalmente scelte che si dichiarano tali, ma si permettono invece di  esprimere « in nome della scienza », nella quiete che si supponeoggettiva, ma che è poi incontrollabile, priva di discussione, e  soprattutto protetta da ogni contraddittorio, di un'aula accademica privilegiata dallo stato, decisioni dalla cattedra su questioni di intuizione del mondo. È un vecchio principio, decisamente sostenuto da Schmoller in una certa occasione, che gli argomenti enunciati nelle aule accademiche debbono rimanere sottratti alla discussione pubblica. Sebbene sia possibile opinare  che ciò abbia eventualmente, pure nel campo delle scienze empiriche, certi svantaggi, si assume ovviamente — e anch'io assumo — che la «lezione» debba essere appunto qualcosa di  diverso da una « conferenza », che il rigore impregiudicato, la  conformità ai fatti, la sobrietà dell’esposizione accademica possano essere danneggiati nel loro scopo pedagogico dall’introdursi della pubblicità, per esempio della pubblicità di tipo giornalistico. Solo che un siffatto privilegio di incontrollabilità sembra in  632 MAX WEBER  ogni caso appropriato soltanto all'ambito della pura qualificazione specifica del professore. Non c’è però nessuna qualifica  zione specifica per la profezia personale, e quindi non può  neppur esserci nessun privilegio. E in primo luogo essa non  può abusare della situazione di costrizione esistente per lo studente — il quale deve, per progredire nella vita, far ricorso a  determinate istituzioni accademiche e quindi ai rispettivi insegnanti — per istillargli insieme a ciò di cui egli ha bisogno,  ossia allo stimolo e alla disciplina della sua capacità di ragionare e del suo pensiero, e insieme a ciò determinate conoscenze,  anche — in forma protetta da ogni contraddizione — la propria cosiddetta « intuizione del mondo », per quanto interessante essa possa talvolta risultare (mentre sovente è abbastanza  indifferente).  Per la propaganda dei suoi ideali pratici il professore, al  pari di ogni altro individuo, ha a disposizione altre opportunità; e quando non le ha, può facilmente procurarsele nella forma più appropriata, come l’esperienza dimostra per ogni onesto tentativo. Ma il professore non deve avanzare la pretesa di  recare nel suo zaino, in quanto professore, il bastone di maresciallo dell’uomo di stato (o del riformatore culturale), come  egli fa quando utilizza la protezione della cattedra per esprimere il suo sentimento di uomo di stato (o di politico della  cultura). Nella stampa, nelle assemblee pubbliche, nelle riunioni, nei saggi, in ogni altra forma accessibile a ogni cittadino,  egli può (e deve) fare ciò che il suo dio o il suo demone gli  significa. Ma ciò che oggi lo studente dovrebbe soprattutto  imparare nell'aula accademica dal suo professore è la capacità:  1) di accontentarsi del semplice adempimento di un dato compito; 2) di riconoscere anzitutto i fatti, anche e in primo luogo  i fatti personalmente scomodi, e quindi di distinguere la loro  determinazione dalla presa di posizione valutativa; 3) di posporre la propria persona alle cose, e quindi di reprimere anzitutto  il bisogno dell’esibizione importuna del suo gusto personale e  degli altri suoi sentimenti. Mi sembra che questo sia oggi  molto più urgente di quarant'anni or sono, quando il problema non esisteva propriamente in questa forma. Nor è vero affatto — come è stato affermato — che la « personalità »  costituisce e debba costituire in questo senso un’« unità », e che  MAX WEBER 633  essa subisca per così dire detrimento quando non la si esibisce in  ogni occasione. In ogni lavoro professionale, infatti, il compito  come tale reclama il proprio diritto, e dev'essere adempiuto in  base alle sue leggi. In ogni lavoro professionale colui che vi si  dedica deve limitarsi a esso, ed escludere ciò che non appartiene rigorosamente al compito, ma soprattutto il proprio amore e  il proprio odio. E zor è vero che una forte personalità sia  documentata dal fatto che in ogni occasione indaga secondo  una «nota personale » ad essa soltanto propria. Si deve al  contrario auspicare che proprio la generazione che ora cresce si  abitui di nuovo soprattutto al pensiero che « essere una personalità » è qualcosa che non si può volere di proposito, e che c’è  soltanto una via per diventarlo (forse!) — la dedizione senza  riserve a un «compito », quale possa essere nel caso specifico  questo compito, e l’« esigenza quotidiana» che ne deriva. È  contro le regole dello stile mescolare nelle discussioni di fatto le faccende personali. E non compiere quel tipo specifico di  auto-limitazione, che esso richiede, significa spogliare il lavoro  « professionale » del solo significato che oggi gli è ancora realmente rimasto. Poco importa che il culto della personalità ora  di moda tenti di affermarsi sul trono, nell'ufficio pubblico o  sulla cattedra: esso conduce sì quasi sempre a vasti effetti  esteriori, ma interiormente è sempre misera cosa, e danneggia  ovunque il compito. Spero che non ci sia particolare bisogno  di dire che gli avversari, a cui queste analisi si riferiscono,  hanno certo ben poco da fare con questa specie di culto di ciò  ch e è « personale » in quanto « personale ». Essi in parte considerano il compito della cattedra in un'altra luce, in parte hanno ideali educativi che io rispetto, ma che non condivido. Però  si deve considerare non soltanto ciò che essi vogliono, ma anche il modo in cui ciò che essi legittimano con la propria  autorità opera su una generazione, la quale rivela già una  predisposizione sviluppata in maniera inevitabilmente molto  forte a ritenersi importante.   E infine richiede appena un accenno il fatto che parecchi  supposti azversari di valutazioni (politiche) dalla cattedra non  sono affatto giustificati quando, per screditare le discussioni di  politica culturale e sociale che si compiono pubblicamente al di  fuori dell’aula accademica, si richiamano al principio dell’esclusione dei « giudizi di valore », da loro ancora spesso gravemente frainteso. L'indubitabile esistenza di questi elementi falsamente «avalutativi», ma in realtà tendenziosi, e introdotti  nella nostra disciplina dall’ostinata e consapevole posizione partigiana di forti cerchie di interessati, ci consente di comprende- re con chiarezza come un ampio numero proprio di studiosi interiormente indipendenti possa attualmente continuare a soste- nere la valutazione dalla cattedra, poiché essi hanno troppo orgoglio per partecipare a quella pagliacciata di una « avalutati- vità » soltanto apparente. Personalmente io ritengo che, ciò no- nostante, debba essere fatto quello che (secondo la mia opinio- ne) è corretto, e che il peso delle valutazioni pratiche di uno studioso sarebbe soltanto accresciuto dalla sua capacità di limi- tarsi a sostenerle nelle occasioni opportune al di fuori dell’aula accademica, se si sa che egli possiede il rigore di fare, entro l’aula, soltanto ciò che è proprio del «suo ufficio ». Ma tutte queste sono appunto anch'esse questioni pratiche di valutazio- ne, e perciò non suscettibili di esser risolte. In ogni caso, però, l'affermazione di principio del diritto della valutazione dalla cattedra sarebbe coerente, a parer mio, solo se al tempo stesso si garantisse che tutte le valutazioni di ogni parte abbiano l'opportunità di farsi valere sulla cattedra *. Da noi, invece, con l’insistenza sul diritto alla valutazione dalla cattedra si sostiene di solito precisamente l'opposto di quel principio di un’equa rappresentanza di tutte le correnti (e ovvia- mente anche di quelle « più estreme »). Era per esempio natu- ralmente coerente, dal punto di vista personale di Schmoller, la tesi in base a cui egli spiegava che « marxisti e manchesteria- ni » sono privi di qualificazione per occupare cattedre universi- tarie, sebbene egli non abbia mai compiuto l’ingiustizia di a. A tale scopo non basta affatto il principio olandese dell'emancipa- zione anche della facoltà teologica dal controllo confessionale, congiunta alla libertà di fondare università a condizione che siano assicurati i mezzi finanziari, che siano osservate le prescrizioni per la qualificazione dei pro- fessori, e che sia garantito il diritto privato di istituire cattedre con il pa- tronato delle candidature da parte di coloro che le istituiscono. Infatti  ciò avvantaggia soltanto chi possiede denaro e le organizzazioni autoritarie che si trovano già in possesso del potere: soltanto gli ambienti clericali, come è noto, ne hanno fatto uso. ignorare i contributi scientifici che sono venuti da queste direzioni. Proprio su questi punti io personalmente non ho mai  potuto seguire il nostro venerato maestro. Non si può ovviamente insieme richiedere l’autorizzazione alla valutazione dalla cattedra e — allorché se ne devono trarre le conseguenze —  sostenere che l’università è un'istituzione statale per la formazione di funzionari « fedeli allo stato ». In tale maniera l’università diverrebbe non una «scuola specializzata » (ciò che a  molti docenti sembra degradante), bensì un seminario di preti  — solo senza poterle dare la dignità religiosa che questo possiede. Si è voluto dedurre certi limiti con un puro procedimento  «logico». Uno dei nostri più eminenti giuristi spiegava una  volta, mentre si pronunciava contro l'esclusione dei socialisti  dalle cattedre, che egli non avrebbe potuto accettare come insegnante di diritto soltanto un « anarchico », poiché questi nega  in genere la validità del diritto come tale — ed egli riteneva  ovviamente questo argomento come conclusivo. Io sono dell’opinione precisamente opposta. L’anarchico può sicuramente essere un buon conoscitore del diritto. E se egli è tale, allora  proprio quel punto di Archimede che si pone a/ di fuori delle  convinzioni e dei presupposti che ci appaiono così evidenti —  quel punto in cui lo colloca, quando è pura, la sua oggettiva  convinzione — può renderlo capace di riconoscere nelle concezioni fondamentali della dottrina giuridica in uso una problematica la quale sfugge a tutti coloro per cui esse sono troppo  ovvie. Infatti il dubbio più radicale è il padre della conoscenza. Il giurista ha tanto poco il compito di «dimostrare» il  valore di quei beni culturali, la cui esistenza è legata alla  permanenza del « diritto », quanto il medico ha il compito di  « provare » che l’allungamento della vita è degno di essere perseguito in ogni circostanza. L'uno e l'altro non ne sono neppure in grado, con i loro mezzi. Ma se si vuol fare della cattedra  la sede di discussioni pratiche di valore, allora sarebbe ovviamente un dovere quello di sottoporre proprio le questioni fondamentali di principio a una libertà di discussione, senza restrizione alcuna, da tutti i punti di vista. Può accadere questo? Ma  le più decisive e importanti questioni pratico-politiche di valore sono oggi escluse, per la natura della situazione politica,  dalle cattedre delle università tedesche. Per colui al quale gli interessi della nazione stanno al di sopra di tutte — senza  eccezione — le sue istituzioni concrete, è per esempio una  questione di importanza centrale stabilire se la concezione oggi predominante della posizione del monarca in Germania sia  conciliabile con gli interessi internazionali della nazione, e con  quei mezzi, cioè : Ta guerra e la diplomazia, con cui ad essi si  provvede. Non sono sempre i peggiori patrioti, e neppure gli  avversari della monarchia, che sono oggi inclini a rispondere  negativamente a questa questione, e a non credere più nella  possibilità di successi duraturi in quei due campi, fino al momento in cui non subentrino dei mutamenti molto profondi.  Eppure ognuno sa che queste questioni vitali della nazione  non possono venir discusse in piena libertà sulle cattedre tedesche ®. Ma in considerazione di questo fatto — che cioè proprio  le questioni decisive di valutazione pratico-politica sono in permanenza sottratte alla libera discussione dalle cattedre — mi  sembra confacente alla dignità dei rappresentanti della scienza  soltanto il tacere anche su quei problemi di valore, che si  consente loro gentilmente di trattare.  In nessun caso si deve però mescolare la questione se sia  lecito, o necessario, o si debba nell’insegnamento presentare  valutazioni pratiche — che è una questione non risolubile,  poiché condizionata da una valutazione — con la discussione  puramente /ogica della funzione che le valutazioni assolvono  per le discipline empiriche, ad esempio per la sociologia e per  l'economia politica. Altrimenti qui ne soffrirebbe la discussione  impregiudicata del problema propriamente logico — la cui decisione però non dà per quelle questioni alcuna indicazione, al  di fuori di una che è richiesta su base puramente logica, cioè  l'esigenza della chiarezza e della precisa distinzione delle sfere  problematiche eterogenee da parte dei docenti.  Io non vorrei discutere inoltre se la distinzione tra determinazione empirica e valutazione pratica sia « difficile ». Essa lo  è. Noi tutti, io che sostengo questa pretesa al pari di altri,  a. Questo non è affatto un caso particolare della Germania. In quasi  tutti i paesi vi sono, manifesti o celati, dei limiti di fatto; ed è diverso  soltanto il tipo dei problemi di valore che vengono esclusi. commettiamo sempre e ripetutamente degli errori in proposito. Ma per lo meno i sostenitori della cosiddetta economia politica etica potrebbero ben sapere che anche la legge morale è irrealiz- zabile pienamente, ma tuttavia vale in quanto è «imposta ». E un’analisi della coscienza potrebbe forse mostrare che la realiz- zazione del postulato è difficile soprattutto perché noi rinuncia- mo con riluttanza a inoltrarci sul terreno così interessante delle valutazioni con la « nota personale » che ci stimola. Ogni docente avrà naturalmente osservato che gli sguardi degli stu- denti si illuminano, e che i loro volti diventano più attenti, quando egli comincia a « dichiararsi » personalmente; e avrà osservato pure che la frequenza delle sue lezioni è influenzata in maniera molto vantaggiosa dall’aspettativa che egli lo fac- cia. Egli sa inoltre che la concorrenza tra le università per la frequenza mette sovente in condizioni di vantaggio, per le chiamate, un profeta per quanto piccolo, che riempia le aule, rispetto a uno studioso per quanto rilevante, che si dedichi  all'insegnamento oggettivo — s'intende quando la profezia non  si discosti troppo dalle valutazioni, politiche o convenzionali,  considerate normali. Soltanto il profeta falsamente alieno da  valutazioni, che esprime certi interessi materiali, ha nei suoi  riguardi una possibilità maggiore, in virtù dell'influenza di tali  interessi sui poteri politici. Io ritengo tutto questo indesiderabile, e quindi non voglio addentrarmi a discutere la tesi secondo  cui l’esclusione di valutazioni pratiche sarebbe cosa « meschina », e renderebbe « noiose » le lezioni. Non voglio pronunciarmi sulla questione se le lezioni su un campo specifico di esperienza debbano tendere soprattutto a essere « interessanti », ma  da parte mia temo che in ogni caso uno stimolo realizzato  mediante una nota personale troppo interessante tolga alla  lunga agli studenti il gusto per il semplice lavoro di ricerca.  Non voglio poi discutere, ma riconoscere esplicitamente  che, proprio sotto l'apparenza della soppressione di ogni valutazione pratica, si possono risuscitare suggestivamente, con  particolare forza, tali valutazioni, secondo il noto schema di  «far parlare i fatti». La migliore qualità della nostra eloquenza parlamentare ed elettorale opera appunto con questo  mezzo — e ciò è del tutto legittimo per i suoi scopi. Non  c'è però bisogno di sprecare nessuna parola per mostrare che questo procedimento sarebbe sulla cattedra, proprio dal  punto di vista della pretesa di quella distinzione, il più riprovevole di tutti gli abusi. E che un’apparenza, slealmente suscitata,  di realizzazione di un imperativo possa presentarsi come la sua  realtà, non significa una critica dell’imperativo stesso. Questo è  però senz’altro implicito: che, se l'insegnante non ritiene di  doversi precludere delle valutazioni pratiche, deve però assolutamente dichiararle come tali e agli studenti e 4 se stesso.   Ciò che si deve combattere nella maniera più decisa, infine,  è la convinzione non rara che la via dell’« oggettività » scientifica sia rappresentata dalla commisurazione reciproca delle diverse valutazioni, e da un compromesso « diplomatico » tra di  esse. La «linea di mezzo » non può essere dimostrata scientificamente, con i soli strumenti delle discipline empiriche, proprio allo stesso modo in cui non possono esserlo le valutazioni  «estreme ». Inoltre, nella sfera della valutazione essa sarebbe  normativamente ben poco univoca. Essa non appartiene alla  cattedra, bensì ai programmi politici, agli uffici e ai parlamenti. Le scienze, sia normative sia empiriche, possono rendere  agli uomini politici e ai partiti in lotta soltanto un servizio  inestimabile, e cioè dire loro: 1) quali siano le diverse prese di  posizione «ultime» concepibili di fronte a questo problema  pratico; 2) come stiano i fatti di cui essi devono tener conto  nella scelta tra queste prese di posizione. In questo modo noi  rimaniamo fedeli al nostro « compito ».  Un fraintendimento senza fine, ma soprattutto una disputa  terminologica, e quindi completamente sterile, si sono legati al  termine «giudizio di valore» — il che non ha ovviamente  contribuito per nulla alla questione. È del tutto fuori dubbio,  come è stato accennato, che queste discussioni riguardino, nelle  nostre discipline, valutazioni pratiche di fatti sociali, considerati come desiderabili o indesiderabili praticamente da un punto  di vista etico, o da qualche altro punto di vista culturale, o per  altri motivi. Che la scienza 1) miri a conseguire risultati « forniti di valore », cioè corretti dal punto di vista logico e in riferimento ai fatti; 2) e miri a conseguire risultati «forniti di  valore », cioè importanti nel senso dell'interesse scientifico; che  inoltre già la scelta della materia implichi una « valutazione »  — queste due cose sono state seriamente sollevate, nonostante quanto si è detto in proposito *, come « obiezioni ». Ed è pure  sempre risorto il fraintendimento, quasi incomprensibilmente  forte, secondo il quale la scienza empirica non può trattare  come oggetto le valutazioni « soggettive » degli uomini (e ciò  mentre la sociologia, e nell'ambito dell'economia politica tutta  la dottrina dell’utilità marginale, poggia sul presupposto contrario). Si tratta invece esclusivamente della pretesa, di per sé  perfino banale, che il ricercatore e l’espositore debbano incondizionatamente fezer distinte — poiché si tratta di problemi  eterogenei — la determinazione di fatti empirici (compreso l’atteggiamento « valutante », da lui constatato, degli uomini empirici su cui indaga) e la sua presa di posizione pratica, che  valuta questi fatti (comprese le « valutazioni » di uomini empirici che sono oggetto di indagine) come apprezzabili o non apprezzabili, e che in questo senso risulta «valutativa ». In una  trattazione per altri aspetti fornita di valore, uno scrittore si  esprime così: un ricercatore potrebbe assumere come « fatto »  anche la propria valutazione, e trarne le conseguenze. Ciò che  qui si intende è incontestabilmente esatto, ma l’espressione scelta è erronea. Si può naturalmente convenire, prima di una  discussione, che una determinata misura pratica — per esempio  che la copertura dei costi richiesti da un aumento dell’esercito  debba esser ricavata soltanto dalle tasche dei possidenti — sia  il « presupposto » della discussione stessa, e che si debbano quindi discutere semplicemente i mezzi per attuarla. Questo è anzi  sovente opportuno. Ma una siffatta intenzione pratica, presupposta di comune accordo, non la si chiama un «fatto », bensì  uno « scopo stabilito 4 priori». Che si tratti effettivamente anche di cose diverse, potrebbe risultare presto nella discussione  dei « mezzi» — salvo che lo « scopo presupposto » come indiscutibile fosse così concreto come accendersi un sigaro. In tal  caso anche i mezzi hanno solo di rado bisogno di discussione.  a. Debbo riferirmi a ciò che ho già detto nei miei saggi precedenti (la  correttezza talvolta insoddisfacente di formulazioni particolari, che in essi  possono riscontrarsi, non riguardano nessuno dei punti essenziali della  questione); per l'« inconciliabilità » di certe valutazioni ultime in un importante campo di problemi potrei rinviare a G. RabBRUCH, Einfiihrung  in die Rechtswissenschaft, Berlin, 22 ed. 1913. Io divergo da lui in alcuni  punti; ma essi non hanno importanza per il problema qui discusso. In quasi ogni caso di un proposito generalmente formulato, come in quello prima scelto come esempio, si farà invece espe- rienza che nella discussione dei mezzi non soltanto appare che i vari individui hanno inteso qualcosa di completamente diverso sotto tale scopo che si supponeva preciso, ma in particolare risulta che proprio il medesimo scopo è voluto su basi ultime differenti, e che ciò influenza la discussione sui mezzi. Ma lasciamo questo da parte. Infatti, che si possa partire da un determinato scopo, voluto in comune, e discutere soltanto i mezzi per conseguirlo, e che da ciò risulti allora una discussio- ne da condurre sul piano puramente empirico — non è ancora accaduto a nessuno di contestarlo. Tutta la discussione si aggira sulla scelta degli scopi (e non già dei « mezzi» in vista di uno scopo che è dato), cioè concerne appunto il senso in cui la valutazione, a cui l’individuo si richiama, non può essere assunta come « fatto », ma può diventare oggetto di una critica scientifica. Se non si è determinato questo, ogni altra discussione è infruttuosa.  Noi non discutiamo qui la questione della misura in cui  le valutazioni pratiche, in particolare quelle etiche, possono  da parte loro pretendere una dignità mormativa, rivestendo  quindi un carattere diverso da quello implicito in questioni  simili a quella introdotta da questo esempio, se le bionde  debbano essere preferite alle brune, o in altri giudizi soggettivi di gusto. Questi sono problemi della filosofia dei valori, non già della metodica delle discipline empiriche. Ciò  che concerne le ultime è soltanto che da un lato la validità di  un imperativo pratico in quanto norma, e dall’altro la verità di  una determinazione empirica di fatti appartengono a settori  problematici del tutto eterogenei, e che si danneggia la dignità  specifica di ognuno dei due quando si dimentica ciò, cercando  di unificare le due sfere. Questo è avvenuto in forte misura, a  mio parere, soprattutto da parte di Schmoller*. Proprio il rispetto per il nostro maestro mi proibisce di passare sopra questi  punti, in cui ritengo di non poter concordare con lui.  a. Nella voce «economia politica» (Volkswirtschaftslehre) nello  « Handwérterbuch der Staatswissenschaften », Berlin, 3? ed. 1911, vol.  VIII, pp. 426-501.  MAX WEBER 641  In primo luogo vorrei rivolgermi contro la tesi secondo cui,  per i sostenitori dell’« avalutatività », il mero fatto dell’instabilità storica e individuale delle prese di posizione valutative di  volta in volta in vigore varrebbe come prova del carattere necessariamente solo «soggettivo », per esempio, dell’etica. Anche  le determinazioni empiriche di fatti sono spesso soggette a disputa; e sul fatto che un tale debba essere ritenuto un furfante   uò sovente esserci una concordanza sostanzialmente più generale di quella relativa (proprio presso gli specialisti) alla interpretazione di un'iscrizione mutilata. L'assunzione, effettuata da  Schmoller, di una crescente unanimità convenzionale di tutte le  confessioni e di tutti gli uomini intorno ai punti principali  delle valutazioni pratiche sta in aspra antitesi con la mia impressione opposta. Ma questo mi sembra senza rilievo per la  questione. Ciò che in ogni caso è da discutere, infatti, è che ci  si possa arrestare scientificamente di fronte a una qualsiasi  evidenza di fatto, convenzionalmente stabilita, di certe prese di  posizione pratiche, per quanto diffuse esse siano. La funzione  specifica della scienza mi sembra, proprio all’opposto, quella  di trasformare  in problema ciò che è convenzionalmente evidente. E proprio questo hanno fatto, al tempo loro, Schmoller e i  suoi amici. Che si possa poi indagare, e in certe circostanze  valutare altamente, l’efficacia causale della esistenza di fatto di  certe convinzioni etiche o religiose sulla vita economica — da  ciò non deriva affatto che quelle convinzioni, che hanno forse  causalmente operato molto, debbano perciò anche essere condivise o anche soltanto ritenute « fornite di valore»; così come,  al contrario, mediante l’affermazione del valore di un fenomeno etico o religioso non si è detto proprio niente sulla possibili  tà di qualificare anche le inconsuete conseguenze, che la sua  realizzazione ha avuto o avrebbe, con il medesimo predicato  positivo di valore. Su queste questioni non si arriva a niente  attraverso determinazioni di fatto; esse vengono giudicate dall'individuo in maniera assai diversa, a seconda delle sue proprie  valutazioni religiose, o pratiche di altro genere. Tutto ciò non  riguarda la questione che viene discussa. E invece io mi oppongo energicamente alla convinzione che una scienza «realisti  ca» dei fenomeni etici, vale a dire l’indicazione delle influenze di fatto che le convinzioni etiche, prevalenti in un certo gruppo di uomini, hanno subito dalle altre condizioni di  vita e a loro volta hanno esercitato su di esse, possa da parte  sua dare luogo a un’«etica », la quale possa asserire qualcosa  intorno a ciò che deve valere. Ciò avviene tanto poco quanto  un'esposizione « realistica » delle concezioni astronomiche, per  esempio, dei Cinesi — che mostrasse in base a quali motivi  pratici e in qual modo facciano dell’astronomia, a quali risultati e perché essa pervenga — potrebbe avere per scopo di dimostrare la correttezza di questa astronomia cinese; e quanto la  constatazione che gli agrimensori romani oppure i banchieri  fiorentini (gli ultimi proprio nelle partizioni di grandi patrimoni) pervennero sovente con i loro metodi a risultati inconciliabili con la trigonometria o con la tavola pitagorica, potrebbe  porre in discussione la validità di queste. Mediante l'indagine  psicologico-empirica e storica di un determinato punto di vista  valutativo, considerato nel suo condizionamento individuale,  sociale, storico, non si perviene mai a nient'altro che a questo  — a spiegarlo comprendendolo. E ciò non è da poco. Esso è da  desiderarsi non soltanto per la conseguenza concomitante personale (ma non scientifica), che si può più facilmente « rendere  giustizia » a chi, realmente o apparentemente, la pensa in maniera diversa. Ma è anche scientificamente molto importante:  1) per lo scopo di una considerazione causale empirica dell'agire umano, per imparare cioè a conoscere i suoi reali motivi  ultimi; 2) per determinare, allorché si discute con qualcuno che  diverge (realmente o apparentemente) nella loro valutazione, i  punti di vista valutativi delle due parti. Infatti il senso vero e  proprio di una discussione di valore è questo — di comprendere ciò che l'avversario (o anche, ciò che colui che parla) realmente intende, cioè il valore a cui ognuna delle due parti tiene  in realtà, e non solo in apparenza, rendendo così possibile in  genere una presa di posizione di fronte a questo valore. Ben  lungi dal ritenere che dal punto di vista dell'esigenza dell’« avalutatività » delle analisi empiriche siano sterili, o prive di senso, le discussioni intorno alle valutazioni, proprio la conoscenza  di questo loro senso risulta il presupposto di ogni utile considerazione del genere. Esse presuppongono semplicemente la comprensione della possibilità di valutazioni ultime inconciliabilmente divergenti in linea di principio. Poiché « tutto comprendere »  non significa anche « tutto perdonare », né la mera comprensio- ne del punto di vista altrui conduce, di per sé, alla sua approva- zione. Fssa conduce almeno altrettanto facilmente, e sovente con maggiore probabilità, a conoscere perché e in che cosa n0n si può concordare. Questa conoscenza è appunto una conoscen- za di verità, e 44 essa servono le « discussioni valutative ». Ciò che su tale strada non si può certo conseguire — perché sta nella direzione precisamente opposta — è una qualsiasi etica normativa, o in genere la capacità vincolante di qualche « impe- rativo ». Ognuno sa piuttosto che un fine siffatto viene reso più difficile dall’azione « relativizzante », almeno in apparenza, di tali discussioni. Con questo non si dice naturalmente che si debba, per tale motivo, evitarle. Proprio al contrario. Una con- vinzione «etica» che si lascia scalzare dalla « comprensione » psicologica di valutazioni divergenti è stata infatti fornita di valore né più né meno delle opinioni religiose che vengono  distrutte dalla conoscenza scientifica — come talvolta accade.  Quando infine Schmoller sostiene che i propugnatori dell’« avalutatività » delle discipline empiriche possono riconoscere soltanto verità etiche «formali» (è ovvio che egli le intende nel  senso della « critica della ragione pratica »), ci si deve addentrare — sebbene il problema non rientri senz’altro nella nostra  questione — in alcune considerazioni.  In primo luogo si deve respingere l’identificazione — implicita nella concezione di Schmoller — degli imperativi etici con  i « valori culturali », anche con i più alti. Infatti può esserci un  punto di vista per il quale i valori culturali sono « imposti »,  anche nella misura in cui risultano in inevitabile e inconciliabile conflitto con ogni etica. E viceversa è possibile, senza interna  contraddizione, un’etica la quale rifiuti tutti i valori culturali.  In ogni caso le due sfere di valori non sono identiche. E così  pure è un grave (per quanto diffuso) fraintendimento ritenere  che proposizioni « formali», come quelle dell’etica kantiana,  non contengano alcuna indicazione di contenuto. La possibilità  di un'etica normativa non viene in alcun modo posta in questione per il fatto che vi sono problemi di carattere pratico per i  quali essa non può fornire, di per sé, prescrizioni univoche (e a  tale ambito appartengono in modo specifico determinati problemi istituzionali, cioè appunto i problemi « politico-sociali »), e inoltre che l’etica non è la sola cosa che «valga» nel mondo,  ma che accanto ad essa sussistono altre sfere di valori — i cui  valori può, in certe circostanze, realizzare soltanto chi si assuma una «colpa» etica. In ciò rientra specialmente la sfera  dell’agire politico. Sarebbe da deboli, a parer mio, voler negare  le tensioni nei confronti della sfera etica, che essa appunto  contiene. Ma ciò non è affatto proprio soltanto di essa, come fa  credere la contrapposizione in uso di «morale privata» e di  « morale politica ». — Indaghiamo ora alcuni « limiti » dell’etica, a cui si è prima fatto riferimento.  Le conseguenze del postulato della « giustizia » rientrano  nell’ambito delle questioni che non possono venir decise univocamente da ressuna etica. Se per esempio — il che corrisponderebbe maggiormente alle concezioni espresse a suo tempo da  Schmoller — si debba anche molto a colui che fa molto, o  viceversa si possa chiedere molto a chi molto può fare; se  quindi in nome della giustizia (eliminando allora altri punti  di vista — come quello dell’« incentivo » necessario) si debbano concedere al grande talento anche grandi possibilità, o se si  debba invece (come riteneva Babeuf*) pareggiare l'ingiustizia  dell’ineguale distribuzione dei doni spirituali, preoccupandoci  con rigore che il talento, il cui semplice possesso già fornisce  un sentimento di prestigio che rende felice l’individuo, non  possa utilizzare ancora per sé le sue migliori possibilità nel  mondo — tutto questo non può venir risolto in base a premesse  «etiche ». A questo tipo appartiene però la problematica etica  della maggior parte delle questioni di politica sociale.  Ma anche nel campo dell’agire personale vi sono problemi  fondamentali, di carattere specificamente etico, che l’etica non  può risolvere in base ai propri presupposti. Tra di essi rientra in primo luogo la questione fondamentale se il valore  in sé dell’agire etico — il «puro volere» o l’«intenzione »,  come si vuole esprimerlo — debba bastare alla sua giustificazio4. Frangois-Noel Babeuf, noto come Gracchus Babeuf, esponente  dell'ala estremistica della Rivoluzione francese, pubblicò il giornale « Le tribun du  peuple » e diresse la Congiura degli cguali: la sua teoria politica, di ispirazione  rousscauiana, è fondata sulla rivendicazione dell'eguaglianza non soltanto politica,  ma anche economica.  MAX WEBER 645  ne, secondo la massima «il Cristiano agisce bene e rimette a  Dio la conseguenza » (come i moralisti cristiani l’hanno formulata), oppure se si debba prendere in considerazione la responsabilità per le conseguenze dell’agire, previste come possibili 0 come probabili, così come esse sono condizionate dal suo inserimento nel mondo eticamente irrazionale. Nel campo sociale  ogni posizione politica radicalmente rivoluzionaria, soprattutto  il cosiddetto « sindacalismo », procede dal primo postulato, e  ogni « politica realistica» procede invece dal secondo. Entrambe si richiamano a massime etiche; ma queste massime stanno  tra loro in un eterno contrasto, il quale non può essere affatto  risolto senz’altro con i mezzi di un'etica che abbia il proprio  fondamento soltanto in se stessa.   Queste due massime etiche sono massime di carattere rigorosamente « formale », in ciò simili ai noti assiomi della Critica  della ragione pratica. Di questi ultimi si è molto spesso creduto, per questo loro carattere, che non contenessero indicazioni di  contenuto per la valutazione dell’agire. Ma ciò non è per niente esatto, come già si è accennato. Prendiamo di proposito un  esempio il più possibile distante dalla « politica », il quale può  forse chiarire che senso abbia propriamente questo carattere  «solo formale», di cui si è a lungo parlato, di tale etica.  Supponiamo che un uomo dica, riferendosi alla sua relazione  erotica con una donna, « all’inizio il nostro rapporto era soltanto una passione, ora esso costituisce un valore » — la temperata  oggettività dell’etica kantiana esprimerebbe così la prima metà  di questa proposizione: «all’inizio noi eravamo entrambi, l’uno per l’altro, soltanto mezzi», e considererebbe quindi  l'intera proposizione come un caso particolare di quel noto  principio che stranamente si è volentieri ritenuto un’espressione, condizionata solo storicamente, dell’« individualismo », mentre in verità esso rappresenta una formulazione quanto mai  geniale di un'infinita molteplicità di situazioni etiche, che si  debbono appunto intendere correttamente. Nella sua enunciazione negativa, ed escludendo qualsiasi asserzione su quello  che deve essere il contrapposto positivo della considerazione  dell’altro «soltanto come mezzo », che eticamente deve venir  rifiutata, essa comporta evidentemente: 1) il riconoscimento di  sfere di valori autonome, al di fuori della sfera etica; 2) la delimitazione della sfera etica nei loro confronti; 3) la determi- nazione infine del fatto che — e del senso in cui — si possono tuttavia attribuire all’agire al servizio di valori extra-etici delle differenze di dignità etica. Di fatto quelle sfere, che permetto- no o prescrivono la considerazione dell’altro «soltanto come mezzo », sono eterogenee rispetto all’etica. L'analisi non può qui essere ulteriormente proseguita: in ogni caso però risulta che il carattere « formale » anche di quella proposizione etica così astratta non rimane indifferente rispetto al contenuto dell’a- gire. Ma il problema si complica ancora. Quel predicato negati- vo, che è stato espresso con le parole « soltanto una passione », può da un determinato punto di vista venir considerato come un insulto a ciò che di interiormente più puro e più proprio vi è nella vita, dell'unica via o almeno della via primaria per uscire al di fuori dei meccanismi «di valore» impersonali e sovra-personali, e perciò ostili alla vita, per uscire dall’incatenamento alla pietra senza vita dell’esistenza quotidiana e dalle  pretese di un’irrealtà «imposta ». Si può ad ogni modo pensare  a una concezione di questo punto di vista che — sebbene abbia  a disdegno il termine «valore » per designare la concretezza  dell’Erleben — costituirebbe appunto una sfera la quale, respingendo come cosa estranea e ostile ogni santità e ogni bontà,  ogni legalità etica o estetica, ogni significatività della cultura o  valutazione della personalità, pretenderebbe tuttavia, e anzi proprio a causa di ciò, la sua propria dignità «immanente» nel  senso estremo della parola. Quale che possa essere la nostra  presa di posizione nei confronti di tale pretesa, in ogni caso  essa non può venir dimostrata o «confutata » con i mezzi di  nessuna « scienza ».  Ogni considerazione empirica di questi argomenti condurrebbe, come ha osservato il vecchio Stuart Mill”, al riconoscimento di un politeismo assoluto come la sola forma di metafisica ad essi adeguata. Una considerazione non più empirica, ma  interpretativa, cioè un’autentica filosofia dei valori, non potreb5. Weber si riferisce qui alla formulazione dei saggi postumi Nature, the Utility of Religion, and Theism, London, 1874, pp. 130-31 (ma cfr. anche p. 150). Per  questo riferimento si veda il breve articolo Zwisclien zwei Gesetze, pubblicato nella  rivista « Die Frau » del febbraio 1916 (ora raccolto in Gesammelte politische Schriften, 2° cd. Tiibingen, 1958, pp. 139-42).  MAX WEBER 647  be poi dimenticare, procedendo innanzi, che uno schema concettuale dei « valori », per quanto bene ordinato, sarebbe incapace di rendere giustizia proprio al punto decisivo della questione. Tra i valori, cioè, si tratta ovunque e sempre, in ultima  analisi, non già di semplici alternative, ma di una lotta mortale  senza possibilità di conciliazione, come tra « dio» e il « demonio ». Tra di essi non è possibile nessuna relativizzazione e  nessun compromesso. Beninteso, non è possibile in base al loro  senso. Poiché, come ognuno ha provato nella vita, ve ne sono  sempre di fatto, e quindi secondo l’apparenza esterna, continuamente. In quasi ognuna delle prese di posizione importanti di  uomini reali, infatti, le sfere di valori si incrociano e si intrecciano. La superficialità della « vita quotidiana », in questo senso più appropriato del termine, consiste appunto nel fatto che  l’uomo il quale vive entro di essa non diventa consapevole, e  neppure vuole diventarlo, di questa mescolanza di valori mortalmente nemici, condizionata in parte psicologicamente e in  parte pragmaticamente; ed egli si sottrae piuttosto alla scelta  tra «dio» e il «demonio», evitando di decidere quale dei  valori in collisione sia dominato dall’uno e quale invece dall’altro. Il frutto dell’albero della conoscenza, frutto inevitabile anche se molesto per la comodità umana, non consiste in nient’altro che nel dover riconoscere quell’antitesi e nel dover quindi  considerare che ogni singola azione importante, e soprattutto la  vita nel suo insieme — se essa deve non già scorrere via come  un evento naturale, bensì essere condotta consapevolmente —  rappresenta una catena di decisioni ultime, mediante cui l’anima (come per Platone °) sceglie il suo proprio destino — e cioè  il senso del suo agire e del suo essere. Non a caso il fraintendimento più grossolano, al quale vanno sempre incontro, di quando in quando, le intenzioni di coloro che sostengono la tesi  della collisione tra i valori, è perciò costituito dall'interpretazione di questo punto di vista come «relativismo » — cioè come  un'intuizione della vita la quale poggia invece proprio sulla  visione, radicalmente opposta, del rapporto reciproco delle sfere  di valore, e può essere realizzata (in forma coerente) soltanto  6. Weber allude qui al mito di Er, esposto nel libro X della Repubblica. sul terreno di una metafisica configurata in maniera molto  particolare (cioè di una metafisica « organica »).  Ritornando al nostro caso specifico, mi sembra, senza possibilità di dubbio, che nel settore delle valutazioni pratico-politiche (particolarmente anche di politica economica e sociale), da  cui devono essere tratte le direttive per un agire fornito di  valore, le sole cose che una disciplina empirica può porre in  luce con i suoi mezzi sono le seguenti: 1) i mezzi indispensabili  e 2) le inevitabili conseguenze; 3) la concorrenza reciproca, in  tale maniera condizionata, di più valutazioni possibili, considerate nelle loro conseguenze pratiche. Le discipline filosofiche  possono in proposito, con i loro mezzi concettuali, determinare  il «senso» delle valutazioni, cioè la loro struttura dotata di  senso e le loro conseguenze dotate di senso, indicando quindi il  loro «luogo» entro la totalità dei valori « ultimi» che sono  possibili in generale e delimitando le loro sfere di validità  significative. Ma già questioni molto semplici — per esempio  in quale misura uno scopo debba sanzionare i mezzi che sono  per esso indispensabili; oppure in quale misura debbano venir  messe in conto le conseguenze non volute; oppure come si  debbano appianare i conflitti tra più scopi in concreto contrastanti, che sono oggetto di volontà o di dovere — sono in tutto  e per tutto questioni di scelta o di compromesso. Non c'è  nessun procedimento scientifico (razionale o empirico) di qualsiasi specie, che potrebbe qui fornire una decisione. E meno  ancora la rostra scienza, che è rigorosamente empirica, può  pretendere di risparmiare all'individuo questa scelta; per cui  essa non deve neppure suscitare l'apparenza di poterlo fare.    Occorre infine osservare esplicitamente che il riconoscimento di questa situazione è, per le nostre discipline, del tutto  indipendente dalla presa di posizione di fronte alle considerazioni di teoria dei valori prima accennate con molta brevità.  Non c’è infatti nessun punto di vista logicamente sostenibile  in base a cui esso possa venir rifiutato, se si prescinde da una gerarchia di valori univocamente prescritta mediante dogmi ecclesiastici. Debbo aspettarmi che si trovi realmente della gen- te capace di affermare la zon-diversità di senso dei due gruppi di questioni seguenti — da un lato questioni come: un fatto concreto avviene così o altrimenti? perché la situazione concreta in esame si è configurata così e non altrimenti? a una data  situazione, secondo una regola dell’accadere di fatto, segue di  solito un’altra, e con quale grado di probabilità? — e dall'altro  questioni come: che cosa si deve praticamente fare in una  concreta situazione? da quali punti di vista quella situazione  può apparire praticamente auspicabile oppure no? vi sono proposizioni (assiomi) formulabili, in qualsiasi maniera, generalmente, a cui si possano ridurre questi punti di vista? Debbo aspettarmi che. sia sostenuta l'identità della questione concernente  la direzione in cui una situazione di fatto, concretamente data  (o in generale una situazione di un determinato tipo, in qualche modo accessibile), si svilupperà con probabilità — e con  quale misura di probabilità (cioè è solita svilupparsi tipicamente) — e dell’altra questione concernente invece il dovere di  contribuire affinché una determinata situazione si sviluppi in  una determinata direzione — sia essa di per sé probabile, oppure opposta o un’altra qualsiasi? Debbo aspettarmi infine che  sia sostenuta l’identità della questione concernente l’opinione  che determinate persone in certe circostanze concrete, o un  numero indeterminato di persone nelle medesime circostanze,  si formeranno con probabilità (o anche con sicurezza) su un  problema di qualche specie, e dall’altra parte della questione  concernente la correttezza di questa opinione, che si forma con  probabilità o con sicurezza? Debbo cioè aspettarmi che vi sia  della gente la quale affermi che le questioni di ognuna di tali  coppie antitetiche abbiano anche soltanto qualcosa a che fare  l'una con l’altra, e che esse realmente — come ogni tanto si  ripete — non possano «essere separate l’una dall'altra »? e che  quest’ultima asserzione 207 sia in contraddizione con le esigenze del pensiero scientifico? Se qualcuno, il quale pur concede  l'assoluta eterogeneità delle due specie di questioni, tuttavia  pretende di esprimersi nel medesimo libro, nella medesima pagina, magari in una proposizione principale o secondaria di  una medesima unità sintattica, da un lato sull’uno e dall’altro  sull’altro di quei due problemi tra loro eterogenei — questo è affar suo. Ciò che da lui si esige è semplicemente che egli non illuda senza volerlo (o anche per volontaria mordacità) i suoi 650 MAX WEBER lettori sull’assoluta eterogeneità dei problemi. Personalmente re- sto del parere che nessun mezzo al mondo è troppo « pedante- sco» per essere impiegato allo scopo di evitare confusioni.  Il senso delle discussioni intorno a valutazioni pratiche (de- gli stessi partecipanti alla discussione) può essere dato soltanto dalle operazioni seguenti: a) L'elaborazione degli assiomi di valore ultimi, internamen- te « coerenti », da cui procedono le opinioni tra loro contrappo- ste. Abbastanza spesso ci si inganna non soltanto sugli assiomi  dell'avversario, ma anche sui propri. Questo procedimento costituisce un'operazione che, nella sua essenza, parte dalla valutazione particolare e dalla sua analisi dotata di senso, per procedere sempre più in alto verso prese di posizione valutative più  fondamentali. Esso non opera con gli strumenti di una discipli- na empirica e non apporta nessuna conoscenza di fatti. Esso «vale » nello stesso modo in cui vale la logica. b) La deduzione delle «conseguenze » connesse alla presa  di posizione valutativa, che derivano da determinati assiomi di  valore ultimi, quando essi, ed essi soltanto, sono posti a fondamento della valutazione pratica di un certo stato di cose. Essa  è puramente dotata di senso in riferimento all’argomentazione logica, ma d’altra parte è vincolata a osservazioni empiriche per quanto riguarda la casistica più esauriente possibile di quelle si- tuazioni empiriche che possono venir prese in considerazione, in generale, in una valutazione pratica. c) La determinazione delle conseguenze di fatto che produce la realizzazione pratica di una data presa di posizione valuta- tiva nei confronti di un certo problema: 1) a causa del legame con determinati mezzi indispen- sabili; 2) a causa dell’inevitabilità di determinate conseguenze concomitanti, non direttamente volute. Questa determinazione puramente empirica può avere come  risultato, tra l’altro: 1) l'assoluta impossibilità di qualsiasi realizzazione, per quanto solo molto approssimativa, del postulato di valore, in quanto non è possibile escogitare nessuna via per realizzarlo; la maggiore o minore improbabilità di una sua realizzazione compiuta, o anche soltanto approssimativa, o per gli  stessi motivi oppure perché esiste la probabilità che si verifichi- no conseguenze concomitanti non volute, che sono tali da ren- derne direttamente o indirettamente illusoria la realizzazione; 3) la necessità di accettare tali mezzi o tali conseguenze  concomitanti, che il sostenitore del postulato pratico in questione non aveva considerato, di modo che la sua decisione valutati- va tra scopo, mezzo e conseguenza diventi per lui stesso un nuovo problema, e perda la sua forza coercitiva sugli altri. d) Infine possono presentarsi nuovi assiomi di valore, e di  conseguenza nuovi postulati, che il sostenitore di un certo postulato pratico non ha osservato, e di fronte ai quali non ha  quindi preso posizione, sebbene la realizzazione del proprio  postulato entri in collisione con essi, sia in linea di principio  oppure per le conseguenze pratiche che ne derivano, cioè per il loro senso o praticamente. Nell’un caso (contrasto di principio) si tratta, nella discussione ulteriore, di problemi del tipo 4); nell’altro (contrasto di conseguenze) si tratta di problemi del tipo c). Ben lungi dall'essere « prive di senso », le discussioni valutative di questo tipo hanno, se sono intese correttamente nel loro scopo — €, a mio parere, allora soltanto — un'importanza molto rilevante. L'utilità di una discussione intorno a valutazioni pratiche,  condotta al luogo giusto e nel giusto senso, non è però affatto  esaurita con tali diretti « risultati », che essa può recare a maturazione. Se è condotta correttamente, essa feconda nel modo più duraturo il lavoro empirico, in quanto gli fornisce le impo- stazioni problematiche di cui ha bisogno per la propria ricerca. I problemi delle discipline empiriche debbono certo venir  risoli, da parte loro, in maniera « avalutativa ». Essi non sono  « problemi di valore». Ma tuttavia stanno, nell’ambito delle  nostre discipline, sotto l'influenza della relazione della realtà  «ai» valori. Sul significato dell’espressione «relazione di valo- re» debbo riferirmi alle mie precedenti formulazioni, e soprat- tutto alle ben note opere di Heinrich Rickert. Sarebbe impossi- bile riprendere qui ancora una volta tali questioni. È sufficiente quindi ricordare che quell’espressione — « relazione di valore» — rappresenta semplicemente l’interpretazione filosofica di quello specifico « interesse » scientifico che dirige la selezione e la formulazione dell'oggetto di un'indagine empirica. Nell'ambito dell’indagine empirica, questa circostanza puramente logica non legittima in ogni caso nessuna « valutazione  pratica ». In concordanza con l’esperienza storica essa pone  però in rilievo che sono gli interessi culturali, e perciò gli  interessi di valore, a indicare la direzione anche al lavoro delle  scienze empiriche. È chiaro che questi interessi di valore possono svilupparsi nella loro casistica mediante le discussioni valutative. E queste possono diminuire di molto, o almeno rendere  più facile, al ricercatore che lavora scientificamente, e soprattutto allo storico, il compito dell’«interpretazione di valore» —  che per lui è un aspetto preliminare così importante del suo  lavoro propriamente empirico. Infatti non soltanto la distinzione tra valutazioni e relazioni ai valori, ma anche quella tra  valutazione e interpretazione di valore (cioè lo sviluppo delle  prese di posizione dotate di senso, che sono possibili di fronte a un dato fenomeno), sovente non è compiuta chiaramente, e  quindi ne derivano oscurità per la determinazione dell’essenza logica della storia: mi sia consentito di rinviare a questo propo- sito alle osservazioni già fatte altrove* (senza ritenerle del re- sto in alcun modo conclusive). Invece di inoltrarmi ancora una volta nella discussione di  questi fondamentali problemi metodologici, vorrei prendere in esame alcuni punti particolari, che sono praticamente importan- ti per le nostre discipline. È ancora sempre diffusa la fede che si debba, o che sia  necessario, oppure che si possa derivare delle indicazioni per  le valutazioni pratiche da « tendenze di sviluppo ». Solo che da  tali «tendenze di sviluppo », per quanto univoche esse siano, si possono trarre imperativi univoci dell’agire soltanto rispetto ai mezzi che si prevedono più appropriati per date prese di posi- a. Nel saggio Kritische Studien auf dem Gebiet der Rulturwissen- schaftlichen Logik, « Archiv fir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik », XXII, 1906, pp. 168-69 [ora in Gesammelte Aufsitze zur Wissenschaftslehre. zione, non però rispetto a quelle prese di posizione. Certamen- te qui il concetto di « mezzo» è il più ampio che si possa  concepire. Chi per esempio considerasse gli interessi di potenza  dello stato come un fine ultimo, dovrebbe in rapporto alla  situazione data considerare una costituzione assolutistica oppure una costituzione democratico-radicale come il mezzo (relativamente) più adatto; e sarebbe estremamente ridicolo prendere  un qualsiasi mutamento nella valutazione di questo apparato  statale come mezzo per un mutamento nella presa di posizione  «ultima ». È però inoltre evidente, come già si è detto, che al  singolo sì presenta sempre nuovamente il problema se egli  debba lasciar cadere la speranza nella realizzabilità delle sue  valutazioni pratiche di fronte alla conoscenza del sussistere di  una tendenza univoca di sviluppo, la quale condiziona lo scopo  cui egli aspira all'impiego di muovi mezzi che, per motivi etici  o di altra specie, gli appaiono eventualmente dubbi, o all’accettazione di conseguenze concomitanti da lui aborrite, oppure  la rende così improbabile da fare apparire il suo lavoro, misurato in base alla possibilità di successo, una sterile « donchisciotteria ». Ma la conoscenza di tali « tendenze di sviluppo », più o  meno difficilmente mutabili, non occupa affatto una posizione  particolare. Ogri nuovo fatto singolo può parimenti avere per  effetto di configurare in maniera nuova l'equilibrio tra lo scopo  e i mezzi indispensabili, o tra il fine voluto e la conseguenza  concomitante inevitabile. Se ciò debba accadere — e quali conclusioni pratiche se ne possano trarre — è una questione che  non rientra in una scienza empirica, e anzi, come si è detto, in  nessuna scienza in genere, di qualsiasi specie. Si può per esempio dimostrare tangibilmente al sindacalista convinto che il suo  agire non solo è socialmente « inutile », cioè non promette alcuna conseguenza per il mutamento della situazione esterna di  classe del proletariato, ma la peggiora inevitabilmente provocando disposizioni «reazionarie» — con questo però non gli si  dimostra nulle, se egli è realmente fedele alle conseguenze  ultime della sua convinzione. E ciò non perché egli sia un  insensato, ma perché può aver «ragione» dal suo punto di  vista — come dovremo discutere. In complesso gli uomini inclinano abbastanza fortemente ad adattarsi interiormente al successo, 0 a ciò che promette di volta in volta il successo, e non soltanto — come è evidente — nei mezzi o nella misura in cui  si sforzano di realizzare i loro ideali ultimi, ma anche nella  rinuncia a questi medesimi. In Germania si crede di poter  fregiare questo comportamento con il nome di « politica realisti- ca ». In ogni caso non si riesce a comprendere perché proprio i rappresentanti di una disciplina empirica debbano sentire il bisogno di appoggiarlo, fornendo la propria approvazione alla «tendenza di sviluppo » di volta in volta prevalente e trasfor- mando l’« adattamento » a questa tendenza da problema di  valutazione vitimo, da risolversi caso per caso da parte della  coscienza dell’individuo, in un principio che si suppone coperto  dall’autorità di una «scienza ».  È esatto — se correttamente inteso — che una politica la  quale rechi al successo è sempre l’« arte del possibile ». Ma  non meno esatto è che il possibile molto sovente è stato raggiunto solo in quanto si è mirato all’impossibile che sta al di  là di esso. Infine, non è stata la sola etica realmente coerente  dell’« adattamento » al possibile, cioè la morale burocratica del  Confucianesimo, che ha prodotto le qualità specifiche della nostra cultura — qualità che probabilmente noi tutti, nonostante  ogni altra differenza, stimiamo (soggettivamente) in maniera più o meno positiva. Da parte mia, almeno, non vorrei dissua- dere sistematicamente la nazione, proprio in nome della scien- za, dal ritenere che — come prima si è posto in luce — accanto al « valore di successo » di un’azione stia anche il suo « valore di intenzione ». In ogni caso, però, il disconoscimento di questa circostanza danneggia la comprensione dei fatti reali. Poiché, per rimanere all'esempio prima addotto del sindacalista, è an- che logicamente un’assurdità commisurare a scopo di «critica » un atteggiamento, che — se coerente — deve avere come regola il suo « valore di intenzione », semplicemente con il suo « valo- re di successo ». Il sindacalista realmente coerente vuole sempli- cemente mantenere in se stesso, e per quanto è possibile suscita- re in altri, una determinata coscienza, che gli appare dotata di valore e sacra. Le sue azioni esterne, proprio quelle che in partenza sono condannate anche a un'assoluta mancanza di successo, hanno in ultima analisi lo scopo di dargli, di fronte al proprio foro, la certezza che tale coscienza è pu- ra, che essa ha cioè la forza di « comprovarsi » in azioni e non MAX WEBER 655 è solo una mera smargiassata. Per tale scopo (forse) c’è soltan- to il mezzo costituito da tali azioni. Per il resto — se egli è coerente — il suo regno, come il regno di ogni etica dell’inten- zione, non è di questo mondo. « Scientificamente » si può solo determinare che questo modo di concepire i propri ideali è il solo internamente conseguente, e non è confutabile mediante « fatti » esterni. Io ritengo che con questo sia stato reso, sia ai sostenitori sia agli avversari del sindacalismo, un servizio — e precisamente quel servizio che essi a buon diritto pretendono dalla scienza. Mi sembra invece che nulla si possa ottenere, nel senso di zessuza scienza di qualsiasi tipo, a trattare con locuzioni del tipo « da un lato — dall’altro» di sette motivi «a favore» e di sei «contro» un determinato fenomeno (per esempio uno sciopero generale), e a discuterlo secondo il modo della vecchia mentalità giuridica oppure dei moderni memoria- li cinesi. Con quella riduzione del punto di vista sindacalistico alla sua forma il più possibile razionale e internamente coeren- te, e con la determinazione delle sue condizioni empiriche di nascita, delle sue possibilità e delle sue conseguenze pratiche conformi all’esperienza, è in ogni caso esaurito il compito della scienza avalutativa nei suoi confronti. Se si debba essere o non essere un sindacalista, ciò non si può mai provare senza far ricorso a premesse metafisiche ben determinate, le quali non sono dimostrabili, e in questo caso non lo sono certo median- te qualsiasi scienza, quale che essa sia. Così pure, che un  ufficiale preferisca saltare in aria con il suo fortino anziché  arrendersi, può nel caso specifico risultare assolutamente inutile sotto ogni riguardo, se commisurato alla conseguenza. Ma  non sarebbe indifferente che sia esistita o no l'intenzione che  lo ha spinto a ciò, senza indagarne l'utilità. Essa risulta « priva  di senso » tanto poco quanto lo è quella del sindacalista coerente. Quando il professore, dalla comoda altezza della cattedra,  vuole raccomandare un catonismo di tale specie, ciò non apparirebbe certo particolarmente appropriato. Ma non è neppure  indicato che egli apprezzi l’opposto, facendo un dovere dell’adattarsi degli ideali alle possibilità offerte appunto dalle tendenze di sviluppo attuali e dalle attuali situazioni.  È stato qui innanzi ripetutamente usato il termine « adattamento », che nel caso specifico risulta, data la formulazione scelta, abbastanza privo di fraintendimento. Ma si deve rilevare  che di per sé ha un duplice significato: da un lato designa  l'adattamento dei mezzi di una presa di posizione ultima a date  situazioni (« politica realistica» in senso stretto) — dall’altro  designa l'adattamento nella scelta delle medesime prese di posizione ultime, che sono in genere possibili, alle possibilità momentanee che una di esse realmente o apparentemente possiede  (ed è quel tipo di « politica realistica » con cui la nostra politica, da ventisette anni in qua, è pervenuta a così curiosi successi). Ma con ciò il numero dei suoi possibili significati non è  ancora esaurito. Sarebbe perciò piuttosto opportuno, a mio parere, in ogni discussione dei nostri problemi, sia di questioni di  « valutazione » che di altre, togliere di mezzo questo concetto  di cui si è tanto abusato. Infatti esso è sempre del tutto frainteso come espressione di un argomento scientifico, nella cui forma si presenta ognora rinnovato sia a scopo di « spiegazione »  (per esempio della sussistenza empirica di certe intuizioni etiche presso certi gruppi umani in determinate epoche) sia a  scopo di « valutazione » (per esempio di quelle intuizioni etiche, esistenti di fatto, in quanto oggettivamente « adattate » e  perciò oggettivamente « corrette » e fornite di valore). In nessuno di questi sensi esso serve però a qualcosa, perché sempre ha  bisogno a sua volta di interpretazione. Esso ha la sua patria  nella biologia. Se fosse realmente preso in senso biologico, per  designare la possibilità data dalle circostanze, e relativamente  determinabile, che un gruppo umano possiede di mantenere la  propria eredità psico-fisica mediante una grossa riproduzione,  allora gli strati popolari economicamente meglio provvisti, e  capaci di regolare più razionalmente la loro vita, sarebbero i  «meno adattati », secondo le note esperienze fornite dalla statistica delle nascite. « Adattati » alle condizioni dell'ambiente della zona di Salt Lake erano, in senso biologico — ma anche in  ognuno dei numerosi altri significati puramente empirici — i  pochi Indiani che vi vivevano prima dell’arrivo dei Mormoni,  e lo erano nella stessa maniera, altrettanto bene e altrettanto  male, le più tarde e numerose popolazioni mormoniche. In  virtù di questo concetto noi non perveniamo affatto a una migliore comprensione sul piano empirico, ma ci immaginiamo facilmente di farlo. E soltanto nel caso di due organizzazioni per il resto assolutamente equivalenti sotto 0gr: rispetto — que- sto può venir stabilito fin d'ora — si può dire che una concreta  differenza particolare è capace di condizionare una situazione  empiricamente « più opportuna » per la permanenza di una di  esse, e quindi in tal senso « più adattata » alle condizioni date.  Per ciò che riguarda la valutazione si può tanto essere dell’opinione che il maggior numero e le prestazioni e qualità materiali e di altra specie, che i Mormoni portarono sul posto e vi  svilupparono, siano una prova della loro superiorità sugli Indiani, quanto essere invece del parere di colui che aborre incondizionatamente i mezzi e le conseguenze concomitanti dell’etica  dei Mormoni, la quale è almeno corresponsabile di quelle azioni, e quindi può pienamente preferire la romantica esistenza  degli Indiani nella prateria — senza che nessuna scienza al mondo, di qualsiasi specie, possa pretendere di dissuaderlo. Qui si tratta già, infatti, dell’irresolubile equilibrio tra scopo, mezzo e conseguenza concomitante. Soltanto quando la questione concerne i mezzi appropriati  per un dato scopo, stabilito in maniera assolutamente univoca,  essa può realmente venir decisa sul terreno empirico. La proposizione « x è il solo mezzo per y » è infatti la semplice inversione della proposizione « a x segue y ». Però il concetto di « adattazione » (e tutti gli altri affini) non fornisce in nessun caso —  e questa è la cosa principale — la minima informazione sulle  fondamentali valutazioni ultime, e anzi semplicemente le cela;  lo stesso fa, per esempio, il concetto in fondo confuso, e di  recente prediletto, di «economia umana». « Adattato» nel  campo della «cultura» è, secondo il modo in cui il concetto  assume un significato, tutto o nulla. Poiché non si può eliminare la lotta da ogni vita culturale. Si possono mutare i suoi  mezzi, il suo oggetto, anche la sua direzione fondamentale e i  suoi portatori; ma non si può metterla da parte. Essa può  costituire, anziché un conflitto esterno di uomini ostili per cose esterne, un conflitto interno di uomini che si amano in vista  di beni interiori, e quindi non una costrizione esterna ma  un'oppressione interna (appunto anche in forma di dedizione  erotica o caritativa), o rappresentare infine un conflitto interiore dell’anima dell'individuo con se stessa — ma sempre c’è, e  sovente con conseguenze tanto maggiori quanto meno viene notata, cioè quanto più il suo corso assume la forma di un'ottusa o di una comoda indifferenza o anche di un’auto-illusione,  oppure si compie mediante la «selezione ». La « pace» non  significa nient'altro che un differimento delle forme di lotta o  degli avversari o degli oggetti di lotta, o infine delle possibilità  di selezione. Se e quando spostamenti del genere passino la  prova di fronte a un giudizio valutativo, etico o di altra specie, non può ovviamente essere stabilito in termini generali.  Soltanto una cosa è fuori dubbio: che ogni ordinamento, di  qualsiasi tipo, di relazioni sociali, se si vuole valutarlo, deve  in ultima analisi essere sempre esaminato in riferimento al #po  umano a cui esso, attraverso una selezione (di motivi) esterna o  interna, dà le migliori possibilità per diventare predominante.  Altrimenti l'indagine empirica non è realmente esaustiva, e  neppure c’è la base di fatto necessaria per una valutazione, sia  essa consapevolmente soggettiva oppure pretenda invece una  validità oggettiva. Questa circostanza sia ricordata almeno a  quei numerosi colleghi i quali credono che si possa operare,  nella determinazione delle linee di sviluppo sociali, con un  preciso concetto di « progresso ». Ciò ci conduce dinanzi al  compito di un'analisi più ravvicinata di questo importante concetto.  Si può naturalmente usare il concetto di « progresso » in  maniera assolutamente avalutativa, se lo si identifica con il  « progredire » di un qualsiasi concreto processo di sviluppo,  considerato isolatamente. Ma nella maggior parte dei casi la  cosa è sostanzialmente più complicata. Noi prendiamo qui in  esame alcuni casi in cui, in campi eterogenei, la congiunzione con questioni di valore è la più intrinseca possibile. Nel campo dei contenuti irrazionali, sentimentali, affettivi del nostro. atteggiamento psichico, l'accrescimento quantitativo e la moltiplicazione qualitativa — che nella maggior parte dei casi vi è legata — delle possibili forme di atteggiamento possono venir designati in modo avalutativo come progresso della  « differenziazione » psichica. Ma ad esso si unisce ben presto il  concetto di valore di un accrescimento della « portata » o della  «capacità » di un’« anima » concreta oppure — il che già rappresenta una costruzione tutt'altro che univoca — di un’« epoca» (come avviene nel libro di Simmel, Schopenhauer und  Nietzsche”).  È fuori di dubbio, naturalmente, che quel « progredire della differenziazione » esiste di fatto — con la riserva che non  sempre esso c'è là dove si crede alla sua presenza. L'attenzione  per le sfumature del sentimento, che viene crescendo nel periodo attuale — sia come conseguenza dell’aumentata razionalizzazione e intellettualizzazione di tutti i settori della vita, sia  come conseguenza dell’aumentata importanza soggettiva che  l'individuo attribuisce alle proprie manifestazioni di vita (per  gli altri spesso estremamente indifferenti) — facilmente illude sull’esistenza di una crescente differenziazione. Essa può  rappresentare questa differenziazione, oppure promuoverla; ma  l'apparenza inganna con facilità, e io confesso che vorrei stimare abbastanza alta la portata di tale illusione. Ad ogni modo il  fatto esiste. Designare una differenziazione progressiva come  « progresso » è di per sé una questione di opportunità terminologica. Ma che essa debba venir valutata come « progresso »  nel senso di una crescente « ricchezza interiore », non può in  ogni caso essere deciso da nessuna disciplina empirica. Infatti  queste discipline non hanno competenza per stabilire se le nuove possibilità di sentimento che si vengono sviluppando, o che  sono tratte alla coscienza, con le nuove «tensioni» e i nuovi  « problemi » che in certe circostanze comportano, debbano venir riconosciute come « valori ». Chi però non voglia assumere  una posizione valutativa di fronte al fatto della differenziazione in quanto tale — cosa che certamente nessuna disciplina empirica può proibire ad alcuno — e cerchi un punto di vista  adatto allo scopo, viene di conseguenza condotto, anche da  alcuni fenomeni contemporanei, di fronte alla questione del  prezzo che questo processo, in quanto è diventato qualcosa di più  di un'illusione intellettualistica, è «costato ». Egli non potrà ad esempio dimenticare che la caccia all’Erlebzis — questo  valore alla moda peculiare della Germania contemporanea —  può essere in misura assai forte il prodotto di una diminuzione della forza di sostenere interiormente la « vita quotidiana», e che quella pubblicità, che l’individuo sempre più sente  7. Schopenhauer und Nietzsche, ein Vortragszyklus, Leipzig. il bisogno di dare al suo Erleden, potrebbe pure essere valutata  come una perdita nel sentimento della distanza, e quindi dello  stile e della dignità. In ogni caso, nel campo delle valutazioni  dell’Erleben soggettivo il « progresso della differenziazione » è  identico con l’aumento del « valore » soltanto nel senso intellettualistico di un accrescimento dell’Erleden consapevole, oppure  dell’accrescimento della capacità di espressione e della comunicabilità.  Le cose sono alquanto più complicate a proposito dell’applicabilità del concetto di « progresso » (nel senso di valutazione)  al campo dell’arse. Essa viene talvolta contestata con violenza;  e, a seconda del senso in cui viene intesa, a ragione o a torto.  Non c'è mai stata nessuna considerazione valutativa dell’arte  che potesse procedere con l’antitesi esclusiva di « arte» e « nonarte », facendo a meno delle distinzioni tra tentativo e riuscita,  tra il valore delle diverse riuscite, tra la riuscita compiuta e  quella che risulta infelice in qualche punto specifico, oppure in  parecchi e anche importanti, ma tuttavia non è senz'altro priva  di valore — e ciò non soltanto per una concreta volontà di  creazione artistica, ma anche per la volontà artistica di epoche  intere. Il concetto di un « progresso », applicato a queste situazioni, appare banale, a causa del suo impiego in riferimento a  puri problemi tecnici. Ma esso non risulta di per sé privo di  senso. Assai differente appare il problema per la storia dell’arte e per la sociologia dell’arte, condotte in modo puramente empirico. Per la prima non c’è naturalmente un « progresso» dell’arte nel senso della valutazione estetica di opere  d’arte come opere riuscite in maniera dotata di senso; poiché  questa valutazione non può venir compiuta con i mezzi della  considerazione empirica, e si pone completamente al di là del  suo lavoro. Invece proprio essa può impiegare un concetto di  « progresso.» puramente tecnico, razionale e quindi univoco,  del quale si deve adesso parlare — e la cui utilità per la storia  empirica dell’arte deriva dal fatto che questo si limita esclusivamente alla determinazione dei 72e2z1 tecnici che una determinata volontà artistica usa per una data intenzione. L'importanza  per la storia dell’arte di queste analisi così rigorosamente definite è facilmente sottovalutata, oppure fraintesa nel senso di identificarle con una supposta « conoscenza », del tutto subalterna e  MAX WEBER 661  non genuina, che pretende di aver «inteso » un artista quando  ha sollevato la tenda del suo laboratorio ed esaminato i suoi  mezzi esteriori di rappresentazione, cioè la sua « maniera ».  Soltanto il progresso « tecnico », preso nel suo significato corretto, è di competenza della storia dell’arte, poiché proprio esso  — e la sua influenza sulla volontà artistica — costituisce ciò  che di empiricamente determinabile vi è nel corso dello sviluppo dell’arte, senza implicare il ricorso a una valutazione estetica. Prendiamo alcuni esempi che possano illustrare i reali significati dell'elemento «tecnico », nel senso genuino del termine,  per la storia artistica.  L'origine del gotico fu in prima linea il risultato della soluzione tecnica di un problema di copertura degli spazi, in sé di  pura tecnica architettonica — la questione dell’ottimo, dal punto di vista tecnico, per l’edificazione di contrafforti di sostegno  di una volta a croce, congiunta ad alcuni altri particolari che  non occorre qui discutere. Vennero risolti problemi architettonici molto concreti; e la conoscenza che in tale maniera diventava possibile una determinata maniera di copertura di spazi non  quadrati suscitò l’entusiasmo appassionato di quegli architetti,  per adesso e forse per sempre ignoti, ai quali è dovuto lo  sviluppo del nuovo stile di costruzione. Il loro razionalismo  tecnico condusse il nuovo principio a tutte le sue conseguenze.  La loro volontà artistica lo utilizzò come possibilità di risolvere compiti fino allora impensati, e spinse quindi la plastica  sulla via di un nuovo «senso del corpo», suscitato in primo  luogo dalle nuove elaborazioni di spazio e di piani dell’architettura, Che questa trasformazione, di carattere in primo luogo  tecnico, si sia incontrata con certi contenuti di sentimento,  condizionati in forte misura sociologicamente o dalla storia religiosa, fornì gli elementi essenziali di quel materiale di problemi con i quali lavorò la creazione artistica dell’epoca del gotico. Allorché la considerazione storica e sociologica dell’arte ha  posto in luce queste condizioni oggettive, tecniche o sociali o  psicologiche, del nuovo stile, essa esaurisce il suo compito puramente empirico. Ma essa non « valuta » con ciò lo stile gotico  in rapporto a quello romanico oppure a quello rinascimentale,  anch'esso fortemente orientato in vista del problema tecnico  della cupola, e insieme in vista dei mutamenti dell'ambito di  662 MAX WEBER  lavoro dell’architettura, condizionati pure sociologicamente; né  « valuta » esteticamente, finché rimane una storia empirica dell’arte, la singola costruzione. Anzi, l’interesse per le opere d’arte e le sue particolari qualità esteticamente rilevanti, quindi il suo oggetto, è ad essa eteronomo, cioè dato 4 priori in base al valore estetico che, con i suoi mezzi, essa non può affatto stabilire. Lo stesso avviene per esempio nel campo della storia della musica. Dal punto di vista dell’inzeresse dell’uomo europeo moderno («riferimento di valore »!) il suo problema centrale è  questo: perché la musica armonica si sia sviluppata dalla polifonia, affermatasi quasi ovunque su base popolare, soltanto in  Europa e in un determinato spazio di tempo, mentre altrove la  razionalizzazione della musica si è incamminata per un’altra  strada, il più delle volte precisamente opposta, e cioè per la  strada di uno sviluppo degli intervalli mediante la divisione  delle distanze (per lo più una quarta) anziché mediante la  divisione armonica (una quinta). Al centro si colloca il problema dell'origine della terza nella sua interpretazione armonica,  cioè come elemento della triade, e inoltre il problema del cromatismo armonico e ancora della ritmica musicale moderna  (della cadenza lenta e veloce) — invece della cadenza puramente metronomica — vale a dire di una ritmica senza la quale è  impensabile la moderna musica strumentale. Si tratta qui di  nuovo prevalentemente di problemi di « progresso » razionale,  e puramente tecnico. Che per esempio il cromatismo fosse noto  molto prima della musica armonica, come mezzo di rappresentazione della « passione », risulta infatti dall'antica musica cromatica (presumibilmente mono-armonica) per gli appassionati  Sé,uror del frammento di Euripide di recente scoperto. Non  nella volontà espressiva artistica, bensì nei mezzi espressivi tecnici stava la differenza di questa musica antica nei confronti di  quella cromatica che i grandi innovatori musicali del Rinascimento crearono in un’impetuosa aspirazione razionale alla scoperta — per poter appunto dare forma musicalmente alla « passione ». La novità tecnica era però che questo cromatismo diventava quello dei nostri intervalli armonici, e non già quello  delle distanze melodiche di semitono, o di quarto di tono,  degli Elleni. E che potesse diventare tale, ha a sua volta il  fondamento in precedenti soluzioni di problemi tecnico-RAZIONALI; cioè soprattutto nella creazione della notazione razionale  (senza la quale nessuna moderna composizione sarebbe nemmeno concepibile), e già prima nella creazione di determinati  strumenti che costrinsero all’interpretazione armonica di intervalli musicali, nonché, in particolare, del canto polifonico razionale. Un contributo molto importante a queste scoperte lo aveva però fornito, nel primo Medioevo, il monachesimo dell’area  missionaria nord-occidentale, il quale, senza presagire la posteriore portata della propria opera, razionalizzò per i suoi scopi  la polifonia popolare, invece di organizzare la propria musica  — come fece il monachesimo bizantino — sul modello del  uerorotég tratto dagli Elleni. Le caratteristiche concrete, condizionate sociologicamente e dalla storia religiosa, della situazione esterna e interna della chiesa cristiana in Occidente consentirono qui che da un razionalismo proprio soltanto del monachesimo occidentale sorgesse questa problematica musicale, che  era nella sua essenza di carattere «tecnico». Dall'altra parte  l'adozione e la razionalizzazione della misura di danza, che è  la fonte delle forme musicali sfocianti nella sonata, furono condizionate da certe forme di vita della società rinascimentale.  Infine lo sviluppo del pianoforte, cioè di uno dei più importanti portatori tecnici dello sviluppo musicale moderno e della  sua diffusione nella borghesia, si radicò nello specifico carattere intra-domestico della cultura nord-europea. Sono tutti « progressi » dei mezzi tecnici della musica, che hanno così fortemente determinato la sua storia. La storia empirica della musica potrà e dovrà appunto seguire queste componenti dello sviluppo storico, senza avanzare, da parte sua, una valutazione  estetica delle opere musicali. Il « progresso » tecnico si è molto  spesso compiuto in prodotti che, valutati esteticamente, appaiono del tutto insufficienti. Ma la direzione di interesse, cioè  l'oggetto da spiegare storicamente, è data alla storia della musica eteronomamente, mediante la sua significatività estetica.   Per il campo dello sviluppo della pittura, la nobile modestia  dell’impostazione problematica di Die k/assische Kunst di Wélfflin® costituisce un esempio eminente delle fecondità di un  lavoro empirico.  8. Heinrich von Woélfflin, storico dell’arte tedesco, autore dei Prole664 MAX WEBER  La piena separazione della sfera dei valori dalla realtà empirica emerge poi in maniera caratteristica dal fatto che l’impiego di una determinata zecnica, per quanto « progressiva », non  implica nulla sul valore estetico dell’opera d'arte. Opere d'arte  create con la tecnica più « primitiva» — per esempio quadri  privi di ogni nozione di prospettiva — possono risultare esteticamente di eguale dignità di quelle più perfette prodotte mediante la tecnica razionale, se si presuppone che la volontà  artistica si sia limitata a quelle formulazioni che sono adeguate  a tale tecnica « primitiva ». La creazione di nuovi mezzi tecnici  rappresenta soltanto una crescente differenziazione, e dà soltanto la possibilità di una crescente « ricchezza » dell’arte, nel  senso di un incremento di valore. Di fatto essa ha avuto, non  di rado, l’effetto opposto di un «impoverimento» del senso  della forma. Ma per la considerazione empirico-causale è proprio il mutamento della «tecnica» (nel senso più alto del  termine) che costituisce l'elemento di sviluppo più importante  dell’arte, che si può determinare in linea generale.   Non soltanto gli storici dell’arte, ma gli storici in genere  replicano di solito che essi non possono rinunciare al diritto di  una valutazione politica o culturale o etica o estetica, né sono  in grado di compiere, senza di essa, il proprio lavoro. La  metodologia non ha né la forza né il proposito di prescrivere a  chicchessia ciò che egli intende offrire in un’opera letteraria.  Essa si prende, da parte sua, soltanto il diritto di stabilire che  certi problemi hanno un senso tra loro eterogeneo, che il loro  scambio reciproco conduce la discussione a uno sterile gioco di  contrapposizioni, e che quindi una discussione condotta con i  mezzi della scienza empirica o della logica per gli uni è fornita di senso, e per gli altri è invece impossibile. Forse si può  qui aggiungere, senza per ora inoltrarci nella sua dimostrazione, un'osservazione generale: un'analisi attenta di lavori storici mostra con facilità che lo sforzo di seguire la catena causale, storico-empirica, viene quasi senza eccezione interrotto, a  danno dei risultati scientifici, allorché lo storico comincia a  gomena zu einer Psycologie der Architektur (1866), di Renaissance und Barock (1888),  di Die Klassische Kunst (1899), dei Kunstgeschichtliche Grundbegrifle (1915), dei Gedanken zur Kunstgeschichte (1940) e di varie altre opere.  MAX WEBER 665  «valutare ». Egli incorre allora nel pericolo, per esempio, di  « spiegare » come conseguenza di una « mancanza » o di una  « caduta » ciò che forse era effetto di ideali a lui eterogenei del  soggetto che agisce, e pecca quindi di fronte al suo compito più  proprio — quello dell’« intendere ». Il fraintendimento si spiega per due ragioni. In primo luogo per il fatto che, restando  all’arte, la realtà artistica è accessibile, oltre che alla pura considerazione valutativa estetica da un lato e dall’altro alla pura  considerazione empirica, mirante alla determinazione delle cause, anche a una terza specie di considerazione — all’interpretazione di valore (sulla cui essenza non occorre qui ripetere ciò  che si è detto in altra sede). Sul suo valore specifico, e sulla  sua indispensabilità per ogni storico, non sussiste alcun dubbio;  e così pure non c’è alcun dubbio che il consueto lettore di  studi di storia dell’arte si aspetta di trovare anche, e per l’appunto, questa trattazione. Soltanto che essa, presa nella sua  struttura logica, non è identica con la considerazione empirica.  Questo però si deve riconoscere: chi vuole svolgere indagini  di storia dell’arte, per quanto puramente empiriche, deve possedere la capacità di «intendere» la produzione artistica — e questo non è assolutamente concepibile senza quella capacità di giudizio estetico, cioè senza la capacità di valutazione. La stessa cosa vale pure per lo storico della politica o della lettera- tura o della religione o della filosofia. Ma ovviamente ciò non implica nient'altro sull’essenza logica del lavoro storico.  Di ciò si dirà oltre. Qui si doveva discutere semplicemente  la questione del senso in cui, a/ di fuori della valutazione  estetica, si può parlare di « progresso » in sede di storia dell’arte. È risultato che questo concetto acquista un senso tecnico e  razionale che designa i mezzi necessari per un certo proposito  artistico, e può diventare come tale significativo per la storia  dell’arte empiricamente condotta. È ora tempo di indagare questo concetto di progresso « razionale » nel suo campo più proprio, considerandolo nel suo carattere empirico o non-empirico.  Poiché quanto si è detto è soltanto un caso particolare di una  circostanza molto universale.  La maniera in cui Windelband ha delimitato il tema della  sua Geschichte der Philosophie — «il processo mediante cui  l'umanità europea ha formulato la sua concezione del mondo in concetti scientifici» — conduce nella sua pragmatica, a mio  parere assai brillante, all'impiego di uno specifico concetto di  « progresso » che deriva da questo riferimento a valori culturali  (e di cui egli trae le conseguenze); e questo concetto da un  lato risulta nient’affatto evidente per ogni « storia » della filosofia, dall'altro, se si assume un corrispondente riferimento a  valori culturali, vale non soltanto per una storia della filosofia,  e neppure soltanto per la storia di qualsiasi altra disciplina, ma  — diversamente da quanto Windelband sostiene! — per ogni  « storia» in generale. Ciononostante, qui di seguito dobbiamo  parlare soltanto di quei concetti razionali di « progresso », che  occupano un posto nelle nostre discipline sociologiche ed economiche. La nostra vita sociale ed economica, europeo-americana,  risulta « razionalizzata » in un modo e in un senso specifico.  Spiegare questa razionalizzazione, e elaborare i concetti ad essa corrispondenti, è quindi uno dei principali compiti delle  nostre discipline. Perciò ricompare il problema toccato nell’esempio della storia dell’arte, ma lasciato in quella sede aperto:  che cosa vuol dire propriamente la designazione di un processo  come « progresso razionale » ?  Si ripete anche qui la combinazione di « progresso » nel  triplice senso: 1) di un mero « progredire » nella differenziazione; 2) di una progressiva razionalità tecnica dei mezzi; 3) di un  incremento di valore. In primo luogo un comportamento soggettivamente « razionale » non è identico con un agire razionalmente « corretto », che impieghi cioè oggettivamente mezzi corretti, in conformità alla conoscenza scientifica. Ma esso di per  sé significa soltanto che il proposito soggettivo è diretto a un  orientamento ordinato in vista di mezzi ritenuti corretti per un  dato scopo. Una progressiva razionalizzazione soggettiva dell’agire non è quindi, di necessità, anche oggettivamente un « progresso » nella direzione verso l’agire razionalmente « corretto ».  La magia, per esempio, è stata sistematicamente « razionalizzata » al pari della fisica. La prima terapia deliberatamente  «razionale » ha significato quasi ovunque un disprezzo per la  9. Lelrbuch der Geschichte der Philosophie, Frciburg, i.B. cura dei sintomi empirici con erbe e bevande provate solo empiricamente, a favore dello sforzo di scacciare le « cause » (magiche o demoniache) « vere e proprie » della malattia. Essa aveva  perciò, formalmente, la medesima struttura razionale che rivestono parecchi dei più importanti progressi della terapia moderna. Ma noi non potremo valutare quelle terapie magiche di  sacerdoti come « progresso » verso un agire «corretto », in  antitesi a quell'empiria. E d’altra parte non ogni « progresso» nella direzione verso l’impiego dei mezzi «corretti» è  conseguito mediante un «progredire» nel primo senso, cioè  nel senso soggettivamente razionale. Che un agire più razionale soggettivamente progressivo conduca a un agire oggettivamente « più conforme allo scopo », è soltanto una tra più possibilità, e rappresenta un processo da aspettarsi con una (diversamente grande) probabilità. Se però nel caso specifico è corretta  la proposizione la quale asserisce che la regola x è il mezzo  (possiamo assumere il solo) per raggiungere l’effetto y — ciò  che costituisce una questione empirica, poiché si tratta della  semplice inversione della proposizione causale: a x segue y —  e se ora questa proposizione viene consapevolmente assunta da  certi uomini per l'orientamento del proprio agire in vista dell’effetto y — il che è pure determinabile empiricamente — 4/lora il loro agire risulta orientato in modo « tecnicamente corretto ». Se l’atteggiamento umano (di qualsiasi specie) è orientato  in qualche punto particolare in modo tecnicamente « più corretto» di prima, ha luogo un « progresso tecnico ». Se questo sia  il caso, è — naturalmente presupponendo sempre l’assoluta univocità dello scopo che viene stabilito — una determinazione  che una disciplina empirica deve compiere di fatto con i mezzi  dell’esperienza scientifica, ossia una questione empirica.  Vi sono quindi, in questo senso — ben inteso, dato un certo  scopo 4nivoco — concetti univocamente determinabili di correttezza «tecnica», e di progresso «tecnico» nei mezzi (dove  qui « tecnica » viene intesa nel suo senso più ampio, cioè come  comportamento razionale valido in tutti i campi, anche in quelÈ, della manipolazione e del dominio politico, sociale, educatio, propagandistico sulle masse). Si può in particolare (per  accennare soltanto alle cose che ci toccano da vicino) parlare in  maniera abbastanza univoca di « progresso » nel campo specifico chiamato di solito «tecnica», al pari però che nel campo  della tecnica commerciale o anche di quella giuridica, se si  assume qui come punto di partenza uno stato univocamente  determinato di una formazione concreta. Approssimativamente, infatti, i singoli princìpi tecnicamente razionali, come ogni  esperto sa, entrano tra loro in conflitto, e tra di essi si può  trovare sì un equilibrio da qualche punto di vista di coloro che  vi sono concretamente interessati, ma non mai in maniera  «oggettiva». E assumendo dati bisogni, stabilendo inoltre che  tutti questi bisogni in quanto tali, nonché la valutazione della  loro importanza soggettiva, debbano essere sostrazti alla critica, infine presupponendo una data maniera di ordinamento  economico — di nuovo con la riserva che per esempio gli  interessi alla durata, alla sicurezza e alla fecondità del soddisfacimento di questi bisogni possono entrare, ed entrano, in conflitto — c'è anche un progresso «economico » verso un optimum relativo di copertura del fabbisogno nel caso di date  possibilità di mezzi disponibili. Ma c’è soltanto in base a questi presupposti e a queste limitazioni.  È stato fatto il tentativo di derivare da ciò la possibilità  di valutazioni univoche, e perciò puramente economiche. Un  esempio caratteristico in merito è il caso, citato dal prof. Liefmann ", della distruzione di proposito dei beni di consumo  scesi al di sotto del prezzo di costo, nell’interesse della redditività dei produttori. Questa distruzione dovrebbe essere valutata  anche come oggettivamente « corretta dal punto di vista economico ». Ma tale illustrazione e tutte le altre simili — questo è  quanto ci interessa — assumono come evidenti una serie di  presupposti che non lo sono; assumono cioè non soltanto che  l'interesse dell'individuo vada oltre la sua morte, ma anche  che esso deve valere come tale, una volta per sempre. Senza  questa trasposizione dall’« essere » al « dover essere » la valutazione in questione, che si pretende puramente economica, non  potrebbe venir effettuata univocamente. Poiché senza di essa, per esempio, non si può parlare degli interessi dei « produtto- ri» e dei «consumatori» come di interessi di persone che si 12. Robert Liefmann {1874-1941), economista tedesco, autore dell’opera Die Un- ternchmungsformen (1912) e di altri scritti. MAX WEBER 669 perpetuano. Che l'individuo prenda in considerazione gli interessi dei suoi eredi, non è però più una circostanza puramente  economica. Agli uomini viventi vengono qui sostituiti piuttosto  degli interessati, i quali utilizzano il « capitale » nelle loro «imprese » ed esistono per queste imprese. Ciò costituisce una finzione utile per scopi teorici; ma anche come finzione non si  adatta alla situazione dei lavoratori, e in particolare di quelli  senza figli. In secondo luogo essa ignora il fatto della « situazione di classe » la quale, sotto il dominio del principio di mercato, può assolutamente peggiorare (non che debba necessariamente), non già nonostante ma proprio ir conseguenza della distribuzione « ottima » di capitale e lavoro nei diversi rami produttivi — ottima in quanto valutata dal punto di vista della redditività — il rifornimento di beni per certi strati di consumatori.  Infatti quella distribuzione « ottima » della redditività, che condiziona la costanza dell’investimento di capitale, dipende a sua  volta dalle costellazioni di forze esistenti tra le classi, le cui  conseguenze possono nel caso concreto (non già che debbano necessariamente) indebolire la posizione di quegli strati nella lotta per i prezzi. In terzo luogo essa ignora la possibilità di  durevoli antitesi di interessi, prive di possibilità di composizione, tra i membri di diverse unità politiche; e quindi prende  partito 4 priori per l’« argomento della libertà di commercio »,  che si tramuta così, da mezzo euristico estremamente utile, in  una «valutazione » tutt'altro che evidente, appena da esso  si traggano postulati concernenti il dover essere. Quando però,  per uscire da questo conflitto, essa presuppone l’unità politica  dell'economia mondiale (il che teoricamente è senz'altro permesso), allora l’ineliminabile possibilità della critica che suscita  la distruzione di quei beni consumabili nell'interesse dell’optimum di redditività permanente (dei prodotti e dei consumatori) offerta dai rapporti esistenti — quale viene qui presupposto  — si sposta semplicemente nella sua ampiezza. La critica si  dirige cioè contro l’intero principio del rifornimento del mercato in base a tali direttive, risultanti dall’optimum di redditività, esprimibile in denaro, di singole economie in rapporto di  scambio — si dirige contro il principio în quanto tale. Un'organizzazione di rifornimento dei beni, non organizzata in forma  di mercato, non avrebbe alcun motivo per tener conto della costellazione di interessi economici individuali data in base al  principio di mercato, e perciò non sarebbe neppur costretta a  sottrarre al consumo quei beni già esistenti.  Soltanto se si presuppongono le seguenti condizioni: 1) esclusivi interessi di redditività permanenti, di persone concepite  come costanti e con bisogni anch'essi concepiti come costanti  per lo scopo; 2) esclusivo dominio dell’organizzazione di rifornimento dei beni fondata sul capitale privato, mediante uno  scambio di mercato completamente libero; 3) una potenza statale non interessata come mero garante giuridico — soltanto a  queste condizioni la concezione del prof. Liefmann risulta corretta anche solo dal punto di vista teorico, e perciò giusta in  maniera ovvia. Infatti la valutazione concerne allora i mezzi  razionali per la migliore soluzione di un problema tecnico particolare di distribuzione dei beni. Le finzioni dell’economia  pura, utili a scopi teorici, non possono però essere trasformate  in base di valutazioni pratiche di fatti reali. Rimane stabilito  che la teoria economica non può asserire assolutamente nient’altro che questo: per il dato scopo tecnico x la regola y è il solo  mezzo appropriato, oppure lo è insieme a yy e a y, — e nell’ultimo caso tra y, yi e y. vi sono differenze del modo di operare  ed eventualmente di razionalità; la loro applicazione e il conseguimento dello scopo x obbligano a tener conto delle « conseguenze concomitanti » 2, z, e 2. Tutto ciò è il risultato di  semplici inversioni di proposizioni causali; e nella misura in  cui si possono riferire ad esse delle « valutazioni », queste risultano esclusivamente valutazioni del grado di razionalità di un’azione prospettata. Le valutazioni sono univoche soltanto quando lo scopo economico e le condizioni di struttura sociale appaiono date, quando si tratta soltanto di scegliere tra diversi  mezzi economici, e quando questi sono diversi soltanto in riferimento alla sicurezza, alla rapidità e alla produttività quantitativa dell'effetto, ma funzionano in maniera del tutto identica  sotto ogni altro rispetto che possa risultare importante per gli  interessi umani. Soltanto allora un mezzo deve essere anche  valutato incondizionatamente come quello «tecnicamente più  corretto », e questa valutazione risulta univoca. In ogni altro  caso, che non sia puramente tecnico, la valutazione cessa di essere univoca, e si presentano valutazioni che non possono  venir determinate su base puramente economica.  Ma con la determinazione dell’univocità di una valutazione  tecnica entro la sfera puramente economica z0n si perviene,  naturalmente, a una univocità della « valutazione » definitiva.  Piuttosto, al di là di queste discussioni comincerebbe il turbine  della infinita molteplicità di possibili valutazioni, che possono  venir controllate soltanto riportandole ad assiomi ultimi. Infatti  — per menzionare una cosa soltanto — dietro l’«azione» sta  l’uomo, per il quale il progredire della razionalità soggettiva e  della «correttezza» tecnico-oggettiva dell'agire in quanto tale  può valere, al di sopra di un certo grado — e anzi, in base a  certe concezioni, in maniera del tutto generale — come un  pericolo a cui vengono esposti i beni importanti (ad esempio  quelli etici o religiosi). Difficilmente qualcuno di noi condividerà l’etica (estrema) buddistica, che respinge ogni azione diretta  a uno scopo perché essa è tale, cioè in quanto allontana dalla  redenzione. Ma «confutarla », nel senso in cui si confuta un  falso esempio aritmetico oppure un’errata diagnosi medica, è  semplicemente impossibile. Pur senza ricorrere a esempi così  estremi, è però agevole comprendere che i processi di razionalizzazione economica, per quanto senza dubbio « tecnicamente  corretti», non sono in nessuna maniera legittimati di fronte al  foro della valutazione per questa loro qualità. Ciò vale per  tutti i processi di razionalizzazione, nessuno escluso, comprendendovi pure campi in apparenza puramente tecnici come quelli della banca. Coloro che si oppongono a tali processi di  razionalizzazione non sono affatto necessariamente dei pazzi.  Piuttosto, ogni qual volta si voglia valutare, si deve prendere in considerazione l’influenza dei processi di razionalizzazione tecnica sulla modificazione dell’insieme delle condizioni  di vita, esterne e interne. Sempre, e senza eccezione, il concetto di progresso legittimo nelle nostre discipline riguarda l’aspetto « tecnico », il che vuol dire — come si è accennato — il  «mezzo» necessario per uno scopo dato univocamente. Mai  esso si innalza alla sfera delle valutazioni « ultime ».  Dopo quanto si è detto, io ritengo l’impiego del termine  « progresso » di per sé inopportuno anche nel campo limitato  della sua applicabilità empiricamente incontestabile. Ma non è mai possibile proibire ad alcuno l’uso di un termine; sono  soltanto da evitare i possibili fraintendimenti.  Rimane ora da discutere, prima di giungere alla fine, un  ultimo gruppo di problemi concernenti la posizione dell’elemento razionale entro le discipline empiriche.  Quando ciò che è normativamente valido diventa oggetto di  indagine empirica, allora perde, in quanto oggetto, il suo carattere di norma; esso viene considerato come «esistente », non  come « valido ». Per esempio, qualora la statistica volesse stabilire il numero degli «errori aritmetici» entro una determinata  sfera di calcolo professionale — il che potrebbe pur avere un  senso scientifico — i princìpi fondamentali della tavola pitagorica «varrebbero » per essa in due sensi del tutto diversi. Per  un verso la loro validità normativa è naturalmente il presupposto assoluto del suo proprio lavoro di calcolo. Ma per un altro  verso, per cui si indaga il grado di applicazione «corretta » della tavola pitagorica in quanto oggetto dell'indagine, le cose stanno, considerate logicamente, in maniera del tutto diversa. Qui l’applicazione della tavola pitagorica da parte di quelle persone, i cui calcoli sono oggetto di analisi statistica, viene studiata come una massima effettiva di comportamento, divenuta loro abituale mediante l’educazione; e si deve pertanto stabilire la frequenza della sua applicazione di fatto, proprio come  possono essere oggetto di determinazione statistica certi fenomeni di pazzia. Che la tavola pitagorica « valga » normativamente, sia cioè «corretta », non è oggetto di discussione in questo  caso, in cui l’« oggetto » è invece la sua applicazione; ed è anzi  logicamente del tutto indifferente. Lo statistico, nel corso della  sua analisi statistica dei calcoli delle persone su cui indaga,  deve da parte sua naturalmente adeguarsi a questa convenzione, di calcolare « secondo la tavola pitagorica ». Ma egli dovrebbe parimenti impiegare un procedimento di calcolo « falso »,  quale risulta se valutato normativamente, nel caso in cui esso  fosse stato ritenuto «corretto» in un gruppo umano ed egli  dovesse indagare statisticamente la frequenza della sua applicazione di fatto, che appariva «corretta » dal punto di vista di  quel gruppo. Per ogni considerazione empirica, sociologica o  storica, la nostra tavola pitagorica, nel caso in cui si presenti  come oggetto dell'indagine, è una massima di comportamento  MAX WEBER 673  pratico valida convenzionalmente in un gruppo umano, e seguita con maggiore o minore approssimazione, e nient'altro. Ogni  esposizione della dottrina pitagorica della musica deve anzitutto assumere il calcolo « falso » — per il nostro sapere — che 12  quinte siano eguali a 7 ottave. Così pure ogni storia della logica deve assumere l’esistenza storica di asserzioni logiche (per  noi) contraddittorie — ed è umanamente comprensibile, ma non  rientra tuttavia nel compito di un'analisi scientifica, che si  possa accompagnare tali « assurdità » con esplosioni di sdegno,  come ha fatto uno storico assai eminente della logica medievale 13  Questa metamorfosi di verità normativamente valide in opinioni valide convenzionalmente, alla quale sottostanno intere formazioni spirituali, anche i princìpi logici o matematici — metamorfosi che ha luogo quando tali verità diventano oggetto di  una considerazione che si riferisce al loro essere empirico, e  non già al loro senso (normativamente) corretto — avviene in  maniera del tutto indipendente dalla circostanza che la validità  normativa delle verità logiche e matematiche costituisce d’altra  parte l’a priori di ogni scienza empirica. Meno semplice è la  loro struttura logica nel caso di quella funzione già prima  accennata, che loro spetta nell'indagine empirica di connessioni  spirituali, e che deve di nuovo essere distinta con cura dalle  altre due — cioè dalla loro posizione come oggetto di ricerca e  dalla loro posizione come 4 priori della ricerca. Ogni scienza  di connessioni spirituali o sociali costituisce una scienza del  comportamento «ma7z0 (facendo rientrare nell’ambito di tale  concetto, in questo caso, ogni atto spirituale e ogni abito psichico). Essa vuole « intendere » questo comportamento e per questa via « interpretare esplicativamente » il suo corso. Non possiamo qui trattare il difficile concetto di «intendere»; a noi  interessa, in questo contesto, soltanto una sua specie particolare, cioè l'interpretazione « razionale ». Noi «intendiamo » ovviamente senz’altro che un pensatore « risolva » un determinato  « problema » nel modo che noi stessi riteniamo normativamente «corretto », che per esempio un uomo calcoli in maniera  13. Weber allude qui alla Geschichte der Logik im Abendland di Karl Prand,  Leipzig, 1855-70.  43. STORiCISMO TEDESCO.  674 MAX WEBER  «corretta» o che impieghi per uno scopo che si propone i  mezzi — a nostro parere — « corretti ». E la nostra comprensione di questi processi è quindi particolarmente evidente, poiché  si tratta appunto della realizzazione di ciò che è oggettivamente « valido ». E tuttavia ci si deve guardare dal credere che in  questo caso ciò che è normativamente corretto appaia, dal punto di vista logico, nella medesima struttura che riveste nella  sua posizione generale come 4 priori di ogni indagine scientifica. Piuttosto la sua funzione come mezzo dell’«intendere » è  precisamente la stessa che la « penetrazione simpatetica » puramente psicologica compie nelle connessioni logicamente i irrazionali dei sentimenti e degli affetti, allorché si tratta di conoscerle attraverso la comprensione. Non già la correttezza normativa, bensì da una parte le abitudini convenzionali del ricercatore e del docente a pensare così e non altrimenti, dall’altra  però anche, nel caso in cui sia richiesta, la sua capacità di  poter « penetrare simpateticamente », a scopo di comprensione,  in un pensiero che si discosta da quel modo, e che gli appare  quindi normativamente « falso » secondo le sue abitudini, rappresentano qui il mezzo della spiegazione comprendente. Già il  fatto che il pensiero «falso», cioè l’«errore », sia in linea di  principio accessibile alla comprensione al pari del pensiero  «corretto », dimostra infatti che ciò che vale come normativamente «corretto» viene qui considerato non 12 quanto tale,  ma soltanto come un tipo convenzionale, assai facilmente intelligibile. Ciò conduce ora a un'ultima constatazione sulla funzione di ciò che è normativamente corretto nell’ambito della conoscenza sociologica.  Già allo scopo di «intendere » un calcolo, oppure un’asserzione logica «falsa», e di stabilire e di rappresentare il suo  influire in quelle conseguenze di fatto che ha avuto, si dovrà  ovviamente non soltanto provarlo calcolando « correttamente »,  oppure pensando logicamente in maniera corretta, ma anche  indicare esplicitamente, con i mezzi del calcolo «corretto » o  della logica « corretta », quel punto in cui il calcolo o l’asserzione logica in esame diverge da ciò che l’autore considera da  parte sua come normativamente «corretto ». E ciò non di necessità soltanto per quello scopo pratico-pedagogico, che per esempio Windelband pone in primo piano nell’Introduzione alla sua Geschichte der Philosophie" (stabilire « tavole di ammonimento » contro « vie errate »), e che costituisce soltanto un’auspicabile prodotto secondario del lavoro storico. E ciò neppure  perché ogni problematica storiografica, nel cui oggetto rientri  no conoscenze logiche o matematiche o scientifiche di altro  genere, debba inevitabilmente avere a propria base come unica  possibile relazione di valore ultima, decisiva per la selezione,  soltanto il «valore di verità» da noi riconosciuto valido, e  quindi il « progresso » in direzione di questo; sebbene poi, se  questo fosse effettivamente il caso, rimarrebbe da tener presente  la circostanza sovente constatata da Windelband, che il « progresso » in questo senso ha varie volte imboccato, invece della  strada diretta, quella che — in termini economici — si può  dire la «deviazione più redditizia » attraverso «errori», cioè  attraverso confusioni di problemi. Ciò accade invece perché  (anzi solo in quanto) quei punti in cui la formazione spirituale, indagata come oggetto, diverge da ciò che l’autore deve  ritenere «corretto », diventeranno di regola per lui importanti  — vale a dire specificamente «caratteristici» ai suoi occhi, e  quindi, dal suo punto di vista, o riferiti direttamente ai valori  oppure legati in rapporto causale con altri aspetti riferiti ai  valori. Ciò avverrà normalmente quanto più il valore di verità  di certi princìpi è il valore direttivo di un'esposizione storica,  particolarmente della storia di una determinata « scienza » (per  esempio della filosofia o dell’economia politica teorica). Ma questo non è affatto il caso esclusivo. Una situazione almeno analoga sì presenta ovunque un agire soggettivamente razionale, secondo il suo proposito, forma in genere l’oggetto di una rappresentazione, e ovunque «errori di pensiero » o «errori di calcolo » possono costituire delle componenti causali del corso dell’agire. Per «intendere » per esempio la condotta di una guerra si dovrà inevitabilmente immaginare da entrambe le  parti — sebbene non necessariamente in forma esplicita o dettagliata — un ideale comandante supremo, al quale sia nota la  situazione generale e la dislocazione delle forze militari contrapposte, e siano pure note e continuamente presenti le possibilità che ne derivano di conseguire il fine, in concreto univocamente determinato, della distruzione della potenza militare avversaria — e che in base a questa conoscenza abbia agito senza  errori, e anche « senza sbagliare » logicamente. Soltanto allora  si può stabilire con precisione quale influenza ha avuto sull’andamento delle cose la circostanza che i comandanti reali non  abbiano posseduto né quella conoscenza né questa immunità  dagli errori, e non siano stati in genere delle macchine per  pensare razionali. La costruzione razionale ha qui pertanto il  valore di servire come mezzo di corretta « imputazione » causale. Il medesimo senso hanno quelle costruzioni utopiche di un  agire razionale rigoroso e privo di errori, che crea la teoria  economica « pura ».  Allo scopo dell’imputazione causale di processi empirici noi  abbiamo bisogno appunto di costruzioni razionali, tecnico-empiriche o anche logiche, le quali rispondano a questa questione:  come, nel caso di una « correttezza » e « non-contraddittorietà »  assolutamente razionale, sia empiricamente sia logicamente, potrebbe configurarsi (oppure essersi configurata) una certa circostanza, che rappresenta o una connessione esterna dell’agire o anche una formazione concettuale (per esempio un sistema filosofi  co). Considerata dal punto di vista logico, la costruzione di una  siffatta utopia razionalmente «corretta» è però soltanto una  delle diverse formazioni possibili di un « tipo ideale » — come ho  definito (in una terminologia per me preferibile a ogni altra  espressione) tali costrutti concettuali. Infatti non soltanto è possibile concepire, come si è detto, dei casi in cui una conclusione  caratteristicamente fa/sa oppure un determinato atteggiamento  tipico contrario allo scopo possono rendere, come tipo ideale,  un migliore servizio; ma soprattutto vi sono intere sfere di  atteggiamento (le sfere dell’« irrazionale »), nelle quali può  meglio servire a tale proposito non già il massimo di razionalità logica, bensì semplicemente una univocità conseguita mediante l’astrazione isolante. Di fatto il ricercatore impiega assai  spesso dei «tipi ideali » costruiti in maniera normativamente  «corretta ». Considerata logicamente, però, la «correttezza»  normativa di questi tipi non è cosa essenziale. Ma un ricercatore può, per caratterizzare per esempio una forma specifica di  coscienza tipica agli uomini di un’epoca, costruire sia un tipo  di coscienza che gli appare personalmente conforme alla normasotto il profilo etico, e quindi in tal senso oggettivamente « corretta », sia un tipo che gli appare invece eticamente opposto alla norma — per comparare con esso l'atteggiamento degli uomini sui quali sta indagando — oppure può infine costruire anche  un tipo di coscienza a cui egli personalmente non attribuisce nessun predicato positivo o negativo di qualsiasi specie. Ciò che è  normativamente « corretto » non ha nessun monopolio per questo scopo. Infatti, quale che sia il contenuto di un tipo ideale razionale — sia che esso rappresenti una norma di fede etica, giuridica, estetica o religiosa, oppure una massima di politica giuridica o sociale o culturale, oppure una « valutazione » di qualsiasi  specie espressa nella forma il più possibile razionale — la sua costruzione ha sempre, nell’ambito delle indagini empiriche, soltanto lo scopo di « comparare » con esso la realtà empirica, e di stabilire il suo contrasto o la sua lontananza da essa oppure il suo  relativo accostarsi ad essa, per poterla descrivere e intendere  mediante l'imputazione causale e quindi spiegarla, facendo uso  di concetti intelligibili 11 più possibile univocamente. Queste  funzioni esplica, per esempio, l’elaborazione concettuale della  dogmatica giuridica per la disciplina empirica della storia del  diritto, e così pure la dottrina del calcolo razionale per l’analisi dell’atteggiamento reale delle singole economie nell’economia acquisitiva. Entrambe le discipline dogmatiche ora citate  hanno naturalmente inoltre, in quanto «dottrine tecniche »,  scopi eminentemente pratico-normativi. Ed entrambe sono, in  tale loro qualità di scienze dogmatiche, così poco empiriche  nel senso qui discusso come possono esserlo la matematica o la  logica, l’etica normativa o l’estetica, da cui del resto esse differiscono, per altri motivi, tanto quanto queste sono anche diverse  tra loro.  La teoria economica, infine, è ovviamente una dogmatica  in senso logicamente assai diverso da quello, per esempio,  della dogmatica giuridica. I suoi concetti si riferiscono alla  realtà economica in maniera specificamente diversa da quella in cui i concetti della dogmatica giuridica si riferiscono alla  realtà dell’oggetto della storia o della sociologia del diritto.  Ma, come i concetti dogmatici della scienza giuridica possono e  debbono venir impiegati da queste ultime come «tipi ideali »,  così questa specie di impiego per la conoscenza della realtà sociale presente e passata costituisce addirittura il senso esclusivo della teoria economica pura. Essa formula determinati presupposti, che nella realtà non si trovano quasi mai attuati in  forma pura, ma che si riferiscono ad essa con un diverso grado  di approssimazione, chiedendosi come in base ad essi verrebbe a  configurarsi l’agire sociale degli uomini, qualora esso procedesse in maniera strettamente razionale. Essa assume, in particolare, il predominio di puri interessi economici ed esclude quindi  l'influenza di orientamenti politici o di altra specie non economica.  In essa ha però avuto luogo il tipico procedere di una « confusione di problemi ». Infatti quella pura teoria « non-statale »,  «amorale », «individualistica », che è stata e sarà sempre indispensabile come strumento metodico, è stata concepita dalla  scuola liberistica radicale come una copia esauriente della  realtà « naturale», cioè della realtà che non è stata falsata  dalla stupidità umana, e inoltre, in base a ciò, come un « dover essere» — come un ideale valido nella sfera normativa, che  si poneva al posto di un tipo ideale utilizzabile per la ricerca  empirica intorno a ciò che è. Allorché i mutamenti di valutazione dello stato, prodottisi nella politica economica e sociale,  provocarono una ripercussione nella sfera valutativa, questa ripercussione colpì di nuovo la sfera dell’essere; di modo che la  teoria economica pura fu rigettata non soltanto come espressione di un ideale — sebbene essa non avesse mai potuto pretendere tale dignità — ma anche come metodo per la ricerca sulla  realtà di fatto. Considerazioni « filosofiche » di specie più diversa dovevano sostituire la pragmatica razionale; e l’identificazione di ciò che è « psicologicamente » con ciò che vale eticamente  rendeva ineseguibile una precisa distinzione della sfera della  valutazione dal lavoro empirico. Le straordinarie prestazioni  degli esponenti di questo sviluppo scientifico nel settore storico  o sociologico o politico-sociale sono ormai universalmente riconosciute; ma chi giudichi in maniera impregiudicata deve pur  riconoscere la completa caduta, durata per decenni, del lavoro  teorico e in genere di una rigorosa scienza economica, che  quella mescolanza di problemi ha avuto per sua naturale conseguenza. Una delle due tesi principali, con cui lavoravano gli  avversari della teoria pura, sosteneva che le costruzioni RAZIONALI di questa fossero « pure finzioni », le quali non asseriscono  nulla sulla realtà dei fatti. Correttamente intesa, questa affermazione è valida. Infatti le costruzioni teoriche sono soltanto al  servizio della conoscenza della realtà — che da sole non possono fornire; e anche nel caso estremo questa realtà, per la cooperazione di altre circostanze e serie di motivi, non contenute nei loro presupposti, risulta soltanto approssimata rispetto al corso così costruito. Ciò non dimostra certamente nulla, secon- do quanto si è detto, contro l’utilità e la necessità della teoria pura. La seconda tesi sosteneva che non potesse esserci in ogni caso una dottrina avalutativa concernente la politica economica, formulata scientificamente. Essa è naturalmente del tutto  falsa, tanto falsa che proprio l’« avalutatività» — nel senso  precedentemente illustrato — rappresenta il presupposto di  ogni considerazione puramente scientifica della politica, in particolare di quella sociale ed economica. Non occorre qui ripetere  che è evidentemente possibile, e scientificamente utile e necessario, formulare proposizioni di questo tipo: per conseguire l’effeto (politico-economico) x, y è il solo mezzo, oppure — date  le condizioni di, 52, d3 — Yi Y» yY: sono i soli mezzi, o i  mezzi più appropriati. E c’è soltanto bisogno di accennare che  il problema consiste nella possibilità di un'assoluta urivocità di  designazione dello scopo a cui si tende. Se questa ha luogo,  allora si tratta di una semplice inversione di proposizioni causali, e quindi di un problema puramente «tecnico ». Proprio  perciò la scienza non è affatto costretta, in tutti questi casi, a  concepire queste proposizioni teleologiche di carattere tecnico  diversamente che come semplici proposizioni causali, cioè in  questa forma: a y segue sempre, oppure a Yi, Ya» 7: Se  gue, nelle condizioni è;, 6, 6, l’effetto x. Infatti ciò vuol  dire precisamente la stessa cosa, e l’uomo « pratico » può facilmente derivarne dei « precetti ». Ma la dottrina scientifica dell'economia ha pure alcuni altri compiti, accanto alla determinazione di pure formule tipico-ideali da un lato e dall'altro alla  determinazione di tali connessioni economiche particolari, di  carattere causale — poiché si tratta senza eccezione di connessioni di questo genere, se x è abbastanza uzivoco, e se quindi  l'imputazione dell’effetto alla causa, cioè del mezzo allo scopo,  dev'essere abbastanza rigorosa. Esso deve inoltre indagare la totalità dei fenomeni sociali nel modo in cui sono condizionati  da cause economiche; e ciò mediante l’interpretazione della  storia e della società sotto il profilo economico. E d'altra parte  essa deve pure determinare il condizionamento dei processi e  delle forme di economia da parte dei fenomeni sociali, secondo  le loro diverse forme e i loro diversi stadi di sviluppo; e ciò  mediante la storia economica e la sociologia dell'economia. Entro questi fenomeni sociali rientrano evidentemente, e certo in  prima linea, le azioni e le formazioni politiche, in particolare  lo stato e il diritto garantito statalmente: ma, è pure ovvio,  non soltanto quelle politiche — bensì la totalità di quelle formazioni che influenzano l’economia, in «n grado abbastanza rilevante per l'interesse scientifico. Indicare l'insieme di questi problemi come una dottrina della « politica economica» sarebbe  naturalmente assai poco appropriato. L’uso che tuttavia se ne  fa a tale scopo può soltanto venir spiegato esteriormente in  base al carattere delle università come istituti educativi per  funzionari statali, e interiormente in base agli enormi strumenti che lo stato possiede per influire in modo intensivo sulla vita  economica, e quindi in base all'importanza pratica della sua  considerazione. Non occorre constatare di nuovo che in tutte  queste indagini è sempre possibile invertire le asserzioni sul  rapporto « causa-effetto » in asserzioni sul rapporto « mezzo-scopo », quando la conseguenza in questione può essere stabilita  con sufficiente univocità. In tale maniera il rapporto logico tra  sfera della valutazione e sfera della conoscenza empirica non  risulta naturalmente affatto mutato. E solo più a una cosa  rimane, al termine di questa analisi, da accennare.  Lo sviluppo degli ultimi decenni, e specialmente gli avvenimenti senza precedenti di cui siamo oggi testimoni, hanno  potentemente accresciuto il prestigio dello stato. Ad esso soltanto, tra tutte le comunità sociali, viene oggi attribuita una forza  «legittima » sulla vita, la morte e la libertà; e i suoi organi ne  fanno uso, in guerra contro i nemici esterni, in pace e in  guerra contro gli oppositori interni. Esso è in pace il maggiore  imprenditore economico e il più potente esattore di tributi dei  cittadini; in guerra dispone nella maniera più illimitata di  tutti i beni economici che gli sono accessibili. La sua moderna  forma razionale di organizzazione ha reso possibile, in numerosi settori, compiti che senza dubbio nessun agire associato di  altra specie avrebbe potuto eseguire, neppure in modo approssimato. Non poteva non accadere che da ciò si traesse la conseguenza che lo stato deve anche essere — soprattutto nelle valutazioni che si muovono entro il campo della « politica » — il  « valore » ultimo, e che ogni agire sociale deve, in ultima analisi, venire commisurato ai suoi interessi di esistenza. Solo che  anche questo processo costituisce una trasposizione, del tutto  indebita, di fatti della sfera dell’essere in norme della sfera  della valutazione — pur prescindendo qui dalla mancanza di  univocità delle conseguenze tratte da quella valutazione, come  appare subito da ogni considerazione dei «mezzi» (per la  «conservazione » o l’«incremento » dello «stato »). Entro la  sfera dei puri fatti oggettivi si deve far valere anzitutto, di  fronte a quel prestigio, la constatazione che lo stato 207 può  certe cose. E ciò anche nei campi che risultano i suoi domini  più propri, come in quello militare. L'osservazione di alcuni  fenomeni che la guerra attuale ha reso manifesti negli eserciti  di stati razionalmente eterogenei ci insegna che la libera dedizione dell'individuo al compito che il suo stato rappresenta —  una dedizione che lo stato non può imporre — è tutt'altro che  indifferente per il successo militare. E per il campo economico  basta accennare che la trasposizione di forme e di principi  dell’economia bellica in forma di fenomeni permanenti di pace  potrebbe rapidamente avere conseguenze che condurrebbero in  rovina, proprio per i suoi sostenitori, l'ideale di uno stato espansivo. Su questo, tuttavia, non occorre soffermarci più a lungo.  Nella sfera della valutazione è però possibile sostenere, in maniera pienamente dotata di senso, il punto di vista che vorrebbe  veder rafforzata il più possibile la potenza dello stato come  mezzo coercitivo contro ogni resistenza, ma che d'altra parte  gli nega qualsiasi valore proprio e lo qualifica come un mero  strumento tecnico per la realizzazione di valori del tutto diversi, dai quali soltanto esso potrebbe prendere in prestito la sua  dignità e mantenerla anche solo finché non cercasse di spogliarsi di questo suo compito ausiliario.  Naturalmente qui non si deve né svolgere né sostenere questo o qualsiasi altro possibile punto di vista valutativo. Si deve  però soltanto ricordare che, se ce n'è qualcuna, l'obbligazione più particolarmente appropriata a « pensatori» di professione  consiste nel mantenere di fronte agli ideali dominanti al momento, anche di fronte ai più forniti di maestà, una mente  fredda, nel senso di rimanere personalmente capace di « nuotare contro la corrente ». Le «idee tedesche del 1914 » furono un  prodotto da letterati”. Il socialismo del futuro è una frase per  la razionalizzazione dell'economia, da attuarsi mediante una  combinazione di burocratizzazione ulteriore e di amministrazione da parte di un gruppo organizzato di individui interessati.  Quanto il fanatismo dei patrioti di ufficio della politica economica invoca per queste misure puramente tecniche, in luogo di  una discussione oggettiva della loro opportunità, in buona parte condizionata semplicemente dalla politica finanziaria, la  consacrazione non soltanto della filosofia tedesca ma anche della religione — come oggi avviene in ampie proporzioni — ciò  non rappresenta altro che una ripugnante degenerazione di  gusto di letterati che si reputano importanti. Come possano 0  debbano apparire le reali «idee tedesche del 1918», alla cui  elaborazione avranno parte anche i reduci dalla guerra, nessuno può oggi ben prevedere. Ma da queste dipenderà appunto il  futuro.  15. Weber si riferisce qui al manifesto nazional-socialista pubblicato nel 1916  dal sociologo tedesco Johann Plenge, col titolo 1789 und 1914: die symbolische  Jahre in der Geschichte des politischen Geistes, nel quale le «idee tedesche del 1914 »  erano contrapposte ai princìpi della Rivoluzione francese. Per assecondare il vostro desiderio, dovrò parlare della « scienza come professione ». Ebbene, è una specie di pedanteria di  noi economisti, alla quale voglio attenermi, quella di prender  sempre le mosse dalla situazione esteriore, e quindi, nel caso  nostro, dalla domanda: come si configura la scienza come professione nel senso materiale della parola? E questo, in sostanza, oggi praticamente significa: qual è la situazione di un  laureato che abbia deciso di dedicarsi per professione alla scienza nell’ambito della vita accademica? Per comprendere in che  cosa consista su questo punto la particolarità della situazione  tedesca, è opportuno procedere comparativamente, rendendoci  conto di come stiano le cose nel paese straniero che sotto  questo aspetto presenta la più recisa antitesi con le nostre condizioni, e cioè negli Stati Uniti.   Da noi — come tutti sanno — un giovane che si dedichi  alla scienza come professione, inizia normalmente la sua carriera come « libero docente ». Dopo essersi consultato col professore titolare della materia e averne avuto l'approvazione, egli  consegue l’abilitazione in una università, in base a un libro e a  un esame, per lo più semplicemente formale, da parte della  facoltà, dopo di che tiene lezioni — senza stipendio, compensato soltanto mediante le tasse d'iscrizione al suo corso — intorno all'argomento da lui scelto entro i limiti della sua verza  * Wissenschaft als Beruf (conferenza tenuta all’Università di Monaco, 1919),  raccolto nel volume Gesammelte Aufsitze zur Wissenschaftslehre, Tiibingen, J. C. B.  Mohr, 1922, 4* ed. (a cura di Johannes Winckelmann) 1973, pp. 582-613 (La scienza  come professione, tr. it. di Antonio Giolitti, in Il lavoro intellettuale come professione, Torino, Einaudi, 1948, pp. 41-77).  legendi. In America la carriera universitaria comincia normalmente in modo del tutto diverso, e cioè con l'assunzione in  qualità di « assistente»: qualcosa di simile a quel che avviene  di solito nei nostri grandi istituti delle facoltà di scienze naturali e di medicina, dove è soltanto una frazione degli assistenti ad  aspirare — spesso solo dopo parecchio tempo — alla formale  abilitazione a libero docente. La differenza significa praticamente che da noi la carriera di un uomo di scienza poggia interamente su presupposti plutocratici. Giacché, per un giovane studioso privo di disponibilità patrimoniali, è estremamente arrischiato esporsi, in linea generale, alle condizioni imposte dalla  carriera accademica. Egli deve poter tirare avanti almeno un  certo numero di anni senza sapere in nessun modo se avrà in  seguito la possibilità di riuscire a raggiungere una posizione  che gli permetta di provvedere al proprio mantenimento. Viceversa, negli Stati Uniti vige il sistema burocratico. Là il giovane è pagato fin dall’inizio. Modestamente, si capisce: lo stipendio, il più delle volte, raggiunge appena il livello del salario di  un operaio a un grado minimo di specializzazione. Tuttavia  egli comincia pur sempre con una posizione apparentemente  sicura, giacché percepisce un compenso fisso. Ma è previsto  che possa essere licenziato, come i nostri assistenti, e tale sorte  lo attende spesso inesorabilmente se non corrisponde alle aspettative che si ripongono in lui. Tali aspettative però si limitano  a che insegni ad «aula esaurita ». Ciò non può capitare a un libero docente tedesco. Una volta che egli lo diventa, non ci si libera più di lui. Certamente egli non ha «diritti». Tuttavia ha motivo di pensare che, dopo un'attività di alcuni anni, gli spetti una specie di diritto morale a esser preso in considerazio- ne: anche — e ciò è spesso importante — quando si tratti  dell’eventuale abilitazione di altri liberi docenti. La questione  se in linea di principio si debba dare l’abilitazione a qualunque  studioso di provata capacità o se invece si debba tener conto dei  «bisogni dell’insegnamento », attribuendo così ai docenti già  abilitati un monopolio dell’insegnamento, è un penoso dilemma connesso con quel doppio aspetto della professione universitaria a cui ora accenneremo. Di solito, si decide per la seconda  alternativa. Ma ciò aumenta il pericolo che il titolare della  materia în questione, nonostante la massima coscienziosità soggettiva, dia la preferenza ai propri scolari. Personalmente, io  ho seguito il principio — sia detto di passaggio — che uno  studioso laureato con me debba dar prova di sé e conseguire  l'abilitazione presso «n altro professore e in un’altra università. Ma il risultato fu che uno dei miei più valenti allievi  venne respinto perché nessuno credette che tale fosse il motivo  del suo trasferimento.   Un'altra differenza rispetto all'America è la seguente: da  noi, il libero docente è in generale meno occupato con le lezioni di quanto egli stesso desidererebbe. Senza dubbio avrebbe il  diritto di tenere tutte le lezioni della sua materia. Ma ciò  viene considerato una sconveniente mancanza di riguardo verso  i docenti più anziani, e di regola le lezioni «importanti » sono  tenute dal titolare della cattedra, mentre il docente si accontenta di lezioni 4 latere. Egli ne trae il vantaggio, sia pure  involontariamente, di poter disporre degli anni della giovinezza per il lavoro scientifico.  Tutto ciò in America è organizzato in maniera fondamentalmente diversa. Proprio nei primi anni il docente è assolutamente sovraccarico di lavoro, appunto perché è pagato. In un dipartimento di germanistica, per esempio, il professore ordinario  terrà un corso di tre ore settimanali su Goethe e basta, mentre  l'assistente più giovane sarà ben contento se con dodici ore  settimanali, oltre all'insegnamento elementare della lingua tedesca, gli verrà assegnato qualche altro argomento su un poeta  della levatura di Uhland'. Infatti sono gli organi ufficiali  della facoltà a prescrivere il programma di insegnamento, al  quale l’assistente americano è altrettanto vincolato quanto da  noi l’assistente d’istituto.  Possiamo ora vedere chiaramente come da noi il più recente sviluppo dell’organizzazione universitaria in vasti settori della scienza segua l'orientamento di quella americana. I grandi  istituti per gli studi di medicina o di scienze naturali sono  imprese « capitalistiche di stato ». Non possono esser amministrati senza grandi mezzi. E anche lì si verifica, come in ogni  1. Johann Ludwig Uhland, poeta romantico tedesco, autore anche  di drammi storici, di studi sull’antica letteratura tedesca e di volumi sulla mitologia germanica: prese parte alla vita politica dell'età della Restaurazione, aderendo  a posizioni nazionali-liberali, e nel 1848 fu membro dell'assemblea di Francoforte. impresa capitalistica, la « separazione del lavoratore dai mezzi  di produzione ». Il lavoratore, vale a dire l’assistente, è ridotto  a servirsi degli strumenti che lo stato mette a sua disposizione;  egli viene pertanto a dipendere dal direttore d’istituto allo stesso modo dell’impiegato in una fabbrica — giacché quel direttore s'immagina, in perfetta buona fede, che l'istituto sia «swo »  e vi fa da padrone — e la sua posizione è spesso altrettanto  precaria come quella di un qualsiasi « proletaroide » o di un  assistente di università americana.   La nostra vita universitaria tedesca va americanizzandosi,  come la nostra vita in generale, in certi punti assai importanti,  e questo sviluppo — ne sono convinto — si estenderà in seguito  anche a quei campi dove, come avviene ancor oggi in larga  misura nel mio, è l’artigiano stesso a possedere lo strumento di  lavoro (essenzialmente la biblioteca), in modo del tutto analogo  all’artigiano d’altri tempi nell’ambito del suo mestiere. Il processo è in pieno sviluppo.  I vantaggi tecnici sono assolutamente indiscutibili, come in  ogni azienda capitalistica e al tempo stesso burocratizzata. Ma  lo « spirito» che vi domina è tutt'altro dall’antica atmosfera  tradizionale delle università tedesche. C'è un abisso straordinariamente profondo, esteriormente e interiormente, tra il dirigente di una simile grande impresa capitalistica universitaria e il  solito professore ordinario di vecchio stile: anche nell’atteggiamento interiore. Non posso qui dilungarmi su questo punto.  Tanto all'interno quanto all’esterno l'antico ordinamento universitario è diventato fittizio. Ma è rimasto, e anzi si è sostanzialmente accentuato, un motivo caratteristico della carriera  universitaria: il fatto che un simile libero docente, divenuto  ormai un assistente, riesca finalmente a insediarsi nella posizione di ordinario o di direttore d'istituto, costituisce un’opportunità che è un mero caso. Senza dubbio non domina soltanto il  caso, ma esso ha tuttavia un'influenza straordinariamente grande. Non conosco quasi altre carriere al mondo dove esso abbia  una parte così grande. Tanto più sono in grado di dirlo io che  personalmente devo ad alcune circostanze meramenti accidentali di esser stato chiamato giovanissimo, ai miei tempi, alla  cattedra di una materia nella quale allora altri della mia età  avevano senza dubbio acquisito meriti maggiori dei miei. E in  MAX WEBER 687  base a questa esperienza presumo di avere una vista più acuta  per scorgere l’immeritata sorte dei molti ai quali il caso ha  giocato e ancora gioca il tiro opposto e che, nonostante tutta  la loro capacità, non giungono attraverso quell’apparato selettivo al posto che loro spetterebbe.  Che il caso e non la capacità in quanto tale abbia una parte  così grande, non dipende soltanto, e nemmeno prevalentemente,  dalle debolezze umane che naturalmente s'incontrano in questo  processo di selezione come in tutti gli altri. Sarebbe ingiusto  attribuire a deficienze personali di facoltà o di ministeri la  responsabilità del fatto che indubbiamente vi siano tante mediocrità a esercitare una parte preponderante nelle università. Ciò  fa parte delle leggi dell’agire in comune degli uomini, e specialmente di più organismi, cioè nel caso nostro delle facoltà proponenti e dei ministeri. Eccone una riprova: possiamo seguire  attraverso i secoli le vicende delle elezioni papali, ossia il più  importante esempio che ci sia dato controllare di una selezione  personale del medesimo tipo. Soltanto di rado il cardinale di  cui si dice che è il « favorito » riesce eletto: di regola tocca al  candidato numero due o numero tre. La stessa cosa avviene col  presidente degli Stati Uniti: per lo più è il numero due e  spesso il numero tre, e solo eccezionalmente l’uomo più quotato ma anche più eminente, quello che entra nella nomination  delle convenzioni di partito e quindi nel processo elettorale.  Gli Americani hanno già creato espressioni sociologiche tecniche per queste categorie e sarebbe davvero interessante cercare  in questi esempi le leggi di una selezione mediante la formazione di una volontà collettiva. Non lo faremo ora. Ma esse valgono anche per i corpi accademici, e c'è da meravigliarsi non già  che ne scaturiscano frequenti errori, bensì del numero pur sempre assai rilevante, da un punto di vista relativo, delle nomine  giuste. Soltanto dove si ha l'intervento per motivi politici, di  parlamenti — come in alcuni paesi — o, come prima da noi, di  monarchi (entrambi operano allo stesso modo), oppure, come  adesso, di rivoluzionari impadronitisi del potere, si può esser  certi che tutte le probabilità di successo vanno soltanto alle  accomodanti mediocrità o agli arrivisti.  Nessun professore universitario ripensa volentieri alle discussioni per le nomine, perché di rado sono piacevoli. Tuttavia posso affermare che in numerosissimi casi di cui sono a conoscenza, mai è mancata la buona volontà di far dipendere la  decisione da motivi puramente oggettivi.  Bisogna infatti mettere in chiaro che non dipende soltanto  dall’inadeguatezza della selezione in virtù di formazione di  una volontà collettiva se nella decisione delle sorti accademiche ha tanta importanza il «caso ». Ogni giovane che senta la  vocazione dello studioso deve piuttosto rendersi ben conto che  il compito a cui si accinge presenta un duplice volto. Deve  avere non soltanto i requisiti dello studioso ma anche quelli  dell'insegnante. Non è affatto detto che gli uni e gli altri  coincidano. Si può essere uno studioso insigne e al tempo stesso  un pessimo maestro. Basta rammentare l’attività d’insegnamento di uomini come Helmholtz e come Ranke. E non si tratta di  eccezioni rare. Ma le cose stanno ora in modo che le nostre  università, specialmente quelle piccole, si fanno la concorrenza  più ridicola per le frequenze. Le affittacamere delle città universitarie celebrano come una festa il millesimo studente, e il  duemillesimo possibilmente con una fiaccolata. Gli interessi di  propina dei singoli corsi — bisogna ammetterlo apertamente —  risentono della nomina di un titolare « di grido » in qualche  cattedra affine, e anche prescindendo da ciò il numero degli  uditori fornisce una tangibile testimonianza in cifre, mentre le  qualità di dottrina sono imponderabili e spesso (com'è del tutto  naturale) addirittura contestate nel caso di arditi innovatori.  Perciò nella maggior parte dei casi tutto soggiace a questa  suggestione della benedizione e del valore incommensurabili  del numeroso uditorio. Se di un docente si dice che è un  cattivo maestro, ciò equivale per lo più alla sua condanna a  morte nel campo universitario, quand’anche si tratti del primo  dotto del mondo. Ma la questione se egli sia un buono o un  cattivo maestro trova risposta nella frequenza di cui lo onorano i signori studenti. Sta però di fatto che, se gli studenti si  affollano intorno a un professore, ciò è determinato in larghissima misura da circostanze meramente esteriori, come il temperamento o perfino l’inflessione di voce — e ciò a un punto tale  che non si crederebbe possibile. Dopo un'esperienza in ogni  modo abbastanza lunga e una fredda riflessione, ho concepito  una profonda sfiducia verso i corsi universitari di massa, per  Max Weber nel 1919.  quanto non si possa certo farne a meno. La democrazia dev’essere applicata dove si conviene. Ma l’insegnamento scientifico,  quale dobbiamo esercitarlo nelle università tedesche in conformità alla loro tradizione, è una faccenda — non dissimuliamocelo — di aristocrazia dello spirito. D'altra parte è certamente  vero che saper esporre i problemi scientifici in modo da renderli accessibili a una mente incolta ma capace d’intendere, e da  metter questa in grado di farsene un'idea propria — ciò che  per noi è l’unica cosa decisiva — costituisce forse il compito  pedagogicamente più difficile. Senza dubbio: ma non è il numero degli uditori a decidere se esso sia stato risolto. E quest’arte costituisce appunto — per ritornare al nostro argomento —  un dono personale e non coincide affatto necessariamente con  le qualità scientifiche di uno studioso. A differenza dalla Francia, però, noi non abbiamo alcuna corporazione degli « immortali » della scienza, ma per la nostra tradizione sono le università che devono soddisfare a entrambe le esigenze: quella della  ricerca e quella dell’insegnamento. Ma è un puro caso che le  capacità necessarie a questo scopo si ritrovino tutte nello stesso  individuo.  La vita accademica è quindi abbandonata al cieco caso.  Quando dei giovani studiosi vengono a chiedere consiglio per  l'abilitazione, la responsabilità che ci si assume accedendo alla  richiesta è quasi intollerabile. Se si tratta di un ebreo, gli si  risponde, naturalmente: «lasciate ogni speranza ». Ma anche  a chiunque altro bisogna domandare, in coscienza: credete di  poter sopportare di vedervi passare avanti, di anno in anno,  una mediocrità dietro l’altra, senza amareggiarvi e intristirvi  l'animo? E ogni volta la risposta è evidentemente la stessa:  naturalmente, io vivo solo per la mia «vocazione»; ma per  mio conto ho saputo solo di pochissimi che abbiano retto senza  risentirne un danno interiore.  Questo mi sembrava necesssario dire intorno alle condizioni  esteriori della professione di studioso.  Credo però che voi vogliate in realtà sentir parlare di qualcosa d'altro, e precisamente della vocazione interiore alla scienza. Al giorno d'oggi l’esercizio della scienza come professione è  condizionato, sul piano interiore, dal fatto che la scienza è  pervenuta a uno stadio di specializzazione prima sconosciuto, e tale rimarrà sempre in futuro. Non soltanto esteriormente, no  certo, ma proprio interiormente, le cose stanno in modo che  soltanto nel caso di un’estrema specializzazione l’individuo  può avere sicura coscienza di produrre qualcosa di realmente  perfetto nel campo scientifico. Tutti i lavori che sconfinano in  campi contigui, come talvolta ci capita di fare, e come per  esempio noi sociologi dobbiamo sempre fare, sono gravati dalla  rassegnata coscienza di fornire tutt'al più allo specialista un'’utile impostazione di qualche problema nel quale non gli sarà  tanto facile imbattersi nel suo campo specifico, cosicché il proprio lavoro non potrà non rimanere estremamente imperfetto.  Soltanto attraverso una rigorosa specializzazione l’uomo di scienza può giungere — una volta e forse mai più nella vita — a  dire con sicura coscienza: ho prodotto qualcosa che durerà.  Un'opera realmente definitiva e valida è oggi sempre un'opera  specializzata. Resti quindi discosto dalla scienza chi non è capace di mettersi, per dir così, dei paraocchi, e di pervenire all’idea che il destino della propria anima dipende appunto dall’esattezza, poniamo, di questa congettura — proprio di questa —  rispetto a quel passo di quel manoscritto. Altrimenti egli non  avrà mai fatto dentro di sé ciò che può chiamarsi l’« esperienza  vissuta» della scienza. Senza questa strana ebbrezza, derisa  dai non iniziati, senza questa passione, questo « dovevano passare millenni prima che tu venissi al mondo, e altri millenni  attendono in silenzio»* — tutto per il successo di questa tua  congettura — m0n c’è vocazione per la scienza e bisogna scegliere un’altra via. Infatti per l’uomo in quanto uomo, nulla ha  valore di ciò che non può fare con passione.  Ora, però, sta di fatto che, per quanto grande, genuina e  profonda possa essere tale passione, il risultato appare ancora  lontano. Essa è certamente una condizione preliminare per il  fattore decisivo: l’« ispirazione ». È vero che oggi negli ambienti giovanili è assai diffusa l'opinione che la scienza sia diventata un esercizio di calcolo da eseguirsi nei laboratori o nelle  cartoteche statistiche col solo ausilio del freddo intelletto e non  con tutta l’« anima », allo stesso modo di quel che avviene «in  una fabbrica». A questo proposito si deve anzitutto osservare  2. Il passo citato è di Carlyle. che per lo più queste persone non hanno un'idea chiara di quel  che avviene in una fabbrica più di quanto l’abbiano di ciò che  avviene in un laboratorio. Nell’uno o nell’altra all'uomo deve  venire in mente un'idea — e proprio l'idea giusta — per produrre qualcosa che abbia veramente valore. Ma quell'idea non  si ottiene per forza. Non ha nulla a che fare con un qualsiasi  freddo calcolo. Senza dubbio anche questa è una condizione  imprescindibile. Nessun sociologo, per esempio, avrà da pentirsi se, anche nei suoi tardi anni, avrà speso qualche mese intorno a molte decine di migliaia di elementi di calcolo del tutto  banali. Non si può ricorrere impunemente ai soli mezzi meccanici, se si vuol conseguire qualche risultato; e quel che in  definitiva si ricava è spesso irrisorio. Ma chi non ha un'idea  determinata sullo scopo del calcolo e, durante il calcolo stesso,  sulla portata dei risultati singoli, non ne trae neppure quel  minimo. Normalmente l’« idea » si prepara a germogliare soltanto sul terreno del duro lavoro. Non sempre, s'intende. L’idea di un dilettante può avere un'importanza identica o maggiore di quella di uno specialista. Molte delle nostre impostazioni e delle nostre conoscenze più importanti sono dovute proprio ai dilettanti. Il dilettante si distingue dallo specialista —  come ha detto Helmholtz a proposito di Robert Mayer? — solo  in quanto gli manca la precisa sicurezza del metodo di lavoro e  non è quindi in grado di controllare 2 posteriori la portata  della sua idea e di apprezzarla o applicarla. L'idea non sostituisce il lavoro. E il lavoro dal canto suo non può sostituire 0  suscitare a forza l’idea più di quanto non possa farlo la passione. L'una e l’altro — e specialmente tutti e due insieme — la  maturano. Ma essa viene quando le aggrada e non quando  pare a noi. È infatti vero che le cose migliori vengono in  mente, come dice Ihering, fumando il sigaro sul divano oppure  — come narra di sé Helmholtz con precisione di naturalista —  passeggiando per una strada lievemente in salita, e via dicendo, ma sempre, comunque, quando non si sta in loro attesa,  non già durante l’ansia e lo sforzo di ricerca a tavolino. Mayer, medico e fisico tedesco, autore del volume  Dic organische Bewegung in ihren Zusammenhinge mit dem Stoffwechsel (1845), contribuì alla formulazione del principio della conservazione dell'energia: fu oggetto  di aspra critica da parte di Helmholtz, Certo, però, non sarebbero venute in mente senza i precedenti appassionanti problemi e senza quel tormento a tavolino.  Comunque sia, l’uomo di scienza deve anche tener conto di  quel caso che non va disgiunto da qualsiasi lavoro scientifico:  verrà o no l’«ispirazione»? Si può essere un impareggiabile  lavoratore e non avere mai avuto una propria idea originale.  Ma è un grave errore credere che ciò avvenga soltanto nella  scienza e che in un’azienda, per esempio, le cose stiano diversamente che in un laboratorio. Un commerciante o un grande  industriale privo di «fantasia negli affari», cioè senza idee,  senza idee geniali, rimarrà per tutta la vita, nel migliore dei  casi, un semplice commesso o un impiegato tecnico: non creerà  mai qualcosa di vitale nell’organizzazione. Nel campo della  scienza l’ispirazione non ha affatto un'importanza maggiore —  come immagina la presunzione degli studiosi — che nel campo  dei problemi della vita pratica che deve padroneggiare un imprenditore moderno. E d'altra parte la sua importanza non è  minore — come spesso erroneamente si crede — che nel campo  dell’arte. È puerile pensare che a tavolino, munito di un regolo o di altri mezzi meccanici o di macchine calcolatrici, il  matematico giunga a un risultato di qualche valore scientifico;  la fantasia matematica di un Weierstrass* si presenta naturalmente orientata in modo del tutto diverso, nel suo senso e nel  suo risultato, da quella di un artista, e anche sotto il profilo  qualitativo è fondamentalmente differente. Non però quanto al  procedimento psicologico. Entrambi sono esaltazione (nel senso  della « mania » di Platone) e « ispirazione ».   Ora, che uno abbia ispirazioni scientifiche, dipende da un  destino a noi ignoto, ma soprattutto da un « dono», Un atteggiamento, di cui è ben comprensibile la popolarità specialmente  tra i giovani, si è schierato — e quell’indubitabile verità non è  certo l’ultima ragione di ciò — in favore di alcuni idoli il cui  culto vediamo oggi trionfare a tutti gli angoli di strada e in  tutte le riviste. Tali idoli sono la «personalità» e l’«esperienza vissuta ». L'una e l’altra sono strettamente connesse:  4. Karl Theodor Wilhelm Weicrstrass (1815-1897), matematico tedesco, autore  di numerosi scritti raccolti nelle Gesammelte Abhandiungen, diede importanti contributi alla teoria delle funzioni. l'opinione dominante è che la seconda sia costitutiva della prima e le appartenga. Ci si tormenta per «vivere la propria  esperienza» — giacché questo fa parte del modo di vivere che  si addice a una personalità — e non potendo riuscirvi bisogna  almeno fare come se si possedesse questa grazia. Una volta  questa «esperienza vissuta » si chiamava in tedesco Sensation.  E di quel che fosse e significasse la « personalità », si aveva  allora — ritengo — un'idea più esatta.  Egregi ascoltatori! Nel campo scientifico ha una sua « personalità » soltanto chi serve puramente la causa. E ciò non si  verifica soltanto in campo scientifico. Non conosciamo alcun  grande artista che non si sia interamente dedicato alla propria  causa e che abbia servito altri all’infuori di questa. Perfino una  personalità della levatura di Goethe non ha potuto impunemente — per quel che concerne la sua arte — prendersi la libertà  di voler fare un’opera d’arte della propria « vita». Ma se pure  non si voglia ammetterlo, bisogna tuttavia essere un Goethe  per poterselo permettere, e ognuno dovrà convenire almeno sul  fatto che nessuno mai ne è uscito immune, neppure lui, la cui  figura è unica nel corso di millenni. Le cose non stanno altrimenti in politica: ma di ciò non si parlerà oggi. Nel campo  della scienza non è certo una « personalità » colui il quale, al  modo di un impresario, porta se stesso alla ribalta insieme alla  causa a cui dovrebbe dedicarsi, e vorrebbe giustificare se medesimo col « vivere la propria esperienza », e domanda: come dimostrerò di essere qualcosa di più di un semplice « specialista», come riuscirò a dire qualcosa che non sia stato ancor  detto da nessuno nella stessa forma o con lo stesso contenuto?  Un fenomeno, questo, che oggi si osserva su larga scala e che  lascia ovunque un’impronta di meschinità, avvilendo colui che  si pone una simile domanda, laddove soltanto l’intima dedizione al proprio compito, e ad esso soltanto, può innalzarlo all’altezza e alla dignità della causa che pretende servire. Né diversamente avviene per l'artista.  Contrapposto a queste condizioni preliminari che il nostro  lavoro ha in comune con l’arte, esiste un destino che lo differenzia profondamente dal lavoro dell’artista. Il lavoro scientifico  è inserito nel corso del progresso. E viceversa nessun progresso  — in questo senso — si attua nel campo dell’arte. Non è vero che un’opera d’arte di un'epoca in cui siano stati elaborati  nuovi mezzi tecnici o, per esempio, le leggi della prospettiva,  si trovi per questa ragione a un più alto livello, sul piano  puramente artistico, di un’opera d’arte priva di ogni conoscenza di quei mezzi e di quelle leggi — se questa non è formalmente o materialmente manchevole, cioè se ha scelto e plasmato il proprio oggetto come era possibile fare a regola d’arte  senza l'applicazione di quelle condizioni e di quei mezzi. Un'opera d’arte veramente «compiuta» non viene mai superata,  non invecchia mai; l’individuo può attribuirvi personalmente  un significato di diverso valore; ma di un’opera realmente  «compiuta » in senso artistico nessuno potrà mai dire che sia  «superata» da un’altra pur essa «compiuta». Al contrario,  ognuno di noi sa che, nella scienza, il proprio lavoro dopo  dieci, venti, cinquant'anni è invecchiato. Questo è il destino, 0  meglio, questo è il senso del lavoro scientifico, il quale, rispetto a tutti gli altri elementi della cultura di cui si può dire  la stessa cosa, è ad esso assoggettato e affidato in modo del  tutto specifico: ogni lavoro scientifico «compiuto » comporta  nuove « questioni » e vole essere « superato » e invecchiare. A  ciò deve rassegnarsi chiunque voglia servire la scienza. Senza  dubbio vi sono opere scientifiche che possono conservare durevolmente la loro importanza come «mezzi di godimento» a  causa della loro qualità artistica, oppure come mezzo di addestramento al lavoro. Ma esser superati scientificamente è — giova  ripeterlo — non soltanto il destino di noi tutti, ma anche il  nostro scopo. Non possiamo lavorare senza sperare che altri si  spingeranno più avanti di noi. In linea di principio, questo  progresso tende all’infinito. E con ciò siamo giunti al problema  del senso della scienza. Infatti, non appare di per se stesso  chiaro come possa avere in sé un senso e una ragione qualcosa  che è sottoposto a una simile legge. Perché mai ci si adopera intorno a quello che, nella realtà, non giunge e non può mai giungere alla fine? Ebbene, anzitutto per scopi puramente pratici,  cioè per scopi tecnici nel senso ampio della parola: per poter  orientare la nostra azione pratica in base alle aspettative che ci  fornisce l’esperienza scientifica. Sta bene. Ma questo ha un significato solo per l'uomo pratico. Qual è ora la posizione interiore dell’uomo di scienza di fronte alla propria professione,  ammesso che egli cerchi di averne una in generale? Egli risponde: la scienza « per amore della scienza » e non per consentire  ad altri di raggiungere successi nel campo degli affari di carattere tecnico, per potersi meglio nutrire, vestire, illuminare, governare. Quale opera fornita di senso crede egli dunque di  produrre in tal modo, con queste creazioni sempre destinate a  invecchiare, col lasciarsi incanalare in questa attività divisa in  settori specializzati, e protraentesi all'infinito? A questo proposito bisogna fare alcune considerazioni generali.  Il progresso scientifico è una frazione, e senza dubbio la più  importante, di quel processo di intellettualizzazione al quale  siamo sottoposti da secoli e contro il quale oggi di solito si  prende una posizione così straordinariamente negativa.  Anzitutto rendiamoci chiaramente conto di che cosa propriamente significhi, dal punto di vista pratico, questa razionalizzazione intellettualistica ad opera della scienza e della tecnica  orientata scientificamente. Vorrà forse significare che oggi noi  altri, per esempio ogni persona presente in questa sala, abbiamo una conoscenza delle condizioni di vita nelle quali esistiamo maggiore di quella di un Indiano o di un Ottentotto? Ben  difficilmente. Chiunque di noi viaggi in tram non ha la minima idea — a meno ch'egli non sia un fisico di mestiere — di  come la vettura riesca a mettersi in moto: né, d’altronde, ha  bisogno di saperlo. Gli basta di poter « fare assegnamento » sul  modo di comportarsi di una vettura tranviaria, ed egli orienta  in conformità la propria condotta; ma nulla sa di come si  faccia per costruire un tram capace di mettersi in moto. Il  selvaggio ha una conoscenza dei propri utensili incomparabilmente migliore. Se oggi spendiamo del denaro, scommetto che,  perfino se vi sono colleghi economisti qui presenti, ognuno  avrà pronta una risposta diversa alla domanda: come avviene  che qualcosa — ora poco, ora molto — possa esser comperato  con il denaro? Il selvaggio sa in quale modo riesce a procurarsi il nutrimento quotidiano e quali istituzioni gli servano a  questo scopo. La progressiva intellettualizzazione e razionalizzazione n0n significa dunque una crescente conoscenza generale delle condizioni di vita che ci circondano. Essa significa  bensì qualcosa di diverso: la coscienza o la fede che, se soltanto si volesse, si potrebbe in ogni momento provare che non vi sono forze fondamentalmente misteriose e imprevedibili le quali intervengano in modo da impedire che si possa dominare —  in linea di principio — tutte le cose mediante la previsione  razionale. Ma ciò significa il disincantamento del mondo. Non  occorre più ricorrere a mezzi magici per dominare o per ingraziarsi gli spiriti, come fa il selvaggio per il quale esistono  potenze del genere. A ciò sopperiscono i mezzi tecnici e la  previsione razionale. È soprattutto questo il significato dell’intellettualizzazione in quanto tale.  Questo processo di disincantamento proseguito per millenni  nella cultura occidentale e, in generale, questo « progresso »  del quale la scienza è un elemento e un impulso, contiene un  qualche senso che vada al di Ià del fatto puramente pratico e  tecnico? Questa domanda la trovate formulata come questione  di principio soprattutto nelle opere di Lev Tolstòj. Egli vi  giunse attraverso una propria via. Il problema centrale intorno  al quale egli si tormentava era la questione se la morte fosse o  no un fenomeno dotato di senso. E la sua risposta, nei confronti degli uomini civili, è negativa. Ciò appunto in quanto  la vita del singolo individuo civilizzato, inserita nel « progresso», nell’infinito, non può per il suo stesso senso immanente  avere alcun termine. Giacché c'è sempre un ulteriore progresso  da compiere per chi c'è dentro; nessuno muore dopo esser  giunto al culmine, che è situato nell'infinito. Abramo e un  qualsiasi contadino dei tempi antichi moriva « vecchio e sazio  della vita» perché si trovava nel ciclo organico della vita,  perché la sua vita, anche per il suo significato, alla sera della  sua giornata gli aveva portato ciò che poteva offrirgli, perché  non rimanevano per lui enigmi da risolvere ed egli poteva  perciò averne « abbastanza ». Ma un uomo civile, il quale partecipa all’arricchimento progressivo della civiltà in idee, conoscenze, problemi, può diventare « stanco della vita » ma non sazio.  Di ciò che la vita dello spirito sempre nuovamente produce egli  coglie soltanto la minima parte, e sempre qualcosa di provvisorio e mai definitivo: quindi la morte è per lui un accadimento  privo di senso. Ed essendo la morte priva di senso, lo è anche  la vita culturale come tale, in quanto appunto con la sua assurda « progressività » fa della morte un assurdo. Ovunque, nei  MAX WEBER 697  suoi ultimi romanzi, quest'idea costituisce il motivo fondamentale dell’arte di Tolstòj.  Quale posizione si può assumere in proposito? Al « progresso», come tale, può riconoscersi un senso che va al di là della  tecnica, cosicché avrebbe significato la professione dedicata al  suo servizio? È un quesito che va posto. Ma non si tratta  soltanto del problema della professione e della vocazione ne:  riguardi della scienza, e cioè del problema: che cosa significa  la scienza come professione per colui il quale vi si dedica? —  bensì anche di questo: che cos'è la professione della scienza  nell’ambito dell'intera vita dell'umanità? e qual è il suo valore?   L’antitesi tra passato e presente è qui enorme. Vi ricorderete di quella meravigliosa immagine al principio del libro VII  della Repubblica di Platone: quegli uomini in una caverna  incatenati, col viso rivolto alla parete di roccia, che la luce  colpisce alle spalle e che non possono vederla e si preoccupano  perciò soltanto delle ombre che essa getta sulla parete e cercano  di stabilirne la causa. Finalmente uno di loro riesce a spezzare  le catene, si volta e mira: il sole. Abbagliato brancola all’intorno e descrive balbettando quel che ha veduto. Gli altri gli  dànno del pazzo. Ma a poco a poco egli impara a vedere nella  luce e allora si adopera a scendere tra gli uomini delle caverne  e a trarli su verso la luce. Egli è il filosofo e il sole è la verità  della scienza, che sola non va in caccia di fantasmi e di ombre  ma persegue il vero essere.  Ebbene, chi tiene oggi un simile atteggiamento verso la  scienza? È proprio la gioventù a manifestare oggi un sentimento opposto: le formazioni concettuali della scienza sono un  mondo sotterraneo di artificiose astrazioni che cercano di cogliere con le loro mani esangui, senza mai riuscirvi, la linfa e il  sangue della vita reale. È qui nella vita, in ciò che per Platone  costituiva il gioco d’ombre sulle pareti della caverna, che palpita la vera realtà: il resto sono fantasmi senza vita astratti da  quella, e null’altro. Come si è effettuato un tale mutamento?  L’appassionato entusiasmo di Platone nella Repubblica si spiega in ultima analisi considerando che allora per la prima volta  si era scoperto consapevolmente il senso di uno dei più importanti mezzi di ogni conoscenza scientifica: il concetto. Socrate  ne ha rivelato tutta l’importanza. Ma non è stato il solo: in  698 MAX WEBER  India potete trovare saggi di una logica del tutto simile a  quella di Aristotele. Mai però con questa coscienza del suo  significato. Allora per la prima volta sembrò disponibile un  mezzo per stringere chiunque nella morsa della logica così da  non lasciarlo uscire senza ammettere o di non saper nulla o  che questa e non altra è la verità, l'eterna verità, che non è  transeunte come l’agire e l’indaffararsi degli uomini ciechi. Fu  questa la straordinaria esperienza vissuta dai discepoli di Socrate. Da ciò sembrava conseguire che, ove si fosse trovato l’esatto  concetto del bello, del buono, come pure del coraggio, dell’anima, e via dicendo, se ne potesse cogliere anche il vero essere, e  ciò sembrava di nuovo aprire la via per sapere e per insegnare  il modo giusto di agire nella vita, soprattutto come cittadino.  Infatti la mentalità completamente politica dei Greci riduceva  tutto a questo problema. Perciò si coltivava la scienza.   Accanto a questa scoperta dello spirito greco si presenta ora  — frutto del Rinascimento — il secondo grande strumento del  lavoro scientifico, l'esperimento razionale, come mezzo per l’esperienza rigorosamente controllata, senza il quale sarebbe impossibile la scienza empirica moderna. Anche precedentemente  era stato adottato il metodo sperimentale: nella fisiologia, per  esempio, in India, per servire alla tecnica ascetica dello Yogi;  nella matematica, tra gli antichi Greci, ai fini della tecnica  bellica; per i lavori nelle miniere, durante il Medioevo. Ma  aver innalzato l'esperimento a principio della ricerca come tale  è un prodotto del Rinascimento. Ne furono pionieri i grandi  innovatori nel campo dell’arte: Leonardo e i suoi pari, e caratteristici soprattutto gli sperimentatori di musica del Cinquecento con i loro clavicembali sperimentali. Da questi l’esperimento  passò nella scienza soprattutto ad opera di Galilei, e nella teoria ad opera di Bacone; lo adottarono poi le singole discipline  delle scienze esatte nelle università del continente, in primo  luogo in Italia e in Olanda.   Che cosa dunque significava la scienza per quegli uomini  alla soglia dell’età moderna? Per gli sperimentatori nel campo  dell’arte, come Leonardo e gli innovatori nella musica, significava la via per giungere alla vera arte, ciò che per loro equivaleva alla vera natura. L'arte doveva esser elevata alla dignità di  una scienza, e cioè al tempo stesso, e soprattutto, l’artista al rango di un dotto, dal punto di vista sociale e riguardo al senso  della sua vita. È questa l’ambizione che sta per esempio alla  base anche del Trattato della pittura di Leonardo. E oggi?  «La scienza come via per giungere alla natura» — questa  frase suonerebbe come una bestemmia alle orecchie dei giovani.  No, tutt'al contrario: liberiamoci dall’intellettualismo della  scienza per ritornare alla nostra propria natura e quindi alla  natura in generale! Sarà forse allora la via per giungere all'arte? A questa domanda è superflua qualsiasi critica. — Ma  all’epoca dell’origine delle scienze esatte della natura, ci si  attendeva dalla scienza qualcosa di più. Se rammentate il detto  di Swammerdam® «vi reco qui la prova della provvidenza di  Dio nell’anatomia d’un pidocchio », capirete ciò che il lavoro  scientifico, sotto l'influenza (indiretta) del Protestantesimo e  del Puritanesimo, considerasse allora come proprio compito: la  via per giungere a Dio. Questa, allora, non la si trovava più  nei filosofi, nei loro concetti e nelle loro deduzioni: che non si  potesse trovare Dio per la via tentata dal Medioevo, ben lo  sapeva tutta la teologia pietistica di quel tempo, Spener* soprattutto. Dio è nascosto, le sue vie non sono le nostre vie, i suoi pensieri non sono i nostri pensieri. Ma nelle vie esatte della natura,  dove si poteva cogliere fisicamente la sua opera, là si sperava di  poter rintracciare i suoi disegni in relazione al mondo. E oggigiorno? Chi ancor oggi — tranne alcuni grandi fanciulli, quali  è dato incontrare proprio nelle scienze naturali — crede che le  conoscenze dell'astronomia o della biologia o della fisica o della chimica possano insegnarci qualcosa intorno al serso del  mondo, o anche soltanto intorno alla via per la quale si possano rintracciare gli indizi di un simile « senso », se pur ve n'è  uno? Quelle conoscenze sono semmai più adatte a soffocare in  germe la fede che vi sia qualcosa di simile a un «senso» del  5. Jan Swammerdam, naturalista olandese, autore del Tractatus  physico-anatomico-medicus de respiratione usuque pulmonum (1667), del Miraculum naturae seu uteris muliebris fabrica (1672), della Ephemerae vita (1675) ©  di varie altre opere, diede importanti contributi allo studio degli insetti, all'embriologia, all'anatomia umana, e fu tra i pionieri del microscopio. Spener, teologo protestante tedesco, autore di Pia  desideria (1675), di Dus geistliche Priestertum (1677), della Evangelische Glaubenslehre (1688), delle Evangelische Lebenspffichten (1692) c di varie altre opere, fu il  fondatore del movimento pietistico.  mondo! E finalmente, la scienza come via per giungere «a  Dio»? Essa, la potenza specificamente estranea alla divinità?  Che tale essa sia nessuno oggi, nel suo intimo, può dubitarne,  pur essendo più o meno disposto a confessarlo. L’emancipazione dal razionalismo e dall’intellettualismo della scienza costituisce il presupposto fondamentale della vita in comunione con il  divino: questa massima, o qualcosa di significato identico, è  una delle parole d’ordine che si ritrovano ovunque nel sentimento dei nostri giovani dotati di animo religioso o che aspirano a un'esperienza religiosa. Ed essa vale non soltanto per  l’esperienza religiosa, ma per l’esperienza in generale. Paradossale però è la via seguita: si elevano ora alla coscienza e si  sottopongono alla sua lente proprio quelle sfere dell’irrazionale,  le sole che finora l’intellettualismo non aveva ancora toccato. A  ciò conduce infatti, in pratica, il moderno romanticismo intellettualistico dell’irrazionale. Questa via per liberarsi dall’intellettualismo porta a un risultato esattamente opposto al fine immaginato da coloro i quali la percorrono. Che infine per un ingenuo ottimismo si sia celebrato nella scienza, ossia nella tecnica  per il dominio della vita su di essa fondata, la via per giungere  alla felicità, posso passarlo sotto silenzio dopo la critica demolitrice rivolta da Nietzsche a quegli « ultimi uomini» i quali  «hanno trovato la felicità». Chi ci crede più, tranne alcuni  grandi fanciulli sulle cattedre o nei comitati di redazione?  Torniamo al punto di partenza. Dati questi presupposti  intrinseci, qual è il senso della scienza come professione, dal  momento che sono naufragate tutte quelle precedenti illusioni  — «la via per il raggiungimento del vero essere», «la via  verso la vera arte», «la via verso la vera natura», «la via  verso il vero Dio », «la via verso la vera felicità »? La risposta  più semplice è stata data da Tolstòj con queste parole: « essa è  priva di senso perché non risponde alla sola domanda importante per noi: che cosa dobbiamo fare? come dobbiamo vivere? »  Il fatto che non vi risponda è assolutamente incontestabile. Si  tratta soltanto di domandarsi in quale senso non dia « nessuna» risposta, e se in luogo di questa essa non possa per caso  dare un qualche aiuto a chi si ponga la questione nei suoi  termini esatti. — Oggi si suole sovente parlare di una scienza senza presupposti. Ce n'è una? Dipende da quel che si vuol  intendere. Presupposto di qualsiasi lavoro scientifico è sempre  la validità delle regole della logica e della metodologia, di  questi fondamenti generali del nostro orientamento nel mondo.  Ora siffatti presupposti, per lo meno quanto alla nostra questione particolare, non sono affatto problematici. Si presuppone  inoltre che il risultato del lavoro scientifico sia importante nel  senso che sia « degno di essere conosciuto ». E qui evidentemente hanno la loro radice tutti i nostri problemi. Infatti questo  presupposto non può essere a sua volta dimostrato con i mezzi  della scienza. Può essere soltanto interpretato nel suo senso  ultimo, che bisognerà accogliere o respingere a seconda della  personale posizione ultima di fronte alla vita.  Assai diverso, inoltre, è il tipo di relazione del lavoro scientifico con questi suoi presupposti, a seconda della loro struttura.  Le scienze naturali come la fisica, la chimica, l’astronomia,  presuppongono come evidente che le leggi ultime dell’accadere  cosmico — costruibili, fin dove arriva la scienza — siano degne  di esser conosciute. Non soltanto perché con queste nozioni si  possono raggiungere successi tecnici, ma — se devono essere  « professione » — « per se stesse ». Questo presupposto a sua  volta non è assolutamente dimostrabile; e meno che mai si può  dimostrare se il mondo da esse descritto sia degno di esistere,  se cioè esso abbia un « senso », e se abbia un senso esistere in  esso. Di ciò quelle scienze non si preoccupano. Oppure prendete un'arte pratica così sviluppata scientificamente come la medicina moderna. Il « presupposto» generale dell'esercizio della medicina è — in parole povere — che sia considerato positivo, unicamente come tale, il compito della conservazione della vi- ta e della riduzione al minimo della sofferenza. E ciò è proble- matico. Il medico cerca con tutti i mezzi di conservare la vita al moribondo, anche se questi implora di essere liberato dalla vita, anche se la sua morte è e dev'essere desiderata — più o meno consapevolmente — dai suoi congiunti, per i quali la sua vita è ormai priva di valore mentre insopportabili sono gli oneri per conservarla, ed essi gli augurano la liberazione dalla sofferenza (si tratta, poniamo il caso, di un povero folle). Ma i presupposti della medicina e il codice penale impediscono al medico di desistere. La scienza medica non si pone la domanda se e quando la vita valga la pena di esser vissuta. Tutte le scienze naturali dànno una risposta a questa domanda: che cosa dobbiamo fare se vogliamo dominare tecnicamente la vi- ta? Ma se dobbiamo e vogliamo dominarla tecnicamente, e se ciò, in definitiva, abbia propriamente un senso, esso lo lasciano del tutto in sospeso oppure lo presuppongono per i loro scopi. Prendiamo, se volete, una disciplina come la scienza dell’arte. Il fatto che vi siano opere d’arte costituisce, per l’estetica, un dato. Essa cerca di stabilire a quali condizioni quel fenomeno si verifichi. Ma non si pone la domanda se il dominio dell’arte non sia per avventura un regno di magnificenza diabolica, un regno di questo mondo, e perciò intimamente opposto al divino e, per il suo carattere intrinsecamente aristocratico, allo spirito di fraternità. Essa non si domanda quindi se debbano esservi opere d’arte. Oppure prendiamo la giurisprudenza: essa stabili- sce ciò che è valido secondo le regole del pensiero giuridico, in parte coercitivamente logico e in parte vincolato da schemi convenzionali; vale a dire, stabilisce se sono riconosciute obbli- gatorie determinate regole giuridiche e determinati metodi per la loro interpretazione. Non decide se debba esservi il diritto e se debbano esser formulate proprio quelle regole; essa può indi- care soltanto che, se si vuol conseguire un risultato, il mezzo appropriato per raggiungerlo ci è dato da questa regola giuridi- ca, secondo le norme del nostro pensiero giuridico. O prendete ancora le scienze storiche della cultura. Esse ci insegnano a comprendere i fenomeni della cultura — politici, artistici, lette- rari e sociali — in base alle condizioni del loro sorgere. Ma non rispondono di per sé alla questione se questi fenomeni culturali fossero e siano degni di sussistere, e neppure all’altra questione se valga la pena di conoscerli. Esse presuppongono che abbia un interesse partecipare, mediante tale procedimen- to, alla comunità degli « uomini civili ». Ma che così stiano le cose, esse non sono in grado di dimostrarlo « scientificamente » a nessuno, e che esse lo presuppongano non dimostra affatto che ciò sia evidente. E infatti non lo è per nulla. Soffermiamoci ora su quelle discipline alle quali sono più vicino, e cioè la sociologia, la storia, l'economia, la dottrina dello stato, e su quelle forme di filosofia della cultura che si pro- pongono di darne un’interpretazione. Si afferma — e io lo MAX WEBER 793 sottoscrivo — che la politica non si addice all’aula di lezione. Non vi si addice da parte degli studenti. Io vorrei deplorare per esempio che nell’aula del mio vecchio collega Dietrich Sché- fer? a Berlino gli studenti pacifisti si accalcassero intorno alla cattedra e facessero un chiasso simile a quello che devono aver inscenato gli studenti anti-pacifisti davanti al professor Fòr- ster®, dalle cui opinioni le mie divergono radicalmente in molti punti. Ma la politica non si addice all'aula neppure da parte degli insegnanti: meno che mai quando l’insegnante si occupa di politica dal punto di vista scientifico. Infatti la presa di posizione politica pratica e l’analisi scientifica di formazioni e partiti politici sono due cose diverse. Quando uno parla sulla democrazia in una riunione popolare, non fa mistero della propria presa di posizione personale: anzi, è questo il dannato obbligo e dovere, prender partito in modo chiaramente ricono- scibile. Le parole di cui ci si serve non sono in questo caso strumenti di analisi scientifica, bensì mezzi di propaganda per trarre dalla nostra parte gli altri. Esse non sono un vomere per smuovere il terreno del pensiero contemplativo, bensì spade contro gli avversari, strumenti di lotta. Ma in una lezione o in un'aula sarebbe un misfatto usare la parola in questa maniera. Se.vi si parlerà di « democrazia », si osserveranno le sue di- verse forme, si analizzerà il modo in cui esse funzionano, si stabilirà quali siano le conseguenze particolari dell’una o dell’al- tra per le condizioni della vita, e poi vi si contrapporranno le altre forme non democratiche di organizzazione politica e si cercherà di giungere fino al punto in cui l'ascoltatore sia in grado di poter prendere posizione secondo i suo: ideali ultimi. Ma il vero maestro si guarderà bene dal sospingerlo, dall'alto della cattedra, a prendere una qualsiasi posizione, sia esplicita- mente sia con suggerimenti — poiché naturalmente il metodo più sleale è quello di « far parlare i fatti». 7. Dietrich Schifer (1845-1929), storico tedesco allievo di Treitschke, di oricn- tamento nazionalistico, 8. Friedrich Wilhelm Forster (1869-1966), filosofo e pedagogista tedesco, autore di Lebensfiihrung (1909), di Autorità und Freiheit (1910), di Erziechung und Selbst- erziehung (1917), di Hauptaufgaben der Erziehung (1959) e di numerose altre opere di argomento etico-pedagogico ed etico-politico, fu sostenitore del pacifismo e quiodi oggetto di violenti attacchi da parte degli studenti nazionalisti. Ma per quale ragione, precisamente, dobbiamo astenercene ? Premetto che diversi tra i miei stimatissimi colleghi sono del parere che una siffatta discrezione non sia attuabile e che, se anche lo fosse, sarebbe follìa pretenderla. Ora a nessuno può dimostrarsi scientificamente quale sia il suo dovere di professo- re universitario. Da lui si può pretendere soltanto la probità intellettuale, per cui sappia comprendere che la constatazione dei fatti, la determinazione di rapporti matematici o logici o della struttura interna di beni culturali da una parte — e dall’al- tra la risposta alla questione del valore della cultura e dei suoi contenuti particolari — e quindi del modo in cui si deve agire nell’ambito della comunità civile e dei gruppi politici — sono due problemi assolutamente eterogenei. Se poi egli domanda perché non debba trattarli entrambi nell'aula di lezione, ecco la risposta: perché il profeta e il demagogo non si addicono alla cattedra. Al profeta e al demagogo è stato detto: «esci per le strade e parla pubblicamente ». Parla, cioè, dov’è possibi- le la critica. Nell’aula di lezione, ove si sta seduti di faccia ai propri ascoltatori, a questi tocca tacere e al maestro parlare, e reputo una mancanza di senso di responsabilità approfittare della circostanza che gli studenti sono obbligati dal program- ma di studi a frequentare il corso di un professore dove nessu- no può intervenire a controbatterlo, per inculcare negli ascolta- tori la propria personale concezione politica invece di recare loro giovamento, come il dovere impone, con le proprie cono- scenze e le proprie esperienze scientifiche. Può certamente avve- nire che l'individuo riesca solo imperfettamente a nascondere le proprie simpatie soggettive. Allora, egli si espone alla cri- tica più spietata davanti al foro della sua coscienza. E ciò d'altronde non prova nulla, poiché anche altri errori puramen- te di fatto sono possibili e non possono contrastare al dovere di ricercare la verità. Io mi rifiuto di ammetterlo anche e precisa- mente per l'interesse puramente scientifico. Sono disposto a provare sulle opere dei nostri storici che, ogni qual volta l’uo- mo di scienza mette innanzi il proprio giudizio di valore, cessa la perfetta comprensione del fatto. Tuttavia, ciò esula dal tema di questo discorso ed esigerebbe lunghe considerazioni critiche. Io domando semplicemente: come può da una parte un cattolico credente e dall’altra un massone — in un corso sulle forme di chiesa e di stato o sulla storia della religione — come possono mai questi due esser condotti a un’eguale valutazione di tali oggetti? È impossibile. Eppure, il professore universita- rio deve desiderare e proporsi di giovare con le sue conoscenze e i suoi metodi tanto all'uno come all’altro. Ora voi direte giustamente: neppure riguardo ai fatti relativi all'origine del Cristianesimo il cattolico credente potrà mai accettare l’opinio ne prospettatagli da un maestro che non condivida i suoi pre- supposti dogmatici. Senza dubbio! Ma la differenza consiste nel fatto che la scienza « priva di presupposti », nel senso che riftu- ta ogni vincolo religioso, non riconosce di fatto, dal canto suo, il « miracolo » e Ia «rivelazione ». Altrimenti essa tradirebbe i propri « presupposti ». Il credente li riconosce entrambi. E quel- la scienza « priva di presupposti » non pretende da lui meno — ma anche niente di più — del riconoscimento che bisogna seguire la via tentata dalla scienza, se si vuol spiegare quell’av- venimento prescindendo da quegli interventi soprannaturali, che per una spiegazione empirica devono essere esclusi come momenti causali. Ciò il credente può ammetterlo senza tradire la propria fede. Ma la funzione della scienza non avrà allora alcun senso per chi è indifferente al fatto in quanto tale e reputa importan- te soltanto la presa di posizione pratica? Forse sì. E anzitutto: un abile maestro considererà suo primo compito insegnare ai propri allievi a riconoscere i fatti scomodi, e cioè tali, intendo dire, che siano scomodi per la sua opinione di partito; e per ogni partito — per esempio anche per il mio — vi sono fatti del genere, estremamente imbarazzanti. Credo che il professore universitario, se avvezza i propri ascoltatori a questa necessità, compia una funzione non soltanto intellettuale, ma — oserei dire — una « funzione etica », per quanto una simile espressio- ne possa suonar troppo patetica applicata a un fatto così sempli- ce e ovvio. Finora ho parlato soltanto dei motivi pratici che consiglia- no di evitare di imporre una presa di posizione personale. Ma non è tutto qui. L’impossibilità di presentare « scientificamen- te» una presa di posizione pratica — eccetto nel caso di una discussione dei mezzi per uno scopo che si presuppone già dato deriva da ragioni ben più profonde. Una simile impresa è in  linea di principio priva di senso, in quanto i diversi ordini di valori che esistono al mondo stanno tra loro in una lotta  inconciliabile. Il vecchio Mill — la cui filosofia non intendo  peraltro lodare, ma che su questo punto ha ragione — dice in qualche luogo: partendo dalla pura esperienza si giunge al politeismo. Il principio è formulato superficialmente e sembra un paradosso, tuttavia contiene una qualche verità. Di questo, se non altro, oggi siamo certi: che qualcosa può essere sacro non soltanto anche senza essere bello, ma perché e in quanto non è bello (potrete trovarne le prove nel cap. 53 del Libro di Isaia e nel Salmo 21) e che qualcosa può essere bello non soltanto anche senza essere buono bensì in quanto non è tale, come abbiamo imparato da Nietzsche e come anche prima potete trovare illu- strato nelle Fleurs du mal, come chiamò Baudelaire il suo volume di poesie; ed è infine una verità di tutti i giorni che qualcosa può essere vero sebbene e in quanto non sia bello, né sacro, né buono. Ma questi sono soltanto gli esempi più elemen- tari di tale lotta tra gli dèi che presiedono ai diversi ordinamen- ti e valori. Come si possa fare per decidere « scientificamente » tra il valore della cultura tedesca e di quella francese, io lo  ignoro. Anche qui c'è un antagonismo tra divinità diverse, per  tutti i tempi. Avviene come nel mondo antico, ancora sotto  l'incanto dei suoi dèi e dei suoi demoni, anche se in un altro  senso: come i Greci sacrificavano ora ad Afrodite e ora ad  Apollo, e ciascuno in particolare agli dèi della propria città,  così è ancor oggi, senza l’incantesimo e l’ammanto della forza  plastica, mitica ma intimamente vera, di quell’atteggiamento.  Su questi dèi e sulle loro lotte domina il destino, non certo la  « scienza ». È dato solamente intendere che cosa sia il divino  nell’uno e nell’altro caso, ovvero in un ordinamento e nell’altro. Ma con ciò la questione è assolutamente chiusa a qualsiasi  discussione in un’aula di lezione e per bocca di un insegnante,  quantunque naturalmente non sia affatto chiuso l’enorme problema di vita che vi è racchiuso. Qui però la parola spetta a  potenze diverse che non alle cattedre universitarie. Chi vorrà  provarsi a « confutare scientificamente » l’etica del Sermone della Montagna, per esempio la massima: « non far resistenza al  male », oppure l’immagine del porgere l’altra guancia? Eppure  MAX WEBER 707  è chiaro che, dal punto di vista intra-mondano, vi si predica  un'etica della mancanza di dignità: bisogna scegliere tra la  dignità religiosa, che questa etica comporta, e la dignità virile,  che predica qualcosa di ben diverso: «devi far resistenza al  male, altrimenti sei anche tu responsabile se questo prevale ».  Dipende dalla propria presa di posizione rispetto al fine ultimo  che l’uno sia il diavolo e l’altro il dio, e spetta all’individuo  decidere quale sia per lui il dio e quale il diavolo. E così  avviene per tutti gli ordinamenti della vita. Il grandioso razionalismo della condotta etico-metodica della vita, che sgorga da  ogni profezia religiosa, aveva detronizzato questo politeismo a  favore dell’« Uno, che è necessario», e poi, di fronte alle  realtà della vita esteriore e interiore, si è visto costretto a scendere a quei compromessi e a quelle relativizzazioni che tutti  conosciamo dalla storia del Cristianesimo. Ma ciò è oggi una  «realtà quotidiana » per la religione. Gli antichi dèi, spogliati  del loro incanto e perciò ridotti a potenze impersonali, si levano dalle loro tombe, aspirano a dominare sulla nostra vita e  riprendono quindi la loro eterna lotta. Ma ciò che per l’uomo moderno è appunto tanto difficile, e sommamente difficile per la giovane generazione, è saper far fronte a siffatta realtà quoti- diana. Tutto quell’affannarsi in cerca dell’« esperienza vissuta » deriva da questa debolezza. Infatti è una debolezza non poter tenere levato lo sguardo al volto severo del destino dei tempi. Ma il destino della nostra cultura è appunto quello di essere diventati oggi nuovamente e più chiaramente consapevoli di ciò che per un millennio l’orientamento esclusivo — vero o presunto — verso il grandioso pathos dell'etica cristiana aveva celato ai nostri occhi.  Ma basta ora con questi problemi che ci conducono troppo  lontano. Poiché, quando una parte dei nostri giovani volesse  dare a tutto ciò questa risposta: « già, ma noi veniamo a lezione per ricavarne un'esperienza che non consista soltanto in  analisi e in constatazioni di fatto », essi incorrerebbero nell’errore di cercare nel professore qualcosa di diverso da ciò che sta  loro di fronte — e cioè un capo e non un maestro. La cattedra  ci è conferita solamente in qualità di maestri. Si tratta di due  cose ben diverse, e di ciò è facile convincersi. Permettetemi di  condurvi ancora una volta in America, dove queste cose si  708 MAX WEBER  possono spesso vedere nella loro più pesante originarietà. Il  ragazzo americano impara incomparabilmente meno del nostro. Nonostante un'incredibile quantità di esami, il senso della  sua vita scolastica non è ancora diventato tale da ridurlo un « tipo  da esami », come avviene per il ragazzo tedesco. Infatti la burocrazia, la quale esige il diploma di esame come biglietto d’ingresso nel regno delle prebende degli uffici, è laggiù ancora agli inizi.  Il giovane americano non porta rispetto a nulla e a nessuno, a nessuna tradizione e a nessun ufficio, salvo che alla prestazione personale: questa è per l’Americano la «democrazia», Per quanto la  realtà possa comportarsi pur sempre in maniera distorta rispetto a questo contenuto di senso, esso risulta però tale e di questo  dobbiamo qui tener conto. Dell’insegnante che gli sta di fronte  il giovane americano ha quest’opinione: egli mi vende le sue  nozioni e i suoi metodi per il denaro di mio padre, così come  l’erbivendola vende i cavoli a mia madre. Con ciò è detto  tutto. Tuttavia, se il maestro è per avventura un alipone di  football, in questo campo egli è anche un capo. Ma se non è  tale (o qualcosa di simile in altri sport), egli è semplicemente  un insegnante e nulla più, e a nessun giovane americano verrà  in mente di farsi vendere da lui delle « intuizioni del mondo »  o delle regole per la sua condotta di vita. Ora, noi respingeremo una simile opinione formulata in questi termini. Bisogna  però domandarsi se in questo modo di sentire, che di proposito ho voluto spingere all'estremo, non si annidi un nocciolo  di verità.  Fratelli d'armi e sorelle d'armi! Voi venite alle nostre lezioni con la pretesa di trovare in noi qualità di capi, senza aver  riflettuto che, di cento professori, almeno novantanove non pretendono e non possono pretendere di essere non soltanto campioni di football della vita, ma neppure in generale «capi»  nelle faccende della condotta della vita. Pensate che il valore  dell'uomo non dipende certo dal fatto di possedere le doti di  un capo. E comunque, le qualità che fanno di qualcuno un  eminente studioso e un professore universitario non sono  quelle stesse che ne fanno un capo sul terreno dell’orientamento pratico della vita o, più specificamente, della politica. È un puro caso che qualcuno possegga anche questa qualità, ed è una cosa assai preoccupante quando chiunque stia in cattedra si sente posto di fronte alla pretesa che egli la possegga. E  ancor più preoccupante, poi, è quando a ogni professore universitario viene data facoltà di assumere nell’aula la posizione di  un capo. Infatti coloro che si ritengono di esserlo più degli  altri lo sono spesso meno di tutti; ma soprattutto la cattedra  non può offrire alcuna possibilità di conferma. Il professore  che si senta chiamato a dare il suo consiglio ai giovani e goda  della loro fiducia, dovrà procurare di mettersi alla prova discutendo con loro in un rapporto personale da uomo a uomo. E se  si sente chiamato a partecipare alle lotte tra le intuizioni del  mondo e le diverse opinioni di partito, lo faccia al di fuori,  nell’agone della vita: nella stampa, nelle assemblee, nei circoli,  dove gli pare. È troppo comodo però dar prova del proprio  coraggio di confessore della fede là dove gli astanti, e fors'anche quelli di diversa opinione, sono condannati al silenzio.  Voi mi porrete infine la domanda: se così stanno le cose,  che offre allora la scienza di veramente positivo per la «vita »  pratica e personale? E con ciò siamo daccapo al problema della  vostra « professione ». Anzitutto, naturalmente, la scienza offre  cognizioni sulla tecnica per padroneggiare la vita, rispetto agli  oggetti esterni e rispetto all’agire dell’uomo, mediante la previsione razionale: ebbene, voi replicherete che con ciò siamo pur  sempre al punto dell’erbivendola del ragazzo americano. Sono  perfettamente della vostra opinione. Ma c’è in secondo luogo  qualcosa che quell’erbivendola non è tuttavia capace di fare: i  metodi del pensare, l’attrezzatura e l'addestramento a quello  scopo. Direte forse che, se questi non sono proprio gli ortaggi,  non sono tuttavia più che i semplici mezzi per procurarseli.  Bene, diamolo oggi per ammesso. Ma fortunatamente la funzione della scienza non è ancora finita, bensì noi siamo in condizione di aiutarvi a conseguire un ulteriore risultato: la chiarezza. A patto, naturalmente, di possederla noi stessi. Se questo è  il caso, possiamo renderlo chiaro: rispetto al problema del  valore, intorno al quale sempre ci si aggira — per comodità vi  prego di riferirvi, come esempio, ai fenomeni sociali — si  possono prendere praticamente diverse posizioni. Se si assume  l’una o l’altra, bisogna applicare — secondo le esperienze della  scienza — certi mezzi o certi altri per attuarla praticamente.  Ora questi mezzi possono essere di per sé tali che voi crederete di doverli respingere. Allora, bisogna appunto scegliere tra lo  scopo e i mezzi indispensabili. Lo scopo «giustifica» o no  questi mezzi? L'insegnante può mostrarvi la necessità di questa  scelta, ma non può fare di più, in quanto voglia rimanere  insegnante e non diventare un demagogo. Naturalmente, può  ancora dirvi: se volete questo o quell'altro scopo, dovete mettere in conto anche questa o quell’altra conseguenza concomitante che si verifica in conformità all'esperienza; la situazione,  cioè, è sempre la medesima. Tuttavia, tutti questi sono pur  sempre problemi del genere di quelli che possono sorgere anche per ogni tecnico, il quale in innumerevoli casi deve decidere secondo il principio del minor male o del meglio relativo.  Ma per lui una cosa, quella principale, è di solito già data: lo  scopo. Non così avviene per noi, non appena siano in questione  problemi realmente « ultimi ». E con ciò siamo giunti alla funzione più alta che la scienza in quanto tale può assolvere in  servizio della chiarezza, e contemporaneamente anche ai suoi  confini. Noi possiamo — e dobbiamo — anche dirvi: questa o quest'altra posizione pratica può essere derivata con  intima coerenza e quindi con serietà, per quanto riguarda il  suo senso, da questa o da quest'altra fondamentale concezione  del mondo — magari da una soltanto o forse anche da più —  ma non mai da quell'altra. Voi servite questo dio — per  parlar figuratamente — e offendete quell'altro, se vi risolveteper questa presa di posizione. Infatti perverrete necessariamen- te a queste e a quest’altre conseguenze ultime dotate di senso, se rimarrete fedeli a voi stessi. Quest'opera, almeno in linea di principio, può esser compiuta. A ciò tendono la disciplina spe- ciale della filosofia e le discussioni di principio, per loro essen- za filosofica, delle singole discipline. Possiamo quindi, se ab- biamo ben capito il nostro compito (il che dev’esser qui presup- posto), costringere l'individuo — o almeno aiutarlo — a render- st conto del senso ultimo del suo proprio operare. Questo non mi sembra sia troppo poco, anche per la vita puramente perso- nale. Di un insegnante che riesca in questo compito sarei tenta- to di dire che si è messo al servizio di potenze «etiche», del dovere di promuovere la chiarezza e il senso di responsabilità, e credo che ne sarà tanto più capace quanto più coscienziosamente eviterà di fornire bell'e pronta o di suggerire per pro- prio conto all'ascoltatore una presa di posizione. Senza dubbio la soluzione che qui vi ho prospettato riposa su questo fondamentale dato di fatto: che la vita, in quanto deve fondarsi su se stessa ed essere compresa in base a se stessa, conosce soltanto la lotta eterna di quelle divinità tra loro — cioè, fuor di metafora, l’inconciliabilità e quindi l’inso- lubilità della lotta tra le posizioni ultime possibili in generale rispetto alla vita, vale a dire la necessità di decidere per l’una o per l’altra. Se in queste condizioni la scienza sia degna di diventare una «professione » e se essa stessa costituisca una « professione » fornita di valore oggettivo — ecco un altro giu- dizio di valore sul quale non è dato pronunciarsi nell’aula di lezione. Per l'insegnamento, infatti, la risposta affermativa è un presupposto. Io personalmente, col mio stesso lavoro, rispondo affermativamente. E ciò vale anche per quel punto di vista — che la gioventù oggi professa, o meglio che per lo più s'imma- gina semplicemente di professare — il quale odia l’intellettuali- smo come il più nero dei diavoli. Giacché ad esso si conviene il detto: «il diavolo è vecchio, pensateci: invecchiate e lo capire- te »°. Ciò non s'intende nel senso dell’atto di nascita, ma nel senso che, anche riguardo a questo diavolo, se si vuol farla finita con lui, non vale ricorrere alla fuga, come oggi si fa così volentieri, ma bisogna scrutare bene a fondo tutte le sue vie prima di poter vedere la sua potenza e i suoi confini. Che la scienza sia oggi una «professione» spectalizzata, posta al servizio dell’auto-riflessione e della conoscenza di situa- zioni di fatto, e non una grazia di visionari e profeti, dispensa- trice di mezzi di salvezza e di rivelazioni, o un elemento della meditazione di saggi e filosofi sul serso del mondo — è certa- mente un dato di fatto ineluttabile dalla nostra situazione stori- ca, al quale, se vogliamo restare fedeli a noi stessi, non possia- mo sfuggire. E se di nuovo sorge in voi Tolstò) a domanda- re: «se dunque non è la scienza a farlo, chi risponde allora alla domanda: che cosa dobbiamo fare? e come dobbiamo diri- gere la nostra vita? », oppure, nel linguaggio che testé 9. Goetne, Faust, vv. 6817-18 (tr. it. di F. Fortini). abbiamo usato: « quale degli dèi in lotta dobbiamo servire? o forse qualcun altro, e chi mai? », bisogna dire che la risposta spetta a un profeta o a un redentore. Se questi non è tra noi o se il suo annuncio non è più creduto, non varrà certo a farlo scendere su questa terra il fatto che migliaia di professori tentino di rubargli il mestiere nelle loro aule di lezione, come tanti piccoli profeti privilegiati o pagati dallo stato. Ciò servirà soltanto a nascondere tutto l'enorme peso del significato del fatto decisivo, che cioè il profeta, che invocano tanti della no- stra più giovane generazione, zon esiste. L'interesse interiore di un uomo davvero «musicale» in senso religioso non sarà mai e poi mai soddisfatto, io credo, dall’espediente per cui si cerca di nascondergli con un surrogato — come sono tutti questi falsi profeti in cattedra — il fatto fondamentale che il destino gli impone di vivere in una epoca lontana da Dio e priva di profeti. La serietà del suo sentimento religioso dovreb- be, mi sembra, ribellarvisi. Ora, voi sarete indotti a domanda- re: ma come ci si deve comportare di fronte al fatto dell’esi- stenza della « teologia » e delle sue pretese a porsi come « scien- za»? Cerchiamo di non sottrarci alla risposta. « Teologia» e « dogmi » non si trovano certo sempre e ovunque, ma neppure esclusivamente nel Cristianesimo. Li incontriamo (guardando dietro di noi nel tempo) in forme molto sviluppate anche nell’I- slam, nel Manicheismo, nella Gnosi, nell’Orfismo, nel Parsismo, nel Buddismo, nelle sette indù, nel Taoismo, nelle Uparishad e naturalmente anche nell’Ebraismo. Com'era naturale, essi sono sviluppati sistematicamente in misura assai diversa. E non è un caso che non soltanto il Cristianesimo occidentale li abbia co- struiti, o tenda a costruirli in forma più sistematica — a diffe- renza della teologia, per esempio, dell’Ebraismo — ma anche che il loro sviluppo abbia avuto qui un significato storico di gran lunga più importante. È questo un prodotto dello spirito greco, dal quale deriva tutta la teologia dell’Occidente come (evidentemente) tutta la teologia orientale deriva dal pensiero indiano. Ogni teologia consiste nella razionalizzazione intellet- tuale del patrimonio religioso della salvezza. Nessuna scienza è assolutamente priva di presupposti e nessuna può stabilire il fondamento del proprio valore per chi rifiuti tali presupposti. Tuttavia, ogni teologia aggiunge alcuni presupposti specifici per il proprio lavoro e quindi per la giustificazione della pro- pria esistenza. In diverso senso e con diversa portata. Per ogni teologia, per esempio anche per quella induistica, vige il presup- posto che il mondo deve avere un senso; e la questione da risolvere è la seguente: come bisogna interpretarlo, perché ciò possa esser concepito? In modo del tutto simile alla teoria della conoscenza di Kant, la quale muoveva dal presupposto che «c'è una verità scientifica, ed essa vale » e quindi si do- mandava: in virtù di quali condizioni del pensiero ciò è possibi- le (in modo dotato di senso)? Oppure al modo degli estetici moderni i quali (esplicitamente — come per esempio Georg von Lukics!” — oppure di fatto) muovono dal presupposto che « vi sono opere d’arte » e si domandano: come ciò è possibi- le (in modo dotato di senso)? Tuttavia, le teologie non si accontentano di regola di quel presupposto (appartenente essen- zialmente alla filosofia della religione); esse muovono di rego- la dal presupposto ancor più remoto per cui determinate « rive- lazioni» devono essere assolutamente credute in quanto fatti che rivestono un’importanza per la salvezza — come tali, cioè, che soli rendono possibile una condotta nella vita dotata di senso — e per cui determinati modi di essere e di agire possie- dono la qualità della santità, ossia costituiscono una condotta di vita dotata di senso religioso o sono elementi di questa. La domanda che si pone la teologia è allora di nuovo: come possono essere interpretati in modo dotato di senso, nell’am- bito di un'immagine complessiva del cosmo, questi presupposti che vanno accettati in modo assoluto? Quei presupposti sì trova- no per la teologia al di là di ciò che è «scienza». Essi non sono un «sapere» nel senso corrente, bensì un « possedere ». Non possono esser sostituiti — la fede o gli altri stati di grazia — da nessuna teologia, per chi non li « possieda ». Meno che mai, poi, da un’altra scienza. Anzi, in ogni teologia « positi- va » il credente giunge al punto dov'è valida la massima agosti- niana: credo non quod, sed quia absurdum est. La capacità di compiere questo estremo « sacrificio dell’intelletto » costituisce il carattere decisivo dell’uomo che appartiene a una religione 10. Weber si riferisce qui ai primi volumi di Lukics, Die Seele und die Formen (1911) e Die Thcorie des Romans (1916). positiva. E così stando le cose, è chiaro che, ad onta (o piutto- sto in conseguenza) della teologia (che svela questo stato di cose), la tensione tra la sfera di valore della «scienza» e quella della salvezza religiosa è insuperabile. Il «sacrificio dell'intelletto» lo compie, com'è naturale, il discepolo al profeta e il credente alla chiesa. Ma non è ancora mai sorta una nuova profezia — riprendo qui di proposito questa immagine che ha urtato molte suscettibilità — semplice- mente per il fatto che molti intellettuali moderni abbiano senti- to il bisogno di arredare, per così dire, la loro anima con oggetti antichi garantiti come autentici, e si siano ricordati in quest'occasione che tra questi vi è anche la religione, che essi certamente non possiedono, ma che sostituiscono con una spe- cie di cappella privata addobbata come per gioco con immagini sacre di tutti i paesi, oppure con ogni sorta di esperienze vissu- te alle quali conferiscono la dignità di un patrimonio mistico di salvezza e che vanno a vendere in piazza. Tutto ciò è semplicemente ciarlataneria o auto-illusione. Ma non è davvero una ciarlataneria, bensì qualcosa di assai serio e sincero — quantunque non esente, talvolta, da qualche fraintendimento del suo stesso significato — il fatto che alcune di quelle comuni- tà di giovani, sorte nel silenzio di questi ultimi anni, diano alle loro relazioni reciproche il senso di un legame religioso, cosmico o mistico. È vero che ogni atto di genuina fratellanza può connettersi con la consapevolezza che con ciò viene in certo qual modo accumulato in un dominio sovra-personale qualcosa che non andrà perduto; ma altrettanto mi sembra dubbio che la dignità delle relazioni puramente umane tra i membri di una comunità venga elevata attraverso siffatte inter- pretazioni religiose. — Tuttavia, questo non rientra più nel nostro tema. È il destino dell’epoca nostra, con la sua caratteristica razio- nalizzazione e intellettualizzazione, e soprattutto col suo disin- cantamento del mondo, che proprio i valori ultimi e più subli- mi siano diventati estranei al gran pubblico per rifugiarsi nel regno extra-mondano della vita mistica o nella fraternità di relazioni immediate tra gli individui. Non è accidentale che la nostra arte migliore sia intima e non monumentale, e che oggi soltanto in seno alle più ristrette comunità, nel rapporto da uomo a uomo, nel piazissimo, palpiti quell’indefinibile che un tempo pervadeva e rinsaldava come un soffio profetico e una fiamma impetuosa le grandi comunità. Proviamoci a forzare e a «inventare» un senso monumentale dell’arte, ed ecco na- scere un pietoso aborto come quello dei numerosi monumenti commemorativi degli ultimi vent'anni. Qualcosa di simile si riproduce nella sfera interiore, con effetti ancor più deleteri, se si cerca di escogitare nuove formazioni religiose senza una nuo- va genuina profezia. E la profezia formulata dalla cattedra potrà forse dar vita a sette fanatiche, mai però a un'autentica comunità. A chi non sia in grado di affrontare virilmente questo destino della nostra epoca bisogna consigliare di torna- re in silenzio, senza la consueta conversione pubblicitaria, ma schiettamente e semplicemente, nelle braccia delle antiche chie- se, largamente e misericordiosamente aperte. Esse non gli ren- dono il passo difficile. Comunque, egli dovrà in qualche modo compiere — è inevitabile — il « sacrificio dell’intelletto ». Non glielo rimprovereremo, se egli ne sarà realmente capace. Infatti un simile sacrificio dell’intelletto in favore di un’incondiziona- ta dedizione religiosa è pur sempre qualcosa di moralmente diverso da quel modo di evitare la semplice probità intellettua- le che si verifica quando, non avendo il coraggio di rendersi chiaramente conto della propria posizione ultima, si allevia que- sto dovere con una debole relativizzazione. E lo considero an- che più rispettabile di quella profezia dalla cattedra che non ha capito che entro le pareti dell’aula di lezione nessun'altra virtù ha valore al di fuori della semplice probità intellettuale. Questa ci impone di mettere in chiaro che oggi tutti coloro i quali vivono nell’attesa di nuovi profeti e nuovi redentori si trovano nella stessa situazione descritta nel bellissimo canto del- la sentinella idumèa durante il periodo dell’esilio, che si legge nell’oracolo di Isaia: «Una voce chiama da Seir in Edom: sentinella quanto durerà ancora la notte? E la sentinella ri- sponde: verrà il mattino e anche la notte; se volete domandare, tornate un’altra volta » !. Il popolo, al quale veniva data questa risposta, ha domandato e atteso ben più di due millenni, e sap- Ir. Isaia, cap. 21, 11-12. 716 piamo il suo tragico destino. Ne vogliamo trarre insegnamento che anelare e attendere non basta, e ci comporteremo in altra maniera: ci metteremo al nostro lavoro e adempiremo al « com- pito quotidiano» — nella nostra qualità di uomini e nella nostra attività professionale. Ciò è semplice e facile quando ognuno abbia trovato e segua il démone che tiene i fili della sua Vita. SPENGLER nascue a Blankenburg, ai confini della Sassonia, figlio di un ingegnere minerario e di una madre con forti inclinazioni artistiche. Dopo aver compiuto gli studi liceali a Halle, frequenta le università di Monaco, di Berlino e di Halle. Consegue il dottorato a Halle, con una dissertazione sul pensiero d’Eraclito. Insegna al liceo di Amburgo; dopo di che si trasfere a Monaco. Durante la grande guerraSpengler si dedica alla stesura della sua opera maggiore, Der Untergang des Abendlandes, di cui il primo volume compare al termine del conflitto (Miinchen; tr. it. Milano). Il titolo di quest'opera — che incontra subito un enorme successo — esprime la sua connessione con il clima politico della sconfitta tedesca: il crollo della Germania si traduce nel « tramonto » della civiltà occidentale, interpreta- to come il necessario momento di decadenza a cui ogni cultura è condannata. I presupposti filosofici generali dell’opera di Spengler possono essere rintracciati per un verso nel pensiero di Dilthey — sviluppato in senso relativistico — e per l’altro verso in Goethe e in Nietzsche, i due « autori » di Spengler. Da Dilthey deriva la rivendicazione di una via di accesso alla storia che sia irriducibile al metodo della scienza naturale, così come deriva l'affermazione del carattere storico di tutte le manifesta- zioni del mondo umano. Spengler non soltanto accoglie l’antitesi tra due modi di considerare la realtà, ma dà alla distinzione tra natura e storia un rilievo ontologico; d'altra parte egli si richiama alla tesi diltheyana dell’auto-centralità delle epoche storiche, applicandola alle culture e facen- do così di ogni cultura un organismo chiuso in se stesso, privo di rapporto con le altre culture. Da Goethe deriva invece la prospettiva biologica in base alla quale la storia viene interpretata come un processo organico, contrapposto all’uniformità delle vicende naturali nel cui ambi- to vale il principio di causalità: la «natura vivente» di Goethe si trasforma nel « mondo come storia », definito in antitesi al « mondo come natura», e la sua logica è intesa come una logica organica, eterogenea alla logica meccanica della natura. Da Nietzsche, infine, deriva lo schema ciclico di interpretazione della storia, per cui il proces- so di ogni cultura appare come la ripetizione di un processo sempre eguale: la dottrina dell'eterno ritorno viene tradotta nell’affermazione dell'identità del ciclo biologico degli organismi elementari della storia, cioè delle culture. Queste diverse componenti confluiscono — in una mescolanza talvol- ta eclettica — a costituire l'impianto teorico di Der Untergang des Abendlandes. In base ad esse Spengler si propone di dimostrare che ogni cultura, essendo un organismo biologico, nasce, si sviluppa, decade e muore, secondo la legge ineluttabile della sua specie: perciò ogni cultu- ra — anche quella dell'Occidente — è destinata, a un certo momento, a perire. E nulla valgono gli sforzi degli uomini rivolti a sottrarla a questa sorte, poiché la logica organica della storia incarna il volere del destino, al quale l’uomo non può che sottomettersi. Però, se il ciclo evolutivo è comune a tutte le culture, diverso è il patrimonio biologico di ognuna: ogni cultura dà origine a un proprio mondo simbolico, le cui manifestazioni valgono soltanto all’interno di essa e non sono parteci- pabili dai membri delle altre culture. Da ciò la conclusione relativistica a cui Spengler perviene: tra le culture non è possibile alcuna comunica- zione, poiché non vi sono valori comuni tra di esse. Ogni cultura crea i propri valori, che sono del tutto diversi da quelli delle altre culture. In questo quadro la civiltà occidentale si presenta come una cultura partico- lare ormai pervenuta al proprio tramonto, e inarrestabilmente avviata alla fine. Analizzando i fenomeni politico-economici che caratterizzano il mondo contemporaneo — l'affermazione della classe borghese, il prevale- re dell'economia sulla politica, la dernocrazia, l’organizzazione capitalisti- ca — Spengler cerca di porre in luce i sintomi di questa decadenza, in virtù della quale la civiltà occidentale si presenta non più come una « cultura » ma come una «civiltà in declino », ossia come una Zivilisa- tion. Il tentativo di costruire una morfologia della storia universale (come Spengler definisce la sua impresa filosofica) mette così capo alla profezia, in chiave pessimistica, dell'imminente conclusione del ciclo storico della civiltà occidentale. Benché oggetto di numerose critiche e confutazioni, l’opera di Spen- gler ebbe una larga accoglienza positiva, e le sue idee contribuirono in misura rilevante a preparare quel clima ideologico da cui trarrà origine e alimento il nazismo. Nei volumi successivi a Der Untergang des Abendlandes — da Preussentum und Sozialismus (Miinchen, 1919) a Politische Pflichten der deutschen ]ugend (Miinchen, 1924) e a Neubau des deutschen Reiches (Miinchen, 1924), e poi ancora da Der Mensch und die Technik (Miinchen, 1931; tr. it. Milano, 1931) a Jahre der Entscheidung (Miinchen, 1933; tr. it. Milano, 1934) — Spengler conduce un'aspra polemica contro il liberalismo, il regime parlamentare, i partiti politici, affermando la necessità di restaurare l’autorità dello stato e di dar vita a un socialismo coerente con la tradizione prussiana. È pur vero che egli non aderì mai al nazismo; ma l'opposizione alla repubblica di Weimar e l’esaltazione del primato della politica, della superiorità della razza bianca, del cesarismo, ne fanno uno dei padri ideologici del regime. Negli ultimi anni Spengler vive ritirato, ritornando sui temi della morfologia della storia universale e dedicando una particolare attenzione al passaggio dalla preistoria alla storia e all’origine delle culture: questi scritti, rimasti inediti per lungo tempo, sono stati pubbli- cati soltanto in epoca recente (Urfragen, Miinchen, 1965; tr. it. Milano, 1971; e Friihzeit der Weltgeschichte, Minchen, 1966). Muore a Monaco l'8 maggio 1936. Di Der Untergang des Abendlandes esiste una recente riedizione in un volume, Miinchen, 1963, 19697, nonché un’edizione economica nei « Deutsche Taschenbiicher », 1973; anche Der Mensch und die Technik è stato ristampato nel 1971. Gli altri scritti del periodo 1919-24 sono stati raccolti nel volume Politische Schriften, Miinchen, 1933. Ai volumi già menzionati si devono aggiungere le Reden und Aufsitze (a cura di H. Kornhardt), Minchen, 1937, 1938 ?, 1951° — che comprende anche Preus- sentum und Sozialismus — e i Gedanken (a cura di H. Kornhardt), Miinchen, 1941. L'epistolario di Spengler è stato pubblicato col titolo Briefe 1913-1936 (a cura di A. M. Koktanek, in collaborazione con M. Schròter), Minchen, 1963. Sul dibattito a cui diede origine la pubblicazione di Der Untergang des Abendlandes riferisce ampiamente M. ScHnòrER, Die Streit um Spen- gler, Miinchen, 1922, ora ristampato come prima parte di Metaphysik des Untergangs (Eine kulturkritische Studie tiber Oswald Spengler), Miin- chen, 1949. Tra la vasta letteratura critica concernente l’opera e il pensiero di Spen- gler segnaliamo gli studi seguenti: « Logos », IX, 1920-21, n. 2 (fascicolo speciale dedicato a Spengler), con articoli di K. JoéL, E. ScHwartz, W. SpreceLBere, L. Curtius, E. Frank, E. Mezcer. T. L. Harins, Die Struktur der Weltgeschichte, Tibingen, 1921. A. Messer, Oswald Spengler als Philosoph, Stuttgart, 1922. A. Fauconnet, Oswald Spengler, Paris, 1925. R. G. Corrinewoon, Oswald Spengler and the Theory of Historical Cy- cles, « Antiquity: a Quaterly Review of Archaeology », I, 1927, pp. 311-25 € 435-46. V. Bronio-BroccHieri, Spengler. La dottrina politica del pangermanesi- mo post-bellico, Milano, 1928. tr A. G. OSWALD SPENGLER 723 . Fenvre, De Spengler à Toynbee: quelques philosophies opportunistesde l’histoire, « Revue de métaphysique et de morale », XLIII, 1936, pp. 573-602. . Giusso, Spengler e la dottrina degli universi formali, Napoli, 1936. . Gaune, Spengler und die Romantik, Berlin, 1937. Scunoter, Mesaphysik des Untergangs (Eine kulturkritische Studie ber Oswald Spengler), Miinchen, 1949. S. Hucnes, Oswald Spengler: a Critical Estimate, New York, 1952. . Barrzer, Oswald Spenglers Bedeutung fiir die Gegenwari, Neheim- Hiisten, 1959. . Stutz, Oswald Spengler als politischer Denker, Bern, 1959. A. Waismann, E? historicismo contemporaneo: Spengler, Troeltsch, Croce, Buenos Aires, 1960, parte I. Barrzer, Philosoph oder Prophet? Oswald Spenglers Vermichtnis und Voraussagen, Neheim-Hiisten, 1962. Mitter, Oswald Spenglers Bedeutung fiir die Geschichtswissenschaft, « Zeitschrift fir philosophische Forschung», XVII, 1963, pp. 483-98. Spengler-Studien: Festgabe fiir Manfred Schròter zum 85. Geburtstag (a A. cura di A. M. Koxraner), Miinchen, 1965. M. Koxraner, Oswald Spengler in seiner Zeit, Miùnchen, 1968. Un elenco completo degli scritti di Spengler è dato da A. M. Korra- NEK, Oswald Spengler in seiner Zeit cit., pp. 473-80. Manca invece una bibliografia aggiornata degli scritti su Spengler: si vedano però le indi- cazioni contenute nei volumi sopra menzionati di M. ScHRòTER e di H. S. HucHs. È ora finalmente possibile compiere il passo decisivo e ab- bozzare un'immagine della storia non più dipendente dalla po- sizione accidentale dell’osservatore in un determinato « presen- te» — il suo presente — e dalla sua qualità di membro interes- sato di una particolare cultura, le cui tendenze religiose, spiri- tuali, politiche, sociali lo inducono a ordinare il materiale stori- co sulla base di una prospettiva temporale e spazialmente delimitata, e a imporre quindi a ciò che è accaduto una forma arbitraria e superficiale, ad esso intimamente estranea. Ciò che finora mancava era la distanza dall’oggetto. Nei confronti della natura essa era stata acquisita da lungo tempo; ma qui era anche più facile acquisirla. Il fisico traccia il qua- dro meccanico-causale del suo mondo come cosa ovvia, come se egli non esistesse affatto. La stessa cosa è però possibile anche nel mondo formale della storia. Fino ad oggi noi non lo sapevamo. Caratteristico degli storici moderni è l'orgoglio dell'oggettività; ma con ciò essi tradiscono quanto poco siano consapevoli dei propri pre- giudizi. Perciò si può forse dire (e lo si farà in avvenire) che è fino ad oggi mancata una reale considerazione della storia di stile faustiano, ossia una considerazione che possegga la di- * Der Untergang des Abendlandes: Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte, cap. I: Das Problem der Weltgeschichte, sezione 1: Physiognomik und Systematik, Miinchen, C. H. Beck'sche Verlagsbuchhandlung, 1918-1922, ed. definitiva 1923, vol. I, pp. 125-151 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi, autorizzata, per gentile concessione della Casa Editrice Longanesi). stanza sufficiente per osservare, nell'immagine complessiva della storia universale, anche il presente — che è tale solo in rapporto a una delle innumerevoli generazioni umane — come qualcosa di infinitamente distante ed estraneo, come un lasso di tempo che non ha un peso maggiore di tutti gli altri, senza il criterio falsificante di qualche ideale, senza il riferimento a se stessi, senza desiderio, preoccupazione e intima personale partecipa- zione, come li pretende la vita pratica; una distanza, quindi, che consenta — per dirla con Nietzsche, che però non la posse- deva a sufficienza — di considerare il fatto «uomo» da una lontananza immensa; un colpo d’occhio sulle culture, anche sulla propria, come quello che si dà sulla serie di vette di una catena di montagne all’orizzonte. Per far questo bisognava, ancora una volta, portare a compi- mento un'impresa simile a quella di Copernico, una liberazio- ne dall’apparenza in nome dello spazio infinito come quella che da tempo lo spirito occidentale aveva compiuto nei confron- ti della natura, allorché passò dal sisterna tolemaico del mondo al sistema che oggi è il solo per lui valido, eliminando in tal modo come formalmente determinante la posizione accidentale dell'osservatore su un particolare pianeta. La storia universale è suscettibile, e ha bisogno, del medesi- mo distacco da una posizione di osservazione accidentale — dall’« età moderna ». Certo, il secolo x1x ci appare infinitamen- te più ricco e importante che non, per esempio, il secolo xIx avanti Cristo; ma anche la Luna ci sembra più grande di Giove e di Saturno. Da lungo tempo il fisico si è liberato dal pregiudizio della distanza relativa; non così lo storico. Noi ci permettiamo di designare la cultura dei Greci come antichità in rapporto alla nostra età moderna. Lo era forse anche per i raffinati Egizi alla corte del grande Thutmosi!, che si trovava- no al culmine del loro sviluppo storico — un millennio prima di Omero? Per noi gli avvenimenti che si sono svolti dal 1500 al 1800 sul terreno dell'Europa occidentale riempiono il terzo più importante « della » storia universale. Per lo storico cinese che 1. Thutmosi (o Tutmosi) III, faraone della Diciottesima dinastia vissuto intorno al 1600 a. C., sotto il cui regno la potenza egiziana raggiunse il suo culmine, esten- dendosi fino alla Siria e a Cipro. guarda indietro ai quattromila anni di storia cinese e giudica in base ad essa, non sono che un breve e poco significativo episo- dio, neppure lontanamente così importante come i secoli della 10, Depp dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.) che fanno epoca nella sua «storia universale ». L'intento delle pagine che seguono è di svincolare la storia dal pregiudizio personale dell’osservatore, che nel nostro caso la riduce essenzialmente alla storia di un frammento del passa- to, assumendo come fine ciò che è accidentalmente presente ’ P nell'Europa occidentale, e come criteri di ciò che è stato rag- giunto e dev'essere raggiunto gli ideali e gli interessi validi in questo particolare momento. II Natura e storia: in questo modo si contrappongono tra loro, agli occhi di ogni uomo, le due possibilità estreme di ordinare in un'immagine del mondo la realtà circostante. Una realtà è natura in quanto subordina ogni divenire al divenuto, è storia in quanto subordina ogni divenuto al divenire. Una realtà può essere vista nella sua forma «ricordata » — così sorge il mondo di Platone, di Rembrandt, di Goethe, di Beetho- ven — oppure può essere concepita criticamente nella sua esi- stenza sensibile presente — ed ecco i mondi di Parmenide e di Descartes, di Kant e di Newton. Conoscere, nel senso rigoroso del termine, è quell’atto dell'esperienza vissuta il cui risultato compiuto si chiama « natura». Il conosciuto e la natura sono identici. Ogni conosciuto è equivalente — come dimostra il simbolo del numero matematico — a ciò che è meccanicamente limitato, a ciò che è esatto una volta per sempre, a ciò che è posto. La natura è il complesso di ciò che è necessario in virtà di leggi: vi sono soltanto leggi maturali. Nessun fisico che sia consapevole della propria funzione vorrà procedere al di là di questo limite. Il suo compito è quello di determinare la totali- tà, il sistema ben ordinato di tutte le leggi che si possono ritrovare nell'immagine della su4 natura e, più precisamente, che rappresentano in maniera esauriente e senza residuo l’im- magine della sua natura. D'altra parte l'intuire — e rimando al detto di Goethe: «l’intuire va ben distinto dal guardare »? — è quell’atto dell’e- sperienza vissuta che, in quanto si compie, è esso medesimo storia. Ciò che viene immediatamente vissuto è l’accaduto, è storia. Ogni accadere è singolare e irripetibile. Esso reca in sé la caratteristica della direzione (del «tempo»), dell’irreversibili tà. L’accadere, contrapposto come ormai divenuto al divenire, come realtà irrigidita alla realtà vivente, appartiene irrevocabil- mente al passato: il sentimento di ciò è l'angoscia cosmica. Ogni cosa conosciuta è però atemporale, né passata né futura, bensì semplicemente «esistente » e perciò di validità permanen- te. Questa è la struttura interna di ciò che è oggetto di leggi naturali. La legge — ciò che è posto — è anti-storica; essa esclude il caso. Le leggi naturali sono forme di una necessità priva di eccezione, e quindi inorganica. È chiaro il motivo per cui la matematica, come ordine quantitativo del divenuto, si riferisce sempre alle leggi e alla causalità, e soltanto ad esse. Il divenire « non ha numero ». Soltanto ciò che è privo di vita — e il vivente soltanto se si prescinde dal suo essere vivente — può venir contato, misurato, analizzato. Il puro divenire, la vita, è in questo senso illimitato. Esso si pone oltre l'ambito della causa e dell’effetto, della legge e della misura. Nessuna profonda e genuina ricerca storica va in cerca della legalità causale; in caso diverso non ha compreso la sua essenza più propria. E tuttavia la storia osservata non è puro divenire; essa è un'immagine, una forma del mondo che irradia dall’essere desto dell'osservatore, e nella quale il divenire domina il dive- nuto. È sulla presenza in essa del divenuto, e quindi su una deficienza, che poggia la possibilità di ricavarne scientificamen- te qualcosa; e quanto maggiore è tale presenza, tanto più essa appare meccanica, intellettualistica, causale. Anche la « natura vivente » di Goethe — un'immagine del mondo completamente estranea alla matematica — conteneva tanto di morto e di rigido da poterne trattare scientificamente almeno la facciata. Se questo contenuto diminuisce molto, se essa è prossima al 2. Goerne, Lettera a Wilhelm von Humboldt del 3 dicembre 1795. OSWALD SPENGLER 729 puro divenire, allora l’intuire è divenuto un puro Erlebnis che consente soltanto modi di elaborazione artistica. A ciò che vide con il proprio occhio spirituale come destino dei mondi, Dante non avrebbe potuto dare forma scientifica; neppure Goethe avrebbe potuto darla a ciò che scorse nei grandi attimi del suo abbozzo faustiano; e altrettanto poco Plotino e Giordano Bru- no alle loro visioni, che non sono state il risultato di ricerche. Qui sta la causa più importante del conflitto concernente la forma intima della storia. Di fronte allo stesso oggetto, allo stesso materiale di fatti, ogni osservatore ha, secondo la sua disposizione, una diversa impressione della totalità, inafferrabi- le e incomunicabile, che sta a base del suo giudizio e gli conferisce un colore personale. Il grado del divenuto sarà sem- pre diverso nella visione di due uomini: motivo sufficiente per cui essi non possono mai intendersi sul compito e sul metodo. Ognuno dà all’altro la colpa per la mancanza di chiarezza di pensiero, e tuttavia ciò che è designato con questa espressione, e sulla cui struttura nessuno ha potere, non è qualcosa di peggio ma una diversità necessaria. La stessa cosa vale per tutta la scienza naturale. Ma si tenga ben presente che pretendere di trattare scientifi- camente la storia è, in ultima istanza, sempre qualcosa di contraddittorio. La scienza genuina si estende fin dove hanno validità i concetti di vero e di falso: ciò vale per la matemati- ca, e vale pure per la disciplina di raccolta, di ordinamento e di esame del materiale, che è preliminare rispetto alla storia. Ma lo sguardo storico vero e proprio, che procede soltanto di qui, appartiene al regno dei significati, in cui i termini decisi- vi non sono il vero e il falso, ma il superficiale e il profondo. Il vero fisico non è profondo, ma « acuto ». Solamente quando abbandona il campo delle ipotesi di lavoro e sfiora le cose supreme, può essere profondo; ma allora è diventato ormai anche lui un metafisico. La natura dev'essere considerata scienti- ficamente, mentre la storia deve essere oggetto di poesia. Il vecchio Leopold von Ranke avrebbe detto, una volta, che il Quentin Durward di Scott? rappresenta la vera storiografia. E 3. Walter Scott (1771-1832), pocta e romanziere scozzese, autore di famosi ro- manzi storici che ebbero larga influenza anche sugli storici romantici: il Quentin Durward, qui citato, è del 1823. 730 OSWALD SPENGLER le cose stanno proprio così; una buona opera storica ha il suo vantaggio nel fatto che il lettore può diventare il suo proprio Walter Scott. D'altra parte, dove dovrebbe dominare il regno dei numeri e del sapere esatto, Goethe aveva chiamato «natura vivente » proprio ciò che era un'intuizione immediata del puro divenire e del formarsi, e che quindi era storia nel senso qui definito. Il suo mondo era anzitutto un organismo, un essere vivente; e si comprende che le sue ricerche, anche quando recano esterior- mente un’impronta fisica, non hanno come scopo in sé numeri né leggi né una causalità fissata in formule, e in generale nessun’analisi, ma sono piuttosto morfologia nel senso più alto ed evitano perciò il mezzo specificamente occidentale (e nien- t'affatto antico) di ogni considerazione causale, l'esperimento misuratore, senza però farne mai lamentare l’assenza. La sua considerazione della superficie terrestre è sempre geologia, mai mineralogia (che egli chiamava scienza di ciò che è morto). Diciamolo ancora una volta: non esiste nessun confine preci- so tra i due modi di concepire il mondo. Se è vero che dive- nire e divenuto sono antitetici, altrettanto sicuro è il fatto che essi sono presenti entrambi in ogni specie di intendere. Rivive la storia colui che intuisce entrambi i termini come divenienti e in via di compimento; conosce la natura chi li analizza come divenuti e compiuti. In ogni uomo, in ogni cultura, in ogni grado di cultura è presente una disposizione originaria, un’originaria inclina- zione e determinazione a preferire una delle due forme come ideale di comprensione del mondo. L’uomo dell’Occidente è in alto grado disposto storicamente *, mentre l’uomo antico lo fu in misura minima. Noi consideriamo tutto ciò che è dato in rapporto al passato e al futuro, l’antichità riconobbe come esi- stente soltanto il presente nella sua puntualità: il resto diventa- a. L’anti-storico come espressione di una decisa disposizione siste- matica dev'essere nettamente distinto da ciò che è astorico. L'inizio del quarto libro di Die Welt als Wille und Vorstellung di Schopenhauer ($ 53) è indicativo di un uomo che pensa in modo anti-storico, che cioè reprime, in base a fondamenti teoretici, l'elemento storico che è presente in lui e lo respinge contrapponendogli l’astorica natura ellenica che non lo possiede e non lo comprende. OSWALD SPENGLER 731 va mito, In ogni nota della nostra musica, da Palestrina‘ fino a Wagner, abbiamo davanti a noi anche un simbolo del divenire; i Greci avevano in ogni loro statua un'immagine del puro presente. Il ritmo di un corpo poggia sul rapporto simultaneo delle parti, il ritmo di una fuga sul corso temporale. III In questo modo i principi della forma e della legge ci si presentano come i due elementi fondamentali di ogni configura- zione del mondo. Quanto più decisamente un’immagine del mondo reca in sé i tratti della natura, tanto più illimita- tamente valgono in essa la legge e il mumero. Quanto più puramente un mondo viene intuito come un esterno diveniente, tanto più l’inafferrabile ricchezza del suo processo di formazio- ne è estranea al numero. «La forma è qualcosa di mobile, di diveniente, di transeunte. La dottrina della trasformazione. La dottrina della metamorfosi è la chiave per penetrare tutti i segni della natura» — si dice in un’annotazione postuma di Goethe, Così la celebre « fantasia sensibile esatta » di Goethe, che lascia il vivente agire su di sé*, si distingue già sotto il profilo metodologico dal procedimento esatto e mortifero della fisica moderna. Il residuo dell’aliro elemento — che si troverà sempre — si manifesta nella scienza naturale rigorosa sotto forma di scorie e di ipotesi inevitabili, il cui contenuto intuitivo riempie e sostiene tutto ciò che è rigidamente numera- bile e aderente a formule; e nella ricerca storica si manifesta come cronologia, vale a dire come una rete di numeri intima- mente del tutto estranea al divenire (e qui mai tuttavia percepi- a. «Vi sono fenomeni originari, che noi non dobbiamo turbare e pregiudicare nella loro divina semplicità » (GoetHE, colloquio con Falk del 25 gennaio 1813, citato da J.D. Fark, Goethe aus naherm persòn- lichem Umgange dargestellet, Leipzig, 1832 [ed. Artemis, vol. XXII, p. 680]). 4. Giovanni Pierluigi da Palestrina (1526-1594), compositore italiano, autore di celebri messe, di magnificat, di inni, di mottetti, di lamentazioni ecc., è la principale figura della musica sacra del Cinquecento. S. GortHe, Fragmente zur vergleichenden Anatomie (morfologia), in Natur wissenschafdlichen Schriften, Zurich, 1952, vol. II, p. 415. 732 OSWALD SPENGLER ta nella sua estraneità), che avvolge e penetra il mondo delle forme storiche come uno scheletro di date o come statistica, senza che si possa parlare di matematica. Il numero cronologi- co designa ciò che è reale singolarmente, il numero matematico designa ciò che è costantemente possibile. Il primo delimita forme ed elabora per l’occhio del comprendere i contorni di epoche e di fatti; è al servizio della storia. Il secondo è esso stesso la legge che deve stabilire il termine e il fine della ricerca. Il numero cronologico è preso in prestito, come mezzo di una scienza preliminare, dalla scienza per eccellenza, cioè dalla matematica; nel suo uso si prescinde tuttavia da questa qualità. Si colga la differenza tra i due simboli seguenti: 12 x 8 = 96 e 18 ottobre 1813 °. Qui l’uso del numero si distin- gue completamente, proprio come l’uso linguistico nella prosa e nella poesia. Ancora un’altra cosa occorre qui osservare. Poiché a base del divenuto sta sempre un divenire e la storia rappresenta un ordinamento dell'immagine del mondo nel senso del divenire, la storia è la forma del mondo originario, mentre la natura — nel senso di un meccanismo elaborato del mondo — è una forma successiva, che può essere realmente realizzata soltanto da parte dell’uomo appartenente a culture mature. Di fatto l’ambiente oscuro e animistico dell'umanità primitiva, di cui ancor oggi testimoniano i suoi usi e i suoi miti religiosi, quel mondo completamente organico e pieno di arbitrio, di demoni ostili e di potenze capricciose, costituisce una totalità vivente, inafferrabile, enigmaticamente fluttuante e imprevedibile. Si può anche chiamarlo natura, ma esso non è la nostra natura, non è il riflesso irrigidito di uno spirito conoscente. Questo mondo originario risuona ancora talvolta, come un frammento di umanità da lungo tempo passata, soltanto nell’anima infanti- le e nei grandi artisti, in mezzo a una « natura» rigorosa che lo spirito cittadino delle culture mature ha costruito con tiranni- ca energia intorno al singolo. Qui sta il motivo della tensione irritata tra intuizione scientifica (« moderna ») e intuizione arti- stica (« non pratica ») del mondo, nota a ogni epoca tarda. L’uo- 6. Data della battaglia di Lipsia, in cui Napolcone fu sconfitto dal generale prus- siano Blicher. OSWALD SPENGLER 733 mo aderente ai fatti e il poeta non perverranno mai a intendersi reciprocamente. Qui dev'essere cercato anche il motivo per cui ogni ricerca storica che aspiri alla scientificità, mentre do- vrebbe sempre recare in sé qualcosa della fanciullezza e del sogno, qualcosa di goethiano, sfiora il rischio di diventare una mera fisica della vita pubblica — cioè una storia « materialisti- ca », come si è essa stessa chiamata senza alcun sospetto. « Natura » nel senso esatto del termine è il modo più raro, limitato agli uomini delle grandi città di culture più tarde, il modo maturo e forse già senile di possedere la realtà; la storia è invece il modo ingenuo e giovanile, e anche più inconsapevo- le, proprio di tutta l'umanità. Così almeno la natura numerabi- le, priva di mistero, analizzata e analizzabile di Aristotele e di Kant, dei Sofisti e dei darwinisti, della fisica e della chimica moderna si contrappone a quella natura immediatamente vissu- ta, illimitata, sentita di Omero e dell’E444”, dell’uomo dorico e di quello gotico. "Trascurare questo vorrebbe dire disconoscere l’essenza di ogni considerazione della storia. Essa è la natura propriamente zazurale, mentre la natura esatta, ordinata mecca- nicamente, è una concezione artificiale dell'anima di fronte al suo mondo. Ciononostante — o proprio per questo — la scien- za naturale è facile per l'uomo moderno, mentre la considera- zione della storia gli è difficile. Le spinte del pensiero meccanicistico, che procede completa- mente sulla base della delimitazione matematica, della distinzio- ne logica, della legge e della causalità, compaiono assai per tempo. Si trovano nei primi secoli di tutte le culture, per quanto ancora deboli, isolate, ancora tendenti a svanire nella ricchezza della coscienza religiosa del mondo; basti citare il nome di Ruggero Bacone®. Presto esse assumono un carattere più rigoroso; non manca loro — come a tutto ciò che è conqui- sta spirituale e sottoposto alla minaccia della natura umana — 7. Raccolta di canti mitologici ed epici, redatti in Islanda tra il secolo x e il se- colo xur, a cui fa seguito un trattato di arte poetica composto dall'islandese Snorri Sturluson: è la principale fonte di conoscenza dell’antica religione germanica, che si presenta tuttavia già in forma dottrinalmente elaborata. 8. Ruggero Bacone (1214-1292?), filosofo inglese e monaco francescano, autore dell'Opus maius, dell'Opus minus, dell'Opus tertium e di vari altri scritti, è consi- derato il maggior rappresentante dell'orientamento empiristico nella Scolastica del secolo xuI. l'aspetto tirannico ed esclusivistico. In modo non percepibile il regno di ciò che è espresso in concetti spaziali — infatti i concetti sono per loro essenza numeri, di costituzione puramen- te quantitativa — penetra il mondo esterno del singolo, produ- ce nelle, con e tra le semplici impressioni della vita sensibile una connessione meccanica di tipo causale e numerico, sottopo- nendo in ultimo la coscienza desta degli uomini civili delle grandi città — si tratti della Tebe egizia o di Babilonia, di Benares, di Alessandria o delle metropoli dell'Europa occidenta- le — a una costrizione continua da parte del pensiero fondato sulle leggi naturali. In tal modo nulla più si oppone al pregiu- dizio di ogni filosofia e di ogni scienza (giacché di un pregiudi- zio si tratta) secondo cui questa situazione è /o spirito uma- no e ciò che gli sta di fronte, l’immagine meccanicistica del mondo circostante, è il mondo. Logici come Aristotele e Kant hanno elevato questa visione a visione dominante, ma Platone e Goethe vi si oppongono. IV Il grande compito della conoscenza del mondo, che per l'uomo appartenente alle culture superiori è un bisogno, una specie di penetrazione della sua esistenza che egli crede dovuta a sé e ad essa — sia che il suo procedimento venga chiamato filosofia o scienza, sia che la sua affinità con la creazione artisti- ca e con l’intuizione della fede venga sentita con intima certez- za oppure venga contestata — è in ogni caso sicuramente il medesimo: quello di rappresentare nella sua purezza il linguag- gio formale dell'immagine del mondo che è determinato ante- riormente all'essere desto del singolo e che questi, finché non la pone a confronto con altre, deve considerare come «il» mondo. Tenendo conto della differenza tra natura e storia, questo compito deve essere duplice. L'una e l’altra parlano il proprio linguaggio formale, differente sotto ogni riguardo; in un’imma- gine del mondo non ben caratterizzata — come di regola avvie- ne — i due linguaggi possono sovrapporsi e confondersi, mai però congiungersi in un’unità intima. Direzione e estensione sono le caratteristiche dominanti in virtù delle quali si distinguono l'impressione storica e quella naturalistica del mondo. L’uomo non è affatto in grado di lasciarle operare contemporaneamente nella loro azione for- mativa. Il termine «lontananza » ha un doppio senso indicati- vo: da un lato significa futuro, dall'altro distanza spaziale. Si osserverà che il materialista storico percepisce quasi di necessità il tempo come dimensione matematica. Per l'artista nato, al contrario — come dimostra la lirica di tutti i popoli — le lontananze panoramiche, le nuvole, l'orizzonte, il sole calante sono tutte impressioni che si legano irresistibilmente col senti- mento di qualcosa di là da venire. Il poeta greco nega il futuro e di conseguenza non vede, non canta tutto questo: dal mo- mento che appartiene del tutto al presente, appartiene an- che del tutto alla vicinanza. Lo scienziato naturale, l’uomo di intelletto produttivo in senso proprio — sia egli uno sperime- tatore come Faraday”, un teorico come Galilei o un calcolatore come Newton — trova nel suo mondo soltanto quantità prive di direzione che egli misura, vaglia e ordina. Soltanto ciò che è quantitativo sottostà alla formulazione numerica, è deter- minato in modo causale, può diventare concettualmente accessi- bile ed essere formulato in leggi. Con ciò sono esaurite le possibilità della pura conoscenza della natura. Tutte le leggi sono connessioni quantitative o — come si esprime il fisico — tutti i processi fisici si svolgono nello spazio. Senza modificare il dato di fatto, il fisico antico avrebbe corretto tale espressione nel senso dell’antico sentimento del mondo, negatore dello spa- zio, dicendo che tutti i processi «Hanzo luogo tra corpi». Tutto ciò che è quantitativo è estraneo alle impressioni storiche. Il suo organo è diverso. Il mondo come natura e il mondo come storia hanno i loro propri modi di apprendimen- to. Noi li conosciamo e li usiamo quotidianamente, senza però essere stati finora consapevoli della loro antitesi. Ci sono una conoscenza della natura e una conoscenza dell’uomo, vale a dire l’esperienza scientifica e l’esperienza della vita. Si segua 9. Michael Faraday (1791-1867), fisico e chimico inglese, autore della C/hemical Manipulation (1827), delle Experimental Researches in Electricity (1839-1855), delle Experimental Rescarches in Chemistry and Physics (1859), diede contributi fondamen- tali allo sviluppo della teoria dell'elettricità e del magnetismo. quest’antitesi fino alle sue ultime profondità e si comprenderà che cosa intendo. Tutti i modi di concepire il mondo possono essere definiti, in ultima analisi, come morfologia. La morfologia di ciò che è meccanico ed esteso, cioè una scienza che scopre e ordina leggi naturali e relazioni causali, si chiama sistematica; la morfolo- gia di ciò che è organico, della storia e della vita, vale a dire tutto quanto reca in sé direzione e destino, si chiama fisiogno- mica. V Il modo sistematico di considerazione del mondo ha rag- giunto e oltrepassato il suo culmine in Occidente durante il secolo scorso; il modo fisiognomico ha invece ancora davanti a sé il suo grande momento. Tra un centinaio di anni tutte le scienze ancora possibili su questo terreno sono destinate a diven- tare frammenti di un’unica immensa fisiognomica di tutto quanto è umano. Questo significa una «morfologia della storia universale ». In ogni scienza, dal punto di vista del fine come del materiale, l’uomo racconta se stesso. Esperienza scien- tifica vuol dire auto-conoscenza spirituale. Da questo punto di vista la matematica è stata considerata poco prima come un capitolo della fisiognomica. Non abbiamo preso in esame ciò che si proponeva il singolo matematico: il dotto in quanto tale e i suoi risultati in quanto esistenza di una somma di sapere si differenziano reciprocamente. Il matematico come uomo la cui operosità costituisce una parte del suo manifestarsi, e il cui sapere e opinare costituisce una parte della sua espressione, è qui il solo ad avere importanza, e precisamente come orgazo di una cultura. Essa parla di sé per il suo tramite. Come personali- tà, come spirito, nel suo scoprire, nel suo conoscere, nel suo formare egli appartiene alla fisiognomica di quella cultura. Ogni matematica che, in quanto sistema scientifico oppure — come nel caso dell'Egitto — nella forma dell’architettura, rende manifesta a tutti l’idea del suo numero, inerente al suo essere desto, è la confessione di un’anima. Quanto è certo che la funzione che si propone appartiene soltanto alla superficie della storia, altrettanto certo è che il suo elemento inconscio, cioè il numero stesso e lo stile dello sviluppo che la conduce alla costruzione di un mondo formale chiuso, costituisce un’e- spressione dell’esistenza, del sangue. La sua storia vitale, il suo fiorire e sfiorire, la sua relazione profonda con le arti figurati- ve, con i miti e i culti della medesima cultura, tutto ciò appar- tiene a una morfologia del secondo tipo, cioè a una morfologia storica, finora ritenuta quasi impossibile. La facciata visibile di ogni storia ha perciò lo stesso significa- to dell'apparenza esteriore dell’uomo singolo, vale a dire della statura, del volto, del portamento, dell’andatura: non il lin- guaggio, ma il parlare; non lo scritto, ma la scrittura. Tutto ciò è ben presente al conoscitore di uomini. Il corpo con tutte le sue operazioni, il limitato, il divenuto, il transitorio, è espres- sione dell'anima. Ma essere conoscitore di uomini vuol dire anche conoscere quei grandi organismi umani di stile superiore che chiamo culture; vuol dire cogliere il loro volto, il loro linguaggio, le loro azioni, nello stesso modo in cui si colgono quelle di un uomo singolo. La fisiognomica descrittiva e figurativa è arte del ritratto trasferita all'elemento spirituale. Don Chisciotte, Werther, Ju- lien Sorel! sono i ritratti di un’epoca. Faust è il ritratto di un'intera cultura. Lo scienziato naturale, il morfologo in quan- to sistematico, conosce il ritratto del mondo soltanto come com- pito imitativo; la stessa cosa vale per la «fedeltà alla natu- ra» e la « somiglianza » nel caso dell’artigiano che dipinge, il quale, in fondo, si accinge alla sua opera in modo puramente matematico. Ma un ritratto genuino nel senso di Rembrandt è fisiognomica, cioè storia racchiusa in un attimo. La serie dei suoi autoritratti non è altro che un’autobiografia autenticamen- te goethiana. Così si dovrebbe scrivere la biografia delle grandi culture. La parte imitativa, il lavoro dello storico di mestiere sulle date e sui numeri è soltanto mezzo, non fine. Ai tratti del volto della storia appartiene tutto ciò che è stato finora valutato soltanto in base a criteri personali, in base all’utilità e alla dan- nosità, al bene e al male, al piacere e al dispiacere: forme stata- li e forme economiche, battaglie e arti, scienze e divinità, mate- matica e morale. Tutto ciò che è divenuto in generale, tutto 10. Personaggio principale de Le ronge et le noir di Stendhal. ciò che si manifesta è simbolo, è espressione di un’anima; aspira a essere considerato con l’occhio del conoscitore di uomi- ni, a non essere ricondotto a leggi, ma sentito nel suo significa- to. In tal modo l’indagine si eleva a una certezza ultima e suprema: tutto ciò che è transitorio è soltanto un'immagine. Alla conoscenza della natura ci si può educare, ma conosci- tore della storia si nasce. Il conoscitore coglie e penetra uomini e fatti di un colpo, sulla base di un sentimento che non s’impa- ra, che è sottratto a ogni influenza intenzionale, che ben rara- mente si produce nella sua massima forza. Analizzare, definire, ordinare, delimitare in base a cause ed effetti, si può sempre farlo, se si vuole: questo è un lavoro, l’altra è una creazione. Forma e legge, immagine e concetto, simbolo e formula hanno un organo completamente diverso. Ciò che si manifesta in que- st’antitesi è il rapporto tra vita e morte, tra generazione e distruzione. L'intelletto, il sistema, il concetto uccidono in quanto « conoscono »; fanno del conosciuto un oggetto irrigidi- to, che si può misurare e suddividere. Invece l’intuizione vivifi- ca; incorpora il singolo in un’unità vivente, intimamente senti- ta. Il poetare e la ricerca storica sono affini quanto affini sono il calcolare e il conoscere. Ma — come disse una volta Hebbel !! — «i sistemi non possono venir sognati né le opere d’arte calcolate o, il che è lo stesso, escogitate ». L'artista, lo storico autentico intuisce il modo in cui qualcosa diviene. Egli rivive ancora una volta il divenire nei tratti di ciò che è osservato. Il sistematico — sia egli fisico, logico, darwiniano oppure scritto- re di storia pragmatica — ha esperienza di ciò che è divenuto. L'anima di un artista è, come l’anima di una cultura, qualcosa che aspira a realizzarsi, qualcosa di concluso e di perfetto o — nel linguaggio della filosofia antica — un microcosmo. Lo spiri- to sistematico staccato dal sensibile — « as-tratto» — è un fe- nomeno tardo, ristretto e perituro, e appartiene agli stadi più maturi di una cultura. È un fenomeno collegato alle città, in cui la sua vita si concentra sempre di più: esso appare e di nuovo scompare insieme con esse. La scienza antica sussiste 11. Christian Friedrich Hebbcl (1813-1863), poeta e drammaturgo tedesco, autore di vari drammi di argomento storico, di poesie, dì saggi estetici, nonché di Tagedé- cher (iniziati nel 1836): il suo pensicro è ispirato da Gocthe e dalle tcorie idcalistiche, in particolare da Schelling c da Hegel. O$WALD SPENGLER 739 soltanto nel periodo che va dagli Ionici del secolo vi fino all’e- poca romana; di artisti antichi ve ne furono per tutta l’antichi- tà. Possa servire da ulteriore chiarimento lo schema seguente: Anima Mondo Esistenza Possibilità Compimento Realtà (Vita) Divenire Divenuto Essere Direzione Estensione desto Organico Meccanico Simbolo, immagine Numero, concetto Storia Natura Immagine Ritmo, forma Tensione, legge del mondo Fisiognomica Sistematica Fatti Verità Se si cerca di pervenire a chiarezza sul principio di unità in base al quale ognuno dei due mondi viene concepito, si troverà che la conoscenza regolata matematicamente si riferisce in tutto e per tutto, e in modo tanto più deciso in quanto più è pura, a qualcosa che è costantemente presente. L'immagine della natu- ra, quale il fisico la considera, è ciò che si dispiega al momen- to dinanzi ai suoi sensi. Tra i presupposti per lo più sottintesi, ma non per questo meno saldi, di ogni ricerca naturale vi è quello secondo cui «la» natura è la medesima per ogni essere desto e per tutti i tempi: un esperimento decide una volta per tutte. Non che il tempo venga negato, ma all’interno di questo orientamento si prescinde da esso. La storia reale poggia inve- ce sul sentimento, altrettanto certo, del contrario. La storia presuppone come suo organo un tipo di sensibilità interiore, difficile da descrivere, le cui impressioni vengono colte in un’in- finita trasformazione e non possono quindi essere raccolte in un punto del tempo (del supposto «tempo» dei fisici si parle- rà più oltre). L'immagine della storia — si tratti della storia dell'umanità, del mondo degli organismi, della terra o del sistema delle stelle fisse — è un'immagine della memoria. La memoria viene qui concepita come uno stato superiore che non è affatto proprio a ogni essere-desto, ed è concesso a qualcuno solo in grado minimo, vale a dire come una forma del tutto particolare di immaginazione che consente di rivivere l’attimo singolo sub specie aeternitatis, in continua relazione con tutto ciò che è passato e futuro: essa è il presupposto di ogni specie di contemplazione retrospettiva, di auto-conoscenza e di auto- confessione. In questo senso l’uomo antico non possiede alcuna memoria, e quindi neppure storia, né in sé né intorno a sé. « Nessuno può emettere giudizi sulla storia, se non chi ne abbia fatto esperienza egli stesso » (Goethe !). Nella coscienza del mondo dell’antichità tutto il passato è assorbito nell’attimo. Si confrontino le teste quanto mai « storiche » delle sculture del duomo di Naumburg, delle figure di Direr e di Rembrandt, con quelle ellenistiche, per esempio con quella della celebre statua di Sofocle. Le prime narrano l’intera storia di un’anima, mentre i tratti delle seconde si limitano strettamente all’espres- sione di un essere momentaneo. Esse tacciono tutto ciò che ha condotto, nel corso di una vita, a questo essere — sempre che se ne possa in generale parlare di fronte a un uomo genuina- mente antico, che è sempre compiuto, mai un essere diveniente. VI È ora possibile rintracciare gli elementi ultimi del mondo formale della storia. Forme innumerevoli, che compaiono e scompaiono, che si stagliano e si dileguano nuovamente in una ricchezza senza fine; una confusione smagliante di mille colori e di mille luci, caratterizzata in apparenza dalla più libera accidentalità — questa è, a prima vista, l’immagine della storia universale, quale essa si dispiega nella sua totalità di fronte all’occhio interiore. Ma lo sguardo che penetra più profonda- mente nell’essenziale separa da questo arbitrio quelle forme pure che, fittamente ricoperte e disvelantisi soltanto controvo- glia, stanno alla base di ogni umano divenire. Dell’immagine del divenire complessivo del mondo con i suoi orizzonti che si accumulano potenzialmente — così come 12. GoerHe, Maximen und Reflezionen, 517. OSWALD SPENGLER 741 l'occhio faustiano che li abbraccia — e quindi del divenire del cielo stellato, della superficie terrestre, degli esseri viventi, degli uomini, noi consideriamo ora soltanto l’unità morfolo- gica estremamente piccola della «storia universale » nel sen- so consueto della parola, cioè della storia (poco apprezzata dal vecchio Goethe) dell'umanità superiore, che abbraccia cir- ca seimila anni, senza affrontare l’arduo problema dell’ana- logia interna di tutti questi aspetti del divenire. Ciò che dà senso e contenuto a questo fuggevole mondo di forme, e che è rimasto finora profondamente sommerso sotto la massa quasi impenetrabile di «date» e di «fatti» tangibili, è il fenomeno delle grandi culture. Soltanto quando queste forme originarie siano state individuate, sentite, elaborate nel loro si- gnificato fisiognomico, può ritenersi compresa da noi l'essenza e la forma intima della storia umana — in antitesi all’essenza della natura. Soltanto partendo da questo sguardo profondo e prospettico si può parlare seriamente di una filosofia della sto- ria. Soltanto allora si può cogliere ogni fatto presente nell’im- magine storica, ogni idea, ogni arte, ogni guerra, ogni persona- lità nel suo contenuto simbolico, e considerare la storia non più come mera somma del passato, priva di un proprio ordine e di una interna necessità, bensì come un organismo di strut- tura quanto mai rigorosa e con un'articolazione fornita di sen- so, nel cui sviluppo il presente accidentale dell’osservatore non indica una semplice sezione e il futuro non appare più come informe e indeterminabile. Le culture sono organismi; la storia universale è la loro biografia complessiva. L’immensa storia della cultura cinese o della cultura antica è morfologicamente l’esatta contropartita della piccola storia del singolo uomo o di un animale, di un albero, di un fiore. Per lo sguardo faustiano non si tratta di un’esigenza, ma di un'esperienza: se si vuol conoscere la for- ma interna, ovunque ripetuta, la morfologia comparativa delle piante e degli animali ha già da lungo tempo preparato il metodo adatto. Nel destino delle singole culture che si succe- a. Non si tratta del metodo analitico del « pragmatismo » zoologico dei darwinisti con la loro caccia di connessioni causali, bensì del metodo intuitivo e sintetico di Goethe. 742 OSWALD SPENGLER dono, che crescono l’una accanto all’altra, si toccano, si ostacola- no, si soffocano, viene a esaurirsi il contenuto di tutta la storia umana. E se passiamo spiritualmente in rassegna le loro forme, che finora erano troppo profondamente nascoste sotto la superfi- cie del corso banale di una «storia dell'umanità », perveniamo a scoprire la forma originaria della cultura, libera da ogni elemento perturbatore e privo di significato, la quale sta alla base di tutte le culture particolari come loro ideale formale. Distinguo qui l’idea di una cultura, il complesso delle sue possibilità interne, dalla sua manifestazione sensibile nell’imma- gine della storia, che costituisce la sua realizzazione compiuta. Questo è il rapporto dell’anima con il corpo vivente, con la sua espressione in mezzo all'universo visibile ai nostri occhi. La storia di una cultura è la progressiva realizzazione di ciò che ad essa è possibile. Il compimento equivale alla fine. In questo modo l’anima apollinea — che alcuni di noi possono forse comprendere e rivivere — stava in rapporto con il suo dispiega- mento nella realtà, con l’« antichità » della quale l’archeologo, il filologo, lo studioso di estetica e lo storico indagano i resti accessibili all’occhio e all’intelletto. La cultura è il fenomeno originario di tutta la storia univer- sale passata e futura. La profonda e poco apprezzata idea che Goethe scoprì nella sua «natura vivente», e che ha sempre posto a base delle sue ricerche morfologiche, deve qui venir applicata, nel suo senso più preciso, a tutte le formazioni della storia umana pienamente maturate, morte mentre ancora stava- no fiorendo, semi-sviluppate o soffocate ancora in germe. Si tratta di un metodo fondato sul sentire simpatetico, non sull’a- nalisi. « Il massimo a cui l’uomo può pervenire è la meraviglia; perciò sia soddisfatto quando il fenomeno originario lo pone in uno stato di meraviglia; non gli è concesso niente di superiore, e neppure.deve cercarvi qualcosa di più: qui sta il limite »!. Fenomeno originario è quello in cui l’idea del divenire sta dinanzi agli occhi nella sua purezza. Goethe vide chiaramente, davanti al suo occhio spirituale, l’idea della pianta originaria nella forma di ogni pianta singola, nata accidentalmente o an- che solo possibile. Nella sua indagine sull’os intermazillare 13. GoerHe, Gespriche mit Eckermann, 18 febbraio 1829. OSWALD SPENGLER 743 egli partì dal fenomeno originario del vertebrato, e in altro campo partì dalla stratificazione geologica, dalla foglia come forma originaria di ogni organo vegetale, dalla metamorfosi delle piante come immagine primordiale di tutto il divenire organico. « La medesima legge si potrà applicare a tutti gli altri esseri viventi » !* — scrisse da Napoli a Herder, comunican- dogli la sua scoperta. Si trattava di uno sguardo sulle cose che Leibniz avrebbe potuto intendere; il secolo di Darwin ne restò invece il più possibile distante. Non esiste però ancora una considerazione della storia che sia completamente libera dai metodi del darwinismo, cioè dalla scienza naturale sistematica poggiante sul principio causale. Mai si è discusso di una fisiognomica rigorosa e chiara, compiu- tamente consapevole dei suoi mezzi e dei suoi limiti, i cui metodi dovevano essere ancora trovati. Questo è il grande com- pito del secolo xx: porre accuratamente in luce la struttura interna delle unità organiche attraverso le quali e nelle quali si compie la storia universale; distinguere ciò che è morfologica- mente necessario ed essenziale da ciò che è accidentale, coglie- re l’espressione degli avvenimenti e scoprire il linguaggio che sta alla sua base. VII Una massa sterminata di esseri umani, una corrente senza sponde che scaturisce dall’oscuro passato, là dove il nostro senti- mento del tempo perde la propria capacità ordinatrice e l’in- quieta fantasia — o l’angoscia — ha suscitato come per magia in noi l'immagine di epoche geologiche per nascondere un enig- ma insolubile; una corrente che va a perdersi in un futuro altrettanto oscuro e atemporale — questo è il substrato del- l’immagine faustiana della storia umana. L’onda uniforme di innumerevoli generazioni muove questa vasta superficie. Fasci di luce si estendono abbaglianti. Effimeri bagliori passano e danzano, scompigliano e turbano il chiaro specchio, si trasfor- mano, balenano e scompaiono: sono ciò che abbiamo chiamato 14. GoerHE, Italienische Reise, lettera a Herder.generazioni, stirpi, popoli, razze. Essi abbracciano una serie di generazioni in un ambito delimitato della superficie storica. Quando si spegne la forma plasmatrice in esse presente — e questa forza è assai diversa, e predetermina un’assai diversa durata e plasticità di queste formazioni — si dissolvono anche le caratteristiche fisiognomiche, linguistiche, spirituali, e il feno- meno si risolve di nuovo nel caos delle generazioni. Arii, Mon- goli, Germani, Celti, Parti, Franchi, Cartaginesi, Berberi, Ban- tù, sono tutti nomi che designano formazioni estremamente differenziate di tale ordine. Ma su questa superficie le grandi culture tracciano i loro maestosi cerchi di onde. Esse compaiono all’improvviso, si estendono seguendo direttrici fastose, si acquietano, scompaio- no lasciando di nuovo solitario e stagnante lo specchio della marea. Una cultura nasce nell’attimo in cui una grande anima si desta dallo stato psichico originario dell’umanità eternamente fanciulla e se ne distacca, come una forma da ciò che è privo di forma, come qualcosa di limitato e di perituro dall’illimitato e dal permanente. Essa fiorisce sulla base di un territorio delimi- tabile in modo preciso, al quale rimane vincolata come una pianta. Una cultura perisce quando quest'anima ha realizzato l’intera somma delle sue possibilità sotto forma di popoli, di lingue, di dottrine religiose, di arti, di stati e di scienze, ritor- nando quindi nel grembo della spiritualità originaria. Ma la sua esistenza vivente, cioè quella successione di grandi epoche che designano in una linea retta il suo compimento progressi- vo, è una lotta interiore e piena di passione per l’affermazione dell'idea contro le potenze del caos verso l'esterno, e verso l'interno contro l’inconscio in cui esse si sono astiosamente ritirate. Non è soltanto l’artista a combattere contro la resisten- za della materia e l’'annientamento dell’idea entro di sé. Ogni cultura si trova in una relazione profondamente simbolica e quasi mistica con ciò che è esteso, con lo spazio nel quale e attraverso il quale essa vuole realizzarsi. Quando il fine è rag- giunto e l’idea, la molteplicità delle sue possibilità interne, si è compiuta e si è realizzata verso l'esterno, improvvisamente la cultura si irrigidisce; essa muore, il suo sangue si coagula, le sue forze vengono meno — ed essa diventa una civiltà in declino. Questo è ciò che sentiamo e intendiamo parlando di egizia- nismo, di bizantinismo, di mandarinismo. Così essa può anco- ra, come un gigantesco albero marcito nella foresta, protende- re i suoi rami fradici per secoli e millenni. È quello che vedia- mo in Cina, in India, nel mondo islamico. In questo modo l’antica civiltà in declino dell’epoca imperiale si elevava gigante- sca, con apparente forza giovanile e apparente ricchezza, sot- traendo aria e luce alla giovane cultura araba dell’Oriente. Questo è il senso di tutti i tramonti della storia — del compimento interno ed esterno, dell’esaurimento che sovrasta ogni cultura vivente. Di essi quello che ci appare più chiaro nei suoi contorni è il «tramonto dell’antichità », mentre già oggi avvertiamo chiaramente in noi e intorno a noi i primi indizi di un avvenimento ad esso del tutto analogo per corso e durata, che appartiene ai primi secoli del prossimo millennio: il « tramonto dell’Occidente » ?. Ogni cultura percorre le età dell’individuo: ognuna ha la sua infanzia, la sua giovinezza, la sua maturità e la sua vec- chiaia. Un’anima giovanile, timida, ricca di presentimenti si manifesta negli albori del romantico e del gotico. Essa riempie di sé il passaggio faustiano dalla Provenza dei Trovatori fino al duomo di Hildesheim del vescovo Bernward”. Qui soffia un vento di promavera. « Nelle opere dell’antica architettura tede- sca — dice Goethe! — si vede il fiorire di una situazione straordinaria. Chi si trovi immediatamente di fronte una fiori- tura del genere, non può che stupirsi; ma chi penetri nella segreta vita interna della pianta, nel muoversi delle forze, se- guendo passo passo lo sviluppo della fioritura, vede la cosa con occhi del tutto diversi; sa quello che vede ». L'infanzia ci a. Non si tratta della catastrofe delle migrazioni dei popoli che costi- tuisce —- come nel caso della distruzione della cultura maya da parte spagnola — un caso privo di necessità più profonda, bensì dell'intimo disfacimento che sopravviene fin da Adriano, e corrispondentemente in Ci- na sotto la dinastia orientale Han (25-220 d. C.). 15. Hildeshcim è una città della Bassa Sassonia, sede episcopale dall'epoca di Carlo Magno: San Bernward vi fu vescovo dal 993 al 1022, facendo costruire le mura intorno alla città e favorendo lo sviluppo della metallurgia. 16. GoerHE, Gespricke mit Eckermann, 21 ottobre 1823. parla in modo simile e con voci del tutto affini, con l’arte dorica pre-omerica, con quella cristiana antica, cioè arabo-primi- tiva, e con le opere dell’antico regno egizio che ha inizio con la quarta dinastia. Qui una coscienza del mondo mitica lotta con tutto ciò che di oscuro e di demoniaco è presente in essa e nella natura come con una colpa, per poter maturare fino alla pura luminosa espressione di un'esistenza finalmente conquista- ta e compresa. Quanto più una cultura si avvicina al mezzogior- no della sua esistenza, tanto più il suo linguaggio formale finalmente assicurato diventa maturo, aspro, controllato, denso, tanto più essa è certa nel sentimento della propria forza e tanto più chiari diventano i suoi tratti. Nell’epoca primitiva tutto ciò era ancora sordo e confuso, procedeva per tentativi, pieno al tempo stesso di nostalgia e di angoscia infantile. Si consideri la decorazione dei portali delle chiese romanico-goti- che della Sassonia e della Francia meridionale: si pensi alle catacombe cristiane primitive, ai vasi in stile diploico. Ora, nella piena coscienza della forza plasmatrice giunta alla maturi- tà — come si manifesta nelle epoche dell’inizio del Medio Impero, dei Pisistrati, di Giustiniano I, della Controriforma — ogni singolo tratto espressivo appare scelto, rigoroso, misurato, di una meravigliosa levità e naturalezza. Qui troviamo ovun- que attimi di perfezione luminosa, attimi in cui sono sorti la testa di Amenemhet III ” (la sfinge di Hyksos di Tanis), la cupola di Santa Sofia, i dipinti di Tiziano. Ancora più tardi, delicati, quasi fragili, della dolcezza dolorosa degli ultimi gior- ni d’ottobre, sono l’Afrodite di Cnido e la sala dei cori dell’E- retteo, gli arabeschi degli archi saraceni a ferro di cavallo, lo Zwinger di Dresda", Watteau! e Mozart. Infine, nella vec- chiaia della civiltà in declino, il fuoco dell’anima si spegne. Per una volta ancora la forza calante trova l’ardire, pervenen- do con parziale successo a una grande creazione — nel classici- smo, che non è estraneo a nessuna cultura in via di estinzione; 17. Amenembet II, faraone della Dodicesima dinastia vissuto intorno al 1850- 1800 a, C. 18, Lo Zwinger è il castello rcale di Dresda, costruito nell'età barocca, sede di celebri collezioni. 19. Jcan-Antoinc Wattcau (1684-1721), uno dci maggiori pittori francesi del Set- tecento. l’anima ripensa ancora una volta dolorosamente — nel romanti- cismo — alla propria infanzia. Alla fine stanca, neghittosa, fredda, essa smarrisce la gioia dell’esistenza e — come nell’epo- ca imperiale di Roma — aspira a fare nuovamente ritorno dalla luce millenaria nell’oscurità della mistica spirituale originaria, nel grembo materno, nella tomba. Questa è la magia della « seconda religiosità », che i culti di Mitra, di Iside, del Sole hanno esercitato una volta sull'uomo della tarda antichità — i medesimi culti che in Oriente un’anima appena albeggiante aveva riempito di un’interiorità completamente nuova, facendo- ne l’espressione primitiva, sognante, angosciata della sua solitu- dine in questo mondo. VII Si parla dell’abito di una pianta e con ciò si intende la forma di apparenza esterna propria ad essa soltanto, cioè il carattere, l'andamento, la durata del suo manifestarsi nel mon- do visibile ai nostri occhi — l'elemento per cui ognuna si distingue, in ogni sua parte e in ogni fase della sua esistenza, dagli esemplari di tutte le altre specie. Applicherò questo im- portante concetto fisiognomico ai grandi organismi della storia, e parlerò dell'abito della cultura, della storia o della spiri- tualità indiana, egiziana, antica. Un sentimento indeterminato di esso è stato da sempre a base del concetto di stile; e quando si parla dello stile religioso, intellettuale, politico, sociale, econo- mico di una cultura, e dello stile di un'anima in generale, ci si limita a chiarirlo e ad approfondirlo. Questo abito dell’esi- stenza nello spazio, che nell'uomo singolo si estende al fare e al pensare, al portamento e alla disposizione spirituale, abbrac- cia nell'esistenza di intere culture l’espressione complessiva del- la vita di ordine superiore, come la scelta di determinati generi artistici (la scultura e l'affresco da parte dei Greci, il contrap- punto e la pittura a olio in Occidente) e il riftuto deciso di altri generi artistici (l’arte plastica da parte degli Arabi), la propen- sione all’esoterismo (in India) o alla popolarità (nel mondo antico), al discorso orale (nell’antichità) o allo scritto (in Cina e in Occidente), come forme di comunicazione spirituale, nonché il tipo di costumi, di amministrazione, di mezzi di traspor- to e le forme di rapporto sociale. Tutte le grandi personalità antiche costituiscono un gruppo a sé, il cui abito spirituale è rigorosamente distinto da quello dei grandi uomini appartenen- ti al gruppo arabo o occidentale. Si confronti un Goethe o un Raffaello con gli uomini dell’antichità, ed Eraclito, Sofocle, Platone, Alcibiade, Temistocle, Orazio, Tiberio ci appariranno subito come raccolti in un’unica famiglia. Ogni metropoli anti- ca — dalla Siracusa di Gerone fino alla Roma imperiale — in quanto incarnazione e simbolo di un medesimo sentimento del- la vita, è profondamente diversa per piano urbanistico, per la struttura delle strade, per il linguaggio dell’architettura priva- ta e pubblica, per il tipo delle piazze, dei vicoli, dei cortili, delle facciate, per il colore, il chiasso, il traffico, per lo spirito delle sue notti, dal gruppo delle metropoli indiane, arabe, occi- dentali. A Granada molto tempo dopo la sua conquista si poteva ancora sentire l’anima delle città arabe, di Bagdad e del Cairo, mentre nella Madrid di Filippo II si incontrano già tutte le caratteristiche fisiognomiche delle immagini di città moderne come Londra e Parigi. In ogni diversità di questa specie c'è un alto grado di simbolismo: si pensi alla propensio- ne occidentale per le prospettive e i tracciati stradali rettilinei, come lo scorcio possente dei Champs Elysées visti dal Louvre o la piazza di San Pietro, e alla loro antitesi rispetto alla confusio- ne e alla ristrettezza quasi intenzionale della Via Sacra, del Foro romano e dell’Acropoli con il loro ordine asimmetrico e aprospettico delle parti. Anche la struttura della città ripete o per un oscuro impulso (come avviene nel gotico) o consapevol- mente (come dopo Alessandro e Napoleone) qui il principio matematico leibniziano dello spazio infinito, là quello euclideo dei corpi isolati. Ma all’abito di un gruppo di organismi appartiene anche una determinata durata della vita e un determinato ritmo di sviluppo. Questi concetti non possono mancare in una dottrina della struttura della storia. Il ritmo dell’esistenza antica era diverso da quello dell’esistenza egizia o araba. Si può parlare dell’« andante » dello spirito ellenico-romano e dell’« allegro con brio » di quello faustiano. Al concetto di durata della vita di un uomo, di una farfalla, di una quercia, di un filo d'erba si connette, del tutto indipendentemente da ogni accidentalità del destino individuale, un determinato valore. Nella vita di tutti gli uomini dieci anni costituiscono una sezione approssimativa- mente equivalente, e anche la metamorfosi degli insetti è lega- ta, nei casi singoli, a un numero di giorni già noto con precisio- ne in anticipo. I Romani ricollegavano ai loro concetti di pueri- tia, adulescentia, juventus, virilitas, senectus una rappresentazio- ne fornita di precisione quasi matematica. Senza dubbio la biologia del futuro farà della durata predeterminata della vita delle varie specie e dei vari generi — in antitesi al darwinismo, e con un'esclusione di principio dei motivi causali di finalità riguardo all'origine delle specie — il punto di partenza di una problematica completamente nuova. La durata di una genera- zione — poco importa di quali esseri — è un fatto di significa- to quasi mistico. Queste relazioni posseggono anche, in manie- ra finora mai percepita, una validità per tutte le culture superio- ri. Ogni cultura, ogni sua epoca iniziale, ogni crescita e ogni declino, ognuna delle sue fasi e dei suoi periodi internamente necessari possiede una durata determinata, sempre eguale, sem- pre ricorrente con l'insistenza di un simbolo. In quest'opera si dovrà rinunciare a svelare questo mondo di connessioni piene di mistero, ma i fatti che verranno in seguito sempre più in luce sveleranno tutto ciò che qui rimane celato. Che cosa signi- fica il sorprendente periodo di cinquant’anni, che si riscontra in ogni cultura, nel ritmo del divenire politico, spirituale, arti- stico? *® Che cosa significano i periodi di trecento anni del barocco, dello ionico, delle grandi matematiche, dell’arte plasti- ca attica, della pittura a mosaico, del contrappunto, della mec- canica galileiana? Che cosa significa la durata ideale di un millennio nella vita di ogni cultura, in confronto a quella dell'individuo, in cui «la vita dura settant'anni » ? a. Mi limiterò a fare qui riferimento alla distanza delle tre guerre puniche e alla serie, anch'essa da intendersi in maniera puramente rit- mica, della guerra di successione spagnuola, delle guerre di Federico il Grande, di Napoleone, di Bismarck e della guerra mondiale. Affine a ciò è il rapporto spirituale tra nonno e nipote. Di qui trae origine la convinzione dei popoli primitivi che l’anima del nonno ritorni nel nipote e il costume diffuso di dare al nipote il nome del nonno, che con la sua forza mistica ne rievoca l’anima nel mondo corporeo. Nel modo in cui le foglie, i fiori, i rami, i frutti recano ad espressione nella loro forma, nella loro foggia e nel loro porta- mento l’essere vegetale, lo stesso fanno le formazioni religiose, intellettuali, politiche ed economiche nell’esistenza di una cultu- ra. Ciò che per l’individualità di Goethe significa una serie di manifestazioni così differenti quali il Faust, la Farbenlehre, il Reineke Fuchs, il Tasso, il Werther, il viaggio in Italia, l'amo- re per Federica, il West-ostliche Divan e le Ròmische Elegien, per l’individualità del mondo antico significano le guerre per- siane, la tragedia attica, la polis, il dionisiaco, al pari della tirannide, delle colonne ioniche, della geometria di Euclide, della legione romana, dei combattimenti tra gladiatori e del pa- nem et circenses dell’epoca imperiale. In questo senso ogni esistenza individuale in qualche modo significativa ripete, con profonda necessità, tutte le epoche della cultura a cui appartiene. In ciascuno di noi la vita interio- re si desta — in quell’istante decisivo a partire dal quale si sa di essere un Io — nel punto e nel modo in cui si è destata l'anima dell'intera cultura. Ognuno di noi, uomini dell’Occi- dente, ancora rivive da fanciullo, nei suoi sogni ad occhi aperti e nei giochi infantili, il suo gotico, le sue cattedrali, i castelli feudali e le saghe degli eroi, il Dieu Je veut delle Crociate e il tormento del giovane Parsifal’. Ogni giovane greco aveva la sua epoca omerica e la sua Maratona. Nel Werther di Goethe, immagine di una svolta giovanile nota a ogni uomo faustiano, ma a nessun uomo antico, ritorna l’epoca di Petrarca e del Minnesang”®. Quando Goethe abbozzò l’Urfaust, egli era Parsi fal; quando finì la prima parte, era Amleto; soltanto con la seconda parte diventò l’uomo universale del secolo x1x, quale 20. Eroc di una leggenda popolare di origine celtica, poi collegato con il ciclo di Re Artà o dei « cavalieri della tavola rotonda »: in questo nuovo contesto Parsifal diventa il personaggio principale della ricerca del Graal, dando così il titolo — nel secolo xt — a un noto pocma cavalleresco di Chrétien de Troyes. A quest'ultima ver- sione si è richiamato Wagner nella sua ultima opera, il Parsifal, scritta nel 1876-1877 e messa in musica nel 1877-1882. 21. Designazione collettiva della lirica tedesca dei secoli xir e xm, affine alla poesia trobadorica provenzale, che si ispira all'ideale dell’« amor cortese ». La parola è composta dai termini Minne (= Liebe, amore) c Sang (= Gesang, canto o canzone); essa si riferisce all'omaggio reso dal cavaliere alla sua dama, cspresso con la parola Minnedienst. Byron lo intese. Perfino la senilità, quei secoli capricciosi e infecondi dell’Ellenismo più tardo, la «seconda fanciullezza » di un'intelligenza stanca e svogliata, si può studiare in più d’uno dei grandi vegliardi dell’antichità. Nelle Baccanti di Eu- ripide è anticipato molto del sentimento della vita, e nel Timeo di Platone molto del sincretismo religioso dell’età imperiale. Il secondo Faust di Goethe e il Parsifal! di Wagner svelano in anticipo quale forma la nostra spiritualità assumerà nei prossi- mi secoli, negli ultimi secoli creativi. Per omologia degli organi la biologia intende la loro equiva- lenza morfologica, in antitesi all’analogia, che si riferisce inve- ce all’equivalenza della loro funzione. Goethe ha concepito que- sto concetto importante, e così fecondo nelle sue conseguenze, il cui sviluppo lo ha condotto a scoprire nell'uomo l’os interma- xillare; Owen? ne ha dato una formulazione rigorosamente scientifica. Io introduco questo concetto anche nel metodo sto- rico. È noto che a ogni parte del cranio umano corrisponde in modo preciso in tutti i vertebrati — fino ai pesci — un’altra parte, in modo tale che le pinne pettorali dei pesci e i piedi, le ali, le mani dei vertebrati terrestri sono organi omologhi, anche se hanno perduto ogni più piccola parvenza di somiglianza. Omologhi sono i polmoni degli animali terrestri e la vescica natatoria dei pesci; analoghi sono invece — in riferimento all’u- so — i polmoni e le branchie®. Qui si manifesta un talento a. Non è superfluo aggiungere che questi fenomeni puri della natura vivente sono estranei a ogni elemento causale, e che il materialismo do- vette pervertirne l'immagine con l’introduzione di cause finali, per otte- nere un sistema adatto all'intelletto comune. Goethe, che del darwi- nismo aveva grosso modo anticipato ciò che di esso rimarrà ancora tra cinquant'anni, escluse completamente il principio di causa. Egli carat- terizza la vita reale priva di cause e di scopi in modo tale che i darwi- nisti non si sono qui affatto avveduti dell'assenza del principio. Il con- cetto di fenomeno originario non permette nessuna assunzione causale, a meno che non si voglia fraintenderlo in senso meccanicistico. 22. Richard Owen (1804-1892), biologo inglese, autore della Memoir on the Pearly Nautilus (1832), della Odontography (1840-1845), della History of British Fossil Mam- mals and Birds (1846), della History of British Fossil Reptils (1849-1884) e di varie altre opere, diede importanti contributi alla paleontologia degli animali vertebrati. morfologico approfondito, ottenuto attraverso una rigorosissi- ma educazione dello sguardo, che è del tutto estraneo all’attua- le ricerca storica con la sua comparazione superficiale, tra Cristo e Budda, tra Archimede e Galilei, tra Cesare e Wallen- stein”?, tra i piccoli stati tedeschi e quelli ellenici. Nel corso di quest'opera diventerà sempre più chiaro quali immense pro- spettive si aprano allo sguardo storico, non appena questo meto- do rigoroso venga compreso ed elaborato anche all’interno della considerazione della storia. Formazioni omologhe sono — per menzionarne qui soltanto alcune — l’arte plastica antica e la musica strumentale dell'Occidente, le piramidi della Quarta dinastia e le cattedrali gotiche, il Buddismo indiano e lo Stoici- smo romano (mentre Buddismo e Cristianesimo z07 sono nep- pure analoghi), l'epoca degli « stati in lotta» della Cina, degli Hyksos e delle guerre puniche, le epoche di Pericle e degli Omeiadi, le epoche del Rigveda”, di Plotino e di Dante. Omo- loghi sono la corrente dionisiaca e il Rinascimento, analoghe sono invece la corrente dionisiaca e la Riforma. Per noi — lo ha giustamente sentito Nietzsche — « Wagner riassume la mo- dernità ». Di conseguenza dev’esserci qualcosa di corrisponden- te anche per la modernità antica; ed è l’arte di Pergamo. Dall’omologia dei fenomeni storici deriva nel medesimo tempo un concetto del tutto nuovo. Io definisco « contempora- nei» due fatti storici che, ognuno nella sua cultura, com- paiono esattamente nel medesimo luogo (relativo) e hanno per- ciò un significato esattamente corrispondente. Si è già mostra- to come lo sviluppo della matematica antica e di quella occiden- tale siano avvenuti in piena coerenza. In questo caso Pitagora e Descartes, Archita* e Laplace, Archimede e Gauss” dovrebbe- 23. Albrecht Wenzel Euscbius von Waldstein o Wallenstcin (1583-1634), condot- tiero delle armate imperiali durante la guerra dei Trent'anni, in seguito accusato di tradimento e ucciso, La sua vita ispirò la trilogia di Schiller che da Wallenstein prende il nome (scritta nel 1798-1799). 24. Prima parte dei Veda, raccolta di inni e di racconti cosmogonici anteriori all'800 a. C., che costituiscono il primo nucleo della letteratura metafisica indiana. 25. Archita di Taranto, matematico greco della prima metà del secolo Iv, svilup- pò l’opera di Pitagora e fu in relazione con Platone. 26. Carl Friedrich Gauss (1777-1855), matematico c astronomo tedesco, autore delle Disquisitiones arithmeticae (1801) e di numerosi altri scritti, dicde una nuova impo- stazione alla teoria dei numeri e aprì la strada alle geometrie non cuclidec. Non meno ro essere designati come contemporanei; la nascita dello ionico e del barocco si compie contemporaneamente; Polignoto” e Rembrandt, Policleto” e Bach sono contemporanei. Contempo- ranei appaiono, in tutte le culture, la Riforma, il Puritanesi- mo, e soprattutto la svolta che reca alla civiltà in declino. Nell'antichità quest'epoca porta i nomi di Filippo e di Alessan- dro; nell'Occidente l’avvenimento ad essa contemporaneo com- pare nella forma della Rivoluzione francese e di Napoleone. Alessandria, Bagdad e Washington vengono costruite contem- poraneamente; l'apparizione delle antiche monete e della no- stra contabilità a partita doppia, della prima tirannide e della Fronda, di Augusto e di Shih Huang Ti”, di Annibale e della guerra mondiale avvengono contemporaneamente. Spero di dimostrare che tutte — senza eccezione — le gran- di creazioni e forme della religione, dell’arte, della politica, della società, dell'economia, della scienza sorgono, si compiono e periscono contemporaneamente nelle diverse culture; che la struttura interna di una corrisponde completamente a quella delle altre; che nell'immagine storica di ogni cultura non c’è un solo fenomeno fornito di profondo significato fisiognomico di cui non si possa rintracciare la contropartita, in una forma rigorosamente definibile e in un luogo ben determinato, anche nelle altre. Ma per cogliere l’omologia tra due fatti occorre un approfondimento e un’indipendenza dall’apparenza della faccia- ta completamente diversi da quelli finora consueti tra gli stori- ci, i quali non si sarebbero mai sognati che il Protestantesimo trova il suo corrispettivo nel movimento dionisiaco e che il Puritanesimo inglese dell'Occidente corrisponde all’Islam nel mondo arabo. Da questo aspetto deriva una possibilità che va molto al di là dell’ambizione di ogni ricerca storica precedente, la quale si importanti sono le sue ricerche astronomiche: calcolò per primo l'orbita del pianetino Ccrere cd elaborò un nuovo metodo di calcolo dell'orbita dei piancti. 27. Polignoto di Taso, pittore greco vissuto nella prima metà del secolo v. 28. Policleto, grande scultore greco del secolo v. 29. Shih Huang Ti (259-210 a. C.), « primo imperatore sovrano », è il titolo as- sunto dal re Cheng dello stato di Ch'in dopo l'unificazione della Cina e la soppres- sione degli altri stati indipendenti. A lui si devono la semplificazione della scrittura cinese, l'estensione del sistema giuridico Ch'in a tutto l'impero, l'organizzazione am- ministrativa dell'impero, nonché il completamento della Grande muraglia. limitava essenzialmente a ordinare il passato, nella misura in cui esso era conosciuto, secondo uno schema unilineare — cioè la possibilità di procedere oltre il presente come limite dell’inda- gine e di determinare in anticipo anche le epoche zoz ancora trascorse della storia occidentale nella loro forma interna, nella loro durata, nel loro ritmo, nel loro senso, nel loro risultato, ma anche la possibilità di ricostruire con l’aiuto di connessioni morfologiche le epoche da gran tempo scomparse e sconosciute, e perfino intere culture del passato. Si tratta di un procedimen- to non dissimile da quello della paleontologia che oggi è in grado di fornire, sulla base di un singolo frammento del cra- nio, nozioni ampie e sicure sullo scheletro e sull’appartenenza del frammento a una specie determinata. Una volta presupposto il ritmo fisiognomico è del tutto pos- sibile ritrovare, sulla base di particolarità disperse della decora- zione, dell’architettura e della scrittura, e di dati isolati di natura politica, economica, religiosa, i tratti organici fondamen- tali dell'immagine storica di interi secoli; è possibile ricavare da elementi del linguaggio formale dell’arte la forma statale ad essa contemporanea, dalle forme matematiche il carattere delle corrispondenti forme economiche. Si tratta di un procedimento genuinamente goethiano, che riporta all’idea goethiana di fero- meno originario, e che è corrente nel limitato ambito della zoologia e della botanica comparativa, ma che può venir esteso, in misura finora mai sospettata, all'intero campo della storia. Sul concetto di politica abbiamo riflettuto più di quanto fosse opportuno, e tanto meno ci siamo intesi sul modo di considerare la politica reale. I grandi uomini di stato sono soliti agire immediatamente, sulla base di un sicuro intuito dei fatti. Per essi ciò è tanto evidente che non viene loro neppure in mente la possibilità di riflettere sui concetti generali fonda- mentali di questo agire — posto che tali concetti esistano. Essi sapevano da sempre che cosa dovevano fare. Una teoria in proposito non corrispondeva né al loro talento né al loro gu- sto. Ma i pensatori di professione che posavano lo sguardo sui fatti creati dagli uomini erano così intimamente distanti da questo agire che perdevano tempo almanaccando di astrazioni — preferibilmente in immagini mitiche come quelle di giusti- zia, virtù, libertà — e in base ad esse misuravano l’accadere storico del passato e soprattutto del futuro. Essi dimenticarono che si trattava in fondo di semplici concetti, e pervennero alla convinzione che la politica esista per dare forma al corso del mondo secondo una ricetta ideale. E poiché una cosa simile non è avvenuta mai e in nessun luogo, l’agire politico apparve loro così ristretto in confronto al pensiero astratto che nei loro libri disputavano sul fatto se possa in qualche modo esserci un « genio dell’azione ». * Der Untergang des Abendlandes: Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte, cap. Il-iv: Der Staat, sezione 3: Philosophie der Politig, Minchen, C. H. Beck'sche Verlagsbuchhandlung, 1918-22, cd. definitiva 1923, vol. II, pp. 544-579 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi, autorizzata, per gentile concessione della Casa Edi- trice Longanesi). 756 OSWALD SPENGLER Qui si compirà invece il tentativo di creare, anziché un sistema ideologico, una fisiognomica della politica quale è stata realmente fatta nel corso della storia intera, e non così come avrebbe dovuto essere fatta. Il compito era quello di penetrare il senso ultimo dei grandi fatti, di «vederli», di sentire e di circoscrivere il loro elemento simbolicamente significativo. I progetti di miglioramento del mondo non hanno nulla a che fare con la realtà storica?. Noi chiamiamo storia le correnti dell’esistenza umana nella misura in cui le concepiamo come movimento; le chiamiamo generazione, ceto, popolo, nazione nella misura in cui le conce- piamo invece come qualcosa di mosso. La politica è il modo e la maniera in cui quest’esistenza che scorre si afferma, cresce, trionfa sulle altre correnti della vita. Tutta la vita è politica, in ogni suo tratto istintivo, fino al midollo. Ciò che oggi designiamo volentieri come energia vitale (come vitalità), quel « qualcosa » in noi che vuole ad ogni costo avanzare e sollevar- si, il cieco, cosmico, nostalgico impulso alla validità e alla po- tenza che rimane legato — a mo’ di pianta e di razza — alla terra, alla « patria », quell’essere diretto e quel dover necessaria mente agire costituisce quello che ovunque, tra gli uomini superiori, cerca ed è costretto a cercare, come vita politica, le grandi decisioni per essere oppure per subire un destino. Infatti o si cresce 0 si muore: non c'è una terza possibilità. Per questo motivo la nobiltà come espressione di una razza forte è il ceto propriamente politico: la disciplina, non la cultu- ra è la forma propriamente politica di educazione. Ogni gran- de politico, che è un centro di forza nella corrente di ciò che accade, ha qualcosa di nobile nel modo di sentire la propria a. «I regni passano, un buon verso rimane» — così si esprimeva Wilhelm von Humboldt sul campo di battaglia di Waterloo. Ma la per- sonalità di Napoleone ha plasmato in anticipo la storia dei secoli suc- cessivi, Per ciò che riguarda i buoni versi, egli avrebbe dovuto inter- rogare in proposito un contadino per strada. È vero che essi rimangono, ma per l'insegnamento della letteratura. Platone è eterno, ma per i filologi. La figura di Napoleone domina però interiormente noi tutti, i nostri stati e i nostri eserciti, la nostra opinione pubblica, tutto il nostro essere politico — e in misura tanto maggiore quanto meno ne abbiamo coscienza. OSWALD SPENGLER 757 vocazione e nel proprio legame interiore. Invece tutto ciò che è microcosmico, tutto ciò che è «spirito», è anche apolitico; perciò ogni politica programmatica e ogni ideologia hanno qual- cosa di sacerdotale. I migliori diplomatici sono i fanciulli quando giocano o vogliono avere qualcosa. Allora la sostanza cosmica presente nell'esistenza singola si fa strada immediata- mente e con una sicurezza da sonnambulo. Col destarsi della giovinezza gli uomini non imparano, ma anzi disimparano questa maestria dei primi anni di vita: proprio per questo motivo l’uomo di stato è cosa rara tra gli uomini. Queste correnti dell’esistenza nell’ambito di una cultura su- periore — perché soltanto all’interno di essa e tra di esse vi è grande politica — sono possibili solo al plurale. Un popolo esiste realmente soltanto in rapporto ad altri popoli. Ma pro- prio per questo motivo il rapporto naturale, razziale, tra di essi è la guerra. Si tratta di un fatto che nessuna verità cambie- rà mai. La guerra è la politica originaria di ogzi essere viven- te, fino al punto che la lotta e la vita sono in fondo tutt'uno e che con la volontà di lotta si spegne anche l'essere. Vi sono antiche parole germaniche come orrusta e orlog che significano serietà e destino, in antitesi allo scherzo e al gioco: è un rafforzamento, non una differenza di essenza. E se ogni alta politica vuol essere una sostituzione della spada con armi spiri- tuali, se l'ambizione dell’uomo di stato alla sommità di tutte le culture è quella di rendere quasi non più necessaria la guerra, rimane pur sempre l’affinità originaria tra diplomazia e arte della guerra: il carattere di lotta, la medesima tattica, la mede- sima astuzia bellica, la necessità di avere sullo sfondo forze materiali per dare peso alle operazioni. Anche il fine rimane lo stesso: la crescita della propria unità vitale — ceto o nazione — a spese delle altre. Ogni tentativo di escludere questo ele- mento razziale conduce soltanto alla sua trasposizione in un campo diverso: anziché tra partiti c'è la lotta tra territori o, quando la volontà di crescita viene meno anche qui, tra bande di avventurieri a cui il resto della popolazione volontariamente si rassegna. In ogni guerra tra potenze della vita si tratta di stabilire chi debba governare il tutto. È sempre una vita e mai un sistema, una legge o un programma, che fornirà il ritmo nella 758 OSWALD SPENGLER corrente dell’accadere ®. Essere il centro di azione, il centro attivo di una massa, elevare la forma interiore della propria persona a forma di interi popoli e di intere epoche, avere il comando della storia per poter condurre il proprio popolo e la propria stirpe, con i suoi fini, al culmine degli avvenimenti — questo è l'impulso inconsapevole e irresistibile operante in ogni essere individuale fornito di vocazione storica. C'è soltan- to storia personale, e quindi anche soltanto politica personale. La lotta non di princìpi ma di uomini, non di ideali ma di caratteri razziali per esercitare il potere costituisce il presuppo- sto e il fine della politica: le rivoluzioni stesse non costituisco- no un'eccezione, poiché la « sovranità popolare » non è che una parola per esprimere il fatto che il potere dominante ha assun- to il titolo di capo-popolo anziché quello di re. Con questo non muta il metodo di governare, e neppure la posizione dei gover- nanti. Anche la pace universale, tutte le volte che c’è sta- ta, non è stata altro che la schiavitù dell’umanità intera sotto il governo di un piccolo numero di nature forti decise a dominare. Il concetto di esercizio del potere implica — già tra gli animali — che un’unità vitale si frantumi in soggetti e oggetti di governo. Ciò è talmente ovvio che questa struttura interna di ogni unità di massa non va perduta neppure un istante, anche durante le crisi più gravi come quella del 1789. Soltanto il detentore del potere scompare, non però l’ufficio; e quando nel corso degli avvenimenti un popolo perde realmente ogni guida e si spinge in avanti senza regola, ciò significa soltanto che trasferisce all’esterno la propria guida, perché è diventato oggetto nella sua totalità. Non vi sono popoli politicamente dotati; vi sono soltanto popoli che sono saldamente in mano a una minoranza gover- nante e che quindi si trovano bene nella loro costituzione. Come popolo, gli Inglesi sono altrettanto privi di giudizio, ristretti e poco pratici di cose politiche che qualsiasi altra nazio- ne, ma posseggono, pur con tutto il loro gusto per i dibattiti pubblici, una tradizione di fiducia. La differenza consiste sem- plicemente nel fatto che l’Inglese è oggetto di un governo che a. È questo il significato della frase inglese men not measures, che indica il segreto di ogni politica che ha successo. OSWALD SPENGLER 759 ha consuetudini assai antiche e ricche di successo, a cui egli acconsente perché ne conosce per esperienza il vantaggio. Da questo consenso, che dal di fuori appare come accordo, non c’è che un passo per arrivare alla convinzione che tale governo dipenda dalla volontà popolare, anche se all’inverso è proprio esso che gli inculca sempre, per motivi tecnici, questo punto di vista. La classe di governo inglese ha sviluppato i suoi fini e i suoi metodi in piena indipendenza dal « popolo »; essa lavora con — e in — una costituzione non scritta le cui finezze nient’affatto teoriche, nate dall’uso, sono impenetrabili e in- comprensibili al profano. Ma il coraggio della truppa dipende dalla fiducia nella guida — una fiducia che vuol dire rinuncia non arbitraria alla critica. È l'ufficiale che rende eroi i codardi o codardi gli eroi: ciò vale per gli eserciti, per i popoli, per i ceti come per i partiti. Il talento politico di una massa non è altro che fiducia nella sua guida. Ma essa dev'essere guadagna- ta; deve maturare lentamente, venir mantenuta in virtù del successo e diventare tradizione. Il difetto di capacità direttive nello strato dominante si manifesta come scarso sentimento di sicurezza presso i dominati, cioè come quella specie di critica priva d'istinto e petulante, che mette fuori forma un popolo con la sua semplice presenza. II Come si fa politica? — L'uomo di stato nato è soprattutto un conoscitore: un conoscitore di uomini, di situazioni, di cose. Egli possiede lo « sguardo » che abbraccia integralmente, senza esitare, l'ambito del possibile. Il conoscitore di cavalli saggia con «ro sguardo il portamento dell’animale e sa quali prospettive esso possiede nella corsa. Il giocatore lancia uno sguardo all’avversario e ne conosce la prossima mossa. Fare ciò che è giusto senza « saperlo », la mano sicura che allenta imper- cettibilmente o lascia andare del tutto la redine — tutto ciò è l'opposto dell’uomo teoretico. Il ritmo segreto di ogni divenire è il medesimo in lui e nelle cose storiche. L'uno ha sentore dell’altro, l’uno esiste per l’altro. L'uomo di azione non si trova mai in pericolo di condurre una politica sentimentale o programmatica. Non crede alle grandi parole: egli ha continua- 760 OSWALD SPENGLER mente sulle labbra la domanda di Pilato. Verità — ma l’uomo di stato nato sta al di là del vero e del falso, non scambia la logica degli avvenimenti con la logica dei sistemi. Le « verità » — o gli «errori », che sono qui la stessa cosa — vengono da lui considerate soltanto come correnti spirituali, riguardo alla loro efficacia: egli ne scorge la forza, la durata e la direzione, e le mette in conto per il destino della potenza da lui diretta. Certamente possiede convinzioni che gli sono care, ma come uomo privato; nessun politico di statura si è mai sentito dipen- dente da esse mentre agiva. « Colui che agisce è sempre privo di coscienza; nessuno ha coscienza come ne ha l’uomo contem- plativo » !. Ciò vale per Silla e Robespierre così come per Bi- smarck e Pitt. I grandi papi e i capi-partito inglesi, finché dovevano dirigere il corso delle cose, non seguivano princìpi diversi da quelli dei conquistatori e degli agitatori di tutti i tempi. Si tragga dalle azioni di Innocenzo III, che ha condotto la Chiesa vicino al dominio del mondo, la loro regola fonda- mentale, e se ne ottiene un catechismo del successo che rappre- senta l’estremo opposto di ogni morale religiosa, ma senza il quale nessuna chiesa, nessuna colonia inglese, nessun patrimo- nio americano, nessuna rivoluzione vittoriosa, infine nessun sta- to e nessun partito, nessun popolo si troverebbe in una situazio- ne sopportabile. La vita, non l’individuo, è priva di coscienza. Perciò occorre intendere il tempo per il quale si è nati. Chi non avverte e non coglie le sue potenze più segrete, chi non sente in se stesso qualcosa di affine che lo spinge in avanti per un cammino che non si può circoscrivere con concetti, chi crede a ciò che sta in superficie, all'opinione pubblica, alle grandi parole e agli ideali del giorno, non è all’altezza dei suoi avvenimenti. Allora questi lo hanno in loro potere, e non vicever- sa. Mai guardarsi alle spalle e mai trarre il criterio dal passato! e tanto meno di fianco, da un qualsiasi sistema! In epoche come l’attuale o come quella di Gracco vi sono due specie di idealismo infausto: quello reazionario e quello democratico. L'uno crede nella reversibilità della storia, l’altro nella presenza in essa di un fine. Ma per il necessario insuccesso in cui entrambe gettano la nazione sul cui destino hanno acquisito potere, è indifferente 1. GorrHe, Maximen und Reflexionen, 241. OSWALD SPENGLER 761 che la si sacrifichi a un ricordo o a un concetto. L’uomo di stato genuino è la storia fatta persona; è il suo orientamento in forma di volontà singola, la sua logica organica in forma di carattere. Ma l’uomo di stato di valore dovrebbe anche essere un edu- catore in senso elevato: non come rappresentante di una mora- le o di una dottrina, ma come modello nel suo agire. È un fatto noto che nessuna religione nuova ha mai mutato lo stile dell’esistenza. Essa ha penetrato l’essere desto, l’uomo spiritua- le, ha gettato nuova luce su un mondo al di là, ha creato una felicità incommensurabile con la forza della modestia, della rinuncia e della sopportazione fino alla morte; ma sulle forze della vita non possedeva alcun potere. Soltanto la grande perso- nalità — la sostanza impersonale, la razza in essa presente, la forza cosmica che le è connessa — opera creativamente sul vivente, non istruendo ma disciplinando, trasformando il tipo di interi ceti e di interi popoli. Non /e verità, # bene, i sublime, bensì i;7 Romano, # Puritano, : Prussiano costituisco- no un fatto. Il sentimento dell’onore, il sentimento del dovere, la disciplina, la decisione sono tutte cose che non si imparano dai libri; esse vengono destate, nel fluire dell’esistenza, da un modello vivente. Perciò Federico Guglielmo I? fu uno dei più grandi educatori di tutti i tempi e il suo portamento persona- le, plasmatore di una razza, non è più scomparso nel susseguir- si delle generazioni. Ciò che distingue l’uomo di stato genuino dal semplice politico, dal giocatore per diletto, dal cacciatore di felicità che opera sulle sommità della storia, dall’avido e dall’ambizioso, dal maestro di scuola che va predicando un ideale, è il fatto che egli può esigere il sacrificio e lo ottiene perché il sentimento di essere necessario all’epoca e alla nazio- ne viene condiviso da migliaia di uomini, li plasma fin nel loro intimo e li rende capaci di imprese alla cui altezza non si sarebbero altrimenti mai sollevati*. a. Ciò vale, in definitiva, anche per le chiese, le quali sono qualcosa di completamente diverso dalle religioni, cioè elementi del mondo dei 2. Federico Guglielmo I (1688-1740), re dì Prussia dal 1713 alla morte, pose le ba- si dell’amministrazione dello stato prussiano: la sua parsimonia e la sua vita frugale servirono di esempio a generazioni di funzionari del nuovo stato. 762 OSWALD SPENGLER Ma il momento supremo non consiste nell’agire, bensì nel poter comandare. Soltanto con questo il singolo cresce al di sopra di sé, diventando il punto centrale di un mondo attivo. C'è una specie di comandare che fa dell’obbedire una consuetu- dine fiera, libera e nobile — e che Napoleone, per esempio, non ha posseduto. Un residuo di mentalità subalterna gli ha impedito di educare degli uomini e non degli strumenti di registrazione, di dominare tramite personalità anziché median- te decreti; e poiché non era capace di questa sensibilità sottile del comandare e doveva quindi fare da solo tutto quanto era veramente decisivo, doveva a poco a poco fallire a causa della sproporzione tra i compiti della sua posizione e i limiti della capacità di azione umana. Ma chi possiede questa dote suprema e ultima dell’umanità più perfetta — come Cesare o Federico il Grande — alla sera di una battaglia, quando le operazioni vanno incontro all’esito voluto e la campagna si decide con la vittoria, oppure nell’ora in cui si conclude, con l’ultima firma, un’epoca della storia, prova un sentimento di potenza meravi- glioso che rimane per sempre precluso agli uomini della veri- tà. Vi sono attimi — che indicano i punti più alti delle cor- renti cosmiche — in cui l’individuo è consapevole di essere identico al destino e di stare al centro del mondo, e percepisce la sua personalità quasi come il manto di cui la storia futura è in procinto di avvolgersi. Il primo compito è di fare qualcosa da sé; il secondo, meno appariscente ma più difficile e più grande nella sua efficacia remota, è di creare una tradizione, di coinvolgere altri af- finché proseguano la propria opera, il suo ritmo e il suo spiri- to; scatenare una corrente di attività unitaria che non ha più bisogno del primo capo per mantenere la propria forma. Con ciò l’uomo di stato cresce a un’altezza che l’antichità ha defini- to come divinità: diventa il creatore di una vita nuova, il capostipite spirituale di una razza giovane. Dopo pochi anni egli scompare, come essere singolo, da questa corrente. Ma una fatti e quindi — nel carattere della loro guida — fenomeni politici e non religiosi. Non la predica cristiana, ma il martire cristiano ha con- quistato il mondo, e del possesso di questa forza egli era debitore non già alla dottrina, ma all’esempio dell'Uomo sulla croce. minoranza da lui suscitata, un altro essere di specie assai rara, subentra al suo posto per un tempo indeterminato. Un indivi- duo può produrre e lasciare come eredità questo elemento co- smico, quest’anima di uno strato dominante; in tutta la storia questo ha sempre dato effetti durevoli. Il grande uomo di stato è raro: se egli venga, se si affermi, se troppo presto o troppo tardi — tutto ciò è affidato al caso. I grandi individui spesso distruggono più di quanto non abbiano costruito, e ciò a causa del vuoto che la loro morte lascia nella corrente dell’accadere. Ma creare una tradizione vuol dire escludere il caso. Una tradi- zione alleva un tipo medio elevato su cui il futuro può fare sicuro affidamento: non un Cesare, ma un senato; non un Napoleone, ma un corpo incomparabile di ufficiali. Una forte tradizione attrae da tutte le parti i talenti e consegue grandi successi con ridotte capacità: lo dimostrano le scuole pittoriche italiane e olandesi non meno dell’esercito prussiano e della diplomazia della curia romana. È stata una grande debolezza di Bismarck — in confronto a Federico Guglielmo I — che egli abbia sì saputo agire, ma non formare una tradizione, che non abbia creato accanto al corpo di ufficiali di Moltke® una razza corrispondente di politici che si identificasse con il suo stato e con i nuovi compiti da esso posti, che traesse continuamente dal basso uomini importanti incorporando per sempre il loro stile di azione. Se ciò non avviene, anziché uno strato di gover- no formato di un sol getto si avrà un insieme di teste che affronta disarmata l’imprevisto. Ma se ciò riesce, allora sorge un « popolo sovrano » nell’unico senso che è degno di un popo- lo e che è possibile nel mondo dei fatti; una minoranza ben integrata e altamente selezionata, provvista di una tradizione sicura e maturata attraverso una lunga esperienza, che attrae c utilizza sul suo cammino ogni talento e che proprio per questo motivo si trova in accordo con il resto della nazione da essa governato. Una minoranza siffatta diventa a poco a poco una razza genuina — anche se una volta era stata un partito — e 3. Helmuth Carl Bernhard von Moltke (1800-1891), generale prussiano, prestò dap- prima servizio nell’esercito turco; ritornato in Germania nel 1840, diresse le armate prussiane nella guerra del 1866 conuo l’Austria e poi nella guerra franco-tedesca del 1870-71. A lui si deve l’organizzazione in forma moderna dell’esercito prussiano: gran- de stratega, ebbe una parte decisiva nell'esito vittorioso delle due guerre. decide con la sicurezza del sangue, non dell’intelletto. Proprio per questo motivo tutto accade in essa « da sé»: non ha più bisogno del genio. Ciò significa, se così si può dire, la sostitu- zione del grande politico con la grande politica. Ma che cos'è la politica? — Essa è l’arte del possibile: è una formula antica, che dice quasi tutto. Il giardiniere può trarre una pianta dal seme o nobilitarne la specie; può dispiega- re o lasciar deperire le disposizioni in essa latenti, la sua cresci- ta e la sua foggia, la sua fioritura e i suoi frutti. Dal suo sguardo per il possibile, e quindi per il necessario, dipendono la perfezione, la forza, l’intero destino della pianta. Ma la forma fondamentale e la direzione della sua esistenza, le sue fasi di sviluppo, la sua velocità e la sua durata, la «legge secondo cui si manifesta » 70n sono in potere del giardiniere. Essa deve realizzarla, oppure muore; e la stessa cosa vale per quell’immensa pianta che è la «cultura» e per le correnti dell’esistenza di generazioni umane racchiuse nel suo mondo di forme politiche. Il grande uomo di stato è il giardiniere di un popolo. Ogni individuo che agisce è nato in e per un determinato tempo. In tal modo è determinato anche l’ambito di ciò che può venir conseguito da /ui. Il nonno e il nipote hanno di fronte cose differenti; anche il loro fine e il loro compito sono quindi differenti. L'ambito si restringe ulteriormente a causa dei limiti della sua personalità e delle qualità del suo popolo, della situazione e degli uomini con cui deve lavorare. Ciò che qualifica il politico di statura è il fatto che di rado egli deve fare sacrifici per essersi ingannato su questi limiti, ma anche il fatto che non tralascia nulla di quanto può essere realizzato. In ciò rientra pure — e proprio tra Tedeschi non si ripeterà mai abbastanza — il fatto che egli non scambia ciò che dovrebbe essere con.ciò che sarà. Le forme fondamentali dello stato e della vita politica, la direzione e il luogo del suo sviluppo sono dati con un determinato tempo, e sono immutabili. Tutti i successi politici vengono conseguiti con questi clementi, non già a loro spese. Gli adoratori degli ideali politici creano dal nulla: essi sono — nelle loro teste — sorprendentemente liberi; ma i loro edifici ideali, costruiti su concetti vuoti come quelli di saggezza, giustizia, libertà, eguaglianza sono in definitiva sempre gli stessi, e ricominciano sempre da capo. A chi è padrone dei fatti basta dirigere in modo impercettibile ciò che gli è semplicemente presente. Questo sembra poca cosa; e tuttavia soltanto qui comincia la libertà in senso elevato. Ciò che conta sono le piccole mosse, l’ultima cauta pressione sul timone, la fine sensibilità per le sfumature più sottili dell’ani- ma dei popoli e degli individui. L'arte dello stato è da un lato chiara visione delle grandi linee tracciate in modo irrevocabile; dall’altro è mano sicura per ciò che è singolare e personale, per ciò che in questo quadro può trasformare un disastro che si approssima in un successo decisivo. Il segreto di ogni vittoria risiede nell’organizzazione di quanto non appare. Chi sa far questo può dominare il vincitore come rappresentante dei vinti, al pari di Talleyrand a Vienna. Cesare, la cui posizione era allora quasi disperata, ha posto a Lucca al servizio dei propri fini, senza farsi accorgere, la potenza di Pompeo, scavandogli così la fossa. Ma vi è un pericoloso limite del possibile, che la perfetta sensibilità dei grandi diplomatici dell’epoca barocca non ha quasi mai toccato, mentre è privilegio degli ideologi inciamparvi continuamente sopra. Vi sono svolte nella storia da cui il conoscitore si lascia trascinare per un intero periodo, pur di non perdere il dominio. Ogni situazione possiede la propria misura di elasticità, sulla quale non ci si può ingannare in nes- sun modo. Una rivoluzione giunta al suo scoppio dimostra sempre una deficienza di sensibilità politica, sia dei governanti sia dei loro avversari. Il necessario dev'essere fatto al tempo giusto, cioè fin quan- do è un dono con cui il potere del governo si assicura la fiducia, e non dev'essere fatto come un sacrificio che manifesti debolezza e desti disprezzo. Le forme politiche sono forme viventi che si trasformano inesorabilmente in una determinata direzione. Si cessa di essere «in forma » quando si vuol ostaco- lare questa marcia oppure deviarla in direzione di un ideale. La nobiltà romana possedette questa sensibilità; non così quel- la spartana. Nell’epoca dell’ascesa della democrazia si è sem- pre pervenuti all’attimo fatale — in Francia prima del 1789, in Germania prima del 1918 — in cui era troppo tardi per presenta- re una riforma necessaria come un libero dono, e quindi si sarebbe dovuto rifiutarla con energia priva di esitazione in quanto ora, come sacrificio, preparava la dissoluzione. Ma chi non vede per tempo la prima necessità, disconoscerà ancora più sicuramente la seconda. Anche il viaggio a Canossa può avveni- re troppo presto o troppo tardi; in ciò risiede, per interi popoli, la decisione se essi saranno in futuro un destino per gli altri, oppure se dovranno subirlo da altri. Ma la democrazia in decadenza ripete lo stesso errore di voler tenere fermo ciò che era l’ideale di ieri: questo è il pericolo del secolo xx. Su ogni sentiero che conduce al cesarismo si trova un Catone. L'influenza che anche un uomo di stato in posizione eccezio- nalmente forte può avere sui metodi politici è assai ristretto; è proprio del valore dell’uomo di stato non farsi illusioni in pro- posito. Il suo compito è di lavorare con e dentro le forme storiche presenti; soltanto il teorico si entusiasma a scoprire forme più ideali. Nell’«essere in forma» politico rientra però l’incondizionato padroneggiamento dei più moderni. Qui non c'è nessuna scelta: i mezzi e i metodi sono dati dal tempo, e appartengono alla forma interna di un’epoca. Chi si sbaglia su di essi, chi consente al suo gusto e al suo sentimento di prevale- re sulla propria sensibilità, perde di mano i fatti. Il pericolo di un’aristocrazia è di essere conservatrice nei mezzi; il pericolo della democrazia è di scambiare la formula con la forma. I mezzi del presente sono ancora per molti anni quelli parlamen- tari: le elezioni e la stampa. Su di essi si può avere l’opinione che si vuole, si può onorarli o disprezzarli, ma bisogna padro- neggiarli. Bach e Mozart padroneggiavano i mezzi musicali del loro tempo: questo è l’indice di ogni specie di maestria. Le cose non stanno diversamente per l’arte dello stato. Ma quella che importa non è, in ogni caso, la forma esteriore generalmen- te visibile, bensì ciò di cui è il rivestimento. Perciò essa può venir mutata senza che sia mutato qualcosa nell’essenza dell’ac- cadere; può venir tradotta in concetti e in testi costituzionali senza neppur incidere sulla realtà; e l’ambizione di tutti i rivoluzionari e dottrinari si riduce a immischiarsi in questo gioco di diritti, di princìpi e di libertà alla superficie della storia. L'uomo di stato sa che l’estensione del diritto di voto è del tutto inessenziale rispetto alla tecnica ateniese o romana, giacobina, americana e ora anche tedesca, di fare le elezioni. Comunque suoni la costituzione inglese, ciò è indifferente di fronte al fatto che la sua applicazione è controllata da un piccolo strato di famiglie nobili, di modo che Edoardo VII‘ era un ministro del proprio ministero. Per quanto riguarda la stam- pa moderna, il visionario può ben appagarsi del fatto che essa è costituzionalmente « libera »; il conoscitore si domanda soltan- to chi ne dispone. La politica è infine la forma in cui si compie la storia di una nazione in una pluralità di nazioni. La grande arte consi- ste nel mantenere internamente in forma la propria nazione in vista degli avvenimenti esterni. Non soltanto per i popoli, gli stati e i ceti, ma per le unità viventi di ogni specie fino ai gruppi di animali più semplici e al corpo dell'individuo, questo è il rapporto naturale tra politica interna e politica estera: la prima esiste esclusivamente per la seconda, e non viceversa. Il democratico genuino tratta di solito la politica interna come uno scopo in sé, mentre il diplomatico di media levatura pensa soltanto alla politica estera. Ma proprio per questo motivo i risultati particolari di entrambi restano sospesi in aria. Senza dubbio il maestro nell’arte politica si rivela nel modo più mar- cato nella tattica delle riforme interne, nella sua attività econo- mica e sociale, nell’abilità di mantenere in accordo, e al tempo stesso funzionante, la forma pubblica della totalità — « diritti e libertà » — con il gusto dell’epoca, e nell'educazione di senti- menti senza i quali non è possibile che un popolo si mantenga in buona costituzione: fiducia, rispetto dei capi, consapevolez- za della propria potenza, soddisfazione e, se diventa necessa- rio, entusiasmo. Ma tutto ciò mantiene il suo valore soltanto in riferimento al fatto fondamentale della storia superiore, cioè al fatto che un popolo non è solo al mondo e che per il suo futuro è decisivo il rapporto di forze con altri popoli e altre potenze, non il semplice ordinamento interno. E poi- ché lo sguardo dell’uomo comune non giunge tanto in là, è la minoranza governante che deve possederlo anche per il re- 4. Edoardo VII (1841-1910), re d’Inghilterra a partire dal rgor, alla morte della madre regina Vittoria, promosse una politica di entenze con la Francia e la Russia: il suo regno — come allude qui Spengler — si ispirò ai più rigorosi principi costituzionali. sto del popolo: quella minoranza in cui l’uomo di stato trova lo strumento con cui può realizzare i suoi propositi *. III Per la politica primitiva di ogni cultura le potenze direttive rappresentano un dato di fatto. L’intera esistenza riveste una forma rigorosamente patriarcale e simbolica; i condizionamenti del territorio materno sono così forti, il vincolo feudale e an- che lo stato fondato sul ceto sono, per la vita così circoscritta, una cosa talmente ovvia che la politica dell’epoca omerica e dell’epoca gotica si limita ad agire nel quadro di forme date. Queste forme mutano, in certa misura, per proprio conto. Che questo sia un compito della politica non perviene mai chiara- mente alla coscienza, anche quando una monarchia è rovesciata o una nobiltà è assoggettata. Esiste soltanto una politica di ceto, una politica imperiale, papale, di vassalli. Il sangue, la razza, parla con imprese impulsive e semi-consapevoli, poiché anche il sacerdote, nella misura in cui fa politica, agisce qui come uomo di razza. I « problemi» dello stato non si sono ancora destati. La signoria e i ceti originari, l’intero mondo di forme primitive, sono dati da Dio, e soltanto in base a questo presupposto si combattono minoranze organiche, fazioni. È proprio dell’essenza della fazione che non le venga neppu- a. Non ci sarebbe neppure bisogno di sottolineare che questi non sono i princìpi di un governo aristocratico, ma del governare in genere. Nessun capo di masse fornito di talento — né Cleone5 né Robespierre né Lenin — ha mai considerato diversamente il suo ufficio. Chi si sente realmente l’incaricato della moltitudine anziché il dirigente di coloro che non sanno quello che vogliono, non sarà padrone in casa propria neppure per un giorno. La questione è soltanto quella di sta- bilire se i grandi capi-popolo facciano uso della loro posizione a vantaggio proprio o degli altri; e su quest'argomento ci sarebbe parecchio da dire. 5. Cleone, uomo politico ateniese del secolo v a. C., pervenuto al potere dopo la morte di Pericle (429 a. C.), capeggiò il partito favorevole a una guerra offensiva con- tro Sparta. Morì in battaglia ad Amfipoli nel 422 a. C., dopo che le sorti del conflitto già volgevano a sfavore di Atene. re in mente l’idea di poter mutare secondo un programma l’ordine delle cose. La fazione vuol conquistare un posto all’in- terno di quest'ordine, vuole conquistare potenza e possesso, co- me tutto ciò che cresce in un mondo che cresce. Si tratta di gruppi in cui hanno un ruolo la parentela tra i casati, l'onore, la fedeltà, i vincoli di un’interiorità quasi mistica, e da cui rimangono del tutto escluse le idee astratte. Di questo genere sono le fazioni dell’epoca omerica e gotica, Telemaco e i Proci di Itaca, gli Azzurri e i Verdi sotto Giustiniano, i Guelfi e i Ghibellini, i casati di Lancaster e di York, i Protestanti?, gli Ugonotti, e ancora le potenze che hanno suscitato la Fronda e la prima tirannide. Il libro di Machiavelli poggia completamen- te su questo spirito. Una svolta subentra non appena assume la guida — con le grandi città — il non-ceto, cioè la borghesia. Ora, al contrario, è la forma politica che assurge a oggetto della lotta, a proble-ma: fin allora era maturata, ora dev'essere creata. La politica si desta; non soltanto viene concepita, ma anche tradotta in concetti. Contro il sangue e la tradizione si sollevano le poten- ze dello spirito e del denaro. Al posto dell'organico subentra l'organizzato, al posto del ceto subentra il partito. Un partito non è una formazione razziale, ma un insieme di teste e per- ciò tanto superiore agli antichi ceti nello spirito, quanto più povero nell’istinto. Esso è il nemico mortale di ogni articolazio- ne sviluppata in base al ceto, la cui semplice presenza ne con- traddice l’essenza. Proprio per questo motivo il concetto di partito è sempre legato con il concetto incondizionatamente negatore, dissolutore e socialmente livellatore dell'eguaglianza. Non si riconoscono più ideali di ceto, ma solamente interessi professionali ®. Ma esso è legato anche a quello, altrettanto ne- gatore, della libertà: / partiti sono un fenomeno puramente cittadino. Con la completa liberazione della città dalla campa- gna la politica di ceto lascia ovunque il passo alla politica di partito — poco importa che ne abbiamo conoscenza oppure a. I quali erano, in origine, un'alleanza di diciannove principi e città libere (1529). b. Perciò sul terreno dell’eguaglianza borghese il possesso di denaro prende subito il posto che prima occupava il rango genealogico. no: in Egitto con la fine del Regno di mezzo®, in Cina con gli stati combattenti”, a Bagdad e a Bisanzio con gli Abassidi*. Nelle capitali dell'Occidente si formano i partiti di tipo parla- mentare, nelle città-stato antiche i partiti del foro; partiti di stile magico li conosciamo nel Maali® e presso i monaci di Teodoro di Studion *"°. Ma è sempre il n0m-ceto, l’unità della protesta contro l’essen- za del ceto in generale, la cui minoranza dirigente — « cultura e possesso» — si presenta come partito fornito di un program- ma, di uno scopo non sentito ma definito, e che rifiuta tutto quanto non si lascia cogliere intellettualmente. Esiste perciò, in fondo, un unico partito — quello della borghesia, quello liberale; ed esso è anche pienamente cosciente di questo rango. Esso si identifica con il « popolo ». I suoi avversari, soprattutto i ceti genuini, « Juzker e preti», sono nemici e traditori « del popolo », mentre la propria opinione è la « voce del popolo », che viene iniettata a questo con tutti i mezzi della manipolazio- ne politica di partito come il discorso del foro o la stampa occidentale, per poterla quindi rappresentare. a. Cfr. anche J. WeLLHausen, Die religiòs-politischen Oppositionspar- teien im alten Islam, Gòttingen, 1901. 6. Periodo della storia egiziana che abbraccia l'Undicesima e la Dodicesima di- nastia, dal secolo xx1 a. C. all'invasione degli Hyksos: in quest'epoca la capitale del- l'Egitto fu trasferita da Memfi a Tebe, c il nuovo stato raggiunse un maggior grado di unità attraverso il controllo esercitato sulla nobiltà feudale delle province e le sue ten- denze centrifughe. 7. Con l’espressione Clan-kso (« stati combattenti ») si designano gli ultimi duc secoli e mezzo di dominio della dinastia Chou — vale a dirc il periodo che va dal 500 circa al 249 a. C. — caratterizzati da una situazione di anarchia feudale e di lot- te tra i diversi regni che costituivano l'Impero cinese. 8. Dinastia araba succeduta a quella omeiade, che salì al potere nel 750 trasfe- rendo Ja capitale del mondo arabo da Damasco a Bagdad. Il suo dominio entra in erisi verso la fine del secolo, giungendo al termine nel 1055, quando i Turchi selgiu- cidi — da tempo convertiti alla fede islamica — conquistano Bagdad. Tuttavia il ca- liffato abasside continuerà formalmente a esistere fino al 1258, quando sarà soppresso dai Mongoli che subentreranno ai Turchi nel possesso di Bagdad. 9. Il Maali (o Mali) è una regione dell’Africa a sud del Sahara, sull'alto corso del Niger, dove nei secoli xiv e xv si sviluppò un regno reso particolarmente fiorente dal- la posizione strategica di alcune città-mercato come Timbuktu c Gao. 10. Tcodoro di Studion (759-826), monaco bizantino, abate del monastero di Stu- dion a Costantinopoli, fu coinvolto nella disputa sull’iconoclastia e assunse posizione favorevole al culto delle immagini: scrisse tre Légoi antirretikoì, inni sacri e varie lettere. I ceti originari sono la nobiltà e il clero. Il partito origina- rio è quello del denaro e dello spirito, il partito liberale, il partito della grande città. Qui risiede la giustificazione profon- da dei concetti di aristocrazia e di democrazia, e ciò per tutte le culture. Aristocratico è il disprezzo per lo spirito delle cit- tà, democratico è il disprezzo per il contadino, l’odio per la campagna. È questa la differenza tra politica di ceto e politi- ca di partito, tra coscienza di ceto e mentalità di partito, tra razza e spirito, tra crescita e costruzione. Aristocratica è la cultu- ra compiuta, democratica è l’incipiente civiltà in declino della metropoli, finché l’antitesi non viene superata nel cesarismo. Come è certo che la nobiltà è :/ ceto, e che il terzo stato non perverrà mai a essere realmente in forma in questa maniera, così è certo che la nobiltà riuscirà sì a organizzarsi in partito, ma non a sentirsi tale. Ma la rinuncia a ciò non le è consentita. Tutte le costituzio- ni moderne rinnegano i ceti e sono organizzate sulla base del partito come l’ovvia forma fondamentale della politica. Il seco- lo x1x, e nello stesso modo anche il n a. C., è l’apogeo della politica di partito. Il suo carattere democratico impone la for- mazione di partiti contrapposti, e mentre una volta — ancora nel secolo xvi — il terzo stato si costituiva come ceto secon- do il modello della nobiltà, ora invece la formazione difensiva del partito conservatore sorge in base al modello del partito liberale ® completamente dominato dalle forme di esso, borghe- sizzato senza essere borghese, costretto a una tattica i cui mez- zi e i cui metodi sono esclusivamente determinati dal liberali smo. Esso ha soltanto la scelta tra maneggiare questi mezzi meglio dell'avversario © o soccombere. Ha però profonde radici a. Alla democrazia inglese e americana è essenziale il fatto che in Inghilterra i contadini sono scomparsi e che in America non sono mai esistiti. Il farmer è spiritualmente un abitante dei sobborghi, e prati- camente esercita l'agricoltura come un'industria: in luogo dei villaggi vi sono soltanto frammenti di metropoli. b. Ed essa sorge ovunque tra i due ceti originari sussiste anche una antitesi politica, come in Egitto, in India e in Occidente, e anche dove c'è un partito clericale, cioè non una religione ma una chiesa, non dei fedeli ma un clero. c. E il suo più forte contenuto di razza gliene dà tutte le prospettive. nell’essenza di un ceto il fatto che esso non colga questa situa- zione e voglia combattere non il nemico, ma la forma: di qui un appello ai mezzi estremi che ha devastato, all’inizio del declinare di ogni civiltà, la politica interna di interi stati, conse- gnandoli inermi all’avversario esterno. La necessità, propria di ogni partito, di essere borghese nell’apparenza diventa caricatu- ra non appena, a fianco degli strati cittadini forniti di cultura e di possesso, si organizza come partito anche il resto del popo- lo. Così, per esempio, il marxismo, che in teoria è una negazio- ne della borghesia, come partito è invece del tutto piccolo-bor- ghese nel suo comportamento e nella sua guida. Vi è un conflit- to permanente tra la volontà, che esce necessariamente fuori del quadro della politica di partito e quindi di ogni costituzio- ne — entrambe sono esclusivamente liberali — e che può venir designata in modo onorevole solo come guerra civile, e il suo modo di presentarsi, al quale ci si crede obbligati e che in ogni caso bisogna tenere per conseguire in quest'epoca qualche risultato durevole. Ma il modo di presentarsi di un partito nobi- liare in parlamento è intimamente tanto poco genuino quanto quello di un partito proletario. Qui soltanto la borghesia è a casa propria. A Roma patrizi e plebei hanno combattuto essenzialmente come ceti, dall’istituzione dei tribuni nel 471 a. C. fino al ricono- scimento del loro pieno potere legislativo nella rivoluzione del 287 a. C. A partire da quel momento l’antitesi ha un’importan- za soltanto più genealogica, e si sviluppano partiti che si posso- no a buon diritto designare come partito liberale e partito con- servatore: il populus che dava il tono al foro® e la nobiltà che aveva il proprio sostegno nel senato. Intorno al 287 a. C. quest’ul- timo si trasforma da consiglio di famiglia delle antiche stirpi in un consiglio di stato dell’aristocrazia amministrativa. Vicini al populus .sono i comizi centuriati, organizzati in base al pos- a. La plebs corrisponde al terzo stato — borghesi e contadini — del secolo xvin, mentre il populus corrisponde alla « massa » metropolitana del secolo xix. Questa differenza si esprime nel comportamento nei confronti degli schiavi liberati, in gran parte di origine non italica, che la plebs come ceto cerca di relegare nel minor numero possibile di tribus, mentre nel populus come partito essi avranno ben presto un'importanza determinante. sesso, e il gruppo dei grandi finanzieri, gli equites; vicino alla nobiltà è invece la classe contadina, influente nei comizi tribu- ti. Si pensi da un lato ai Gracchi e a Mario, dall’altro a Caio Flaminio; e basta guardare un po’ più attentamente per osserva- re la posizione del tutto mutata dei consoli e dei tribuni. Essi non sono più gli uomini di fiducia nominati dal primo e dal terzo stato, il cui comportamento è determinato da questo fat- to, bensì rappresentano e cambiano il partito. Vi sono consoli « liberali» come Catone il Vecchio e tribuni «conservatori » come Ottavio, l'avversario di Tiberio Gracco. Entrambi i parti- ti stabiliscono i loro candidati per le elezioni e cercano di imporli con tutti i mezzi di manipolazione demagogica; e se l’uso del denaro non ha avuto successo nelle elezioni, avrà mi- glior sorte sugli eletti. In Inghilterra tories e whigs si sono costituiti come partiti all’inizio del secolo x1x, borghesizzandosi nella forma e assu- mendo entrambi alla lettera il programma liberale: in tal mo- do l'opinione pubblica era, come sempre, completamente con- vinta e soddisfatta. In virtù di questa conversione magistrale, e compiuta al tempo giusto, non si arrivò alla formazione di un partito nemico del ceto, com’era avvenuto nella Francia del 1789. I membri della Camera Bassa diventarono, da emissari del- lo strato sociale dominante, rappresentanti del popolo che ne dipendevano d’ora in poi finanziariamente; ma la guida rima- se nelle stesse mani e l’opposizione tra i partiti, per la quale fin dal 1830 vennero spontaneamente coniati i termini « libera- le» e «conservatore», poggiò su una questione di più o di meno, non già su un alternata Sono i medesimi anni in cui l'aspirazione letteraria alla libertà della « Giovane Germania » si trasformava in una mentalità di partito; gli anni in cui nell’A- merica del presidente Jackson " il partito repubblicano si orga- nizzava contrapponendosi a quello democratico, e il principio che le elezioni sono un affare e che tutti gli uffici pubblici sono bottino del vincitore veniva riconosciuto formalmente *. a. Contemporaneamente la Chiesa cattolica passa silenziosa dalla poli- tica di ceto alla politica di partito, con una sicurezza strategica che non 11. Andrew Jackson (1767-1845), presidente degli Stati Uniti dal 1829 al 1837: sotto la sua presidenza si consolidò la struttura bipartitica della vita politica americana. 774 OSWALD SPENGLER Ma la forma della minoranza dirigente si sviluppa izarresta- bilmente dal ceto, attraverso il partito, fino a diventare un se- guito di individui. La fine della democrazia e il suo trapasso al cesarismo si manifesta quindi nel fatto che non scompare tanto il partito del terzo stato, il liberalismo, bensì il partito come forma in generale. La mentalità, il fine popolare, gli ideali astratti di ogni genuina politica di partito si dissolvono e in loro luogo subentra la politica privata, la sfrenata volontà di potenza di pochi uomini di razza. Un ceto ha un istinto, un partito ha un programma, un seguito ha un padrone: que- sta è la strada che dal patriziato e dalla plebe, passando attra- verso ottimati e popolari, conduce ai pompeiani e ai cesariani. L'epoca del genuino dominio dei partiti abbraccia a malapena due secoli e presso di noi è, dopo la guerra mondiale, già in piena decadenza. Che l’intera massa dell’elettorato mandi avan- ti, per un impulso comune, uomini che devono sostenere la sua causa — come è detto ingenuamente in tutte le costituzio- ni — era possibile soltanto all’inizio, e presuppone che non siano presenti neppure le premesse dell’organizzazione di deter- minati gruppi. Così era nel 1789 in Francia, e nel 1848 in Germa- nia. All’esistenza di un’assemblea è però subito legata la forma- zione di unità tattiche la cui coesione poggia sulla volontà di affermare la posizione dominante acquisita e che non si conside- rano più affatto portavoce dei propri elettori, ma, al contrario, li rendono docili con tutti i mezzi di propaganda per disporli ai propri scopi. Una tendenza del popolo che si sia organizza- ta è con ciò già diventata lo strumento dell’organizzazione, e sarà mai ammirata abbastanza. Nel secolo xvi essa era stata comple- tamente aristocratica per ciò che riguardava lo stile della sua diplomazia, l'assegnazione delle grandi cariche e lo spirito dei suoi circoli più elevati. Si pensi al tipo di abate e ai principi della chiesa che diventarono ministri e ambasciatori, come il giovane cardinale di Rohan !?. Ora, in modo del tutto «liberale », alla nobiltà dell'origine si sostituisce Ia mentalità, al gusto la capacità di lavoro, e i grandi mezzi della democrazia — stampa, elezioni, denaro — vengono da essa manipolati con un'abilità che il liberalismo vero e proprio ha raggiunto ben di rado, e mai superato. 12. Louis René Edouard cardinale di Rohan (1734-1803), fu ambasciatore speciale a Vienna dal 1771 al 1774, e in seguito arcivescovo di Strasburgo dal 1779 al 1801. procede inarrestabilmente su questa strada finché anche l’orga- nizzazione non è diventata strumento dei capi. La volontà di potenza è più forte di ogni teoria. All’inizio, la guida e l’appa- rato sorgono in funzione del programma; poi vengono difesi dai detentori a causa della potenza e del bottino — come oggi avviene generalmente, dato che in tutti i paesi migliaia di per- sone vivono del partito, degli uffici e degli affari che esso of- fre; infine il programma scompare dal ricordo e l’organizzazio- ne lavora soltanto a proprio profitto. Nel caso del più vecchio degli Scipioni e di Quinto Flami- nio possiamo ancora parlare di amici che li seguono in guerra, ma Scipione minore si è formata una colors amicorum — certa- mente il primo esempio di un seguito organizzato — che lavo- ra poi anche davanti al tribunale e nel corso delle elezioni * Analogamente, il rapporto di fedeltà tra patrono e clienti, in origine del tutto patriarcale e aristocratico, si sviluppa fino a diventare una comunità di interessi basata su un fondamento assai materiale; e già prima di Cesare vi sono contratti scritti tra candidati ed elettori con la precisa determinazione del com- penso e della prestazione corrispondente. D'altra parte si costi- tuiscono — esattamente come nell’America odierna® — i circo- li e le associazioni elettorali dei tribuni che dominano o spaven- tano la massa elettorale del distretto per poter negoziare l’affa- re elettorale con i grandi capi (i precursori dei Cesari) da poten- a. Per quanto segue cfr. M. Getzer, Die Nobilitàt der ròmischen Republik, Leipzig, 1912, p. 43 sgg., e A. Rosemsero, Untersuchungen zur ròmischen Zenturienverfassung, Berlin, 1911, p. 62 sgg. b. Universalmente nota è la Tammany Hall a New York; ma in tutti i paesi governati da partiti la situazione si avvicina a questa. Il caucus americano che distribuisce gli uffici pubblici tra i suoi aderenti costringendo la massa degli elettori a confluire sui loro nomi, è stato intro- dotto in Inghilterra da Chamberlain !* con il nome di National Liberal Federation, e dopo il 1919 è in rapido sviluppo anche in Germania. 13. Sede di riunione della Società di St. Tammany, fondata fin dal 1789, che co- stituì il primo nucleo del partito democratico; per tutto l’Ottocento, e ancora nei pri- mi decenni di questo secolo, fu un importante circolo e gruppo di pressione nella vita politica degli Stati Uniti. 14. Joseph Chamberlain (1836-1914), uomo politico inglese, fu tra l’altro segreta- rio alle colonie durante la guerra anglo-boera; ebbe una parte importante nella questione irlandese. za a potenza. Questo non è il naufragio, bensì il senso e il necessario risultato finale della democrazia; e il lamento che gli idealisti estranei al mondo levano su questa distruzione delle loro speranze indica soltanto la loro cecità di fronte all’inesorabile divergenza tra verità e fatti e all’intima connessione tra denaro e spirito. La teoria politico-sociale è soltanto un substrato, ma un substrato necessario, della politica di partito. L’orgogliosa serie che da Rousseau va fino a Marx ha il proprio corrispettivo nell'antichità in quella che dai Sofisti giunge fino a Platone e a Zenone. In Cina si possono ancora ritrovare nella letteratura confuciana e taoistica i tratti fondamentali di dottrine corrispondenti: basti menzionare il nome del socialista Mo Ti”. Nella letteratura bizantina e araba del periodo abasside, dove il radicalismo si presenta sempre in una formulazione rigidamente ortodossa, esse occupano largo spazio e agiscono come forze motrici in tutte le crisi del secolo rx; in Egitto e in India la loro presenza è dimostrata dallo spirito degli avvenimenti del periodo di Budda e degli Hyksos. Esse non hanno bisogno di una formulazione letteraria; altrettanto efficace è la loro diffusione orale, la predicazione e la propaganda da parte delle sette e delle leghe, come avviene generalmente all'origine delle correnti puritane, nonché nell’Islam e nel Cristianesimo angloamericano. Se queste dottrine siano «vere» o «false» è una questione senza senso — si deve sottolinearlo sempre — per il mondo della storia politica. La «confutazione » del marxismo, per esempio, rientra nell’ambito delle discussioni accademiche o dei dibattiti pubblici, in cui ognuno ha ragione e gli altri hanno sempre torto. Ciò che importa è se queste dottrine sono efficaci, cioè da quando e per quanto tempo la fede nel miglioramento della realtà mediante un sistema di idee costituisce, in generale, una potenza con cui la politica deve fare i conti. Noi ci troviamo in un'epoca di fiducia illimitata nell’ onnipotenza della ragione. I grandi concetti generali di libertà, di giustizia, 15. Mo Ti (o Mo Tsc), filosofo cinese vissuto tra la seconda metà del secolo v e i primi decenni del secolo 1v a. C., all’epoca degli « stati combattenti », si distaccò dal Confucianesimo per elaborare, nell'opera che da lui trac il nome — il Mo-tse — una teoria dell'amore universale. di umanità, di progresso, sono sacri; le grandi teorie sono vangeli. La loro forza di convinzione non poggia su motivi, poiché la massa di un partito non possiede né l’energia critica né la distanza necessaria per sottoporle a una prova seria, bensì sul crisma sacramentale delle loro parole d’ordine. Ma questa magia si limita alla popolazione delle grandi città e all’epoca del razionalismo, di questa « religione dei dotti ». Essa non agisce però sulla classe contadina, e sulle masse cittadine ha influenza soltanto per un certo periodo, con la violenza di una nuova rivelazione. Ci si converte, si aderisce con fervore alle parole e ai loro annunciatori, si diventa martiri sulle barricate, sui campi di battaglia, sul patibolo; allo sguardo si apre un aldilà politico e sociale, e la critica spassionata sembra bassa e profana, degna di morte. Ma con ciò scritti come il Contract social e il Manifesto comunista diventano strumenti di potenza di prim’ordine nella mano di uomini energici, che si sono affermati all’interno della vita di partito e che sanno formare e utilizzare le convinzioni della massa da essi dominata. Ciononostante questi ideali astratti hanno una potenza che si estende appena oltre i due secoli — il periodo della politica di partito. Non che vengano confutati, ma diventano noiosi. Rousseau lo è già da lungo tempo, tra breve lo sarà anche Marx. Alla fine si abbandona non questa o quella teoria, ma la fede nelle teorie in generale, e con questa anche l’ottimismo esaltato del secolo xvitI, convinto di poter correggere i difetti della realtà mediante l’applicazione di concetti. Quando Platone, Aristotele e i loro contemporanei definivano le forme di costituzione antiche e le mescolavano per ottenere la costituzione più saggia e più bella, tutto il mondo li ascoltava; ed è stato proprio Platone, col suo tentativo di riformare Siracusa secondo una ricetta ideologica, a rovinare questa città ®. Altrettanto sicuro mi sembra che gli stati meridionali della Cina sono stati messi fuori forma a causa di esperimenti filosofici dello stesso tipo, e si sono così posti alla mercè dell’imperialia. Sulla storia di questo tragico esperimento cfr. E. MerEr, Geschickie des Althertums, Stuttgart, 1884-1902, vol. V, $ 987 sgg. 778 OSWALD SPENGLER smo Ch’in®!. I fanatici giacobini della libertà e dell’eguaglianza hanno consegnato per sempre la Francia, dopo il Direttorio, al mutevole dominio dell’esercito e della borsa, e ogni rivolta socialista apre nuove vie al capitalismo. Ma al tempo in cui Cicerone scrisse il suo De republica per Pompeo e Sallustio le sue esortazioni a Cesare, più nessuno vi poneva attenzione. In Tiberio Gracco si può forse ancora scoprire un'influenza di quello stoico entusiasta, Blossio, che morì più tardi suicida dopo aver condotto alla rovina anche Aristonico di Pergamo"; ma nell’ultimo secolo prima di Cristo le teorie sono diventate un abusato tema scolastico, e d’allora in poi conta soltanto la potenza. Nessuno deve illudersi: l’epoca della teoria volge al termine anche per noi. I grandi sistemi del liberalismo e del socialia. I « progetti degli stati combattenti », il Ch'un-ch'iu Fan lu e le biografie che si trovano in Ssu-ma Ch’ien sono pieni di esempi di uno scolastico immischiarsi della « saggezza » nella politica !*. b. Sulla sua «città del sole » formata di schiavi e di salariati giornanalieri cfr. PauLy-Wissowa, Real-Encyclopidie der classischen  Alterturmswissenschaft, vol. II, col. 962. In modo analogo il rivoluzionario re Cleomene III di Sparta (235 a. C.) subì l’influenza dello stoico Sfero!9. Si capisce perché il senato romano mise ripetutamente al bando « filosofi e retori », cioè politicanti, acchiappanuvole e mestatori. 16. Lo stato di Ch'in si affermò, alla fine dell’epoca degli « stati combattenti », come nucleo di riunificazione dell’impero, sconfiggendo c sottomettendo a sé gli stati meridionali: ciò condusse nel 249 a. C, alla deposizione dell'ultimo imperatore Chou c, tre anni dopo, all'ascesa al trono di Shih Huang Ti, che fondò la nuova dinastia Ch'in. 17. Blossio di Cuma, filosofo stoico della seconda metà det secolo Il a. C., allievo di Antipatro di Tarso, fu amico di Tiberio Gracco; dopo la sua morte si rifugiò a Pergamo, dove nel 133 a. C. Aristonico, fratello del defunto re Attalo III (che aveva lasciato i suoi domini in eredità a Roma), aveva rivendicato per sé il regno, appoggiandosi sui proletari e sugli schiavi e vagheggiando la formazione di uno stato socialista, detto MALéTOALE, « città del sole ». Nel 130 l'intervento romano mise fine al tentativo di Aristonico, che fu fatto prigioniero, condotto a Roma e giustiziato; Blossio si tolse invece la vita. 18. Il Ch'un-ch'iu Fan lu è il titolo dell'opera principale di Tung Chung-shu (179104 2. C.), filosofo confuciano del periodo Han. Ssu-ma Ch’ien (145-86 a. C.) fu autore, insieme con il padre Ssu-ma T'an, della prima grande storia cinese, i SMik Chi. 19. Cleomene III, re di Sparta dal 235 al 219 a. C., tentò una riforma politico-sociale dello stato spartano estendendo la cittadinanza ai pericci e redistribuendo le terre; combattè contro la lega achea e contro Antigono Dosone, re di Macedonia, rimanendo però sconfitto. Suo ispiratore c consigliere fu il filosofo stoico Sfero, discepolo di Clcante. OSWALD SPENGLER 779 smo sono sorti nell’insieme tra il 17750 e il 1850. Quello di Marx è oggi vecchio quasi di un secolo, ed è rimasto l’ultimo. Con la sua concezione materialistica della storia esso rappresenta internamente l’estrema conseguenza del razionalismo, e perciò anche una conclusione. Ma come la fede rousseauiana nei diritti dell’uomo ha perduto la sua forza all’incirca nel 1848, così la fede in tale concezione l’ha perduta con la guerra mondiale. Chi confronta la dedizione fino alla morte, che le idee di Rousseau hanno incontrato nella Rivoluzione francese, con il comportamento dei socialisti del 1918, costretti a conservare di fronte ai loro seguaci e a se stessi una convinzione che non possedevano più — e non in vista dell'idea, ma in vista della potenza che da essa dipendeva — può vedere già tracciata in anticipo la via su cui cadrà alla fine ogni programma, in quanto intralcia la lotta per il potere. La fede in un programma aveva dato distinzione all’avo; per il nipote è una dimostrazione di provincialismo. Al suo posto spunta già oggi, dal bisogno dell’anima e dal tormento della coscienza, una nuova rassegnata pietà che rinuncia a fondare un nuovo mondo terreno, e che in luogo di concetti acuti cerca il mistero, per trovarlo finalmente nella profondità di una seconda religiosità. IV Questo è un aspetto, l'aspetto linguistico, di quel grande fatto che è la democrazia. Rimane da considerare l’altro fatto decisivo, quello della razza. La democrazia sarebbe rimasta nelle teste e sulla carta se tra i suoi apostoli non vi fossero state nature genuine di dominatori per cui il popolo non era che un oggetto e gli ideali non erano che mezzi, anche se spesso non ne erano consapevoli. Tutti i metodi, anche i meno sospetti, della demagogia, che è nel suo intimo la stessa cosa della diplomazia dell’ancien régime — soltanto che si fonda sulle masse anziché sui prìncipi e ambasciatori, su opinioni, disposizioni, esplosioni di volontà disordinate anziché su spiriti eletti, e quindi sembra un'orchestra di ottoni anziché antica musica da camera — sono stati elaborati da democratici onesti ma pratici; e i partiti della tradizione li hanno appresi soltanto da loro. La via della democrazia è però caratterizzata dal fatto che 780 OSWALD SPENGLER gli autori delle costituzioni popolari non hanno mai avuto sospetto dell'efficacia reale dei loro progetti; né l'hanno avuto il creatore della costituzione « serviana » ? di Roma o l’Assemblea nazionale di Parigi. Poiché tutte queste forme non sono cresciute come il feudalesimo, ma sono state escogitate, e non già sulla base di una conoscenza profonda degli uomini e delle cose, bensì sulla base di rappresentazioni astratte del diritto e della giustizia, un abisso separa lo spirito delle leggi dalle consuetudini pratiche che si formano silenziosamente, sotto la loro pressione per adattarle al ritmo della vita reale o per tenerle distanti da questa. Soltanto l’esperienza ha insegnato — al termine dell’intero sviluppo — che i diritti del popolo e l’influenza del popolo sono cose differenti. Quanto più universale è il diritto di voto, tanto più ristretto è il potere di un elettorato. Agli inizi di una democrazia il campo appartiene soltanto allo spirito. Non c’è nulla di più nobile e di più puro della seduta notturna del 4 agosto 1789 e del giuramento della pallacorda o della mentalità presente nella chiesa di San Paolo a Francoforte?! dove, avendo già in mano il potere, si discusse tanto a lungo su verità universali da dare il tempo alle potenze della realtà di riunirsi e di spazzare via i sognatori. Ciononostante, l’altra grandezza di ogni democrazia si annuncia abbastanza presto e rammenta il fatto che si può far uso dei diritti costituzionali soltanto se si ha del denaro ?. Il funzionamento approssimativo del diritto di voto presuppone, qualsiasi cosa ne pensi l’idealista, che non esista alcuna dirigenza organizzata la quaa. La democrazia primitiva, caratterizzata da progetti costituzionali pieni di speranza e che per noi giunge fino all’epoca di Lincoln, Bismarck e Gladstone, deve faure quest'esperienza; la democrazia successiva — che per noi è quella del parlamentarismo maturo — prende le mosse da essa. Da_allora, verità e fatti si sono separati definitivamente nella forma dell'ideale di partito da un lato, della cassa del partito dall’altro. Il parlamentare genuino si sente, in virtà del denaro, svincolato dalla dipendenza che è contenuta nella concezione ingenua che l’elettore ha dell’eletto, 20. Questa costituzione trac il proprio nome da Servio Tullio, il sesto (secondo la tradizione) re di Roma, vissuto probabilmente nel secolo vi a. C. 21. Luogo di riunione dell'Assemblea costituente tedesca nel 1848. le agisce sugli elettori nel proprio interesse e assumendo come criterio il denaro disponibile. Ma se questa esiste, il voto ha ancora soltanto il significato di una censura che la massa esercita sulle singole organizzazioni; sulla loro formazione essa non possiede però più la minima influenza. Analogamente, il diritto ideale delle costituzioni occidentali, cioè il diritto della massa di determinare liberamente i propri rappresentanti, rimane mera teoria, poiché in realtà ogni organizzazione sviluppata si completa da sé. Si desta infine il sentimento che il suffragio universale non contiene alcun diritto reale, neppure quello della scelta tra i partiti, poiché le formazioni di potere cresciute sul suo terreno dominano col denaro tutti i mezzi spirituali del discorso parlato e scritto e così dirigono a piacimento l’opinione dei singoli sui partiti, mentre questi allevano da parte loro, attraverso la disponibilità dei pubblici uffici, l'influenza e le leggi, una schiera di partigiani fedeli — cioè appunto il caucus che esclude tutti gli altri individui inducendoli a una fiacchezza elettorale che alla fine non potrà più essere superata neppure nelle grandi crisi. Apparentemente sussiste una forte differenza tra la democrazia parlamentare occidentale e quella delle civiltà egizia, cinese, araba, nel periodo del loro declino, a cui è completamente estranea l’idea di elezioni condotte con il suffragio universale. Ma per noi, in quest'epoca, la massa come elettorato è «in forma » nel medesimo senso in cui lo era stata precedentemente come insieme di sudditi, cioè come oggetto per un soggetto, e in cui lo era stata a Bagdad e a Bisanzio come setta o come monacato, e altrove come esercito governante, come associazione segreta o come stato particolare all’interno dello stato. La libertà è, come sempre, semplicemente negativa. Essa consiste nel rifiuto della tradizione — della dinastia, dell’oligarchia, del califfato. Ma l’esercizio della potenza trapassa subito intatto da questi poteri ad altri nuovi, cioè a capi-partito, a dittatori, a pretendenti, a profeti e ai relativi aderenti, e di fronte ad essi la massa rimane ancor sempre incondizionatamente ogget?. Il « diritto del popolo all’auto-determinazione » è un modo a. Se ciononostante si sente invece liberata, ciò dimostra nuovamente la profonda incompatibilità tra spirito metropolitano e tradizione, mentre di dire cortese: di fatto con ogni suffragio universale — non organico — cessa anche il senso originario dell’eleggere in generale. Quanto più vengono dissolte politicamente le articolazioni dei ceti e delle professioni, tanto più priva di forma e inerme diventa la massa degli elettori, tanto più incondizionatamente essa è alla mercé dei nuovi poteri, cioè delle direzioni dei partiti, che dettano ad essa la loro volontà con tutti i mezzi di coercizione spirituale, per decidere tra loro la lotta per il dominio — cioè con metodi di cui in fondo la massa non vede né comprende nulla — e che utilizzano ognuno a proprio vantaggio l'opinione pubblica come un’arma da essi stessi forgiata. Ma proprio per questo una spinta irresistibile muove la democrazia su tale via, che conduce alla propria auto-dissoluzione °. I diritti fondamentali di un popolo antico ($fuog, populus) si estendevano fino alla possibilità di occupare gli uffici pubblici più elevati e di amministrare la giustizia®. A tal fine si era «in forma» nel foro — in modo del tutto euclideo, come massa fisicamente presente riunita in un punto: qui si diventava oggetto di una manipolazione di stile antico, effettuata cioè con mezzi fisici, diretti, sensibili, con una retorica che agiva in tra la sua attività e l'essere governata dal denaro sussiste un’intima relazione. a. La costituzione tedesca del 1919, sorta quindi già sulla soglia di una democrazia declinante, contiene in piena ingenuità una dittatura delle macchine di partito, che hanno trasferito a sé ogni diritto e che non sono seriamente responsabili di fronte a nessuno. Il famigerato voto proporzionale e la lista nazionale assicurano ad esse l’auto-integrazione. In luogo dei diritti « del popolo» — come idealmente li conteneva la costituzione del 1848 — esistono soltanto i diritti dei partiti: ciò suona come innocuo, ma racchiude in sé il cesarismo delle organizzazioni. In questo senso essa è però la più progredita costituzione di quest'epoca; lascia giù riconoscere la fine; alcune piccolissime trasformazioni, ed essa concederà ai singoli il potere illimitato. b. Al contrario, la legislazione è connessa con un ufficio. Anche quando l'accoglimento o il rigetto di una legge spettano formalmente a un'assemblea, la legge può essere introdotta soltanto da un magistrato, per esempio da un tribuno. Le aspirazioni della massa al conseguimento di un diritto — spesso suggerite dai detentori del potere — si manifestano quindi in occasione delle elezioni a qualche carica, come ci insegna l'età dei Gracchi. OSWALD SPENGLER 783 modo immediato sull’occhio e sull’orecchio di ognuno e che con i suoi strumenti, a noi diventati in parte disgustosi e difficilmente sopportabili, con lacrime studiate, con vesti stracciate =, con la lode spudorata dei presenti, con menzogne insensate sull’avversario, con un repertorio fisso di brillanti locuzioni e cadenze armoniose, con giochi e con doni, con minacce e percosse, ma soprattutto con denaro — è sorta esclusivamente in questo luogo e a questo scopo. Noi ne conosciamo gli inizi dall’Atene del 400° e la fine, in misura spaventosa, dalla Roma ‘di Cesare e di Cicerone. È come sempre: le elezioni si sono trasformate da nomina di rappresentanti di ceto in una lotta tra candidati di partito. Ma con ciò è ormai data l’arena in cui penetra il denaro — e dopo Zama con un enorme incremento di dimensioni. « Quanto maggiore era la ricchezza che si poteva concentrare nelle mani dei singoli individui, tanto più la lotta per la potenza politica diventava una questione di dena10 »°. Con ciò è detto tutto. Ma in un senso più profondo sarebbe tuttavia falso parlare di corruzione. Non è la degenerazione del costume, ma il costume stesso — quello della democrazia matura — che assume con una necessità fatale forme del genere. Il censore Appio Claudio (310) — senza dubbio un genuino ellenista e ideologo della costituzione (come potevano essercene soltanto nel circolo di Madame Roland ?) — ha sicuramente pensato nelle sue riforme ai diritti elettorali e non all’arte di fare le elezioni; ma quei diritti preparano soltanto la a. Ancora a cinquant'anni Cesare dovette recitare una commedia siffatta davanti ai suoi soldati sul Rubicone, perché essi erano abituati a questo se si voleva qualcosa da loro. Ciò corrisponde più o meno alla «voce sincera della convinzione » nelle assemblee odierne. b. Ma il tipo Cleone era ovviamente presente a Sparta come a Roma al tempo dei tribuni consolari. c. Cfr. M. GELZER, op. cit., p. 94. Insieme al César di Eduard Merer, questo libro fornisce il migliore sguardo d’insieme sul metodo della democrazia romana. 22. Jcanne-Manon Phlipon (1754-1793), moglic dell'uomo politico Jean-Marie Roland, ministro nel governo girondino: fu arrestata dopo la fuga del marito e in seguito ghigliottinata nel 1793, durante il Terrore: nel carcere scrisse un Appel è l'impartiale postérité. Le sue Mémoires furono pubblicate postume molti anni più tardi, nel 1820. 784 OSWALD SPENGLER strada a quest'arte. La razza si manifesta soltanto in essa, e ben presto si afferma completamente. All’interno di una dittatura del denaro il lavoro del denaro non può però essere definito come decadenza. La carriera dei pubblici uffici romani richiedeva, da quando si svolgeva nella forma di elezioni popolari, un capitale che rendeva il futuro uomo politico debitore verso tutto il suo ambiente. Ciò valeva soprattutto per la carica di edile, nella quale si doveva superare in magnificenza i predecessori attraverso l'offerta di pubblici giochi, per poter ottenere più tardi i voti degli spettatori. Silla fallì la prima canditatura alla pretura perché non era stato edile. C'era poi lo splendido seguito con cui ci si doveva quotidianamente mostrare nel foro per far colpo sulla massa oziosa. Una legge impediva la scorta dietro pagamento; ma ancora più costoso era obbligarsi i nobili mediante i prestiti, mediante la raccomandazione agli uffici e agli affari, mediante la difesa davanti al tribunale, che li impegnava a far da scorta e alla visita quotidiana del mattino. Pompeo era patrono di mezzo mondo, dai contadini del Piceno fino ai re orientali; egli rappresentava e proteggeva tutti. Questo era il suo capitale politico, che poteva mettere in campo contro i prestiti senza interesse di Crasso e contro l’« indoramento »° di tutti gli ambiziosi da parte del conquistatore della Gallia. Si facevano servire agli elettori colazioni estese all’intero circondario”, si concedevano posti gratuiti per assistere ai giochi dei gladiatori o si mandava perfino direttamente in casa del denaro — come faceva Milone. Cicerone chiama tutto ciò «rispettare i costumi dei padri ». Il capitale elettorale assunse dimensioni di tipo americano, raggiungendo talvolta la somma di centinaia di milioni di sesterzi. Nel corso delle elezioni del 54 a. C. il tasso di interesse salì dal 4% all’8%, perché la maggior parte dell'enorme massa di liquido disponibile a Roma fu investita nella propaganda. Cesare, quand'era edile, aveva speso tanto che Crasso fu costretto a garantire per venti milioni affinché i creditori gli consentissero di partire per la provincia, a. Inaurari: a questo scopo Cicerone raccomandò a Cesare il suo amico Trebazio. b. Tributim ad prandium vocare (Cicerone, Pro Murena, 72). OSWALD SPENGLER 785 e ancora nell’elezione a pontefice massimo aveva talmente oltre: passato il suo credito che il suo avversario Catulo poté offrirgli del denaro perché si ritirasse, dal momento che in caso di sconfitta sarebbe stato perduto. Ma la conquista della Gallia — che egli intraprese anche per questo motivo — e il relativo sfruttamento fecero di lui l’uomo più ricco del mondo: così è stata realmente ottenuta la vittoria di Farsalo *. Infatti Cesare ha conquistato tutti questi miliardi avendo di mira la potenza, come Cecil Rhodes”, e non per il piacere di ricchezza, come Verre e in fondo anche Crasso, il quale era un grosso finanziere che faceva parallelamente anche il politico. Egli comprese che, sul terreno di una democrazia, i diritti costituzionali non significano nulla senza denaro, tutto col denaro. Mentre Pompeo ancora sognava di poter trarre legioni dalla terra, Cesare le aveva da lungo tempo tradotte in realtà con il suo denaro. Egli aveva trovato già pronti questi metodi: li padroneggiava, ma senza identificarsi con essi. Si deve aver ben chiaro il fatto che, fin dal 150 a. C., i partiti riuniti sulla base di princìpi si dissolvono in seguiti personali raccolti intorno a uomini i quali avevano un fine politico privato e conoscevano bene le armi del loro tempo. Tra di esse rientra, accanto al denaro, anche l'influenza sui tribunali. Dato che le antiche assemblee popolari votavano solamente, ma senza discutere, il processo di fronte ai rostra è una a. Si tratta di miliardi di sesterzi, che passarono da allora per le sue mani. Le offerte votive dei templi della Gallia, che egli fece vendere in Italia, provocarono un crollo nel valore dell’oro. Cesare e Pompeo costrinsero il re Tolomeo a versare, per il suo riconoscimento, 144 milioni (e altri 240 gliene fece versare Gabinio). Il console Emilio Paolo (50 a. C.) fu comperato con 36 milioni, Curione con 60 milioni. Da ciò si possono inferire le invidiabilissime possibilità dell'ambiente che circondava Cesare. Per il trionfo del 46 a. C. ognuno dei suoi oltre centomila soldati ricevette 24.000 sesterzi, mentre agli ufficiali e ai capi toccarono somme ben superiori, Ciononostante, alla sua morte il tesoro pubblico era così ricco da garantire la posizione di Antonio. 23. Cecil John Rhodes (1853-1902), uomo politico e finanziere sud-africano di origine inglese, fu primo ministro della colonia di Città del Capo dal 1890 al 1896. Diede una spinta decisiva allo sviluppo dell'industria diamantifera nel Sud-Africa, soprattutto nella regione che da lui prese il nome. 50. STORICISMO TEDESCO. 786 OSWALD SPENGLER forma di lotta di partito e la scuola vera e propria di eloquenza politica. Il giovane politico iniziava la sua carriera accusando e, se possibile, annientando una grossa personalità ®, come fece Crasso a diciannove anni contro il famoso Papirio Carbone, amico dei Gracchi, che era passato più tardi dalla parte degli ottimati. Per tale motivo Catone fu accusato quarantaquattro volte e sempre assolto. La questione giuridica passa qui in secondo piano *. La cosa determinante è la posizione di partito del giudice, il mumero dei patroni e l’ampiezza del seguito; il numero dei testimoni serve propriamente a mettere in luce la potenza politica e finanziaria dell’accusatore. Tutta l’eloquenza di Cicerone contro Verre vuol convincere i giudici, sotto Ja maschera di un magnifico pathos etico, che la sua condanna è nel loro interesse di ceto. Secondo la generale concezione antica è ovvio che il seggio in tribunale debba servire agli interessi privati e a quelli di partito. Ad Atene gli accusatori democratici erano soliti avvertire i giurati popolari, al termine del loro discorso, che assolvendo l’accusato ricco avrebbero messo in forse i loro onorari processuali ©. La grande potenza del senato romano poggia in gran parte sul fatto che esso aveva in mano, attraverso la nomina di tutti i tribunali, il destino di ogni cittadino; su questa base si può misurare la portata della legge graccana del 122 a. C., che trasferiva i tribunali al a. Cfr. M. GELZER, op. cit., p. 68. b. Si tratta in gran parte di concussione e di corruzione. Dal momento che ciò faceva allora tutt'uno con la politica, che giudice e accusato avevano fatto la stessa cosa e che tutti lo sapevano, l’arte consisteva nel tenere — nelle forme di una ben recitata passione morale — un discorso di partito il cui scopo vero e proprio era inteso soltanto dall’iniziato. Ciò corrisponde del tutto alle moderne usanze parlamentari. Il « popolo » rimarrebbe molto stupito se vedesse come, dopo gli accaniti discorsi durante la seduta (destinati alla stampa), gli avversari di partito si intrattengono amabilmente tra di loro. Si pensi anche ai casi in cui un partito scende in campo con passione a favore di una proposta dopo averne assicurata, mediante un accordo con gli avversari, la disapprovazione. A Roma la sentenza non importava affatto; bastava che l’accusato abbandonasse in precedenza volontariamente la città, escludendosi così dalla lotta di partito e dal concorso agli uffici. c. Cfr. R. von Ponumann, Griechische Geschichte, Miinchen, 5° ed. 1914, pp. 236-37. OSWALD SPENGLER 787 ceto dei cavalieri e metteva quindi la nobiltà, cioè le alte cariche, alla mercé del mondo della finanza. Nell’82 a.C. Silla restituì al senato, contemporaneamente alle proscrizioni dei grandi finanzieri, anche i tribunali come arma politica, beninteso; e la lotta finale tra i detentori del potere trova la sua espressione anche nel continuo mutare della scelta dei giudici. Ma mentre l’antichità — e il foro di Roma in testa — raccoglieva la massa popolare in un corpo visibile e compatto per costringerla a fare dei suoi diritti l’uso che si voleva fosse fatto, « contemporaneamente » la politica europeo-americana introduceva mediante la stampa un campo di forza di tensioni spirituali e finanziarie esteso a tutta la terra, nel quale ogni individuo è inserito senza averne coscienza e in modo da dover pensare, volere e agire come ritiene opportuno da qualche parte, di lontano, una personalità dominante. Questo è dinamica contrapposta alla statica, sentimento faustiano del mondo contrapposto al sentimento apollineo, pathos della terza dimensione contrapposto al puro presente sensibile. Non si parla da uomo a uomo; la stampa e, collegato con essa, il servizio elettrico di informazioni mantengono l’essere desto di interi popoli e di interi continenti sotto l’assordante fuoco di fila di frasi, di parole d'ordine, di punti di vista, di scene, di sentimenti, giorno per giorno, anno per anno, cosicché ogni io diventa mera funzione di un'immensa entità spirituale. Il denaro prende la sua strada politica non come metallo che passa di mano in mano; non si converte più in giochi e in vino. Esso si trasforma invece in forza e determina, mediante la sua quantità, l'intensità di questa manipolazione. Polvere da sparo e stampa sono connesse l’una con l’altra, in quanto entrambe sono inventate nell'antico periodo gotico e scaturite dal pensiero tecnico germanico, come i due grandi strumenti della tattica faustiana della distanza. La Riforma conobbe all’inizio dell'età successiva i primi manifesti e le prime artiglierie da campagna; la Rivoluzione francese conobbe, all’inizio del declinare della civiltà, la prima ondata di opuscoli a. In questo modo Rutilio Rufo poté essere condannato nel famigerato processo del 93 a. C. perché come proconsole, aveva doverosamente proceduto contro le concussioni delle società di appalto. 788 OSWALD SPENGLER dell'autunno 1788 e a Valmy il primo fuoco di massa di un’artiglieria. Ma con ciò la parola stampata impiegata in forma massiccia ed estesa su superfici infinite diventa un’arma infida nelle mani di chi sa dirigerla. In Francia, nel 1788, si trattava ancora di un'espressione spontanea di convinzioni private, ma in Inghilterra si era già al punto di suscitare intenzionalmente un'impressione nei lettori. La guerra condotta contro Napoleone da Londra, su territorio francese, con articoli, libelli, memorie inautentiche, ne costituisce il primo grande esempio. I fogli isolati dell’età illuministica si trasformano nella « stampa », come si dice con indicativa anonimità *. La campagna di stampa nasce come la continuazione — o la preparazione — della guerra condotta con altri mezzi, e la sua strategia fatta di scontri di avamposti, di diversivi, di sorprese e di attacchi a ondate viene elaborata durante il secolo xix fino al punto che una guerra può già essere perduta prima ancora che parta il primo colpo, perché la stampa l’ha vinta nel frattempo. Oggi noi viviamo senza possibilità di resistenza sotto l’azione di questa artiglieria spirituale, di modo che quasi nessuno acquisisce la distanza interiore necessaria per rendersi conto dell’enormità di tale spettacolo. La volontà di potenza in veste puramente democratica ha compiuto il suo capolavoro facendo sì che il sentimento di libertà degli oggetti venga addirittura adulato pur nella schiavitù più completa che sia mai esistita. Il senso borghese liberale è fiero dell’abolizione della censura, che costituiva l’ultimo limite, mentre il dittatore della stampa — Northcliffe! * — assoggetta la folla di schiavi dei suoi lettori alla frusta dei suoi articoli di fondo, dei suoi telegrammi e delle sue illustrazioni. La democrazia ha completamente soppiantato il libro con il giornale nella vita spirituale delle masse popolari. Il mondo dei libri, con la sua ricchezza di punti di vista che costringevano il pensiero alla selezione e alla critica, è un possesso reale ancora soltanto per circoli ristretti. Il popolo legge l’unico giornale — il «suo» giornale — che quotidiaa. E quasi in analogia con «l'artiglieria ». 24. Alfred Charles William Harmsworth, visconte di Northcliffe (1865-1922), creatore del giornalismo moderno: a lui si deve la fondazione del « Daily Mail » nel 1896 c del « Daily Mirror » nel 1903. Nel 1908 si assicurò pure il controllo del « Times ». namente penetra in ogni casa in milioni di esemplari, attraendo di buon mattino gli spiriti nella propria orbita, facendo passare nel dimenticatoio i libri con i propri supplementi e, se questo o quel libro compare ancora all’orizzonte, eliminando la sua influenza con una critica che arriva prima di esso. Che cos'è la verità? Per la massa è ciò che si legge e si ascolta continuamente. Può ben esserci da qualche parte un povero minchione che se ne sta seduto e raccoglie motivi per stabilire «la verità» — questa rimarrà sempre la sua verità. L’altra verità, la verità pubblica del momento, che sola importa nel mondo reale degli effetti e dei risultati, è oggi un prodotto della stampa. Ciò che essa vuole, è vero. Coloro che la comandano producono, trasformano, cambiano Ja verità. Tre settimane di lavoro di stampa, e tutto il mondo ha riconosciuto la verità*. I suoi argomenti sono inconfutabili finché si dispone del denaro per ripeterli senza interruzione. Anche la retorica antica faceva conto sull’impressione e non sul contenuto — Shakespeare ha brillantemente mostrato, nell’orazione funebre di Antonio, di che cosa si trattasse — ma essa si limitava al presente e al momento. La dinamica della stampa esige effetti duraturi. Essa deve mantenere durevolmente gli spiriti sotto pressione. I suoi argomenti vengono confutati non appena una potenza finanziaria maggiore sposa gli argomenti contrari e li pone ancora più spesso davanti a tutte le orecchie e a tutti gli occhi. Nello stesso attimo l’ago magnetico dell’opinione pubblica si orienta verso il polo più forte. Ognuno si convince subito della nuova verità: all'improvviso ci si sveglia da un errore. Alla stampa politica si connette il bisogno di un'istruzione a. L'esempio più forte sarà sempre, per le future generazioni, la questione della «responsabilità » della guerra mondiale, vale a dire la questione di chi possiede — attraverso il dominio della stampa e dei cavi telegrafici di ogni parte della terra — il potere di stabilire davanti all'opinione mondiale la verità di cui ha bisogno per i suoi scopi poli tici, e di mantenerla in vita finché ne ha bisogno. Questione completamente diversa, che soltanto in Germania viene confusa con la prima, è quella puramente scientifica di sapere chi aveva interesse a provocare proprio nell’estate 1914 un avvenimento, sul quale esisteva già allora un'intera letteratura. 790 OSWALD SPENGLER scolastica generale, che mancava completamente all’antichità. È una pressione del tutto inconsapevole per avvicinare le masse, in quanto oggetti della politica di partito, a quello strumento di potere che è il giornale. All’idealista degli inizi della democrazia ciò appariva come illuminazione priva di intenzioni recondite, e ancor oggi vi sono qua e là degli sciocchi che si entusiasmano al pensiero della libertà di stampa; ma proprio in questo modo hanno via libera i futuri Cesari della stampa mondiale. Chi ha imparato a leggere soccombe alla loro potenza, e la tarda democrazia si trasforma, dalla sognata auto-determinazione, in una radicale determinazione dei popoli da parte dei poteri a cui la parola stampata obbedisce. Oggi ci si combatte per sottrarre agli altri quest'arma. Agli ingenui inizi della potenza giornalistica, questa era ancora ostacolata dai divieti della censura, con la quale i rappresentanti della tradizione si difendevano; la borghesia protestava che la libertà dello spirito era in pericolo. Ora la massa percorre tranquillamente la sua strada: ha finalmente conquistato questa libertà, ma sullo sfondo le nuove potenze combattono, non viste, per comperare la stampa. Senza che il lettore lo avverta, il giornale — e con esso anche il lettore — cambia di padrone *. Anche qui il denaro trionfa costringendo al suo servizio gli spiriti liberi. Nessun domatore ha mai avuto meglio in suo potere i propri animali; si scatena il popolo come massa di lettori, ed esso si precipita per le strade, si getta sull’obiettivo indicato, minaccia e spacca le finestre. Un cenno all’apparato della stampa e il popolo tace e ritorna a casa. La stampa è oggi un esercito con proprie armi accuratamente organizzate, con giornalisti come ufficiali, con lettori in qualità di soldati. Ma anche qui accade come in ogni esercito: il soldato obbedia. Durante la preparazione della guerra mondiale la stampa di interi paesi cadde finanziariamente sotto il controllo di Londra e di Parigi; e quindi i relativi popoli caddero sotto una rigorosa schiavitù spirituale. Quanto più democratica è la forma interna di una nazione, tanto più facilmente e completamente essa si espone a tale pericolo. Questo è lo stile del secolo xx. Un democratico di vecchio stampo oggi non richiederebbe più libertà per la stampa ma dalle stampa; nel frattempo i capi sono mutati in «arrivati », costretti a garantire la propria posizione di fronte alla massa, OSWALD SPENGLER 791 sce ciecamente, i mutamenti di obiettivi bellici e di piano operativo si compiono senza che egli ne venga a conoscenza. Il lettore nulla sa di ciò che si vuol fare con lui, e non deve neppure sapere quale sarà il suo ruolo. Non esiste una satira più tremenda della libertà di pensiero. Un tempo non si poteva osare di pensare liberamente; ora ciò è permesso, ma non è più possibile. Si può pensare soltanto ciò che si deve volere, e proprio questo viene percepito come libertà. L’altro aspetto di questa tardiva libertà è che a ognuno è permesso di dire ciò che vuole, ma la stampa è libera di prenderne conoscenza oppure no. Essa può condannare a morte ogni « verità » rifiutandosi di comunicarla al mondo: una spaventosa congiura del silenzio, tanto più onnipotente quanto più la massa servile dei lettori di giornale non si accorge affatto della sua presenza*. Qui affiora, come sempre durante le doglie del cesarismo, un frammento dell’epoca primitiva perduta. Il cielo del divenire è in procinto di chiudersi. Come nelle costruzioni di cemento armato e di acciaio ricompare ancora una volta la volontà espressiva del primo gotico — ora però fredda, dominata, civilizzata — così qui la ferrea volontà di potenza della chiesa gotica sopra gli spiriti si annuncia nella forma della «libertà della democrazia ». L’età del « libro» è compresa tra la predica gotica e il giornale moderno. I libri sono un’espressione personale; la predica e il giornale obbediscono a uno scopo impersonale. Nella storia universale gli anni della Scolastica offrono l’unico esempio di una disciplina spirituale in grado di impedire in tutti i paesi la comparsa di scritti, di discorsi, di pensieri che contraddicono l’unità voluta. Tutto ciò è dinamica spirituale. Gli uomini antichi, indiani, cinesi avrebbero guardato inorriditi a tale spettacolo. Ma proprio questo ritorna come risultato recessario del liberalismo europeo-americano, quale l’intese Robespierre: « il dispotismo della libertà contro la tirannide ». Al posto dei roghi subentra il grande silenzio. La dittatura dei capi-partito si appoggia sulla dittatura della stampa. Mediante il denaro si cerca di sottrarre schiere di lettori e popoli interi all'influenza nemica, portandoli nella propria sfera di idee. Qui essi vengono a conoscere soltanto ciò a. Al confronto i grandi roghi di libri dei Cinesi sono cosa innocua. 792 OSWALD SPENGLER che devono sapere, e una volontà superiore plasma l’immagine del loro mondo. Non occorre più obbligare i sudditi al servizio militare, come facevano i principi dell’età barocca. Con articoli, telegrammi, immagini — Northcliffe! — se ne fustigano gli spiriti, finché essi stessi richiedono le armi e costringono i loro capi a una lotta a cui questi volevano essere costretti. Questa è la fine della democrazia. Se nel mondo delle verità la dimostrazione è l'elemento decisivo, nel mondo dei fatti lo è il successo. Successo vuol dire il trionfo di una corrente dell’esistenza sopra le altre. La vita ha affermato i suoi diritti; i sogni dei riformatori sono diventati strumenti di nature dominatrici. Nella tarda democrazia la razza irrompe asservendo gli ideali oppure gettandoli con scherno nel baratro. Così è avvenuto nella Tebe egizia, a Roma, in Cina; ma in nessun’altra civiltà in declino la volontà di potenza assume una forma tanto inesorabile. Il pensiero, e quindi anche l’agire della massa, viene tenuto sotto una pressione ferrea. Per questo motivo, e soltanto per questo, si è lettori ed elettori, sotto una doppia schiavitù, mentre i partiti diventano seguiti obbedienti di pochi, sui quali il cesarismo getta ormai la sua prima ombra. Come la monarchia inglese del secolo x1x, così i parlamenti del secolo xx diventano a poco a poco spettacoli solenni ma vuoti. Come là scettri e corone, così qui i diritti popolari vengono presentati alla massa con un grande cerimoniale e rispettati tanto più scrupolosamente quanto minore è la loro importanza. Questo è il motivo per cui l’astuto Augusto non ha mai perduto occasione di celebrare le usanze avite della libertà romana. Ma già oggi il potere si trasferisce dai parlamenti nei circoli privati, e le elezioni si riducono inarrestabilmente a una commedia, per noi come per Roma. Il denaro ne organizza il corso nell’interesse di coloro che lo posseggono* e l’azione a. Qui risiede il mistero del perché tutti i partiti radicali — e quindi poveri — diventano necessariamente gli strumenti delle potenze finanziarie, a Roma degli equites, e oggi della borsa. Teoricamente essi attaccano il capitale, ma in pratica attaccano non già la borsa bensì, nell'interesse di questa, la tradizione. All'epoca dei Gracchi le cose andavano né più né meno di oggi, e lo stesso vale per tutti i paesi. La metà dei capi delle masse, e con loro l’intero partito, può essere comperata con denaro, uffici, partecipazioni ad affari. elettorale diventa un gioco convenuto in precedenza, inscenato sotto forma di auto-determinazione popolare. Se originariamente un’elezione era una rivoluzione in forme legittime, questa forma si è esaurita e, quando la politica del denaro diventa insopportabile, si «elegge » nuovamente il proprio destino con i mezzi primitivi della violenza sanguinaria. La democrazia annienta se stessa con il denaro, dopo che il denaro ha annientato lo spirito. Ma proprio perché sono svaniti tutti i sogni di migliorare la realtà mediante le idee di uno Zenone” o di un Marx, e si è imparato che nel regno della realtà una volontà di potenza può essere piegata soltanto da un'altra volontà — questa è la grande esperienza dell’epoca degli stati in lotta — sorge alla fine una profonda nostalgia per tutto ciò che ancora vive delle vecchie e nobili tradizioni. Si è stanchi fino al disgusto dell'economia monetaria. Si spera in una liberazione da qualsiasi parte venga, in una nota genuina di onore e di cavalleria, di nobiltà interiore, di rinuncia e di senso del dovere. Viene allora il tempo in cui le potenze del sangue ricche di forma si ridestano nel profondo, dopo essere state cacciate dal razionalismo delle grandi città. Tutto ciò che si è conservato per il futuro della tradizione dinastica e dell’antica nobiltà, tutto ciò che si è conservato del costume superiore che si mantiene al di sopra del denaro, tutto ciò che è in sé abbastanza forte per essere — secondo il detto di Federico il Grande — servitore dello stato in un lavoro duro, pieno di rinunce, scrupoloso, anche nel possesso del potere illimitato, tutto ciò che ho designato come socialismo in contrapposizione al capitalismo® — tutto ciò diventa all'improvviso il punto di raccolta di immense forze vitali. Il cesarismo cresce sul terreno della democrazia, ma le sue radici affondano nel substrato del sangue e della tradizione. L’antico Cesare deve il suo potere al tribunato, ma la sua dignità e quindi anche la sua durata la possiede in quanto princeps. Anche qui si ridesta l’anima del a. Cfr. O. SrencLER, Preussentum und Sozialismus, Miinchen, 1919, PP. 41-42. 25. Zenone di Cizio (336-264 a. C.), fondatore della scuola stoica, autore di numerosi scritti pervenutici in forma frammentaria. 794 OSWALD SPENGLER gotico primitivo: lo spirito degli ordini cavallereschi supera lo spirito vichingo avido di bottino. Per quanto i futuri detentori del potere possano dominare il mondo come possesso privato, essendo ormai irrimediabilmente caduta la grande forma politica della cultura, questa potenza priva di forma e di limiti contiene tuttavia un compito: quello di un’instancabile cura per questo mondo, che costituisce l’opposto degli interessi propri dell’età del dominio del denaro e che richiede un elevato sentimento dell’onore e un'alta coscienza del dovere. Ma proprio per questo si scatena ora la lotta finale tra democrazia e cesarismo, tra le potenze dominanti di un'economia monetaria dittatoriale e la volontà ordinatrice puramente politica dei Cesari. Per intendere questa lotta finale tra economia e politica, in cui la politica riconguista il suo regno, occorre uno sguardo alla fisiognomica della storia economica. TROELTSCH nasce a Hauenstetten, presso Augusta. Frequenta le università di Erlangen, di Goòttingen e di Berlino, dedicandosi soprattutto — sotto la guida di Ritschl e Lagarde — agli studi teologici. Conseguì il dottorato con la dissertazione Geschichte und Metaphysik (Gòttingen). Dopo esser stato pastore luterano a Monaco, ottiene l’abilitazione a Géttingen, con “Vernunft und Offenbarung bei Johann Gerhard und Melanchton” (Géòttingen). Inizia la carriera accademica a Bonn, e viene chiamato a coprire la cattedra di teologia sistematica a Heidelberg, impegnandosi anche nella vita politica e sedendo per due legislature alla camera alta del Baden. I saggi di Troeltsch mostrano chiaramente il prevalere degli interessi religiosi e teologici, i quali si incontrano e si scontrano, talvolta in maniera drammatica, con la consapevolezza della storicità della vita religiosa. Fin dall'inizio egli prende posizione nei confronti della concezione idealistica della religione, denunciando il carattere fittizio della «conciliazione » da essa operata tra il processo storico e l’assolutezza della fede religiosa. Nel saggio Die christliche Weltanschauung und ihre Gegenstromungen (1894) egli respinge insieme l'idealismo e il positivismo, a causa della loro incapacità di intendere la vita religiosa e di dare una giustificazione filosofica dell'autonomia della religione. Al centro del pensiero di Troeltsch si colloca, in questo periodo, il problema del rapporto tra storia e religione, concepiti come termini antitetici: da una parte la coscienza storica ci mostra il condizionamento di ogni forma di vita religiosa e la sua appartenenza a un processo di sviluppo, dall'altra la religione avanza una pretesa di validità assoluta. Quest'antitesi viene illustrata nei successivi scritti del periodo di Hcidelberg, da Die Selbstindigkeit der Religion (1895) a Christentum und Religionsgeschichte (1897) e a Uber historische und dogmatische Methode in der Theologie (1898), da Die wissenschafiliche Lage und ihre Anforderungen an die Theologie (Tibingen, 1900) ai Grundprobleme der Ethik (1902; tr. it. Napoli, 1974) e al volume Die Absolutheit des Christentums und die Religionsgeschichte (Tiibingen, 798 ERNST TROELTSCH 1902, 19127, 1929; tr. it. Napoli, 1968). L’urto della coscienza storica mette in crisi non soltanto la fede religiosa, ma anche la teologia: da un lato la religione cristiana ha perduto la sua fondazione soprannaturale, dall'altro lo sforzo di darne una giustificazione teologica non può più prescindere dalla coscienza storica. Questa giustificazione viene cercata da Troeltsch considerando il Cristianesimo non come la religione assoluta, ma come la religione più alta, cioè come quella in cui si realizza non già il possesso, bensì il grado maggiore di partecipazione alla verità. Muovendo da questa prospettiva Troeltsch interviene — con il saggio Was heisst « Wesen des Christentums »? (1903; tr. it. Napoli, 1974) — nel dibattito suscitato dalla pubblicazione dell’opera di Adolph von Harnack, e successivamente prende parte alla discussione sul modernismo. Negli scritti posteriori, dal volume Psychologie und Erkenntnistheorie in der Religionswissenschaft (Tibingen, 1905, 19227) al saggio Wesen der Religion und der Religionswissenschaft (1909), il problema della religione e della sua validità viene ricondotto al quadro di un’impostazione neocriticistica, modificata però attraverso l'assunzione di un fondamento 4 priori autonomo della vita religiosa che viene individuato in un complesso di valori irriducibili a quelli conoscitivi o etici o estetici. La ricerca delle condizioni di possibilità della religione mette così capo alla determinazione della sua autonomia nei confronti degli altri campi dell’attività umana. In questo stesso periodo, a contatto con Max Weber, Troeltsch ha sviluppato il proprio interesse per la religione anche sul terreno storiografico, studiando le relazioni tra il Cristianesimo e lo sviluppo politico ed economico della società europea. Il punto di partenza della sua analisi è la Riforma protestante, considerata nel suo distacco dal Cristianesimo medievale e nel suo rapporto con il processo di formazione del mondo moderno. Nel saggio Protestantisches Christentum und Kirche in der Neuzeit (Leipzig-Berlin, 1906, 1922°) e nel volume Die Bedeutung des Protestantismus fiir die Entstehung der modernen Welt (1906, poi Miinchen, 19112, 1924}; tr. it. Venezia, 1929) egli prende in esame le differenze di orientamento che caratterizzano la religione protestante e la cultura moderna; in seguito la sua attenzione si estende, investendo tutto il processo storico del Cristianesimo, con particolare riguardo alle origini della fede cristiana e alla figura di Cristo come termine di riferimento dello sviluppo ulteriore — indagata nel volume Die Bedeutung der Geschichtlichkeit Jesu fiir den Glauben (Tibingen, 1911) — o all’opera di Agostino — studiata in Augustin, die christliche Antike und das Mittelalter (Minchen, 1915; tr. it. Napoli, 1970). Ma il contributo storico di maggior rilievo fornito da Troeltsch è l'ampia analisi delle dottrine politico-sociali cristiane, condotta in Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen (Tiùbingen, 1912; tr. it. Firenze, 1941-60). In quest'opera — la quale raccoglie una serie di saggi apparsi dapprima nell'« Archiv fiir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik » —Troeltsch si propone di studiare le dottrine che, dal Cristianesimo primitivo alla Riforma protestante, caratterizzano sotto il profilo sociale lo sviluppo della religione cristiana, ponendo in luce il rapporto di condizionamento reciproco che in tal modo si instaura tra la vita religiosa e la vita economica che la religione intende regolamentare, ma dalla quale viene nel medesimo tempo influenzata. Troeltsch si accosta alle indagini weberiane sulla sociologia della religione, riconoscendo l'appartenenza del Cristianesimo al processo di sviluppo di una data civiltà e la dipendenza delle sue dottrine dalla struttura sociale che questa è venuta creando. Ma, a differenza di Weber, egli fa valere il postulato dell'autonomia della vita religiosa, avanzando l'esigenza di delimitare l'ambito storico proprio della religione. Come risulta anche dal saggio Religion, Wirtschaft und Gesellschaft (1913), che enuncia i presupposti metodologici di questa impostazione, il condizionamento reciproco tra religione e vita economico-sociale viene a configurarsi come l’incontro di serie causali indipendenti — una delle quali è appunto la serie dei fenomeni religiosi. Nel 1915 Troeltsch lascia Heidelberg, chiamato all’Università di Berlino a insegnarvi filosofia. Il mutamento di cattedra rispecchia il mutamento di interessi che si determina, in questi ultimi anni, nel pensiero di Troeltsch, e che lo spinge ad affrontare in termini generali il problema dello storicismo. Fin dal 1904, del resto, egli aveva espresso la sua adesione di massima alla posizione di Rickert nel saggio Moderne Geschichtsphilosophie (tr. it. Napoli, 1974). Ritornando sui problemi della storia e della conoscenza storica a distanza di circa un decennio, in una serie di saggi che hanno inizio nel 1916 (e che saranno poi raccolti col titolo Der Historismus und seine Probleme, Tiibingen, 1922), Troeltsch sottolinea le conseguenze relativistiche dello storicismo, e quindi la crisi del pensiero storico che esso esprime. Lo storicismo, inteso come relativismo storico, riduce i valori a prodotto storico e porta quindi all’« anarchia dei valori ». Contro questo pericolo egli si richiama alla teoria dei valori, e in particolare a Rickert, rivendicando il rapporto di ogni momento del processo storico con valori assoluti, capaci di dare un senso alla successione degli eventi. Ma questo rapporto non comporta — come per Rickert — una trascendenza metastorica dei valori, bensì la loro immanenza a ogni oggetto storico, considerato nella sua individualità. Il punto di arrivo di Troeltsch è quindi il significato romantico di individualità, recuperato attraverso il riferimento alla nozione leibniziana di monade. Questa impostazione viene in parte ripresa nei saggi postumi Der Historismus und seine Uberwindung (Berlin, 1924), nei quali è riaffermata l’esigenza della restaurazione di un sistema di valori, da compiersi attraverso il richiamo a una determinata tradizione culturale. Il dopoguerra vede Troeltsch intensamente impegnato nella vita pubblica, come deputato al parlamento prussiano e come sotto-segretario (dal 1919 al 1921) per gli affari evangelici presso il Ministero dell'educazione. Egli partecipa alla fondazione del partito democratico, e nel 1920 difende la costituzione della repubblica di Weimar in una serie di lettere pubblicate sulla rivista « Der Kunstwart» (e poi raccolte col titolo di Spektator-Briefe, Tùbingen, 1924). Muore a Berlino il 1° febbraio 1923. NOTA BIBLIOGRAFICA Le opere di Troeltsch sono state raccolte, anche se soltanto parzialmente, nelle Gesammelte Schriften, edite dalla casa editrice Mohr in quattro volumi, dal 1912 al 1925: dopo la guerra la Scientia Verlag di Aalen ne ha dato una ristampa anastatica, apparsa tra il 1961 e il 1966. Il primo volume (apparso nel 1912, e ristampato nel 1965) contiene Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen; il secondo (apparso nel 1913, e ristampato nel 1962) raccoglie, sotto il titolo Zur religiòsen Lage, Religionsphilosophie und Ethik, numerosi saggi di argomento religioso e storico-religioso, tra cui Die theologische und religiòse Lage der Gegenwart, Die Kirche im Leben der Gegenwart, Religion und Kirche, Die christliche Weltanschauung und ihre Gegenstrimungen, Christentum und Religionsgeschichte, Was heisst « Wesen des Christentums »?, Wesen der Religion und der Religionswissenschaft, Grundprobleme der Ethik, Moderne Geschichtsphilosophie, Uber historische und dogmatische Methode in der Theologie; il terzo (apparso nel 1922, e ristampato nel 1961) racchiude Der Historismus und seine Probleme; il quarto (apparso nel 1925, e ristampato nel 1966) comprende, sotto il titolo Aufsitze zur Geistesgeschichte und Religionssoziologie, diversi saggi di storia religiosa e intellettuale, tra cui Religion, Wirtschaft und Gesellschaft, Epochen und Typen der Sozialphilosophie des Christentums, Das stoisch-christliche Naturrecht und das moderne profane Naturrecht, Das Verhdltnis des Protestantismus zur Kultur, Luther, der Protestantismus und die moderne Welt, Renaissance und Reformation, Das Wesen des modernen Geistes, nonché numerose recensioni a libri di argomento analogo. Rimangono al di fuori di questa raccolta diversi volumi e saggi, i più importanti dei quali sono stati menzionati nella nota biografica. Ad essi occorre aggiungere le lezioni sulla G/aubenslehre, Miinchen-Leipzig, 1925, e la raccolta di saggi Deutscher Geist und Westeuropa (a cura di H. Baron), Tibingen, 1925. In epoca recente sono stati ristampati i seguenti volumi: Die Absolutheit des Christentums und die Religionsgeschichte, Minchen, 1960; Augustin, die christliche Antike und das Miztelalter, Aalen, 1963; Der Historismus und seine Uberwindung, 51. STORICISMO TEDESCO. 802 ERNST TROELTSCH Aalen, 1966; Spektator-Briefe, Aalen, 1966; Deutscher Geist und Westeuropa, Aalen, 1966. Dell’ampia letteratura critica concernente l'opera e il pensiero di Troeltsch segnaliamo gli studi seguenti: E. Vermelt, La pensée religieuse de Troeltsch, Strasbourg-Paris, 1922. A. Passerin d’EnTrÈèvEs, Il concetto del diritto naturale cristiano e la sua storia secondo E. Troeltsch, « Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino », LXI, 1925-26, pp. 664-704. O. Hintze, Troelisch und die Probleme des Historismus, « Historische Zeitschrift», CXXXV, 1927, pp. 188-239, ora raccolto nel volume Soziologie und Geschichte (a cura di G. Oestreich), Gòttingen, 1964 7, PP. 323-73. H. Liesricn, Die historische Wahrheit bei Ernst Troeltsch, Giessen, 1937. W. BracHmann, Ernst Troeltschs historische Weltanschauung, Halle, 1940. D. Frerssero, Das Problem der historischen Objektivitàt in der Geschichtsphilosophie von Ernst Troeltsch, Emsdetten, 1940. W. Koncer, Ernst Troeltsch, Tibingen, 1941. J. J. ScHaar, Geschichte und Begriff (Eine kritische Studie zur Geschichtsmethodologie von Ernst Troeltsch und Max Weber), Tiubingen, 1946. E. Fiuino, Geschichte als Offenbarung (Studien zur Frage Historismus und Glaube von Herder bis Troeltsch), Berlin, 1956, cap. 1v. W. Bopenstein, Neige des Historismus: Ernst Troeltschs Entwicklungsgang, Giitersloh, 1959. H. G. DrescHer, Das Problem der Geschichte bei Ernst Troeltsch, « Zeitschrift fir Theologie und Kirche », LVII, 1960, pp. 186-230. A. WAIsMann, E? historicismo contemporaneo: Spengler, Troeltsch, Croce, Buenos Aires, 1960, parte II. I. E. ALserca, Gewinnung theologischer Normen aus der Geschichte der Religion bei E. Troeltsch, Miinchen, 1961. W. F. KascH, Die Sozialphilosophie von Ernst Troeltsch, Tiibingen, 1963. E. Lessinc, Die Geschichtsphilosphie Ernst Troeltschs, Hamburg-Bergstedt, 1965. B. A. Rest, Toward a Theology of Involvement: the Thought of E. Troeltsch, Philadelphia, WincgeLHaus, Kirchengeschichte und Soziologie im neunzehnten ]ahrhundert und bei Ernst Troeltsch, Heidelberg, 1965, capp. ir. G. von ScHLIppe, Die Absolutheit des Christentums bei Ernst Troeltsch auf dem Hintergrund der Denkfelder des 19. Jahrhunderts, Neustadt a.d. Aish, 1966. H. Henrno, Max Weber und Ernst Troeltsch als Geschichtsdenker, « Kantstudien », LIX, 1968, pp. 410-34. L'elenco completo degli scritti di Troeltsch si trova nelle Gesammelte Schriften cit., vol. IV, pp. 863-72. Manca invece una bibliografia aggiornata degli scritti su Troeltsch: si vedano però le indicazioni contenute nei volumi sopra menzionati di I. E. ALserca e di E. Lessinc, nonché nella traduzione de L’assolutezza del Cristianesimo e la storia delle religioni (a cura di A. Caracciolo), pp. LXI-LXIv. CRISTIANESIMO E STORIA DELLA RELIGIONE* Il carattere più generale della situazione religiosa — che può essere riconosciuto da ognuno e che si impone a ognuno — consiste in una decomposizione della religione ecclesiastica la quale, nonostante il dominio esterno che all’occasione incide assai profondamente, si è seriamente allentata nelle sue strutture interne e non riesce più a dominare la vita interna degli ambienti che spingono spiritualmente in avanti. La misura di devozione soggettiva e di bisogno religioso non è oggi presumibilmente molto inferiore a un tempo. Sono soltanto caduti i mezzi di coercizione esterna e il generale attaccamento alla chiesa che suscitavano, nelle epoche di forte dominio esteriore delle chiese e di rigorosa subordinazione della scienza alla teologia, la parvenza di una fede diffusa. Là dove prima c’era semplicemente una sottomissione indifferente o una fede consuetudinaria priva di sentimento, troviamo oggi un’antitesi aperta e una consapevole emancipazione, oppure la medesima fede consuetudinaria in teorie anti-religiose oppure la stessa indifferenza, soltanto diventata dominante e che si ritiene interessante o progredita. La differenza importante consiste piuttosto nella scossa subìta dalla fede anche presso i credenti e coloro che vogliono credere, nella lotta risolutiva delle nuove grandi conoscenze e dei nuovi metodi scientifici contro i concetti fondamentali e i metodi espositivi della fede cristiana così come si era fin allora presentata. Certamente, questi effetti sconcertanti * Christentum und Religionsgeschichte, « Preussische Jahrbicher », LXXXVII, 1897, PP. 415-447, raccolto in Gesammelte Schriften, Tibingen, Verlag von 1.C.B. Mohr, vol. II, 1913, pp. 328-363 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi). 806 ERNST TROELTSCH non procedono soltanto dalla scienza, ma procedono in egual misura dalle reazioni etiche, e più spesso anti-etiche, contro la morale qual è stata finora, dall’impulso precipitoso di una felicità indirizzata in senso puramente intra-mondano e all’interno della quale manca alla fede la risonanza corroborante nella coscienza complessiva e in una tradizione avita universalmente venerata. Ma, ciononostante, in tutti gli spiriti gravi € profondi le conseguenze della scienza costituiscono i motivi autentici di questa situazione precaria, almeno per quanto riguarda il Protestantesimo. Da quando nell’età illuministica si è creata una fondazione completamente nuova del pensiero scientifico, e quindi una nuova forma di cultura europea, il Protestantesimo ha concluso con la scienza — in parte per un’intima concordanza, in parte a causa della sua minore chiusura ecclesiastica — un’alleanza indissolubile, che lo ha legato ad essa in una lotta perpetuamente oscillante, dove talora prevale l’influenza della scienza moderna, talora quella della tradizione. Il Cattolicesimo ha invece, dopo alcuni imbarazzi transitori, annientato la scienza moderna all’interno del suo ambito di potere e — poiché anch'esso doveva naturalmente concludere un compromesso con il mondo moderno — lo ha fatto non già con la scienza, ma con le correnti politiche, giuridiche e sociali dell’età moderna, con le potenze del suffragio universale; e a condizione di ottenere un franco riconoscimento della sua esistenza, concede ai dotti una posizione privata molto differenziata nei confronti delle sue dottrine. Il suo destino dipende in primo luogo dallo sviluppo delle conseguenze che farà scaturire la politica che esso ha impostato nel corso del nostro secolo. Il destino del Protestantesimo, invece, dipende in primo luogo dallo sviluppo degli effetti che sono derivati e che derivano tuttora dall’alleanza contratta con la scienza nel secolo xvi. Non si deve però dimenticare che oggi l’interesse per la situazione religiosa non si esaurisce affatto nell'interesse per il destino di queste due confessioni. Anche se ha preso prevalentemente le mosse dal Protestantesimo, e se è possibile solamente in base a questo, si è tuttavia venuto formando un ambito più ampio di persone le quali — estranee alle chiese piuttosto che irreligiose — indagano oggettivamente la questione religiosa nel suo rapporto con i problemi scientifici e cercano di districare e, per quanERNST TROELTSCH 807 to è possibile, di chiarire la situazione. Anche chi, come me, è fermamente convinto che un risanamento delle condizioni religiose sia in definitiva possibile soltanto muovendo dal terreno delle comunità religiose, deve tuttavia ammettere che al presente il centro di gravità di tutte le trattazioni concernenti la religione risiede in questo gruppo di persone, e non nella teologia corporativa. Chi vuole ottenere chiarezza sulla situazione, deve cominciare l'indagine di qui. Le pagine seguenti devono illuminare la situazione, appunto nel senso di una considerazione nient’affatto corporativa, per un aspetto la cui importanza diventerà ogni anno più chiara. Il fondamento della scossa critica non è la nuova speculazione sorta con l’Illuminismo, la quale poneva al posto della filosofia ecclesiastica costruita con elementi neoplatonici, aristotelici e biblici una nuova metafisica che assumeva in modo autonomo la tradizione antica ponendo al tempo stesso le premesse di una metafisica la quale preparava la moderna scienza della natura e della storia. Speculazione e teologia sono affini per natura. Entrambe scaturiscono dall’impulso della natura umana verso l’infinito e il soprasensibile, che l’una cerca di cogliere scientificamente e l’altra religiosamente. Laddove c’è un generale senso speculativo, si comprende anche ciò che vuole la tcologia; e dove nell’uomo è presente un forte bisogno religioso, vi è anche l'impulso più forte alla speculazione. Per quanto possano divergere nei risultati — e ciò particolarmente a partire dall’Illuminismo, dove la speculazione assunse elementi del tutto nuovi, sconosciuti all’antichità e alla Bibbia — essi si ritrovano sempre e si rafforzano a vicenda. L’Illuminismo si è imposto con una nuova speculazione proprio perché, in base alla tradizione precedente, l'interesse religioso agiva come elemento dominante; e proprio perché la speculazione e la teologia sono affini nonostante qualsiasi antitesi, esso è pervenuto a soluzioni pacifiche e di compromesso, che a molti tra gli uomini migliori del secolo xviti apparvero una soluzione durevole del problema posto dall’epoca e l’inizio di un periodo magnifico. L'epoca di Schleiermacher e di Hegel parve approfondire questa soluzione pacifica, e porla su una base di principio. Il frutto principale della nuova speculazione, la formulazione in termini di immanenza metafisica del rapporto tra Dio e il mondo e la diffusio808 ERNST TROELTSCH ne etica del contenuto spirituale sull’ambito complessivo della vita intra-mondana, sembrava debitore della sua essenza a influenze cristiane, oltre che antiche, e suscettibile di essere agevolmente assimilato dal principio cristiano. Pareva così aprirsi un luminoso campo di nuove indagini teologiche e filosofiche, a cui — come indicano le biografie di quel tempo — prendevano parte attiva uomini di ogni professione. Questa pace e questo interesse sono scomparsi da tempo, in parte perché la chiesa e la religione popolare non volevano accettare un compromesso del genere, che incideva assai profondamente, preferendo isolarsi dalla vita scientifica, ma in parte, e soprattutto, perché la speculazione fu sconfitta dalla crescita autonoma degli elementi che all’inizio aveva saputo subordinare a sé e tenere al proprio servizio. Le due nuove creazioni dell’Illuminismo, la scienza matematico-meccanica della natura e la scienza critico-comparativa della storia, si svincolarono e conobbero una diffusione straordinaria, che assorbiva ogni attività e ogni interesse. La speculazione precedente non era più in grado di affermarsi nei loro confronti. La conseguenza di ciò fu che — nella cultura respinta dall’ortodossia rinnovata — insieme alla speculazione andò perduto anche il senso del soprasensibile vissuto e insegnato dalla religione, e un pensiero educato in modo completamente empiristico non seppe più avvicinarsi a quei problemi. Ma ancora più importante fu l’altra conseguenza, che ognuna delle due scienze suscitava un’enorme trasformazione dell'immagine del mondo e della storia, la quale sembrava dover distruggere passo a passo i concetti religiosi di Dio e dell'anima, e nello stesso tempo minava i fondamenti storici su cui aveva poggiato la precedente intuizione che il Cristianesimo aveva di se stesso. La lotta così scoppiata è molto più violenta e pericolosa di quella con la speculazione nemica, ma pur sempre affine: si tratta di una lotta con una conoscenza e una concezione dei fatti differente, che penetra in tutti i campi della vita. La discussione richiesta da questa situazione fa tutt'uno con esse. La speculazione compare soltanto in secondo piano. Delle due nuove scienze, la scienza della natura sembra a molti l'avversario autentico; essi si rallegrano o si dolgono dei trionfi che fanno arretrare ogni giorno di più la fede. Il tentativo di generalizzare e di trasferire conoscenze e metodi che hanno dimostrato nel loro campo una straordinaria capacità di prestazione costituisce però una delle illusioni maggiori tra quelle che di solito accompagnano i successi inattesi. Non c'è dubbio che la legalità autonoma e la regolarità del processo naturale, poste in luce dalla scienza della natura, hanno reso impossibili le vecchie rappresentazioni antropomorfiche dell’azione divina. Ma queste rappresentazioni sono già state scosse da altri motivi, e in parte proprio da motivi religiosi, e possono ritrarsi dinanzi a una concezione approfondita del concetto di Dio. Nello stesso tempo i tentativi di sottomettere la vita spirituale alle leggi naturali hanno mostrato soltanto che essa possiede una sua propria legalità e un suo proprio modo di agire, del tutto differente e nient’affatto coincidente con quello della natura. Certamente, anche la scienza della natura ha rafforzato l'impressione che la natura proceda insensibile soltanto in base alle proprie leggi, senza curarsi affatto della vita spirituale, dei suoi scopi e dei suoi beni, e che sembri capricciosamente talora prepararla e favorirla, talora però anche annientarla brutalmente. Ma questa impressione è antichissima, e proprio in essa la nostalgia religiosa si compiace soprattutto di mettere radici nel fondamento più profondo della vita spirituale per non rimanere soffocata da quei grandi enigmi e per diventare libera nei riguardi della semplice natura. Del resto, ogni indagine seria ha mostrato che, per quanto tutte le connessioni possano essere concepite come puramente meccaniche, per quanto si escluda ogni derivazione e deviazione in vista di particolari scopi arbitrari, nelle forme di questa connessione agiscono tuttavia idee organizzatrici; che, almeno nella vita organica, il caso meccanico non spiega nulla; che ogni spiegazione fondata su leggi naturali concerne soltanto l’elemento di regolarità generale tratto dall'esperienza, ma non l’esperienza stessa nella sua realtà concreta. Ciò che il mondo reale offre è, in verità, un dualismo di elementi razionali e forniti di valore da un lato, di elementi irrazionali e puramente fattuali dall’altro. Le leggi generali e i contenuti forniti di senso si compenetrano. Le prime ricoprono ogni realtà con la rete orientativa delle loro lince direttrici, i secondi stanno nelle maglie di questa rete. Che uno di questi due aspetti sia parvenza, oppure che uno soltanto sia veramente dominante, è cosa impossibile da dimostrare: decidere in un senso o nell’altro è, e rimane sempre, una questione di fede. Che però la fede secondo cui la natura e la materia sono tutto, e che da esse deriva tutto il resto, sia impossibile da sostenere, lo mostra l’effettiva autonomia del mondo spirituale. Questa soltanto è la questione che dobbiamo porre alla scienza della natura — se il mondo spirituale, con il suo dover essere e i suoi valori culturali, sia qualcosa di autonomo e fornito di una propria forza rispetto alla natura; per il resto possiamo lasciare che essa percorra tranquillamente il suo cammino, il quale resta precluso a chiunque si occupa di scienza dello spirito. La risposta di tutti gli studiosi realmente importanti è affermativa, anche se diverse sono le intuizioni più precise in merito a tale rapporto. Per la ricerca naturale, i problemi particolari confluiscono nelle questioni relative al rapporto tra cervello e anima e alla presenza di idee teleologiche oganizzatrici nello sviluppo della natura, che mostrano una natura al servizio — almeno in generale — degli scopi dello spirito. Entrambi i problemi possono essere risolti soltanto da scienziati e filosofi uniti; essi sono ancora oggi, come tutti sanno, straordinariamente dibattuti. Ma lo storico e l’indagatore della vita spirituale non ha bisogno di attendere queste soluzioni. Per lui è un punto fermo non soltanto ciò che costituisce al presente un patrimonio comune nei confronti di ogni tipo di materialismo, cioè il fatto che lo spirito è una forza autonoma inderivabile dalla natura, ma anche il principio più importante che questa potenza autonoma non manifesta la sua forza specifica in un adattamento formale alla natura, ma contiene piuttosto di per sé anche contenuti spirituali, disposizioni e impulsi autonomi, dai quali sorge, in un'azione reciproca con le esigenze della realtà sensibile, il ricco mondo della storia. Nel suo campo l'autonomia, la legalità autonoma e la forza creativa — meno familiari allo studioso della natura — dello sviluppo spirituale nella religione, nella morale e nella cultura si presentano così chiaramente che egli può applicarsi a questo campo considerandolo almeno relativamente autonomo, e trattare i suoi problemi come problemi del mondo spirituale. In questo nostro campo d’indagine risiede però anche il vero e proprio centro di gravità della questione religiosa. Poiché la religione è un elemento costitutivo della vita storica, le questioni principali che la riguardano si collocano in campo storico. La scienza storica moderna, che si estende a epoche e a regioni prima sconosciute, ha anche posto la fede cristiana di fronte a problemi del tutto nuovi; e il sorgere di una storia comparativa delle religioni l’ha scossa profondamente alla base. Fino al secolo xviri la teologia, e la scienza in generale, conosceva soltanto — con eccezioni scarse e prive di influenza — il presupposto rigorosamente soprannaturale del mondo cristiano, cosicché il Cristianesimo riposava su una rivelazione comunemente ritenuta soprannaturale e legittimata da miracoli che interrompevano il corso della natura. Il pensiero scientifico si estendeva soltanto alla sua interpretazione, non alla sua realtà di fatto. Di fenomeni concorrenti, non cristiani, si conoscevano soltanto la mitologia greco-romana e l’Islam. La prima veniva però considerata come la corruzione peccaminosa di residui di una conoscenza risalente all’Eden, e il secondo come un’eresia del Cristianesimo. I suoi miracoli erano, come quelli dell’eretico, scimmiottamenti del demonio. Al contrario, la credenza in dio della filosofia greca non comportava alcuna concorrenza alla rivelazione cristiana, ma rappresentava il frutto del « pensiero naturale », il prodotto normale e canonico del lumen naturale, che costituiva nei confronti della rivelazione un’analogia e un grado preliminare più o meno amichevolmente apprezzato, di cui non si poteva fare a meno per la definizione € l’esposizione del contenuto della rivelazione. Questo mondo angusto e ristretto, dai presupposti storici semplici ed evidenti, fu distrutto dal secolo xvi. Certamente, furono in primo luogo la moderna scienza della natura e la metafisica moderna a porre in questione il miracolo e il soprannaturale, ma ben presto questo effetto derivò in misura sempre crescente dalla ricerca storica. Accanto al Cristianesimo, all’antichità e all’Islam si collocavano le altre grandi religioni del mondo antico con le loro analoghe dottrine teologiche; e, al di fuori del mondo cristiano, uno sterminato mondo « pagano» si apriva nelle parti della terra recentemente dischiuse al commercio e descritte da resoconti di viaggi molto ammirati. Ne venivano così posti doppiamente in dubbio gli analoghi miracoli ed elementi soprannaturali della storia ebraica e cristiana, e la pretesa unicità della Chiesa. Voltaire e Montesquieu amavano procedere mediante questi paralleli tra religione cristiana e religione pagana. L'applicazione dei nuovi metodi pragmatici e critici, approntati dal deismo ed energicamente approfonditi dai teologi tedeschi del secolo xvi, si mostrava possibile anche per la storia del Cristianesimo, e distruggeva sia la finzione cattolica secondo cui la chiesa sarebbe la semplice prosecuzione del Cristianesimo primitivo, sia la finzione protestante secondo cui la Riforma ne costituirebbe la restaurazione. Tutte le impostazioni della precedente visione confessionale della storia furono negate c sostituite da una nuova impostazione, che inseriva la storia della rivelazione e della chiesa nel generale pragmatismo storico. Ciò che il secolo xvilt aveva cominciato a fare ancor sempre esitante, cercando in ogni cosa un’immutabile verità di ragione e onorando in tutte le religioni, ma particolarmente nel Cristianesimo, la « religione naturale », fu proseguito dal secolo xIxX con crescente successo e con una smisurata estensio- ne. Esso ha dissolto la vita dell'umanità in una corrente ininter- rotta di divenire storico, di trasformazioni continue, mostrando- ne il frammento a noi accessibile nel suo movimento interno, e per le parti a noi ignote — che si collocano prima e dopo tale frammento — dispiegando agli occhi della fantasia l’immagine di trasformazione senza fine. Ma esso ha soprattutto fornito sia ai singoli campi sia alla considerazione complessiva della sto- ria metodi storico-filologici concreti — e in luogo del metodo pragmatico quello genetico, che poggia sul presupposto di uno sviluppo continuativo e omogeneo della vita spirituale, indaga le leggi di formazione della tradizione presso i popoli antichi € proprio qui mostra come, muovendo da queste tradizioni le quali offuscano ogni sviluppo e ogni condizionamento naturale, si possa chiaramente ricostruire il corso reale delle cose. In quella corrente impetuosa anche le religioni piccole e grandi — alle quali si aggiungeva con l’inizio del secolo anche la religio- ne indiana appena scoperta, insieme alle varie religioni ad essa imparentate — apparvero nient'altro che onde che si alzano e si abbassano, infinitamente diverse e senza quiete. Infatti dal nuovo metodo filologico scaturì naturalmente anche un’indagi- ne del tutto nuova delle religioni antiche. E le « antichità reli- giose » nella loro stretta connessione con il diritto, la politica, l'articolazione della società, l’arte e la scienza dei popoli antichi, costituiscono il corpo principale della tradizione. Miti e tradizioni, culti e leggi religiose vengono sempre più riconosciu- ti nella loro connessione naturale con la vita complessiva. Di qui scaturirono, alla fine, le indagini degli etnologi e degli antropologi sui popoli « senza storia », le quali hanno mostrato la presenza presso di questi di un gran numero di tratti molto prossimi alle tracce più antiche dello sviluppo culturale e reli- gioso dei popoli civili e gettato nuova luce sui loro inizi. Dalla cooperazione tra scienza dell’antichità, filologia orientale ed et- nologia è così sorta una nuova grande disciplina, la storia delle religioni, che è certamente elaborata in modo ancora molto incompleto e diseguale, ma da cui provengono già ora, diretta- mente o indirettamente, gli effetti più forti. I suoi metodi sono profondamente penetrati nell’analisi della religione israeli- tica e cristiana. Nessuno poteva più mettere in dubbio la sua splendida influenza nel campo profano ed extra-cristiano; non appena la si applicò a fondo alla totalità della tradizione cristia- na, si vide che questa chiave, capace di aprire tutte le porte, si adattava anche qui alla serratura. La storia del Cristianesimo è così stata inserita irrevocabilmente nella storia generale della religione, per quanto si cercasse di nuovo di sottrarlo ad essa nei punti più importanti. D'altra parte, anche l’indagine di principio sull’essenza e sulla verità delle conoscenze religiose aveva bisogno di abbracciare con lo sguardo la molteplicità storica delle religioni. Lo spirito del pensiero moderno, orienta- to in senso storico, ha costretto in ogni campo filosofi e teologi a considerazioni storiche, soppiantando il vecchio e più elemen- tare procedimento, puramente logico-speculativo. In tal modo il cerchio della considerazione storica religiosa si è chiuso da tutte le parti intorno al Cristianesimo. Gli effetti di tutto ciò sono evidenti; ma essi sono più impor- tanti di quel che si è in un primo tempo supposto e di quel che ancora oggi spesso si suppone. La conoscenza prossima fu che tutti gli elementi soprannaturali, e in particolare le relazioni causali asserite dal pensiero giudaico-cristiano, sono scomparsi dalla concezione della storia del Cristianesimo, e che questa storia è stata studiata secondo l’analogia con altre tradizioni, mantenendo in pieno l’importanza che prima rivestiva. In tale maniera il Cristianesimo ha però perduto la fondazione soprannaturale che lo distingueva da tutte le altre religioni; la sua storia primitiva era solo più la fonte, non più la sua prova. I suoi fondamenti storici, che avevano avuto un’importanza deci- siva per la sua precedente concezione di se stesso, hanno comin- ciato a vacillare, e ciò ha trasformato tutta la sua essenza. In tale maniera, però, era minacciata non soltanto la sua sopranna- turalità, ma anche — come presto è risultato — la sua singolari- tà e il suo valore esclusivo di verità. Esso diventava solamente una delle grandi religioni universali accanto all'Islam e al Bud- dismo, una religione che, al pari di queste, si è sviluppata attraverso una lunga preistoria e che ha raccolto l'eredità di formazioni storiche di larga portata. Dov'è rimasta allora la sua verità esclusiva o anche soltanto la sua posizione di privile- gio, dov'è rimasta soprattutto la fede nella sua rivelazione esclu- siva e unica? La questione dell’autenticità dell’anello diventava ancora più grave di quanto era stata per la religione razionale di Lessing. Ma la conseguenza va ancora più in là. Non soltan- to la validità e la verità del Cristianesimo, ma anche quella della religione in generale come campo autonomo e particolare della vita viene trascinata via da questo vortice della molteplici- tà storica. Come può esserci comunque una verità nella fede religiosa, la quale si manifesta in mille forme diverse, chiara- mente dipendenti dalla situazione e dalle circostanze, e si ripor- ta a rivelazioni che si presentano tutte come infallibili e univer- salmente valide, o almeno come un'opera soprannaturale imme- diatamente procedente dalla divinità, e che al tempo stesso si contraddicono completamente? Come può esserci ancora una religione nell’infinita molteplicità e nelle profonde differenze delle religioni, se la religione deve significare in verità una comunità con la divinità? Non si dovrebbe almeno dire, con le note parole di Schiller: «Quale religione riconosco? Nessuna di tutte quelle che mi nomini. — E perché? per religione »'? Oppure con le parole di Goethe, che certamente non esprimo- no tutta la sua autentica intuizione al riguardo: « Chi possiede scienza ed arte ha anche la religione; 1. ScuitLer, Epigramme, Mein Glaube. chi non ha né Vl’una né l’altra s'abbia la religione »?? Si tratta di una storia di follia e di superstizione, nel miglio- re dei casi del rozzo precedente e del surrogato popolare della filosofia e dell’arte, scaturito esclusivamente dal pensiero e dal- l’errore umano, non dell’opera della divinità — per lo meno non più e non diversamente di quanto lo sia qualsiasi altro evento — dal momento che la divinità non può mettersi in dissenso con se stessa. Ma con ciò le questioni riprendono da capo: perché allora queste innumerevoli vie traverse delle reli- gioni per giungere alla verità della filosofia e dell’arte? perché la necessità di un surrogato popolare? donde viene l’enigmatica autonomia e la forza propria delle religioni, che ora si accorda- no con l’arte e la scienza ispirandole alle più alte imprese, ora le annientano nel loro fiorire e ne prendono il posto? donde viene il caratteristico contenuto interno di relazioni coerci- tive e viventi con la divinità, che non può essere vissuto al- trove e che la scienza e l’arte possono soltanto trarre dalla religione ? Qui stanno infatti i problemi veri e propri per chi ha visto che la scienza naturale non può decidere nulla in merito alla possibilità o impossibilità della religione, o può decidere soltan- to le questioni preliminari più generali. Essi costituiscono an- che la base più profonda della crisi attuale, sebbene la cultura media continui ad attribuire questo progresso o questa sfortuna — secondo il punto di vista — solamente alla scienza della natura. Come la scepsi, che invade oggi tutti i campi, ha il suo fondamento principale nel relativismo prodotto dal diffon- dersi degli studi storici, così ha qui la sua radice, ora più con- sapevolmente, ora più inconsapevolmente, anche la posizione contraddittoria della nostra migliore cultura nei confronti della religione, che oscilla avanti e indietro tra un mezzo riconosci- mento e una mezza contestazione, riconoscendo in qualche modo la verità e la necessità di un fenomeno storico così potente e tuttavia non impegnandosi seriamente con nessuna delle sue forme concrete. 2. GoetHE, Xenien. Ma le grandi crisi storiche guariscono spesso — come Ja lancia di Odino — le ferite che hanno inferto. Come la moder- na scienza della natura costringeva, proprio in virtù della sua coerente elaborazione, a indagini gnoseologiche sulla causalità e sulla sostanza, conducendo perciò al superamento del suo carattere materialistico e naturalistico, così anche la nuova scien- za storica ha costretto a cercare con maggiore profondità di prima le forze propulsive e unitarie della storia. Se 1’Illumini- smo, ancora sottoposto all’influenza del soprannaturalismo, ave- va riposto il contenuto della storia in una verità di ragione sempre eguale, rigida, spiegando a partire da essa tutte le devia- zioni e tutti i mutamenti in base a motivi puramente soggetti vi, la nostra intuizione della storia procedeva all'indietro — sotto l’influenza delle nuove idee poetiche di Lessing, Herder, Goethe — dai variopinti e molteplici fenomeni esterni alle tendenze spirituali di fondo della natura umana che stanno alla loro base e che sono in essi soltanto incorporate, e insegnava poi a riconoscere di nuovo queste tendenze nella loro interna connessione come il dispiegarsi della ragione umana complessi va, che nel corso dello sviluppo dispiega il proprio contenuto spirituale — come un grande individuo — attraverso la succes- sione delle generazioni. In tal modo è stata fondata la grande intuizione moderna della storia, che costituisce il presupposto nuovo di ogni scienza dello spirito: essa racchiude ancora in sé gravi problemi, ma si è già dimostrata estremamente feconda. Da essa è sorta anche una nuova intuizione della religione e del suo sviluppo storico. Anche nella religione si è pervenuti, muovendo da forme fenomeniche infinitamente diverse, a un nucleo interno, sempre presente e almeno formalmente identi- co, agli Er/ebnisse interni della coscienza, che si cristallizzano e si ramificano a formare quelle forme fenomeniche soltanto in virtù della cooperazione di varie condizioni esterne. Era questo Erlebnis fondamentale ciò che occorreva comprendere e analiz- zare. In base alle rivelazioni originarie e acquisite di questo Erlebnis si doveva comprendere la formazione dei gruppi di religioni; e nel sorgere di gruppi di religioni sempre più gran- di e comprensivi si doveva riconoscere il dispiegarsi dell’idea religiosa. C'erano naturalmente vie molto differenti per proce- dere a quest’analisi, e numerosi sono stati gli errori. Il presupposto di un’indagine di questo tipo è naturalmente la conoscen- za approfondita della storia empirica delle religioni, ma di tale conoscenza si può finora parlare solo parzialmente. Nel complesso questa è la strada che si accorda con la tendenza del pensiero scientifico, e che ha già condotto a molte conoscenze fornite di valore. Dobbiamo soltanto imparare a considerare la religione con occhio sempre più amorevole, sempre più libero da presupposti dottrinali, razionalistici e sistematizzanti, e a studiarla in modo sempre più penetrante proprio nei suoi carat- teristici e appariscenti fenomeni e personalità specificamente religiosi, anziché nell'uomo comune. Allora ci si disvela — co- me il nucleo più profondo della storia religiosa dell'umanità — un Erlebnis non suscettibile di essere ulteriormente analizza- to, un fenomeno originario ultimo che, al pari del giudizio etico e dell’intuizione estetica, rappresenta un fatto ultimo e semplice della vita psichica, ma che è caratteristicamente diver- so da entrambi. Noi riconosciamo leggi particolari — proprie di questo campo della vita — nella formazione di idee e di norme, nella produzione di simboli e di azioni religiose, nell’al- largamento, nella crescita e nell’elaborazione, nella contrapposi- zione e nella lotta con forze estranee o antitetiche; nell’aliena- zione e nell’approfondimento, nell’intreccio con altri sistemi di vita e della concentrazione che ne viene di nuovo fuori, nella formazione della tradizione e della comunità nonché nella pro- duzione originale che continua sempre a sussistere accanto a queste, nel rapporto degli spiriti produttivi con i fedeli ad essi subordinati. In tutte queste formazioni diversissime vive pur sempre una realtà fondamentale unitaria, ossia la religione, il contatto indeducibile, puramente fattuale, sempre nuovamente vissuto, con la divinità. Si può passare da una religione all’al- tra: anche le religioni tra loro più opposte possono comprende- re, con qualche attenzione, il linguaggio religioso l'una dell’al- tra. Si tratta sempre della stessa realtà, che viene colta in diver- si gradi e da diversi lati. Ma questa unità non è l’unità rigida della religione naturale — come aveva ritenuto la concezione della storia del secolo xvi — e non si basa sull’accordo tra ope- razioni intellettuali coscienti; essa è invece fondata su una comu- ne tendenza di movimento dello spirito umano, la quale spinge avanti in direzioni diverse e si compie attraverso il movimento dello spirito divino che opera misteriosamente nella profondità inconscia dello spirito umano unitario. Incapace di raggiungere il suo fine nel breve tratto della vita individuale, questo movi- mento si compie attraverso il lavoro in comune di innumerevo- li generazioni che, afferrate e condotte dall’agire divino, si affidano ad esso vivendone sempre più riccamente e profonda- mente l’intimo contenuto. Questo movimento è uno sviluppo perturbato in vario modo, ma che in tutte le perturbazioni si riprende sempre di nuovo, reca a realizzazione il contenuto posto come possibilità e come nucleo nel sistema religioso di vita, mostra i diversi gruppi di religioni nella loro relazione reciproca e nella loro graduale successione, e nel corso stesso della storia porta alla luce — con la contrapposizione di diverse religioni — il criterio della loro valutazione. In tal modo si innalza davanti ai nostri occhi, anziché il caos, un cosmo di religioni, a proposito del quale non si deve dimenticare che qui la successione di gradi indica non soltanto una serie temporale, ma anche una contemporaneità. Questo cosmo è stato spesso considerato un gioco che presenta in sfumature quanto mai variopinte e ricche la realtà fondamentale comune, oppure co- me una cooperazione di diverse verità parziali che costitui- scono la bella totalità. Ma questa considerazione estetica, che faceva della storia delle religioni uno spettacolo ricco e bello per la divinità, contraddice sia il vero senso dell’idea di svilup- po sia l’essenza reale delle religioni. L'idea di sviluppo, tratta attraverso diverse idee mediatrici dai fenomeni spirituali del movimento di un fine unitario, si spinge fino al conseguimento di questo scopo finale a cui sempre si tende e che sempre agisce; e le grandi religioni tanto meno si arrestano in sé quanto più hanno compreso il loro fine, ma anzi tendono con passione spesso struggente verso la verità totale e intera. Soltan- to dove l’idea di sviluppo viene mantenuta nel suo senso pieno, essa non opera in modo snervante e distruttivo; e soltanto dove le religioni sono animate da questa passione, esse hanno una vitalità intima che le spinge in avanti. Perciò occorre in ultima analisi, e soprattutto, rintracciare il fine o almeno la tendenza al fine della storia delle religioni, la quale non può trovare il suo termine nei sistemi della scienza e dell’arte ad essa prossi- mi oppure in un concetto astratto di religione elaborato in base a varietà delle religioni, ma soltanto in una religiosità concre- ta, particolarmente profonda e potente, particolarmente forte e coniata in forma pura. Essa deve contenere i momenti di verità delle altre o potersene appropriare, e deve in ogni caso incorpo- rare in modo vivente l’idea centrale che emerge dal loro svilup- po. In quale misura essa sia configurata unitariamente e in quale misura possa penetrare universalmente, nessun postulato può stabilirlo 4 priori. Si tratta soltanto di un postulato che deriva dallo stesso sviluppo religioso, in modo tale da fornire una tendenza al fine e da fare sì che essa si renda riconoscibile, almeno come avviamento e come tendenza verso il futuro. Il vecchio metodo della teologia soprannaturalistica ne risul- ta pertanto capovolto. Essa muoveva dal presupposto, assunto come ovvio, che il Cristianesimo costituisce — a causa del suo carattere soprannaturale — l’unica verità, e si curava soltanto di porre le altre poche religioni conosciute in un rapporto tollerabile con questa religione soprannaturale, ed essa sola ve- ra. La sua filosofia della storia collegava immediatamente il Cristianesimo, inteso come restaurazione soprannaturale, al per- fetto e semplice inizio dell’umanità; la molteplicità delle altre religioni non era che un prodotto dell’offuscamento successivo al peccato, e i loro elementi di verità erano residui dell’antica perfezione dello stato originario. Il Cristianesimo era non sol- tanto la suprema e più profonda redenzione, ma l’unica reden- zione operata immediatamente da Dio, mentre tutte le altre religioni nascevano esclusivamente dal pensiero e dall’errore umano, e la loro fede di redenzione doveva essere stata soltanto auto-redenzione in base a una forza naturale. La ricerca storica moderna costringe a percorrere il cammino inverso. Essa mo- stra che questo soprannaturalismo e questa forma di fondazio- ne costituiscono un modo, comune a tutte le religioni superio- ri, di esprimere la loro convinzione della propria verità. Essa distrugge l’idea di un semplice inizio soprannaturale dell’uma- nità, e mostra anche presso i devoti dell’Indo e delle montagne persiane la forza profondissima e vivissima della fede redentri- ce e della comunanza immediata con Dio. Essa percorre in tal modo la via dall’universale al particolare, dall'indagine della religione come contatto particolare con la divinità, che ha luo- go ovunque, all’indagine dei particolari ambiti concreti di religione. Cercando di coglierli nel loro rapporto interno, in una prospettiva storico-evolutiva, essa va alla ricerca del prodotto supremo di questa storia, guidata dalla convinzione — certamen- te indimostrabile, e che rappresenta essa stessa una fede etico-re- ligiosa — che la storia non è un gioco di varianti senza fine, bensì il dispiegarsi del contenuto più profondo e unitario dello spirito umano. Ai suoi occhi la storia della religione è una storia di Dio con gli uomini, una storia della redenzione che eleva l’umanità e l’uomo singolo al di sopra del legame con la mera natura sensibile, con il bisogno e con l’aspirazione pura- mente naturale, fino alla comunità con Dio e alla libertà dello spirito sul mondo e sulla mera, ottusa fattualità dell’esistenza. In quanto la storia della religione raggiunge in questo modo, o meglio realizza, la verità — in grado diverso secondo la situa- zione e le condizioni — vincolando l’uomo con il fondamento più profondo della sua esistenza e con l’insieme dei suoi beni spirituali, ne è nata la convinzione che in essa, e in essa soltan- to, si raggiunge un reale progresso della storia e che essa può credere, del tutto diversamente dalla storia degli altri campi della vita, nel conseguimento di uno scopo definitivo e sempli- ce. Mentre la morale, il diritto, la cultura, la scienza e l’arte si riferiscono a una situazione mondana sempre mutevole e sono perciò sempre costrette a comportare nuovi impercettibili adat- tamenti, innumerevoli dissoluzioni e nuove formazioni, la reli- gione ha invece a che fare con il fondamento eterno, sempre identico a se stesso, della vita. Penetrandolo sempre più profon- damente, essa può ritenere possibile raggiungere quella misura di verità e di unificazione interna che è in generale concessa al- l’uomo sulla terra — certamente sempre intrecciata, in relazioni continuamente mutevoli, con la situazione complessiva che si trasforma, in lotta con le potenze contrapposte dell’inerzia, del peccato, dell’esteriorizzazione egoistica, e creando, in base alla verità una volta raggiunta, una sempre nuova e più profon- da forza vitale, ma pur sempre nella certezza di avere vissuto ed esperito il nucleo del mondo soprasensibile. Si tratta di un postulato di cui nessuno, che abbia riconosciuto nella religione un campo autonomo della vita, può fare a meno. Certamente, a questo punto si aprono i problemi ultimi e più profondi, le questioni fondamentali della storia: perché abbia luogo in generale una storia; perché gli uomini debbano essere tratti fuori e liberati dalla balia della natura e delle sofferenze da essa a noi inflitte, dall’inerzia e dall’egoismo, soltanto in virtù della reli- gione; perché le condizioni di questo processo e i suoi effetti siano talmente differenti e non si possa parlare di una possibili- tà identica per tutti di partecipare al suo frutto; perché innume- revoli generazioni e individui debbano venir consumati in esso, e pur sempre rimanere differenze di grado; se, e come, tutta questa diseguaglianza potrà mai essere appianata. Queste sono le questioni ultime e più profonde che un’epoca fornita del coraggio della speculazione cercherebbe di illuminare mediante una speculazione che muova dai fatti della vita interiore, e nelle quali un’epoca stanca di speculazione come la nostra vene- ra invece rassegnata i limiti della conoscenza umana; questioni a cui risponde in modo oscuro e logoro, ma profondo e com- prensivo, la religione stessa attraverso la dottrina dell’amore creativo di Dio e della vita dopo la morte, dell’auto-redenzione di Dio nell’elevazione dei regni degli spiriti finiti alla comunità con lui. Non sono quindi queste questioni ultime a dover essere ancora indagate se si deve risolvere il problema posto dalla considerazione storico-religiosa. E neppure può trattarsi di ga- rantire l'assunzione fondamentale qui presupposta — cioè che la religione è un campo di vita autonomo, un contatto interio- re con la divinità — contro le obiezioni che dalla pienezza delle particolarità storiche traggono l’occasione per una spiega- zione di tipo illusionistico la quale deriva la religione, intesa come prodotto secondario, da altri fatti fondamentali. Ogni D spiegazione del genere naufraga sempre dinanzi al fatto che la religione non può essere derivata dal pensiero causale o dall’im- pulso filosofico, e neppure dalla fantasia e dal bisogno di felici- tà: ciò risulta particolarmente chiaro nelle più eminenti perso- nalità religiose, in cui opera ancora la forza completa dell’ispi- razione e la religione non si è ancora risolta in teologia, in etica o in culto, ma anche ogni fedele può constatarlo in se stesso, nella sua propria esperienza. Egli segue una coercizione che lo trascende, una tendenza verso qualcosa che non trae origine dal mondo delle esperienze sensibili e dai bisogni sensi bili, ma che doveva già essere contenuto nel sentimento prima di poter essere manifestato o postulato. Per una spiegazione realmente di tipo illusionistico resterebbe soltanto l’ipotesi — che è stata anche tentata e che da molti punti di vista sarebbe ancora la più accettabile — che si richiama a una follia conta- giosa, ad allucinazioni di visionari invasati, le quali poi si sarebbero trasmesse, in forma più debole, ai comuni fedeli mantenendo sempre un’enigmatica forza di contagio. Su un'ipo- tesi siffatta non si può naturalmente discutere: essa significa soltanto il riconoscimento del fatto che nella religione siamo sempre di fronte al fenomeno fondamentale ultimo — non ulteriormente risolubile, che rimane sempre enigmatico e in- commensurabile — della vita spirituale, e che in esso è presen- te un proprio autonomo principio di sviluppo condizionato sì dal resto della vita, ma non esclusivamente prodotto da essa. Si può quindi restare fermi, in generale, all’intuizione fondamen- tale già ricordata, ossia alla filosofia della storia di Hegel, di Schleiermacher e di Humboldt, che riconosce nella religione un fenomeno universale della vita spirituale e applica alla sua sto- ria l’idea di sviluppo, che può condurre soltanto a uno studio sempre più realistico e impregiudicato dei fenomeni specifica- mente religiosi e che dev'essere liberata dalla connessione trop- po stretta — e ancora dominante — della religione con intuizio- ni complessive di carattere metafisico ed estetico. Le questioni che scaturiscono da tale concezione sono piuttosto quelle che si riferiscono, in modo particolare, al rapporto della molteplicità e relatività storica con l’unità ultima e con la propria verità, postulato della fede religiosa. E proprio per gli storici che si immergono nella pienezza della realtà sorgono sempre di nuo- vo certi problemi: come si possa, da questo punto di partenza, Spiegare o piuttosto sostenere, in rapporto a quella tendenza all’assoluto, l'effettiva diversità delle concezioni religiose fonda- mentali, la diversità di intensità e di purezza, la debolezza di vita religiosa che caratterizza talvolta interi periodi e interi popoli. L’altra questione, che tocca in maniera ancora più im- mediata l’interesse generale, è se realmente una delle religioni concrete oppure — dal momento che esso rappresenta la gran- de religione storica dell'ambito di cultura europeo-america- no, € può praticamente costituire per noi il culmine dello svi- luppo religioso, collocandosi sicuramente, per interiorità e attività religiosa, ali sopra del Giudaismo, dell'Islam, del Buddi- smo e del Bramanesimo — se il Cristianesimo possa essere real- mente considerato il punto di convergenza della vita religio sa e il fondamento di ogni sviluppo ulteriore. Per rispondere alla prima questione occorre riflettere che il concetto di religione è rimasto, con quanto si è detto, ancora assai indeterminato e incompiuto. La storia della religione mo- stra piuttosto chiaramente, per quanto è possibile, che la religio- ne non può essere un’azione di Dio sul sentimento, chiusa internamente in sé a ogni altra realtà, immediata e sempre ripro- ducentesi in modo spontaneo. Che essa sia questo, lo afferma ovunque soltanto la teoria della mistica, cioè di quel particola- re risultato di complicati sviluppi storico-religiosi che compare ogni volta che si è smarriti dinanzi alle singole forme concrete della fede in Dio e si ritorna a un'azione ineffabile e sempre eguale di Dio sull’anima, oppure quando, rifuggendo paurosa- mente da ogni esteriorità e da ogni mediazione, si aspira a una comunanza il più possibile interiore e immediata con Dio. Il vuoto e l’auto-limitazione priva di rapporti comunitari di questa devozione, la concentrazione artificiosa che si punisce con l’irritazione e la spossatezza, il distacco dal mondo mostra- no fin dall’inizio quanto poco si tratti di fenomeni normali. Una teoria del genere passa anzi sopra fatti di importanza fondamentale. Quell’influenza divina non si compie cioè in ogni uomo in maniera nuova e autonoma, e in modo puramen- te interiore come se fosse una specie di magia dell'anima, ma si compie attraverso mediazioni di vario genere. L'impressione religiosa o — per impiegare un’immagine tratta dalla psicolo- gia empirica — lo stimolo religioso scaturisce sempre soltanto da avvenimenti e da esperienze vissute di tipo esterno e inter- no, nella natura e nella storia, nella coscienza e nel cuore. Per la grande maggioranza degli uomini l’elemento mediatore del- lo stimolo religioso è la tradizione religiosa, accanto alla quale stimoli religiosi indipendenti rivestono un'importanza solita- mente più ristretta. L’enigma proprio dello sviluppo religioso individuale consiste nel vedere come da tradizioni non compre- se, dapprima estranee e interpretate in modo infantile, sorga gradualmente la devozione autonoma, interiore e personale, la quale è cosciente, almeno nei punti più alti, della sua comunanza interiore e della sua relazione reciproca con la vita divina. Se ci si riferisce però all’origine di questi ambiti di tradizione — talvolta racchiusi l’uno nell’altro © incrociantisi tra di loro — ci si imbatte, dove è possibile risalire fino agli inizi di una religione, in personalità straordinariamente originali che, legate meno strettamente alla mediazione della tradizione, ricevono dai grandi avvenimenti della natura o della storia, dai destini della vita individuale o dai processi della loro vita interiore lo stimolo a nuove grandi intuizioni, attraendo le altre sotto la potenza della loro devozione e della loro personalità. Quanto più queste concezioni fondamentali, che compaiono in modo puramente fattuale e non possono venir derivate da altre, sono profonde e personali, e collegate con avvenimenti grandi e importanti, tanto più esse si presentano come nuclei di grandi contenuti di vita, come princìpi che si dispiegano nel lavoro di molte generazioni. I visionari, gli estatici e gli ispirati delle antiche religioni, i profeti, i riformatori e i santi sono di solito personalità di questo genere, e la loro caratteristica principale è un’enorme unilateralità che respinge tutto il resto, e mediante la quale soltanto essi possono produrre tale effetto. Ma, una volta dischiusa da essi in questo modo determinato, la comu- nanza con Dio crea un allargamento e una diffusione straordi- naria dei rapporti fondamentali così dati. Essa si sviluppa finché possiede una forza di sviluppo non ancora utilizzata e finché non viene sopraffatta da impressioni più potenti. Il fatto che nel campo della religione, come in tutti gli altri, le disposizioni e le capacità siano diverse, che il con- tenuto e la portata di un principio religioso possano essere sviluppati soltanto mediante il lavoro di appropriazione di mol- te generazioni, che l’esperienza religiosa scaturisca da elementi diversi di una realtà infinitamente varia, e che in tale maniera l’unica verità sia colta diversamente in differenti concezioni fondamentali — tutto ciò è inerente all’enigma stesso della storia, la quale distribuisce il contenuto della vita spirituale nel lavoro di miliardi di uomini, e il cui mistero è noto soltan- to a Dio. Ma tutto ciò non cancella la fede che in questa molteplicità sia vissuta una verità unitaria. Procedendo dalle differenze condizionate dal luogo e dal tempo, da particolarità personali e storico-culturali, dalla mescolanza dei nomi di divinità e delle mitologie, da alienazioni e da deformazioni infanti- li e rozze, o egoistiche e sacrileghe, fino al nucleo unitario, troviamo sempre una verità molto affine. Osserviamo il grande terrore dinanzi al mistero di un mondo soprasensibile che si introduce nel corso della vita quotidiana e che desta l’uomo, ora spaventandolo ora consolandolo, dal sonno di un'esistenza puramente intra-mondana; la manifestazione di forze divine nella natura, da cui scaturisce in definitiva una sensibilità pan- teistica; l'autorizzazione di norme etiche e giuridiche da parte della divinità, la quale si rivela come sacra ed esige anzitutto purezza e verità, dirittura e rigore nell’agire. In particolare, beni superiori e beatificanti si collocano al di sopra del mondo sensibile, un elemento permanente ed eterno si eleva sul mutare del desiderio e del bisogno, e da ciò sorge la fede nella reden- zione, che nella religione in generale riconosce la redenzione dal dolore e dalla colpa, dal carcere dell’insoddisfazione eterna- mente mutevole. Tutte queste cose possono essere viste come oggettivamente connesse, come impulsi verso una concezione unitaria; e la questione del perché gli individui prendano parte in modo così diseguale alla piena verità oggettivamente connessa non può turbare questa conoscenza, in quanto è una questione eternamente insolubile sulla terra. In base al medesimo fatto fondamentale della mediazione di tutte le spinte religiose si spiegano però, in collegamento con un secondo fatto fondamentale, anche gli altri fenomeni che abbiamo menzionato: la diversa intensità e direzione dell’inte- resse religioso, la debolezza della vita religiosa, che non sem- pre dipende soltanto da ottusità e da rifiuto nei confronti dell’e- levazione ideale o da una consapevole opposizione. Non parlere- mo qui, in quanto si tratta di cose ovvie, di quest’ultimo condi- zionamento da parte dell’inerzia, dell’egoismo, della rozzezza e dell’esteriorità, né degli effetti della lotta continua della religio- ne contro gli impedimenti ad essa opposti dalla volontà. Occor- re considerare piuttosto altre cose. L'intuizione di Dio non è isolata in sé, e neppure è un'esperienza vissuta accolta passiva- mente. Essa è fin dall’inizio rivestita di determinati tratti di simbolizzazione poetica, e opera mediante riferimenti concreti a certi campi di fenomeni naturali o etici e con determinati strumenti di espressione linguistica. Agendo come stimolo sull’anima in virtù di questo contenuto concreto, essa suscita im- mediatamente — al pari di ogni altro stimolo — una quantità di reazioni, cosicché non può mai liberarsene in tutta la sua purezza, ma in ogni momento della sua influenza è sempre indissolubilmente collegata con le più svariate reazioni psichi- che. La connessione è qui più stretta e ramificata di quanto non avvenga per qualsiasi altro stimolo, perché l’esperienza religiosa è l’esperienza dominante, che attrae o respinge ogni cosa, e perché eccita più di ogni altra il sentimento in tutte le sue sfumature. Esiste anche un'« appercezione » religiosa in vir- tù della quale lo stimolo religioso penetra immediatamente nel- la connessione di tutte le rappresentazioni e di tutti i sentimen- ti, e ne viene influenzato nella sua direzione, nella sua forza e nel suo ambito, anche se poi dà a sua volta nuove linee diretti- ve e nuove intonazioni all’intera struttura. È noto che le natu- re specificamente religiose intrecciano impetuosamente, nelle loro idee religiose fondamentali, tutto ciò che è vicino e ciò che è lontano, oppure respingono tutto quanto si oppone, o che non si connette immediatamente, come cose del mondo e cure quotidiane; allo stesso modo coloro che hanno il loro centro di gravità in altre disposizioni, adattano la religione a interessi scientifici, etici, estetici, cercando di mediarla con il resto oppu- re, dove quest’adeguazione risulta impossibile, di respingerla. Nelle condizioni di quest’appercezione, differente in ogni indi- viduo, risiede per lo più il motivo delle enormi diversità indivi- duali all’interno di ogni particolare ambito religioso, delle di- verse rappresentazioni e sensazioni religiose, della diversa posi- zione e forza dello stimolo religioso all’interno del contenuto psichico complessivo, della prevalente dipendenza dalla tradizio- ne e dal simbolo, della prevalente autonomia e reazione, della diversa misura di forza trascinante e di appropriazione riflessi- va. Quanto più sviluppata e più ricca è la vita spirituale, tanto più intricate e impenetrabili diventano le condizioni di quell’ap- percezione, e tanto più energicamente la religione richiede quel raccoglimento e quell’attenzione silenziosa allo stimolo religio- so, che si chiama devozione e preghiera. Non si deve quindi dimenticare che gli individui non stanno soli, ma innalzano, nella più stretta relazione reciproca, certe inclinazioni e certe tendenze a potenze socialmente dominanti. Così anche dal punto di vista religioso vi sono epoche prevalentemente conservatri- ci ed epoche prevalentemente critiche, in cui ora la tradizione consolidata nel culto e nella chiesa domina ogni cosa con il sentimento di una sacralità intangibile, ora un'autonomia criti- ca suscitata da sconvolgimenti generali della vita spirituale si ribella mettendo in questione la legittimità e la connessione di ogni idea. Così può esserci alla fine, dopo violente lotte religio- se, un periodo di fastidio che si rivolge alle cose del mondo e di più facile acquisizione; può esserci, sotto l’influenza di gran- di movimenti materiali, politici e sociali, o sotto l'influenza di conoscenze scientifiche, una crescente ripugnanza di grandi masse nei confronti della religione, come dimostrano per esem- pio la cultura dell’età imperiale romana, la morale confuciana delle classi superiori della Cina — non areligiosa ma assai povera dal punto di vista religioso — e le moderne condizioni della vita europea. In modo analogo si devono intendere anche le situazioni di debolezza della vita religiosa di alcuni popoli primitivi, a cui se ne contrappongono altri forniti di un fervore molto più vivo e relativamente puro. Anche qui ci sorprende di nuovo, naturalmente, la partecipazione misteriosamente dise- guale dell'individuo al valore ultimo dell’esistenza e l’inevitabi- le unilateralità di tutto cid che è umano; ma di per sé la religione è, e rimane, essenzialmente la stessa. Non abbiamo nessun motivo di dubitare della sua essenziale unità interna. Si tratta della medesima verità, che viene raggiunta da diverse parti e in un diverso rapporto con gli altri elementi della vita spirituale. Con ciò siamo di fronte alla seconda questione precedente- mente accennata: se cioè vi sia un punto di convergenza, un culmine che emerga in modo visibile, tra queste diverse conce- zioni parziali della verità o, più precisamente, se il Cristianesi- mo — che vuole esserlo — possa anche realmente valere come tale. Il motivo che ci induce a formulare in modo così determi- nato la questione non è la propensione ad assolutizzare la reli- gione in cui siamo nati e siamo stati educati, e che sola ci è completamente familiare, facendone l’essenza della verità in ge- nerale. Infatti il suo dominio non è più così ovvio e ingenua- mente immediato che si debba senz'altro sottostare a questo impulso di universalizzazione. L'ottimismo del sentimento panteistico della natura che sempre si sprigiona dall’arte antica e, dall’altro lato, l'impressione delle religioni pessimistiche e pie- ne di mistero dell'Oriente agiscono tra di noi in modo abbastan- za forte da costringerci a una decisione pienamente consapevo- le. Da questa impostazione viene fuori anche non soltanto il necessario postulato che la piena verità della religione deve pur rivelarsi in qualche luogo. In sé e per sé, ciò potrebbe essere forse riservato solamente a un lontano futuro. Se impo- stiamo così la questione, il motivo è che soltanto il Cristianesi- mo nel suo sviluppo ha avanzato in modo sempre più netto e penetrante questa pretesa. Sorretto dall’autorità del tutto inte- riore e personale — ma che conteneva in sé un residuo di incommensurabilità — del suo maestro, esso si rivolge esclusiva- mente al nucleo interiore dell'individuo, ai bisogni più universa- li, più profondi e più semplici di quiete e di pace del cuore, a un senso positivo, ultimo, definitivo dell’esistenza; si rivolge a ogni individuo senza eccezione, poiché presuppone presente in ciascuno questo nucleo essenziale ed è sicuro di poter educare tutti a tali bisogni. Pace dell’anima con Dio, e quindi supera- mento della sofferenza del mondo e di tutti i dolori della coscienza, ma anche viva e attiva realizzazione della volontà divina; il comandamento dell’amore verso i fratelli, che sono fratelli in virtù del Padre comune: ecco il suo vangelo. Da ciò scaturisce anche la comunità più salda e comprensiva, in quan- to esso fa derivare l’origine dell'essere umano dallo spirito divi- no e lo riconduce al fine della comunità con Dio e con i fratelli, costringendo ogni credente a collaborare a quella uni- versalità e al fine della perfezione comune. Esso è quindi l’uni- ca religione che pretenda una universalità assolutamente incon- dizionata, l’unica che abbia perciò prodotto dal proprio seno una filosofia della storia che connetta inizio, metà e fine della storia dell'umanità, e che in questa storia riconosca una realtà in sé internamente connessa, irripetibilmente specifica e al servi- zio di fini incondizionatamente validi. Ma soprattutto si tratta di una validità universale non asserita solamente in linea di fatto: essa scaturisce per il suo sentimento dall’intima necessità dell'essenza di Dio, che creando il mondo deve poi ricondurre a sé le sue creature traendole dal mondo e dall’errore, dalla colpa e dallo scoramento. La sua grazia non è arbitrio, e i suoi comandamenti non sono una mera statuizione; l’una e gli altri emanano dalla sua essenza e si realizzano dall’interno median-te l’amore per Dio, che per primo ha amato i suoi figli. Qui la tendenza della religione alla validità universale ha raggiunto la sua vetta: tutto ciò che è particolare, proprio di un popolo, condizionato dal mondo, è spazzato via; ogni dipendenza da una situazione meramente data, sempre incoerente, è superata dall’universalità di un fine ancora da raggiungere, ma già fon- dato nella sua determinazione e nella sua essenza. Certamente, ciò mostra anche l’unilateralità del tipo di vita determinato in modo prevalentemente religioso. Ma, secondo la legge — che domina anche la religione — della differenziazio- ne dell’essenziale, questo non costituisce nulla di sorprendente, e neppure costituisce un limite. Non si può concepire come essenza dei gradi supremi un monismo di valori culturali che non differenzia nulla, ma soltanto una costituzione dello spiri- to che sviluppi coerentemente le singole tendenze riequilibran- do le tensioni che ne sono derivate. Proprio in quella unilatera- lità il Cristianesimo raggiunge la piena interiorità e l’universali- tà puramente umana. La tensione così determinatasi, e ora più che mai aperta, nei confronti dei valori culturali intra-monda- ni dà al tutto il carattere della vita spirituale superiore, si riunifica sempre di nuovo nel lavoro vivente e consapevole. In tutte le sue trasformazioni e le sue mescolanze, in tutte le caricature e gli abomini, in tutte le stagnazioni e gli irrigidi- menti, il Cristianesimo annunciava tuttavia questa tendenza — superiore a ogni cosa — verso ciò che è individuale-personale, verso ciò che è universalmente umano, verso ciò che è totale e ricco di tensione. Lo conferma anche lo sguardo alle altre grandi religioni universali, che soltanto possono essere prese in considerazione accanto al Cristianesimo. L'Islam, il fratello più giovane scaturito dal Giudaismo insieme con il Cristianesimo, ha accolto da essi in modo puramente estrinseco questo univer- salismo, insieme alla forma della rivelazione scritturale e ai frammenti della sua filosofia della storia. Esso gli inerisce sol- tanto per l’unità del suo dio e per la semplice intelligibilità dei suoi pochi e poveri comandamenti morali, ma non discende dall’intima necessità dell'essenza del suo dio, che anzi è un dio caratterizzato da un duro e imprevedibile arbitrio. L'Islam rappresenta una regressione rispetto al Giudaismo e al Cristianesi- mo, e non ha mai potuto nascondere del tutto il suo carattere di religione guerriera nazionale araba. Il Buddismo — per vari aspetti parallelo al Cristianesimo — è fin dall'inizio soltan- to la religione di un ordine monastico, al quale possono e devono accostarsi tutti coloro che hanno riconosciuto la nullità della volontà di vivere, e dal quale scaturisce quindi un vivo impulso missionario. Ma la sua validità universale è conseguen- za semplicemente della validità universale di questa conoscen- za, non già dell’essenza di una divinità che chiami tutti a un fine comune — al cui posto si presenta qui piuttosto un ordine impersonale di redenzione. L’ordine degli illuminati presuppo- ne pur sempre la grande massa degli sprovveduti e dei laici, che forniscono sostentamento al monaco. La grande maggioran- za ritorna sempre nel circolo della migrazione delle anime e costituisce soltanto la massa da cui i sapienti si separano e della cui carità vivono fin quando scompaiono nel Nirvana uscendo dal cielo delle anime. Questo processo si ripete senza fine e senza connessione in periodi cosmici che si susseguono all'infinito; ma sempre alcuni illuminati si separano dal mondo della parvenza, e sempre la massa rimane imprigionata in que- sto stesso mondo della parvenza. Come il mondo non ha nes- sun fine positivo unitario, così non l’hanno la vita e la devozio- ne. Si aspira all’ordine e si apprezza la pace della redenzione, ma nessuna necessità interiore costringe tutta l’umanità a unir- si in vista di essa. Per quanto l'universalità della religione possa farsi valere in esso, così come nell’Islam, e per quanto venga talvolta reclamata, la pretesa dell'uno e dell’altro è — per estensione di fatto e nella sua fondazione — meno intensa che quella del Cristianesimo. Questo è l’unica religione che si riconosce e si afferma incondizionatamente, in virtù della pro- pria forza religiosa, come verità universalmente valida, e che perciò consegue di fatto ciò che è insito nella tendenza della religione in generale. Esso è l’unica religione che, in base al proprio impulso vitale, ottiene sempre la vittoria sull’inclinazio- ne all’irrigidimento dogmatico e rituale; l’unica che non si irrigidisce nella legge, né si fissa, nel concepire l’idea di reden- zione, semplicemente nella negazione. Che essa sia veramente conclusiva, e immutabile nella sua essenza per tutto il futuro, non si può certo dimostrare median- te una semplice costruzione storico-filosofica. Per quanto con- vinti possiamo essere che nella storia delle religioni ha luogo un progresso continuativo, il quale poggia sul movimento inter- no dello spirito divino in quello umano, non possiamo tuttavia proporre un concetto generale della religione come forza di questo sviluppo, e presentare il Cristianesimo come il suo neces- sario compimento. Quel concetto potrebbe essere proposto sulla base di un’esperienza difettosa ed essere trasformato in modo sostanziale da sviluppi futuri. Né possiamo indicare nel Cristia- nesimo la convergenza effettivamente realizzata delle diverse serie di sviluppo, per quanto possiamo trovarvi la trascendenza astratta del Giudaismo attenuata mediante l’assunzione degli inevitabili elementi panteistici del paganesimo, e l’antitesi supe- rata mediante un'unità superiore. Infatti soltanto ai nostri giorni si profila l’incontro tra gli abitanti del nostro pianeta, e quindi una convergenza delle diverse linee di sviluppo. La discussione e la convergenza del Cristianesimo con le religioni orientali appartiene ancora al futuro, e accentuerà forse in modo sorpren- dente nel Cristianesimo aspetti rimasti finora non sviluppati. Tutte le costruzioni del genere poggiano su un’intuizione della storia che risulta inevitabile — nella sua idea fondamentale — per ogni considerazione religiosa e idealistica, ma non sono sufficienti a fornire una prova. Questa sarebbe forse possibile soltanto alla fine dei giorni. L'unico elemento che può essere fatto immediatamente vale- re a conferma della pretesa del Cristianesimo è la circostanza che a questa sua singolare pretesa corrisponde anche un'effetti- va singolarità del suo contenuto e della sua essenza, che si presenta chiaramente a una ricerca storico-religiosa. D'altra par- te le religioni costituiscono un'unità che progredisce nel suo complesso, e si può riconoscere una tendenza generale diretta a una spiritualizzazione, interiorizzazione, eticizzazione e indivi- dualizzazione crescente, e quindi — poiché questa è la necessa- ria conseguenza — al formarsi di una fede sempre più profon- da nella redenzione: a ciò si è già accennato sopra. In tutte le grandi religioni ha luogo uno sviluppo caratterizzato in questo modo. Attraverso la liberazione dai fenomeni naturali esso spiri- tualizza le divinità, fino al tramonto di tutte le divinità particolari in un’essenza divina universale, in cui esse diventano forme del suo agire; attraverso l’eticizzazione delle singole divinità e la compenetrazione religiosa della morale esso traduce in forma etica la divinità, facendone il nucleo e il custode delle leggi etiche, e subordina la fede negli spiriti alla fede negli dèi in un’escatologia più o meno influenzata da motivi etici, mentre le divinità che non si inseriscono in questo processo diventano dèi locali, demoni e spiriti cattivi. Facendo sì che gli dèi si rivolgano alla coscienza e alla volontà, anziché semplicemente all’obbedienza culturale e alla scrupolosità cerimoniale, esso po- ne la divinità in relazione con l’individuo in quanto tale, non più soltanto con la famiglia, la stirpe, lo stato e la conclusione di un'alleanza. Con l’individualizzazione comincia infine a emergere il carattere universalistico della religione. Ma pro- prio con questo esso innalza Dio sopra il mondo e sopra la natura, facendone la fonte originaria più profonda, che si fa valere al di là di ogni finitudine e di ogni confusione, e con la divinità solleva al tempo stesso l’uomo dalla frammentarietà, dalla dispersione e dall’inquietudine del finito, così come dalla colpa e dal destino della vita terrena. Secondo la quantità di forza che fin dall’inizio ha posto nella concezione fondamenta- le, questo processo va più o meno avanti: qui si arresta prima, là più tardi. Ma anche dove le religioni pervengono a una completa altezza e maturità, dove sboccano nella mistica e nella fede nella redenzione, il limite inerente al fatto di essere sorte dall’adorazione della natura non viene per lo più supera- to. Esse conservano le tracce della loro origine particolaristi- ca e naturalistica, capovolgendosi in speculazioni sacerdotali fantastiche, in una filosofia monistica, in una mistica acosmisti- ca o — com'è il caso del Buddismo — in una metodica scettica della redenzione. L’eticizzazione già conseguita sprofonda di nuovo nell’abisso del panteismo, e la religione popolare decade in culti orgiastici o in una rigogliosa superstizione sincreti- stica, che la riporta all'antico politeismo. Soltanto «ra reli- gione ha rotto completamente l’incanto della religione naturale e si presenta, in quanto tale, in forma singolare: la religione di Israele e il Cristianesimo. Davanti all'imminente decadenza del suo popolo, la religione di Israele si è sostanzialmente svin- colata dai suoi fondamenti particolaristici e naturalistici, collegando la fede in Jahvè con la purezza del cuore e con la certezza di una chiarificazione risolutiva del corso della vita terrena alla fine dei giorni. Da questo nucleo è venuto fuori, nella persona di Gesù, il Cristianesimo, che, pur sentendo Dio più prossimo ai singoli cuori e immediatamente operante nel mondo, è però impedito da questo fondamento di ricadere nel panteismo e nella mistica di una compiuta religione della natu- ra e che, pur donando al cuore la beatitudine e la quiete in Dio, si aspetta tuttavia nella certezza della transitorietà dell’esi- stenza sensibile un mondo superiore ed esclude quindi un im- mergersi puramente immanente in Dio. In quanto esso libera non soltanto dalla sofferenza della finitudine e dalla pressione della natura, ma soprattutto dall’ostinazione e dalla pusillanimità del cuore umano, dalla debolezza e dalla coscienza della colpa, in quanto con questa liberazione del cuore e con la certezza di una comunità con Dio che supera il tempo conferisce forza per agire e amare sulla terra, il Cristianesimo rappresenta una reli- gione della redenzione di ordine superiore che sovrasta in egual misura sia il pessimismo buddistico sia la mistica neoplatonica — i due prodotti estremi della devozione extra-cristiana. In virtù di questa rottura di principio con ogni specie di religione della natura, esso porta a compimento — unico tra tutte le religioni — la tendenza alla redenzione, nello stesso modo in cui ha recato a compimento, in connessione con questa, la tendenza a una validità universale puramente interiore. In virtù di questa specificità di fatto, di questo accordo intimo tra esigenza ed essenza, noi riconosciamo nel profetismo e nel Cristianesimo il culmine, o meglio un nuovo punto di partenza nella storia della religione — il sorgere del sole dopo l'aurora, non conclusione e fine che porta alla quiete, ma inizio di un nuovo giorno con nuovo lavoro e nuove lotte. Vi sono ancora molti lati oscuri da chiarire, occorre ancora conoscere con maggiore purezza la sua luce propria. Un lavoro stermina- to sta ancora di fronte ad esso, e dalla sua forza interna risulte- rà, nel contatto con la mutevole situazione del mondo e con le altre religioni, un'ulteriore crescita della religione, certamente non costruibile 4 priori. Il fatto stesso che ne sia capace, che possieda questa capacità di costante ringiovanimento e adatta- mento, costituisce appunto un'ulteriore conseguenza della sua particolarità. In quanto religione dello spirito che — a differen- za da ogni religione della natura, sia essa approfondita in sen- so panteistico o configurata eticamente — si riferisce al nucleo interno, spirituale ed etico, sempre vivente e attivo, dell’essen- za degli uomini, il Cristianesimo possiede la forza dell’autocriti- ca e della purificazione, dell’approfondimento e del rinnova- mento; esso può sempre richiamarsi attraverso le scorze mitolo- giche alla sua essenza intima e purificarsi sempre di nuovo dalle inevitabili contaminazioni con ambiti di pensiero ad esso estranei, Il Cristianesimo non è vincolato a determinate conce- zioni della natura e a formazioni sociali transitorie e particola- ri; esso contiene un impulso di aspirazione, di attività e di perfezionamento che manca a qualsiasi mistica che si immerga soltanto nell’unità data dell’universo; contiene fini positivi che il quietismo buddistico volto solo al pessimismo non conosce; abbraccia infine la fede universalistica con una profondità ric- ca di impulso, di cui l'Islam ha potuto acquisire soltanto l’aspet- to superficiale. Poniamo per esempio il caso — in sé possibile — che l’astronomo Schiaparelli® ha ipotizzato per il nostro pianeta, traendo lo spunto dai cosiddetti canali di Marte, che cioè con il raffreddamento della terra e il restringersi dei mezzi di sussistenza che essa offre possa diventare necessaria un’analo- ga enorme unificazione del lavoro umano; e che soltanto tali lavori di protezione, intrapresi con un'estrema fatica collettiva, rendano possibile ancora l’esistenza: in tal caso dovremmo pen- sare immediatamente a infinite trasformazioni nel diritto, nel- la morale, nella società e nello stato; e sicuramente anche nella religione. Non è verosimile che un'impresa del genere possa svolgersi sotto la protezione della benedizione papale o sotto l'impulso di disposizioni di istanze ecclesiastiche superiori, o che possa essere disturbata da una disputa sul Simbolo apostoli- co. Nulla ci impedisce però di pensare che la forza dello spiri- to comune, necessaria per quest'opera, scaturisca da una viva 3. Giovanni Virginio Schiaparelli (1835-1910), astronomo italiano, autore de Le stelle cadenti (1873), delle Norme per le osservazioni delle stelle cadenti e dei bolidi (1896) e di varie altre opere, studiò in particolare i pianeti intorno alla Terra e osservò per primo i canali di Marte. I suoi ultimi studi furono dedicati a L'astronomia nell'An- tico Testamento (1903). dzione teistica, quali che siano le forme che potrebbe assu- mere in un’epoca siffatta, Come si è detto, è il significato effettivo del Cristianesimo tra le religioni, l’elaborazione di una religione della redenzione di tipo personalistico in antitesi a ogni religione della natura, non già una costruzione storico-fi- losofica conclusa, che autorizza questa fiducia. A tale fiducia non si può quindi obiettare il fatto che essa indulga al caso, il quale ci fa appunto apparire il sole della verità sopra il piccolo frammento di storia a noi noto, come sopra un'isola nel mare sconfinato. Non si tratta perciò tanto di una determinata forma storica del Cristianesimo, quanto piuttosto dell'idea della reli- gione personalistica della redenzione, la cui forma odierna — essendosi formata nel tempo — sicuramente non è nulla di eterno. Ma nel profetismo e nel Cristianesimo quest'idea è di- ventata una forza storica e si svilupperà ulteriormente, muoven- do da questa forma fondamentale, verso risultati che oggi non conosciamo ancora, né abbiamo bisogno di conoscere. Basti il fatto che, così come sono, essi significano il trapasso alla religio ne della redenzione di tipo personalistico, e che possiamo senti- re l’eterno in questo elemento temporale. Possiamo ben ammet- tere che l’origine delle grandi religioni in generale avvenga nella giovinezza dell’umanità, quando la vita è più semplice e più facile è l’incondizionato immergersi nella religione, quan- do le connessioni dell’esistenza sulla terra sono ancora meno intricate e la pura formazione di forze religiose è meno distur- bata. L’origine delle religioni della natura si perde in oscure epoche primitive che si sottraggono all'indagine. La religione di Israele con la sua duplice progenie — Cristianesimo e Islam — è una religione giovane e ha impostato il tema del futuro, in base a cui il Cristianesimo ha elaborato, come fondamento di ogni ulteriore sviluppo, la decisiva e universale verità religiosa. A ciò si aggiunge un’altra considerazione. Le variazioni della vita e del pensiero umano sono imprevedibili nel particolare, assai limitate in una prospettiva ampia. Così anche la fantasia rivolta al futuro potrà rappresentarsi non già un gioco infinita- mente oscillante di contenuti di vita spirituale fondamentalmen- te diversi, bensì un’elaborazione sempre più ardua e intricata, sempre più estesa e complicata di idee fondamentali acquisite. Tra queste idee fondamentali la più salda e la più forte sarà quella della devozione cristiana, poiché essa sola collega l’uma- nità con il fondamento permanente ed eterno della vita spiritua- le in maniera puramente interiore, e in questa connessione supera, con un'attività redentrice, al tempo stesso la necessità e la sofferenza dell’esistenza terrena. In questo modo l’intreccio della storia della religione si rischiara, e viene in luce una tendenza di sviluppo in cui possiamo riconoscere la direzione del futuro. Disperso e isolato, in lotta con la natura per la vita, commosso da impressioni e da avvenimenti nella natura, nella vita collettiva e nella vita individuale, il mondo primitivo dell’uomo produce innumerevo- li religioni, esteriormente assai diverse, ma intimamente impa- rentate, la maggior parte delle quali si sono indurite con la vita delle orde, delle stirpi e dei popoli a cui appartengono, arrestandosi al loro livello. Qui la natura e l’uomo vengono presi così come si presentano immediatamente, e da questa situazione scaturiscono impressioni religiose fornite di una capa- cità di sviluppo molto ristretta. Soltanto pochi grandi popoli realizzano, con la loro più ampia coesione nazionale e linguisti- ca, una prosecuzione e un approfondimento rispetto a questo grado di religione, in quanto i tratti fondamentali suscettibili di sviluppo vengono estesi e approfonditi, la rozza mitologia e il culto superstizioso vengono eliminati o depotenziati e tutti gli impulsi religiosi che procedono dalle nuove impressioni di vita e di cultura vengono fusi nella tradizione precedente. Essi sfociano nella religione della moralità, nel panteismo, infine nel pessimismo e nella mistica, ma si arrestano ancor sempre al mondo e all'uomo lasciandolo così come l’hanno trovato, senza indicargli fini positivi che superino la natura. Soltanto la nostal- gia e il presentimento accennano in essi a tali fini. Soltanto za religione ha definitivamente sciolto il legame che la univa imme- diatamente con la natura e, riconoscendo un dio creatore che, in quanto spirito, si distingue dalla natura, ha indicato al tempo stesso all’uomo il fine di un’elevazione positiva sulla natura materiale e la natura spirituale in esso innata. Questa è stata la religione di Israele, che rappresenta uno dei fatti più importanti all'interno della storia universale a noi nota. In quanto conclusione dello sviluppo interno di Israele e congiun- zione con il monoteismo filosofico ellenico, il Cristianesimo si è posto saldamente sul campo di rovine delle religioni naziona- li distrutte dagli imperi universali, mentre in Israele il profeti- smo si rattrappiva nel Giudaismo e accanto ad essi l'Islam racco- glieva i suoi credenti, intorno a poveri frammenti di queste reli- gioni, sul campo di rovine dell'Asia e dell’Africa. Con il sorgere di questi grandi princìpi religiosi, la produzione religiosa è diventata sempre più ristretta, e si muove soltanto più nella creazione di formazioni intermedie di tipo sincretistico o di varianti. Il futuro appartiene alla lotta delle grandi formazioni religiose. Tra di queste il Cristianesimo, in quanto punto di partenza di un grado sostanzialmente nuovo, costituisce però la forza che — ricca di tensioni con la cultura più elevata e tuttavia inscindibilmente legata ad essa — sta al centro della grande lotta mondiale, non già come sistema finito e rigido, bensì come una potenza vivente che forma il punto di riferi- mento di ogni ulteriore conoscenza e di ogni ulteriore impulso religioso, sviluppandosi ancora nel futuro secondo la legge im- prevedibile della vita religiosa. Una gran parte di questo proces- so di sviluppo, che ha già prodotto mutamenti di grande rilie- vo, si trova alle nostre spalle; mentre un momento importante di esso, cioè la progressiva differenziazione, la dissoluzione dal legame immediato con lo stato e la politica, con il diritto e la morale mondana, con la scienza e la spiegazione del mondo, la concentrazione nel suo contenuto puramente religioso e la rin- novata influenza di questo contenuto sulla situazione complessi- va, si compie davanti ai nostri occhi. Il Cristianesimo si racco- glie in se stesso e si tramuta in una nuova operosità. Perciò non deve indurci in errore la miseria ecclesiastica della sua realtà momentanea e la ripugnanza morale per le lotte interne al clero. Si tratta della tendenza al futuro che sempre ritorna di nuovo alla luce, non già della sua attuale confusione confessio- nale. È evidente che, come l’intera intuizione della storia fino ad oggi dominante rimanda alla nostra letteratura e filosofia classi- ca, così questa intuizione della storia delle religioni in particola- re ha stretti punti di contatto con le idee di Lessing, Goethe, Herder, Kant, Hegel, Schleiermacher e di altri pensatori affini. Essa cerca solamente di liberare la concezione della religione dalla prossimità eccessiva in cui questi l'avevano collocata con altre potenze spirituali. Lessing ha concepito il suo evangelium aeternum secondo un “analogia troppo stretta con la libera scien- za dell’Illuminismo, che si reggeva da sé pervenendo a dimo- strazioni in base alla propria connessione interna. Herder ha accostato troppo la religione al concetto etico di umanità e, iché vedeva questa umanità ovunque, ha troppo sfumato i confini delle religioni, mentre Schleiermacher l’ha dissolta trop- po in uno spinozismo romantico che nelle religioni vedeva soltanto i modi individualmente diversi in cui si è consapevoli dell’immanenza in Dio. Analogamente, Hegel ha conformato in modo eccessivo la religione al monismo metafisico e ha soprattutto derivato in maniera dottrinaria e rigida il suo svi- luppo dalla necessità logica del movimento delle idee, pregiudi- cando così l'originaria realtà di fatto dei suoi diversi sviluppi e la sua misteriosa potenza. Anche Goethe — questo spirito uni- versale — ha troppo commisurato la particolarità del Cristiane- simo tra le altre religioni, da lui chiaramente riconosciuta, alla propria concezione poetica e organica della matura, e ne ha invece respinto sullo sfondo gli elementi pessimistici, nella sua avversione artistica per le rotture e le catastrofi, le tensioni e le lotte. E tuttavia la saggezza della sua vecchiaia ha una serie di visioni profonde, alle quali la fede e la miscredenza attuale si richiamano volentieri come a indicazioni di uno sviluppo più soddisfacenti. Ne è testimonianza, invece di molti altri, questo brano spesso citato dei Warderjahre: « Ma quanto ci è voluto non solamente per lasciare la terra sotto di sé e per richiamarsi a un luogo di nascita più alto, ma anche per riconoscere come cose divine pure l’abiezione e la povertà, la beffa e il disprez- zo, l’ignominia e la miseria, il dolore e la morte; per considera- re il peccato e il delitto non già come ostacoli, ma per venerar- li e amarli come incrementi del sacro! In tutte le epoche si trovano tracce di quest’atteggiamento; ma una traccia non è il fine, e una volta raggiunto quest’ultimo l’umanità non può più tornare indietro e si può dire che — una volta fatta la sua comparsa — la religione cristiana non può più scomparire: una volta preso corpo divino, non può più venir dissolta »*. I suoi « misteri » dovevano appunto diventare un epos simboleggiante 4. Goetne, Wilhelm Meisters Lehr- und Wanderjahre, libro I, cap. 1 la storia della religione, che doveva essenzialmente contenere le idee fondamentali qui prospettate e che, in un frammento com- piuto, rappresenta — con il simbolo della Croce circondata di rose — il Cristianesimo come scopo finale, analogamente alle considerazioni dei Wanderjahre. Certamente, la scienza « moderna » si è nel frattempo allon- tanata in larga misura — almeno nella sua parte più cospicua — da questi fondamenti profondi della nostra cultura. Determi- nanti ai fini di questo allontanamento sono state non tanto le conseguenze scientifiche, quanto invece gli effetti di condizioni esterne che procedono dalle enormi trasformazioni pratiche del nostro secolo. Le operazioni della nuova tecnica, che tutto mo- dificano, le scottanti questioni sociali che ne derivano, il risve- gliarsi dell’egoismo nazionale, non da ultima la popolazione che si è accresciuta in queste condizioni pervenendo a un sosten- tamento migliore, hanno distolto l’interesse verso questioni cul- turali pratiche e posto al centro il problema della felicità intra- mondana. Il dogma del progresso della cultura, l’ottimismo culturale, domina l’opinione odierna, e tutte le conquiste scien- tifiche vengono viste alla luce di esso. Si fa in fretta a trarre dal periodo di pensiero storicizzante, aperto dalla nostra grande epoca, la conseguenza del relativismo, ma soltanto per togliere valore alle potenze ideali finora operanti, e in particolare al Cristianesimo, mentre si crede tranquillamente nel progresso e in una felicità assoluta del futuro. Si applica con sollecitudine la scienza naturale allo scopo di sottoporre ogni esistenza e ogni vita alle « leggi naturali », ma soltanto per ridurre a favo- le tutti i valori spirituali che vanno oltre la felicità intra-monda- na, mentre si attribuisce alla volontà umana — nei confronti della medesima legalità naturale — un potere enorme, in grado di sottometterla artificialmente alla felicità culturale. Ci si in- nalza molto al di sopra dei sogni fantastici di una metafisica alla ricerca della connessione tra mondo sensibile e mondo so- prasensibile, e si assume senza alcuna precauzione la propria situazione come il logico fine ultimo della storia, contrapponen- do al periodo della spiegazione religiosa, e quindi metafisica, del mondo il periodo « positivo », al servizio di scopi pratici puramente intra-mondani. Contro questi stati d'animo collettivi non si può fare nulla in modo diretto, tanto meno indicando le loro contraddizioni. Essi devono dispiegare le loro conseguen- ze pratiche ancor più chiaramente di quanto non sia avvenuto finora. La devastazione e l’inaridimento della vita spiritua- le, la progressiva decadenza della forza etica e della serietà religiosa, l’ottusità che si consuma nel godimento di sempre nuovi desideri devono mostrarci dove ci stiamo dirigendo in questo modo, nonostante tutti i progressi esteriori, e che una completa felicità intra-mondana è la più illusoria delle chimere. Allora ci si richiamerà di muovo al nostro migliore possesso spirituale, e in base ad esso sapremo valutare i progressi scienti- fici. Allora i gravi pericoli impliciti nella storicizzazione di ogni scienza, e anche della scienza della religione, potranno essere superati più facilmente di adesso. Non è questa la sede adatta per indagare in quale misura le intuizioni qui sviluppate possano e siano in grado di influire sulla teologia ufficiale delle chiese e delle facoltà universitarie. Finora esse agiscono in misura abbastanza forte nella configura- zione delle ricerche di critica biblica o di storia del dogma, le cui conseguenze di rado vengono tratte fino in fondo. D'altra parte esse hanno appena modificato, più che trasformato real- mente, le loro strutture sistematiche. Ma la teologia, per sua stessa natura, è qui di fatto costretta a una maggiore prudenza, e deve imporsi un certo ritegno. Essa non è pura scienza, e in ogni caso non è scienza libera; ma è piuttosto vincolata alle determinazioni giuridiche, alla tradizione effettiva, ai rapporti e agli scopi presenti, e costituisce pertanto più un compromesso con la scienza che una scienza vera e propria. I suoi compiti sono in primo luogo compiti pratici, posti dallo stato effettivo dell’istituto ecclesiastico; ed essa può rendere operanti sulla sua materia le conoscenze scientifiche in modo soltanto indiret- to, eliminando le antitesi troppo aspre, e per il resto mediando ed equilibrando. Certamente i teologi possono, in quanto uomi- ni di cultura, promuovere in modo significativo le grandi que- stioni; ma in quanto devono servire scopi ecclesiastici, sono vincolati da compiti e da rapporti pratici. In realtà, pur tenen- do conto dell'importanza della collaborazione dei teologi, le grandi questioni scientifiche sono sempre state decise al di fuori della teologia. Queste decisioni reagiranno poi sulla teolo- gia, dando luogo a una specie di equilibrio delle temperature. Il singolo teologo potrà, in queste condizioni di antitesi, distin- guere tra teologia essoterica e teologia esoterica nella misura in cui è consapevole di volere in entrambe, in verità, il medesimo scopo; ma non potrà spezzare il circulus vitiosus per cui ogni chiusura della teologia rafforza l’avversione della scienza e ogni ostilità della scienza rafforza la chiusura della teologia, almeno fin quando la straordinaria importanza della questione ecclesia- stica rimane celata alla vita complessiva di un’indifferenza illu- minata. All’interesse generale importano cose ben diverse che non le indagini specificamente teologiche. Ciò richiede che il relativi- smo storico, che in tutti i campi della vita intellettuale cerca di soffocarci nell’erudizione e di paralizzare ogni forza creati- va, venga riconosciuto come il nemico più pericoloso anche nel campo della religione, e venga quindi superato. Da tutte le parti aumentano i segni che si comincia a esserne stanchi. Si cerca di superarlo mediante l’entusiasmo patriottico, mediante l'ideale della giustizia sociale, mediante le fantasie del futuro, mediante un altruismo areligioso; si ha sete di ideali semplici, assoluti e universalmente validi. Ma tutto ciò non sarà sufficien- te. Su tale strada si riconoscerà che la patria autentica di tutti questi ideali è la religione, e che quindi occorre riacquistare la fede sicura e gioiosa in un fine assoluto soprattutto in seno ad essa. Certamente questo non può avvenire ignorando di colpo la storia e rinnegando i suoi metodi. Può invece avvenire se riprendiamo le grandi idee fondamentali della nostra letteratu- ra, filosofia e storiografia classiche e se scorgiamo nella storia il dispiegarsi di un contenuto spirituale unitario e semplice nel suo nucleo; se nelle religioni più grandi e più potenti non cerchiamo semplicemente il fenomeno storico interessante, ma la connessione con quel nucleo eterno della vita spirituale. Allora si riconoscerà di nuovo che anche la storia delle religio- ni non ha soltanto elementi, ma anche un legame spirituale, e che questo non è così difficile da trovare come ritengono le persone prudenti le quali suppongono che la verità storica sia accessibile soltanto allo studio specialistico. Non si avrà più terrore della possibilità che il capo di questo filo stia in mano nostra e richieda da noi soltanto di venire tirato in modo schietto e semplice. Se la storia è, di fatto, soltanto la lotta infinitamente complicata per il dispiegarsi di un contenuto spi- rituale semplice, ci sarebbe poi tanto da stupirci se fossimo pervenuti nel Cristianesimo al nucleo di tale contenuto, e doves- simo dar forma alla nostra realtà in base ad esso e nell’ambito della sua forza? Ci resterebbe ancora abbastanza lavoro da com- piere per riempire una dozzina di millenni.  «Religione ed economia» è un tema che tempo addietro sarebbe suonato assai strano. « Filosofia ed economia », « musi- ca ed economia», « matematica ed economia» non avrebbero suscitato stupore. Fin quando s’intendeva la religione in modo puramente ideologico come dogma o come dottrina o come metafisica, o come una morale vincolata a determinate rappre- sentazioni del cosmo, il tema non poteva che essere privo di senso. I dotti dell’Illuminismo si sarebbero riferiti con un sorri- so pieno di ironica intelligenza all'economia finanziaria dei papi, agli interessi materiali degli ecclesiastici e dei principi devoti, e in questo tema avrebbero scorto soltanto la questione dell'impulso assai comune che sta sotto cose in apparenza tanto sublimi: così Hume ha considerato la Riforma come conseguen- za di una polemica sul denaro per le indulgenze. Intorno alla metà del secolo scorso, quando per la prima volta le conseguen- ze del sistema capitalistico urtarono apertamente con le esigen- ze tecniche del Cristianesimo, si aveva certamente una compren- sione più profonda del problema. Ma qui esso si presentò come una questione puramente etico-pratica, cioè come il problema del modo in cui si potevano superare, dal punto di vista del senti- mento cristiano dell'amore e dell’educazione cristiana del carat- tere, le conseguenze devastatrici del liberalismo economico man- chesteriano. Kingsley'!, Maurice ?, Carlyle alzarono la bandiera di una riforma cristiana della società; e ad essi fece seguito, in * Religion, Wirtschaft und Gesellschaft (conferenza tenuta alla Gehe-Stiftung di Dresda, 1913), in Gesammelte Schriften, Tibingen, Verlag von J.C.B. Mohr, vol. IV, 1925, pp. 21-33 (traduzione di Sandro Barbera e Pictro Rossi). Kingsley, sacerdote anglicano, pocta e scrittore inglese, au- 844 ERNST TROELTSCH Germania, il socialismo cristiano di Stòcker® e di Friedrich Naumann ‘. Ma neppure questo è il senso del tema, quale oggi lo poniamo. Con questo tema si allude a una questione pura- mente teorica di storia della religione e di storia della cultura: l'impostazione scaturisce dalla teoria economica della storia della cultura — per lo più designata erroneamente come materia- lismo storico — che dalle grandi opere di Karl Marx si è diffusa a tutte le concezioni storiche dell’epoca. Essa era stata già pro- posta da qualche storico, come per esempio Karl Nitzsch', e aveva trovato rispondenza in particolare nella storia politica e nella storia del diritto. Essa non ha quindi nessuna connessione necessaria con il vero e proprio sistema del socialismo. Si tratta, in verità, di una questione che in parte è scaturita dall’affina- mento e dall’ampliamento avvenuto nella ricerca delle relazio- ni causali nella storia, e in parte ci è imposta dalle influenze della struttura economica sulla vita complessiva — ovunque percepibili nella nostra esperienza odierna. Nella storia poli- tica essa è diventata oggi ovvia. Ma il suo significato è molto più profondo. La connessione con i fondamenti economici ri- sulta particolarmente chiara soltanto nella storia politica e nella storia del diritto. Ma essa sussiste di fatto anche nel campo della cultura spirituale fino ad arrivare al suo centro, cioè alle intui- zioni religiose e metafisiche del mondo. Essa è in massima parte tore di numerosi romanzi, sermoni religiosi e saggi politici, fu uno dei principa- li rappresentanti del socialismo cristiano in Gran Bretagna. 2. John Frederick Denison Maurice (1805-1872), sacerdote anglicano e teologo in- glese, autore della History of Moral and Metaphysical Philosophy (1850-60), dei TAco- logical Essays (1853), delle Lectures on Ecclesiastica! History (1854), di What is Re- velation (1859), di The Conscience (1868), di Social Morality (1869) e di varie altre opere, svolse un'intensa azione educativa rivolta verso le masse operaie e ispirò il movimento del socialismo cristiano. 3. Adolf Stòcker (1835-1909), teologo protestante e uomo politico tedesco, autore di vari saggi e discorsi, fondò la Berliner Bewegung, di ispirazione cristiano-sociale, opponendosi alla politica bismarckiana e criticando pure la social-dernocrazia. 4. Friedrich Naumann (1860-1919), teologo protestante e uomo politico tedesco, autore di Demokratie und Kaîisertum (1900), dci Briefe tiber Religion (1903), di Mit- teleuropa (1915), nonché di numerosi altri scritti in parte raccolti sotto il titolo Got- teshilfe (1896-1903), fu esponente di un socialismo cristiano che aderiva ai principi di espansione imperialistica della politica guglielmina; in seguito il suo pensiero si spostò verso posizioni liberali. Fu amico di Weber e di Trocltsch. 5. Karl Wilhelm Nitzsch (1818-1880), storico tedesco, allievo c continuatore di Nicbuhr, autore della Geschichte der ròmischen Republik (pubblicata postuma nel 1884-85) e di altre opere. una connessione inconscia e non intenzionale, ma le connessioni di questo genere sono appunto le più forti e durature nella vita dello spirito. Proprio in questo Karl Marx non ha imparato invano dalla fine arte di Hegel, che con straordinaria acutezza sapeva portare alla luce gli intrecci e le mescolanze del com- plesso dei contenuti dell'anima, e ricostruire le forze fondamen- tali di quelle mescolanze. Non c’è dubbio che proprio una attenzione maggiore a queste connessioni sia in grado di get- tare moltissima luce sulla comprensione della religione come potenza pratica della vita. Forse non si esagera se si afferma che soltanto in questo modo diventa possibile una compren- sione reale della religione e del suo significato per la vita. Con ciò perviene alla coscienza un aspetto di essa che naturalmente agiva anche prima di questa chiarificazione teoretica, ma che si sottraeva alla coscienza scientifica, e se ne sottrae in gran parte anche oggi. Finora la concezione della religione era, soprattutto tra i Protestanti, puramente ideologica e dogma- tica. I Cattolici avevano una comprensione più profonda alme- no per il suo aspetto culturale e organizzativo. Il culto e l’ele- mento irrazionale in essa presenti sono stati sottolineati in misu- ra sempre più forte dalla ricerca etnografica, e in tal modo è stata sempre più delimitata l’intuizione puramente ideologico-dogma- tica dell'oggetto. Ma la stretta connessione con la vita sociale e — poiché questa è in gran parte condizionata da motivi eco- nomici — anche con la vita economica è stata considerata troppo poco. Fa eccezione qui soltanto la brillante opera di Fustel de Coulanges’ La cité antique, apparsa nel 1864, che però non ha avuto il seguito che avrebbe meritato. Soltanto la storia socialistica della cultura e le influenze da essa derivanti hanno recato il problema a un più ampio — anche se non si può ancora dire più generale — riconoscimento. 6. Numa-Denis Fustel de Coulanges (1830-1889), storico francese, autore de La cité antique (1864), della Histoire des institutions politiques de l'ancienne France (1875), poi rielaborata in una successiva edizione in tre volumi (La Gaule romane del ’gr, L'invasion germanique et la fin de l'empire del *g1, La monarchie frangaise dell'88), de L’Alleu et le domain rural pendant l'époque mérovingienne (1889), de Les ori- gines du systeme féodal: le bénéfice et le patronat (1890), de Les transformations de la royauté pendant l'épogue carolingienne (1892), nonché di alcune raccolte di saggi, studiò in particolare le basi religiose della struttura politico-sociale romana, aprendo la strada a una considerazione antropologica della città antica. Di ciò è certamente colpevole in larga misura il modo in cui tale compito è stato affrontato nella letteratura socialistica, per esempio nelle opere di Kautsky” sulle origini del Cristianesi- mo. Qui domina, nonostante alcune buone intuizioni particola- ri, la più pedantesca dogmatica della ben nota costruzione della storia: i puri rapporti economici sono la causa della strati- ficazione di classe; ogni classe si rispecchia in una metafisica e in una religione che proteggono la sua esistenza e i suoi interes- si; il Cristianesimo è il rispecchiamento utopico-trascendente della plebaglia disorganizzata e inerme della tarda antichità; questa organizzazione puramente religiosa, e quindi impotente, del proletariato, in disaccordo con lo sviluppo sociale dell’epo- ca, fu poi sottomessa dalle classi dominanti e assoggettata, attraverso certe trasformazioni della sua dogmatica e della sua etica, agli interessi della proprietà e del potere; soltanto a tratti si è manifestato — e si manifesta ancor oggi — l’origina- rio carattere proletario del movimento cristiano. Questa è certa- mente una ricostruzione del tutto fantastica dell’origine del Cristianesimo. Ma anche nell’esposizione molto più raffinata ed esperta che degli stessi processi ha fornito Maurenbrecher*, la derivazione della religione cristiana dalla psicologia di massa proletaria viene trattata come un ovvio principio di ricerca della causalità storica, e di conseguenza al Vangelo viene attri- buito un significato proletario del tutto astorico. Anche qui appare, come presupposto dogmatico, la teoria di una dipenden- za unilaterale dell'elemento religioso dalle situazioni di classe 7. Karl Kautsky (1854-1938), teorico socialista tedesco, fondatore della rivista « Die neue Zeit » nel 1883, fu uno dei maggiori esponenti della Seconda Internazionale e critico aperto del « revisionismo » social-democratico, contro il quale difese la tesi della necessità della rivoluzione. Dopo il 1917 prese posizione contro la rivoluzione sovietica e contro Lenin. È autore di numerose opere, come Das Erfurter Programm in seinem grundsdtzlicheri Teil erldutert (1892), Bernstein und das sozialdemokratische Programm (1899), Der Weg zur Macht (1909), Vorlàufer des Sozialismus (1909-21), Der politische Massenstreil (1914), Die Internationale und der Krieg (1915), Die Diktatur des Proleta- riats (1918), Ethik und materialistische Geschichtsauffassung (1922), Materialistische Geschichtsauffassung (1927). Troelisch si riferisce qui al volume Der Ursprung des Christentums, Stuttgart, 1908. 8. Max Heinrich Maurenbrecher (1874-1930), storico tedesco, autore di Von Na- sareth nach Golgota: Untersuchungen tiber die weltgeschichtlichen Zusammenginge des Urchristentums, Berlin-Schéneberg, 1909 — a cui si riferisce qui Trocltsch — e di altri volumi di argomento storico. ERNST TROELTSCH 847 condizionate economicamente: la religione è, nella sua essenza, il rispecchiamento di situazioni di classe. Qui — e anche altro- ve nella letteratura socialista — non si è tentato di illustra- re e di provare questo principio in base al materiale generale della storia della religione. Esso viene in fondo utilizzato soltan- to a scopo di polemica contro il Cristianesimo. Ma soltanto con un’indagine che si estenda a tutta la storia della religione si può mostrare il significato reale di questo principio, e anche la trasformazione quanto mai diversa di tale significato ai diffe- renti gradi della vita religiosa *. Il problema è molto più complicato. Non può esser fatto coincidere con un problema così ampio quale quello dell’origi- ne della religione. Infatti esso non può venir risolto in modo puramente storico e psicologico, e conduce a costruzioni pura- mente astratte, ben distanti da ciò che effettivamente ci mostra la realtà concreta e vivente. Esso dev'essere riferito alla vita reale delle religioni a noi note, e qui trova sicuramente abba- stanza materiale per la sua trattazione. La questione puramente filosofico-religiosa della nascita e dell’origine può quindi essere risolta. Si tratta piuttosto di chiederci: in quale misura la vita reale delle religioni ci rivela un condizionamento interno ed essenziale dell’elemento religioso da parte della vita economica, nonché da parte della struttura di classe e della stratificazione sociale in larga misura determinata da essa? e viceversa, in quale misura la vita economica ci rivela la presenza di effetti essenziali e interni dell'elemento religioso sul lavoro economi- co? Occorre pertanto lasciar da parte i contatti semplicemente accidentali e transitori, e piuttosto considerarli soltanto nella a. Un sociologo acuto e sensibile come Simmel ha cercato di acquisire e di fondare, in questa maniera più generale, le conoscenze storico-reli- giose. Egli indica nel sentimento della dedizione dei singoli membri di una connessione sociologica alla sua potenza presente in modo non sen- sibile, onnipenetrante, la radice psicologica della religione, derivando quin- di la fede nei miracoli dall’inafferrabilità di tale potenza, percepita con stupore. Soltanto attraverso l’autonomizzazione dell’elemento religioso so- prasensibile qui racchiuso nascerebbe la religione propriamente detta. Ma anche questa è semplicemente una fantasia spiritosa, che oltre tutto assu- me dal marxismo soltanto la sopravvalutazione delle connessioni dei grup pi e delle masse, ma non il loro fondamento esclusivamente economico. misura in cui ne scaturisce qualcosa di durevole e di intimo. Un tale significato di accidentale, cioè quello dell’incontro di due direzioni di sviluppo del tutto separate e tra loro indipen- denti, ma che s’incrociano in un determinato punto, non è raro nella storia, e proprio nel nostro campo dobbiamo aspettarce- lo, poiché le due forze che qui si toccano sono fin dall’inizio prevalentemente estranee l’una all'altra. Ma proprio se si rico- nosce questo fatto occorre escludere dalla nostra indagine que- gli clementi accidentali meramente transitori che rimangono, per così dire, esteriori — e che il pragmatismo illuministico collocava volentieri in primo piano — anche se essi costituisco- no una parte pratica, tutt'altro che priva di importanza, del nostro problema. Con questa impostazione si presuppone che nelle religioni considerate storicamente l’elemento religioso presente nel mito e nel culto, nel mondo della rappresentazione e del sentimento, sia qualcosa di relativamente autonomo ed entri in connessione con tutti gli interessi economici, ma non coincida mai piena- mente con essi. Tale è il caso di tutte le religioni evolute. La ricerca etnografico-antropologica sulla religione è ancora assai poco orientata verso questa impostazione, e non è perciò in grado di rispondere alla questione. Essa deve quindi restare al di fuori della nostra considerazione. Ciò è possibile, del resto, perché qui abbiamo di fronte cose che devono essere comprese non già sulla base dell’originario sviluppo preistorico dello spiri- to, bensì in base agli intrecci di una cultura in qualche misura ormai differenziata. In essa si può riconoscere ovunque la ten- denza a un’autonomizzazione della vita e del pensiero specifica- mente religioso e a un’analoga autonomizzazione del lavoro economico, che diventa così comprensibile in base al suo scopo pratico. La nostra questione può sorgere soltanto a partire dal- le influenze reciproche, in parte consapevoli e in parte incon- scie, e dal compenetrarsi delle due tendenze. Ma se queste due tendenze sono distinte nella loro essenza, il loro contatto non può essere affatto diretto. Né le religioni sono ideali economici, né le forme e gli interessi economici sono leggi religiose. I contatti sono soltanto mediati. La questione consiste allora nel determinare in che cosa consista quell’entità mediatrice; e la risposta è molto semplice. Essa consiste nelle grandi forme ERNST TROELTSCH 849 sociologiche dell’esistenza, che da un lato vengono continua- mente create dalla religione e, una volta assicuratesi tale fonda- mento, incidono nel modo più profondo su ogni lavoro econo- mico, dall’altro sorgono su fondamenti economici — tra gli altri — assorbendo nella loro onnipotenza il mondo della rappre- sentazione religiosa. Già Fustel de Coulanges aveva posto la questione in modo straordinariamente chiaro e aderente. Egli mostra come tra gli Indiani, i Greci e i Romani la forza organizzativa del culto religioso dei morti o degli antenati pone i fondamenti della famiglia patriarcale, del diritto familiare e privato, della pro- prietà privata del suolo, dell’economia domestica o familiare chiusa, della posizione giuridica delle donne, dei figli e degli schiavi. Una volta consacrate e vincolate religiosamente, queste regole conservano un potere enorme sulla vita pratica. In base ai loro princìpi si compie l'associazione in curie e in fratrie e infine, con forme di culto del tutto analoghe, il sinecismo verso la città, mentre tutta la vita della polis rimane — nel diritto e nel costume, in guerra e in pace — vincolata a un sistema rituale che ha la massima importanza per tutta la vita politica, per tutto il diritto e, attraverso di questo, anche per ogni lavoro economico. Qui è chiarissima l’iniziativa fortemente de- terminante dell’idea religiosa e dell’organizzazione sociologica da essa creata. A questo punto ci si può certamente domandare se, all’inverso, questa configurazione del culto degli antenati non dipenda dall’acquisizione di una dimora stabile e dalla transizione dell'agricoltura, cosicché l’iniziativa sarebbe di nuo- vo dalla parte della vita economica e questa fornirebbe le condi- zioni necessarie per la tendenza decisiva di sviluppo del culto religioso degli antenati. Una comparazione con lo sviluppo del culto presso popoli nomadi e semi-nomadi, come i Tartari e i Mongoli, dovrebbe dare qui un chiarimento. In relazione agli Israeliti, il sociologo americano Wallis*® ha di fatto mostrato come la venerazione religiosa del dio-clan della grande fami- glia e la comunità nomade che stava sotto la sua protezione abbiano durevolmente impresso al popolo di Israele il carattere 9g. Wallis, sociologo americano, autore del volume Messiahs: Christian and Pagan, Boston, 1918 — al quale allude qui Troeltsch — e di vari manuali di sociologia e di antropologia. di una morale economica primitivo-conservatrice o di una reli- gione della solidarietà tribale contrapposta a una religione citta- dina. Questa morale primitiva della fratellanza, colorata di socialismo, che si pone in antitesi alla cultura della città e del regno mondano, sarebbe poi stata sublimata e interiorizzata dai profeti nella morale religiosa umanitaria che conosciamo dalle più nobili leggi e profezie dell’Antico Testamento. A questi esempi si potrebbe accostare la struttura delle caste indiane e la loro connessione con il mondo della rappresentazione religio- sa, da cui è determinato il carattere economico dell’India; © anche il culto familiare cinese, che possiede una grandissima importanza per la struttura sociale dell'impero e quindi per ogni modo e direzione di lavoro economico. In ogni caso è chiaro che abbiamo qui davanti relazioni straordinariamente strette, ma sviluppate e mediate in modo piuttosto vario, che incidono profondamente da entrambi i lati — da quello della religione e da quello del lavoro economico — sulla totalità dello spirito e del senso della vita. Si tratta — come ha posto giustamente in luce Fustel de Coulanges — di un rapporto di azione reciproca che può essere determinato sempre soltanto caso per caso e in cui è molto difficile, a causa del carattere inconscio dei processi, stabilire l'iniziativa dell’uno o dell’altro elemento. Il medesimo studioso indica però anche, in modo non meno chiaro e intuitivo, la graduale rottura dell’ordinamento sociale, condizionato dalle originarie potenze sociologico-culturali, da parte del razionalismo degli interessi economici e politici — il quale impara a seguire i propri impulsi — non appena vi siano masse sufficientemente vaste i cui bisogni non vengono più soddisfatti nel vecchio sistema socio-culturale. In base all’esem- pio dei Greci e dei Romani, egli descrive le rivoluzioni rivolte contro l’ordinamento e il legame religioso della società, il razio- nalismo dei bisogni che in esse si sprigiona e i tentativi di nuove ricostruzioni razionali della società che poi, reagendo sull’etica e sulla dottrina sociale della filosofia, cercano di crear- si un nuovo ideale etico. A ciò si può aggiungere che una rivoluzione siffatta si è relativamente affermata ed è penetrata soltanto in Grecia e a Roma. Nel resto dell’umanità dominano ancor oggi — prescindendo dagli ambiti delle religioni universali di cui avremo occasione di parlare tra poco — quelle stesse situazioni di vincolo sociologico-culturale della società e dell’e- conomia. Basta fare riferimento, per esempio, al libro di viaggi dell'americano Henry Frank" Peter the Hermit (New York, 1907), con le sue immagini della società colte dal basso, per avere l'impressione immediata dell’effetto di queste cose sulla vita economica pratica e, reciprocamente, prove stupefacenti della divinizzazione religiosa degli ordinamenti esistenti. In questo consistono le difficoltà politico-religiose del Giappone moderno, il quale ha scelto il razionalismo dello stile economi- co europeo e non può conciliarlo con i fondamenti sociologi- co-culturali della sua vita precedente. Da ciò derivano gli esperi- menti religiosi che ora intendono creare artificialmente una nuova religione statuale e imperiale, ora cercano un appoggio nel Cristianesimo, ora si accontentano dell’indifferente ateismo europeo. Non è però possibile seguire qui il tema in questa sua enorme estensione; si deve piuttosto fare riferimento a un singo- lo punto determinato. A ciò siamo indotti anche dal fatto che la religione etnica del culto degli antenati e dello stato — la sola che abbiamo finora toccata — non è affatto dominante in modo esclusivo. Essa ha subìto rotture in singoli punti, ad opera di religioni universali e spirituali, la cui essenza consiste soltanto nell’idea di Dio, nell’ethos, nel sentimento, nell’intui- zione religiosa del mondo, e che producono di conseguenza forme sociologiche del tutto differenti. In luogo della comu- nità di culto coincidente con determinati gruppi naturali, com- pare qui la comunità religiosa di idee e di sentimenti — cioè una comunità universale e propagandistica. Pertanto anche il rapporto tra religione ed economia è completamente diverso. Si tratta del Buddismo e delle tendenze ad esso affini in Oriente, del Giudaismo con le sue due grandi ramificazioni — Cristia- nesimo e Islam — in Occidente. Certamente, anche queste nuove formazioni religiose non sono sorte senza una preistoria 10. Henry Frank (1854-1933), predicatore prima metodista e poi congregaziona- lista, passò infine a una forma di religione liberale con simpatie positivistiche. Fon- datore della Rationalist Society di New York nel 1897, scrisse tra l'altro numerosi romanzi filosofici (tra cui quello citato nel testo) e un poema allegorico dal titolo The Last Enigma (1924). sociale, e quindi anche economica, che le condizionasse. Qui però non possiamo approfondire ancora quest’elemento: basti rile- vare che emerge ora un concezione e una posizione in linea di principio nuova del nostro problema. Qui l’idea religiosa è essa stessa un'idea etica e metafisica; essa comporta non più soltanto in modo mediato, attraverso le sue conseguenze sociologiche, ma anche in modo immediato, attraverso la sua valutazione religiosa della vita, una presa di posizione nei confronti della vita sociale ed economica. Tuttavia essa è diversa nelle diverse religioni che abbiamo elencato. Il Buddismo considera i vecchi ordinamenti di casta conservati dal culto come indifferenti; li lascia comunque sussistere e non crea affatto una propria auto- noma comunità religiosa. Così esso agisce con la piena coerenza della sua idea — che consiste nella totale assenza di proprietà — soltanto attraverso i suoi specifici portatori, i monaci; per il resto lascia sussistere gli ordinamenti così come sono, e im- pedisce solamente il sorgere di ogni vita razionalistica diretta al profitto, che potrebbe distruggerlo. Tra le religioni occiden- tali il Giudaismo ha acquistato notoriamente un’enorme impor- tanza economica, la quale in parte è fondata sull’accettazione attiva del mondo implicita nella sua fede nella creazione e sulla considerazione religiosa delle virtù della diligenza, del- l’operosità, della sobrietà, ma per la maggior parte è scatu- rita dai suoi destini storici? In verità, nel Giudaismo la religione rimane anzitutto legata a un saldo contesto popola- re, e la sua etica economica e il suo atteggiamento verso l’econo- mia sono influenzati da quest'idea fortemente terrena del futu- ro e della destinazione del popolo eletto. Qui la frattura dell’e- lemento religioso con l’elemento sociale — e quindi anche con quello economico — non si è ancora compiuta. Ma essa non è avvenuta neppure nell'Islam, che rimane internamente legato, attraverso il Corano e il suo specifico diritto, a gradi primitivi di organizzazione della società e a livelli primitivi di economia. a. Nel ben noto — e per molti versi illuminante — libro di Sombart!! quest'ultimo elemento è sottovalutato, almeno quanto è sopravvalutato il primo. 11. Troeltsch si riferisce qui alle tesi sostenute da Sombart in Die /uden und das Wirtschaftsleben, Munchen. Ciò costituisce la base della forza e del successo della sua missio- ne tra le razze inferiori, ma anche della sua debolezza e della sua ostilità nei confronti dello stile economico europeo. Questo non è infatti conciliabile già con la natura primitiva del diritto islamico e con i suoi giudizi da cadì. La liberazione reale dell’interiorità religiosa e della comunità religiosa separata da tutti gli elementi sociali ed economici ha avuto veramente luo- go soltanto nel Cristianesimo, ma pur sempre in modo tale che essa non significa una completa negazione ascetica del mondo, ma si richiama nel medesimo tempo — insieme con il Giudai- smo — alla bontà della creazione e al significato del mondo come luogo di lavoro. In ciò è però contenuta non già una soluzione particolar- mente chiara del problema, ma piuttosto un’impostazione più difficile e complicata del compito. In particolare si deve bada- re ai seguenti punti di rilievo. In primo luogo, con questa totale interiorizzazione e spiritua- lizzazione della religione, essa viene liberata dalle sue implica- zioni con la vita sociale ed economica. Ma ciò significa anche che influenze e determinazioni dirette su questo mondo profa- no della vita possono svilupparsi dall'idea religiosa soltan- to con grande difficoltà. Tale idea si muove sempre a un'altez- za ideale che si contrappone indifesa ai concreti rapporti della vita e alle loro potenti formazioni di interesse. In particolare ciò significa, reciprocamente, che il lavoro economico rimane ora abbandonato a se stesso e può sviluppare, del tutto indistur- bato, il suo razionalismo degli interessi e delle opportunità come un principio puramente mondano. Ma dato che il razio- nalismo della vita economico-sociale si configura, in ultima ana- lisi, come lotta economica per l’esistenza 0 come concorrenza, questa etica religiosa si contrappone ovunque alla lotta raziona- le per l’esistenza, che non può mai impedire direttamente. Il mondo delle idee religiose non possiede nessun mezzo suo pro- prio e diretto per organizzare € per interrompere tale lotta, e si rivolge ai mezzi razionali con cui la stessa visione profana degli scopi si propone di regolarla. La santificazione religiosa del carattere e l’amore fraterno non sono in grado di risolvere in modo diretto, e di per sé soli, questi problemi. Il libro dell'inglese Benjamin Kidd Social Evolution!" — a suo tempo oggetto di larga considerazione, e a cui lo zoologo A. Weis- mann ha premesso un’introduzione — ha riconosciuto in modo molto aderente questo stato di cose, contrapponendo il raziona- lismo della lotta per l’esistenza, come principio puramente ra- zionale, al principio religioso dell’autorità e dell’ordine sulla base dei sovrastanti princìpi dell'amore. Se però le cose stanno in questo modo, allora la soluzione del problema riposerà sem- pre su qualche mezzo atto a far tacere, o almeno a regolare, la lotta per l’esistenza, ma che la religione non può mai sviluppa- re semplicemente da se stessa. Essa dovrà sempre fare affida- mento su qualche auto-regolamentazione razionale o accidenta- le di quella lotta per l’esistenza che sia ad essa favorevole e che le venga incontro, ma che essa può soltanto cogliere e fissare. Si tratterà però sempre di compromessi e di equilibri con la vita reale. In secondo luogo, l’idea religiosa dominante sembra qui essere, in sé e per sé, di natura puramente religiosa e ideologi- ca. Infatti il punto di partenza non è un vincolo immediato della vita naturale da parte del culto, una coincidenza tra cer- te forme naturali e le forme culturali della comunità, bensì l'ideale etico. Ma la sua indipendenza è anche qui molto condi- zionata. Il rapporto reale è molto più complicato di quanto non appaia a prima vista. In verità, anche qui gli ideali fonda- mentali non sono affatto così liberi dal sostrato reale e concre- to sul quale, e nei confronti del quale, si elevano. Gli ideali di Gesù sono connessi con il grado di economia e con le situazioni climatico-naturali della Galilea: non sarebbero potuti nascere in una grande città moderna. In modo analogo, tutti i successi- vi ideali economici dell’epoca cristiana recano, inconsapevol- mente e involontariamente, l'impronta del suolo su cui sorgo- no. Essi contengono sempre qualcosa che appartiene all’epoca e alla situazione, ma che non percepiscono come tale e che fissa- no in forma di verità eterne, di comandamenti divini, di inter- pretazioni della Bibbia. Come il mondo ideale della Bibbia lascia ovunque trasparire il fondamento sociale ed economico 12. Social Evolution, London, 1894; tr. ted. col titolo Soziale Evolution, Jena, 1895. La prefazione di Weismann è premessa a questa traduzione. su cui poggia, così tutte le successive interpretazioni della Bib- bia sono da parte loro condizionate dalle idee ovvie che le circondano e che esse presuppongono. Cattolicesimo, Luteranesi- mo, Calvinismo, sette e mistici leggono la Bibbia in base a certi determinati presupposti sociologici, considerati come ov-vi, che vogliono vedere confermati e regolati dalla Bibbia. Al- l'inverso, anche i tipi di azione in apparenza soltanto filosofici e razionalistici, o che si presentano come costume e come pras- si, sono inconsciamente determinati da presupposti cristiani, e nei sistemi che pretendono di essere completamente profani vi è una ricchezza di spirito cristiano. Il rapporto deve qui essere ogni volta illuminato e stabilito caso per caso. Qui non vi sono quelle leggi e formule generali di sviluppo progressivo, tanto care al moderno bisogno di generalizzazione. Si tratta di un gioco di forze che oscilla avanti e indietro, il cui risultato dev'essere determinato in ogni caso particolare di un'idea econo- mico-sociale che domina i grandi periodi. In terzo luogo, occorre considerare che, proprio per la sua pura interiorità e per l’autonomia dell'elemento religioso che viene qui elevata al massimo grado, l’idea cristiana non possie- de alcun mezzo di influenza diretta, e che anche le esigenze etiche molto idealistiche non sono, di per sé sole, un mezzo del genere. Essa esercita le sue influenze principali — nonostan- te la pretesa spesso avanzata di un condizionamento diretto puramente ideologico — non già attraverso l’esigenza etica ma indirettamente, attraverso le forme di comunità religiosa da essa create. Queste scaturiscono da idee dogmatiche, di culto e puramente religiose, e non vengono mai progettate a scopi sociali profani; tuttavia possiedono una potenza organizzatrice e vincolante, che nessuna formazione sociale del puro raziona- lismo possiede. Con queste forti forme sociologiche esse ab- bracciano però anche — analogamente a quanto ha mostrato Fustel de Coulanges per gli antichi culti degli antenati e della città — la vita complessiva, e costituiscono la sua ovvia base etico-spirituale. Nel Cattolicesimo e nel Protestantesimo è certa- mente presente qualcosa del terreno sociale da cui traggono la loro linfa vitale. Ma l’organizzazione sociologico-religiosa del- l’autorità, dell’istituzione, dell’individualismo ha determinato in misura ancora maggiore la generale atmosfera culturale, e soltanto per il suo tramite è stata influenzata la vita profana nell'economia e nella società. Nonostante l’apparente autono- mia dell’ideologia etica sussiste anche qui il problema marxi- stico, ma in modo che esso non significa semplicemente la dipen- denza dell’elemento religioso da quello sociale ma anche, reci- procamente, la dipendenza dell'elemento sociale da quello reli- gioso. Ciò che si presenta nel caso singolo non può venir chiari- to da una teoria generale, ma soltanto da un’indagine condotta caso per caso. Partendo da ciò risulta parimenti chiaro che il razionalismo economico, laddove perviene a un'autonomia illi- mitata, si volgerà contro questi vincoli sociologico-religiosi e cercherà di rendersene del tutto indipendente. Non sono dunque soltanto l'impossibilità di abbracciare il pro- blema in tutta l'ampiezza della sua realtà storico-religiosa, la limitazione della sua osservazione e della sua conoscenza ai pochi punti finora accessibili, e la necessità di indagarlo sem- pre concretamente caso per caso, che hanno in ultima analisi li- mitato l’indagine all’unica religione che ci è, da questo punto di vista, perfettamente familiare. E neppure è la sua importanza per la nostra cultura — che ha peso pratico soltanto per noi. Si tratta piuttosto, in primo luogo, della particolare importanza in- trinseca che, da questo punto di vista, il Cristianesimo riveste. Esso si è sviluppato sulla linea di confine tra Oriente e Occidente, dall’umanità religiosamente fondata e dalla speran- za di redenzione dei profeti di Israele, e si è quindi configu- rato — svincolandosi completamente da tutte le condizioni na- turali e sociali — nella forma della più pura interiorità religio- sa e della fratellanza umana, e al tempo stesso nella forma di una radicale speranza di redenzione, che si aspettava dal cielo lo stato corrispondente ai suoi ideali come un’imminente fonda- zione miracolosa del regno di Dio. Questo ethos e questa spe- ranza di redenzione si sono uniti con la venerazione religiosa del nunzio del regno di Dio, dando così luogo a una nuova comunità umana puramente religiosa e culturale ed essendo poi costretti, per il mancato avvento del regno di Dio, ad applicare il loro ideale — come regola di vita della Chiesa — alla vita pratica e duratura nella società e nell’economia. In tal modo ha avuto immediatamente inizio il problema, che perdura fino ai nostri giorni. STORIA E DOTTRINA DEI VALORI * Il problema è quello della creazione della sintesi culturale contemporanea sulla base dell’esperienza e della conoscenza sto- rica. Ciò ha condotto alla connessione del comprendere storico- individuale con l’idea di un criterio. Questo criterio si è però dimostrato complicato, in quanto racchiudeva in sé una duplice applicazione all’accaduto e al futuro, assumendo un diverso significato nei due casi. Esso comportava da un lato la misura- zione dell’accaduto in base agli ideali ad esso di volta in volta propri, dall’altro la direzione verso il dover essere da produrre nel presente, il quale non può scaturire da un’astratta ragion pura, ma solamente in stretto contatto con le possibilità e le tendenze effettive del momento. La connessione di questi due momenti del criterio risultava infine nell’idea dell’indivi- dualità di ogni formazione presente di un criterio, in quanto questa è anche, da parte sua, una formazione e creazione della vita storica. Tale essa apparirà agli storici futuri, e fin da ora dobbiamo comprenderla e sentirla in questo modo. Tutto pog- gia perciò anche qui sull’idea di individualità; solo che ora in questa idea non compare soltanto la fatticità del particolare e del singolare, come avviene prevalentemente nella logica empi- rica della storia, ma l’individualizzazione di volta in volta di un ideale, la concrezione di un dover essere. In questo nuovo e più profondo senso dell’individualità idea e fattualità sono ora, già nell’accaduto, una cosa sola; e lo sono l’una e l’altra anche, ® Der Historismus und seine Probleme, 1. Uber Masstàbe zur Beurteilung histo- rischer Dinge und ihr Verhdltnis zu cinem gegenwirtigen Kulturideal, sezione 5: Ge- schichte und Werilehre, in Gesammelte Schriften, Tiùbingen von J. C. B. Mohr, vol. III, 1922, pp. 200-221 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi). e con un interesse pratico ben altrimenti rafforzato, nella forma- zione di un criterio e nella sintesi culturale contemporanea; in tale senso poggia infine anche la connessione delle tendenze ideali trascorse con quelle da creare muovendo dal presente. La comprensione di questa connessione è però una questione di azione e di creazione intuitiva, per la quale non esiste nessun’al- tra oggettività al di fuori della coscienza del fatto che, essendo creata da un tratto interno della storia stessa, si conferma nella coscienza come vincolante e nell’esperienza come feconda. È chiaro — ed è stato più volte sottolineato — che in questo modo si passa dal terreno della pura logica storica al terreno di una nuova regione scientifica. È il terreno della dottrina dei valori o assiologia, come oggi si usa dire. L’intestazione di questo capitolo avrebbe quindi potuto anche essere « Storia e dottrina dei valori» — esattamente come quello precedente avrebbe potuto anche intitolarsi «Storicismo e naturalismo ». Se sono stati preferiti i titoli sopra segnati, lo si è fatto per ottenere la massima prossimità ai problemi della vita di oggi e per evitare un’astrattezza troppo esangue. Ma da un punto di vista puramente logico si è compiuto, in questo capitolo, il trapasso dalla storia alla dottrina dei valori; si è cioè entrati in questa nuova regione scientifica attraversando la porta del con- cetto di individualità, che solo può condurre dall’una all’altra. E lo può perché il concetto di individualità non significa soltan- to la particolarità puramente fattuale di un complesso storico- spirituale dato di volta in volta, ma significa al tempo stesso un’individualizzazione dell’ideale o del dover essere, che certo non si realizza compiutamente in ogni forma particolare, ma che aspira a realizzarsi e che in essa si incorpora, secondo le circostanze, più o meno felicemente *. Entrare nella regione a. Sulla.« progressiva scoperta del regno dell’individuale, che lo spi- rito tedesco intraprese con focoso zelo », si veda F. MEINEcKE, Weltbiir- gertum und Nationalstaat, Miinchen und Berlin, 1908, p. 277. Significa- tiva è anche l'osservazione sulla duplicità dell’individuale che viene qui presupposto, cioè il suo aspetto fattuale e l'aspetto della doverosità: si veda a p. 281, dove si rimanda a Novalis! e a Ranke (nonché a Humboldt). 1. Friedrich Leopold von Hardenberg, detto Novalis (1771-1801), uno dei mag- giori poeti romantici tedeschi, autore degli Hymnen an die Nacht (1797), del romanzo incompiuto Die Lekrlinge zu Sais (1798), di un altro romanzo anch'esso non condotto a della dottrina dei valori per questa porta non costituisce la regola; e tuttavia ciò è imprescindibile per una filosofia materia- le della storia, cioè per poter pensare e porre il valore in base alla storia. Si tratta del primo grande problema di ogni filoso- fia della storia, rispetto al quale tutti gli altri passano in secon- da linea. Rimane da dire ancora qualche parola polemica in merito alla consueta configurazione della dottrina dei valori nella filosofia moderna. Che cos'è la teoria generale dei valori o assiologia? Come si coordina con le scienze della natura e dello spirito — entram- be scienze del reale, fortemente e coercitivamente determinate nel loro rapporto con l'oggetto — nel g/obus intellectualis delle scienze? È una scienza empirica o @ priori, formale o mate- riale? Questa impostazione influenzata dal neokantismo, e oggi così predominante, è però troppo semplice ed esclusiva. In veri- tà nessuna scienza è puramente empirica, ma ognuna è frammi- sta di princìpi di elaborazione @ priori; e d'altra parte nessuna scienza è puramente formale, ma comporta sempre un'elaborazione dei fatti dell'esperienza e delle realtà vissute, con la cui materialità sta al tempo stesso in stretta connessione — prescindendo naturalmente dalla logica formale (si può qui trascurare l'ardua filosofia della matematica, ossia la questione se sia puramente formale e 4 priori, oppure anch'essa carica di sen- sibilità e di intuizione). In ogni caso la dottrina dei valori non può quindi essere una scienza puramente 4 priori e formale. An- ch’essa rivela princìpi di elaborazione della realtà vissuta che stanno in stretta connessione con questa e che possono venir trovati soltanto in base all’analisi della vita reale. La sua distin- zione dalle altre scienze della realtà consiste soltanto nel diver- so significato e nella diversa posizione che i princìpi di elabora- zione a cui essa fa riferimento hanno nei confronti della realtà vissuta. Questi si propongono non già il collegamento esisten- ziale e oggettivo del reale, ma la sua valutazione e formazione soggettiva e normativa. Ma, come quelle forme di collegamen- to si connettono strettamente con l’essenza del reale, così anche queste norme di valutazione e di formazione si connetto- termine su Heinrich von Ofterdingen (1799) c di Fragmente di argomento filosofico. Il suo pensiero storico-politico è esposto in Die Clristenheit oder Europa (1799), roman- tico vagheggiamento dell'unità del mondo cristiano medievale. no indissolubilmente con le tendenze di contenuto già presenti nella vita reale. Perciò, come quelle forme possono essere astrat- te soltanto dalle scienze già esistenti e reagiscono poi sulle scienze in forma più raffinata e sistematizzata, così anche que- ste vengono tratte da valutazioni e formazioni effettive. Ciò può accadere soltanto in virtù di una fenomenologia comprensi- va, quale è stata oggi ormai intrapresa, soprattutto da parte della scuola fenomenologica. Tutte le valutazioni, anche quelle più soggettive, più accidentali e più legate ai sensi, vengono in tal modo collocate su un terreno comune insieme con quelle più oggettive, più ideali e più svincolate dalla sensibilità, per poter poi rintracciare su questa base le diverse classi di valori e la loro legge essenziale, e per poter infine ricondurre il rappor- to reciproco delle varie classi di valori a una legge universale, che naturalmente è una legge concernente non l’essere ma il dover essere, pur essendo, in quanto tale, sempre profondamen- te radicata nell’essere. Non è qui il caso di inoltrarci in partico- lari assai spinosi. È necessario sottolineare la cosa principale, cioè che questo inquadramento complessivo dei valori ha il significato di mostrare fondamentalmente l’essere vivente non già come un essere contemplativo e riflessivo, ma come un essere che agisce praticamente, che sceglie, lotta e tende a qual- cosa, in cui ogni mera intellettualità e ogni mera contemplazio- ne si pone, in ultima istanza, al servizio della vita, sia essa animale o personale-spirituale. Ciò è importante, nel suo signifi- cato assolutamente decisivo, anche per il nostro argomento. Altrettanto importante è però mettere in rilievo che, a un’anali- si più prossima, l’unitarietà di questi valori pratici — inizial- mente ammessa — si articola immediatamente nei valori mera- mente animali e nei valori personali-spirituali della cultura, ai quali appartiene il carattere formale della doverosità e dell’im- pegno alla- realizzazione. Particolarmente significativa è poi, sempre all’interno di questi ultimi, la scissione tra le conse- guenze tratte dalla doverosità formale — le quali, in quanto doveri individuali e doveri comunitari, designano l’elemento morale in senso stretto® — e i contenuti culturali, di cui si a. Di questa scissione si dovrà ancora parlare nell'analisi conclusiva sull’etica e sulla filosofia della storia. tratta nelle scienze della cultura o nelle scienze sistematiche dello spirito relative allo stato, al diritto, all'economia, all’arte, alla religione e alla scienza (per lo meno nella misura in cui questa è bene culturale e non logica). Il fine ultimo di quest’a- nalisi è perciò naturalmente, come ogni volta che si confidi nell’unità e nel senso del reale, la sintesi in vista di una costru- zione e di un sistema dei valori in cui il presupposto di questa fiducia — che è, in ultima analisi, una fiducia religiosa — non dev'essere dimenticato, e in cui anche l’intera questione dell’esi- stenza e dell’origine di questi valori nell’essere vivente finito deve riportare al rapporto della coscienza assoluta o Dio con la coscienza finita. La dottrina dei valori conduce necessariamente a sfondi metafisici in cui dev'essere risolto, in particolare, anche il problema del rapporto tra vita e materia della vita, tra dover essere ed essere ?, a. Purtroppo lo sviluppo e la formazione storica della dottrina dei va- lori non sono ancora stati studiati in maniera sufficiente. Sarebbe urgente un libro in proposito del tipo della Geschichte des Materialismus di Lan- ge? o dell’Erkenntnisproblem di Ernst Cassirer3. Le esposizioni attuali prendono invece le mosse soprattutto da Lotze, che ha dato inizio al mu- tamento propriamente moderno della metafisica in una dottrina dei valori e ha quindi inserito, come in ultima istanza decisive per il contenuto della metafisica, le idee della dottrina kantiana della ragion pratica su una base metafisica alquanto più ampia. La dottrina dei valori costituisce di per sé un problema molto più antico e comprensivo, e l’inserimento kantiano-lotziano nella metafisica è soltanto una delle molte forme pos- sibili di collegamento con la metafisica. Il suo problema ultimo, più ca- ratteristico e generale consiste quindi nella permanente conversione dell’es- sere nell’aspirazione e nel dovere, e di questi ultimi nuovamente nell'es- 2. F. A. Lance, Die Geschichte des Materialismus und Kritik seiner Bedeutung in der Gegenwart, Iserlohn, 1866. — Friedrich Albert Lange (1828-1875), filosofo tedesco di orientamento neokantiano, fu altresì autore di Die Grundlagen der mathematischen Psychologie (1865), di Die Arbeiterfrage in ihrer Bedeutung fiir Gegenwart und Zukunfe (1865), dei Neue Beitrige zur Geschichte des Materialismus (1867) e delle postume Logi- sche Studien (1877). 3. E. Cassirer, Das ErZenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschafe der neueren Zeit, Berlin, 1906-1920 (il quarto e ultimo volume sarà pubblicato in inglese a New Haven, nel 1950). Cassirer, filosofo tedesco di orientamento neokantiano, autore di Stbstanzbegrif und Funktionsbegriff (1910), della Philo- sophie der symbolischen Formen (1923-1929), di Zur Logik der Kulturwissenschaften (1942), di An Essay on Man (1944) e di altre importanti opere di storia della filosofia, in particolare sul Rinascimento e sull'Illuminismo, sviluppò l'impostazione neocritici- stica propria della scuola di Marburg nel senso di una « filosofia della cultura ». In tal modo non è stata ancora caratterizzata abbastanza la specificità di questa scienza, e soprattutto non è stata illustrata la particolarità dell’attuale stato del problema, sottoposto a oscillazioni così sensibili. Essa pure riesce a fare completa chia- rezza sul metodo e sul fine soltanto se, anche qui, si ritorna alle radici dei punti di vista e delle terminologie moderne, cioè alla svolta cartesiana verso la filosofia della coscienza, da cui abbiamo già visto scaturire il naturalismo e lo storicismo. Ciò che qui inganna è soltanto la circostanza che l’equiparazione terminologica di tutte le reazioni pratiche, sia del sentire sia del volere, in quanto valori, è dovuta alla filosofia moderna successiva a Lotze e all’influenza dell'economia politica. In sé e per sé, invece, l'impostazione è antica e coincide con il carte- sere — un problema che non può venir risolto in base ai presupposti della logica puramente formale e astratta della riflessione, ma che rimanda a quel piano meta-logico giù sopra accennato. Se viene mantenuto sul piano della logica astratta della riflessione, esso conduce sempre ad antinomie e a impossibilità, a semplici accostamenti tra essere e dover essere, tra causalità e teleologia, tra determinismo e libertà, tra immobilità e mo- vimento, tra rappresentazione e volontà —- in breve, a un dualismo inso- stenibile, in cui alla fine rimane soltanto l'essere come il più facile da rappresentare e da elaborare logicamente. Tra le esposizioni storiche cfr. K. WieperHoLp, Wertbegriff und Wertphilosophie (Erginzungs-Heft alle « Kantstudien », 52, Berlin, 1920); E. HevpE, Grundlegung der Wertlehre, Leipzig, 1916 (dal punto di vista della filosofia dell’immanenza di Grefs- wald); W. SrricH, Das Wertproblem und die Philosophie der Gegen- wart (Diss.), Leipzig, 1909; G. Picx, Die Ubergegensdtzlichkeit der Werte, Tibingen, 1921 (si richiama a Lask e a Rickert). Accanto ai lavori più volte citati di Ehrenfels, Meinong, Miinsterberg, Volkelt, si devono segna- lare E. von Hartmann, System der Philosophie im Grundriss, vol. V: Grundriss der Axiologie, oder Wertwigungslehre, Sachsa, 1908; E. von Srrancer, Lebensformen, Halle, 2° ed. 1921; M. ScHeLER, Der Forma- lismus in der Ethik und die materiale Wertethik, Halle, 22 ed., 1921; D. von Hitpesranp, Sittlichkeit und ethische Werterkenntnis, «Jahrbuch fiir Philosophie und phinomenologische Forschung », V, 1922, pp. 462-601 (trattazione di finissima psicologia cattolica da cura dell'anima, intesa co- me «legge essenziale » dell'ordinamento dei valori); T. Lessine, Studien zur Wert-Axiomatik, Leipzig, 2° ed. 1914 (di tendenza anti-psicologi- stica e indifferente a ogni reale, con conseguenze pessimistiche). Sono lar- gamente d’accordo con J. VoLkeLr, di cui si veda il System der Asthetik, Miinchen, vol. III, 1914. Lo stesso problema ritornerà in seguito dal punto di vista del concetto di sviluppo, e ci costringerà a menzionare e a distin- guere le diverse scuole e i diversi gruppi: per ora basti un accenno. sianesimo. Se il punto di partenza decisivo è la coscienza, l'analisi dei suoi contenuti e dei suoi principi formali e la costruzione filosofica della realtà in base agli clementi e ai princìpi in essa trovati, allora le rappresentazioni, i sentimenti e le volizioni — vale a dire la cosiddetta esperienza interna ed esterna — diventano il solido nucleo di ogni pensiero, e i fatti teoretici e pratici della coscienza si accostano gli uni agli altri come datità in larga misura omogenee, a partire dalle quali soltanto si può procedere a un'articolazione e a una distinzio- ne. Le cose stavano in modo completamente diverso nella filoso- fia antica e medievale. Qui non c’era una dottrina della ragion pratica o dei valori, bensì una dottrina dei beni e degli scopi, rispetto ai quali la vita affettiva sensibile apparteneva fin dall’i- nizio all’aspetto finito e sensibile, inessenziale, dell’esistenza. In Platone e Aristotele i beni erano scopi cosmici, contenuti nella ragione divina, che si realizzavano nello sviluppo teleolo- gico attraverso la « partecipazione » dello spirito finito alla ra- gione divina. Non diversamente stavano le cose con la legge naturale dello Stoicismo, che era una legge cosmica e alla qua- le la ragione umana partecipava in una maniera particolare. Anche l’edonismo, che si esprimeva in forma collaterale, sfocia- va in un'imitazione dell'armonia e della bellezza dell’universo, e per di più non riuscì ad affermarsi. La dottrina cristiana fondava i beni su un ordine cosmico e su una gerarchia dei beni, accogliendo così fondamentalmente le idee antiche, e svi- luppava il suo sistema gerarchico dei beni come una copia dei gradi di realizzazione della vita di Dio nel mondo. In ultima analisi essi non procedono più qui in base alla mera « partecipa- zione » al sistema soprasensibile delle idee e delle leggi, ma scaturiscono da una conciliante auto-partecipazione di Dio nella creatura, che si esprime in valori umanitario-naturali e in valori religiosi-soprannaturali. Identità e diversità tra spirito divino e spirito finito vengono qui affermate contemporaneamente, e da questa coincidentia oppositorum scaturisce il sistema dei beni come manifestazione di un movimento di vita divino *. Soltan- a. Cfr. il mio Augustin. Die christliche Antike und das Mittelalter, Miinchen, 1915, e H. Hemsòra, Die sechs grossen Themen der abendlin- dischen Metaphysik und der Ausgang des Mittelalters, Berlin.to la svolta cartesiana ha trasformato i beni in fatti esclusivi di coscienza. L’empirismo inglese ne ha subito tratto la conseguen- za dell’equiparazione di tutte le reazioni pratiche in quanto sensazioni di piacere e si è sforzato di costruire l’etica e il sistema culturale sulla base del piacere. I grandi razionalisti continentali si attennero certamente, anche nella filosofia prati- ca, alla scissione tra sensibilità e ragione, ma nel complesso cercarono di ricondurre i valori all’intelletto, e cioè di sviluppa- re l’etica in base al fatto — immanente alla coscienza — dell’in- telletto e quindi della sua antitesi rispetto alla sensibilità. An- che un metafisico dogmatico come Spinoza non faceva eccezio- ne, poiché tutta la sua metafisica è, in definitiva, il dispiega- mento dell’essenza formale del pensiero, e in quanto tale proce- de da parte sua dalla coscienza. La terminologia si muove ancora all’interno del linguaggio antico e cristiano, mescolata con la terminologia del piacere — anch'essa del resto derivante dall’antichità. Ma il principio è già quello dei «valori». La dottrina kantiana produsse infine i concetti universali della ra- gione teoretica e della ragione pratica, distinguendo poi all’in- terno di quest'ultima tra scopi ipotetici e scopi categorici e sovra-ordinando in linea generale il pratico al teorico. Anche la speculazione post-kantiana non è tanto distante come può sem- brare, poiché la sua dottrina dell'identità procede ancora dalla conoscenza e cerca di derivare i valori dall’essenza formale della ragione, non dalla ricchezza ontologica dell’idea di Dio. I valori non sono partecipazione o derivazione della grazia, bensì produzione e creazione umana in base all’impulso della ragio- ne. Infine le dottrine del positivismo, che è assai vicino all’utili- tarismo inglese, fanno egualmente sorgere nello sviluppo i valo- ri culturali dall’intelletto e dal senso comune, cioè spiegano tutto sulla base di dati fondamentali psicologici e delle loro implicazioni evoluzionistiche, per fondare in definitiva — con la maggiore sobrietà possibile — una sistematica dei fini socia- li così posti sulla base di una conoscenza positiva delle leggi della natura e della società. La naturale conseguenza di ciò è stata alla fine la terminologia dei valori, cioè la riunione — oggi consueta — di tutte le reazioni e formazioni pratiche nella teoria dei valori; e l’indagine sistematica del significato del valutare poteva ora essere intrapresa non soltanto per la coscien- ERNST TROELTSCH 865 za, ma per la filosofia nel suo complesso — come è accaduto 2 partire da Lotze, fino a confluire oggi con la filosofia pratica di Kant. La « filosofia dei valori » in senso stretto, sviluppatasi oggi in seguito a questa confluenza, la quale edifica l’intera dottrina dei valori in base al valore teoretico o al valore di validità dell’elemento logico e la pone in questa forma al posto della metafisica — ci riferiamo in particolare alle teorie di Miinsterberg, di Rickert e di Lask — rappresenta pertanto un tentativo di spremere dall’elemento soggettivo o immanente al- la coscienza l’elemento oggettivo: tentativo che esprime, con tutta la sua acutezza, soltanto la precarietà di un siffatto punto di vista dell’immanenza. Queste teorie costituiscono, entro la dottrina dei valori, soltanto una specificazione acuta ma poco feconda. Questo fondamentale soggettivismo non costituisce però l’e- lemento decisivo per la connessione che abbiamo ora di fronte. Esso non potrà venir mutato nel suo punto di partenza analiti- co-coscienziale finché dura il pensiero moderno, e si potrà discu- tere soltanto dei suoi risultati e del modo delle sue conclusioni metafisiche — in quanto mutamenti siffatti non sono mai man- cati e vengono oggi ripresi in modo sempre più pressante, senza dimenticare l'applicazione assai approfondita di Male- branche alla conoscenza in Dio anche dei valori pratici *. Per il nostro argomento è però decisivo un altro punto. Dato il carattere immanente-soggettivo dell’utilitarismo, della ragione pratica e del positivismo, il solo mezzo per distinguere i valori oggettivi, oggetto di dovere, o i valori culturali etici dai valori animali e sensibili della vita e dell’utilità diventa l’universalità a. In Spranger e in Scheler* i punti di contatto con Malebranche sono innegabili. Sulla genesi dell'idea di individualità in Leibniz cfr. H. ScHma- LENBACH, Leibniz, Mùnchen, 1921 — libro molto istruttivo, anche se l’asse- rita connessione con il Calvinismo non mi sembra abbastanza persuasiva. 4. Max Scheler (1874-1928), filosofo tedesco, autore di Die transzendentale und die psychologische Methode (1900), di Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik (1916), di Wesen und Formen der Sympathie (1923), di Die Wissensformen und die Gesellschaft (1926), della Philosophische Weltanschauung (1929) c di varie altre opere, appartiene al movimento fenomenologico: egli si propose soprattutto di costruire un'etica «materiale », fondata sulla determinazione di una gerarchia di valori e contrapposta quindi all'etica «formale » kantiana. delle valutazioni — da un lato l’uziversalità empirica e di fatto, dall’altro la validità universale ideale, che dev'essere rico- nosciuta. La maggiore utilità possibile del maggior numero possibile di persone oppure la validità universale formale della ragion pura, libera dalla sensibilità, o ancora la vittoriosa diffu- sione riconoscibile nel corso dello sviluppo: questi diventano gli strumenti di distinzione, e quindi i criteri di valutazione. Ma con ciò viene scartato il concetto di individualità. Esso diventa un insieme di punti d’intersezione accidentali di leggi psicologiche generali da cui si deve estrarre, in modo faticoso e artificioso, l’universale dover essere; o diventa intorbidimen- to, adattamento e individualizzazione storica, che perviene alla norma in sé, atemporale e universalmente valida. Nell’uno e nell'altro caso non c’è alcuna via verso l’individuale, inteso come unità intima di fattuale e di ideale. Una via siffatta non è stata ancora trovata neppure nelle odierne considerazioni fe- nomenologiche, le quali prendono tutte quante le mosse da norme, dalla visione dell'essenza e dalla legalità atemporale, per aggiungervi soltanto in seguito il rattoppo dell’individualiz- zazione empirica. Proprio perciò queste dottrine dei valori urta- no sempre, senza speranza, contro la storia. Esse disconoscono l'autentica individualità presente nella storia, come stato parti- colare e determinato di un intreccio reciproco di essere e dover essere, di fattuale e ideale; disconoscono l’inesauribile e impre- vedibile produttività della storia, la quale produce sempre nuo- vi elementi individuali e quindi non individualizza leggi gene- rali, ma ci pone di fronte a formazioni di valori sempre nuove e imprevedibili. Questo è il nucleo in cui, più che altrove, la moderna dottrina dei valori ha bisogno di una riforma. Ciò che insegnarono i Romantici, Schleiermacher, Wilhelm von Hum- boldt, Goethe, dev*essere sempre riconosciuto di nuovo come il suo problema principale, e posto al centro® per cacciare via gli a. Si veda il Politisches Gesprich di Ranke in Werke, voll. XLIX.L: Zur Geschichte Deutschlands und Frankreichs im 19. Jahrhundert (a cu- ra di A. Dove), Leipzig, 1887, p. 325: «Senza una tensione, senza un nuovo inizio non si può pervenire dall’universale al particolare. Lo spiri- tuale, che ti sta improvvisamente davanti nella sua imprevista realtà, non si lascia derivare da nessun principio superiore. Partendo dal particolare puoi clevarti, con cautela e risolutezza, all’universale; ma dalla teoria spettri di leggi generali e atemporali, con le quali la storia e la vita non possono cominciare nulla e che aprono sempre nuovi abissi immaginari tra storia e dottrina dei valori, le quali tendo- no invece a unificarsi. Il fatto che le teorie fenomenologiche, nella loro aspirazione ben consolidata a leggi generali di essen- za, pervengano, nei diversi pensatori, a risultati diversi — nono- stante la conclamata visione dell'essenza — costituisce la prova di questo stato di cose assolutamente decisivo. È del tutto impossibile, partendo dalla fragile, isolata e vuota coscienza — per quanto si possa attenuarla e dissolverla mediante la teoria della non-sostanzialità o dell’inconoscibilità dell'io — ottenere in virtù di una semplice psicologia delle reazioni la comprensione dell’individualità, che dovrebbe ap- punto avere la sua sede principale nella dottrina dei valori. Di qui si perviene sempre soltanto ad acuti sofismi o a nullità tautologiche, alla disputa se il valore risieda nell’oggetto o nel soggetto o nella relazione tra i due termini, se esso sia una sensazione e una percezione oppure una disposizione e una reazione soggettiva, se sia fondato su un giudizio di esisten- za o di non-esistenza, se sia semplicemente momentaneo o co- stante, semplicemente relativo o se scaturisca dal sentire o dal volere o dal rappresentare o da un elemento psichico ad esso proprio, se sia meramente accidentale e personale oppure sovra- personale e oggettivo, e così via. Tutte queste difficoltà artificio se e insolubili, oppure solubili soltanto introducendo di soppiat- to valori dogmaticamente normativi (e proprio per ciò oggetto di fede), cadono qualora si concepisca in modo diverso il pun- to di partenza, cioè il cosiddetto io, qualora lo si consideri non più come qualcosa di isolato e di vuoto, provvisto soltanto delle facoltà formali del rappresentare, del sentire e del volere, ma come virtualmente comprensivo — e ogni volta in un ambito assai diverso — della totalità della coscienza, oppure si conside- ri quest’ultima come comprendente in sé l'io, qualora si ritorni (in qualche forma oggi possibile) all'idea leibniziana della mo- nade, e in particolare della monade umana, che assume in base generale non c'è strada che conduca all’intuizione del particolare ». Si ve- da inoltre p. 327: « Natura della cosa, opportunità, gezio e fortuna coope- Priz/e » OPp 6 P rano [al sorgere di nuove forme] ». 868 ERNST TROELTSCH alle sue complicazioni una posizione particolare. Allora è possi- bile intendere i valori nella loro ovvia soggettività e nel loro carattere relazionale, che deriva dal carattere pratico e dai fini pratici di ogni essere, cioè dalla vita che tutto riempie. Allora le valutazioni estranee, passate e future, possono venir sentite come proprie, perché portiamo al tempo stesso in noi gli io estranei. Allora possono esserci coincidenze nelle valutazioni, in quanto noi tutti deriviamo dal medesimo fondamento della totalità della vita, e possiamo quindi sentire allo stesso modo. Allora è possibile distinguere i valori animali, cioè i valori meramente vitali che derivano dalle relazioni ambientali, rispet- to ai valori oggettivi o spirituali, poiché questi ultimi esistono per la totalità dello spirito divino nella sua totalità che compren- de la finitudine, e poiché l’essere individuale partecipa a questa totalità dello spirito. Allora possono esserci medie e sedimenta- zioni sociologicamente condizionate di queste valutazioni, oscu- rità, turbamenti e disordini dei conflitti tra motivi, da cui scaturiscono alla fine sempre soltanto il rischio e l’auto-riflessio- ne, cioè una propria disposizione la quale non è tuttavia inven- zione. Psicologia e sociologia possono descrivere tutte queste forme di realizzazione, ma non possono fondare alcun valore particolare e scoprirne le origini ultime. Ma, soprattutto, soltan- to in questo modo si può cogliere il senso autentico dell’indivi- dualità, così come i Romantici e i poeti, i filosofi e gli storici — in primo luogo Wilhelm von Humboldt — lo hanno sottrat- to all’intellettualismo leibniziano, ancora chiuso in sé senza finestre. Questo essere individuale che partecipa alla totalità della vita rappresenterà e realizzerà nella sua situazione, nel suo ambiente e nella sua influenza particolare il fondamento comune della vita in una maniera ad esso propria — sia sotto l'aspetto animale del soddisfacimento dei bisogni e della promo- zione della vita, sia sotto l’aspetto della comprensione del mon- do delle idee divine. L'uomo, nel suo grado di realizzazione della coscienza, diventerà quindi un essere storicamente indivi- dualizzato, nonostante i mille aspetti di omogeneità e di comu- nanza che ha con altri uomini, e possiederà in tal modo non soltanto una determinatezza di fatto, ma anche un compito che è oggetto di dovere, nella cui realizzazione crca e acquisisce la sua essenza. Rimangono naturalmente le questioni ultime come Dio o l’assoluto o la totalità della vita pervenga a questo movimento costante dell’essere verso i valori, che altro non è se non la vita, e come questa totalità della vita pervenga all’au- to-divisione nelle monadi finite. Si tratta di questioni a cui nessuno può rispondere, ma che non possono neppure essere sostituite da altre impostazioni più corrette e più facilmente suscettibili di risposta. Esse sono eterne come il pensiero: sol- tanto l’auto-divinizzazione e l’auto-svuotamento dello spirito moderno — due momenti strettamente connessi tra loro — hanno potuto dimenticarle o considerarle mal poste. Si ritorne- rà ancora su di esse trattando della teoria della conoscenza storica. Qui ci limitiamo per ora ad accennare al significato decisivo di questa impostazione per l’individualizzazione stori- ca di tutti i valori. Essa vale sia per gli individui particola- ri che per gli individui collettivi, senza i quali non si potrebbe- ro concepire neppure i primi e che, da parte loro, possono essere concepiti soltanto in base ai presupposti indicati. In tal modo il concetto centrale della dottrina dei valori diventa quello dell’individualità, nel senso di un’unificazione di fattuale e di ideale, di dato naturalmente e in conformità alle circostanze e, nel medesimo tempo, di eticamente imposto. In questo senso il concetto di individualità coincide con quello della fondamentale relatività dei valori. Ma relatività dei valo- ri non vuol dire relativismo, anarchia, caso o arbitrio, bensì designa l’intreccio sempre mobile e creativo, e perciò mai deter- minabile atemporalmente e universalmente, di ciò che esiste di fatto e di ciò che dev'essere. Questo intreccio può e dev'essere colto ogni volta — sia che si tratti dell’individualità singola di una persona, sia che si tratti dell’individualità collettiva di un popolo e di una comunità culturale — mediante l’auto-rifles- sione e l’approfondimento in se stessi, nonché mediante la com- prensione e la conoscenza della situazione e del condizionamen- to storico. Non è senz'altro a portata di mano, ma dev'essere creato; non si tratta quindi di un naturalismo di tipo vegetale. Proprio perciò questo intreccio non è qualcosa di estetico, che induca all’auto-godimento o alla semplice curiosità — come viene spesso frainteso — ma è un compito e un dovere, e al tempo stesso anche un orientamento universale, assai sobrio e pratico, sulle possibilità e sui presupposti della situazione. Esso esige un sapere spassionato, una volontà chiara, uno sguardo acuto. Tanto meno l’individuale, inteso in questo senso, costitui- sce una mera categorica logica, che debba essere applicata a qualsiasi oggetto in virtù di una coercizione logica, a fianco di una considerazione dal punto di vista di leggi generali che derivi dalla medesima coercizione. Esso è piuttosto una creazio- ne umana e una realtà metafisica, l’intreccio di fatto e di spirito, di natura e di ideale, di necessità e di libertà, di univer- sale e di particolare. Esso emerge con forza e importanza mol- to diversa dagli sfondi nascosti dei processi storici. Vi sono uomini e periodi, strati sociali e gruppi ricchi di individualità e poveri di individualità; i primi sono sempre caratterizzati da una salda fede in questo loro procedere dall’universale. Essi percepiscono la loro particolarità come missione divina e come compito, e non badano all’interesse della propria personalità, ma alla specificità del loro compito. Si apre così, muovendo dall’individuale, lo sguardo verso la metafisica, del quale non si ritiene di aver bisogno quando ci si attiene a ciò che è astrattamente generale, poiché questo in apparenza sostituisce la metafisica. Il costante procedere dell’individuale e dei suoi criteri da uno sfondo oggettivo e universale è però un’idea che non si può formulare senza la metafisica, a meno di non farla rientrare nell’ambito — del resto impossibile — del mero acci- dentale o dell’interessante auto-compiaciuto. A questo punto si stabilisce la relazione della dottrina dei valori con la metafisi- ca, che in altri punti appare meno pressante. Ma la relatività dei valori ha senso soltanto se in questo relativo c'è qualcosa di assoluto che vive e che crea; altrimenti essa sarebbe soltanto relatività, non già relatività dei valori. Essa presuppone un processo vitale dell’assoluto, nel quale questo può essere colto e formato in ogni punto nella maniera corrispondente a tale pun- to. L’assoluto dev'essere colto ovunque e in primo luogo dev’'es- sere anche formato. Infatti esso è una volontà di creazione e di forme, la quale negli spiriti finiti diventa auto-formazione in base a un fondamento e a un impulso divino. E questi diversi punti devono connettersi e succedersi secondo una determinata regola, che costituisce l’essenza del divenire dello spirito divino e che si afferma, nonostante tutto, nelle vicende acciden- tali e negli erramenti o nei cedimenti della volontà. Tutto ciò inerisce al concetto d’individualità, di relatività dei valori, di criterio e di sempre nuova creazione. Questa connessione con l’assoluto può essere un mito, com'era un mito la dottrina platonica della partecipazione Ia quale conteneva già il nucleo di una dottrina dell’individualità, almeno nella misura in cui lo consentiva lo spirito dell’antichità, che ipostatizzava i valori e li considerava come affari generali dello stato. Anche la dot- trina cristiana dell’auto-disvelamento di uno spirito divino vi- vente nello spirito finito costituisce un mito; però essa ha con- dotto alle più fini e profonde osservazioni psicologiche, che chiariscono gli enigmi dell'anima molto più profondamente di quanto non possano farlo le aride teorie psico-genetiche o aprio- ristiche con cui si sono sostituiti gli antropomorfismi e i duali- smi, certamente sovente rozzi, di questo modo di pensare. Con mezzi semplici come la derivazione psicologica dal piacere o da un altro principio analogo, o come l’estrazione dei caratteri meramente formali, non si può cogliere il miracolo dei valori, dell’individualità e della relatività, che la storia pone in mille modi davanti ai nostri occhi?. a. Su tutta questa tematica si veda T. Lit, Geschichte und Leben, Leipzig, 1918, assai vicino al punto di vista qui sviluppato. Stimolante e per molti versi affine è pure R. MicLer-FrerenFELS, Philosophie der Individualitàt, Leipzig, 1921. In questo libro si percorre energicamente fino in fondo la strada, sovente tentata, della trasformazione del punto di partenza cartesiano, sostituendo la coscienza con il concetto di incon- scio, e con la correlazione tra soggetto e oggetto nell’universale corrente cosmica della vita, che lampeggia nell’io singolo, nel singolo momento della coscienza. Ma in tal modo il concetto di individualità viene dissolto in quello del semplice io o dell'essere singolo, e quest'ultimo viene poi radicato nell’universale corrente della vita, al di sopra o al di sotto della coscienza. Si dissolve così l'intreccio di generale e di particolare, di asso- luto e di relativo, che mi raffiguro; l’individuale diventa immediatamente caos e turbine, e la valutazione diventa anche qui qualcosa di sempli- cemente razionale-generale, che deve poi essere una « razionalizzazione » sempre soltanto parziale e relativa, sempre fittizia, inevitabile per gli scopi della vita. Nessuno sa da dove questa possa venire, in queste circo stanze, dal momento che l’autore non vuole vedervi semplicemente delle finzioni utili sotto il profilo biologico. — Analoghe obiezioni continuo a mantenere contro le idee affini esposte da G. Simmer in Lebensanschauung, Miinchen und Leipzig, 1918. Qui l’individuale diventa un felice caso di coincidenza della vita con una forma che la penetra. Anch'egli conosce 872 ERNST TROELTSCH In tal modo siamo ritornati alla storia. Di fatto l’uomo che agisce e la storia che parla di lui non possono affatto essere compresi senza il concetto della relatività dei valori. Per quan- to riguarda l’uomo che agisce basta fare riferimento a Goethe, la cui dottrina dell'attività sempre nuova e vivente, che scaturi- sce dall'esigenza quotidiana, che trova conferma nella sua fe- condità ed è, in ultima analisi, fondata su un impulso divino, rappresenta addirittura il vangelo della relatività dei valori. Da tutt'altro versante Kierkegaard ha formulato, nelle sue di- scussioni estremamente istruttive con Hegel e con il Romantici- smo, la stessa idea: « L'elemento storico è l’unità del metafisi- co e dell’accidentale. Io divento a un tratto consapevole di me stesso, nella mia necessità e nella mia finitudine accidentale (in quanto io, questo essere determinato, nato in questa regio- ne e in quest'epoca, sono sotto l’influenza molteplice di tutte queste mutevoli circostanze). E quest’ultimo aspetto non può essere trascurato, anzi la vera vita dell'individuo è l’apoteosi quindi nella storia soltanto le epoche di grazia, cioè le poche isole in cui si raggiunge tale felice coincidenza. Per me l’individuale come fatticità è distinto dali’individualità che dev’esserne formata come suo compito: risul- ta così possibile vedere un’aspirazione e un travaglio continuo attraverso cui queste isole si riuniscono a formare dei continenti. Le isole simmeliane sono soltanto le vette di questo massiccio montuoso che le connette. — È facile scorgere quanto la mia idea sia vicinissima alla concezione di Wil- helm von Humboldt. Ma ja fondazione gnoseologica e la valutazione relativa all'etica e alla filosofia della storia sono differenti. Su Humboldt si veda l'opera citata di E. SpranceER e l’analisi (condotta da un punto di vista antitetico) di J. GoLDFRIEDRICH, Die historische Ideenlehre in Deutsch- land, Berlin, 1902, che costituisce del resto la sola analisi utilizzabile del libro. Per il modo in cui il problema si configura presso un pensatore evoluzionista che rifiuta l’individualismo storico, si può vedere Hans DriescH 5, Si svaluta la storia, e si hanno criteri soltanto in base all'unico elemento che si sviluppa, cioè al sapere, Driesch stesso (nella Wirklich- keitslehre, Leipzig, 1917, PP- 327 -34) si riferisce a Schopenhauer e agli Indiani. Sui diversi concetti di individualità cfr. H. ScHmaLENBACH, Indi vidualitit und Individualismus, « Kantstudien », XXIV, 1920, pp. 365-88. 5. Hans Driesch (1867-1941), zoologo, biologo e filosofo tedesco, autore di Der Vitalismus als Geschichte und als Lehre (1905), della Philosophie des Organischen (1909), della Ordaungslehre (1912), di Leib und Scele (1916), della Wirklichkeitslehre (1917), della MerapAysik der Natur (1926) e di numerose altre opere, formulò una concezione vitalistica della realtà in opposizione al punto di vista del meccanicismo. ERNST TROELTSCH 873 della finitudine, la quale non consiste nel fatto che l’io privo di contenuto esca di soppiatto da questa finitudine per volatiz- zarsi e svaporare nella sua emigrazione celeste, ma nel fatto che il divino abita e si trova nelle finitudine ». Dal lato dell’uo- mo questo divino individualizzato non può essere colto, secon- do lo stesso Kierkegaard, solamente nel salto e nel rischio esi- stenziale; non si tratta di una concrezione estetico-panteistica, ma di un prodotto dell’azione e dell’auto-formazione che si deve rischiare nel pericolo dell'errore e che ci si deve ogni volta riproporre per acquisire, nella ripetizione, una connessio- ne e una consistenza *. Interessanti sono anche le considerazio- ni con cui il generale von Radowitz® guarda retrospettivamen- te al suo lavoro, e che si possono qui citare per le osservazioni che vi aggiunge a commento uno dei nostri storici più significa- tivi. Radowitz aveva combattuto per la realizzazione di un siste- ma di norme religiose e razionali di politica e di cultura, e nei suoi Neue Gespriche (1851), in genere veramente istruttivi, era pervenuto a questo risultato: «la verità non è assoluta, bensì relativa allo spazio e al tempo » — ma, beninteso, rimane pur sempre verità. Osserva in proposito Meinecke: « Tutte queste idee erano onde nella corrente del movimento generale dell’epo- ca, che era diretto a frantumare dogmi, speculazioni e costru- zioni astratte, e a sostituire l'elemento di assoluta verità e gui- da nella vita con ciò che è storicamente vero e vivente. Così Radowitz, nell’ultimo stadio del suo sviluppo, si approssimava al moderno realismo storico »*. E alcune pagine prima: « Due a. Cfr. H. Reuter, S. Kierkegaards religionsphilosophische Gedanken im Verhéltnis zu Hegels religionsphilosophischem System, Leipzig, 1914, Pp. 42-43. Si veda anche Ranke (Politisches Gespràch cit., pp. 337-39): « Ogni vita reca in sé il proprio ideale: l'impulso intimo della vita spiri- tuale è il movimento verso l'idea, verso una maggiore eccellenza. Questo impulso è innato, radicato nella sua origine... Quante comunità spirituali terrene, tratte alla luce dal genio e dall'energia morale, comprese entro uno sviluppo inarrestabile, ognuna a proprio modo! Guarda a queste co- stellazioni nei loro corsi, nella loro azione reciproca, nei loro sistemi! ». 6. Joscph Maria von Radowitz (1797-1853), uomo politico tedesco, ebbe una parte importante nella politica prussiana dopo il 1848; nel 1858 fu per alcuni mesi ministro degli affari esteri, conducendo una politica apertamente anti-austriaca. 7. F. Meinecge, Radowitz und die deutsche Revolution, Berlin.compiti strettamente connessi tra loro si ponevano allo spirito e alla volontà di quell’epoca: ricollegare alla realtà la sfera delle massime ideali, minacciate di isolamento, e riunire organica- mente all’interno di tale realtà le potenze vitali antiche e nuo- ve, passate e future »*. Si tratta della fondamentale teoria del «realismo storico » di cui Meinecke parla qui e in altri passi, e con cui si indica la trasformazione della storia ideale di tipo hegeliano e della storia organicistica di tipo schellinghiano, ma anche della storia politica troppo soggettivamente diretta agli scopi del presente, nel realismo universale della metà del seco- lo xix. Questo realismo storico è, almeno in Germania, qualco- sa di completamente diverso dall’equiparazione della storia con le scienze della natura. Esso non si esaurisce affatto nel forte rilievo dato agli elementi economici e sociologici nella comprensione storica 0 nell’apprezzamento dell’accidentale, del- l’irrazionale e della personalità. La sua essenza più propria non è altro che l’idea dominante della relatività dei valori e dell’individuale, sia che si tratti di individualità particolari o di individualità collettive. Esso risulta quindi completamente autonomo dal realismo delle scienze naturali; e anche con la politica realistica di Bismarck ha a che fare soltanto nella misu- ra in cui questa ha contribuito a rendere diffidenti verso le risoluzioni troppo idealistiche del reale e dei suoi conflitti in generalità ideali e in contraddizioni meramente logiche. Per il resto, questo realismo è quanto mai lontano dalla concezione amorale e cinico-scettica della storia: esso vede nelle formazio- ni storiche il divino nelle sue concrezioni e nella sua lotta contro il caos e la malvagità, come mette in rilievo lo stesso Meinecke. Certamente, esso è stato finora troppo poco indaga- to sotto il profilo teoretico, ed è difficile estrarre i suoi tratti fondamentali più generali dalla smisurata letteratura storica. Esso è ancora molto insicuro nel cogliere l’assoluto nel relati- vo, e perciò non trova o non cerca la via verso una sintesi culturale contemporanea®. Non si può tuttavia disconoscere a. Sul relativismo storico si veda G. P. Goocn, History and Historians in the Nineteenth Century, London, 1913, nonché J. E. E.D. Acton, The 8. che proprio con la più stretta connessione tra storia politica e storia della cultura — alla quale tende tutta la storia moderna — il realismo storico si dirige soprattutto all’idea dell’individua- lità nel senso qui descritto, e quindi anche all’idea della relativi- tà dei valori. Risulta quindi chiaro che tutta questa storia non ha affatto rinunciato all'idea di una connessione interna e di un profondo fondamento spirituale dello sviluppo, ma anzi scorge — almeno in linea di principio — nell’individuale un universale e nel relativo un assoluto, anche se, per il suo timo- re dinanzi alla filosofia, di rado si arrischia a determinare in modo più preciso e concreto questo rapporto. Anche qui si deve osservare che questo relativismo dei valori e questo reali- smo appartengono in modo preponderante alla storia e all’eti- German Schools of History, « English Historical Review », I, 1886, trad. ted. col titolo Die neuere deutsche Geschichtswissenschaft (a cura di J. Imelmann), Berlin, 1887, nonché E. RorHacger, Einleitung in die Gei- steswissenschaften, Tùbingen, 1920, pp. 130-90 (la letteratura relativa si trova a pp. 163-64). Rothacker riconosce giustamente in esso uno costitu- zione spirituale, un atteggiamento di valore e una dottrina dello sviluppo, senza però mai giungere a una caratterizzazione vera e propria che muova dal punto centrale. — Un'indagine approfondita risulta qui impossibile. Basterà accennare a varie osservazioni di Meinecke, che più di tutti accom- pagna il pensiero storico con una riflessione su di esso e che spiega da parte sua il realismo storico come uno specifico atteggiamento spirituale. Del suo Radowitz ho sopra riferito i punti importanti. Da Weltbirgertum und Nationalstaat cit. prendo nota dei punti seguenti: carattere decisivo del concetto di individualità (p. 138); il sorgere dello spirito moderno e in particolare del passaggio dal pensiero costruttivo al pensiero empi- rico, dal pensiero idealistico-speculativo a quello realistico (p. 265); la rela- tività dei valori e tuttavia l’insostituibilità dell’individuale (p. 271); il «panteismo ottimistico-realistico, che del sentimento trapassa subito ai fatti » (p. 281). E ancora: « Alla fine si pervenne alla giusta delimitazione, per cui ideale ed esperienza, oggetto considerato e soggetto considerante furono distinti in modo da rendere a tutti giustizia: una delimitazione — si può quasi dire — nello spirito di Kant, anche se si trattava di un con- fine fluido e dileguantesi. Ma questo fluire del particolare nel generale, dell'esperienza nella speculazione, era fondato sulla natura vera e propria delle cose. L'elemento principale in tutto questo era che il regno dell’espe- rienza veniva liberato, mentre veniva allontanato ulteriormente quello dei tentativi di interpretazione universale e speculativa » (p. 289). Noto poi da Preussen und Deutschland, Miinchen, 1918: « Ciò che finora sembrava intelligibile soltanto come emanazione di determinati princìpi, si tra- 876 ERNST TROELTSCH ca tedesca, che ci hanno insegnato con Kant la separazione tra ciò che è dato naturalmente e ciò che è imposto idealmente, e con il Romanticismo l'intreccio organico delle forze storiche in un’individualità di volta in volta creativa, e che quindi cerca- no il loro compito nell’unificazione delle due tendenze. La posi- zione di primario rilievo attribuita allo stato e alla politica realistica costituisce perciò soltanto 40 dei suoi tratti caratteri- stici, ma non quello decisivo. Anche senza questa particolare inclinazione il relativismo dei valori è sempre il punto più im- portante nel diritto, nell’economia, nella società, nella religio- ne e nell’arte, anche nelle idee ultime e più generali di razze e di ambiti culturali. Le idee del Politisches Gesprich di Ranke conservano tutta la loro verità anche se le si applica non sola- mente o non prevalentemente allo stato. Invece la storia del- sformò — agli occhi di una considerazione realistica delle cose — nel risul- tato di necessità momentanee, in adattamenti alla situazione » (p. It1); « quel flusso del divenire che lascia scorrere ciò che nello spirito è saldo non già per farne gioco di onde, ma perché l’eterna e aremporale natura divina venga riconosciuta nella ricchezza e nella connessione interna delle sue produzioni semporali » (p. 114). Meinecke scorge molto chiara- mente anche la stretta connessione della sintesi culturale contemporanea con la conoscenza storica dell’individuale passato, dove un elemento determina l’altro. « La fonte della luce che cade sul passato risiede negli ideali di vita dell'osservatore: così la storia e la vita, l'io e il mondo confluiscono in modo misteriosamente vivente, in un gioco di riflessi con- trapposti » (p. 104). « Il nostro pensiero storico e il nostro ideale culturale vivono e si muovono nell’intuizione della molteplicità e dell’accostamento di stati, nazioni, culture libere e forti... In questo specchio della divinità noi guardiamo ancora oggi, affascinati e creduli come cent'anni or sono » (p. 502). Certamente, da questa correlazione data insieme con l’idea della relatività dei valori Meinecke si solleva — al pari di Ranke — a una con- cezione puramente contemplativa, assoluta, della storia in sé: ma di ciò si parlerà in seguito. — Sull’antitesi del realismo storico tedesco, che è al tempo stesso mistica, rispetto al pensiero anglo-francese si veda l’acuto scritto di E. KaurMann, Kritik der neukantischen Rechtsphilosophie, Ti- bingen, 1921, p. 92 sgg., dove sono sottolineate anche le deficienze di realizzazione. Ma anche in quel campo vi sono posizioni diverse. Cfr. anche il saggio di E.R. Curtius, Das franzòsische Universitàtsleben, « Frank- furter Zeitung », 22 maggio 1918 (edizione serale), il quale scrive: « è inte- ressante che questi giovani Francesi del 1918 vedano nella Germania di Goethe, del Romanticismo e dell’età successiva un modello per la ‘ giusta sintesi tra speculazione ed esperienza” ».  l’Europa occidentale vive piuttosto nella prosecuzione dell’Illu- minismo, il quale tendeva a sviluppare il dover essere dall’ele- mento « naturale » e quindi a rifarsi a fini astrattamente univer- sali, mentre il suo realismo si faceva valere nella considerazio- ne dei condizionamenti naturali e sociologici e l’individuale veniva per lo più nascosto o assunto in maniera inconsapevole nell'inserimento dei propri ideali in quei valori universali « na- turali ». Di qui è nata una vasta polemica: ciò che agli uni appare insieme cinicamente brutale e mistico, agli altri appare come superficialità e ipocrisia. Ma in verità il realismo privo di pregiudizi risulta ovunque molto diffuso. Ciò appare chiara- mente dall’eccellente libro di G. P. Gooch * — il quale si distin- gue per il limpido panorama dei risultati conseguiti dai diversi studiosi — anche se nella storiografia inglese e francese emer- ge innegabilmente una preponderanza dei valori nazionali, di partito o « naturali » rispetto all’universale relatività dei valori. E non di rado ciò accade anche da noi. È evidente che questa relatività storica dei valori presenta una certa analogia con la dottrina della relatività fisica, che oggi prevale in tutto il mondo nell’impostazione problematica così fortemente potenziata da Einstein. Ciò non avviene a ca- so, né è privo di fondamento oggettivo, anche se la relatività dei valori si è formata dall’epoca del Romanticismo e del reali- smo storico senza alcuna relazione con la seconda. Il fonda- a. G. P. GoocH rimprovera per esempio a Sismondi? « la mancanza di relatività » (op. cit., p. 137), e a Carlyle che «egli non si rese mai conto che il dovere principale di uno storico non è né l'apologia né l’invettiva, ma l’interpretazione dei processi complessivi e degli ideali in conflitto, che hanno costituito la varietà delle vita umana » (p. 339). Questo è il realismo storico; certamente, nella formula interpretativa che spesso ri- corre in Gooch vi sono problemi filosofici in cui egli non si addentra. b. Anche in me mancava qualsiasi relazione del genere, e me ne sono reso conto solamente a fatto compiuto. Altri l'hanno rilevato prima di me: A.C. Bouquet (Is Christianity the Final Religion?, London, p. 241) mi 9. Jean-Charles Simonde de Sismondi (1773-1842), storico ed economista svizzero, autore della Histoire des républiques italiennes au Moyen dge (1807-1818), dei Nos- veaux principes d'économie politique (1819), dell'Histoire des Frangais (1821-1844) e di numerosi saggi raccolti negli Etwdes sur les constitutions des peuples libres (1836) e negli Erudes sur l’économie politigue (1837), nonché di varie altre opere. mento interno dell’incontro risiede nel fatto che la relatività fisica è la forma d’individualità decisiva sul terreno della scien- za fisica, cioè è la particolarità della posizione da cui si deve ogni volta stabilire e calcolare il sistema di riferimento. Ciò accadeva già nel sistema galileiano-newtoniano, ma qui la validi- tà universale del principio d’inerzia, considerato come una spe- cie di assoluta verità di ragione, poteva nascondere le conse- guenze della relatività della posizione. Se, come avviene in Ein- stein, l'inerzia viene dissolta e si afferma una velocità crescente dei movimenti, la posizione stessa viene immessa da ogni par- te in un movimento reciproco e mutevole, diventando così del tutto singolare. Ma anche questa relatività non è un relativi- smo illimitato, bensì — nella misura in cui il sistema di riferi- mento viene calcolato da ogni posizione ed è possibile determi- nare matematicamente, nonostante la sua mobilità, la relazio- ne con gli altri oggetti — permane l’assoluto nel relativo, il carattere di sistema e di riferimento della realtà naturale, a cui contribuisce anche la costanza della velocità maggiore di tutte, la velocità della luce. Ma anche se non fosse possibile conserva- re quest’ultimo principio, si potrebbe certamente stabilire attra- verso il calcolo il suo mutamento e costruire in tal modo la possibilità di una sistematica, diversa soltanto da una posizione all’altra. In tutto il resto le due dottrine della relatività sono certo fondamentalmente diverse. Ma il punto principale del loro ac- cordo è abbastanza importante: l’incontro del relativo e dell’as- soluto nell’individuale — qui come fatto, lì come compito. Alla posizione particolare corrisponde l’individualità della situa- zione storica; al sistema di riferimento universale, diverso di caso in caso, corrisponde lo sviluppo interno o la connessione del divenire storico, che dev'essere costruita di nuovo a partire da ogni momento culturale e da ogni nuovo ideale. Questo secondo punto, cioè l’immagine dello sviluppo stori- definisce «una specie di Einstein del mondo religioso ». Cfr. anche A. Dierericn, Die neue Front, Berlin, 1922, p. 168 sgg. In entrambi i casi si tratta del problema del criterio, su cui ha attirato la mia atten- zione, subito dopo la conferenza, uno dei più eminenti fisici. Invece il raffronto tra Einstein e Spengler, che si trova spesso, è del tutto insen- x sato. Einstein non è un scettico! co-universale che corrisponde alla sintesi culturale contempora- nea, rappresenta quindi il secondo tema centrale della filosofia materiale della storia, già presente da sempre nel primo tema, ma che adesso richiede una considerazione a parte. Per chi proviene da Kant, Fichte, Schiller, Nietzsche il primo punto è da tempo in posizione di rilievo; per chi proviene da Schel- ling, Hegel, Ranke*, Comte e Spencer lo è invece il secondo. Ad esso sarà dedicata un’analisi particolare nel prossimo capito- lo, dove avremo a che fare con un'elaborazione letteraria mol- to più ricca del tema, e tratteremo in modo più approfondito le teorie relative. a. Ranke sottolinea però entrambi gli aspetti: « Ciò che importa è che si rimanga sempre fedeli a se stessi, collegando il nuovo con il vecchio, la resistenza con il procedere in avanti, incamminandosi sicuramente e grandiosamente sul cammino dello sviluppo» (Reflexionen iiber die Theorie [ossia sul sistema dei valori assoluti della ragione], in Werke, volumi XLIX-L, p. 237). Ma Ranke tende a privilegiare lo sviluppo ri- spetto alla propria e contemporanea creazione sintetica. La forza vera, storicamente fondata, è per lui identica con l'energia morale. « Potrai menzionarmi poche guerre importanti per le quali non si possa dimo- strare che la vera energia morale ha riportato la vittoria » (op. cit., p.- 327). Certamente, che cosa voleva dire « energia vera »? Le due cita- zioni contengono entrambi i temi di cui qui si tratta, e i loro sfondi devono essere presi in esame separatamente. Quando assolutisti morali e di altro genere designano Ranke come « adoratore del successo », que- sto non è del tutto sbagliato. Ma ciò dipende dal prevalere del concetto di sviluppo che si può riscontrare in lui, in Hegel e in molti alui. Ma anche questo non è propriamente corretto: infatti Ranke conosceva la correlazione del concetto di sviluppo con il concetto di valore, e se non ha determinato con precisione quest'ultimo, lo ha sempre coscientemente presupposto. Tale correlazione costituisce il problema vero e proprio; e uno degli scopi principali del mio libro è di chiarirla e di trarre le neces- sarie conseguenze pratiche da questo chiarimento. Certamente soltanto il secondo volume conterrà le conseguenze pratiche, vale a dire l’atteg- giamento che ne risulta nei confronti della storia; ma già il quarto capi- tolo di questo primo volume le prepara. MEINECKE nasce a Salzwedel, presso Magdeburgo. Si trasferì a Berlino, dove Meinecke compe gli studi liceali e (eccetto per due semestri passati a Bonn) anche quelli universitari, seguendo tra gli altri l’ultimo corso di Droysen. Dopo aver conseguito il dottorato a Berlino con una dissertazione sull’autenticità di un documento della storia tedesca entra nell'amministrazione degli archivi prussiani. Alla morte di Sybel — che guida i suoi primi passi di storico — Meinecke assume la direzione della Historische Zeitschrift, destinata a diventare, sotto la sua guida, il maggiore organo della storiografia tedesca. Risale a questi anni la preparazione della monumentale biografia di un generale delle guerre napoleoniche, Das Leben des Generalfeldmarschall Hermann von Boyen (Stuttgart, 1896-99). Nel 1896 ottiene l’abilitazione a Berlino, con il primo volume di questa biografia, e nel 1901 viene chiamato all’Universi- tà di Strasburgo, da dove passerà nel 1906 a Friburgo e nel 1914 a Berlino. Erede della tradizione storiografica prussiana dell'Ottocento, ammira- tore di Bismarck e della sua costruzione politica, Meinecke ha ben presto concentrato il proprio interesse sulla resistenza al dominio napoleo- nico e sul processo di formazione della Germania come stato nazionale. Rientrano in questo filone di ricerca il volume Des Zeitalter der deu- tschen Erhebung (Bielefeld-Leipzig) e i saggi raccolti in Von Stein zu Bismarck (Berlin, 1909), nonché il successivo volume Radowitz und die deutsche Revolution (Berlin, 1913) e numerosi altri studi sui rap- porti tra Prussia e Germania. Ma esso trova la sua maggiore espressione nella prima grande opera di Meinecke, Weltbiirgertum und National stat (Miùnchen-Berlin, 1908; tr. it. Firenze, 1930), dedicata all’esa- me del processo di traduzione in termini politici dell'ideale nazionale tedesco, e del contemporaneo processo di allargamento dell’atteggiamento politico prussiano che fa suo quell’ideale c gli offre una base concreta di realizzazione. La « nazione culturale » tedesca e la « nazione territoria- le» prussiana appaiono qui i termini dialettici di una relazione in virtù della quale la Germania perviene a costituirsi come stato nazionale. Il punto di arrivo di tale processo viene indicato nell'opera di Bismarck, di cui Meinecke fornisce una giustificazione storico-politica, riconoscen- do in essa la confluenza di uno sforzo storico secolare. Nel corso di quest’analisi Meinecke enuncia una concezione dello stato che appare fondata sull’attribuzione ad esso del carattere dell’individualità: in quan- to individuo, lo stato possiede il diritto all'auto-determinazione, e il suo compito è quello di provvedere alle condizioni che garantiscono la permanenza e l’accrescimento della sua potenza. Il distacco dal cosmopo- litismo illuministico appare quindi la premessa indispensabile per il riconoscimento del valore autonomo dello stato, del suo diritto ad affer- marsi e a farsi valere nei confronti degli altri stati. Questa prospettiva, al tempo stesso politica e filosofica, è stata posta in crisi dalla guerra e dalla sconfitta tedesca. Se già negli anni di Strasburgo, e soprattutto in quelli di Friburgo, Meinecke aveva corretto in senso liberale il giovanile nazionalismo conservatore di stampo prussia- no, dopo il 1918 egli appoggia la repubblica di Weimar, pronunciandosi in favore della democrazia. Ciò lo spinge — sulle tracce di Weber e di Troeltsch, suo collega a Berlino — ad assumere un atteggiamento critico verso la soluzione bismarckiana del problema nazionale tedesco e a ricono- scerne le insufficienze. Fin dai saggi raccolti nel volume Nach der Revolution (Minchen-Berlin, 1919) egli intraprende così un'opera di revisione delle prospettive storiografiche tradizionali, da lui stesso condi- vise negli anni precedenti, la quale si tradurrà, sul piano politico, in una costante opposizione al nazismo. Questo diverso orientamento di pensie- ro si rivela chiaramente nella seconda grande opera di Meinekce, Die Idee der Staatsrison in der neueren Geschichte (Minchen-Berlin, 1924; tr. it. Firenze, 1942), che ha il suo motivo conduttore nell’antitesi tra krdtos ed éthos, tra potenza e spirito. Quest’antitesi si presenta, agli occhi di Meinecke, come costitutiva del mondo della politica; e nel prevalere della potenza sullo spirito — quale si è avuto appunto nella storia tedesca da Bismarck in poi — egli addita il demone intrinseco alla politica. Lo stato è nel medesimo tempo potenza e spirito; ma proprio per questo motivo non deve smarrire la propria essenza spirituale, riducendosi a mera potenza. In quanto condizionata da una situazione oggettiva, e quindi inserita in una serie di rapporti causali, l’esistenza dello stato sorge su una base naturale; ma lo stato è pure orientato verso la realizzazione di valori, e perciò si eleva a una vita spirituale. La «ragion di stato» (che dà il titolo all'opera) è il ponte gettato tra la potenza e lo spirito allo scopo di risolvere la loro antinomia e di garantire la permanenza dello spirito nell’ambito della politica. Ma tale antinomia non è altro che un caso specifico di un contrasto più generale, quello tra il fondamento naturale della storia e il compito, ad essa inerente, di realizzare valori culturali. In questi stessi anni, attraverso la collaborazione con Troeltsch e lo studio dell'idea della «ragion di stato », Meinecke approda anch'egli alla teoria dei valori. Fin dal saggio Personlichkeit und geschichiliche Welt (1918), egli aveva rivendicato l'autonomia della personalità, definendola in base al rapporto tra necessi- tà e libertà, poi ripreso per qualificare la potenza e lo spirito nella loro antitesi; in seguito, in Ernst Troeltsch und das Problem des Historismus (1923) e in Kausalitàten und Werte in der Geschichte (1924), l’afferma- zione dell'autonomia dei valori rispetto alle serie causali che costituisco- no il processo storico lo conduce a doverne giustificare l’assolutezza, messa in questione dalle conseguenze relativistiche dello storicismo. Dopo essersi opposto all'avvento del nazismo, Meinecke è costretto al silenzio dopo il 1933, e nel ’35 deve lasciare Ia direzione della « Histori- sche Zeitschrift ». Il problema dello storicismo e del suo rapporto con i valori diventa, in questo periodo, l'oggetto principale della riflessione e dell'analisi storica meineckiana. Convinto che lo storicismo non conduca necessariamente al relativismo, ma possa coesistere con la fede in valori assoluti — secondo l'insegnamento che egli trova in Goethe e in Ranke — Meinecke traccia, in Die Entstehung des Historismus (Minchen-Ber- lin, 1936; tr. it. Firenze, 1954), un ampio quadro dello sviluppo dello storicismo dalle sue origini settecentesche fino alla cultura romantica. Al suo inizio, lo storicismo si è affermato in antitesi al giusnaturalismo e al suo presupposto di una ragione umana immutabile, depositaria di un sistema di verità eterne: l'atteggiamento giusnaturalistico appare così il grande antagonista dello storicismo. In seguito lo storicismo ha fatto valere, nel pensiero tedesco della fine del secolo xvitt, una diversa forma di considerazione della realtà, fondata su due princìpi — il principio dell’individualità di ogni fenomeno storico e il principio dello sviluppo. Ma questa concezione individualizzante ed evolutiva del processo storico non riveste senz'altro un significato relativistico; e proprio la lezione di Goethe e di Ranke ci dimostra che lo storicismo non esclude la possibili tà di considerare ogni epoca, ogni momento della storia in riferimento a valori assoluti. In vari saggi, poi raccolti in Vom geschichtlichen Sinn und vom Sinn der Geschichte (Leipzig, 1939; tr. it. Napoli, 1948) e negli Aphorismen und Skizzen zur Geschichte (Leipzig, 1942, 1953; tr. it. Napoli, 1962), Meinecke ha ribadito — richiamandosi soprattutto a Ranke — la presenza dell’assoluto nella storia, e al tempo stesso la sua irriducibilità al processo storico. Ma in tale maniera il rapporto tra immanenza e trascendenza dei valori viene a configurarsi come un mistero, la cui soluzione può essere fornita non già in termini razionali, ma soltanto dal ricorso alla fede. Dopo la fine della guerra e il crollo del nazismo Meinecke ha ripreso la critica dell’edificio politico bismarckiano, cercando — in Die deutsche Katastrophe (Wiesbaden, 1946; tr. it. Firenze, 1948) — una spiegazione del fenomeno nazista che ne individuasse le radici profonde nella storia tedesca. Questa critica lo ha pure condotto a moderare l’entusiastico richiamo a Ranke delle opere precedenti, e a rivalutare invece l’importan- za di Burckhardt. In seguito ebbe gran parte nella costituzione della Freie Universitit di Berlino-Ovest, di cui fu il primo rettore. Morì a Berlino-Dahlem il 6 febbraio 1954, più che novantenne. Gli scritti di Meinecke sono stati raccolti nei Werke, pubblicati per iniziativa del Meinecke-Institut della Freie Universitit di Berlino, ad opera dell'editore Oldenbourg di Minchen, della Toeche-Mittler Verlag di Darmstadt e della Koehler Verlag di Stuttgart. Il primo volume (a cura di W. Hofer, Miinchen, 1957) contiene Die Idee der Staatsrison in der neueren Geschichte; il secondo (a cura di G. Kotowski, Darmstadt, 1958) racchiude le Politische Schriften und Reden dal 1910 al 1951, ordinate cronologicamente; il terzo (a cura di C. Hinrichs, Miinchen, 1959) comprende Die Entstehung des Historismus; il quarto (a cura di E. Kessel, Stuttgart, 1959) raccoglie, sotto il titolo Zur Theorie und Philo- sophie der Geschichte, i principali saggi metodologici e filosofici, tra cui Persòonlichkeit und geschichiliche Welt, Kausalititen und Werte in der Geschichte, Geschichte und Gegenwart, gli scritti minori sulla storia dello storiciimo e in particolare su Goethe, Schiller, Schleiermacher, Ranke, Dilthey, Troeltsch, Spengler ecc.; il quinto (a cura di H. Herzfeld, Miinchen, 1962) contiene Weltbirgertum und Nationalstaat; il sesto (a cura di L. Dehio e P. Classen, Stuttgart, 1962) racchiude un'ampia scelta di lettere, col titolo Ausgewdhlter Briefwechsel; il setti- mo (a cura di E. Kessel, Miinchen, 1968) raccoglie, sotto il titolo Zur Geschichte der Geschichtsschreibung, numerosi saggi su Ranke, Burck- hardt, Droysen, Sybel, Treitschke, Lehmann, Delbriick, Baumgarten, Schmoller, Lamprecht, Dove, Below, Neumann ecc. Rimangono al di fuori di questa raccolta diversi volumi, in particola- re la monografia su Boyen, il volume Das Zeitalter der deutschen Erhebung, il volume Radowitz und die deutsche Revolution, e altri già menzionati nella nota biografica. Ad essi si devono aggiungere î due libri di memorie Er/ebtes 1862-1901, Leipzig, 1941, e Strassburg-Freiburg- Berlin, 1901-1919, Stuttgart, 1949, poi raccolti in unico volume col titolo Erlebtes 1862-1919, Stuttgart, 1964 (tr. it. Napoli, 1971). Dell’ampia letteratura critica concernente l’opera e il pensiero di Meinecke segnaliamo gli studi seguenti: F. CHÙiasop, Uno storico tedesco contemporaneo: Federico Meinecke, « Nuo- va rivista storica », XI, 1927, pp. 592-603. E. Seeserc, Zur Entstehung des Historismus: Gedanken zu Friedrich Meineckes jiingstem Werk, « Historische Zeitschrift », CLVII, 1937, pp. 241-66. W. Horer, Geschichtsschreibung und Weltanschauung: Betrachtungen zum Werk Friedrich Meineckes, Miinchen, 1950. W. Goetz, Friedrich Meinecke: Leben und Persònlichkeit, « Historische Zeitschrift », CLXXIV, 1952, pp. 231-50 (l’intero fascicolo è dedicato a Meinecke, ma contiene anche saggi di altro argomento). L. Denio, Friedrich Meinecke: der Historiker in der Krise, Berlin, 1953. H. Hottpack, Friedrich Meinecke: das Machiproblem in der neuesten deutschen Geschichte, « Hochland », XLVI, 1953-54, pp. 437-51. F. CuÙason, Federico Meineke, « Rivista storica italiana », LXVII, 1955, pp. 272-88. P. J. Wotrson, Friedrich Meinecke, « Journal of the History of Ideas », XIV, 1956, pp. 511-25. R. W. SterLIino, Ethics in a World of Power (The Political Ideas of Friedrich Meinecke), Princeton, 1958. A. Neeri, Saggi sullo storicismo tedesco: Dilthey e Meinecke, Milano, 1959, parte II. S. Pistone, Federico Meinecke e la crisi dello stato nazionale tedesco, Torino, 1969. F. Tessitore, Friedrich Meinecke storico delle idee, Firenze, 1969. Un'ampia bibliografia degli scritti di e su Meinecke è fornita da A. M. Reinotp nel fascicolo speciale della « Historische Zeitschrift » dedi- cato a Meinecke, CLXXIV, 1952, pp. 503-23; successive indicazioni si pos- sono trovare nei volumi sopra menzionati di S. Pistone e F. TESssITORE. Quando ho accettato di svolgere il tema della conferenza odierna, ho subito chiarito a me stesso che le applicazioni pedagogiche (che ci si attende forse in primo luogo da questa conferenza) potevano esaurirsi in breve tempo, mentre i princì- pi e le convinzioni generali da cui esse devono scaturire si affacciano su problemi che oggi toccano non soltanto lo storico, ma ogni uomo che aspiri alla personalità. Parlare di questi problemi e prima ancora confrontarmi con essi, mi stimolava tanto più fortemente quanto più le tempeste di quest'epoca, nel mezzo della lotta e della preoccupazione senza respiro a cui ci costringono, hanno ridestato in noi tutti una nuova pre- potente nostalgia per il raccoglimento interiore e per l’auto-ri- flessione. La questione principale sarà quindi la seguente: che cosa significa il mondo storico per la formazione della persona- lità? Dalla risposta che ne seguirà si potranno trarre subito, e facilmente, le conseguenze per lo spirito e il metodo dell’inse- gnamento della storia. Ma che cos'è — dobbiamo chiederci anzitutto — la persona- lità, che cosa vuole e deve essere? Il detto di Goethe, che la personalità è la felicità suprema dei figli della terra, risuona * Die Bedeutung der geschichtlichen Welt und des Geschichtsunterrichts fiir die Bildung der Einzelpersonlichkeit, « Geschichtliche Abende im Zentralinstitut fir Er- zichung und Unterricht », 2, Berlin, E.S. Mittler und Sohn, 1918, 2* ed. col titolo Personlichkeit und geschichtliche Welt, 1922, poi raccolto in Staat und Persònlichkeit, Berlin, E. S. Mittler und Sohn, 1933, pp. 1-27, e in Schaffender Spiegel (Studien zur deutschen Geschichtsschreibung und Geschichtsauffassung), Stuttgart, K. F. Kochler Verlag, 1948, pp. 211-228, infine in Werke, vol. IV: Zur Theorie und Philosophie der Geschichte (a cura di E. Kesscl), Stuttgart, K. F. Koehler Verlag, 1959, pp. 30-60 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi). all'orecchio come il suono di campana di una chiesa che ci dà, nelle dispersive cure quotidiane, una promessa quieta e regolar- mente ripetuta, una promessa che è però, al tempo stesso, una richiesta. E invero essa promette e richiede da noi una certa costanza interiore in mezzo a tutte le cose esterne che ci assedia- no e che ci pongono in uno stato di attività o di compartecipa- zione, ossia un limite saldo che possiamo e dobbiamo custodire tra l’interno e l’esterno, e che deve non già chiudere ermetica- mente l’interno, ma regolare e guidare il suo rapporto con il mondo esterno, un santuario interiore con vie di entrata e di uscita, egualmente adatto per riposare tranquillamente e racco- gliere le forze in noi stessi come per scaricare attivamente tali forze verso l’esterno; in breve, un mondo autonomo e tuttavia organicamente connesso con il grande mondo, singolare e inso- stituibile, e tuttavia soltanto configurazione particolare di forze universali della vita, libero in sé e tuttavia dipendente dalla totalità, che abbraccia contemporaneamente, al di là di tutto questo, l'elemento più reale e vivente che abbiamo e che nessuna critica della conoscenza può sottrarci, vale a dire l’io consapevole di se stesso. Questo elemento più vitale di ogni altro ci è dato dalla natura come un dono miracoloso. Un miracolo altrettanto grande, ma che richiede un’elaborazione attiva, è quello di costruire in base ad esso la personalità e di elevarci in tal modo al di sopra della semplice natura. Si comprende che la personalità dev'essere la felicità suprema dei figli della terra soltanto quando si diventa consapevoli di que- sto duplice miracolo. Mentre la natura costringe tutta la vita di altro genere che essa reca alla luce nei ferrei vincoli della determinatezza, all’uomo essa lascia la possibilità di sciogliere questi vincoli, di costruire in sé un mondo della libertà, di curare in esso il bene supremo della libertà — peculiarità inimi- tabile — senza però perdere la connessione con tutto il resto della vita. Non si può essere felici nell’isolamento completo, ma non si può esserlo neppure nella completa fusione con il mondo esterno. Per diventarlo si deve sentire nella libertà il legame e la partecipazione alla totalità della vita e sentire di nuovo in ogni legame e in ogni comunanza la libertà e l’unici- tà della propria vita. In questo rapporto della personalità con il mondo è prefigurata al tempo stesso la forma originaria di ogni buona e vitale costituzione dello stato e della società. Il singolo e la totalità, l'io e l’ambiente — nella loro azione reciproca, nella loro auto-conservazione reciproca all’interno di una connessione inseparabile scorre anche la vita storica. Sorgono così due problemi: che cosa significa la personalità per il mondo storico? e che cosa significa il mondo storico per la formazione della personalità? Viene subito in luce che il primo problema è stato trattato molto più di frequente, e in modo manifestamente più interessato del secondo. Forse che in ciò si manifesta un certo sentimento di fondo che la prima questione sia più importante della seconda? Bisognerebbe am- mettere che la totalità ha maggior valore del singolo e che si tratta anzitutto di indagare questa totalità del mondo storico nei fattori in essa operanti? Non c’è dubbio che in questo privilegiamento del primo problema si palesano sia lo spirito sto- rico del secolo x1x sia l’allargamento della vita storica complessi- va che ha avuto luogo nel corso di esso. Agli inizi e fino al culmine della filosofia idealistica si muoveva ancora dai bisogni della personalità; in Kant e in Fichte era quindi dominante il problema della libertà etica. Ma già in Hegel il processo stori- co complessivo, che travolge gli individui — lo vogliano o no — nella sua corrente, diventava il tema predominante. Con lo sviluppo della moderna scienza storica e con l’importanza cre- scente delle masse si giunse quindi alla grossa disputa tra ten- denza collettivistica e tendenza individualistica. Il collettivi- smo e — in intimo accordo con esso — il positivismo e la nuova scienza sociologica presero le mosse, nella loro imposta- zione dei problemi, dall’importanza predominante delle colletti- vità rispetto agli individui. La tendenza individualistica della scienza storica e la filosofia ad essa prossima si sentivano, nei confronti di quelle tendenze, più in difesa che all'attacco, e si sforzavano al tempo stesso coscienziosamente di riconoscere il nucleo di legittimità presente nelle tesi dei collettivisti. In tal modo sulla nostra immagine della storia è stata distesa una robusta rete di nozioni collettivistiche e, di fronte alla pres- sione esercitata dalle grandi forze della vita storica comples- siva sul singolo individuo, sempre più fievole è diventata la questione del senso e dello scopo del mondo storico per la formazione delle personalità libere e singolari. Quest'ultima minacciava di fatto di perdere importanza e di recedere da scopo in sé a mezzo subordinato nei confronti del corso complessivo. Dovremo ancora occuparci della situazione che ne risultava per il rapporto della moderna personalità con il mondo storico. Una cosa è però certa, cioè che le due questioni dell'importan- za della personalità per la storia e dell’importanza della storia per la personalità sono connesse tra loro, e che la risposta all'una pregiudica sempre la risposta all’altra. Coloro che soste- nevano l’importanza della personalità per la storia lo facevano proprio perché sentivano profondamente l’importanza del mon- do storico per la loro propria vita personale. Essi nascon- devano con pudore il loro interesse etico-pratico mascheran- dolo sotto un problema di pura conoscenza. Ora noi torniamo a districarlo chiarendoci le conseguenze del collettivismo e del- l’individualismo per il nostro problema. Il collettivismo nella sua forma più netta vede nell’indivi- duo solamente un punto di intersezione e di passaggio delle varie forze sociali. Le grandi istituzioni, i costumi e le opi- nioni — diventati stabili — dei gruppi sociali e delle comunità dei popoli trascinano e attraversano l’individuo inerte, che dal- la natura ha ricevuto il carattere di un individuo da gregge. Pertanto progresso e sviluppo verso nuove istituzioni e nuove intuizioni non sono l’opera di singoli uomini, ma l’espressione di mutati rapporti di vita esterni. Gli individui, che sembrano rappresentare € realizzare questi rinnovamenti, sono soltanto gli esponenti di rapporti e di tendenze più generali. Il mondo storico, così come viene praticamente vissuto nella sua pienezza di istituzioni tramandate e di forze vitali, ha quindi sì un’im- portanza enorme e addirittura predominante per l’individuali- tà, ma non lascia spazio né materia alla costruzione di una libera e singolare personalità da parte dell'individuo. Ciò che appare sotto forma di personalità libera e incomparabile viene costruito piuttosto dall'ambiente, e tutti i materiali dell’edifi- cio derivano da questo. La composizione di tali elementi all’in- terno del singolo individuo può essere singolare e individuale, ma soltanto come la composizione dell'immagine multicolore nel caleidoscopio. Inoltre il mondo storico, così come può esse- re vissuto teoricamente nell'indagine e nell’intuizione del passa- to, darà alla testa pensante la seria e rigorosa nozione fondamentale che l’uomo è fatto di materia comune e che l’abitudine è la sua nutrice. Tuttavia un deprimente determinismo di tal genere non è rimasto l’ultima parola delle teorie positivistiche e collettivisti- che. Piuttosto, proprio dal loro centro risuona il richiamo al progresso e all’ascesa, alla liberazione dell'umanità dalla gravo- sa pressione del passato. Ma la sua speranza si collega in tal mo- do non alle forze etico-individuali, ma a quelle etico-sociali. Esse credono alla presenza e alla crescita graduale di una ragione collettiva, di una disposizione generale dell'umanità — o di certe razze dell'umanità — a sollevarsi dallo stato di pura naturalità, attraverso lo stadio di semi-civiltà, fino a uno stato di popoli compiutamente civili. E questo processo di incivili- mento raggiunge poi anche il singolo individuo, lo arricchisce e lo libera in qualche misura, crea il moderno uomo civile e il moderno soggettivismo — ma sempre soltanto in virtù di un’or- ganizzazione generale che sta al di sotto di esso e lo spinge in avanti. Anche ogni etica pratica che si connetta a questo modo di vedere procede in maniera caratteristica dall’affermazione di possibilità generali, di diritti universali, di libertà e di migliora- menti della situazione sociale, economica e politica che devono mettere l’individuo in grado di partecipare, secondo la misura delle sue doti, a tutti i beni culturali elaborati dalla collet- tività. Questo è il processo ideale della moderna democrazia occidentale, la quale riposa ampiamente su presupposti positivi- stici e collettivistici. Ma con questo tipo di costruzione teore- tica e pratica del mondo storico — dobbiamo ora chiederci — si può sviluppare la piena felicità di ciò che Goethe intendeva parlando di personalità? Ciò è possibile soltanto se essa dimenti- ca i tetri presupposti di questa costruzione, se essa si sente non soltanto come prodotto di uno sviluppo generale, come compar- tecipe dei suoi frutti — dei dividendi da esso in certa misura versati — ma anche come portatrice di uno sviluppo individua- le del tutto specifico, come detentrice di un grado elevato di libera auto-determinazione, come proprietaria di una fonte na- scosta di vita spontanea. Un positivismo intelligente si spinge anche fino ad ammettere che una fede siffatta è utile per susci- tare nell’individuo il massimo di forza e di felicità, perché l'illusione di essere liberi ha lo stesso effetto di esserlo veramente. Quest'illusione può poi aggirarsi nella luce crepuscolare del dubbio e della fede, come ama fare il moderno uomo di cultu- ra, spiritualmente differenziato e soggettivisticamente eccitabi- le. Su tale via si possono ottenere molteplici sensazioni e im- pressioni sul rapporto tra io e mondo, un raffinato auto-godi- mento, anche uno slancio ostinato verso uno stato di superuo- mo con prove svariate e perfino eroiche: spesso incontriamo queste disposizioni nei profili dei nostri giovani in uniforme, e la nostra poesia e la nostra arte più recenti ne sono piene. Ma una quieta e profonda chiarezza sul rapporto del mondo stori- co con la personalità, un’armonica sicurezza della personalità, un vittorioso superamento del dubbio paralizzante e distruttivo sul valore della vita storica non possono essere ottenuti in que- sto modo. Per sciogliere tale dubbio occorre partire da un’altra conce- zione della personalità — proprio da quella che sviluppavo in apertura. Essa non si fonda soltanto sul fatto che ci è gradita e forse ci aiuta nella lotta della vita, ma sul fatto che viene richiesta sia da un’auto-osservazione immediata sia da una con- siderazione impregiudicata della vita storica. L’auto-osservazio- ne ci insegna che la ferrea legge causale, entro cui vediamo incatenata senza eccezioni la vita storica, ha tuttavia la sua radice ultima solamente nella profondità dello spirito umano, e che da questa stessa profondità scaturiscono anche altri bisogni, altrettanto costrittivi, che non permettono di considerare il mondo storico soltanto come una sezione dalla generale connes- sione causale della natura. Lo spirito umano crea, ed è costretto a creare — in base a un impulso spontaneo e a una disposizio- ne originaria — un mondo di valori spirituali ed etici i cui destini sono sì sottoposti nella vita alla legge causale e al mutare delle cose, ma la cui esîstenza in sé rivela nell'uomo una sfera superiore alla connessione naturale e causale. Costrui- re questa sfera non vuol soltanto dire creare la cultura e la storia, ma vuol dire anche creare la personalità; poiché alla personalità spetta conservare e continuare i valori della cultura una volta creati — questa è la sua funzione storica. Tali valori culturali non sono solamente, come vuole il positivismo, puri prodotti causali di rapporti e di forze generali — certamente, questi vi cooperano potentemente e devono essere assolutamente riconosciuti — ma sono affidati, per mantenere la loro vitali- tà ed essere incrementati, al lavoro comune di innumerevoli individui singoli. Non è soltanto la grande personalità domi- nante, l’eroe nel senso di Carlyle, che fa la storia e produce la cultura; ogni singolo uomo in cui si è destata una vita spiritua- le, liberata dal vincolo naturale, vi coopera e può contribuire ad essa con qualcosa di originale e di proprio. In tutte le nuove formazioni della vita storica la ricerca deve sempre, quando vi riesce, indagare più a fondo la loro genesi; deve sentire il respiro della vita individuale e personale — uomini che non erano soddisfatti di sopportare ancora pazientemente il passa- to, di essere mera impronta dell'ambiente e di rimanere un numero nella massa oscura, ma che aspiravano inquieti, con nostalgia e desiderio, ad acquistare per sé un frammento di libertà e il dominio sull’ambiente, di imprimere nell'ambiente un frammento del proprio io, creando il bene come il male ma diventando con ciò fermento della storia. Certamente, si deve subito aggiungere che ogni elemento di novità che la personali- tà singola può imporre alla vita storica si trova nella più stretta continuità e connessione causale con l’antico, con ciò che è tramandato, e ne è a ogni passo condizionato e delimita- to. La libertà di movimento e il carattere specifico della persona- lità possono sì apparire talmente piccoli che si capisce che si sia voluto eliminarli dalla storia considerata come fattore essen- ziale; ma sono abbastanza grandi per poter comprendere il miracolo per cui lo spirito si è sollevato al di là dei limiti della natura, nonostante ogni legame con essa, e ha potuto produrre un mondo storico. Soltanto a questo punto possiamo dare una risposta all’altro aspetto, oggi dominante, del duplice problema e cercare di chiarire l’importanza del mondo storico per la costruzione del- la personalità. Fin dal principio esso assume ora, per l’indivi- duo, colori più chiari e gioiosi che in una concezione rigorosa- mente positivistica del mondo storico. E gli fa cenno dicendo: entra in me, io non ti soffocherò se ti farai coraggio e se vorrai guardarmi nel cuore. Io non sono per te un ferreo desti- no che non ti lascia scelta alcuna nel pensiero e nell'azione, ma sono un compito alla cui soluzione sei chiamato a collabora- re. Devi servirmi, ma non come schiavo, bensì come uomo libero; poiché solamente in quanto innumerevoli altri prima di te l'hanno fatto, sono diventato ciò che sono e sono in grado di offrirti la mano per liberarti dall’oppressione della legge naturale. Guardami inoltre nella pienezza delle mie confi- gurazioni, nessuna delle quali è eguale all’altra e che pure sono tessute tutte insieme da me. Da ciò trai la speranza che anche il tuo elemento più proprio € più peculiare sarà conserva- to in me, anche se costituirà soltanto un piccolo filo nel mio manto regale. E perciò ti dico: diventa libero, diventa te stesso. Il mondo storico pone quindi alla singola personalità una richiesta generale e una richiesta individuale. Essa deve compie- re qualcosa di universalmente valido, impiegando tutto ciò che di soltanto istintivo è in essa presente come materia e mezzo per scopi etici e spirituali ed erigendo così in sé il dominio di ciò che è ideale. Anche questi scopi ideali compaiono anzitutto come qualcosa di universale, imposti alla personalità dall’ester- no. Tutti i doveri e i compiti — la famiglia, il lavoro, la società, la patria, lo stato e la cultura — rientrano in questo ambito. In essi si nasce e non si può sceglierli a piacimento, perché fin dall’inizio ci assalgono imperiosamente. Se dalla per- sonalità non si richiedesse altro se non che, opprimendo i suoi impulsi egoistici, essa si elevasse — in virtù dell’auto-determina- zione etica nel senso kantiano — a organo degli interessi uni- versali e agisse soltanto secondo massime di una legislazione universale, non si sarebbe ancora fatto abbastanza. Si otterreb- be soltanto una libertà formale, non ancora riempita di contenu- to; poiché il contenuto di questo agire eticamente libero ci sarebbe fornito dal mondo esterno. E all’osservatore critico gli uomini che volessero accontentarsi di questa specie di libertà non potrebbero ancora apparire come personalità compiute, ma soltanto come inservienti volontari di scopi oggettivi forse molto grandi, ma pur sempre formati dall’esterno. Inoltre que- sti scopi storici sfocerebbero facilmente in una rigidità priva di vita, e diventerebbero simili a quel carro degli dèi indiano il qua- le stritola le masse dei fedeli che si buttano davanti ad esso. In questa maniera i nostri nemici hanno rappresentato, durante la guerra, il rapporto del Tedesco con il suo stato tramandato e ci hanno attribuito un cieco, fanatico servilismo verso lo stato, che per fortuna è lungi da noi ma che — comunque lo Friedrich Meinecke intorno si consideri — può essere ammesso come possibilità estrema di certi germi di sviluppo presenti in noi. La personalità stessa e il mondo storico che la circonda soffrirebbero di questa specie di rapporto, perché dalla personalità non si potrebbe trarre fuori tutto quanto c’è in essa, tutto ciò che potrebbe servire e contribuire al mondo storico. La dottrina dell’imperativo cate- gorico — questa legge fondamentale di formazione della perso- nalità — dev'essere quindi integrata, così come la legge del Vecchio Testamento ha trovato il suo compimento nel Nuovo Testamento. Diventa te stesso — dice questa legge del Nuovo Testamento alla personalità. Coltiva la tua peculiarità non con l’amore animale, senza capacità di scelta, per tutto ciò che ti spinge verso la peculiarità e vorrebbe affermarsi contro il mon- do esterno, poiché ciò conduce soltanto alla soggettività vana o all’ostinata eccentricità. Riconosci invece la legge organica in base a cui le tue forze individuali e i beni vitali tratti dal tuo ambiente possono connettersi in un mondo unitario, in sé con- cluso; cerca un principio direttivo, un’idea della tua vita in te stesso che possa valere solamente per te e per nessun altro allo stesso modo, perché a ogni passo decisivo nella vita devi interro- gare solo te stesso e la tua coscienza in merito al tuo dovere. Questa formazione in noi di un’idea individuale della vita per- mette anche — come lo permetteva già l'imperativo categorico — la lotta contro gli impulsi inferiori, sensibili, non già per reprimerli bensì per ordinarli ed educarli, per dare anche al bisogno presente in noi, indifferente e gregario, una nota parti- colare, un valore consono con la totalità della vita. Nel concet- to di individualità non è possibile infatti conservare la divisio- ne netta tra spirito e materia. La dote naturale della natura sensibile-spirituale complessiva è e rimane il terreno che alimen- ta la personalità; e soltanto in base all’armonia, alla reciproca compenetrazione e illuminazione dei sensi e dell'anima cresce la sua peculiarità, la sua bellezza e la sua forza. È un’acquisi-zione della sensibilità moderna che essa non pretenda più di dividere questa connessione data e vivente con un atto di violen- ta ascesi dello spirito nei riguardi del mondo sensibile. In tal modo le svolte storiche del secolo xtx penetrano nella formazio- ne del moderno ideale di personalità. Il carattere rigoristico 5 dell’etica kantiana tradisce ancora la sua origine dall’ascesi cristiana. Ma contemporaneamente già nasceva, con Rousseau e Goethe, un nuovo sentimento della vita — la coscienza dell’uni- tà ultima di natura e spirito, dello stretto e misterioso intreccio di forze sensibili e forze spirituali, dell’accresciuta pienezza vi- tale dell’uomo, che si immerge gioioso in questo sentimento di unità. In stretta connessione con tutto ciò Herder, Goethe, Wil- helm von Humboldt e i Romantici scoprivano il valore insosti- tuibile dell'individuale, di ciò che è cresciuto in modo origina- le e singolare nella storia e nella vita. Lo spirito realistico del secolo x1x fece uso pratico di queste nuove sensazioni e cono- scenze in quanto, distruggendo dottrine e pregiudizi, riconob- be il diritto alla propria esperienza e osservazione della vita, colse e sfruttò ovunque ciò che c’è di attivo, di naturalmente dato e di potente, e cercò così anche di dispiegare in pieno la forza dell’individuale e della personalità. Ne è derivata — certa- mente con alcune riserve che dobbiamo ancora avanzare — una più robusta ondata di sangue vitale per il nostro ideale di personalità. La situazione storica che si presenta di volta in volta ha quindi un’importanza enorme per la formazione della persona- lità. La disposizione e l’impulso a diventare personalità è uni- versalmente umano e opera a tutti i livelli dello sviluppo, an- che a quelli più bassi, sebbene la pressione del mondo esterno e della tradizione permetta che su questi si dispieghino soltanto pochi germi, particolarmente forti. Inoltre la specificità dell’am- biente storico agisce in modo da destare in primo luogo le disposizioni che hanno una corrispondenza con esso e da la- sciar cadere altre disposizioni, non circondate dal favore della costellazione. Intere pleiadi di pittori o di dotti, di teste politi- che o di nature religiose possono prosperare stupendamente in un'epoca, mentre l’epoca successiva ricopre nuovamente quelle strade già aperte alla personalità. Un Goethe potrebbe diventa- re ancor oggi Goethe? Appartiene alla tragicità della vita stori- ca che la vocazione di un’epoca — si potrebbe dire la sua predestinazione — tocchi sempre soltanto alcuni lasciando inve- ce altri, che in epoca diversa avrebbero potuto attingere una grandezza umana, nell'esercito sonnolento della massa. Ma un'autentica natura gocthiana metterebbe in moto i suoi cle- menti e mediterebbe la propria ascesa anche in epoca sfavorevole. Perciò anche le masse non possono mai essere considerate nella storia come masse del tutto morte. Esse sono piene di personalità potenziali che, se anche non possono risplendere, gettano tuttavia un barlume di luce sul loro ambiente. Anche i guerrieri dell'esercito sonnolento sognano la vittoria e la glo- ria. — Buona e cattiva stagione per la personalità si alternano quindi nel corso della storia. I tempi più favorevoli al suo sviluppo sono quelli dell’albeggiare tra vecchie e nuove epo- che, quando forme vitali, idee e istituzioni da tempo dominan- ti si rilassano e si trasformano, perdendo la loro forza vincolan- te. Allora il bisogno sociale, politico e spirituale procede incer- to alla ricerca di nuove vie; ma presto, come in un'alta marea, spumeggia il coraggio di un pensiero e di un agire nuovo, fresco e perfino rivoluzionario, e brulicano d’un tratto teste vitali e originali. Così avvenne quando la Grecia passò dall’epo- ca arcaica a quella delle guerre persiane: le rigide costituzioni aristocratiche delle sue città-stato furono turbate dal nuovo fer- mento della democrazia, e contemporaneamente si destò il dub- bio verso l’antica fede negli dèi. La stessa cosa accadde nel mondo romano-germanico alle soglie tra Medioevo ed età mo- derna, anzitutto nella vivace Italia del Rinascimento, ma an- che sul pesante e più duro terreno della Germania agli inizi dell’Umanesimo e della Riforma. Sarebbe però errato cercare in queste epoche l’esigenza e la capacità di produrre nuova vita personale esclusivamente presso i rinnovatori e le loro nuo- ve idee riformatrici. Si potrebbe piuttosto azzardare la tesi che, con quanta maggiore forza e personalità irrompe la nuo- va vita, tanto più forza vitale dev’esserci ancora in ciò che è vecchio. Le nuove idee non scaturiscono mai da situazioni total- mente marce e senili. La Chiesa romana non era marcia e senile quando Lutero se ne distaccò. Proprio ciò che vi era ancora di vitale nel Cristianesimo medievale gli ha dato un infinito travaglio, e Lutero non si è mai completamente sottrat- to al suo dominio. Tutte le grandi personalità riformatrici so- no state uomini di transizione, la cui interiorità era «campo di battaglia tra due epoche » e il cui mondo ideale di penetran- te ricerca mostra spesso una continuità sorprendente con la tra- dizione dalia quale si sono liberati. Di regola il rinnovatore respinge consapevolmente soltanto una parte di ciò che è vecchio, e non ne abbandona mai completamente il terreno. Ma i conflitti che ne derivano sono adatti, come nessun altro, ad agitare l’assopita profondità dell’uomo, spingendolo a raccoglie- re saldamente e a organizzare gli elementi della sua natura per poter affrontare la lotta con il passato e il mondo esterno — e costruire così la personalità. Allora anche nature di media forza e di medio talento possono innalzarsi al di sopra di se stesse. Ulrico di Hutten' non era affatto un pensatore profon- do né un carattere armonico, e probabilmente in tempi norma- li non sarebbe andato oltre una certa varietà problematica di impieghi del suo focoso impulso vitale; nella sua nuova missio- ne crebbe nel volgere di pochi anni, quasi di colpo, fino a diventare una personalità orgogliosa, libera e sicura di sé. Con un grande senso delle condizioni di vita della personalità Con- rad Ferdinand Meyer? ha contrapposto allo Hutten morente il giovane Loyola?, uno dei massimi maestri della storia universa- le per quanto riguarda la costruzione della propria personalità. Anche il vecchio mondo può infatti mostrare, in queste epo- che rivoluzionarie, di che cosa sia ancora capace, e gettare con- tro l'epoca nuova potenti caratteri rappresentativi. Quando un secolo fa la Prussia muoveva i primi passi decisivi da stato organizzato in base a ceti a stato borghese-nazionale e tutta una serie di importanti personalità si sollevava storicamente all'altezza di questo compito, era al tempo stesso uno spettaco- lo magnifico vedere lo Junker Marwitz* impegnarsi in una lotta cavalleresca, da antico gentiluomo della Marca, come in 1. Ulrico di Hutten, umanista tedesco, autore dell’Ars versificandi (1511), del Mordus gallicus (1519) e di vari altri scritti, fu coinvolto nella vita poli- tica c nelle polemiche letterarie della Germania del primo Cinquecento; fu tra i mag- giori collaboratori della raccolta di Epistelae obscurorum virorum (1517). Allo scoppio della Riforma prese posizione contro la Chiesa romana, cd ebbe un'aspra polemica con Erasmo. 2. Conrad Ferdinand Meyer (1825-1898), poeta c romanziere svizzero, autore di Balladen (1867), di Romanzen und Bilder (1870), del poema Muttens letzte Tage e di un altro pocma su Engelberg, nonché di numerose altre poesie e di romanzi, soprattutto di argomento rinascimentale, come /iirg Jenatsch (1876) c Der Heilige (1880). Mcinccke si riferisce qui, ovviamente, al pocma su Hutten. 3. Ignazio di Loyola (1491-1556), fondatore della Compagnia di Gesù, una delle più cminenti figure della Controriforma cattolica. 4. Friedrich August Ludwig von der Marwitz (1777-1837), generale dell'esercito prussiano dal 1817, vagheggiò la restaurazione della vecchia società organizzata in base ai «ceti »: le sue opere sono apparse postume nel 1852. un’armatura sferragliante, contro l’epoca nuova. Anche il conte- nuto vitale della vecchia epoca può essere spesso toccato dalle nuove idee, nonostante la sua resistenza esterna, e presentarsi quindi in modo particolarmente ricco d’interiorità e raffinato. I colti amici di Federico Guglielmo IV, accesi di entusiasmo per l’autorità di diritto divino e per il vecchio stato patrimonia- le, vedevano nel soggettivismo e nel panteismo dei moderni un peccato mortale; tuttavia non sempre potevano, alla luce di una sottile indagine psicologica, assolversi l’un l’altro da que- sto peccato. Per comprendere tale gioco riflesso di idee la sem- plice storia delle idee non è sufficiente, perché essa non può non cedere alla tentazione di vedere l’individuale come qualco- sa di soltanto ideale. Solamente la domanda relativa all’effetto che questi intrecci di idee hanno avuto sulla formazione della personalità conduce nel cuore dell’uomo. Ogni epoca produce anche i suoi particolari tipi di personali- tà. Nei periodi di ampio e inarrestato dispiegamento delle for- ze nazionali, quando le lotte di liberazione e di unificazione gloriosamente condotte a termine, la fine dei disordini cittadi- ni, la prosperità economica elevano il sentimento di sé, risve- gliano la fiducia in sé e nell’epoca, stimolano il senso impren- ditoriale, la personalità si sviluppa in modo diverso che nei tempi di lotta e di transizione. L'Atene di Pericle, la Roma augustea, l’Inghilterra nell’epoca di Elisabetta e l'Olanda nel suo secolo d’oro hanno vissuto periodi del genere. Allora rece- dono le tensioni interne e le lotte psicologiche, in cui il singo- lo cerca se stesso seguendo la sua legge; si appianano le rughe dei volti e gli uomini ci appaiono più armonici e pacifici, più ricchi e rigogliosi. Allora spiriti grandi, medi e piccoli possono dispiegarsi l’uno accanto all’altro in una pienezza brulicante e recare alla luce tutto quanto è in essi presente. Un Sofocle e un Orazio, uno Shakespeare e un Rembrandt crebbero in que- ste condizioni. Anche i caratteri politici possono, in queste epo- che che scorrono tranquille o — il che è assai simile — alla testa di piccoli stati non scossi fortemente dalle lotte per la potenza, perdere qualcosa della rigida unilateralità della loro 5. Federico Gugliclmo IV (1795-1861), re di Prussia dal 1840 alla morte, amante dell'antichità e delle arti. volontà, e apparire più rilassati, più inclini al compromesso e più disposti al godimento e a una cultura più varia. Pericle non ha sviluppato la sua poliedrica personalità durante le guer- re persiane e neppure in quelle peloponnesiache, ma negli opu- lenti decenni intermedi. E le repubbliche cittadine italiane e tedesche, i piccoli e medi stati tedeschi, la Svizzera, hanno prodotto non pochi uomini di stato forniti di una certa forza mite, di costante avvedutezza e di equilibrio spirituale — dal borgomastro strasburghese Jakob Sturm ai moderni uomini di stato del Baden all’epoca della fondazione dell'Impero. Non si deve certo dimenticare che un'epoca di lotta e di transizione non è mai esclusivamente tale, c che non vi sono neppure epoche e situazioni di pura fioritura e raccolta. Ogni epoca storica ha sopra di sé diversi strati atmosferici disposti l’uno sull’altro, tempestosi o sereni, e i contemporanei cercano ora nell’uno ora nell’altro la collocazione della loro personalità. Spesso però i caratteri più grandi e più ricchi possono muover- si contemporaneamente con eguale energia in tutti questi stra- ti. Occorre ancora una volta pensare al Rinascimento italiano, in cui si vedono sovrapposti immediatamente gli strati di una forza che erompe rigogliosamente, di una contemplazione di- mentica del mondo, di conflitti appassionati di idee e di tenza. Nella sua qualità di uomo di stato in esilio Machiavel- li racconta come passava il tempo nel suo villaggio giocando per alcune ore al giorno con gente del popolo, per poi ritorna- re nel suo santuario e alzare con venerazione lo sguardo alle opere degli antichi. Contemporaneamente, però, scriveva il li- bro sul Principe, che conteneva una forza la quale avrebbe mosso il mondo. In questa doppia vita di passione politica e di godimento spirituale egli ebbe un precursore nell’imperatore Federico II”, certamente la personalità più colta del Medioevo. 6. Jakob Sturm (1489-1553), giurista e uomo politico tedesco, fu uno dei capi della Riforma protestante in Germania. Avviato alla carricra ecclesiastica c poi a quella diplomatica, studiò diritto a Liegi c a Porigi; rientrato nel 1524 a Strasburgo, fece parte del Senato c quindi, a partire dal 1526, del Consiglio dei Tredici; in seguito fu varie volte presidente del Senato. Convertitosi alla dottrina luterana, prese parte alle controversie religiose dell'epoca, e svolse un'intensa attività diplomatica, rappre- sentando Strasburgo alla prima dicta di Spira e in varie altre occasioni. 7. Federico Il di Svevia (1194-1250), re di Germania c, dal 1220, imperatore del Sacro Romano Impero, viene qui ricordato per i suoi interessi culturali, che fecero Anche questi viveva in un secolo intimamente duplice, in cui c'era la compenetrazione e l'accostamento di vecchie e nuove idee, il rigoglioso dispiegamento della vita e lo scontro più violento; in tutte queste sfere Federico II si muoveva con egua- le virtuosismo, artista nella vita e uomo di volontà a un tem- po, e di durezza diamantina nel nucleo del suo essere. Emerge qui la personalità, per alcuni aspetti comparabile, di Federico il Grande, che dal suo secolo prese sia gli ideali filantropici e i gusti spirituali della filosofia illuministica sia il lavoro di formazione dello stato e della potenza che disprezza gli uomi- ni, mescolando eroicamente queste contraddizioni nelle prove imposte dal destino alla sua personalità. Attraverso l’irradiarsi della sua natura e delle sue azioni egli diventò uno degli elementi di formazione delle personali tà della nostra epoca classica. Nulla agisce in modo così imme- diato sul destarsi della personalità nell’uomo come il modello di una personalità estranea. Tutta la vecchia concezione della storia e la vecchia etica della storia non conoscevano consiglio migliore che quello di fare — come ha detto Machiavelli — come l’arciere che dirige il suo arco più in alto del bersaglio, e di scegliersi a modelli della propria condotta di vita i maggio- ri eroi, i grandi eroi irraggiungibili del passato. Da allora noi sappiamo che con la semplice imitazione di tratti estranei non si è fatto ancor nulla, e che non basta l’imitazione da sola a mediare le influenze di una personalità sull’altra. Tutti i mate- riali e gli stimoli del mondo storico, che l’individuo trae da esso per formare la sua personalità, equivalgono agli elementi del terreno che la pianta estrae scegliendo secondo il bisogno della propria legge di formazione organica e respingendo ciò che non le si confà. Federico il Grande aveva tratti quanto mai estranei, addirittura antipatici, a Goethe, Schiller, Kant e Fichte: non si appassionavano per lui, anzi lo rifiutavano in vari modi, ma lo rivivevano. Non potevano fare a meno del miracolo che aveva reso possibile un uomo del genere — eroe e filosofo al tempo stesso — nella loro epoca, che ritenevano della sua corte palermitana uno dei maggiori centri della vita intellettuale della prima metà del secolo xt. Fu egli stesso uomo esperto di matematica e di scienza naturale; le sue liriche ne fanno uno dei primi pocti italiani, esponente della scuola siciliana. Alla sua iniziativa si deve il codice. troppo colta e raffinata. Sicché Federico il Grande non ha sola- mente rafforzato la loro coscienza nazionale e l'orgoglio di essere Tedeschi, ma ha anche consolidato — cosa ancor più necessaria per loro — la fede che la loro vocazione e il loro dovere consisteva nel rompere i limiti della convenzione, i pre- giudizi dell’epoca, e diventare uomini seguendo la propria legge. Anche dai tempi in cui vissero essi e le altre personalità della loro generazione attinsero la linfa di cui avevano biso- gno, secondo le leggi della più individuale affinità elettiva. Essi vissero successivamente un’epoca di dispiegamento, un’epo- ca di lotta e poi ancora una pacifica età di dispiegamento nei giorni dell’ancien régime al tramonto, della Rivoluzione france- se e di Napoleone, e poi della Restaurazione — una molteplici- tà d’impressioni di incomparabile vantaggio non soltanto per coloro che da esse furono chiamati ad agire e ad affrontare la vita, ma anche per coloro che vollero accoglierle in sé soltanto con anima silenziosa e indipendenza interiore. Dapprima si vinse con uno sviluppo interiore la pressione esercitata sulla vita personale dalle invecchiate articolazioni di ceto della socie- tà e dalla tutela da parte dello stato assistenziale; si edificò in sé un autonomo mondo spirituale, così saldamente fondato sul- l'essenza dello spirito umano da poter affrontare tutte le scosse e i rivolgimenti successivi delle situazioni storiche senza suscita- re alcun dubbio sulla giustizia e sulla fecondità dei suoi princì- pi fondamentali. La vita interiore dei nostri grandi poeti e pensatori procedette regolare e potente senza mai deviare, pur in mezzo a tutte le esperienze dell’epoca, dalla convinzione che lo spirito si costruisce il corpo ed è in grado di riedificare secondo il proprio bisogno qualsiasi forma distrutta. Perciò, non appena questo compito si presentò allo stato prussiano do- po il 1806,.le forze erano immediatamente disponibili. Ora essi non avevano altro pensiero se non quello di risollevare lo stato caduto in basso risvegliando nella nazione una nuova vita perso- nale. Non già che si immaginassero di poter creare delle perso- nalità ad opera dello stato: ciò che si voleva creare era soltan- to la possibilità, per l'individuo, di diventare una personalità, liberandolo dalle catene di un mondo storico invecchiato, of- frendogli nuove forme di azione e confidando per il resto nell’alito dello spirito. E per quanto la distruzione delle vecchie forme di stato e di società e la costruzione di quelle nuove non giungessero allora neppure a metà cammino, questa fiducia con- servò tuttavia la sua legittimità. Anche nell’ibrido mondo dell’e- tà della Restaurazione, che da alcuni fu sentito e vissuto come prospero dispiegamento, come «bonaccia alcionesca », da altri come indegna vittoria delle forze del passato sulle forze del futuro, le personalità eruppero trovando in essa sia il sereno silenzio di cui gli uni avevano bisogno, sia la lotta turbinosa di idee che per gli altri costituiva l’aria vitale. Fin dopo la metà del secolo x1x l’idealismo e l’individualismo classico han- no così fecondato, attraverso l’influenza immediata delle loro idee originali, lo sviluppo dell’individuo a personalità. Anche la rappresentazione dell’essenza della personalità in generale, di cui si è detto all’inizio, si è sviluppata su questo terreno. Ma prima essa dovette essere riconquistata perché — come ab- biamo visto — correva il pericolo di venir svalutata da un nuovo modo di pensare dannoso alla personalità. Questa crisi non era però altro che l’aspetto parziale di una svolta di tutta la nostra vita storica, che da una considerazione puramente teoretica ci conduce sempre più ai problemi pratici del nostro tempo e ci ripropone una duplice questione: che cosa significa il mondo odierno, così com’è storicamente divenuto, e che cosa significa il mondo storico del passato, così come esso ci si rappresenta oggi, per la formazione della personalità moder- na? Queste due questioni sono ancora una volta strettamente connesse tra loro. Paragoniamo i vantaggi e gli svantaggi della nostra situazio- ne storica odierna con quella in cui Goethe e Wilhelm von Humboldt poterono formarsi come personalità. Anzitutto si mostrano alcuni parallelismi. Come quell’epoca dopo la pace di Hubertusburg *, così anche noi abbiamo vissuto dopo il 1871 un'epoca di indisturbato e rigoglioso dispiegamento delle forze nazionali. Ciò che per quell’epoca fu la personalità di Federi- co il Grande, per noi è stato — con un'influenza ancor più 8. È la pace che conclude, nel febbraio 1763, la guerra dei Sctte anni, assicu- rando fino allo scoppio della Rivoluzione francese — pur con alcune interruzioni — un lungo periodo di pace in Europa. costrittiva e più ampia — la personalità di Bismarck. Come quell’epoca fu risvegliata dalla sua pace dalla catastrofe mondia- le delle guerre rivoluzionarie, così noi siamo stati risvegliati dalla catastrofe della guerra mondiale. Alcune somiglianze più sottili potranno un giorno svelarsi, sulla base di questi fatti comparabili, allo sguardo dello storico. Oggi ancora non riuscia- mo a vederle; abbiamo l’impressione che prevalgano le differen- ze interne. Molti degli impedimenti esterni che allora ostacola- vano lo sviluppo della vita individuale sono scomparsi — soprat- tutto le barriere sociali e i legami della società organizzata in ceti dell’ancien régime. Il nobile non opprime più il borghese, i contadini sono da un secolo liberi dal giogo. Nella vita stata- le ed economica l’impulso produttivo dell’individuo, fecondato dagli impulsi di una grande e potente esistenza nazionale, può agire in modo incomparabilmente più libero e più ricco. An- che il costume e la condotta della vita si sono da allora allenta- ti in modo che ogni forte bisogno personale può manifestarsi liberamente. Le possibilità esterne di dispiegamento della perso- nalità sembrano quindi essersi moltiplicate, mentre l’ambiente che avrebbe potuto ostacolarlo sembra diventato più pieghevo- le e flessibile. Abbiamo messo un individualismo di massa al posto dell'individualismo della nostra epoca classica, limitato a piccoli strati e a piccole cerchie; e nelle masse del quarto stato, da poco comparse sulla scena, si è oggi largamente diffuso l’im- pulso a prender parte a tutti i beni culturali secondo la misura della propria possibilità e del proprio desiderio. E tuttavia, nonostante tutte queste facilitazioni e moltiplicazioni di possibi- lità, la nostra epoca non può competere con la grandezza dell’o- pera di quella, che pur in mezzo a tutti gli ostacoli esterni e all’angustia della vita nazionale e sociale era in grado di costruire l’autonomo mondo spirituale della personalità. Forse che, in presenza di un’accresciuta fecondità esterna, siamo di- ventati interiormente più piccoli e infecondi? Può essere; ma solamente le generazioni successive potranno giudicare in mo- do definitivo. Possiamo tuttavia forse dire, acuendo lo sguar- do, che il compito di diventare personalità è per l’uomo moder- no non già più facile, ma più difficile; che lo sviluppo moder- no non soltanto ha liberato la strada da vecchi ostacoli, ma ha ammassato ostacoli nuovi e forse maggiori. L’ideale classico di umanità e di personalità fu creato con la risoluzione di ignora- re l’ambiente storicamente divenuto con i suoi ostacoli e con la sua meschinità, di collocarsi al di sopra di esso, di metterlo in disparte per potersi accingere indisturbati alla costruzione del mondo interiore e della libera personalità. Questa risoluzio- ne fu allora possibile perché nell’ancien régime al tramonto lo stato e l’individuo potevano ignorarsi reciprocamente e fare a meno l’uno dell’altro, perché non avevano ancora nulla di es- senziale da offrirsi. Altrettanto poco sviluppati erano lo scam- bio e l’azione reciproca tra il concreto mondo economico-socia- le e il mondo spirituale. Questa distanza dalla vita e dalla realtà, in cui da noi si dispiegò all’inizio la libera personalità propria dell’ideale di umanità, non poteva però durare. La per- sonalità stessa si spinse ben presto nel calore e nella pienezza della vita che a sua volta aveva bisogno di essa, la invocava e le poneva compiti grandi e fecondi nello stato, nella società e nell’economia. Questa prossimità vitale tra personalità e am- biente concreto, acquisita nella prima metà del secolo x1x e da allora ancor sempre accresciuta, rappresentava per la personali- tà — come sempre avviene — tanto un guadagno quanto una perdita. Essa acquistò in fini creativi e in impulso creativo, sviluppando un gran numero di forze e di capacità prima son- nolenti, che non ci si sarebbe mai aspettato dai Tedeschi; per- dette in indipendenza interiore, in auto-riflessione e in auto-de- terminazione interiore e quindi, in ultima analisi, anche in inti- ma forza spontanea e rigenerativa. Essa correva ora, di fatto, il rischio di diventare mera funzione al servizio dei nuovi com- piti sui quali si gettava, di cessare di essere scopo autonomo e di diventare mezzo per altri scopi, certo assai grandi ma pur sempre impersonali. Tutte le istituzioni che spingono gli uomi- ni a raccogliersi in una massa — pensava il giovane Wilhelm von Humboldt — sono oggi più dannose che mai per la forma- zione degli individui, e l’uomo non dovrebbe essere sacrificato al cittadino. Humboldt non poteva immaginare fino a qual punto il secolo xrx avrebbe riunito gli uomini in masse e li avrebbe trasformati in cittadini. E non soltanto la vita politica borghese contribuiva a raccogliere gli uomini in masse, ma anche le diverse professioni cominciavano a impegnare la perso- nalità con forza maggiore che nell’epoca classica. La divisione del lavoro agevolava il lavoro collettivo e in apparen- za anche il lavoro individuale, ma danneggiava le radici della loro forza. Essa costringeva l'individuo a scomporsi in se stes- so, a restringere la sfera della pura vita personale — il rifugio dell'anima in sé — per soddisfare le accresciute pretese del mondo esterno. Ne sono nate tensioni spesso assai feconde per la formazione del carattere, perché si voleva ora bastare insie- me a se stessi e al compito di vita oggettivo, e nel complesso la vita tedesca è risultata più ricca di tipi di personalità profes- sionalmente differenziati. Il moderno imprenditore, il moder- no politico di professione, e inoltre i vecchi tipi del funziona- rio amministrativo, dell’ufficiale, del dotto tedesco — adattati ai nuovi tempi — presentano nel loro insieme un quadro in- comparabilmente più ricco di varie forme di personalità oggi possibili che non quello, per esempio, della società nobiliare dei ceti superiori che compare nel Wilhelm Meister di Goethe. Ma ora è anche facile che il tipico sopraffaccia il singolare e l’individuale. È chiaro che queste difficoltà, con cui deve combattere la formazione della personalità moderna, sono prodotte da essa in virtù del suo proprio lavoro storico, Costruendo a poco a poco le singole sfere della cultura moderna, consacrando loro il proprio sangue vitale, accrescendo il loro contenuto e la loro importanza, essa fece sì che queste diverse sfere ottenessero per sé anche individualità e personalità, che entrassero in lotta tra loro per il proprio potere, per la propria auto-affermazione. Procedendo dalla comunità spirituale-mondana ancora origina- riamente unificata nel corpus christianum del Medioevo, venne- ro dapprima a separarsi tra loro una sfera statuale e una sfera ecclesiastica; ma anche la scienza, l’arte, l'economia, le classi sociali ecc. si costruirono a poco a poco sedi proprie, e tale processo si è moltiplicato nel secolo x1x. Queste diverse sfere culturali crescono — come gli atolli corallini — in virtù del lavoro di milioni di personalità grandi e piccole; ciò che pri- ma era vivente opera personale diventa ben presto opera rigi- da, inflessibile, convenzionale, costringendo sotto il suo domi- nio la personalità che per la prima volta si presenta al posto di lavoro. Proprio una considerazione unilaterale di questo proces- so fu quella che produsse la dottrina positivistica della personalità. AI contrario, noi dicevamo che le diverse sfere culturali e i beni culturali che in esse hanno la loro sede possono conser- varsi e accrescersi soltanto attraverso l’opera delle personalità. È chiaro però che l’epoca più favorevole per il pieno, libero, vivente manifestarsi della personalità nel mondo culturale è ap- punto quella in cui quest’ultima viene costruita per la prima volta e non è ancora edificata troppo compiutamente. Dov'è possibile scoprire un nuovo territorio, là compaiono in gran numero i grandi costruttori di cultura. Ma la nostra situazione è simile a quella di una città vecchia e densamente abitata che esige sì, anche nelle sue parti antiche, parecchie trasformazioni e muove costruzioni, ma con compromessi continui, travagliati, che paralizzano il libero volo dei progetti. Oggi il mondo stori- co è costruito tutto intorno alla personalità — questo è il no- stro destino. Guai a te se sei un nipote! Oppure c'è una possibilità di liberarsi dalla pressione del passato, dalle opera operata, e di dispiegare di nuovo liberamen- te l’ala della personalità? Forse che ci affanniamo troppo intor- no a questo passato, che sappiamo troppo di esso e lo rispettia- mo con eccessivo timore? è forse il cosiddetto storicismo a tor- mentarci e a renderci deboli? Ne deriva la questione di ciò che significa per la formazione della personalità la conoscenza, l'intuizione del mondo storico passato e l’immergersi in esso con amore — forse con troppo amore — di cui ci vantiamo come di una delle grandi conquiste del secolo xrx. È noto che Nietzsche cominciò la sua carriera di sovvertitore dei valori con un attacco appassionato allo storicismo, quando nel 1873-74 scrisse la dissertazione sull’utilità e sullo svantaggio dello stu- dio della storia’. La moderna formazione storica — egli asseri- va — indebolisce gli istinti creativi della personalità perché la forza plastica riposa sul dimenticare, sul poter dormire. La sa- zietà della storia condurrebbe a una fede da epigoni, rende l'individuo spaurito: la storia è sopportata soltanto dalle forti personalità, mentre dissolve completamente quelle deboli, poi- ché essa confonde il sentimento dove questo non è abbastanza 9g. Meinecke si riferisce qui alla dissertazione Vom Nutzen und Nachteil der Historie fiir das Leben, che costituisce la prima delle Unscitgemasse Betrachtungen, Leipzig. forte da commisurare a sé il passato. I Greci sono stati un popolo eminentemente astorico. Nietzsche avrebbe anche potu- to fare riferimento alle generazioni della nostra epoca classica, che hanno prodotto la maggiore ricchezza in fatto di personali- tà. Anch’esse erano in alto grado astoriche; o almeno esse co- minciarono come tali. Come tennero il più possibile distanti lo stato e l’ambiente sociale concreto, così esse trascurarono, anche nella formazione dei loro ideali, il passato storico. Esse fecero eccezione solamente per la Grecità, elevandola a proprio cano- ne — ma non per la Grecità storica, bensì per la Grecità pla- smata secondo i loro propri ideali, la quale diventò così un’ipo- stasi di questi ideali. Agiva qui un potente istinto plastico che non si sottometteva al passato, ma che sottometteva a sé il passato trasformandolo in leva della propria volontà di vita. Ma — miracolosamente — in questa lotta tra la personalità e il passato accadde che anche il passato acquistò forza, la sua ombra si riempì di sangue vitale, acquistò forma e linguaggio e cominciò a dare testimonianza di sé. Dal movimento di pen- siero dell’idealismo tedesco e dal Romanticismo, che ad esso si collega, sono infatti scaturite la nuova concezione della storia e la nuova ricerca storica culminata in Ranke. Questo movi- mento di pensiero era nello stesso tempo strettamente connesso con quelle grandi svolte che condussero le personalità più in profondo nella vita concreta dello stato e della società. La con- templazione storica e Ja creazione politico-sociale del secolo xIx non devono essere separate nella loro origine, e si sono pure continuamente fecondate tra loro. Potenti e istintivi biso- gni fondamentali spinsero la personalità dapprima ad acquista- re la propria libertà e autonomia in una distanza vitale priva di storia e di stato, per inserire in seguito nel mondo storico, con l’azione e il pensiero, la forza così acquisita. Nietzsche ha completamente trascurato il fatto che lo storici- smo, il quale uccide — a suo parere — gli istinti creativi, era in ultima analisi scaturito proprio da istinti creativi quali quel- li che egli esigeva. Si è a buon diritto obiettato a Nietzsche, anche sul piano personale, che lui, il critico amaro della cultu- ra storica, ha poi tratto la sua forza da una cultura storica di inconsueta finezza. Una delle conoscenze più sottili che la cul- tura storica potesse fornire era appunto la capacità di apprezzare anche la forza e il significato degli istinti non storici nella vita storica. Nessuno che abbia spinto lo sguardo fin dentro i suoi abissi potrà negarlo. E neppure si potranno negare i pericoli dello storicismo che Nietzsche ha scoperto. Si può tuttavia por- re in dubbio la possibilità di liberarsi dalla cultura storica una volta che la si è accolta in sé. Si può definire un paradiso il mondo degli istinti creativi non gravati dal sapere storico; ma una volta che si sia mangiata la mela della conoscenza stori- ca, non possiamo più far ritorno in questo paradiso. Come nel volgersi della personalità verso la vita produttiva, anche qui c'è una necessità storica che ha prodotto dal suo seno gli irrobu- stimenti e gli indebolimenti della nostra vita. Noi veniamo in- deboliti dalla cultura storica quando ci lasciamo ridurre a puri suoi recipienti, quando ci lasciamo sopraffare da un’erudizione massiccia che però non riusciamo a penetrare del tutto spiritual- mente. Noi veniamo ancora seriamente indeboliti nella nostra intima forza produttiva quando non osiamo più svincolarci dal- le dande della tradizione storica e dei modelli storici o quando ci immaginiamo di poter padroneggiare spiritualmente la no- stra erudizione con quel relativismo rapido e virtuosistico che crede di comprendere tutta la realtà storica, al pari del presen- te, attraverso un’elegante illustrazione della sua necessaria cau- salità e quindi attraverso la sua giustificazione. A chi crede di poter in questo modo chiudere le questioni, a chi non è capace di tacere di fronte agli enigmi e agli abissi spaventosi dell’uma- nità storica, e anche di fronte ai miracoli divini che in essa si manifestano, la cultura storica ha di fatto tolto dalle ossa ogni midollo. Nietzsche ha allora ragione: essa è veleno per il debo- le, e nutrimento per il forte. In definitiva ogni cultura, e quin- di anche ogni educazione, deve in primo luogo pensare ai forti e non ai deboli. Ma spesso la forte personalità trova oggi pro- prio nel mondo storico la consolazione e il sostegno minacciati dal gravoso e opprimente presente. Essa trova consolazione € sostegno partecipando interiormente alle lotte del passato, la- sciandosi scuotere dagli oscuri destini e dai poteri sotterranei che irrompono nella vita dello spirito, lasciandosi sollevare dal- l’immortale volontà dello spirito, per sconfiggere il destino e costruire un proprio mondo in mezzo al mondo della ferrea connessione causale. Allora si riconosce che il problema della vita individuale non è diverso da quello della storia universale — cioè la contrapposizione tra libertà e necessità. Ma si ricono- sce pure che libertà e necessità non soltanto si contrappongo- no, ma al tempo stesso si intrecciano, e che senza il fecondo impulso coercitivo della necessità non è possibile alcuna liber- tà. Ciò che importa è penetrare il necessario con la libertà. Quelle potenze storiche vitali dello stato, della società, delle sfere culturali e delle professioni, che oggi sembrano minaccia- re più fortemente che mai la libertà e la specificità della perso- na, hanno quest’effetto, ossia sprofondano nel regno della rigi- da necessità, solamente quando la personalità rinuncia a traspor- re in esse il suo elemento più proprio, sia sfuggendole codarda- mente, sia sottomettendovisi ciecamente. Ma la pressione e la coercizione dell’ambiente storico cedono e diventano una benefi- ca atmosfera vitale se la personalità comprende la sua posizione organica e il suo compito nel processo storico complessivo, e riconosce la possibilità di rimanere libera e se stessa anche al servizio della totalità. Tuttavia lo stesso processo storico complessivo è il grande modello e la camera del tesoro dell’individualità. L'aspetto di ricchezza infinita di forme umane ch’esso offre dischiude spes- so nell’osservatore — come una bacchetta magica — forze af- fini, scioglie impedimenti e pregiudizi interni, lo rende indul- gente e comprensivo. E per quanto il senso affinato della multi- formità individuale della vita storica possa indurre nature più deboli a perdersi in essa, il bisogno dell’individuo più forte non si acquieterà finché non scopre la struttura interna di que- sta pienezza brulicante, finché non scorge nella loro lucentez- za dorata i più alti tra tutti i fenomeni individuali — le idee — sorretti da personalità. Ma allora scocca la scintilla dentro la vita personale, destando anche in essa l’infinita esigenza di venir governata dalle idee. Questa via alla personalità, che passa attraverso la cultura storica, è quindi diversa, più faticosa e più minuziosa di quel- la che indicano gli istinti elementari di una vita tutta immersa nel presente. Qui la riflessione deve per più versi sostituire ciò che la fresca natura non è più in grado di fare. Essa lotta continuamente con la zavorra del materiale storico. Prima di essere in grado di diventarne signore, lo spirito deve sottoporsi alla pressione di un’educazione rigorosa e faticosa, la quale deve renderlo capace di creare la vita passata dalla fonte stes- sa, anziché da torbide derivazioni. Questo tipo di educazione rischia a sua volta di snaturarsi in mero addestramento, perché il carattere di massa della vita moderna lo spinge a rivolgersi più alla media degli uomini che alla individualità. Tutte le difficoltà e le contestazioni con cui deve oggi combattere l’inse- gnamento storico-umanistico, tutti i tormenti e le manchevolez- ze dell'esame devono qui essere presi in considerazione. In defi- nitiva, però, il valore o disvalore di questo processo di formazio- ne può venir riconosciuto soltanto dai frutti che matura; e qui, ancora una volta, decide non la quantità, ma la bellezza e la dolcezza del frutto. E presso di noi esso continua pur sem- pre a crescere verso una nobile perfezione. Chi tra noi, che l’abbia gustato, potrebbe rinunciarvi? Tra noi, se non voglia- mo diventare più poveri e ritornare in basso, non può scompari- re quel tipo di personalità che nel mondo storico si allarga fino all’infinità dello spirito e del senso, fino a una dolce e forte sensibilità per tutto ciò che è umano. Anche la vita moderna si preoccupa che altri tipi si ponga- no a fianco di questo e lo conservino vivo con la loro concorren- za reciproca. È emerso, senza vincoli e risoluto, il moderno uomo di volontà e di potere, che aspira a governare con mano salda le leve rafforzate della civiltà, dell'economia e della tecni- ca odierna, apprezzando tutti i valori culturali in base alla utilità ed effettualità immediata. Non è solamente un utilitari- smo sensibile-egoistico quello che fa qui la sua comparsa e che, se pervenisse al dominio, minaccerebbe nel modo più pesante la vita della personalità. Anche l’utile della comunità può di- ventare un motivo che spinge la personalità; e per sua fortu- na lo diventa in larga misura, perché i bisogni della moderna vita comunitaria sono cresciuti così infinitamente e sono diven- tati talmente prepotenti che nessuno può più sottrarvisi del tut- to; essi sono in grado di sollevare al di sopra di sé anche chi all’inizio perseguiva soltanto il proprio utile. Questa socializza- zione della nostra vita, che è rapidamente cresciuta nel corso della guerra e che crescerà ancor di più per le sue conseguen- ze, minaccia certamente anche la personalità — come abbiamo osservato — con il destino di perdersi nella totalità e di diventare una semplice funzione di essa. Ma meno di tutti ne sono minacciati proprio i più forti tra gli uomini di volontà e di azione. Lo ha dimostrato già Bismark, che sotto vari aspetti prefigurava questo tipo. Certamente egli aveva ancor sempre un sentimento di partecipazione alla cultura storica più vivo di quel che possiede di solito il moderno uomo di volontà. Que- sto tipo si trova ancora in fase di sviluppo, ed è ancora troppo presto per valutare le possibilità di una umanità superiore che sono in esso presenti. Ma qui e là si manifesta in lui la buona volontà di ricostruire i ponti spezzati con la cultura storica, di diventare al tempo stesso uomo di volontà e di spirito. Allora da un istinto veramente plastico nascerebbe tra noi qualcosa di nuovo e di grande. Si vorrebbe concedere la stessa fiducia anche a un terzo tipo di aspirazione moderna alla personalità, che condivide con il corso della cultura storica il bisogno di un contenuto culturale interiore e con l’utilitarismo il rifiuto di una formazio- ne storica rigorosa. Si tratta del soggettivismo moderno che, adirato contro la rigida disciplina di questa formazione, si ab- bandona, seguendo Nietzsche, agli innati istinti originari della natura e dell’individualità e — «il giorno innanzi a me, la notte alle mie spalle »1! — esce allo scoperto. Ad esso si affida- no soprattutto le nature dotate artisticamente. La loro mancan- za di rispetto per la cultura storica e il mondo storico ha le proprie radici, in ultima analisi, nelle esperienze storiche del secolo x1x e nella situazione tragica che esso ha creato per lo spirito artistico. In esso sono state distrutte e lacerate le salde forme di vita della vecchia società al pari dei saldi stili della creazione artistica. Il nuovo, ciò che ne prese il posto nella società e nell’arte, assomigliò a edifici a scopo di utilità o di moda, rapidamente costruiti per i bisogni della massa, senza quella patina dignitosa, senza un gusto delle forme, ma sfigura- ti piuttosto dal gusto rozzo degli arricchiti. La vecchia forma irrevocabilmente perduta e il ritorno ad essa afflitto dalla male- dizione propria degli epigoni; la nuova forma insufficiente e ripugnante, e in verità l'assenza di forma — accompagnata tuttavia da un insopprimibile bisogno di forma: non c’era da 1o. Goetne, Faust, v. 1087 (tr. it. di F. Fortini), meravigliarsi che il soggetto dotato di sensibilità artistica, sen- za sostegno nel mondo storico e rigettato su di sé, si abbando- nasse a un’irrequieta sperimentazione e all’escogitazione di nuo- ve forme arbitrarie, trovando la libertà della personalità nella mancanza di legami. Ogni volta ci viene assicurato di nuovo che ora il tempo della ricerca è finalmente passato e che è stata trovata la nuova sintesi della vita con la nuova forma artistica. E quando ci avviciniamo pieni di aspettative, ogni volta ci accorgiamo di una lotta di nature altamente dotate, che però sembra condannata a una tragica mancanza di radici e all’artificiosità. Noi comprendiamo il fatto che la loro perso- nalità tormentata si rivolta contro la pressione che viene dal- l’ambiente odierno non soltanto socializzato, ma anche utilitari- stico e meccanizzato; e a questo proposito non si deve neppure dimenticare la pressione del falso storicismo, scolasticamente meccanizzato. Ma i mezzi di difesa a cui ricorre lo spirito soggettivistico ci sembrano violenti e spasmodici. La distanza dalla vita e dalla realtà, in cui esso ritorna in varie guise a perdersi, non è comparabile a quella in cui vivevano gli uomi- ni della nostra epoca classica, perché viene soltanto artificiosa- mente estorta a una vita alle cui potenti correnti complessive nessuna personalità sana e forte può più sottrarsi. Spesso in luogo dell’interiorità cercata e preesistente emerge soltanto una nuova esteriorità dall’acconciatura moderna, una mera mo- da culturale. Nel moderno espressionismo ci si sottrae nel modo più coerente a tutti i diritti e a tutte le catene della tradizio- ne e della realtà. Ma ancor più immediatamente la cultu- ra storica è minacciata dalle esigenze di riforma educativa e scolastica avanzate dal movimento giovanile. Invece noi chiedia- mo: è realmente impossibile pensare al tempo stesso in modo moderno e storicamente? ed è impossibile tuffarsi nella corren- te della vita moderna senza perdere la solitudine sacra della vita interiore? Occorre anzitutto riconoscere liberamente e coraggiosamen- te la difficile situazione in cui oggi si trova la personalità. Noi viviamo in una cultura vecchia, ma probabilmente ancora lonta- na dall’essere decrepita. Proprio perché oggi sentiamo di nuo- vo con tanta passione il problema della personalità, possiamo aver fiducia che sotto la lava irrigidita degli strati culturali del passato, che sovrastano la nostra vita, esso arde ancora poten- temente. Noi viviamo altresì in un’epoca di rivolgimenti inau- diti delle condizioni di vita esterna, e come potevamo già definire una rivoluzione ciò che avevamo vissuto nei decen- ni prima della guerra, così possiamo farlo per ciò che è ac- caduto dopo di allora e per ciò che dobbiamo ancora aspet- tarci. Si susseguono nuove libertà e nuove estensioni, ma an- che nuove forme di dipendenza e nuove restrizioni della vita individuale. Affermare il carattere aristocratico del tipo tede- sco di formazione della personalità, come si è configurato fino- ra, è inevitabile, ma anche infinitamente faticoso. Noi abbia- mo vissuto la successione e la mescolanza di epoche di rigoglio- so dispiegamento e di epoche di transizione e di lotta. Questi possono essere — come abbiamo già chiarito — tempi in cui le personalità prosperano, ma noi percepiamo soprattutto la pres- sione e la minaccia a cui siamo esposti. Contemporaneamente sentiamo però ancora il potente appello che la nostra epoca rivolge alla personalità. Intorno a noi si è accumulato un vec- chio vivente, un vecchio irrigidito, un vecchio distrutto — un mondo insieme di vita e di ruderi, oggi scosso più fortemente che mai dalle tempeste distruttrici e purificatrici del nuovo. Qui l’individuo deve scegliere e distinguere, secondo la propria coscienza e il proprio impulso, ciò che vuol affermare, ciò che vuol lasciar andare, ciò che vuol riprendere di nuovo. Egli può farlo solamente se si conserva libero dalla coercizione gravosa del passato, ma in profonda compartecipazione con tutti i valo- ri vitali del passato. Pensare al tempo stesso in modo moderno e storicamente è, in una situazione del genere, non soltanto possibile ma necessario. Soltanto così all'impeto dall'esterno è possibile opporre la più possente — ma nello stesso tempo sem- pre elastica. — forza interna, e conservare il nerbo vitale della personalità, l’auto-determinazione interiore. Mai è stata più im- pellente l’esortazione rivolta ad essa: « diventa libera, diventa te stessal ». Possiamo adesso trarre le conseguenze per l'odierno insegna- mento della storia. S'intende che qui non parlo soltanto dell’in- segnamento della storia in senso stretto, ma di tutte le discipline che tramandano un contenuto storico, delle lingue antiche e moderne così come dell’insegnamento della religione. Esse costituiscono un’unità in cui un elemento deve integrare l’altro e in tutti quanti devono essere presenti le stesse idee direttrici. In primo piano si colloca il desiderio che l’insegnante di disci- pline storiche abbia egli stesso l'impulso alla personalità. Fin dall’inizio il mondo storico può diventare vivo ai nostri occhi soltanto attraverso la mediazione di una personalità estranea, che sta con esso in un rapporto immediato. A ciò si collega l’ulteriore desiderio che questo rapporto immediato con le fon- ti del passato, a cui l'insegnante di storia si è accostato durante i suoi studi, non lo abbandoni durante la sua professione peda- gogica. Non già che pretenda dall’insegnante di storia un lavo- ro produttivo di ricerca, per quanto questo sia benvenuto quan- do deriva dall’impulso del talento. Ma desidero che l’insegnan- te di storia si faccia un diletto personale non soltanto del legge- re, ma anche del gustare le fonti del passato in cui si rispec- chiano in modo particolarmente individuale lo spirito e la situa- zione propri di un'epoca. Un’influenza particolarmente fecon- da mostrano qui le opere dei pensatori dominanti dei secoli precedenti. La cultura storica si rafforza fino a diventare forma- zione della personalità per colui che, durante tutta la sua vita, non può fare a meno di Platone e di Agostino, di Lutero, Machiavelli e Montaigne, di Federico il Grande e Rousseau, dei grandi idealisti tedeschi e di Bismarck. In una lettura siffat- ta, derivante sempre da una scelta guidata dal bisogno più inti- mo, ripongo maggior valore che nell’attenzione che l’insegnan- te di storia dedica alla letteratura specialistica e alle controver- sie scientifiche. Egli non potrà mai evidentemente sottrarsi del tutto a quest'ultime; ma per conservarsi interiormente fresco, per poter riempire l'insegnamento con fermenti di vita persona- le, non esiste miglior mezzo della familiarità con i grandi. L'allievo ben dotato sa distinguere con precisione l'insegnante colto da quello che è soltanto ben informato. Se nell’insegnan- te l'impulso ad arricchirsi interiormente con la materia che tratta, ad acquistare nell’umanità storica la propria umanità, non diventa visibile attraverso tutto il suo sapere, l’effetto del- l'insegnamento della storia per il destarsi della personalità futu- ra dell’allievo può ridursi a niente. Ai fini della formazione della personalità non mi aspetto nulla da una preparazione intenzionale e sistematica all’insegna- mento della storia. Ciò significherebbe voler ottenere frutti dal- l’oggi al domani attraverso un’irradiazione violenta. Si diventa una personalità mediante la vita, non già mediante la scuola; attraverso il lavoro su di sé, non attraverso l’influenza da parte di altri. L'insegnamento può soltanto gettare i primi semi in un terreno di cui egli stesso non conosce affatto le possibilità di sviluppo, le capacità e i bisogni. Ma egli dev'essere pieno di questa intenzione magnanima del seminatore della parabola, e quando il suo cuore è pieno del valore delle personalità stori- che, può anche esprimersi in parole. Egli sa bene che nulla prende l’animo dell’allievo quanto lo spettacolo dei grandi uo- mini e degli eroi che lottano con se stessi e con la loro epoca. Il senso storico dell’individuale si avvinghia in generale all’in- tuizione della loro peculiarità. Nel complesso l’insegnamento della storia rappresenterà più ciò che vi è di concluso e di compiuto nelle personalità storiche, e non potrà evitare una certa stilizzazione. La psiche non ancora sviluppata dell’allievo richiede anche una tale raffigurazione semplice e monumenta- le. Ai gradi superiori dell’insegnamento l'insegnante può an- che osare di fargli gettare uno sguardo sui problemi del diveni- re, delle antitesi insolute, dello Sturm und Drang: gliene offri- ranno l’occasione gli anni dello sviluppo di Lutero, di Federico il Grande, di Bismarck. Ma nel complesso alcune parole signifi- cative, che il maestro lascia cadere, possono spesso trasportare lo spirito dell’allievo in uno stato di vibrazione più forte di quan- to non possa una psicologia portata avanti con minuzia. Ciò vale in modo particolare anche per la trattazione delle grandi poesie classiche nell’insegnamento del tedesco e delle lingue straniere. Esse sono piene di problemi della personalità; ma tutti sappiamo anche quanto si pecca di pedantesca prolissità nell’affrontare la materia, e quanto spesso l’allievo non soltan- to non viene introdotto alle fonti di vita personale che ne scatu- riscono, ma ne viene distolto con spavento. E non lo si tormen- ti con componimenti su conflitti psicologici per la cui valutazio- ne egli dispone soltanto di mezzi primitivil Un'unica parola accortamente allusiva dell’insegnante, che lo induca a riflettere in maniera autonoma, lo aiuta qui molto di più della riproduzione maldestra di interi processi di pensiero che l’insegnante cerca di inculcargli. Soprattutto, però, si inciti l’allievo alla lettura personale e lo si incoraggi a fondare comunità di lettu- ra con amici e compagni. Questi tentativi costituiscono spesso il primo moto della personalità dell’allievo, il suo incontro più peculiare con il mondo storico. All’insegnante di storia è affidata una professione particola- rissima, che richiede al tempo stesso piena dedizione e rigoro- sa sobrietà. Egli sta come nessun altro immediatamente in mez- zo tra il mondo storico e le personalità del futuro. Spesso si domanderà, guardando i suoi scolari negli occhi: quale vita storica avvenire dorme dentro di voi? Soltanto questa doman- da può suscitare ritegno e rispetto, in modo da non fare violen- za alle radici di ciò che può dispiegarsi unicamente secondo la propria legge. Lo stesso timore contenuto si confà anche di fronte al mondo storico e ai suoi miracoli. Individuum est ineffa- bile. Soltanto la venerazione e l’amore possono saldare il lega- me spirituale tra le personalità del passato e quelle del futuro. Nell’odierno stadio di sviluppo delle scienze storiche credia- mo di poter percepire due grandi tendenze che non operano però isolatamente, ma ognuna delle quali reca con sé, in misu- ra maggiore o minore, anche elementi dell’altra tendenza. Nes- suna di queste tendenze può essere perseguita in modo unilate- rale: per ottenere il suo fine, ognuna ha bisogno dell'altra. Ciò che per l’una appare come fine, per l’altra costituisce una via, una guida verso il fine. Una tendenza vuol indagare rela- zioni causali; l’altra vuol comprendere e rappresentare valori. Non è possibile una ricerca di relazioni causali nella storia senza far riferimento ai valori, ma neppure è possibile una comprensione dei valori senza un'indagine sulla loro origine causale. Che cosa sono le relazioni causali? che cosa sono i valori? Noi ci poniamo, a torto o a ragione, dal punto di vista dell’osservazione storica immediata, e distinguiamo tre differen- ti tipi di causalità: quella meccanica, quella biologica e quella etico-spirituale. La causalità meccanica poggia su un’equivalen- za completa di causa ed effetto (causa aequat effectum); la ® Kausalititen und Werte in der Geschichte, in «Historische Zeitschrift », CXXXVII, 1927-28, pp. 1-27, poi raccolto in Staa und Persònlichkeit, Berlin, E. $. Mittler und Sohn, 1933, pp. 28-53, c in Schaffender Spiegel (Studien zur deutschen Geschichtsschreibune und Geschichtsauffassung), Stuttgart, K. F. Kochler Verlag, 1948, pp. 56-93, infine in Werke, vol. IV: Zur Theorie und Philosophie der Geschichte (a cura di E. Kesscl), Stuttgart, K.F, Kochler Verlag, 1959, pp. 61-89 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi). causalità biologica lascia apparentemente che l’effetto oltrepas- si la causa, mediante il pieno dispiegamento dei germi della vita a esseri viventi forniti di una propria struttura, di una propria conformità a uno scopo e di una propria legalità; ma soltanto la causalità etico-spirituale spezza la connessione causa- le puramente meccanica, rappresentando impulsi spontanei del- la personalità, diretti a determinati scopi, che non possono esse- re spiegabili né in termini meccanicistici né in termini biologi- ci, che influenzano l’agire umano e incidono quindi anche sul- la connessione causale di tipo meccanico — la quale tuttavia, d’altra parte, si presenta di nuovo al nostro pensiero come onni- potente e continua, escludendo ogni frattura. Miracolo su mira- colo. Infatti, nella sua profondità ultima, ognuno dei tre tipi di causalità rimane enigmatico. Il nostro pensiero viene così po- sto di fronte a contraddizioni che non può risolvere o che può risolvere soltanto in modo illusorio e apparente. Nella vita stori- ca, ognuno dei tre tipi di causalità si impone, in modo indimo- strabile, come operante agli occhi del ricercatore impregiudica- to. Egli ha continuamente a che fare con tutti e tre i tipi di causalità. Se indaga le cause della povertà e della ricchezza dei popoli, delle vittorie e delle sconfitte nelle battaglie, egli incon- trerà e dovrà indagare una serie di cause operanti in modo puramente meccanico, e comprensibili in quanto tali. La sua attenzione aumenterà allorché nei fenomeni studiati sembra compiersi un processo interno di crescita, allorché ai suoi occhi si manifestano determinate forme e figure di vita della comuni- tà umana che si dispiegano, si organizzano, fioriscono in pie- no e poi di nuovo decadono secondo un proprio processo di crescita. Ogni esistenza umana, ogni fenomeno della vita stori- ca gli appare, in definitiva, determinato morfologicamente — ma non soltanto determinato morfologicamente: infatti al di là di quelle relazioni causali meccaniche, operanti spesso in maniera accidentale, intervengono anche le azioni spontanee degli uomini, le quali possono quindi interrompere, stornare, rafforzare o indebolire l’accadere morfologico, conferendo così alla vita storica quel carattere intricato e singolare che si fa beffa di tutti i tentativi di spiegarla secondo leggi prive di eccezioni. Su di essa si imprimono perciò successivamente tre diversi sigilli: a ogni lettera, a ogni immagine che uno di essi imprime, si sovrappone quella degli altri. Soltanto il dilettante crede di poter distinguere tra loro in modo agevole e non sog- getto a obiezioni questi scritti e queste immagini. Più sempli- ci e chiare, meno discutibili possono essere le impressioni del primo sigillo, ossia della causalità meccanica. Ma quando si tratta di distinguere il secondo e il terzo, è fin troppo facile incorrere nell’errore di leggerne soltanto uno e di trascurare l’altro. La più antica concezione della storia, fino all’Illumini- smo, vide in essa prevalentemente l'impronta di decisioni e azioni individuali e cercò quindi — in quanto era una trattazio- ne cosiddetta « pragmatica » della storia — di ordinare razional- mente la confusione di queste azioni con il filo rosso di scopi razionali o irrazionali dell'agire. La moderna concezione della storia, che ha scoperto le relazioni causali e le formazioni so- vra-individuali della vita storica, poteva nuovamente inclinare — se applicata in maniera dilettantesca e sbrigativa — a sotto- valutare l’influenza autonoma dell’individuo e a considerarlo soltanto come organo di grandi potenze e forze collettive della vita che si potevano rappresentare come più o meno viventi, co- me sorte e operanti in modo prevalentemente meccanico oppu- re prevalentemente organico. Il positivismo inclinava a una con- cezione piuttosto, anche se non certo esclusivamente, meccani- ca delle forze collettive; la tendenza più moderna, orientata invece verso l’elemento organico — che ha raggiunto il suo culmine con Spengler — presumeva di spiegare tutti i fenome- ni storici particolari in base alle differenti leggi biologiche di formazione delle grandi culture. La trattazione scientifica del- la storia, che procede da Ranke, rinunciava invece a qualsiasi spiegazione causale univoca e generale, e di conseguenza doveva sopportare il rimprovero di fare a meno della scientificità vera e propria; ma così vedeva in modo più fresco e immediato l’in- treccio delle tre impronte della causalità meccanica, della causa- lità biologica e della causalità individuale-personale. Anch’essa non poteva rinunciare al tentativo di distinguerle tra loro e di mostrare la prevalenza dell’azione ora dell’una ora dell’altra; ma aveva un timore naturale di opprimere e di risolvere l’una nell'altra. Nella spiegazione dei singoli fenomeni e nella loro disposizione i in grandi serie e formazioni essa si lasciò guidare più da un istinto indefinibile che da un atteggiamento consapevole, assunto in linea di principio. Essa considerava l’intuizio- ne artistica e la raffigurazione artistico-intuitiva dell’accadere non soltanto come un ornamento bello, ma in ogni caso super- fluo, della sostanza della storia — indagata secondo un procedi- mento puramente causale — ma come uno strumento di lavo- ro essenziale e indispensabile di fronte all’intreccio delle tre impronte — intreccio che si può sciogliere solo in parte, mai del tutto. La scienza assume qui dunque come strumento l’arte. Essa vuol completare la conoscenza con mezzi che si pongono al di fuori della sfera del conoscere vero e proprio. In altre parole, essa non rimane pura scienza che vuol spiegare soltanto causal- mente, ma si trasforma in qualcosa d’altro. Perciò il rimprove- ro di non-scientificità che il positivismo muove alla scienza sto- rica condotta nello spirito di Ranke non è, dal punto di vista formale, del tutto ingiusto. Ma questa non- “scientificità può giu- stificarsi in base al fatto che proprio la matura delle cose, e in certa misura la complicata situazione delle fonti storiche nel suo complesso, spinge verso tale procedimento, che ogni tentati- vo di padroneggiare il materiale storico con mezzi conoscitivi esclusivamente causali conduce, se portato avanti con radicale immodestia, a violentare la materia, a cancellare un’impronta causale con un’altra, mentre se viene intrapreso con una mode- stia rispettosa deve ben presto arrestarsi, perplesso, di fronte alla Ayle della realtà. Soltanto una via non più puramente scien- tifica, cioè non più puramente causale, ci conduce d’un sol tratto nelle sue profondità; e anche se non può certo dischiuder- cela completamente può tuttavia darci, attraverso un’intuizio ne vivente, un senso partecipante di essa. Alla scienza è più utile ricorrere a uno strumento sopra-scientifico dove lo stru- mento scientifico vien meno, anziché applicare questo anche dove una sua applicazione conduce necessariamente a falsi risul- tal. Ma il diritto di applicare strumenti sopra-scientifici nelle scienze storiche può essere fondato ancora più profondamente che attraverso la semplice indicazione dell’intreccio, non padro- neggiabile in altro modo, delle tre impronte causali. Se queste scienze volessero rimanere pure, cioè scienze che spiegano in modo esclusivamente causale, sarebbero costrette a considerare come proprio campo di ricerca e a rivolgersi, almeno in linea di principio, alla totalità dell’accadere umano. È noto che non lo fanno; esse scelgono invece da questa massa enorme e ster- minata soltanto una parte assai piccola, quella che si ritiene essere essenziale, e giustamente ritengono un’oziosa micrologia occuparsi di processi umani inessenziali. Ma che cosa significa qui essenziale? soltanto ciò che è casualmente essenziale? sol- tanto ciò che ha influenzato in modo particolarmente incisivo e potente i destini degli uomini e dei popoli? A volte lo si intende così, e si ritiene che soltanto ciò che è diventato partico- larmente « efficace » meriti l’attenzione dello storico. Ma — di- ce con ragione Rickert — «l'efficacia non può mai fornire da sola il criterio di ciò che è storicamente essenziale » ®. Da un punto di vista puramente causale, le condizioni e i bisogni della vita di carattere fisico — suolo e sole, fame e amore — sono i fattori « più efficaci » dell’accadere umano; mentre lo storico — almeno lo storico non materialista — li considera di regola soltanto come un ovvio presupposto causale di quei pro- cessi che propriamente lo interessano, e li ritiene degni di atten- zione soltanto laddove essi incidono in misura particolare e non comune. Dal punto di vista causale sono pure particolarmente « effica- ci», accanto a questi fattori originari della vita umana, anche le grandi decisioni nelle lotte di potenza dei popoli e degli stati, alle quali da sempre — fin dalla storiografia più primiti- va — è andata l’attenzione degli storici, e perciò anche l’intero ambito delle istituzioni dello stato e della società, che a ragio- ne attrae l'interesse comune di tutte le tendenze della moderna ricerca storica, di quella positivistica come di quella idealistica, della storia della cultura come della storia politica. Ma se qui si suole porre in rilievo in quanto «essenziale » ciò che è «ef- ficace », mettendo da parte come inessenziali altre masse di processi umani, di regola si combinano due diverse accezioni del termine « efficace ». Da un lato con esso si intende ciò che a suo tempo ha esercitato effetti causali sulla vita dell'umanità — e qui si rimane nell’ambito della pura ricerca di relazioni a. H. Ricgerr, Kulturiwvissenschaft und Naturwissenschaft, Tubin- gen, 1899, p. 97. causali. Ma con esso si intende anche ciò che agisce in modo durevole e che anche oggi opera su di noi che viviamo. E questa specie di influenza su di noi ha un significato insieme causale e sovra-causale ®. Ha un significato causale in quanto i grandi e potenti avvenimenti del passato — per esempio la fondazione dell'Impero romano — determinano ancora causal- mente, attraverso mille influenze secondarie, la nostra esisten- za odierna; ha un significato sovra-causale in quanto la catena delle relazioni causali non ci interessa da un punto di vista puramente scientifico, ma perché ne vogliamo trarre un vantag- gio particolare per la nostra propria vita. Questo vantaggio può essere soltanto di tipo pratico, tale da renderci atti a incide- re con maggiore efficacia nella vita attiva, oppure può consiste- re in una pura contemplazione, libera da scopi pratici immedia- ti; ma in entrambi i casi si tratta di valori, di valori vitali che vogliamo ricavare dalla storia; in entrambi i casi essa ci forni- sce — dovremo ritornarci sopra con maggiore precisione più avanti — contenuto, insegnamento e guida per la nostra vita. E questo bisogno è quello che ci spinge in fondo da sempre, ma in modo particolarmente forte nell'epoca moderna — accan- to e dietro al puro impulso conoscitivo rivolto alle relazioni causali — verso la storia. Soltanto a questo punto comprendia- mo del tutto che la ricerca delle relazioni causali, in quanto tentdi svelare l'intreccio delle tre impronte — in fondo diret- a. « Storico — dice Eduard Meyer nella Geschichte des Altertums, vol. 1-1, 3* ed. 1910, p. 188 — è quel processo del passato la cui efficacia non si esaurisce nel momento della sua comparsa, ma che agisce ancora in modo riconoscibile in periodo successivo, producendovi nuovi pro cessi ». In questo passo decisivo si fa purtroppo riferimento soltanto all’ele- mento causale, e non all'elemento di valore, nella determinazione con- cettuale di ciò che è « storico ». Tuttavia un paio di pagine dopo viene menzionato anche il « valore interno », cioè la maggiore formazione di una specificità individuale, come criterio di selezione di ciò che è storico. Si tratta di una discrepanza interna che è caratteristica dello stato del pensiero che domina la scienza specialistica. Si scorge sì l’intreccio di causalità e di valore presente nell'interesse storico, ma non lo si affronta in modo intrinseco soggiacendo così, dove si fornisce la definizione prin- cipale, a una pura idea di causalità. Per una critica a Meyer si veda anche H. Ricgert, Probleme der Geschichtsphilosophie, Heidelberg, 3? ed. 1924, P. 59.  ta dal più personale impulso vitale — oltrepassa la ricchezza degli strumenti conoscitivi puramente causali e cerca di avvici- narsi allo stesso modo dell’artista, con l’intuizione e la raffigura- zione vivente, ai fenomeni storici. È il suo valore per noi e per la nostra propria vita che cerchiamo di conquistare per questa strada. Il bisogno teoretico di conoscenza causale e il bisogno di valori vitali si sono sviluppati in modo strettamente, anzi inse- parabilmente connesso, nell'interesse storico. Forse che il biso- gno teoretico non è già in sé anche il bisogno di un valore vitale, del valore di verità? Certamente, ogni scienza deve servi- re in modo coerente e rigoroso, senza lasciarsi disturbare da intenti pratici collaterali, alla ricerca della verità, delle vere relazioni causali. Ma per noi servitori della scienza la nostra vita non sarebbe una vita completa se non fosse riempita da questa pura aspirazione alla verità. Per questo motivo noi l’ac- cresciamo e l’approfondiamo, e la nostra teoria si trasforma in prassi vivente e in formazione della vita. La tendenza pratica non può introdursi troppo presto in essa, e influenzare la ricer- ca di relazioni causali. Prima la via delle relazioni causali de- V’essere percorsa con sicurezza fino all’ultimo punto raggiungi- bile, e solamente allora si può, anzi si deve ricorrere a quei mezzi sovra-causali per soddisfare il bisogno di valori vitali che opera dal profondo. Che l’« essenziale » nella storia comprenda però non soltan- to relazioni causali, ma anche valori vitali, può essere illustra- to con un esempio ipotetico. Poniamo il caso che si scopra l'opera di un autore sconosciuto del passato, di grande forza e profondità spirituale ma rimasta completamente ignota agli stes- si contemporanei e quindi completamente priva di influenza causale sul suo tempo: la dichiareremo perciò storicamente ines-senziale e inefficace? Essa potrebbe agire nel modo più forte su di roi e comincerebbe quindi ad agire ora causalmente tra di noi, ma soltanto perché rappresenta per noi un valore vita- le. Questo è perciò l'elemento primario per il nostro interesse, e si realizza in noi — né potrebbe avvenire altrimenti — attra- verso la causalità. Ma il nostro interesse storico non è diretto qui alla ricerca di questa causalità, bensì alla comprensione e alla rianimazione di un grande valore spirituale del passato. Questa comprensione deve naturalmente applicare ancora stru- menti causali e tentare di mediare l’origine storico-temporale dell’opera in questione; ma la ricerca causale è qui soltanto un mezzo diretto allo scopo del pieno ripristino di un valore spiri- tuale. Un fanatico della causalità potrebbe obiettare che si può e si deve certo indagare quell’opera rimasta causalmente ineffica- ce nella sua epoca, ma per il fatto che essa vale come effetto di relazioni causali, e riporta alla luce forze impulsive di quell’e- poca finora ignote, le quali soltanto potevano produrre una tale opera. Ma queste relazioni causali — si risponderà subito — non ci interesserebbero affatto se qui non fosse appunto presente un grande valore, che ci avvince di per sé arricchendo così la nostra vita. No: sotto ogni ricerca di relazioni causali sta, mediatamen- te o immediatamente, la ricerca di valori, la ricerca di quella che si chiama cultura nel senso più alto — irruzioni e manife- stazioni dello spirituale all’interno della connessione causale della natura. La terza delle tre impronte del corso storico è quella che produce questi valori. La piccola selezione di ciò che consi- deriamo degno di indagine nella sterminata massa dell’accade- re si compie — come ha mostrato Rickert — in conformità alla relazione che questo accadere ha avuto con i grandi valori culturali. Egli ci insegna che lo storico indaga soltanto fatti in relazione a valori; e aggiunge che lo storico deve soltanto inda- garli e rappresentarli, non già valutarli, se vuol rimanere entro i limiti della sua scienza. La seconda tesi scaturisce dalla preoc- cupazione per la conservazione del carattere scientifico della ricerca storica, dalla preoccupazione verso la penetrazione di tendenze soggettive. Ma è possibile rispettare tale prescrizio- ne? Essa è irrealizzabile *. Già soltanto la selezione di fatti in a. H. Ricgerr (Probleme der Geschichtsphilosophie cit., p. 67) am- mette sì l’« inseparabilità psicologica del valutare dalla designazione di valore », ma vuol separare il valutare dall’essenza /ogica della storia. Ora, ciò che è psicologicamente inseparabile dall’attività dello storico dev'essere riconosciuto anche dal logico — per quanto egli possa sepa- rarlo con i suoi strumenti — come psichicamente connesso con tale attività in modo essenziale. E il valutare non è una funzione accessoria superflua nell'attività dello storico. Io concedo a Rickert che «lo storico riferimento a valori non è possibile senza una valutazione. Lo sarebbe solamente se i valori a cui i fatti si riferiscono consistes- sero — come ritiene Rickert — in categorie tanto generali quanto lo sono la religione, lo stato, il diritto. Ma lo storico non sceglie il suo materiale soltanto secondo queste categorie generali, ma anche in base all'interesse vivente per il loro conte- nuto concreto. Egli lo concepisce come più o meno fornito di valore, cioè lo valuta. La rappresentazione e l'illustrazione di fatti culturalmente importanti non è affatto possibile senza la più viva sensibilità per i valori che in essi si manifestano. Per può astenersi da ogni giudizio valutativo sui suoi oggetti », ma una siffatta storiografia, libera da valutazioni, o è soltanto raccolta di mate- riale e lavoro preparatorio per la vera e propria storiografia oppure, se ha la pretesa di essere storiografia, appare del tutto insulsa — a meno che il temperamento dell'autore non la colori e la renda viva di nuovo con valutazioni non arbitrarie, come avviene per esempio nelle stra- ordinarie ricerche ed esposizioni storiche di Max Weber. — Anche Hein- rich Maier (Das geschichiliche Erkennen, Gòttingen, 1914, p. 34) ritiene, pur discostandosi fortemente da Rickert, che « cadere in giudizi di valore non è affare della storia »; ma spiega contemporaneamente che vietare giudizi di valore allo storico pieno di temperamento è soltanto noiosa pedanteria. Egli distingue cioè tra una posizione propriamente storica, la quale esclude i giudizi di valore, e un'altra posizione di fronte alla storia, anch'essa legittima, di carattere etico-estetica e quindi valutativa. Deve lo storico assolvere contemporaneamente entrambi i compiti nello spazio della stessa opera, anche se il primo — il compito propriamente storico — esclude il secondo? Ciò è impossibile e ibrido, una specie di doppia morale professionale che rompe l’intima connessione psichica pre- sente nell'attività dello storico. Una logica della storia che voglia raggiun- gere il suo fine deve partire da questa, deve analizzare lo storico reale, vivente, non lo storico costruito logicamene — ed egli di regola si com- porta, anche se non lo vuole, in maniera valutativa. Chi sta dentro la prassi ininterrotta della storiografia percepisce questo elemento in modo completamente differente dal filosofo — G. von Below (Die deutsche Geschichtschreibung von den Befreiungskriegen bis zu unseren Tagen: Geschichtschreibung und Geschichtsauffassung, Miinchen und Berlin) scrive: « una connessione di fatti non può essere effettuata senza giudizi di valore ». Quest'affermazione si spinge forse troppo in là. Certe connessioni causali di tipo semplice possono essere effettuate anche senza giudizi di valore; quelle di tipo più complesso — per esempio la constatazione delle cause della Riforma, della Rivoluzione francese e, ora, del crollo del 1918 — vengono sempre determinate insieme da giudizi di valore. quanto lo storico possa, almeno formalmente, anche sospende- re il proprio giudizio di valore su di essi, questo è tuttavia presente tra le righe, e in quanto tale influenza il lettore. Sovente esso agisce quindi — particolarmente in Ranke — in modo più profondo e incisivo di quanto non accadrebbe se fosse rivestito della forma di una censura immediata, ed è per- ciò da raccomandare come espediente. Il giudizio di valore sol- tanto implicito dello storico stimola l’attività valutativa pro- pria del lettore in maniera più forte di quello apertamente dispiegato. Nella misura in cui si presentano in apparenza sol- tanto relazioni causali, tanto più immediatamente e creativa- mente lampeggia in esse l'elemento di valore, la manifestazio- ne di una potenza spirituale all’interno della connessione causa- le. Ma spesso il giudizio diretto di valore non dev'essere evita- to, per recare a piena chiarezza il valore di ciò che è accaduto. Avviene qui come in quelle forme di culto divino in cui il silenzio sacro e la parola del sacerdote si alternano nella venera- zione del divino. E la ricerca storica è precisamente culto del divino, preso nel senso più ampio. Si vuole vedere confermato nel mondo, attraverso la sua rivelazione, ciò che si percepisce per sé come fine spirituale della vita. Si vuol diventare consape- voli della forza e della continuità della corrente spirituale del- la vita, che per l'individuo sfocia sempre in lui stesso; si vuol trovare la via per cui l'uomo è venuto, per indovinare quella che percorrerà. Si vuol venerare le potenze che consentono di innalzare la nostra esistenza dal vincolo naturale alla libertà dell’elemento spirituale. In qualsiasi modo si rappresenti la divi- nità, si vuol cercarla nella storia. Anche il ricercatore che fa valere soltanto la connessione causale spogliata del carattere divino, e che nella storia cerca quindi soltanto relazioni causali, è spinto — come abbiamo chiarito — dal bisogno di un valore superiore e comprensivo, anche se si tratta soltanto del valore della verità in sé. Certa- mente anche lo scienziato naturale è spinto dal valore della verità, e può tuttavia lavorare libero da tutti gli altri valori. Ma delle tre funzioni del «distinguere, scegliere e giudica- re »', che costituiscono il compito specifico dell’umanità, egli 1. Allusione a una coppia di versi di Goetne, Das Gòtiliche. deve esercitare nel suo ambito di lavoro soltanto quella del distinguere. Lo studioso della cultura deve invece esercitarle tutte e tre, perché i processi che indaga scaturiscono dalla natu- ra umana nel suo complesso, si sono costituiti in virtù di un « distinguere, scegliere e giudicare » e sono comprensibili soltan- to attraverso le medesime operazioni. Se lo scienziato naturale può lavorare libero da valori, lo studioso della cultura deve lavorare vincolato ai valori, anche quando vuol trattarla secon- do il metodo dello scienziato naturale — e perfino al semplice raccoglitore di materiale ciò viene risparmiato di rado. Diventa ora chiaro che nella storiografia possono esserci due tendenze principali: la prima è attratta dalle relazioni causali, anche se non può mai spogliarsi dei valori e quasi mai dei propri valori; la seconda si sente attratta dai valori, pur senza potersi sottrarre alle relazioni causali. Ognuna di esse presenta dunque una duplice polarità, e in entrambe sono possi- bili e presenti sfumature e transizioni, mescolanze diverse dei due elementi. La distinzione delle due tendenze è risultata più chiara soltanto quando la storia cominciò a venir esercitata se- condo metodi rigorosamente scientifici, e si approfondirono le questioni riguardanti l’essenza della storia e i compiti dello storiografo. La più antica storiografia politica mescolava, nar- rando gli eventi in forma epica, valori ingenuamente sentiti e relazioni causali®. La storia illuministica voleva porre in luce i a, Il punto di vista valutativo come criterio di selezione del materiale storico fa la sua comparsa in modo significativo in Machiavelli. Nella pre- fazione alle /storie fiorentine egli biasima i suoi predecessori Leonardo Bruni? e Poggio Bracciolini* per aver narrato soltanto la storia esterna, e non la storia interna, della città di Firenze, con tutte le sue lotte movimentate: « Né considerarono come le azioni che hanno in sé gran- dezza, come hanno quelle de’ governi e degli stati, comunche elle si trattino, qualunque fine abbino, pare sempre portino agli uomini più onore che biasimo ». BRUNI (vedasi), filosofo, uomo politico c umanista italiano, è cancelliere della Repubblica fiorentina; traduttore di Platone c di Aristotele, autore degli Episcolarum libri VIII, del De studtis et litteris e del trattato di ctica Isagogicon moralis disciplinae, nonché di duc importanti opere storiche, gli Historiarum florentini populi libri XII e il Commentarius rerum suo tempore gestarum. 3. BRACCIOLINI (vedasi), filosofo, uomo politico e umanista italiano. È dapprima segretario apostolico e in seguito, cancelliere della Repubblica valori della cultura progressiva dell'illuminismo come l’unico oggetto veramente degno della storiografia, ma non fu in grado di penetrare con essi lo spessore dell’accadere politico — che pure non osò mettere da parte — e in tal modo accostò i due elementi in maniera disorganica. La storia politica di tendenza vuole proprio porre in luce dei valori, cioè i valori dei suoi ideali politici, ma dev'essere completamente esclusa dalla nostra considerazione perché il concetto di valore storico, nel senso in cui lo intendiamo, non abbraccia soltanto i nostri propri ideali politici o apolitici, ma ogni forte manifestazione di vita propriamente spirituale, e quindi anche gli ideali dell’avversario. Humboldt è stato forse il primo a richie- dere una storiografia del genere, rivolta a tutti i valori spiritua- li dell'umanità — questo sono infatti le sue /deen — e fondata sull’indagine di tutte le relazioni causali conoscibili. Ranke ha realizzato questa storiografia riunendo tra loro organicamente, in maniera ideale, la ricerca delle relazioni causali e la rappre- sentazione dei valori, in ultima analisi cercando quindi Dio nella storia; cosicché lo si può far rientrare in quella tendenza che, nel suo fondamento ultimo e decisivo, si lascia attrarre dai valori. Il positivismo del tardo Ottocento scatenò la controf- fensiva e pretese una trattazione avalutativa e puramente causa- le della storia: esso riuscì soltanto sporadicamente a farla pene- trare in pieno nel lavoro della storiografia scientifica, tuttavia rafforzò in essa la tendenza a porre in primo piano la ricerca delle relazioni causali. Ne conseguì una ricerca sterminata e specializzata del particolare, che è in auge ancor oggi. Nei fatti indagati causalmente lampeggiavano sì nuovi valori scono- sciuti del passato, ma la loro indagine fu eccessivamente mecca- nizzata dall’inevitabile divisione del lavoro, e la loro massa diventò troppo grande per poter essere padroneggiata e gusta- ta spiritualmente. Ne derivò quindi — e ne deriva ancor oggi — un contraccolpo che spinge a più forti e appassionate sensa- zioni di valore, la tendenza alla raccolta e al vaglio dei valori, al rifiuto dei valori minori, all’accentuazione (e anche alla so- fiorentina; infaticabile scopritore di codici, autore di saggi filosofici come il De gvaritia, il De varietate fortunae, i! De nobilitate, il De infelicitate principum – cf. Grice on Wilde on The Happy Prince -- , il De miseria humanae conditionis. Redatta gli Historiarum florentini populi libri VII. pravvalutazione) dei valori culturalmente superiori. Ciò consente, in linea di principio, la fondazione mediante una solida indagine di relazioni causali, ma qua e là, nella prassi degli storici più giovani, si comincia a trascurarla in modo preoccupante. La sintesi è la parola d’ordine con cui dall’angusto lavoro dell’inda- gine causale si aspira ai grandi valori dominanti della vita e del passato. Si mettono in moto sensazioni soggettivistiche e mistiche le quali premono, senza la strada faticosa della ricer- ca del particolare, verso la riunificazione immediata con l’ani- ma del passato. Si vuol trarre da essa — come ci si esprime volentieri — soltanto l’« eterno» e l’« atemporale », lasciando- ne cadere i presupposti storico-temporali. Si costruisce senza molta induzione, in base ad alcune vestigia impressionanti del- la tradizione e con l’aggiunta esorbitante dei propri ideali, e poi si abbraccia l’immagine fantastica che ci si è creati da sé. Quest’aspirazione agli alti e supremi valori culturali contrasse- gna in modo peculiare la scuola dei cosiddetti « georgiani », cioè i seguaci di Stefan George* — anche perché essa si pone pretese rigorose, rimanendo nelle sue opere migliori intatta da- gli errori di un modo di lavoro negligente e attingendo varie volte un'alta perfezione formale, ma con una tendenza all’ecces- siva raffinatezza e all’assottigliamento dell’atmosfera spiritua- le, in cui si dissolvono le rozze relazioni causali terrene. Il lavoro di ricerca della corporazione vera e propria degli storici è ancora relativamente poco toccata da queste tendenze, ma chi conosce i bisogni della giovane generazione sa che qui spesso si agita, in modo prepotente, qualcosa di esse. È la costellazione spirituale complessiva della nostra epoca che ha prodotto queste tendenze — la reazione di ciò che si può chia- mare anima contro la minacciosa meccanizzazione civilizzatri- ce della vita e contro gli sterminati poteri delle masse, che si sono manifestati nella guerra mondiale e durante il crollo. Es- si si gonfieranno presumibilmente in misura ancora più forte, diventando un fattore importante nel futuro delle scienze stori- 4. Stefan George (1863-1933), pocta lirico tedesco, autore di numerosi volumi di versi come gli Hymnen (1890), Algabal, Das Jahr der Scele (1897), Der Teppichk des Lebens und die Lieder von Traum und Tod (1899), Der siebente Ring (1907), Stern des Bundes (1913), Das neue Reich (1928), raccolse intorno a sé un cenacolo letterario che prese il nome di George-Kreis e in seguito di George-Bund. che. E dato che anche i miei tentativi si muovono in questa direzione, posso ben parlarne in base alla mia propria esperien- za, poiché avverto personalmente la loro grande necessità inter- na al pari dei loro pericoli. Da un lato calcificazione corporati- va, dall’altra imbarbarimento soggettivistico, sono i due scogli su cui potrebbe frantumarsi la nostra scienza nel corso della prossima generazione. La bussola può essere sempre e soltanto questa: nessuna causalità senza valori, nessun valore senza rela- zioni causali. Senza una robusta fame di valori l’indagine del- le relazioni causali si trasforma, anche se condotta con tecnica virtuosistica, in mestiere triviale. Senza il piacere immediato della realtà concreta e delle sue connessioni causali, rozze o raffinate, la rappresentazione di valori ideali perde il suo terre- no naturale, diventando vuota e arbitraria. L'equilibrio tra le due tendenze non si realizzerà — stando così le cose — in modo ideale com'era possibile in Ranke, perché la problematici- tà della situazione moderna e del pensiero moderno ha distrut- to le armonie in cui egli viveva interiormente ed esteriormen- te. Oggi sembra che solamente una certa unilateralità possa proteggere l’uomo spirituale dallo sconcertante predominio del- l'ambiente. Ma l’aspirazione all’armonia deve restare operante e potrebbe estinguersi soltanto con la decadenza o il crollo completo della nostra cultura. II Quando Rickert ha aperto il cammino con la sua teoria dei valori culturali e ha collocato questo concetto al centro della dottrina della storia, Alfred Dove ha parlato con diffidenza e sospetto della sua « anguillesca elusività » ®. Un diretto scolaro di Ranke qual egli era, abituato a porre l'intuizione al di sopra della comprensione concettuale, e che per giunta viveva e si muoveva familiarmente tra i valori culturali, non aveva bisogno di un nome per ciò che già recava in sé. Ma il pensie- ro concettuale segue da vicino il pensiero intuitivo e non può a. A. Dove, Ausgewàhlte Aufsitze und Briefe (a cura di F. Meinecke ce O. Damman), Miinchen, 1925, vol. II, p. 279.  rinunciare al tentativo di delimitare in modo più preciso ciò che ci stava dapprima davanti agli occhi soltanto in modo intui- tivo e vivente. Se — come in questo caso — di chi pensa piuttosto in modo intuitivo si deve dire che non raggiunge il suo scopo e che rende non già più chiaro, ma più confuso l'oggetto di cui si tratta, ci si può sì scusare della povertà dello strumento linguistico che costringe anzitutto all’uso di una parola equivoca, ma si deve anche tentare di sanare l’indi- stinzione del nuovo concetto con più precise determinazioni particolari. Tentiamone alcune. Come spesso avviene, una nuo- va parola d'ordine, nata dalla vita e all’inizio assai cangiante, non sviluppa una fecondità inaspettata, in quanto induce piutto- sto a unificare in connessioni determinate i fenomeni particola- ri che erano dispersi. Chiarimento e delimitazione, nella misu- ra in cui sono possibili, seguono sempre soltanto gradualmen- te. Umanità, umanesimo, nazionalità, nazionalismo, storici- smo, individualismo e così via non sono che parole d’ordine e concetti familiari, equivoci e sfuggenti ma tuttavia fecondi, in- dispensabili, che si chiariscono e si approfondiscono a poco a poco, anche se mai in modo definitivo, attraverso l’uso. Determinare l’essenza dei valori è l'impegno scottante della filosofia moderna. Lo storico tenterà di imparare da essa, ma non per questo può e deve rinunciare a formare in base alle sue esperienze più proprie la sua immagine dell’essenza dei valori, che dal punto di vista del filosofo apparirà molto som- maria, equivoca e perciò lacunosa, ma che proprio perché crea- ta dalla prassi della ricerca storica possiede forse una maggiore sicurezza di istinto rispetto a quella che nasce da sforzi di carattere più logico-astratto. Con Troeltsch noi distinguiamo i valori inferiori della vita, puramente animali — che lo storico può prendere in considera- zione soltanto sotto forma di relazioni causali — dai valori superiori della vita, dai valori spirituali o culturali * che costitui- a. Non posso condividere picnamente le distinzioni di H. Rickert (Le- bensiwerte und Kulturwerte, « Logos », II, 1911-12, pp. 131-66, e Philoso- phie des Lebens, Tiibingen, 1920, p. 156 sgg.), secondo cui non esistereb- bero in fondo valori che siano soltanto valori vitali, e i valori culturali sarebbero più o meno distanti o anche opposti alla vita — per quanto scono la sfera d'interesse propria dello storico, e la cui compren- sione è il suo fine supremo. Con il termine «spirito» non intendiamo semplicemente l’elemento psichico bensì — secon- do il significato antico — la vita psichica altamente sviluppata, ossia appunto ciò che « distingue, sceglie e giudica », producen- do in tal modo cultura. La cultura è pertanto rivelazione e irruzione di un elemento spirituale all’interno dell’universale connessione causale. Tra la vita culturale e la vita naturale dell’uomo sta un campo intermedio che partecipa di entrambe, che designiamo con il termine (oggi sempre più impiegato in questo senso) di civiltà e che distinguiamo dalla cultura superio- re, spirituale in senso pieno — mentre un uso linguistico più vago, ma anche molto più diffuso, confonde tra loro i due concetti *. La civiltà si innalza al di sopra della mera natura, la quale viene trasformata dall’intelletto spinto dalla volontà vitale e rivolto all’utile. In essa rientra anzitutto l’intero ambi- to delle scoperte tecniche. Come scoperte, come realizzazioni di una mente spiritualmente produttiva e originale, sono an- che opere di cultura. Ma esse possono venir spiegate anche biologicamente, in base a ciò che si chiama « adattamento ». L’atto stesso delle scoperte ha quindi un aspetto biologico e un aspetto culturale. Una volta compiute, applicate ed estese, esse minacciano, se non le sorregge una vita spirituale autonoma, di sprofondare di nuovo nell’elemento meramente naturale — e infatti una tecnica applicata si trova anche presso gli anima- li. Ho cercato di illustrare questo campo intermedio dell’utilita- rio con un esempio, quello della ragion di stato. Lo storico dovrà avere continuamente a che fare con esso, non soltanto perché la parte di gran lunga maggiore delle relazioni causali mi senta vicino, anche nel contenuto, alla sua concezione dell'essenza della cultura. In fondo, qui ci separa più la terminologia che non una differenza sostanziale. a. Si dovrebbe una buona volta indagare l'origine e la storia delle distinzione tra cultura e civiltà. A quanto mi risulta, essa è stata espressa per la prima volta da Kant nella sua /dee 2u ciner allgemeinen Geschichte in weltbitrgerlicher Absicht. Nella settima tesi si legge: « L'idea di mo- ralità rientra ancora nella cultura; ma l’uso di questa idea, che riguarda soltanto ciò che è conforme al costume nell'amore dell'onore e nella cor- rettezza esteriore, costituisce semplicemente la civiltà ». che deve indagare appartiene a questo ambito, ma anche per- ché i processi in esso presenti possono diventare, in virtù di un incremento spesso non percettibile, opere di cultura. Se ciò che è soltanto utile deve diventare bello e buono, l’anima deve vibrare — non abbiamo davvero altro termine; altrimenti esso rimane appunto prestazione intellettuale senz'anima e senza spi- rito, mera civiltà e non cultura. La cultura compare soltanto dove l’uomo intraprende la lotta con la natura impegnandovi tutta la sua interiorità, non soltanto la volontà e l’intellet- to, dove agisce valutando nel senso più alto, ossia dove crea o cerca qualcosa di buono o di bello in quanto tale, oppure cerca il vero in quanto tale*. Tutto quanto l’uomo compie valutan- do in tal senso, è fornito di valore anche per lo storico”, e gli offre conferma della continuità e fecondità dell’elemento spiri- tuale nella storia, gli indica la via che il suo dispiegarsi ha preso fino a lui. Ma per poterlo comprendere completamente, lo storico deve — come abbiamo detto — indagare l’intero campo in cui si radicano processi causali che in gran parte non hanno nulla a che fare con la cultura. All’interno della sua rappresentazione — se questa procede onestamente — ciò che è legato ai valori e fornito di valore risplenderà quindi soltan- to qua e là, al pari che nella vita, come una gemma rara tra ciò che cresce. Ma quanto sono rari in confronto alla massa di processi umani in generale, altrettanto incomparabilmente numerosi so- no all’interno della storia queste realizzazioni e questi valori a. Pongo qui a fondamento l'antica tripartizione dei beni ideali, anche se essa non esaurisce il loro ambito e il loro contenuto. Ma essa può venir utilizzata a scopo di abbreviazione. b. Identifico quindi realizzazione culturale e valore culturale. I valori culturali non soltanto « aderiscono » — come ritiene Rickert — alle realtà storiche senza essere essi stessi realtà, ma costituiscono un fattore inte- grante delle realtà storiche, poiché queste possono venire alla luce soltanto in virtù della cooperazione della causalità etico-spirituale, realizzatrice di valori, con la causalità meccanica e biologica. Si veda anche la critica che E. TroeLTscH ha rivolto (in Der Historismus und seine Probleme, Tibin- gen, 1922, p. 153) alla dottrina rickertiana della mera «aderenza » dei valori culturali ai fenomeni storici reali. La questione se al di là della realtà storica esista un sistema di valori oggettivi, è un problema metafi- sico che lo storico deve lasciare al filosofo. culturali. Ogni anima umana individuale è infatti in grado di produrre valori culturali — si tratti anche soltanto dei valori del semplice adempimento del dovere a causa del bene. Secon- do quali princìpi si compie qui la selezione dello storico? Anzi- tutto, certamente, secondo il principio dell’efficacia causale. Tutte le realizzazioni culturali che hanno influenzato con mag- gior forza e permanenza la conservazione e l'ulteriore svilup- po della cultura sono degne d’indagine e di rappresentazione. Il confine tra ciò che è importante e ciò che non è importante risulta quindi fluido, e dipende dalla sensibilità e dalla posizio- ne dello storico. Dipende dalla posizione perché, a seconda che si riferisca a formazioni storiche più limitate o più comprensi- ve, egli deve vagliare in modo diverso il materiale dei fatti: ad esempio, per l’esposizione della storia di una città assumerà come importanti fatti che su un piano superiore, come in una storia nazionale, devono essere senz’altro ritenuti non importan- ti*. Altrettanto fluida e dipendente dalla sensibilità è l’applica- zione del secondo criterio di selezione delle realizzazioni cultu- rali, del quale abbiamo già parlato prima in un altro contesto: quello del valore culturale proprio dei fenomeni storici. Mai e poi mai le grandi realizzazioni culturali e le manifestazioni di un elemento spirituale possono essere valutate esclusivamente in base al grado della loro influenza causale sul progresso del- la cultura. Esse poggiano — del tutto indipendentemente dal fatto che abbiano influito o no sulla loro epoca — anche su se stesse, e sono di per sé degne di indagine, di rappresentazione e di venerazione. Di esse vale ciò che il poeta dice dell’antica lampada, che non ha più nessuna utilità ma che lo incanta: « ma ciò che è bello, sembra felice in se stesso » 5. Questo è il punto che le abituali intuizioni degli storici su ciò che è degno di indagine non sono ancora giunte a decidere. Ho spesso di- scusso con Troeltsch in merito alla « sopravvalutazione delle re- a. Heinrich Mater ha richiamato l'attenzione, in modo molto istruttivo, su questa specie di procedimento cartografico: si veda Das geschichiliche Erkennen cit., p. 33. s. Eduard Mòrire, nella lirica Auf cine Lampe, in Werke in drei Binden, Miinchen, 1951, vol. I, p. 82, v. 10. lazioni causali » che ancor oggi domina la scelta del materia- le* Si sopravvalutano le relazioni causali particolarmente quan- do si disconosce il momento individuale dell’origine dei valori culturali e si trascurano quindi quelle relazioni causali che sca- turiscono dalla spontaneità dell’agire etico-spirituale personale e che non sono perciò così facili da inserire nella connessione causale come le relazioni causali di natura meccanica e biologi- ca. I valori culturali nascono sempre soltanto dall’irruzione di una forza spirituale specifica entro le serie causali meccanica- mente o biologicamente determinate. Ogni elemento spiritua- le, ogni valore culturale è specifico, individuale, insostituibile da altri. Chi gusta l’individuale in esso presente proverà anche subito il senso del suo valore e lo apprezzerà quindi non soltan- to come un elemento importante della catena causale, ma an- che di per se stesso. Certamente c’è pure un’individualità indif- ferente e libera da valori — ogni oggetto ne ha una. Individua- lità storiche sono però soltanto quei fenomeni che hanno in sé qualche tendenza al bene, al bello o al vero, e che perciò diven- tano per noi fornite di significato e di valore. Esse lo diventa- no tanto più quanto più fortemente questa tendenza si aggiun- ge, nobilitandola, alla mera tendenza all'affermazione della vi- ta e all’auto-affermazione delle formazioni umane. La comprensione più profonda dell’individualità, sia della personalità singola sia delle formazioni umane sovra-personali, fu la grande acquisizione realizzata in Germania dall’ideali- smo e dal Romanticismo, e che creò lo storicismo moderno. Soltanto in virtù di questa comprensione anche l’idea di svilup- a. Tale era anche il pensiero di Alfred Dove. Alludo alla sua bella lettera a Rickert del 2 gennaio 1899 (in Ausgewahlte Aufsitze und Briefe cit., vol. II, p. 208). Lo storico — in essa si dice — dedica alla vita passata «un interesse- che è del tutto indipendente dalla questione relativa alla misura in cui ha preparato la nostra vita presente. E perché vuol far questo? La relazione che essa ha con noi è presente anche senza una causa- lità del genere: se appena la vita passata che si prende in considerazione è in sé significativa, essa desta il nostro sentimento di partecipazione, in quanto fornita di valore dal punto di vista umano in generale. Noi non ci poniamo in relazione con il passato in modo meramente causale, anzi saltiamo l’intero spazio causale intermedio in virtù della semplice sim- patia ». po — che a torto viene spesso considerata criterio principale dello storicismo moderno, ma che è troppo versatile ed equivo- ca per poterlo essere — trovò il suo retto cammino *. Lo svilup- po del feto umano è uno sviluppo biologico, non uno sviluppo storico. Uno sviluppo storico ha luogo soltanto dove compare il fattore spontaneo dell’uomo che agisce in base a valori e che produce quindi qualcosa di specifico e di singolare. Perciò l’in- dividualità storica si « sviluppa» e ciò che si sviluppa storica- mente sono sempre soltanto individualità, le quali si manifesta- no nello sviluppo *. Anche la storia universale intesa per esem- pio nel senso rankiano — che possiamo ancor sempre difende- re, con alcune correzioni e riserve — è soltanto un'unica gran- de individualità, piena di innumerevoli individualità grandi e piccole. Tutti i valori culturali di questa storia sono al tempo stesso individualità storiche, fino all’individualità suprema del- la storia universale, e quindi pienamente comprensibili sempre soltanto in connessioni storico-universali. Tutto nella vita lotta per avere forma e figura, e viene sospinto da leggi di formazione. Questa conoscenza morfologi- ca — che per quanto riguarda la storia è stata sostenuta nel modo estremo e più unilaterale da Spengler — domina sempre più il pensiero moderno. Storicamente fornite di valore diventa- no però soltanto quelle forme e figure della vita umana che a. H. Ricgert ha potuto distinguere ben sette diversi tipi di sviluppo! Cfr. Die Grenzen der naturwissenschlichen Begriffsbildung, Tùbingen, 1896-1902, cap. V, $ 5. — Contro la sopravvalutazione dell'idea di sviluppo si rivolge anche la lettera sopra citata di Alfred Dove a Rickert, ma con una motivazione che non posso condividere. Egli scrive: « dall’indivi- duale all’individuale non c'è sviluppo ». Qui si dimentica che ogni indi- vidualità è inserita in un’individualità di grado superiore, e che lo sviluppo che ha luogo entro questa individualità superiore collega tra di loro, con filo spirituale, anche le individualità più concrete che si sviluppano sepa- ratamente le une dalla altre. Così esiste di fatto, per esempio, uno sviluppo dall’individuo Lutero all'individuo Kant, ossia lo sviluppo che si è compiu- to nel mondo dello spirito tedesco-protestante. In merito al modo di vedere la storia proprio di Dove, si vedano le mie osservazioni nella « Historische Zeitschrift », CXVI, 1916, p. 83. b. « Gli sviluppi storici non sono altro che individualità storiche con- cepite nel loro divenire e nel loro crescere » (H. Ricxert, Probleme der Geschichtsphilosophie cit., p. 47). servono non soltanto alla sua necessità vitale, ma anche a un qualsiasi ideale e a valori etico-spirituali. Non appena dalla forma traspare qualcosa di individuale-spirituale, essa desta l’in- teresse dello storico; altrimenti rimane circoscritta alla sfera biologica della semplice affermazione della vita, e lo storico può considerarla soltanto da un punto di vista causale, per spiegare altri valori e non come valore in sé. Però, almeno per l’occhio umano, la sfera biologica e la sfera dei valori etico-spirituali non sono tra loro separate chiara- mente e univocamente, ma spesso si sovrappongono in modo impercettibile. È quanto abbiamo mostrato — mi riferisco di nuovo al mio libro sulla Idee der Staatsrison — a proposito del campo intermedio dell’utilitario. Questa impossibilità di de- terminare confini netti tra le due sfere è propriamente ciò che ha prodotto tutte le differenze presenti nel moderno pensiero relativo alle scienze dello spirito. Ognuno può infatti interpreta- re e tracciare in modo diverso questi confini, riconoscerli o non riconoscerli. Questa è la questione più tormentosa che per- seguita lo storico. Troppo spesso egli deve lottare con l’incertez- Za se questo o quell’elemento che egli indaga debba essere spie- gato in base alla mera necessità vitale e naturale, oppure facen- do anche ricorso a fattori etico-spirituali, a fattori di valore. Le necessità vitali e naturali, le relazioni causali di tipo biologi- co, attraversano da capo a piedi anche colui che agisce in base a valori e lo minacciano di intorbidare i valori, di far passare valori apparenti per valori autentici. La cosa più inquietante è che spesso un vincolo causale strettissimo unisce tra loro le due sfere, che spesso valori culturali grandi e benefici hanno un’ori- gine comune e sporca, vengono su faticosamente dalla notte e dalla profondità — cosicché sembra, in certo senso, che Dio abbia bisogno del diavolo per realizzarsi. Se poi si è d'accordo nel credere — di nuovo nel senso goethiano — all’unità della natura-dio, una luce più confortante cade anche su queste con- nessioni. Dove i processi naturali della vita umana non entra- no in contraddizione con i precetti dell'etica, e quindi non diventano peccato, essi possono apparire come lo sfondo natura- le indispensabile, gentilmente alimentante, per la produzione delle più splendide fioriture. Anche Goethe ha ben sfogato la sua sensibilità nella sua arte così elevata — poco importa se ciò sia avvenuto con o senza peccato. È caratteristico il fatto che proprio in tale questione anche la ricerca storica che è abitualmente più rivolta alle relazioni causali dimentichi la causalità operante sui valori, cioè ignori o nasconda le grandi acquisizioni della cultura rispetto alla sua origine spesso spaventosa e disgustosa. Soltanto pochi stori- ci hanno l’acuta sensibilità posseduta da Burckhardt quando scoprì i presupposti politici e sociali della cultura del Rinasci- mento in tutto il loro orrore, rimanendo egli stesso turbato da questa connessione demoniaca. Soltanto allora si cominciano a registrare con una certa equanimità i successi della politica di potenza che hanno trasformato e rifecondato la vita culturale, e a considerarne i presupposti e gli effetti collaterali più machia- vellici come una conditio sine qua non. E in apparenza essi lo sono anche — ma con ciò va perduto il sentimento della tragici- tà della storia. La cultura che si fonda sulla spontaneità, sulla causalità la quale produce valori etico-spirituali ed è quindi di nuovo stret- tamente connessa alle relazioni causali di tipo biologico e mec- canico — questo è l’enigma che lo storico non può risolvere. Cultura e natura — possiamo anche dire Dio e natura — costi- tuiscono sì un’unità, ma un’unità scissa in sé. Dio si solleva al di sopra della natura con lamenti e gemiti, e carico di peccati; e perciò si trova ogni momento in pericolo di ricadere nella natura. Questa è l’ultima parola per colui che osserva le cose spregiudicatamente e onestamente — ma non può essere l’ulti- ma parola in generale. Soltanto una fede che è però diventata sempre più generale nel suo contenuto e che deve lottare in permanenza col dubbio può offrire il conforto che esista una soluzione trascendente del problema — per noi insolubile — della vita e della cultura. Ma noi abbiamo perduto la fiducia che qualche filosofo abbia fornito o possa ancora fornire que- sta soluzione trascendente. Il valore di verità dei sistemi filosofici e delle ideologie è quindi dubbio; indubbio rimane invece il loro valore culturale. Le formazioni ideali dei grandi pensatori sono quasi le più alte vette dello spirito in mezzo alla natura che lo sorregge, quasi sempre le realizzazioni supreme del misero essere umano, assetato di verità e sempre errante: soltanto l’opera della grande religiosità e l’opera d’arte stanno più in alto di esse. Se si riflette su quanto si è detto, ne risultano due specie di valori culturali. Gli uni vengono intenzionalmente elaborati in uno sforzo già prima diretto a tale scopo: formazioni ideali di tipo religioso e filosofico, politico e sociale, opere d’arte, scien- za. Gli altri fioriscono mediatamente, e non secondo un inten- to precedente, dalle necessità della vita concreta, indirizzata in senso pratico. Con i primi l’uomo cerca il cammino più diret- to e rapido dalla natura alla cultura; con i secondi rimane sul terreno della natura, ma con lo sguardo rivolto alle alte vette dei valori che lo guidano. Soddisfacendo le necessità della vita, egli cerca alla fine di soddisfarle in modo che si realizzino contemporaneamente i valori del vero o del bene o del bello. Vale quindi a questo proposito quanto ha detto Aristotele a proposito dello stato: è stato costituito per poter vivere, ma esiste per vivere bene. Ed è in primo luogo nello stato che la natura diventa in questo modo, capovolgendosi, cultura. Nel lavoro immediato o mediato entro la cultura sorgono così ovun- que degli esseri spirituali, individualità storiche, delle quali lo storico indaga contemporaneamente l’origine e l’efficacia causa- le al pari del valore. La soggettività, che è ora connessa a tutti i valori, viene posta almeno in secondo piano per il fatto che si apprezza in primo luogo il valore del fenomeno che essa reca in sé, come rivelazione specifica e insostituibile di vita spirituale *. Occorre inoltre trasferirsi nell'anima stessa di chi agisce per poterne osservare l’opera e la realizzazione culturale in base ai presupposti che gli sono propri, e in ultima analisi per rianimare con l'intuizione artistica la sua vita passata — il che non è possibile senza la trasfusione del proprio sangue vitale. Solamente un senso aperto con amore e tolleranza a tutto quanto è umano raggiungerà quindi quel grado di ogget- a. In ciò consiste anche la protezione contro la pericosa tendenza dei moderni « sintetici » a considerare il fenomeno individuale soltanto come elemento e rappresentante dello sviluppo universale, vale a dire — nella prassi — soltanto come punto di incrocio di tanti « ismi » astratti. In tal modo si arriva nuovamente a una pericolosa vicinanza con il positivismo, che pure si crede di aver superato. Nella più recente storia della letteratura e dell’arte questa tendenza spadroneggia ormai in modo inquietante. tività che è possibile. Qui si inserisce allora anche la teoria della relatività dei valori, che Troeltsch ha formulato ?. « Relati- vità dei valori non vuol dire relativismo, anarchia, caso o arbi- trio, bensì designa l’intreccio sempre mobile e creativo, e perciò mai determinabile atemporalmente e universalmente, di ciò che esiste di fatto e di ciò che dev'essere ». Ciò significa che la relatività dei valori non è altro che l’individualità in senso stori- co, l’orma, in sé fornita di valore, di un assoluto ignoto — poiché esso varrà per la fede come il fondamento creativo di tutti i valori — in ciò che è relativo e legato alla natura tempo- rale. Dal valore proprio delle individualità storiche si deve logica- mente distinguere il valore che esse hanno per noi e per la nostra vita. Nella determinazione di questo valore deve natural- mente agire con forza maggiore il bisogno soggettivo. Trarre dalia storia un insegnamento, un modello e un’esortazione rien- tra quindi tra i motivi ineliminabili che hanno da sempre con- dotto alla storiografia. Di qui i pericoli più gravi che minaccia- no il suo carattere scientifico: la distorsione tendenziosa, l’idea- lizzazione o la deformazione. Un senso storico purificato, che riconosca la legittimità sia del carattere scientifico sia di quello sopra-scientifico della storiografia, concederà che noi vogliamo imparare dalla storia anche per la nostra vita. Già lo studio delle relazioni causali offre insegnamenti pratici in gran quanti- tà. Tutte le cause generali e ricorrenti in modo tipico, che operano nella storia, possono ripetersi anche nel presente ed essere quindi considerate in base alle esperienze compiute nel passato ®. Ciò che nel corso storico è individuale, inimitabile, a. Cfr. Der Historismus und seine Probleme cit., p. 211. În questo contesto rinunciamo ad approfondire quelli che si chiamano i pericoli dello storicismo, cioè gli effetti relativizzanti del pensiero storico nei ri- guardi di tutti i valori, e ci limitiamo a quest'unica osservazione: che sol- tanto anime deboli e di poca fede possono scoraggiarsi e fallire sotto il peso di questo storicismo relativizzante. La fede in un assoluto ignoto non può venir scossa da esso. Ma la pretesa che questo assoluto ignoto si sveli, in modo da poter essere toccato con mano, è un residuo di rappresentazione antropomorfica della divinità. b. Hegel ha sì negato che popoli e governi abbiano mai appreso qual- cosa dalla storia e abbiano agito secondo gli insegnamenti che se ne pote- vano trarre. Ma è più giusto dire che di rado essi hanno imparato ciò che insostituibile, non sopporta invece una tale applicazione prati- ca. Può però diventare contenuto spirituale, modello ideale per coloro che possiedono un’individualità affine e rispondente, e contribuire in tal modo alla loro più profonda e più ricca for- mazione. Epoche e generazioni intere possono anche nutrirsi dei valori culturali di un determinato passato, ad esse particolar- mente affine. Le culture tarde di regola hanno bisogno di soste- gni siffatti. Ma sempre incombe allora il pericolo di una man- canza di autonomia da epigoni, il pericolo di soccombere inte- riormente agli spiriti del passato. Al contrario, uno spirito for- te come Max Weber poteva motivare il suo disegno immagi- nario di indagare la storia in modo avalutativo con uno scopo altamente carico di valori: «voglio vedere fino a qual punto posso resistere. L'insegnamento più raffinato e più alto che la storia ci dà è però quello che scaturisce senza essere cercato — come lo abbiamo descritto sopra — dalla pura valutazione delle individualità storiche in sé. Il suo valore proprio è allo- ra ciò che diventa valido anche per noi. Esso non consiste in altro che nella conferma dell’infinita forza creativa dello spiri- to, la quale non ci garantisce certamente un processo rettili neo, bensì — all’interno dei limiti della natura — un’eterna rinascita di individualità storiche fornite di valore. In quanto queste individualità sono tutte causalmente connesse tra loro e l'osservatore desidererebbe che avessero imparato. Bene o male, Bismarck lo ha riconosciuto: « Per me la storia è servita anzitutto a imparare da essa qualcosa. Anche se gli avvenimenti non si ripetono, si ripetono tuttavia le situazioni e i caratteri, in base al cui spettacolo e al cui studio si può stimolare e formare il proprio spirito » (Gesprich mit Memminger, 1890, in Die gesammelten Werke, Berlin, vol. IX, 3° ed. 1926, p. 90). a. Marianne Weser, Max Weber. Ein Lebensbild, Tibingen, 1921, p. 690. b. A questo proposito si veda l'acuta osservazione di G. von BeLOw, Deutsche Geschichtsschreibung cit., p. 113, nota. — Non posso quindi considerare, con Troeltsch, la « comprensione del presente sempre come il fine ultimo di ogni ricerca storica » (cfr. Die Bedeutung des Protestan- tismus fiir die Entstchung der modernen Welt, Minchen, 1911, p. 6). Essa è certo un fine assai giustificato e necessario, ma non è né l’unico né il più alto. Ho spesso polemizzato con Troeltsch su questo punto; e anche nel suo Historismus (p. 696) egli mi rimprovera la « tendenza a evadere verso una contemplazione oggettiva e pura ». formano nel loro insieme la grande individualità complessiva della storia universale, anche l’individualità storica della nazio- ne, dello stato, della società, della chiesa ecc. — entro le quali viviamo storicamente e alle quali cooperiamo — diventa co- sciente del proprio radicarsi nel processo complessivo. Proprio questa consapevolezza può, a sua volta, sviluppare le più robu- ste forze etiche. La tradizione, che per conto proprio e inconsa- pevolmente — si potrebbe dire naturalmente — opera come legame tra le generazioni, come custode dei valori culturali acquisiti, soltanto ora si spiritualizza veramente, diventando va- lore culturale in senso pieno: « E così il vivente acquista di passo in passo nuova forza »°. Da quanto abbiamo detto risulta che la storia non è al- tro che storia della cultura, dove cultura significa produzio- ne di valori spirituali di volta in volta specifici, ossia di in- dividualità storiche. La polemica tra gli orientamenti storio- grafici della storia politica e della storia della cultura ha potuto aver luogo soltanto perché da entrambe le parti non si era chiarito il rapporto tra relazioni causali e valori nel- la storia. La storiografia politica vedeva nello stato il fat- tore centrale della vita storica — e, dal punto di vista causa- le, con pieno diritto, perché le influenze causali più forti an- che sulla vita culturale provengono sempre dallo stato. E in quanto ogni comunicazione di valori culturali ha bisogno della più ampia fondazione causale, già per questo motivo anche lo stato dovrà rimanere sempre al centro della ricerca storica. Ma esso è anche il valore culturale più alto possibile? Una certa inclinazione a elevarlo a valore supremo era presente fin da Hegel, anche se trovò sempre un limite nel giusto sentimento che, come valore, la religione gli è superiore. Lo stato non può essere quindi il valore supremo, perché è vincolato in modo più forte di quasi tutte le altre individualità storiche a necessi- tà naturali, biologiche, che gli impediscono di spiritualizzarsi e di eticizzarsi completamente. La religione nelle sue forme più pure e l’arte nelle sue realizzazioni più alte costituiscono i 6. GorrHE, Zur Logenfeier des 3. September 1825, Zuwischengang. valori culturali supremi. Solamente dietro di esse la filosofia e la scienza possono reclamare la loro posizione. Ma — ci si chiederà immediatamente — la vita attiva e produttiva dell’uo- mo non viene con ciò sminuita nel suo valore a profitto delle attività meramente contemplative e spirituali dell’uomo? Forse che la fuga dalla vita, la quale è sempre in qualche misura connessa con queste, deve porsi più in alto della formazione della vita? La risposta a tale interrogativo non può essere semplicemen- te un sì o un no. Si manifesta qui il peculiare incrociarsi dei valori. Se si chiede in quali sfere l’uomo può maggiormente innalzarsi al di sopra della natura, occorre indubbiamente indi- care le sfere della religione, dell’arte, della filosofia e della scienza. La vita produttiva lega l’uomo più fortemente alla natura: i valori culturali che l'uomo produce in essa recano su di sé più polvere terrena, sono più torbidi e impuri di quelli delle sfere contemplative che rifuggono dal mondo. Il compito di produrli non è soltanto più difficile, ma è anche più pressan- te e inevitabile che quello di portare alla luce i valori culturali delle sfere puramente spirituali. Il compito stesso di creare il valore culturale della religione acquista la sua piena urgenza e inevitabilità se essa non rimane auto-godimento mistico del divi- no, ma penetra nella vita produttiva e ne diventa fermento. Analogamente, dagli altri valori culturali elaborati in modo contemplativo — cioè l’arte, la filosofia, la scienza — si preten- de a buon diritto che essi fecondino non immediatamente, ma mediatamente, la vita produttiva. Tutti i valori culturali supre- mi sono tenuti a servire questa vita. Possiamo anche dire che la vita produttiva non crea certamente di per sé i valori cultura- li supremi, ma che il compito primo e più urgente è di creare in essa valori culturali. La vita contemplativa forma soltanto immagini della vita, non la vita stessa. Per questo motivo essa può creare qualcosa di più spirituale e di più perfetto di quan- to non possa fare la vita produttiva. Queste immagini devono e possono servire come guida alla vita produttiva nella sua lotta per i valori culturali. Lo storico deve quindi rivolgere la massima attenzione a questo problema: fino a qual punto e in quale grado la vita connessa alle necessità naturali venga in tal modo trasformata e mutata in cultura. Attraverso queste considerazioni l’importanza centrale del- la storiografia politica all’interno delle scienze storiche risulta fondata più profondamente — riteniamo — che non mediante gli argomenti finora addotti a tale scopo. Essa ha a che fare con valori culturali più imperfetti che non la storia della reli- gione, dell’arte ecc. Ma non invidia certamente a queste la fortuna di muoversi sulle vette dell'umanità. Indagando lo sta- to, il fattore causalmente più efficace della vita storica, e al tempo stesso cercando i valori che questo è in grado di produr- re, essa deve sempre guardare contemporaneamente alle profon- dità e alle vette della vita, e per farlo è costretta a porsi penso- sa nel centro della vita stessa. Essa è la più prossima alla vita tra le scienze storiche. Si può discutere — in base al concetto che si ha della vita storica — se la storia economica o la storia sociale non siano ancora più vicine alla vita. Per vita storica noi intendiamo però l’intreccio di natura e cultura; quanto più accanita è quindi la loro lotta fecondatrice, tanto più è presen- te la vita storica. Noi vediamo questo dualismo agire, nella sua forma più intensa, nello stato. Esso non lo conduce ai supremi trionfi della cultura, ma allo spettacolo più memorabi- le e più commovente della sua lotta con la natura. Spiritualizza- re ed eticizzare lo stato in cui si vive, anche se si sa che non ci si può riuscire del tutto, costituisce — insieme all’esigenza di elevare spiritualmente ed eticamente la propria personalità — la più alta delle pretese che si possano porre all’agire etico; perché lo stato costituisce la comunità di vita più influente e comprensiva e perché l’uomo che aspira alla perfezione può respirare liberamente soltanto in uno stato che aspiri anch'esso alla perfezione. E proprio l’elemento problematico, l'elemento di insicurezza e di precarietà presente nei valori culturali dello stato è ciò che attira con forza magnetica lo storico politico, per lo più in modo a lui stesso inconsapevole, verso i grandi uomini di stato della storia universale, nei quali il conflitto tra natura e cultura diventa grandioso. C'è poi ancora un campo intermedio tra la storia politica, che rappresenta la lotta per i valori culturali nella vita statale, e la storia dei valori culturali creati contemplativamente: il campo delle idee politiche. Qui vita attiva e vita contemplativa si fondono. Dalle necessità della vita politica attiva scaturisco- no gli impulsi diretti a formare immagini di questa vita nelle quali si mescolano tra loro realtà e ideale. Secondo il desiderio di chi le forma, esse devono reagire sulla vita immediatamente — e non soltanto mediatamente, come accade per le immagini formate dall’arte e dalla scienza. Quando vi riescono, esse di- ventano preludi di processi storici reali e sono già per questo motivo degne di essere indagate, in quanto rappresentano rela- zioni causali importanti. Con quanto zelo si è andati alla ricer- ca degli inizi dell'idea di sovranità popolare e dell’ideale sociali- stal Ma esse derivano il loro valore culturale peculiare dal fatto di rappresentare tentativi — rettilinei e ardui come quelli compiuti dagli uomini dediti alla vita contemplativa — di ele- varsi al di sopra di ciò che è meramente naturale e di spiritua- lizzare lo stato, almeno nel desiderio. Esse devono perciò venir considerate, rivissute e rappresentate di per sé, nel loro specifi co valore individuale, e non solamente nella loro efficacia causa- le, con tanto sangue vitale quanto sarebbe necessario per infon- derlo di nuovo in loro. Altri possono essere presi in misura più forte da altri tratti della vita storica concreta; io sono sem- pre stato profondamente commosso dallo spettacolo delle idee individuali che — nell’urto delle rozze forze terrene della vita statale — si destano e lottano per sottrarsi alla loro pressione. Anche queste idee sono ancor più vincolate all’elemento terre- no, più fortemente intrecciate con le realtà effettive che non le formazioni spirituali della pura vita contemplativa. Per questo motivo, a contatto con esse si diventa più consapevoli dell’indi- spensabile terreno della realtà naturale, senza il quale non è possibile nessuna formazione culturale, neppure la più alta. Esse riuniscono l’odore della terra e il profumo dello spirito. È quanto fanno anche gli stati concreti quando si elevano — come ci ha insegnato Ranke — a esseri spirituali forniti di realtà. Dove poi cresca il valore culturale più alto — se nello stato stesso oppure nell’idea del pensatore che lo percorre, se nella città-stato greca o nell’ideale platonico dello stato che da quella è sorto — sarebbe pedantesco volerlo decidere ogni vol- ta. Talvolta è senza dubbio lo stato, altre volte è invece l’idea politica che ne è scaturita, accettandolo o negandolo, a rappre- sentare la realizzazione spirituale più alta; in molti altri casi, come nell’esempio indicato, ci si asterrà dal giudizio di valore. La disposizione dei valori culturali in un ordine progressivo può essere in genere effettuato soltanto in modo sommario: lo esige il loro carattere individuale, che si fa gioco di un criterio generale univoco. In quanto tutti i valori culturali vengono concepiti come individualità, ci si accorge sommariamente che in essi è presente una misura maggiore o minore di potenza spirituale o di vincolo naturale, senza però poterlo valutare con precisione. Bastano già a impedirlo quelle impenetrabili zone intermedie tra natura e cultura. Individuum est ineffabi- le. Il fascino infinito del mondo storico consiste appunto nel fatto che esso produce, in modo insieme misterioso e manife- sto, sempre muove entità spirituali, senza tuttavia ordinarle in una serie progressiva con una successione ascendente. Infatti ogni epoca, come insegnava Ranke, è in rapporto immediato con Dio. Vogliamo chiudere con le parole che egli fa seguire in que- sta frase, poiché — esattamente intese — esse dicono la stessa cosa che abbiamo cercato di illustrare in polemica con un’opi- nione ampiamente diffusa nella corporazione degli storici: «# loro valore non sta affatto in ciò che da esse scaturisce, ma nella loro stessa esistenza, nel loro proprio io »*. a. Ùber die Epochen der neueren Geschichte (a cura di A. Dove), Leipzig. Storia e presente costituiscono un’unità, che viene concepita dallo storico come fornita di una duplice polarità. Un polo definisce la rigorosa concentrazione ascetica sulla conoscenza del passato umano, con tutti gli strumenti di comprensione storica e di ricerca critica, la quale può condurre fino all’ascesi entusiastica che Ranke ha espresso con la frase, molto spesso richiamata, che egli voleva dissolvere il proprio io per poter vedere le cose nella loro purezza. L’altro polo — cioè la sfera in cui lo storico vive — definisce al contrario la rinnovata consapevolezza di questo io, non però del proprio piccolo io egoistico, ma dell'io nutrito dal passato, riempito e allargato dai grandi compiti del presente. La scienza storica è perciò sempre, al tempo stesso, scienza e più che scienza. Abbiamo imparato più volte — e ciò rientra nei caratteri fondamentali della moderna impostazione delle scienze dello spirito — a guardare al di là delle ristrette delimitazioni concettuali con cui dobbiamo sempre orientarci in via preliminare. In ogni formazione storica — si chiami essa scienza o stato, arte o religione, Germania o Occidente — c’è una forza motrice che spinge oltre i confini che sembrano esserle imposti nella realtà. Si potrebbe quasi dire che ogni essere storico desidera essere qualcosa di diverso da ciò che realmente è. Questa è la dinami- * Geschichte, Staat und Gegenwart, in « Logos », XXII, 1933, pp. 161-170, poi raccolto in forma mutata e col titolo Geschichte ind Gegenwart nel volume Vom geschichtlichen Sinn und vom Sinn der Geschichte, Leipzig, Kochler und Ameland, 1939, pp. 7-22, c infine in Werke, vol. IV: Zur Thcorie und Philosophie der Geschichte, Stuttgart, K.F. Kochler Verlag, 1959, pp. 90-91 (traduzione di Sandro Barbera e R.). ca della vita storica, per cui avviene che le cose della storia trapassano tutte le une nelle altre, cosicché noi vediamo sussiste- re tra di esse zone più o meno larghe di confine anziché linee nette di separazione, e il singolo fenomeno storico può spesso apparire tanto contradditorio in sé, e tuttavia quanto mai pie- no di vita. È ciò che chiamiamo coincidentia oppositorum, e su cui fondiamo, a partire da Ranke e da Hegel, la moderna immagine della storia. Essa è molto più complicata, molto più difficile da intendere che non l’immagine che del passato si erano fatte tutte le generazioni precedenti e che ancora oggi sta dinanzi al pensiero inesperto quando questo tratta di uomi- ni, tendenze, situazioni e idee come di entità circoscritte e facil- mente calcolabili. Dobbiamo quindi avere ben chiaro che esiste un pensiero storico, una forma di trattazione delle realizzazio- ni della cultura umana che devia dall’abitudine ingenua e quoti- diana di considerare le cose nella loro cosalità e come qualcosa di immutabile anziché di fluido, cioè fuse tra loro e determina- te da innumerevoli relazioni enigmatiche. Si può qui ricordare il rivolgimento avvenuto nel moderno pensiero naturalistico: quanto più la materia diventava oggetto di un’indagine affina- ta, tanto più si risolveva in funzioni e in relazioni enigmati- che. Il rivolgimento avvenuto nel pensiero storico, che ci ha condotto da una visione meccanica a una visione dinamica del- le cose, ha avuto luogo molto prima dell’analogo rivolgimento nel pensiero naturalistico — cioè oltre un secolo e mezzo fa, all’epoca dello Sturm und Drang, dello scoppio della Rivoluzio- ne francese. Di quell’epoca Goethe ha così riferito, più tardi, in Dichtung und Wahrheit: «Un sentimento che prevaleva violentemente in me, e che non poteva esprimersi in modo abbastanza meraviglioso, era la sensazione dell’unità di passato e presente»! Qui abbiamo l’inizio del processo di fusione nel pensiero, la coincidentia oppositorum, l'influenza dinamica dell'elemento storico sul presente e viceversa. All’inizio si tratta- va soltanto del sentimento, della sensazione dell’uomo geniale, non ancora di un principio che trasformasse tutta l’immagine del mondo. Del resto questa trasformazione è avvenuta soltan- to gradualmente, allargandosi da cerchie ristrette a cerchie più 1. GoerHt, Dichtung und Wakrheit. ampie, ed è ancora ben lontana dal termine dei suoi effetti. Ma di fronte a tutte le altre trasformazioni della vita — di tipo politico, sociale, economico e tecnico — che abbiamo vissu- to dall'epoca della Rivoluzione francese, questo nuovo modo di pensare dello storicismo dinamico ricorda il raffinato moti- vo melodico di una sinfonia gigantesca, che spesso può scompa- rire nel tumulto degli ottoni e dei tamburi ma che, riproposto da un nobile violino, penetra nell'intimità del cuore. Non c’è più nulla di saldo e di concluso in sé, tutto è divenire. « Chi sa dove si va? si ricorda appena da dove si è venuti » — per riferir- ci ancora a Dichtung und Wahrheit e alle sue parole conclusi- ve?: tale è la parola d’ordine che da allora risuona nel mondo. Si rimane sempre scossi da capo quando si riflette profonda- mente su questo mutamento e sulle sue conseguenze. Qui vo- glio parlare soltanto delle conseguenze che toccano il rapporto tra storia e presente. Mi riferisco ancora una volta alla frase di Goethe, secondo cui nella sua sensazione passato e presente confluivano in un'u- nità. Goethe aggiungeva che questa intuizione aveva introdot- to nel presente qualcosa di spettrale. Essa è stata benefica per la sua poesia. In altre parole, egli ne presagiva la meravigliosa forza vivificatrice. Ma agli altri — aggiungeva — sarebbe ap- parsa, nel momento in cui si esprimeva immediatamente zella vita, strana, inspiegabile, fors’anche sgradevole. Qui Goethe ha di nuovo avvertito, con geniale presentimento — anche se coglieva soltanto un aspetto del nuovo potente problema — il carattere a doppio taglio degli effetti del nuovo sentimento del- la vita e della storia. Questo nuovo storicismo dinamico, che superava i limiti interni frapposti tra passato e presente e rove- sciava entrambi, con tutti i loro contenuti, nell’eterno crogiolo di un divenire, di un’influenza e di una conversione reciproca, ci ha dischiuso i mondi incantati di una nuova comprensione storica per tutto ciò che reca sembiante umano; ma ha anche scosso in lungo e in largo, non tutto di un tratto ma gradual- mente, il saldo terreno di determinati ideali assoluti su cui l'umanità aveva creduto fin allora di poggiare. Basterà ricorda- re — per accennare soltanto all’elemento più importante — 2. GoetHE, Dichtung und Wahrheit, libro XX. quanto difficile è diventata la posizione del Cristianesimo rivela- to dopo che la critica storica ha scoperto il divenire delle reli- gioni, le loro influenze reciproche e le molteplici forme di transizione delle religioni orientali della redenzione. Se poi ci si rende conto del modo in cui tutto questo prolunga i suoi effetti fino ai problemi religiosi del presente e quanto oscuro sia il futuro religioso che ci sta dinanzi, allora può ben riassalir- ci quella sensazione di spettrale che Goethe aveva provato al primissimo balenare della nuova visione della storia. Lo storici- smo ha suscitato un relativismo che viene a considerare ogni singola formazione storica, ogni istituzione, ogni idea e ogni ideologia soltanto come un momento transitorio nell’infinito corso del divenire. Tutte le cose hanno perciò solamente valore relativo. Come può prosperare la fede salda e la fiducia in colui che crea di tendere a qualcosa di fornito di valore in sé? La parola d’ordine dovrebbe essere simile a quella degli uomi- ni di affari in epoca di inflazione: «rimanerne fuori! ». Ciò può condurre a effetti che dissolvono e minano in mo- do pericoloso: infatti può un giorno scaturirne uno scetticismo sfiduciato e stanco, un dubitare del senso di questo eterno dive- nire e passare, dal momento che il senso di ogni formazione storica particolare viene immediatamente posto in questione dal senso — che appare altrettanto giustificato — delle forma- zioni in lotta con essa; tanto più se, come abbiamo già detto, queste diverse formazioni che si succedono l’una all’altra non si distinguono tra loro in modo preciso e determinato, ma tra- passano l’una nell’altra. Può inoltre scaturirne un opportuni- smo svelto e privo di princìpi, che non conosce nessun saldo vincolo superiore, e acchiappa perciò veloce la preda dell’atti- mo soddisfacendo l’interesse momentaneo. Non già che intenda ricondurre tutti i fenomeni sgradevoli della nostra vita alla causa ideologica dello snervante modo di pensare relativistico. Questo modo di pensare è anzi connesso causalmente, a sua volta, con tutte le altre trasformazioni, in gran parte assai elementari e materiali, della nostra esistenza. Esso rientra però nel motivo melodico di quel potente processo che minaccia di sradicare gli uomini e di farne mere funzioni nella dinamica complessiva della vita storica. Ma l’uomo non vuole lasciarsi sradicare, non vuole diventare una mera funzione, vuol rimanere un individuo di per sé, an- che se sa che la sua individualità è sempre intrecciata con tutto ciò che è sovra-individuale. Egli non è soddisfatto neppure del punto di vista secondo cui ogni cosa agisce sull’altra e trapassa in essa, ma vuole « distinguere, scegliere e giudicare ». Alla co- noscenza eraclitea che « tutto scorre » deve immediatamente su- bentrare l’esigenza di Archimede: « dammi un punto di appog- gio ». Ma in tal caso anche i compiti per i quali lavora, anche le idee per cui combatte devono acquistare di nuovo qualcosa di stabile. Possiede lo storicismo — questa è la grande questione — e il particolare tipo di relativismo da esso prodotto la forza di guarire da solo le ferite che ha inferto? Soltanto chi abbia avuto realmente una volta nella sua piena profondità origina- ria — come in passato Goethe — quella sensazione meraviglio- sa dell'unità di passato e presente, risponderà senza esitare di sì prima ancora di aver disposto tutti gli argomenti in un ordi- ne logico. Ciò che ci rende interiormente più ricchi, che ci porta a un contatto vitale immediato con gli uomini e i tesori del passato, che ci insegna a comprendere — o per lo meno a scorgere — attraverso il ritmo dell’eterno divenire e trasformar- si le profondità dei destini degli uomini e dei popoli, non può recare in sé soltanto una forza distruttiva, ma deve anche posse- dere una forza costruttiva. Ma come si dovrà definire questa forza costruttiva? com'è possibile — per dirla in modo sempli- ce e rozzo — mostrare l'utilità della storia e del pensiero stori- co per il presente? Non voglio importunare il lettore con le consuete trivia- li verità o mezze verità con le quali si cerca di solito di dimostrare l’utilità della storia per la vita produttiva. Nel- la situazione spirituale odierna si deve cercare di assumere un punto di vista più elevato. Non si deve mai perdere di vista il fatto che nello storicismo, il quale relativizza ogni cosa, è cer- tamente presente un veleno corrosivo, il cui effetto può essere eliminato solo mediante altri forti ingredienti. E non si deve neppure dimenticare che nei centocinquant’anni durante i qua- li il pensiero storico è fiorito nella cultura tedesca gli effetti di quel veleno non sono stati riscontrati, e sono stati tenuti indie- tro dagli effetti positivi e creativi del pensiero storico-genetico. Esso diventò un’arma anzitutto per i creatori dello stato nazio- nale tedesco. Da Dahlmann® e da Droysen fino a Treitschke, furono gli storici politici a preparargli il cammino, e Bismarck era pieno di intuizioni storiche che ricordano la saggezza di Ranke. Per Ranke come per Hegel e per Droysen la storia rappresentava il corso del divenire che tutto muove, trasforma e forma in modo nuovo. Come sono essi riusciti — dobbiamo chiederci — a far fronte, nonostante tutto, ad esso e a non naufragarvi dentro, ma piuttosto a trarne forze positive e co- struttive? Dobbiamo perciò formulare la questione in termini ancor più generali: dove si può cercare, in generale, l'antidoto al veleno del relativismo? Vi sono stati tre diversi modi di coprire la prospettiva relati- vistica del puro divenire e fluire delle cose mediante principi che tendano all’assoluto, cioè mediante valori che possano resi- stere alla transitorietà temporale e fecondare così più profonda- mente la vita produttiva. Prendiamoli sommariamente in esa- me e chiediamoci quindi se, e in quale misura, possiamo ancor oggi adottarli. Il primo modo è quello romantico, la fuga nel passato. Si trasfigura e si idealizza un determinato momento di esso, lo si trasforma per quanto è possibile in un’età dell’oro, lo si pone in contrasto con l’oscuro presente; e nel caso che non ci distol- ga da questo trasognati o mal contenti, si può agevolmente acquisire da un grande passato anche impulsi creativi per il proprio tempo. Allorché il barone von Stein‘ diede quell’ordi- namento cittadino che fece epoca e concepì la grande idea, rivolta verso il futuro, dello stato nazionale tedesco, a tale im- presa cooperarono i ricordi romantici della libertà municipale Dahlmann, storico e uomo politico tedesco, autore della Quellenkunde der dentschen Geschichte (1830), delia Politik, auf den Grund und das Mass der gegebenen Zustinde zuriickgefiihrt, della Geschichte von Dinemark, della Geschichte der englischen Revolution, della Geschichte der franzòsischen Revolution e di altri scritti, appartiene alla storio- grafia liberale del primo Ottocento. Fece parte dell'assemblea nazionale di Franco- forte, cd ebbe gran parte nell'elaborazione del progetto di costituzione tedesca. Karl barone von Stein, uomo politico tedesco, diede un contributo decisivo alla riforma dello stato prussiano prima nel 1807-1808 e poi nel 1813-14, dopo la sconfitta di Napolcone; sostenne la necessità dell'unione nazionale tedesca su base prussiana. Meineckc sì riferisce qui alla riforma municipale del novembre 1808, che concedeva l'autonomia locale alle città della Prussia. delle antiche città tedesche della potenza imperiale del Medioe- vo. L'intero mondo conservatore vive spiritualmente, in misu- ra non piccola, di valori del passato idealizzati. In generale, a un popolo pervenuto alla coscienza di se stesso è indispensabile un frammento di culto del passato e degli antenati. Comprende- re la storia del proprio popolo non soltanto con visione storica, ma anche con l’animo, è un processo salutare e profondamente giustificato. La mancanza di pietà verso il proprio passato è innaturale e dannosa. Ma pietà senza critica non dovrebbe esi- stere, allo stesso modo in cui non dovrebbe esistere critica sen- za pietà. Rispondo così alla questione se sia possibile sottrarsi agli effetti sgretolanti del relativismo con la fuga romantica nel passato, dicendo che in ogni caso la vita dell’uomo moderno è povera e triste senza qualcosa del senso romantico della storia, in generale del Romanticismo. Ma non appena si sviluppa in modo eccessivo, esso ostacola la vita anziché promuoverla. Pas- sato e presente non confluiscono più in unità: il passato uccide allora il presente. E se ci interroghiamo soltanto sul valore conoscitivo del senso romantico della storia, anche in questo caso dovremo dire che tale elemento ci dischiude profondità del passato che non sarebbero accessibili alla mera conoscenza causale. Ma non appena un qualsiasi momento del passato vie- ne elevato a norma e a criterio di valore dell’intero processo storico e del presente in particolare, sorge un dogma arbitrario che crolla immediatamente sotto la critica corrosiva del re- lativismo. Cerchiamo dunque ancora il punto saldo che ci permetta di far fronte al relativismo. Si può anche procedere al contrario del Romanticismo e cercare il valore non già nel passato bensì nel futuro, cercarvi cioè il fine della storia, che deve dare un senso al corso — altrimenti privo di significato — del divenire. Emerge qui una quantità di volti di filosofi della storia, tutti tesi a riconoscere nella storia un progresso reale verso un idea- le determinato e assoluto. Alcuni credono che questo ideale sia raggiungibile e conduca a uno stato duraturo di perfezione dell'umanità, mentre altri si accontentano di avvicinarsi a que- sto fine in un’approssimazione infinita. Ma nell’uno come nel- l’altro caso è stato questo ottimismo del progresso ad agire potentemente nei secoli xvi e xix, diventando la bandiera dell’umanità in marcia. Molte sarebbero le cose da dire a que- sto proposito; ma qui mi limito a quest’unica domanda: abbia- mo oggi ancora questa fede nell’ascesa continua dell’umanità verso gradi superiori? Possiamo possederla ancora? A molti di noi il coraggio qui viene meno di colpo, e all'orizzonte si levano le ombre della moderna problematica culturale. In Ger- mania abbiamo sentito parlare, nel periodo successivo alla guer- ra, del tramonto dell’Occidente. Ritengo queste profezie di de- cadenza altrettanto precarie e soggettive quanto le prognosi di ascesa. Una volta colto il loro sfondo psicologicamente soggetti- vo e legato a uno stato d’animo, scompare anche il loro fasci- no. E di nuovo siamo di fronte alla corrente infinita del diveni- re e del trasmutare storico. «Chi sa dove si va? non ci si ricorda neppure da dove sì è venuti ». Questa corrente del divenire, che tutto relativizza e tut- to dissolve nel suo movimento, relativizza appunto anche i due tentativi compiuti dall’aspirazione umana a padroneg- giarlo spiritualmente, cioè il Romanticismo rivolto al passa- to e l’ottimismo del progresso. È loro caratteristica — ed è pure la loro debolezza — di immergersi essi stessi nella corren- te, per nuotare sia contro di essa sia insieme ad essa. Ciò è possibile, e non dev’essere respinto senza appello; si può ben pro- cedere in avanti, praticamente, di un pezzetto. Ma la corrente ha la meglio sul nuotatore. In altri termini, entrambe queste visioni della storia procedono in direzione orizzontale e soccom- bono perciò alla corrente del divenire, che si muove orizzontal- mente. Ma si può considerare la questione anche in senso verti- cale e tentare di costruire un solido ponte al di sopra della corrente? Non si può forse guardare la corrente dall’alto di questo ponte e scorgere ciò che c'è di saldo e di sicuro nel mutamento? Non vedo nessun’altra via. Ed essa è stata percorsa da pro- fondi pensatori. Proprio in Goethe si trovano le indicazioni più precise in tal senso, e Ranke l’ha imboccata, dopo essersi immerso nella vita storica ancor più profondamente di quel che era stato possibile a Goethe. L'ha poi di nuovo ritrovata, con i più moderni strumenti filosofici, Ernst Troeltsch, e nella medesima direzione si lavora oggi da parecchie parti. Per accen- nare la direzione in cui dev'essere trovata la soluzione del no- stro problema voglio qui mettere a confronto due espressioni, l’una di Goethe e l’altra di Ranke. Nella tarda poesia di Goe- the che egli stesso chiama Vermdchtnis e che comincia con le parole « Nulla può mai distruggersi, annullarsi », si dice: «Ed il passato è allora duraturo, il futuro previve nel presente, l'attimo è eternità » 5. Anche qui si esprime di nuovo il senso universale della storia proprio di Goethe, che percepiva l’unità di passato e presente. Ma l’elemento di spettralità è scomparso e nella pie- na coscienza della corrente infinita del divenire, che unisce tra loro passato e futuro, un’idea di eternità prevale sull’infinito meramente temporale; e non si tratta di un’idea di eternità soltanto trascendente e speculativa, bensì di un’idea radicata nel cuore della realtà e dell’esperienza vissuta. L'attimo è eternità. Veniamo ora alla famosa frase di Ranke: «ogni epoca è in rapporto immediato con Dio ». Anche questa frase ci sottrae alla mera corrente del diveni- re e ci spinge a cercare ciò che nella storia è affine a Dio nell’attimo — nell’impulso all’eccelso di volta in volta presente nel singolo uomo, nei singoli popoli e stati in ogni loro epoca e momento. Verticalmente, non già orizzontalmente, la vita storica tende a quell’altezza di cui è capace. In ogni epoca, in ogni formazione individuale della storia si muovono forze spiri- tuali che aspirano a elevarsi al di sopra dell’ottusa natura e del mero egoismo, verso un mondo superiore. Il loro volo si com- pie più in alto o più in basso, ma ciò che esse realizzano è ogni volta qualcosa di interamente individuale, distinto da tut- te le realizzazioni precedenti e successive della storia; ed esse raggiungono tale scopo anche quando esteriormente falliscono. Il loro valore consiste nella loro stessa esistenza e azione, indi- pendentemente dal loro successo temporale — si tratti pure di S. GorrHe, Verméchtnis, vv. 28-30 (trad. it. di F. Amoroso). un andare a fondo con la bandiera che sventola. In ultima analisi opera qui la convinzione che, almeno per noi, l’elemen- to spirituale non è qualcosa di universalmente valido nel sen- so delle verità matematiche, ma si concreta sempre e soltan- to in individualità. Questa prospettiva ci spinge a cercare e a creare l’eterno nell’attimo, nella costellazione individuale del- la vita. Possono certamente sorgere dubbi se sia giusto fare dell’ele- mento più fuggevole, l’attimo, il portatore dei valori dell’eterni- tà. Ma proprio questa paradossalità ci libera dalla pressione paralizzante della transitorietà, dando a ogni momento e a ogni formazione ricca di spirito della corrente del divenire stori- co la sua particolare dignità e il suo valore peculiare e svilup-pando un impulso etico più profondo della nostalgia di un passato più bello o della speranza di un regno millenario. In qualsiasi modo pensiamo la divinità, sia che ce la rappresentia- mo in forma personale o in forma impersonale, sia che osiamo cancellarne la parola stessa e parlare soltanto di valori supremi — in ogni attimo ognuno può sentirsi in rapporto immediato con tali valori, e quanto più fortemente si sente in rapporto, tanto più sicuramente troverà la sua strada e tanto più gioiosa- mente compirà il dovere che l’attimo gli impone. Egli può infatti abbandonarsi a una stella che lo protegge infallibilmente dallo sviamento di una visione della vita pura- mente relativizzante — vale a dire, per usare le parole di Dilthey, alla « mirabile facoltà presente in noi che chiamiamo coscienza »: e la coscienza è, per dirla con Fichte, «il raggio con cui proveniamo dall’infinito ». Ma qui noi ne parliamo in una prospettiva di teoria della storia, poiché una concezione storica priva di un saldo fondamento etico diventa gioco di onde. Nella voce della coscienza tutto quanto è fluido e relati- vo diventa, d’un sol tratto, saldo e assoluto nella sua forma. « Soltanto la propria coscienza — è detto nell’Historik di Droy- sen — è per ognuno l’assolutamente certo, è per lui la sua verità e il centro del suo mondo ». Il contenuto di ciò ch’essa dice al singolo uomo dovrà essere, sotto vari punti di vista, 6. J.G. Droysen, Historik - Vorlesungen liber Enzyklopidie und Methodologie der Geschichte (a cura di R. Hiibner), Miinchen und Berlin, 1937, p. 178. individuale e temporalmente condizionato. Ma ogni esame con- dotto su di sé mostra che la coscienza traccia ogni volta limiti esatti nei confronti della mera soggettività, dell’arbitrio e di tentatori ancora peggiori. Per bocca della coscienza parlano agli individui anche le potenze storiche superiori — il popolo, la patria, lo stato, la religione e così via — e accanto a ciò che esse dicono c'è di nuovo, nonostante l’essenza individuale di tali potenze, quel mirabile carattere assoluto e vincolante che protegge anche la vita comunitaria dal rischio di precipita- re nell’anarchia del volere individuale. Se si arriva poi a conflit- ti di coscienza tra il volere individuale e il volere delle forme superiori di comunità, la coscienza è ancora l’unica istanza che decide interiormente in proposito e che deve quindi porre fon- damentalmente il bene comune al di sopra del bene dell’indivi- duo. Così la coscienza è il potente mezzo connettivo della socie- tà umana, e al tempo stesso l’autentica sorgente metafisica pre- sente nell'uomo. Nella coscienza l’individualità si fonde con l'assoluto, e l'elemento storico con il presente. E così mediante la coscienza è dato all’attimo quel contenuto di eternità, di cui abbiamo parlato. Tutti i valori di eternità della storia scaturisco- no, in ultima analisi, dalle decisioni della coscienza degli uomi- ni che agiscono. Il senso della storia nella totalità dell'universo ci è ignoto. La coscienza, in quanto costituisce l’elemento più affine a Dio presente in noi, ci mostra per così dire soltanto un’orlatura dorata al cui interno esso deve risiedere. Da questo senso assolu- to della storia distinguiamo il senso che può avere per noi. Esso non si esaurirà nel soddisfacimento del nostro bisogno causale, ma culminerà nell’accogliere e nel rivivere in noi, com- prendendola, la rivelazione dell'elemento affine a Dio che è presente nell’umanità. Qualcosa di questo vive — come abbia- mo chiarito parlando del fatto della coscienza — in innumere- voli anime, in lotta continua con tutto ciò che le trascina verso il basso e che spesso può sembrare preponderante. Anche nelle formazioni individuali che cerchiamo di comprendere storica- mente scegliendole dalla pienezza della vita complessiva, ciò che è affine a Dio — cioè la cultura nel senso più alto — equivarrà in una prospettiva spaziale a una sottile vena d’oro in mezzo a masse di minerale, mentre dal punto di vista temporale rappresenterà spesso soltanto degli attimi fuggevolissimi della storia universale. Ma nella misura in cui abbiamo guardato verticalmente verso l’alto, abbiamo anche potuto dare all’attimo storico e alla sua individualità un contenuto di eternità. Chi sa dove si va? - diciamo di nuovo pensando a tutti gl’abissi della storia. E tuttavia non ci è consentito di spaventarci. Pietro Rossi. Rossi. Keywords: lo storicismo, la critica della ragione storica, la storia della filosofia – l’antichita – filosofia romana, filosofia antica, gl’antichi, la filosofia romana, filosofia italica – indice al volume ‘L’antichita’ nella ‘Storia della filosofia” – “L’antichita” – storiografia filosofica – l’origine della filosofia italica, l’origine della filosofia romana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Rossi” – The Swimming-Pool Library.

 

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