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Monday, January 20, 2025

LUIGI SPERANZA -- GRICE ITALO A-Z S SPI

 

Luigi Speranza --Grice e Spintaro: la ragione conversazionale della filosofia pre-romanica -- Roma – la scuola di Taranto – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Taranto, Bari. Teacher – and father – of Aristosseno. Grice: “Oxonians might wonder why Italians are so obsessed with Crotona, Taranto, and the rest of them, but I SEE it: it’s all about the pre-Roman!”

 

Luigi Speranza -- Grice e Spirito: la filosofia dello spirito – filosofia fascista – ventennio fascista – i corpi – corpo e corporazione – la scuola d’Arezzo -- filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Arezzo). Filosofo aretino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Arezzo, Toscana. Studia sotto GENTILE. Firma il manifesto dei filosofi fascisti. Teorico del corporativismo. Insegna a Pisa, Messina, Genova e Roma. Tra i principali filosofi a Roma insieme con ANTONI, allievo di CROCE, CALOGERO -- filosofo del "dialogo" -- Cf. Grice – “dialogo” vs. “conversazione” -- e NARDI grande studioso di filosofia di ALIGHERI e medievale. Rinomate sono non tanto le sue lezioni quanto i suoi pomeriggi di discussione del GIOVEDÌ. Tre ore, non di lezione, ma di discussione serrata su un problema filosofico -- uno soltanto per un intero anno. Uno, per esemptio, e dedicato al concetto di sogno. Ai giovedì nell'aula grande dell'istituto di filosofia interveneno tante e diverse persone: gli studenti, i numerosi assistenti e inoltre partecipanti di convinzioni e provenienze. Ascolta tutti, rilancia e guida la discussione verso nuove prospettive interpretative. Pubblica saggi connessi a quei giovedì. Tra le altre: “Il problematicismo”; “La vita come ricerca” (Rubbettino); “La vita come amore”, “Cattolicesimo e comunismo”, fino a l’autobiografica “Vita d’un incosciente”. Volendo indicare un tratto distintivo della sua filosofia, essa consiste nella curiosità e nel rispetto per qualsiasi posizione. Non esiste una parola definitiva. La ricerca della verità dove essere portata sempre ulteriormente avanti.  In questa maniera vanno interpretate le sue riflessioni che spaziano dai campi della speculazione filosofica. Tra i vari livelli di ricerca, spicca la riflessione sulle strutture dello STATO. Allontanandosi nettamente dal liberalismo filosofico, non vede alcuna contra-posizione tra la figura dell'individuo o cittadino e quella dello stato. Con un passo oltre questa interpretazione, che giudica dis-organica e arbitraria, vede LO STATO come figura entro cui i cittadini vieneno a realizzarsi. Il binomio stato/cittadino diventa così un'equazione, in cui il secondo termine viene a risolversi e quindi realizzarsi pienamente nel primo. Caratterizza lo stato non come una semplice sovra-struttura disciplinatrice, ma come un organismo che esprime UN’UNICA VOLONTÀ e compone tutti i dissidi dei cittadini. In questa maniera, l'unica via percorribile nella realizzazione di tale modello è la via corporativa in cui lo stato -al meno due cittadini -diventa stato di al meno due produttori. Lo stato rappresenta il luogo in cui interesse pubblico o comune ed interesse privato o soggetivo del cittadino vengono a coincidere. In esso non deve venire annullata quella sorgente di vita che sono i cittadini. Questa concezione è stata definita immanenza dei cittadini nello stato, volta alla mobilitazione dei cittadini nelle e per le strutture create dallo stato. L’economia è politica. Deve garantire la sub-ordinazione alle scelte sociali. Inquadra il ruolo che assegna allo stato in termini di intervento pubblico o comone. Ben lungi dal prospettare una situazione paragonabile al collettivismo, è lontano anche dagli eccessi dis-organici che imputa al sistema liberale. Il funzionario di stato, che in prospettiva dove andare a sostituire il capitalista privato, e giudicato non come un agente del collettivismo o del capitalismo statale -che sappiamo cosa produce col sovietismo -ma un semplice delegato tecnico, che si fa garante di una diversa realtà: assicurare socialmente il controllo della produzione e la stessa proprietà dei mezzi produttivi. Altre saggi: “Il diritto penale italiano”; “Il nuovo diritto penale”; “Critica dell'economia liberale, “L'idealismo italiano e i suoi critici” – Grice: “A delightfull read, especially for us Oxonians, since he manages to quote extensively from the Proceedings of the Aristotelian Society, seeing that Ryle hated idealism!” --; “I fondamenti dell'economia corporativa”; “Capitalismo e corporativismo” (Rubbettino); Scienza e filosofia”; Dall'economia liberale al corporativismo, “La vita come arte,  Critica della democrazia” (Rubbettino); “Il comunismo, Dall'attualismo al problematicismo”, Memorie d’un incosciente” (Rusconi, Milano); “Pareto” (Cadmo, Roma); “Critica della democrazia” (Luni, Milano); “Il corporativismo: dall'economia liberale al corporativismo; Rodotà, Passeggiando in bicicletta; Bighellonando dentro il Verano, Corriere della Sera, Stefano, Filosofo, Giurista, Economista, VOLPE Roma, “Individuo e stato”,  NEGRI, “Dal corporativismo comunista all'umanesimo scientifico. Itinerario teoretico” (Manduria, Lacaita); Tamassia, Roma, Russo, Positivismo e idealismo” (Roma); Dessì, “Filosofia e rivoluzione” (Milano, Luni); Russo, “Dal positivismo all'anti-scienza” (Milano, Guerini); Cavallera, “La ricerca dell'incontrovertibile, Formello, SEAM); Breschi, Spirito del Novecento. Il secolo di S. -dal fascismo alla contestazione” (Rubbettino), Cammarana, Roma, Pagine,  Cammarana, “Teorica della reazione dialettica: filosofia del postcomunismo” (Roma). Pirro, Ricordo, in Studi Politici (Bulzoni, Roma). Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia machiavelliana, Bettineschi, L'esperienza storica e l'intrascendibilità del conoscere. Sul sapere di non sapere,  Rivista di filosofia neo-scolastica,, Problematicismo Corporativismo Fascismo Corporazione proprietaria. Treccani, Dizionario di storia, Dizionario biografico degli italiani, Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. È verità comunemente ammessa die l’economia politica o, senz’altro, l’economia sia una scienza sociale. Questo vuol dire ch’essa non studia 1’/ionio ceconomicus e i fenomeni economici, quali si possono immaginare in uno stato pre-sociale o anti-sociale, ma considera invece gli aspetti economici della vita sociale nella sua organicità essenziale. Ed è chiaro che in tanto può studiarli e intenderli sistematicamente in quanto la vita sociale abbia essa stessa un’unità, un ordine, una disciplina: sia, in altri termini, non uno stato di natura bensì un organismo politico, uno STATO. Fondamento, dunque, di ogni scienza sociale e dell'economia in particolare è IL CONCETTO DI STATO, con il correlativo problema dei rapporti tra stato e individuo. Per intendere la storia dell’economia politica e le vicende degli indirizzi predominanti -economia liberale ed economia socialista -è necessario indagare come le diverse scuole abbiano impostato e risolto tale problema. Se si guarda all'economia classica e in genere all’economia più comunemente intesa come scientifica, si deve convenire che essa è stata via via costruita e perfezionata dal secolo XVIII a oggi trascurando, qualche volta in modo assoluto e sempre in modo essenziale, IL PROBLEMA DELLO STATO. Dalreconomia del baratto fino a quella complicatissima delle banche e dell’industria contemporanea, tutti i trattati sono stati concepiti in rapporto a una vita economica in cui dello Stato non si sente quasi mai il bisogno di occuparsi, come se fosse realtà estrinseca e irrilevante ai fini di una vera costruzione scientifica. La spiegazione di questo fatto, evidentemente in antitesi con la qualifica di scienza sociale con cui si caratterizza l’economia, va trovata nella particolare concezione dello stato teorizzata dalla scienza politica e giuridica dal secolo XVIII in poi, e classificata ormai globalmente con l’epiteto di liberale. Essa sorge come reazione ai vecchi sistemi politici, per i quali lo Stato era una realtà diversa dagli individui che lo componevano e sì rappresentava quindi ai loro occhi conte un’autorità meramente arbitraria, con fini propri e opposti a quelli dei sudditi: sorge come bisogno di distruggere un potere estrinsecoedannoso, e con tale esigenza non puòfar altro che rivendicare i sacri diritti dell’individuo, nella cui celebrazione si vede l’unico scopo così della vita sociale come della ricerca scientifica. Allo Stato, che storicamente appariva come un limite e un ostacolo, anziché come essenza e vita deirorganismo sociale, si opponeva una negazione perentoria destinata a mutare radicalmente non solo i rapporti politici, ma anche i fondamentidi ogni scienza sociale. Si può anzi affermare che, solo in seguito a questa violenta ribellione, il pensiero scientifico acquista la libertà indispensabile per uno studio sistematico dei fenomeni sociali, e ciò vale a spiegare perché le cosiddette scienze sociali si rinnovino sostanzialmente, si costituiscano e cerchino di organizzarsi tra loro soltanto dopo la prima metà del Settecento. L’esigenza immediata era quella dell’assoluta negazione, dalla quale ci si ritrasse unicamente per le necessità irriducibili di una vita politica organizzata: il ritorno alla natura non poteva essere altro che il grido nostalgico di un ideologo. Ma se la negazione non poteva divenire totale, essa tuttavia si spinse al massimo limite consentito dai tempi, e, in sede scientifica, alla realtà dello Stato non si riconobbe se non la funzione del tutto estrinseca di salvaguardare le sfere di arbitrio dei singoli individui, Se unica realtà e unico valore sono quelli dell’individuo, se al mondo non c’è altra finalità oltre quella che l’individuo si pone nel suo chiuso egoismo, ne consegue che allo Stato deve spettare 1 unico compito di determinare i confini tra quegli infiniti regni costituiti dai singoli cittadini e di sorvegliare la loro pacifica convivenza: esso non entra nella vita dell’individuo, ma ne resta al margine come garante. Ora è chiaro che uno Stato così concepito non deliba trovar posto nella maggior parte delle scienze sociali: esso è più una realtà di diritto che non una realtà di fatto, e la sua considerazione tende a esaurirsi nelle indagini di carattere giuridico. Valori e fini sociali sono quelli dell’individuo, che si affermano e si negano indipendentemente dallo Stato, il quale ha il solo scopo di non farne turbare il libero svolgimento. Di questa funzione di tutore le scienze sociali possono e debbono, dunque, disinteressarsi, in quanto essa non modifica la realtà dei fatti sociali, ed anzi rende possibile la loro genuina attuazione. A tali presupposti ideologici e politici si deve ricondurre in particolar modo lo svolgimento della scienza economica classica. Facendo sua questa soluzione del problema circa i rapporti tra individuo c Stato, essa dà allo Stato un valore positivo solo in quanto garante della libera concorrenza, ma lo ritiene perturbatore e distruttore di ricchezza ogni volta che intervenga attivamente nella vita economica: assume poi ad oggetto della propria indagine 1 unica realtà dell individuo, considerato nella sua vita immediata e mosso esclusivamente dai suoi particolari interessi. L homo œconomicus è per definizione extrastatale. Di qui l’equivoco fondamentale di tutta la scienza economica quale è pervenuta fino a noi. Se la scienza, infatti, non deve studiare l’organismo sociale (lo Stato) perché questo, in quanto organismo, non ha un significato e un valore proprio, non avrà, per ciò stesso, nulla da dire all’individuo singolo che di quell’organismo fa parte. L’individuo scisso dall’organismo è per definizione anarchico, e norma della sua vila non potrà essere che il suo arbitrio affatto soggettivo: la scienza non può insegnargli niente perché non può saperne niente. Per saperne qualcosa bisogna che un individuo esca dalla sua particolarità, si esprima, entri in relazione con gli altri individui e venga, dunque, a far parte di una vita sociale organica : dello Stato. Solo allora ; solo, cioè, quando Yhomn ceconomicus è diventato cittadino, la sua attività diventa intelligibile e suscettibile d’investigazione scientifica. Ma la scienza economica si è voluta ostinare in questo assurdo, di considerare l’individuo prescindendo dallo Stato; e non è potuta giungere die a risultati mediocrissimi : le sue soluzioni sono, in fondo, tutte negative, e si riassumono sostanzialmente nel dogma della libera concorrenza. Il quale, se ben si riflette, vuol dire solo cbe la scienza si rimette all arbitrio degli individui, e che la soluzione più perfetta del problema economico è quella che scaturisce dal cozzo indisciplinato di tutti gli infiniti interessi particolari. Allo Stato la scienza dice: non fare; all'individuo: fa quel che ti pare. Questa l'essenza dell’economia classica. 1 tentativi fatti per uscire dal circolo vizioso del liberalismo tradiscono tutti il bisogno di superare una soluzione affatto negativa del problema della scienza economica. Se non che l’incapacità di abbandonare il presupposto individualistico non ha consentito di giungere a una sistemazione scientifica che non fosse nella massima parte illusoria. E infatti, una volta ammesso il fondamento soggettivistico dell’economia, null’allro restava da fare all’economista se non aggirarsi all’infinito in quella contraddizione in termini in cui si risolve ogni tentativo di conoscere le leggi sistematiche dell’arbitrio. Se al puro e semplice « fa quel che ti pare », lo scienziato ha voluto aggiungere una sola parola di carattere positivo, lo ha potuto fare soltanto illudendosi di entrare nel mondo ermeticamente chiliso del soggetto. Così si spiegailsorgere della scuola psicologica e matematica, con la quale si è creduto di attingere il maximum della scientificità e si è condotto all assurdo il postulato classico dell'individualismo. Scuola psicologica: e cioè costrizione dell’anima umana entro schematismi arbitrari, concepiti da chi non aveva nessuna dimestichezza con gli studi di psicologia; riduzione dell’/iomo ceronomicus all’edonista, o all’egoista, o all’altruista, e, in ogni caso, a un’etichetta di cui non sì sarebbe potuto dare nessuna giustificazione: livellamento dei soggetti e cervellotica costruzione del tipo, che rendesse uniforme e perciò intelligibile la multiforme vita individuale; negazione, insomma, del vero mondo della soggettività e sostituzione ingiustificabile di una formula meramente fantastica alla realtà che si pretende conoscere. Scuola matematica: e cioè quantificazione di quegli stessi elementi soggettivi illusoriamente determinati: comparazione di dati incomparabili perché essenzialmente diversi; processo astrattivo sorto su illegittime astrazioni e perciò irriducibile alla concretezza della vita; formule algebriche, dunque, che non potranno mai vestirsi di numeri effettivi. L indirizzo psicologico e matematico, sorto a correzione ed integrazione di quello liberistico, è valso solo a mettere in luce l’errore fondamentale. Gli individui nella loro particolarità sono esseri necessariamente eterogenei: i gusti, i bisogni, gli interessi, le finalilà non sono paragonabili: nessuno potrà mai dire quante volte il profumo di un fiore vale per una signora aristocratica più che per una popolana, ed io stesso, che presumo di conoscermi, non potrò mai dire quante volte il godimento datomi da una sensazione corrisponda a quello procuratomi da un altra, o dalla stessa in un momento diverso. Nessun tentativo dì approssimazione può essere concepito seriamente e perciò tutta la cosiddetta economia marginalistica non è suscettibile di alcuna interpretazione di carattere pratico. Concludere, come fa 1 economia liberale, che il massimo dell utilità sociale equivale alla somma dei massimi delle utilità individuali significa dire una cosa senza senso, se è vero che di addendi incomparabili — come sappiamo dalla più elementare conoscenza matematica nonè possibile fare la 6omma. Con il tentativo di passare dal massimo benessere individuale a quello sociale, si chiude il ciclo dell economia classica o liberale, e la vanità del tentativo ne conferma il definitivo dissolversi. Di un inondo concepito coinè moltitudine caotica di individui, vivente ognuno sotto il solo impero del proprio arbitrio, è insensato voler fare la scienza. Scienza vuol dire disciplina, e l’individuo che non è ancora cittadino è senza disciplina; vuol dire norma, c 1 individuo non può riconoscerne alcuna oltre il suo gusto del momento; vuol dire, soprattutto, conoscenza obiettiva e universale, e l’individuo del liberalismo è soggettività particolare. A tale individuo l'economista si volge solo per constatarne la natura e garantirne la primitività: lungi dal guidarlo e disciplinarne gli interessi, lo abbandona al cozzo brutale della domanda e dell’offerta, in cui tutto il suo ideale si riassume. È la scienza dell’anarchia. All’economia liberale si è opposta quella socialista. Tutti i presupposti della prima sembrano negati dalla seconda, che all’individuo sostituisce la classe, la società, lo Stato. Ma lo Stato di cui parla il socialismo ha lo stesso difetto di origine di quello liberale: esso, cioè, è sempre considerato come una realtà diversa dall’individuo, come limite dell’attività individuale e sua condizione estrinseca. La situazione si è invertita, ma il problema è rimasto impostato nella stessa maniera, poiché l’antinomia individuo-Stato in entrambi i casi è risolta sacrificando uno dei due termini all’altro; e, in quanto il termine sacrificato ha conservato un minimo di validità, esso rappresenta una limitazione, sia pure necessaria, della realtà del termine ipostatizzato. Limite deirindividuo è Io Stato nel liberalismo, limite dello Stato è l’individuo nel socialismo. L’incapacità di risolvere l’antinomia con l’identificazione di individuo e Stato ha condotto il socialismo a concepire lo Stato burocraticamente. Se lo Stato infatti non è la realtà stessa della Nazione, ma viene entificato e opposto alla Nazione, esso non può concepirsi se non come un organismo a sé e con organi propri. Quando il socialismo nega la proprietà privata e dichiara che i mezzi di produzione appartengono allo Stato,evidentemente attribuisce a questo una personalità giuridica ed economica distinta da quella dei privati: ed è chiaro che, se lo Stato ha una personalità distinta, deve avere i anche il motlo di vivere ed agire distintamente, attraverso quei determinali organi che costituiscono appunto la burocrazia. È così che la teoria socialista, negando l’individuo nello Stato, sostituisce all'economia individuale quella burocratica e fa dello Stalo, in quanto realtà giuridica diversa dagli individui, il proprietario, il datore di lavoro, il risparmiatore, il distributore, e via dicendo. La critica violenta e altezzosa che reconomia classica ha opposto all’economia socialista è sostanzialmente giusta e irrefutabile. Se contro il liberalismo ha ragione il socialismo in quanto richiama l’attenzione dall’individuo allo Stato, contro il socialismo ha egualmente ragione il liberalismo clie rivendica la superiorità dell’economia individuale rispetto a quella statale. L’economia statale è per definizione un’economia monca e patologica, poiché essa non solo accentra e quindi limita la vita economica, ma ne affida la direzione a un organo relativamente estrinseco quale è la burocrazia. Quando il liberale afferma che lo Stato è cattivo amministratore, ha perfettamente ragione, perché per Stato s’intende appunto una realtà sopraordinata e non costruttiva della cosa amministrata. In altre parole si vuol dire che l’industriale, il quale nasce c vive con la sua industria facendo di essa la stessa ragione della sua vila, farà prosperare la sua azienda indubbiamente meglio del burocrate, che nell’industria a lui affidala vede solo la contingente espressione del suo dovere di funzionario. Ma più che antieconomica l’economia statale è livellatrice e mortificatrice delle attività individuali. che lulte sì debbono uniformare al meccanismo burocratico e perdere quella libertà di movimenti la quale costituisce la condizione prima della loro iniziativa. La comune opinione del carattere tradizionalista e conservatore della burocrazia è la più evidente conferma della sua incapacità a rinnovarsi con quel ritmo acceleratissimo che è proprio della industria contemporanea : l’economia statale tende per sua natura a diventare economiastatica. Il dualismo di individuo e Stato, che ha reso inadeguate le soluzioni dell’economia classica e di quella socialista, non è stato superato neppure dai tentativi compiuti, specialmente in questi ultimi decenni, per la costruzione della cosiddetta economia nazionale o di Stato (la Volkswirtschaft o Staatswirtschafi dei Tedeschi). Anche quando tali tentativi non si sono ridotti a concepire la vita della Nazione come la somma delle vite dei singoli individui, e si è voluto invece considerare l’organismo sociale con caratteristiche e finalità proprie, l’economia pubblica è rimasta sempre accanto all’economia privata e la necessità della loro assoluta identificazione non è stata mai dimostrata, né da sociologi né da nazionalisti. I sociologi, infatti, tutti compresi dal compito di descrivere le varie forme della vita, si sono preoccupati soltanto di analizzare le diverse economie, dall’individuo alla famiglia, alla classe, alla Nazione ecc., di classificarle e di studiarne estrinsecamente i rapporti; i nazionalisti, poi, infatuati dall ideologia della Nazione, non hanno saputo far altro che ipostatizzarla come una realtà superiore all’individuo, affermando in conseguenza la superiorità deireconomia nazionale e la subordinazione a essa di quella individuale. In entrambi i casi lo Stato è rimasto come una delle forme, sia pure la massima, della vita sociale; e l’economia ad esso relativa come una delle forme, sia pure la suprema, delle possibili economie. E in tal guisa il — pensiero scientifico e andato oscillando dall’ideologia anarchica del liberalismo a quella statolatria del socialismo e del nazionalismo, senza mai cogliere l’essenza del problema. Respinto a volta a volta dagli assurdi di uno dei due estremi, si è ritratto acriticamente dalle conseguenze ultime delle opposte concezioni,ed è al solito scivolato verso i mezzi termini dell’eclettismo: il concetto di Stato è penetrato di straforo nei trattati deireconomia scientifica, e quello di individuo e di libera iniziativa nelle costruzioni ideologiche degli statalisti. La soluzione integrale del problema è delineata, se pur non ancora esplicitamente chiarita, nelTordinamento corporativo del regime fascista. Si tratta per ora di un’intuizione politica più che di vera consapevolezza scientifica, e anzi la lettera di alctine disposizioni legislative consacra ancora il dualismo di individuo e Stato. Nella stessa formulazione della Carta del Lavoro, alcune espressioni di principi, e soprattutto il famoso articolo 9, legittimerebbero le vecchie interpretazioni liberali e socialiste, di cui abbiamo discorso. L’intervento dello Stato nella produzione economica — dice infatti 1 articolo 9 — ha luogo soltanto quando manchi o sia insufficiente 1 iniziativa privata o quando siano in giuoco interessi politici dello Stato. Tale intervento può assumere la forma del controllo, dell'incoraggiamento o della gestione diretta. Nulla di strano che questo articolo abbia prodotto i più svariati malintesi nell'interpretazione dell'economia corporativa. I liberali vi hanno visto a ragione la conferma delle loro dottrine, poiché gli stessi classici più ortodossi hanno sempre sostenuto che, per motivi eccezionali o per superiori interessi politici, lo Stato può e deve intervenire nella vita economica del paese. 1 filosocialisti, insistendo sul maggior intervento statale che la Carta del Lavoro promuove, 1 hanno legittimamente interpretata come un passo decisivo verso Tordinamento socialista. Gli eclettici hanno piaudito entusiasticamente. illusi di veder consacrata la solita via dei mezzi termini. Gli economisti della cattedra, infine, hanno dato un'occhiaia distratta e hanno sentenziato senz’altro che l’economia corporativa non esiste, risolvendosi essa in una mera prassi politica contingente. E che Leeonoinia corporativa non esista parrebbe, infatti, dimostrato dal fatto che i tentativi finora compiuti per defi nirla e sistemarla scientificamente hanno condotto alla riduzione del nuovo al vecchio n alle sterili soluzioni di compromesso tra liberalismo e socialismo. Mafortunatamente l’infelice esito dei tentativi è dovuto soltanto all’inopportuno zelo degli interpreti, i quali, per malinteso ossequio alla lettera, si sono lasciati sfuggire lo spirito più profondo della Carta del Lavoro e del faseismo in generale. L’imperfetta dizione dell'art. 9 fii spiega proprio per la mancanza di una sistemazione scientifica del nuovo concetto dell’economia e gli interpreti avrebbero dovuto capire che la Carta del Lavoro, per il suo carattere rivoluzionario, costituisce un punto di partenza più che un punto dì arrivo, e che alla scienza spetta appunto il compito di rendere esplicita e sistematica quella visione che in essa è intuitiva. L’articolo 9, dunque, non può essere considerato come la chiave di volta e il criterio infallibile del sistema, sihbene come una delle proposizioni da interpretarsi e coordinarsi alla luce delle nuove esigenze. Le quali trovano piuttosto la loro esatta formulazione nell'articolo 1. per cui LA NAZIONE ITALIANA E UNA UNITA MORALE, politica ed economica, che si realizza integralmente nello STATO FASCISTA: nell’articolo 2, per cui « il lavoro. solto tutte le sue forme intellettuali, tecniche e manuali, è un dovere sociale e soprattutto nell’arlicolo 7, per cui l’organizzazione privata della produzione essendo una funzione di interesse nazionale, l’organizzatore dell’impresa è responsabile deH’indirizzn della produzione di fronte allo Stato )). È qui il motivo più profondamente rivoluzionario del FASCISMO, per cui si afferma l’identità sostanziale di interesse pubblico e privato, di benessere dei singoli e potenza nazionale. Certo, nella Carta del Lavoro, questa identità alle volte si spezza e riappaiono i due termini dell’antinomia, ma al nuovo bisogna guardare e non al vecchio, con gli occhi ben intenti all’avvenire. Quando l’articolo 7 proclama il privato responsabile di fronte allo Stato della sua vita economica, vale a dire di ciò che per la tradizionale mentalità politica e scientifica — si ritiene il più geloso attributo della sfera di arbitrio dell’individuo, rende finalmente Fuorno cittadino, lo trasforma in organo costitutivo dello Stato, e distrugge alla radice ogni differenza tra ciò che è privato e ciò che è pubblico. Il cittadino risponde di tutta la sua vita allo Stato cui appartiene, perché il fine della sua vita è quello stesso dello Stato; e, in quanto ne differisca, in quanto vi si opponga, o anche in quanto si presuma indipendente da esso, è illegittimo. Ma, perché Firnificazione della sfera pubblica e di quella privata sia effettiva e non illusoria, è necessario avere dello Stato un concetto heu più adeguato di quel che non abbiano i socialisti e. tanto meno, i liberali. Chi ritenesse che lo statalismo che propugna la Carta del Lavorosia sostanzialmente sullo stesso piano dell ideologia socialista non saprebbe poi come spiegare la riaffennazione della proprietà privata. Se questa non è una contraddizione vuol dire che Ira socialismo e corporativismo, e cioè tra queste due forme di statalismo, v’ha una differenza essenziale che occorre chiarire. E il chiarimento dovrebbe già risultare da quanto è stato detto sul carattere burocratico dello Stato socialista, concepito tuttavia come entità distinta dagli individui. Il vero Stato è, al contrario, la stessa realtà dell’individuo e sì esprime quindi, non in particolari organi e istituti, sibbene nella vita stessa di ogni cittadino. La proprietà deve rimanere privata, perché essa è già assurta a finalità e caratteri pubblici con 1 elevazione del proprietario a organo costitutivo dello Stato. Credere che la proprietà da privata diventi pubblica solo se essa venga amministrata direttamente dallo Stato, significa identificare lo Stato con la burocrazia, e opporlo all’individuo; significa insomma arrestarsi all’ideologia liberale e socialista. Lo Stato per realizzarsi nella sua integrità non ha bisogno di livellare, disindividualizzare, annientare l’individuo e vivere della sua ^istruzione: al contrario esso si potenzia col potenziamento dell’individuo, della sua libertà, della sua proprietà, della sua iniziativa, della sua peculiare posizione nei rapporti con gli altri individui. E tutto ciò è possibile, in quanto 1 individuo non è più un mondo particolare e la sua libertà non si chiama più arbitrio, ma e individuo sociale che nella prosperità dell’organismo statale vede il proprio fine. L’individualisino del liberalismo e lo statalismo del socialismo sono superati, perché sono trasvalutati i termini di individuo e Stato che avevano condotto ai due assurdi opposti. Avere coscienza precisa di tale trasvalutazione non è davvero cosa molto facile, soprattutto perché occorre vincere continuamente il pregiudizio tradizionale che ci porta a entificare lo Stato, a opporlo a noi stessi, a riconoscerlo soltanto in determinati organi e funzioni. La vecchia concezione intellettualistica è ormai così radicata in noi e la stessa terminologia che siamo costretti a usare è così aderente al concetto dello Stato come personalità trascendente i cittadini, chenonci riesce agevole sfuggire a tutti i paralogismi del senso comune. E in siffatto modo si spiega l'accusa di metafisicheria che si vuole rivolgere, anche da persone non sciocche, all’identificazione di Slato e individuo. Ma bisogna resistere all apparente evidenza di queste critiche e persuadersi che quando un concetto ha davvero fondamento speculativo è per ciò stesso il più pratico, e vale a risolvere anche quelle difficoltà di carattere tecnico, che invano si cercherebbe di rimuovere con i vaghi concetti del senso comune, se pur questi sembrino agli occhi degli inesperti i più precisi, i più certi, i più assiomatici possibili. Negate infatti questa metafisicheria che è l'identità di individuo e Stato, e vi accorgerete che, volendo precisare sul serio il concetto apparentemente lapalissiano dello Stato e dei suoi limiti, ogni definizione riesce inadeguata. e quella che sembrava una salda realtà diventa un nome senza consistenza. 11 concetto, dunque, fondamentale e sistematico dell economia corporativa è la statalità di tutti i fenomeni economici. Economia individuale ed economia statale sono termini assolutamente identici. Questa conclusione, così netta e perentoria, sembrerà paradossale e assurda a ogni economista che abbia tuttavia nel cervello i! più piccolo pregiudizio classicista e individualista: ma, per chiunque voglia riflettervi su, con mente aperta e con buona volonlà, dovrà pure apparire come la verità più logica ed evidente. Le obiezioni che si possono sollevare sono principalmente due: Luna di carattere psicologico, la seconda in particolar modo tecnico-economica. Secondo la più ovvia osservazione psicologica sembra che tra il mio interesse di privato e quello pubblico dello Stato vi sia non solo differenza, ma spesso opposizione. Il cittadino, ad esempio, che investe in un modo piuttosto che in un altro i suoi risparmi, fa gli interessi propri, e le sue decisioni in proposito sono indifferenti allo Stato: il cittadino, poi, che cerca di sfuggire alle imposte fa gli interessi suoi e si oppone a quelli dello Stato. Ecco dunque due economie ben distinte e con finalità differenti: l’una individuale e l’altra statale. Senoncbé basta saggiare appena la fondatezza di queste opinioni per convincersi della loro superficialità: e infatti è chiaro che il modo d’investire i risparmi dei cittadini non può essere indifferente allo Stato, perché non può essere indifferente allo Stato che l’indirizzo economico sia tino piuttosto che un altro, che certe industrie siano favorite o neglette, che le forze produttive siano armonicamente finanziate: quanto poi airopposizione dì interessi individuali e statali che si verifica nel caso del cittadino che si sottrae alle imposte, è non meno evidente ch’esso dimostra soltanto il lato abnorme della vita economica e noii può essere assunta a criterio distintivo di due economie. Non si nega che il dualismo tra individuo e Stato esista, ma si vuole affermare ch’esso rappresenta l’aspetto negativo e non quello positivo della vita sociale. Questa, nella sua essenza, importa l’unità dei due termini e può scientificamente studiarsi alla luce di tale unità: il dualismo sempre risorgente — e necessariamente risorgente per la stessa dialettica della vita umana, che è perfezionamento e non perfezione — indica ii Iato patologico, l’ostacolo «la rimuovere, e insomma l’arbitrio fuori della legge e fuori della scienza. Cbi ipostatizza il dualismo e lo legittima facendone il fondamento di due economie, individuale e statale, confonde il positivo col negativo, la legge con la sua infrazione, e costruisce infine due simulacri di scienza. L obiezione di carattere tecnico, che sembra legittimo sollevare contro l’assoluta identificazione di individuo c Stato, concerne la possibilità d’intervento dello Stato nell'economia individuale. Appare, infatti, evidente che, se lo Stato alle volte interviene a controllare, incoraggiare, gestire, ecc., e alle volte invece si disinteressa completamente, vuol dire eb’esso rappresenta una realtà diversa da quella su cui esercita il controllo: la possibilità dell intervento è la conferma ad oculos del dualismo. Eppure a una analisi più appropriata del problema una simile rappresentazione dei fenomeni economici deve risultare fondamentalmente errata ed equivoca. Se infatti lo Stato non vien concepito in forma mitologica, come un organo o un insieme di organi sui generis, ma come la stessa Nazione nella sua organicità (giuridicità) essenziale, è chiaro ch’esso non può intervenire perché è sempre presente, immanente in ogni manifestazione, sia pure la più trascurabile, degli individui costitutivi della Nazione. Si può intervenire negli affari degli altri, ma intervenire in quelli propri è cosa senza senso. Ogni atto economico da me compiuto s’innesta nel sistema economico della Nazione cui appartengo (vedremo poi come nella Nazione entri anche il mondo internazionale) e risulta quindi da esso condizionalo, anche se nessuna particolare norma lo regoli esplicitamente. Questa sistematica disciplina, per cui il mio atto economico si realizza nell’organismo statale, costituisce il così detto intervento dello Stato, il quale è, per ciò stesso, assolutamente sostanziale. Pensare che possa esistere un fenomeno economico che si sottragga a questa disciplina e che viva in un mondo extrastatale, è pensare l’assurdo. Fenomeni antistatali potranno esservi, e saranno appunto gli atti di arbitrio dell'individuo che si oppone alla disciplina statale, ina fenomeni extrastatali no, perché fuori dello Stato v’c il nulla. Da un punto di vista assoluto, dunque, è illogico parlare di intervento dello Stato. Ma dell’assoluto — ci oppongono gli empirici — noi non ci occupiamo: noi intendiamo spiegarci un fenomeno molto concreto e innegabile, e cioè quello dello Stato che pone un dazio, un calmiere, sovvenziona una industria e viadicendo: di uno Stato, in altre parole, che ha una personalità distinta da quella degli individui e che, come soggetto economico diverso, compie degli atti che gli individui non possono compiere. E credono così, codesti empirici, di aver tagliato la testa al toro, senza accorgersi invece che di ogni problema non ci sono due soluzioni, una filosofica e lina empirica, una assoluta e una relativa, sibbene una soluzione sola e propriamente quella giusta. La quale, in questo caso, consistendo nell assoluta identità di individuo e Stato, dà a quello Stalo di cui parlano gli economisti un significato molto meglio determinato ch’essi non pensino, e cioè il significato di una delle particolari espressioni della vita dello Stato. Nessuno si sogna di negare quella realtà di fatto che è lo Stato nell’accezione più comune del vocabolo: nessuno quindi pretende negare che esista un’amministrazione centrale con un bilancio proprio (il bilancio dello Stato), con finalità sui generis, e con fenomeni economici peculiari: si vuol soltanto affermare che questa realtà non è lo Stato, bensì uno degli elementi dello Stato, la cui vita effettiva è nell’organismo integrale della Nazione, ipostatizzare quell’elemento, e vedere soltanto in esso lo Stato, significa precludersi la via a un’intelligenza adeguata dei fenomeni economici. Gli empirici, al solito, potranno esserci indulgenti e concederci di aver ragione circa il modo di intendere il concetto di Stato: ma — essi continueranno a opporci — sia pure elemento lo Stato di cui parliamo, noi intendiamo discutere appunto di esso quando ci riferiamo al suo intervento nella vita economica. Senonché tale soluzione del problema sarebbe affatto illusoria, come quella che ridurrebbe a una questione di parole la più sostanziale delle questioni. Ammettere, infatti, che lo Stato di cui parlano gli economisti sia un elemento dello Stato e non esaurisca la realtà di questo, significa riconoscere ch’esso è appunto elemento di un organismo dal quale non può scindersi, ovvero ch’esso è coessenziale a ogni altro elemento dell’organismo medesimo.Per tradurre questo concetto nei termini usuali, è facile osservare che il bilancio dello Stato vive in un’unità indissolubile con la vita economica della Nazione, sì che nessun fenomeno economico sfugge a un rapporto diretto o indiretto con esso. Quando lo Stato fissa un’imposta, non modifica soltanto l’economia dei colpiti dall’imposta, ma anche di quelli non colpiti: così quando lo Stato stabilisce un dazio protettore, non muta soltanto le condizioni dell’industria protetta, ma contemporaneamente quelle di tutte le altre. Ogni intervento dello Stato è globale. Credo che non vi sia ormai nessun economista che voglia contestare una verità tanto lapalissiana: ma purtroppo da essa non si è tratta ancora in maniera veramente esplicita la conseguenza inevitabile, e cioè che lo Stato, per il fatto stesso di essere, interviene sempre; e che discutere quindi si può su questa o su quella forma di intervento, ma non sulla legittimità ed economicità deirintervento. Tutti gli infiniti tomi che si sono dedicati alla discussione del problema circa il valore economico dell’intervento statale, e tutta la secolare opposizione dei liberisti a ogni forma di intervento, riposano su un colossale equivoco, dipendente appunto dall’errato concetto di Stato. Discutere se sia lecito o no l’intervento dello Stato e nello stesso tempo riconoscere la necessità del bilancio dello Stato —vale a dire, per l’Italia, di un movimento annuo di decine di miliardi — è un assurdo che può non risultare soltanto alla cecità degli economisti puri. I quali non sanno quel che si dicano quando affermano che 1 ideale della vita economica sarebbe quella della più perfetta libera concorrenza. Se una Nazione è tale in quanto è Stato, la libera concorrenza, quale è concepita dagli economisti, non solo non è raggiungibile, ma è negata nel modo più perentorio. Per conseguire que! presunto ideale bisognerebbe spezzare 1’organismo. negare lo Stato e tornare al cozzo violento dell’anarchia di natura. 11 progresso di una Nazione, al contrario, è segnato dalla sua organicita sempre maggiore, e cioè dalla sempre più consapevole realtà dello Stato; il quale, in conseguenza, tende a diventare sempre più immanente alla vita degli individui e sempre più costitutivo di ogni loro manifestazione. L’intervento dello Stato, in altri termini — se ancora d’intervento può parlarsi — è di fatto, e tende a diventarlo anche nella coscienza comune, la realtà stessa della vita economica. E se la scienza dell’economia auspica il trionfo dell ideale opposto, è troppo palesemente fuori di strada. Allorché la Carta del Lavoro, dunque, dice all’articolo 9 che « l’intervento dello Stato nella produzione economica ha luogo soltanto quando manchi o sia insufficiente 1 iniziativa privata o quando siano in giuoco interessi politici dello Stato»,parla, evidentemente, un linguaggio d’altri tempi. Se lo Stato interviene sempre, perché è sempre presente e i suoi interessi politici investono tutta la vita della Nazione con cui si identifica, è chiaro che tutta l’economia tradizionale deve spostare il suo centro di indagine e trasformarsi fin dalle fondamenta. Il suo problema era, infatti, quello della libera concorrenza (economia individuale), e della convenienza o meno, in certi casi, dell’intervento statale (economia prevalentemente monopo* listica): oggi diventa quello delle forme statali dell’intervento e della organizzazione dell’economìa, nazionale. 11 binomio di libera concorrenza e monopolio non ha più significato, e i due termini si risolvono in uno solo, quello della unità organizzata della vita economica, in cui la stessa concorrenza viene disciplinata. Cade così l’argomentazione degli economisti, cbe affermano essere tutte le forine della vita economica riconducibili alle due sole ipotesi della libera concorrenza e del monopolio. La forma è unica ed è quella lìbera e monopolistica insieme, in un’unità tale per cui il concetto di libertà e quello di monopolio sono radicalmente trasformati e resi inintelligibili in quanto distinti. Gli schemi non servono più perché non rispondono a nessuna approssimazione alla realtà, e sono anzi nella loro essenza opposti alla realtà. Liberi sono gli individui, ma nella Nazione, in questo colossale monopolio in cui la loro concorrenza si effettua: questa è la realtà a cui invano si opporrebbe il tradizionale dilemma. Né si creda di sfuggire a questa conclusione passando dall’economia nazionale a quella internazionale, poiché la Nazione non va concepita antistoricisticamente come un’entità limitata dai suoi confini e, nei suoi rapporti con le altre Nazioni, alla stessa guisa dell’uomo di natura rispetto agli altri individui. La Nazione include in sé il mondo internazionale, e lutto ciò cbe costituisce la vita di questo mondo non ha altra sede appunto che nella Nazione, unità suprema di là dalla quale non esiste che l’unità astratta, perché non dialettica, dell’umano genere. Il compito che si deve perciò proporre la scienza è, sì, la costruzione sistematica dell’economia nazionale, nia intendendo questa come unità concreta ne mondo internazionale, che non e, neppur esso, riconducibile alPideologia anarchica del liberalismo, in quanto rientra nella disciplina e nel sistema della Nazione. È al sistema che bisogna tener sempre fissi gli occhi, specialmente oggi che 1 organizzazione della vita economica sta incendo passi giganteschi e che, dinanzi al rapido processo di unificazione delle industrie, del commercio, dei mercati e delle banche, diventa sempre più anacronistico e irrisorio lo schematismo individualistico della tradizionale economia pura. Riassumendo, possiamo ormai determinare i capisaldi della nuova economia, facendoli tutti derivare dal concetto fondamentale della statalità dì ogni fenomeno economico : Subordinazione di ogni fenomeno economico al fine statale (essenziale politicità o storicità dell’economia). Interdipendenza dei fenomeni economici, considerata in funzione del fine statale ( sistematicità o organicità della vita economica).  Carattere pubblicistico della proprietà privata e della vita economica individuale. Obiettività dei fenomeni economici data dall obbiettività del fine statale, e quindi loro intelligibilità scientifica, in contrapposizione alla soggettività dell individualismo (ofelimità). ) Critica dei concetti di libera concorrenza e monopolio, e affermazione di un’effettiva epiù profonda libertà economica (negazione del liberismo anarchico e del vecchio statalismo burocratico). Carattere internazionale della Nazione e unità essenziale del mondo economico. Questa Veconomia corporativa o senz’altro la economia. Poiché è bene intendersi una volta per sempre, ed escludere perentoriamente quel mostruoso tentativo di concepire la scienza economica come una forma astratta, da adeguarsi a una qualunque delle infinite ipotesi economiche. L’ipotesi è nna sola e, cioè, quella interpretativa dell’effettiva realtà storica: il resto non è che fantasia di puristi, abituati a scambiare le formule con la vita. La scienza dell’economia non può essere che una, perché una è la vita ch’essa studia: e non ha bisogno dì aggettivi. Quando contrapponiamo l’economia corporativa a quella liberale o socialista o nazionalista, non intendiamo dichiarare una nostra preferenza rispetto a questi possibili sistemi economici, ma vogliamo proprio affermare la scientificità della prima rispetto al carattere ideologico ed arbitrario delle altre: l’aggettivo corporativa, che noi aggiungiamo all’economìa, ha il solo scopo di distinguere la vera dalla falsa economìa, e non un’economia da un’altra. Che poi essa si chiami corporativa e non altrimenti, vuol dire non ch’essa si identifichi immediatamente — e perciò in modo contingente — con l’ordinamento corporativo, ma soltanto che in questo ordinamenlo la consapevolezza delle sue verità si è resa più esplicita ed evidente. Che lo Stato sia costitutivo essenziale della vita individuale non è verità che si instauri col regime corporativo, né è limitata alla vita politica deiritalia di oggi : ma mai come nell’Italia di oggi questa verità è stata esplicitamente affermata : mai si è concepita la vita economica nazionale come un’unità così saldamente organica. L’epiteto di corporativa non è dunque arbitrario, né menoma comunque la dignità della scienza a cui si applica oggi ai soli fini polemici contro il liberalismo, il socialismo, il nazionalismo ecc. Poiché, se 1 economia corporativa è senz’altro l’economia, Io stesso non si può dire, ad esempio, di quella presunta economia pura che è la quintessenza dell’economia liberale. A chi, seccato della qualifica di liberale attribuita al suo metodo scientifico, ha protestato di volersi porre al di là dei particolari indirizzi e di voler fare solo della scienza, oggi è possibile dare una smentila categorica. E la smentita suona così: — fino a quando sulla prima pagina dei trattati di economia non figurerà, a guisa di postulato fondamentale, il concetto di Stato, sarà vano parlare di scienza e sarà stolto negare il preconcetto secolare del liberalismo individualistico. La scienza, abbiamo detto, è una: e tutti gli indirizzi scientifici dal mercantilismo alla scuola fisiocratica e dal liberismo allo storicismo, al socialismo, al corporativismo non sono che i momenti del suo unico processo storicamente determinato. L economia corporativa vuol rappresentare soltanto lo sladio più avanzato del processo, in cui tutti i precedenti debbono risolversi trasvalutandosi. A chi fosse troppo preoccupato del pericolo di subordi ilare la scienza a fenomeni politici contingenti, possiamo rispondere che la politica non profana la scienza quando a essa ci s’avvicini con la fede dello scienziato e non con l’anima del politicante. TI pavido si ritrae per falso pudore, e nega l'obiettività della scienza col volerla troppo salvaguardare: il ricercatore spregiudicato non teme, invece, di fissar gli occhi nella realtà di cui viviamo, e di scoprire l’eterno nel contingente. La difficoltà maggiore, che si è incontrata nella comprensione della tesi dell’identità di individuo e Stato, è derivata generalmente dal non aver approfondito i concetti di individuo e di Stato che si ponevano a fondamento del rapporto di identificazione. È chiaro che. prima di discutere sulla validità di tale rapporto, occorre rendersi conto del significato dei termini che siconfrontano, perché, se si suppone noto il significato stesso, si insiste evidentemente in quella concezione dell’individuo e dello Stato, che ha condotto, nello sviluppo storico del pensiero, airantinnmia da noi contestata. Storicamente, vale a dire nel processo della attività speculativa come di quella pratica e politica, è certo che lo Stato si è configurato a guisa di un ente contrapposto e sovrapposto all’individuo: e si è parlato, quindi, di autorità di fronte a libertà, di sovranità di fronte a sudditanza, di arbitrio politico di fronte a interesse economico, e via dicendo. Lo Stato, insomma, era una sovrastruttura, sia pur necessaria, della vita degli individui, e si esauriva nel compimento di particolari funzioni, dette appunto statali. Ne derivava che lo Stato poteva individuarsi in determinati organi e in determinate persone, cui erano attribuiti determinati compiti, entro una sfera esplicitamente circoscritta e non coincidente che in minima parte con la sfera d’azione degli individui. A questo Stato, così concepito, gli economisti negavano e negano tuttora la possibilità di un intervento benefico nella vita economica degli individui. Ed avevano ed hanno perfettamente ragione; così come hanno torto quegli altri economisti che, senza persuadersi del mutato concetto di Stato, accedono tuttavia ecletticamente all’opinione della possibilità benefica di un certo intervento statale nell’economia individuale. Se lo Stato trascende, sia pure rispetto a una zona soltanto, il campo d’azione dell’individuo, esso non può non turbarne Tequilibrio ogni volta che vi porti un mutamento. Ammettere la possibilità di un intervento benefico, di un solo, di un transitorio, di un limitatissimo, del più piccolo tra tutti gli interventi immaginabili, significa ammettere la possibilità che lo Stato alteri vantaggiosamente con quel suo intervento tutto il sistema generale dell’equilihrio economico della vita degli individui, e cioè faccia coincidere, non limitatamente all’oggetto del particolare intervento, ma nella totalità delle determinazioni, la propria realtà con quella degli individui. Se si vuol restare nell’ipotesi che Stato e individuo siano due realtà diverse, anche solo parzialmente diverse, la conclusione logica non può essere che una, e precisamente quella del liberismo intransigente: lo Stato non deve intervenire mai e per nessuna ragione; il suo intervento, implicando sempre un’alterazione dell’equilibrio naturale, non può essere che nocivo. Se non che la concezione storica dello Stato, che ha dato luogo a tali conseguenze nel campo della scienza economica, ha cominciato a modificarsi profondamente proprio quando, nella seconda metà del secolo XVIII, i classici dell’economia iniziavano una sistemazione della loro scienza con la consapevolezza critica del carattere negativo di uno Stato trascendente. Sì che tutta la scienza dell economia si è venuta costruendo sul presupposto dell’antitesi di Stato e individuo, in funzione di quel concetto di Stato che rispondeva alla realtà storica anteriore al processo di trasformazione. E a poco a poco — quasi senza nessuna consapevolezza — si è giunti al paradossale risultato di uno svuotamento progressivo della scienza del’economia, svuotamento non dovuto ad errore nella critica dello Stato trascendente, ma solo aU’illusione di credere ch’esso davvero esistesse e che esistesse perciò quell’individuo extra-statale, su cui la scienza aveva costruito il castello delle sue astrazioni. Il fondamento liberistico di tutta l’economia classica e della migliore economia contemporanea, e l’atteggiamento antistatale che l’accompagna, costituiscono certamente l’interna logica e il principio sistematico di questa scienza: e possiamo aggiungere che, se lo Stato fosse quella realtà che gli economisti immaginano e se l’individuo fosse quel soggetto economico che la scuola psicologica ha caratterizzato spingendo all’assurdo il concetto già implicito nelle teorie dei classici, la scienza dell’economia avrebbe raggiunto un grado notevole di perfezione, forse il più alto grado raggiungibile sulla base di tali presupposti. Ma il guaio, o meglio la fortuna è che così quello Stato come qucll’individiio non esistono in realtà, e che col mancare dei presupposti si vanifica inesorabilmente tutla la costruzione faticosamente elaborata. È quell ìntimo anacronismo di principi e finalità che caratterizza la crisi della scienza economica contemporanea, sia pure attraverso gli sforzi che da più parti si vanno facendo per superare -— in modo peraltro molto empirico — l'antinomia di cui si comincia ad avere coscienza. Né la colpa può attribuirsi completamente agli economisti, -se è vero che ancor oggi si stenta ad acquistare familiarità con i nuovi concetti fin nel campo più rigorosamente speculativo, e solo ìin'infima minoranza di giuspubblicisti comincia a porsi con qualche precisione problemi del genere. Tuttavia è tra gli economisti soprattutto che si nota la maggiore riluttanza ad occuparsi della questione, o addirittura l'ignoranza della sua esistenza : tra gli economisti che, per tradizione di specialismo scientifico, disdegnano di valicare in qualsiasi senso gli arbitrari confini della loro scienza e credono di contaminare la purezza della economìa coordinandola con il processo della speculazione, della politica e del diritto. Si spiega perciò come essi possano tener fede dogmaticamente a concetti tanto controversi, accontentandosi di dar loro un significato empirico rispondente a presupposti teorici di altri tempi: si comprende infine come possa suonar loro strana, e anzi impertinente, la pretesa di chi chieda loro il significato dei concetti di Stato e di individuo. L’economista — essi rispondono — non pretende porsi e risolvere scientificamente questi problemi; egli accoglie questi termini nel significato corrente e a tutti noto, e su essi costruisce i teoremi dell’economia. Che poi il significato corrente non 3 Sunna sia rigoroso e sia anzi suscettibile di critiche più o meno radicali, è questione cbe reconoinista non discute, perché relativamente indifferente alla sua scienza: a lui hasta richiamarsi con quei termini a una realtà di fatto riconoscibile facilmente da chiunque. ') E il ragionamento non farebbe una grinza se potesse esserci veramente un significato comune precisamente determinato dei concetti di Stato e di individuo, se, cioè, noi potessimo sul serio sostituire mentalmente a quelle parole una qualunque realtà di fatto a confini netti. Ma, al contrario, è facile accorgersi cbe. quando ciò si volesse fare con sincerità, ogni sicurezza vacillerebbe, e a poco a poco all’illusione della certezza subentrerebbe la certezza dell’illusione, i termini diverrebbero ambigui e la presunta realtà di fatto andrebbe allargandosi o restringendosi arbitrariamente fino a comprendere tutto o a ridursi a un misero moncone. Sottigliezze — si obietterà ancora incredulamente, — questioni di lana caprina, da cui resta turbato soltanto chi è abituato a spaccare in quattro il capello, ma che non possono preoccupare sul serio ehi guarda alla realtà nelle sue manifestazioni essenziali: se tutti parliamo di Stato e c’intendiamo perfeLtamente, vuol dire che, in sostanza, sappiamo *) Questo è, in sostanza, l'appunto che mi fece il Gotitii nel eno (apporlo al Congresso di Bolzano (settembre 193. o Lo Sialo, si disse, non può intervenire in un dato momento, perché è presente sempre. Ma non bisogna prendere la parola intervento in senso diverso da quello che ormai è di uso comune » (Il procedimento sperimentale dell’economia corporativa, in « Giornale degli economisti». La risposta alle obiezioni del Gobbi dovrebhe risultare abbastanza chiara da lutto il contenuto di questo capitolo, che vorrei porre come pregiudiziale di ogni ulteriore discussione sulla validità dei principi della scienza economica. tutti che cosa esso sia. o per lo meno che cosi crediamo che sia. Ebbene, a rischio di apparire banali, abbandoniamo per un momento il terreno più propriamente scientifico della discussione, trascuriamo cioè le attuali controversie dottrinarie, e scendiamo anche noi a quel senso comune cui ci richiamano perentoriamente alcuni economisti, quasi avessimo perso il contatto con la terra per la velleità di correre inutilmente per i cieli. Scendiamo, dico, a ragionare all ingrosso e a determinare su per giù questo comunissimo concetto dello Stato: vediamo, insomma, se è possibile giungere a una conclusione pralica qualsiasi, che ci autorizzi poi a rimanere fedeli a ciò che gli economisti dicono quando parlano di Stato e individuo, di intervento, di libera concorrenza, di monopolio, ecc. Se vi perverremo, se potremo comunque pervenirvi, ogni ragione di dissenso sarà tolta, e ognuno potrà proseguire in pace il suo cammino; ma se, per avventura, ciò non fosse possibile, bisognerebbe pure che gli economisti si decidessero ad affrontare tutte le conseguenze e a mettere cioè in discussione tutti i principi della loro scienza. Tra le diverse risposte che potrebbero darsi alla domanda: «che cosa è lo Stato?», credo che un economista finirebbe col preferire quella che si ricollegasse al concetto di bilancio dello Stato: Stato è 1 ente il cui bilancio si chiama appunto bilancio dello Stato. E sarebbe ima risposta precisa, inequivocabile., perfettamente individuata nell’organismo di un sistema scientifico, sì cbe ogni ulteriore discussione sulla sua legittimità dovrebbe apparire inutile. Ma se gli economisti danno allo Stato questo significalo ristretto di amministrazione centrale, non è certamente a esso che si limitano quando parlano di intervento statale nell’economia individuale. Nessuno infatti crede di dover distinguere l’intervento dello Stato strido sensu da quello, ad esempio, della provincia, o del comune, o di un ente pubblico in genere: e nessuno pensa a un rapporto necessario tra intervento politico e bilancio dello Stato quando si stabilisce, ad esempio, lina riduzione del numero delle osterie. Ci deve essere, dunque, un altro criterio per determinare i confini di quella realtà cbe gli economisti chiamano Stato, e studiano in rapporto ai fenomeni della libera concorrenza. A tal riguardo, oggi Stato in Italia sono senza dubbio anche l’organismo corporativo e il partito nazionale fascista, che di gran lunga trascendono la particolare vita del bilancio statale, e da cui nessuno potrebbe senza arbitrio prescindere per spiegarsi l’attuale vita economica della nazione. E dunque lo Stato si allarga necessariamente, anche se ci limitiamo a questa prima considerazione empirica del problema, daH’ammiiiistrazione centrale a quella periferica, da pochi organi determinati a una molteplicità indefinita di poteri regolatori. Sì che l’economista deve tornare a porsi il problema da capo e andare alla ricerca di un criterio comprensivo di questa più vasta realtà cui deve riconoscere la qualifica di Stato. Non più tecnicamente rilevabile attraverso un particolare fenomeno economico come quello del bilancio statale, la distinzione di Stato e individuo deve a questo punto trascinare l’economista di là dai confini della sua scienza, e indurlo a ricercare nel campo del diritto e della politica quel concetto di Stato che gli è necessario per costruire scientificamente una teoria degli effetti economici dell’intervento statale. Lo sconfinamento è, al solito, in gran parte inconsapevole e la soluzione del problema resta, nella letteratura della odierna scienza economica, affatto indeterminata ed equivoca. All’ingrosso si può dire che l’economista contrappone Stato e individuo intendendo contrapporre governo e governati. E anche questa distinzione potrebbe reputarsi precisa e perentoria, se fosse possibile in realtà individuare non arbitrariamente il concetto di governante; se fosse possibile, in altri termini, distinguere di fatto i governanti dai governati, ossia la volontà e l’azione economica dei governanti dalla volontà e dall’azione economica dei governati. Se lo Stato, in effetti, è sinomino di governo, l’intervento statale non potrà concepirsi se non come quello esercitato da un’autorità governativa, ma, anche qui, nessun economista può essere tanto ingenuo da identificare tale autorità con la persona del sovrano e con il gabinetto. Anche qui è necessario scendere dal governo strido sensu al potere governativo esteso a tutte le autorità centrali e periferiche, da quelle dei ministri a quelle degli enti locali, delle federazioni, dei sindacati, del partito, ecc. E il problema di nuovo si allarga in modo indefinito, senza che all’eonomia sia possibile empiricamente raggiungere i limiti dell’attività governativa e degli uomini che la impersonano. Di gerarca in gerarca si scende tutta la scala dell’ organismo sodale, senza die sia mai possibile arrestarsi e trovare sul serio l’individuo che sia governato senza governare. Quando anche si sia scesi fino al fondo della scala e si sia raggiunta la massa degli individui che sembra non abbia altro compito sociale se non quello di lavorare e di obbedire, si deve pur riconoscere, e lo Stato moderno lo riconosce di fatto, che la massa stessa si articola, si eleva, si spiritualizza e fa cioè sentire la sua volontà. In quanto essa è qualche cosa nel mondo sociale, è azione, e cioè governo, così come lo stesso ordinamento giuridico riconosce allorché a essa affida il compito di votare, vale a dire di porsi a tu per tu con la suprema autorità governativa, e riconoscerla o disconoscerla, darle o toglierle il governo, e quindi condizionare e disciplinare tutta l’azione governativa. Governo e governati vengono perciò a fondersi nel circolo della vita polìtica, e gli ultimi toccano i primi, in un organismo unico armonicamente costituito. Quest’organismo, che tutti li comprende e che si esprime in una volontà unica, è appunto e soltanto lo Stato, con il quale l'individuo, in quanto animale sociale, non può non coincidere assolutamente. A questo nuovo concetto e a questa nuova realtà dello Stato, per cui l’antinomia di Stato e individuo si è venuta via via risolvendo, si è pervenuti a traverso un processo storico che qui non è il caso di illustrare in modo particolare. Basti dire ch’esso è il processo dello spirito umano, del pensiero del secolo XÌX e dei primi decenni del XX, 39 — della critica della vecchia trascendenza e dell’ultima sua forma concretatasi neìl’individualisino illuministico: è il passaggio del liberalismo dalla sua forma irrazionale e anarchica a quella organica e disciplinata, è il trasformarsi dell’opposizione più o meno radicale all’autorità e alla realtà dello Stato nel riconoscimento del suo universale valore immanentistico. Naturalmente le fasi dello sviluppo non si possono individuare con facilità e anzi di esse non è dato aver coscienza, se non quando si sia pervenuti alla piena comprensione dei risultati raggiunti: sono fasi riconoscibili solo dall’occhio esperto del cultore di studi storici e filosofici, che sa risalire alle fonti del nuovo orientamento speculativo e determinarne la necessità logica, ragione delrineluttabile shocco nella vita pratica. E allo storico solo è, quindi, consentito di volgersi con piena consapevolezza alla presente realtà politica per adoperare in senso non occasionale termini ed espressioni relativi a un’esperienza anch’essa non occasionale. Quando si parla, non ciarlatanescamente, di economia corporativa, non s’intende parlare né di una speciale forma di economia relativa a una contingente esperienza politica, né di una esperienza politica arbitraria da ordinare scientificamente. S’intende, invece, riconoscere storicamente e scientificamente un ulteriore sviluppo della scienza economica, ossia l’erroneità di certi suoi presupposti e la necessità di sostituirli con altri: e s’intende, insieme, riconoscere la razionalità di uno sviluppo politico, dovuto agli stessi motivi spirituali dello sviluppo scientifico e tutt’uno con esso. Stato corporativo ed economia corporativa sono, in altri termini, frutti imprescindibili dello spirito moderno ed espressioni del massimo livello da esso raggiunto : qualunque sia la forma clic verrà assumendo l’idea eorporativa, è eerlo che essa, per il superiore concetto di Stato che rappresenta, informerà tutta la scienza e la politica dell’avvenire. Ma perché la previsione non riesca fallace è necessario saper discernere bene ciò che vi ha di essenziale nel movimento corporativo, e non confondere la sua realtà positiva con le particolari forme, con i molteplici tentativi e anche con le inevitabili deviazioni della complicata prassi politica. Il che vuol dire che non bisogna considerare i fatti nella Ioto immediatezza indistinta, bensì valutarli alla stregua di un criterio storico che ne spieghi la necessità logica. Se essi sono frutto della storia non possono intendersi se non attraverso la storia, ossia attraverso lo sviluppo del pensiero che nella storia si esprime, e debbono essere avviati verso quegli ulteriori ideali che sorgono dalla consapevolezza storica e scientifica. Allora l’idea corporativa può venire sul serio individuata e resa intelligibile, cioè elevata alla considerazione scientifica, non a titolo di nuovo oggetto di studio, ma come ragione interna dello stesso processo scientifico. Allora l’idea corporativa esce dalla vaga formulazione propria di un’esperienza politica in rapidissimo movimento e si riconosce in una verità storica che è frutto di una secolare elaborazione dottrinaria e pratica: l’identità di Stato e individuo. Ora, se guardiamo all’ordinamento corporativo da questo superiore punto di vista, dobbiamo convenire che il suo effettivo significato storico sta appunto nel tentativo di rendere sempre più concreta l’organicità statale della vita della nazione, e cioè di rendere lo Stato sempre più immanente alla vita dell’individuo. Nel regime corporativo lo Stato è destinato a perdere la caratteristica di un ente trascendente, a non contrapporsi, cioè, agli individui che sono soggetti alla sua autorità, ma ad estendere via via i propri confini scendendo dal vertice alla base e ricomprendendo senza residui tutta la realtà sociale. L’autorità dello Stato non è più una disciplina che si impone ai cittadini dall’esterno, ma è la stessa disciplina con cui lo Stato si organizza nel suo interno: poiché nella corporazione si incontrano di fatto Stato e individuo, e reciprocamente si trasformano in un rapporto dialettico che dà significato a entramhi i termini. Cosi nel diritto come nell’economia rincontro, naturalmente, si esprime con la identificazione progressiva del pubblico e del privato, e basta guardarsi intorno per convincersi della radicale e rapidissima trasformazione die questi concetti vanno subendo in tutti i rapporti della vita sociale. Parlare oggi, ad esempio, di proprietà privata, senza riconoscere anche ad essa un sostanziale carattere pubblicistico, è un assurdo che risulta evidente a ogni giurista non fossilizzato. E, se dal concetto base della proprietà scendiamo agli altri infiniti che a esso si ricollegano, tanto dal punto di vista giuridico quanto da quello economico, è facile accorgersi che tutti acquistano un significato statale al quale nella realtà non possono sottrarsi. Costi, prezzi, salari, iniziative, imprese, banche, negozi, commerci, ecc., tutto è ormai, non solo implicitamente come sempre, ma anche con progressiva consapevolezza ed esplicita volontà, subordinato a una disciplina statale di cui sarebbe assurdo voler segnare i confini. Ed è proprio questa impossibilità che ormai rende chiaro, anche sul terreno della realtà politica, il progressivo svuotamento delle locuzioni tanto abituali nella letteratura della vecchia economia. Che cosa può mai significare oggi intervento statale nell economia individuale, quando si è reso esplicito anche ai più ciechi che non esiste alcun atto economico che non sia condizionato dall’organisnio statale? Finché lo Stato si personificava in un ente e si esauriva nell opera di una burocrazia, esso poteva intervenire in una realtà che era fuori dell ente e della burocrazia: ma oggi che Io Stato non è, neppure in apparenza, un ente, né si limita a una huroerazia, perché si estende attraverso la vita sindacale a tutti gli individui, oggi finalmente è scomparso il soggetto stesso dell’intervento facendo scomparire con sé tutte le proprie particolari manifestazioni. Per chi continuasse a sorridere scetticamente sarà opportuno portare un esempio molto noto: quello del calmiere. Non so se molti hanno riflettuto sulle vicende che ha subito il calmiere in Italia in questi ultimi anni: a chi non lo avesse fatto e si domandasse 6e oggi in Italia esistono tuttavia dei calmieri, dovrebbe apparire chiara una sola risposta e cioè che oggi in Italia la parola calmiere non ha più significato, è diventata anacronistica e ha seguito la sorte di quella concezione politica ed economica che il fascismo viene liquidando. Ancora fino a qualche anno fa si parlava di bardature economiche e della necessità di sopprimerle, ancora si contrapponeva l’intervento alla libertà e si discuteva quindi sulla legittimità o meno dei calmieri. Oggi la questione è superata, non risolta né nell’uno né nell’altro senso, ma vuotata di conte mito attraverso la consapevolezza acquisita dell’assoluta unità della vita economica italiana. Che significato dar piu alla parola calmiere quando in pochi giorni prezzi e costi sono mutati in tutto il paese in virtù di una sola parola d’ordine? Quando contratti collettivi, stipendi, salari, prezzi di vendita all’ingrosso e al minuto, ecc., sono tutti legati da una ferrea disciplina nazionale? Che non è, si comprende bene, una disciplina arbitraria e quindi antigiuridica e antieconomica, ma, almeno nella sua realtà migliore, il disciplinarsi stesso, e dairinterno, della vita economica d^l paese vista in funzione di un unico fine statale^ È lo Stato che coincide con l’individuo e lo risolve nella propria organicità : è l’individuo che vede nello Stato la sua ragion d’essere e lo risolve nella propria volontà. La tesi dell'identità di Stato e individuo, che teoricamente e storicamente si è venuta delineando, può ancora andare incontro — come si è già accennato — a una obiezione di carattere empirico, fondata sulla constatazione di un reale contrasto tra l’attività e le finalità economiche dell’individuo e quelle dello Stato. È vero — ci si può opporre e ci si oppone in effetti da più parti — che in teoria, ossia, idealmente. Stato e individuo coincidono, ma nella concreta vita sociale è pur vero che l’opposizione o almeno la differenza c’è, e con il suo solo esserci non può non smentire la teoria. O voi dunque — si continua — vi contentate di restare in un’atmosfera di pura idealità io cui la teoria si esaurisce compiutamente in se stessa, e allora potrete avere anche ragione: o voi invece volete che la teoria si adegui alla realtà e serva ai suoi fini, e allora dovete riconoscere che la vita è radicalmente diversa da quella che voi andate teorizzando. Nel primo caso fate una metafisica, nel secondo lina cattiva economia. Prima di rispondere esplicitamente a questa obiezione, sarà opportuno ricercare le ragioni effettive del contrasto indubbiamente esistente e sempre risorgerne nella vita sociale tra fine pubblico e fine privato. Tale contrasto — diciamo anche noi — c’è e sarebbe stolto negarlo o porlo comunque in dubbio, tanto evidente esso è nella vita di ogni giorno e nella coscienza intima di ognuno di noi. Se diminuiscono gli stipendi e io sono uno stipendiato, posso logicamente convincermi della necessità e quindi dell’utilità economica nazionale della riduzione, ma, se mi fosse lecito sottrarmi alla legge comune, e ottenere che il mio stipendio sfuggisse al provvedimento generale, con molta probabilità sarei lieto dell’eccezione e agirei perché essa si verificasse. Il che vuol dire che in realtà tra il mio fine individuale e quello stalale c’è un contrasto esplicito e che l’agire economico mio non è identificabile con quello dello Stato. Ma se così è, non bisogna tuttavia arrestarsi al riconoscimento e occorre spiegarsi la contraddizione Ira ciò che sarebbe logico e ciò che è reale. E basta appena porre il problema in questi termini per accorgersi che la ragione dell’indisculibile fatto è appunto contraria alla logica, è essenzialmente. profondamente illogica. Il contrasto, in altri termini, c’è, ma è dovuto a una deficienza, a una negatività; esso rappresenta il lato patologico dell’effettiva realtà sociale, ossia l’elemento disgregatore e non quello unificatore della società. Se poi volessimo renderci conto della radice del male e ricercare in'quale dei due termini del rapporto Stato-individuo si verifica la ragione del contrasto, dovremmo riconoscere che non a uno solo di essi può limitarsi la colpa, poiché a fondamento di entrambi è sempre una attività umana suscettibile di degenerare nelFegnismo antisociale, l’identità si spezza o almeno si attenua ogni volta che l’individuo si fa diverso dallo Stato: ogni volta insomma che lo Stato diventa sopraffattore o che l’individuo diventa ribelle. Alcune brevi osservazioni potranno chiarire il duplice modo del sorgere dell'antitesi. E cominciamo dallo Stato, contro il quale generalmente si appuntano le critiche degli economisti, insofferenti del contrasto soltanto quando l’azione statale ne sia la fonte. Chi può negare un qualsiasi fondamento alle critiche dei liberisti contro gli interventi dello Stato nel campo dell'economia individuale? E se non è possibile una negazione perentoria, come si spiega il verificarsi di interventi dannosi e antieconomici? Per rispondere in modo scientificamente esatto bisogna convenire che l’azione economica statale è nociva soltanto quando lo Stato non è veramente tale, e cioè quando rinnega la sua realtà universali zzatrice e si parti eoi arizza in determinati individui o in una determinata classe. Il modo, poi, in cui il particolarizzarsi dello Stalo può effettuarsi è duplice, a seconda che lo Stato si differenzia dalla nazione per ignoranza o per interesse. Nel primo caso lo Stato — o, per non equivocare, il governo in senso stretto, o, meglio ancora, gli individui che lo impersonano — interpreta arbitrariamente la volontà della nazione e agisce in senso antieconomico perché rompe l’organismo sociale, imponendo una volontà affatto individuale, disgregatrice di quella universale. È il governante che vuole agire per lo Stato, ina che in effetti opera contro lo Stato per l’incapacità di dare valore universale alla propria volontà. Nel secondo caso, in cui il governante agisce per interesse proprio, non solo manca la capacità di universalizzarsi e di assurgere veramente a Stato, ma c è addirittura la volontà di particolarizzatsi anteponendo dolosamente la propria individualità allo Stalo. È il caso del tiranno o della classe dirigente che abbassa la nazione a strumento dei propri fini particolari. Ora, è chiaro che tanto nel primo quanto nel secondo caso la tesi dell’identità d’individuo e Stato, lungi dall essere scossa e compromessa, è luminosamente confermata nella sua assolutezza. Il dualismo infatti è possibile in entramhi i casi non per la contemporanea esistenza di due realtà distinte che sarebbero l’individuo e lo Stato, nia per la inesistenza di una vera volonlà statale. Sono individui (Stato) che si contrappongono a individui (sudditi) in un contrasto anarchico di fini particolari: l’unità di individuo e Stato non può effettuarsi, perché inanca quella realtà universale in cui i due terniini debbono incontrarsi e sintetizzarsi; manca — rigorosamente parlando — lo Stato. E l’individuo si oppone allo Stato non perché veda in esso uno volonlà e un fine universali contrastanti con la propria volontà particolare, ma solo perché vi scorge una volontà anch essa particolare che non ha alcuna ragione intrinseca di prevalere. Queste stesse osservazioni, fatte per dimostrare 1 origine patologica del dualismo di Stato e individuo, valgono, presso a poco negli stessi termini, per il caso che la colpa di esso debba attribuirsi all’individuo. È vero che 1 individuo spesso concepisce il proprio fine e il proprio interesse come contrastanti con quelli dello Stato, ma la ragione va trovata anche qui o nell'ignoranza del valore del fine statale o nella volontà di sopraffare lo Stato abbassandolo a strumento del proprio interesse particolare e violentando la volontà degli altri individui. In entrambi i casi la sua condotta non si spiega con l’esistenza di due realtà distinte: individuo e Stato, ma solo con la negazione di uno dei due termini. È rindividuo che non riconosce lo Stato. Se per poco lo riconoscesse, se ne ritenesse giustificata l’esistenza e lo sentisse come valore da difendere, diverrebbe sua preoccupazione quella di conformare la propria volontà alla volontà dello Stato, di coordinare cioè il proprio mondo con quello dello Stato in un'unità superiore in cui i due termini si risolvessero. E insomma ancora una volta si deve concludere che se di Stato può propriamente parlarsi, se lo Stato non è un nome ma una realtà effettiva, esso non può che coincidere con l’individuo. L’antinomia sussiste e sempre sussisterà, ma come il male nel processo dello spirito, vale a dire come la volontà di negare ciò che ha valore universale, di sopprimere o di menomare lo Stato. Forse neppure dopo l’analisi del contrasto tra Stato e individuo possono ritenersi definitivamente combattute le obiezioni che si fanno alla tesi della identità dei due termini. Ebbene — ci si potrebbe ancora dire — sia pur giusto quanto voi sostenete e sia pur vero che il contrasto denota soltanto la mancanza o la menomazione della realtà dello Stato, ma intanto, comunque, il contrasto c’è ed è fondamentale, sì che da esso non è lecito prescindere, senza abbandonare la realtà concreta e smarrirsi dietro un utopistico ideale. Noi dobbiamo fare la scienza della vita quale essa storicamente ci si presenta, e non quella di un mondo astratto, fosse anche il più celestiale dei mondi possibili. A evitare ogni timore di tal sorta potremmo richiamarci al carattere radicalmente storicistico del nostro assunto: nessuno più di noi può aver l’intenzione di aderire alla realtà e di trovare in essa e soltanto in essa la norma scientifica. E perciò sarà opportuno dichiarare senz’altro perentoriamente che nessuno più di noi è convinto dell’esistenza del contrasto; che nessuno più di noi è disposto a riconoscere l’impossibilità dell’eliminazione totale, sia pur fantasticata nel più lontano futuro, del contrasto stesso. L’antinomia c’è e sempre risorgerà, perché essa è nella dialettica della vita, sì che sopprimerla davvero per sempre significherebbe sopprimere con essa la vita. La quale non è perfezione ma processo I ; di perfezionamento, e perciò non identità statica dì individuale e universale, vale a dire non conquista definitiva del valore, ma sforzo continuo di adeguamento dell’individuale all'universale, ossia conquista di valori sempre più alti. Per adeguarsi allo Stato l'individuo deve vincere se stesso, superare la propria particolarità, dominare gli impulsi, rinunciare all’arbitrio, disciplinarsi insomma attraverso una serie di sforzi, in cui il dualismo riaffiora continuamente e non può mai dirsi risolto per intero. Ma se questa è legge di vita, anzi la vita stessa nel suo svolgimento, occorre poi saper distinguere entro il processo i due termini dialettici e non confondere il negativo con il positivo. L’individuo è veramente tale, è cioè una realtà positiva o un valore spirituale solo per quel tanto che riesce a universalizzarsi nello Stato: per quel tanto invece per cui resta al di qua dello Stato egli è non valore, irrazionalità, mero arbitrio disgregatore della realta sociale; è particolarità chiusa in se stessa e incapace di divenire comunque termine di rapporto, lira, è chiaro che un soggetto il quale sfugga alla possibilità di un rapporto con gli altri soggetti — se non sfuggisse, la sua particolarità sarebbe con ciò «lesso superata, e quindi l’ipotesi negata — è assolutamente negativo, ossia assolutamente inintelligibile. Volerlo considerare oggettivamente, facendolo assurgere a contenuto di scienza, è impresa tanto disperata e assurda, quanto quella di voler fare scienza dell irreale: e purtroppo in questa assurda fatica si è cimentata finora la scienza dell’economia per quel tanto per cui ha voluto tener fede ai suoi presupposti e assumere veste ^ • SniJTtì 50 — sistematica. 11 così detto homo aeconomicus è appunto l’ipotesi astratta dell’individuo visto, non in un particolare aspetto della sua attività di uomo — come erroneamente è stato ritenuto dagli economisti —, bensì nella mera negatività del soggetto considerato come particolare. Esso, dunque, non è un’ipotesi scientifica — per astratta cbe la si voglia pensare — ma proprio l’ipotesi negativa della scienza: se esistessero di fatto gli “homines œconomici”, il loro agire, per definizione, non sarebbe suscettibile di sistemazione scientifica. Per quel tanto, invece, per cui l’uomo entra in rapporto con gli altri e supera la propria particolarità nell’opera di collaborazione, per quel tanto appunto esso diventa intelligibile e logicamente considerabile. La sua azione trascende, infatti, l’arbitrio e si razionalizza, il suo procedere si disciplina secondo norme determinate e la sua soggettività si risolve neH’organismo della vita sociale, nello Stato. Per quel tanto, insomma, per cui individuo e Stato si identificano, il soggetto economico — In Stato cbe è individuo o l’individuo che è Stato — diventa una realtà positiva, e l’azione economica diventa suscettibile di considerazione scientifica. O si fa scienza e si riconosce l’identità sostanziale dei due termini, o si ipostatizza l’individuo considerandolo positivo nella sua particolarità e si rinuncia alla scienza. Ogni via di mezzo è fatalmente destinata all’equivoco e all’errore. A illustrare l’argomentazione potrà forse valere un esempio tratto da altre discipline: la grammatica o la sintassi. Sono discipline cbe ci indicano le leggi del parlare e dello scrivere; leggi non fissate arbitrariamente, ma ritrovate nella realtà di coloro die parlano e scrivono. Se non che, così come nel rapporto tra individuo e Stato nella vita economica, anche qui l’individuo non si adegua sempre all universale della legge e comunemente sgrammatica. Anche qui il parlar secondo grammatica è un ideale che di fatto non è mai raggiunto, né sarà mai raggiunto; eppure a nessuno viene in mente di fare la grammatica dell’individuo e di porre a fondamento di essa l’arbitrio di parlare come si desidera. Se si vuol fare scienza occorre pur considerare l'elemento positivo e non quello negativo: occorre cioè determinare l’universale in cui gl'individui convengono e non il particolare che non riescono a superare. Ora, la scienza deH’economia ha mirato proprio a fare la grammatica dell’individuo, e, quando non è stata arrestata lungo la china dalla forza imperiosa della realtà, è precipitata addirittura nell unica conseguenza possibile, quella dell ideale della libera concorrenza, che, mante? nendo ancora il paragone, vai quanto l’ideale del lihero parlare, ossia del parlare senza grammatica. Mapotrebbe forse osservare a questo punto I economista a fondo positivisteggiante — noi non vogliamo indicare norme di vita. Noi vogliamo, cioè, indicare nella libera concorrenza non un ideale economico, ma un ipotesi economica : se si raggiungesse I ideale della lihera concorrenza quali fenomeni si verificherebbero? — ecco il problema. Ebbene, rispondiamo ancora una volta, l’ipotesi non ha senso come non avrebbe senso lo sforzo del grammatico che volesse studiare la grammatica di un ipotetico paese in cui ognuno parlasse un linguaggio proprio. 0 la libera concorrenza ha una qualsiasi disciplina e si compone nella vita statale, e allora si può analizzare entro l’ambito di tale disciplina; o la libera concorrenza è davvero l’incontro irrazionale di soggettività particolari, e allora non può essere cbe abbandonata a se stessa. Nelle osservazioni che precedono si è cercato di dare un concetto preciso della tesi dell’identità di individuo e Stato, e di mostrarne il carattere storicistico, che la pone non a fondamento di una qualsiasi opinione scientifica, bensì come principio informatore necessario della nuova scienza economica, in quanto la si renda adeguata al livello speculativo e politico della vita contemporanea. A quali conseguenze il nuovo principio conduca nella costruzione sistematica dell’economia non è possìbile illustrare se non costruendo appunto la nuova scienza; tuttavia deve già a questo punto risultar chiaro che le conseguenze non possono essere di carattere accessorio o particolare, ma tali da trasformare radicalmente la fisionomia della dottrina economica. Spostare il soggetto economico daWhomn cecoiwmicus, ossia dall’individuo particolare, all’individuo visto nella sua identità con lo Stato, significa mutare nb imis i concetti di valore, di utilità, di benessere, di bene economico, di ricchezza, di libera concorrenza, di monopolio, di intervento statale, ecc. : di tutti i concetti fondamentali, cioè, dell’economia quale si è venuta costruendo da secoli. Sarà una trasformazione lunga e faticosa, e tanto più ardua quanto piu ci si andrà avvicinando alla trattazione dei pròblem, particolari, in cui è facile smarrire la coscienza c ei presupposti e degenerare in un falso tecnicismo. Ma sarà una trasformazione assolutamente necessarla, alla quale converrebbe che aprissero fin da ora gli occhi quegl, economisti che si cullano tuttavia nella illusione di possedere leggi e teoremi di inoppugnabile certezza. Uno dei problemi fondamentali dell’economia, in cui la tesi dell’identità di individuo e Stato può Irovare la conferma del suo valore critico e ricostruttivo, è certamente quello del benessere. Preoccupazione costante della scienza è stata la ricerca delle condizioni necessarie per il raggiungimento del massimo benessere individuale e del massimo benessere sociale, e a questo supremo fine si può dire siano subordinate tutte le particolari teorie e indagini degli economisti, anche quando essi ripudiano come antiscientifico il concetto di disciplina normativa. Se essi confrontano, infatti, le diverse ipotesi economiche e ne studiano, sia pure astrattamente, le peculiari conseguenze, debbono avere, per il fine stesso che si propongono, un criterio di confronto, e debbono poter esprimere un giudizio comparativo di valore (economico). Vero è che Feconomista, a cui oggi si domandi se sia migliore il regime di libera concorrenza o quello di monopolio, risponde di non potersi pronunziare in merito dovendosi limitare scientificamente a esporre 1 andamento dei fenomeni economici nei due casi indicati, ma è pur vero che tali fenomeni — presi almeno a uno a uno, — non possono chiarirsi e determinarsi se non in funzione di un concetto quantitativo (più o meno utile, maggiore o minore reddito, aumento o diminuzione della produzione, ecc.) che è implicitamente valutativo o normativo. Si potrà non concludere in favore dell’uno o del1 ahro regime, ma ciò dipenderà esclusivamente dall’impossibilità di sommare con esattezza tutti i prò e tutti i contro delle diverse ipotesi, non dalla rinuncia a determinare i singoli prò e i sìngoli contro. Così, quando l’eoononiista afferma che la moneta cattiva scaccia la buona, condanna, limitatamente al fenomeno preso in esame, la emissione di moneta cattiva, anche se poi, tenendo presenti altri fenomeni, riconosce che in determinati casi l’emissione di moneta cattiva possa essere necessaria. E deve allora risultare chiaro che la rinunzia dell economista a far diventare normativa la sua scienza va attribuita unicamente all’incapacità di una visione sistematica dei fenomeni economici e all impossibilità di decidersi fra regimi economici non bene determinati in tutte le conseguenze. Un’economia veramente sistematica, sebbene fondata su un principio affatto negativo, era 1 economia rigorosamente liberistica, che assumeva a fondamento logico della scienza la libera concorrenza e vedeva in essa l'ideale normativo della prassi politica. Ma quando la negatività del principio si è andata a poco a poco rivelando anche ai più ortodossi, il rigore sistematico si è affievolito e la scienza è scivolata inavvertitamente nel frammentarismo di indagini contradditorie. La ricerca è diventata più complessa e meno dogmatica, e in tal senso sì è accostata maggiormente alla vita e alle esigenze dello storicismo, ma, per l'incapacità di dominare il mondo in la] guisa allargato, è caduta in un relativismo scettico scientificamente disorganico e praticamente inutile e dannoso. Si che, se oggi ci 6Ì volgesse intorno e si domandasse agli economisti quale sia la strada da percorrere per giungere al massimo benessere individuale e a quello sociale, non si potrebbero ascoltare che risposte monche, indeterminate e, peggio ancora, evasive. Gli uni ci direbbero che il problema riguarda la distribuzione e non la produzione, e tenderebbero perciò a convertire il problema economico in un problema di politica economica, per lavarsene le mani e rimettersi al prudente arbitrio delluomo polìtico; allri ci risponderebbero che la soluzione teorica è sempre quella della lihera concorrenza, la quale in aslratto garantisce il massimo di ofelimità individuale e SQciale: ma poi aggiungerebberoche tale soluzione teorica ha bisogno, per una quantità di ragioni determinabili o indeterminabili, di correttivi più o meno radicali; altri ancora distinguerebbero tra benessere individuale più propriamente economico e benessere sociale, determinato, invece, da motivi in gran parte di natura extraeconomica : altri, infine, si smarrirebbero nella casistica del contingente e accumulerebbero risposte su risposte, senza venire a capo di nulla. Ma tutti poi eviterebbero di affrontare o sommariamente risolverebbero il problema fondamentale di determinare sul serio il concetto di benessere individuale e sociale, e quindi tutti si porrebbero nell’impossibilità di dare una risposta scientificamente rigorosa. Poiché, al solito, l’incapacità degli odierni economisti di dar veste sistematica alla loro scienza sta proprio nel sorvolare sui presupposti della costruzione e nell impelagarsi in una congerie disastrosa di questioni oziose o addirittura inesistenti, smarrendo la nozione stessa del problema che pur si vuole affrontare. E perciò ancora una volta occorre fermarsi al limitare, e domandarsi con precisione che cosa vuol dire benessere individuale, che cosa benessere sociale, e che cosa infine il rapporto tra le due specie di benessere. Vediamo anzitutto quale significato hanno preteso di dare e quale significato hanno effettivamente dato al concetto di benessere gli economisti individualisti o liberali, nel tentativo più sistematico da essi compiuto per la soluzione di questo problema. Vogliamo riferirei in particolar modo alla interpretazione soggettivistica del concetto di utilità, e quindi alla cosiddetta ofelimità massima individuale e statale. Credo che, anche limitando a questa teoria la nostra indagine critica, nessun economista vorrà accusarci di unilateralità, perchè nessuno potrebbe sul serio affermare resistenza nella scienza economica contemporanea di una concezione più comprensiva del problema in esame. Con il concetto di ofelimità la teoria classica dell economia individuale ha raggiunto il massimo rigore che le era consentito. Se il soggetto economico è 1 individuo singolo con finalità proprie estranee a quelle degli altri individui, la nozione oggettiva di utile va necessariamente cangiata in quella soggettiva di ofelimo: nessuno potrà affermare in astratto Futilità di un bene, perché beni per se stessi utili non esistono, essendo la loro utilità in funzione dei gusti e dei relativi bisogni degli individui, L utilità di un bene varia perciò da indivìduo a individuo da momento a momento della sua vita: quello stesso bene cbe oggi è al sommo delle mie aspirazioni e cbe m’induee a sacrifici notevolissimi, può diventare domani affatto irrilevante e tale da costringermi addirittura a nuovi sacrifici per disfarmene. Vano era dunque il tentativo dei vecchi economisti di determinare il valore dei heni e di spiegare obiettivamente le ragioni della loro utilità: utile è soltanto Fofelimo, vale a dire ciò cbe risponde al gusto contingente e arbitrario di dii compie la scelta economica. Tutta la cosiddetta economia marginalia ha preso le mosse da questo presupposto fondamen¬tale e si è trascinata fin qui nell'illusione — non sempre cieca e totale — che nel puro soggettivismo fosse tuttavia possibile alla scienza di porre un certo ordine, frazionando idealmente in unità elementari i vari beni di un individuo e confrontando le unità ultime di ciascun bene tra loro. Se soggettivo è il concetto di utile, entriamo pure nell’anima del soggetto e facciamo la sintesi delFeeonomia e della psicologia: così hanno pensato i più coerenti tra gli individualisti, giungendo infine alla conclusione alquanto lapalissiana che di veramente certo nella logica di ogni indivìduo non v’è che il bisogno di procurarsi beni economici in quantità tali da rendere eguali le soddisfazioni procurate dalle unità ultime dei diversi beni. Il ragionamento, a prima vista impeccabile, si è svolto in questi termini: se io vado al mercato a comprare pane e vino è chiaro che comprerò tanto pane e tanto vino da far coincidere il piacere che potrà procurarmi l’ultima parte del mio pane con quello che potrà venirmi dall’ultima parte del mio vino. Se l’ultimo boccone del mio pane avesse per me maggiore o minor valore dell’ultimo sorso del mio vino, la mia opera sarebbe illogica, perché rinuncerei senza ragione al massimo di utilità possibile, facendo acquisto di troppo vino o di troppo pane. Estendendo il ragionamento a tutti i miei beni e misurando la quantità di ognuno posso giungere a determinare il valore relativo di essi: posso cioè avere una nozione sperimentale del mio equilibrio economico. E se infine dalla mia persona passo a quella degli altri individui che formano la collettività, posso sempre sperimentalmente e oggettivamente giungere alla nozione di un equilibrio generale, che è tuttavia la risultante di molteplici mondi assolutamente soggettivi. Si compie in tal guisa il miracolo della trasformazione di un’economia psicologica in un’economia matematica, e ciò che sembrava l’espressione di un arbitrio inafferrabile e indeterminabile diventa elemento rigorosamente determinato in una formula algebrica. Ma la matematica è in questo caso una cattiva consigliera e conviene aver la forza di resistere al suo fascino, per non essere trascinati in un mondo tanio più fantastico quanto più tecnicamente perfetto. E dalle sue equazioni vogliamo per un istante ritrarre lo sguardo per ritornare all’mdividuo economico e vedere se tanta scienza possa comunque illuminarlo nel suo cammino e se, soprattutto, posea comunque illuminargli la strada che gli altri individui percorrono con lui. Ora è chiaro che l’economia marginalista non può dare all’individuo nessun criterio orientativo nel mondo economico, poiché l’azione economica, qualunque essa sia, è sempre, per definizione, la migliore possihile. Se vado al mercato, compro quel hene, in quella quantità, e a quel prezzo che rispondono nel modo più infallibile all’unico criterio logico eh io possa in queiristante seguire: al criterio cioè del mio gusto e del mio bisogno. Fare liberamente una cosa che non piaccia è evidentemente una contraddizione in termini, e se dunque fondamento dell’economia è l’ofelimità, ogni atto ecomico, in quanto compiuto senza costrizioni, e necessariamente perfetto. E se perfetto è ogni atto, perfetto sarà pure il sistema degli atti ossia tutta la vita economica, si che ogni individuo, che agisca lìberamente, non può non vivere lina vita rispondente al più allo ideale economico e non esser sempre nello stato del massimo benessere possibile. Se non che una perfezione così a buon mercato ha già dato qualche sospetto a taluno degli economisti più intelligenti e c’è stato chi, sia pure di sfuggita, dando uno sguardo più profondo alla vita del soggetto, si è accorto nientemeno che le ofelimità marginali non sono confrontabili tra di loro, neppure nello stesso individuo e neppure nello stesso istante. E poi si è notato che il marginalismo implica la possibilità per lo meno ideale di frazionare in unità elementari ogni bene economico e che invece tanti beni economici sfuggono necessariamente a tale procedimento. Obiezioni queste che, aggiunte a molte altre, hanno cominciato a scuotere la fede che dai pm si aveva nel rigore del principio escomi» \f a non tanto si sarebbe avvertita lLsurdita della posizione, se non si f osse tornali al p . aggio, dapprima inconsapevolmente ritenuto lefanello* dall’equilibrio individuale a quello collettivo e cioè dal benessere del singolo a quello della società. Posto, infatti, l’individuo a centro del sistema, il massimo di ofelimità generale non ai e potuto trovare che nella somma deimassimi delle ofelimità individuali, e allora logicamente il p rmin problema è sparito, in quanto rias?.°. r lt0 Senza ^e ® 1 l du, nel secondo: ogni individuo ubero raggiunge il suo massimo e con ciò stesso raggiunge la somma massima la società di cui egli fa parte. Al a scienza non resta da far altro che prender atto del migliore dei mondi possibili. Se la scienza volesse comunque uscire da questo suo atteggiamento dì completa passività di fronte al problema del massimo benessere individuale e sociale, il primo scoglio contro cui i suoi sforzi dovrebbero necessariamente infrangersi sarebbe quello del confronto tra il benessere di due individui diyersi. Abbiamo già accennato allbbiezione di chi ha dichiarato inconfrontahili le ofelimità marginah di due beni per uno stesso individuo, ma in quel caso si era tuttavia nell’ambito del soggetto economico e la possibilità del paragone restava in qualche modo suscettibile di discussione. Ma quando si tratta di confrontare il benessere di due individui e lo stesso presupposto psicologico soggettivista che nega a P” 01 ; 1 °8 ni senso alla ricerca ed esclude la possibilità di un qualsiasi risultato. E basta appena accennare a questa conseguenza della teoria per accorgersi che la presunta soluzione del problema è affatto verbalistica e vuota. Se dire massimo di benessere sociale vuol dire somma di massimi individuali, questa somma deve pur concepirsi possibile e gli addendi debbono pur potersi confrontare. Ma confrontare vuol dire conoscere il rapporto quantitativo della soddisfazione che un medesimo bene procura a due persone diverse e tale rapporto è purtroppo impossibile per definizione. Dunque? Dunque il circolo vizioso èsenza uscita di sorta e occorre impostare diversamente il problema. Né, d’altra parte. l’economista potrebbe rinunziare al confronto, attenendosi per astrazione a un tipo medio di uomo, che rendesse omogenei gli addendi da sommare. In tal caso, infatti, l’unica soluzione del problema sarebbe di eguagliare tutti i redditi individuali e di presumere in tal guisa raggiunto il massimo benessere sociale. Il che, oltre tutto, sarebbe in netta antitesi con il criterio di libera concorrenza, che è a fondamento, assoluto o relativo, dell’economia marginalista. Ma il guaio peggiore di questa ingarbugliatissima situazione viene a porsi in evidenza allorché l’economista è costretto a passare dall’economia individuale a quella della collettività (Stato, enti pubblici, sindacati, società, ecc.) L’agnosticismo dello scienziato trova qui un limite assoluto ed egli non può più evitare di rispondere con precisione ai problemi che scaturiscono dalla coesistenza delle due economie. Se lo Stato deve stabilire un’imposta, quali industrie e quali redditi colpirà e con quale criterio? È chiaro che il criterio economicamente non può essere che uno e cioè quello del massimo benessere sociale: ma intanto tale massimo può concepirsi solo in regime di libera concorrenza e Firnposta è estranea per definizione a tale regime, e slugge necessariamente alla logica del suo sistema. imposta Sara scelta esclusivamente con criteri extra-economici e l’economista, al solito, non solo non potrà dire la sua parola, ma non riuscirà poi in alcuna maniera a misurare gli effetti di un imposta dal punto di vista del benessere sodale: egli non potrà, cioè, giudicare né a priori né a posteriori della bontà di un’imposta. Lo stesso ragionamento può ripetersi a proposito di qualsiasi intervento statale nella vita economica del paese: anzi lo stesso problema dell’intervento acquista una nuova fisionomia e rende vanaogni attività dello scienziato in questo campo. Quando gli economisti si sono poco o molto allontanati dalla tesi rigorosamente liberista e hanno ammesso la possibilità, in determinate condizioni, di un intervento statale economicamente vantaggioso, hanno dato, senza avvedersene, un colpo mortale alla teoria dell’ofelimità, rendendo oggettivo ciò che avevano perentoriamente affermato come soggettivo, e confrontando, sia pure in astratto e in linea di mera ipotesi, il benessere procurato da due situazioni economiche diverse. 0 si tien fede al carattere soggettivo della ofelimità e allora bisogna lasciare 1 individuo arbitro incondizionato della sua vita economica e giudice incontrollato del suo benessere; o si ammette, anche per un attimo e con ogni sorta di limitazioni, la confrontabilità delle soddisfazioni, e allora si deve rinunziare a costruire la seienza sul fondamento della scuola psicologia. Ma intanto convien pure riconoscere, con i soggettivisti, che il benessere procurato da una sterlina a un povero è maggiore di quello procurato a un ricco e che, in tesi generale, uno stesso bene procura soddisfazioni diverse a diversi individui; come pure bisogna riconoscere, contro i soggettivisti, che qualunque indagine relativa ai problemi economici implica inesorabilmente la determinazione obiettiva di un rapporto tra diversi stati di benessere: e ingomma è necessario concludere che tra soggettivismo e oggettivismo economico esiste un'antinomia radicale, sulla quale non si è fatta la debita luce, e che perciò rende infecondi tutti gli studi e i tentativi compiuti dagli economisti per giungere a una costruzione veramente sistematica. Il problema che vien fuori dalle considerazioni precedenti è, dunque, quello di trovare un criterio con il quale superare Tantinomia di ofelimo e utile, ossia di soggettivo e oggettivo, e dare in conseguenza un significato intelligibile e non contradditorio ai concetti di massimo benessere individuale e massimo benessere sociale. La via da seguire deve essere naturalmente quella prescelta dagli stessi economisti che hanno posto la nozione di ofelimità a fondamento della scienza, vale a dire l’analisi psicologica del soggetto economico. E non sarà certamente colpa nostra se i confini della particolare scienza economica saranno valicati, come non è sta¬ta colpa dei puristi che sono scesi su questo terreno, anche se oggi fanno la voce grossa a chi osa parlare di rapporti tra scienza e filosofia. La distinzione tra ofelimo e utile domina ormai tutta la scienza economica e ne spiega 1 attuale struttura: se non si vuol dunque accoglierla come le colonne d’Èrcole dello scienziato, bisogna pur che i tecnici si abbassino a discuterla, lasciando per un poco di ammirare e perfezionare i maestosi castelli matematici che vi hanno fondato sopra. La teoria soggettivista considera l'individuo economico, che fa una scelta, come dominato immediatamente da un gusto o da un bisogno che è quello che è: essa non si rende conto né si vuol render conto del perché di quel gusto, né del rapporto tra un gusto e un altro dello stesso individuo. Vero è che di tale rapporto si parla quando si confrontano tra loro le utilità marginali dei diversi beni acquistati da un individuo e si afferma ch’esse sono eguali, ma il rapporto si limita a una scelta economica puntualizzata in un dato momento della vita di un individuo e non vale in alcuna maniera a chiarire il passaggio da un equilibrio di gusti a un altro equilibrio di gusti, o, più semplicemente, da un gusto all altro. Inoltre, anche quando il rapporto lo si supponga puntualizzato in una data scelta, esso non può tradursi in un’eguaglianza quantitativa se non attraverso Tarhitrio dello scienziato, perche di fatto l’ofelìmità dei diversi beni non è confrontabile dal soggetto, se per definizione questo si intenda dominato da una mera molteplicità di gusti. Per dosare un gusto e il bene atto a soddisfarlo è necessario rendersi conto di rapporti logici deterv-u L V n S Ca de “ dlst,nzi .°. ne è stala da noi fatta nel saggio Tr ' r ?oi°n P * j 610 ’ m L, ‘ crltlca dell’economia liberale, Milano, re\es, Ì9ó0. Ad essa quindi rimandiamo il lettore che volesse appio on ire. la questione: qui ci limitiamo a presupporla e intentino insistere invece sui criteri ricostruitivi cui essa dà luogo.  minabili con criteri che non possono ridursi al gusto stesso: in guanto semplici gusti, il gusto di un profumo e quello di un colore non sono confrontabili. E fin qui è arrivato lo stesso Pareto. Se oggi vado al mercato e acquisto una determinata quantità di beni, in tanto posso far questo consapevolmente in quanto pongo un ordine nei miei gusti, e li determino e li graduo in una visione complessiva della mia vita. Così non mi abbandonerò al primo capriccio cbe ini verrà in mente e non esaurirò il imo avere nella soddisfazione del primo bisogno apparentemente imperioso, ma vaglierò l’oggi e il domani, i bisogni che mi è lecito soddisfare e quelli al cui appagamento debbo rinunziare, i capricci e i doveri, e insomm 3 mi spiegherò la ragione dei miei gusti e agirò con la coerenza logica che avrò saputo raggiungere. Sarà buona o cattiva la mia logica, ma pensare che i miei gusti possano guidarmi a caso, senza alcuna logica che li leghi, è pensare l’assurdo. Ma dire logica, significa già dire soggettività non immediata né irrelata: significa dire vita unificata e universale, significa vedere i miei gusti in relazione con quelli degli altri cbe con me vivono. Lungi dall’essere inconfrontabile, ogni mio gusto si spiega soltanto in funzione degli altri miei gusti e dei gusti degli altri, e nelPintimo della mia coscienza è un continuo confronto attraverso cui i miei gusti sorgono e si modificano. E vado allora al mercato e compero dei beni economici che servonoper me e per i miei, perché è anche un mio gusto e un mio bisogno che i miei soddisfino i loro gusti e i loro bisogni: e la mia scelta economica, allora, sarà certamente mia e in rapporto aH’ofelimità che  i diversi Leni per me rappresentano, ma io non sono più il soggetto che immaginano gli economisti, chiuso in una sfera assolutamente impenetrabile, bensì un individuo in rapporto ad altri individui e perciò attore di lina vita economica che si svolge in virtù di tale rapporto. Se poi cerchiamo di determinare meglio la natura del rapporto e di precisarne i limiti, ci accorgiamo ch’esso non solo lega la mia persona alla mia famiglia, ma anche agli amici, ai compagni di lavoro, alla classe, al paese e infine allo Stato in cui la mia vita si disciplina e sì potenzia. Nel mio agire economico, come in tutto il mio agire, mi propongo, dunque, un fine che è mio e che risponde ai miei gusti, ma questo fine non è arbitrario e si spiega solamente inquadrandolo nella vita dello Stato; sì che, se altro fosse lo Stato, altre sarebbero le condizioni di vita in esso esistenti, altri i gusti dei cittadini e altro, insomma, il fine che ciascuno di essi potrebbe porsi e in effetto si porrebbe. Se io non sono un ladro o un farabutto, se cioè il mio agire economico non ha un valore negativo, il fine che io ho in vista deve essere in armonia con quello dello Stato, e non perché lo Stato me lo comanda dall’esterno, ma perché la mia stessa vita individuale non ha significato senza lo Stato, e tanto più significato ha quanto più con lo Stato si identifica. Appena l’uomo supera la mera animalità e differenzia i suoi gusti da quelli della fiera, sorgono bisogni che hanno un’origine affatto sociale: nessuno dei tanti beni economici che si son venuti creando nella storia dell’uomo sarebbe stato mai prodotto senza il fondamento della collaborazione. E collaborare vuol dire appunto tendere a un medesimo fine e cioè avere un medesimo gusto e un medesimo bisogno. Se 1 utile economico fosse veramente l’ofelimo, nessun bisogno potrebbe soddisfarsi, che, se mi viene il gusto di avere un’automobile, h soddisfazione di esso mi è possibile solo in quanto lo stesso insogno e stato inteso dalla società in cui vivo e in cm esistenza delle automobili, perciò, si è resa possibile. h Se, al contrario, l’utilità delle automobili rappresentasse soltanto una mia particolare ofelimita, nessuna forza al mondo potrebbe valere ad appagare il mio gusto, perché nessuno coìlaborerebbe con me al raggiungimento del fine propostomi. Anche quando da me solo, estraneo a tutti, mi costruissi un oggetto atto a soddisfare un mio specialissimo gusto non potrei rinnegare la natura sociale di esso e porlo m rapporto al giudizio di approvazione o disapprovazione degli altri individui, che sono sempre presenti nella mia coscienza di uomo, nonostante il mio proposito di prescinderne assolutamente. Sono quel che sono in forza del processo storico che m me s individua, e la mia azione deve avere sempre il carattere di universalità che è proprio della stona. Utile e ofelimo coincidono nel modo più rigoroso e 1 illusione della loro differenza può sorgere soltanto considerando l’aspetto negativo delI uomo che si oppone alla logica della vita, e quindi allo Stato che di quella logica è l’espressione concreta. Ma in quanto si oppone alla logica, l’ofelimo, al solito, non può essere oggetto di scienza e resta a indicare il limite della scienza come il limite della vita. L antinomia tra soggettivismo e oggettivismo economico si risolve negando ogni positività al soggettivismo che non coincida con l’oggettivismo, e cioè al procedimento puramente arbitrario e irrelativo dell’individuo. I gusti e i bisogni di cui l’economista può e deve occuparsi sono quelli cbe si rendono intelligibili nell organismo della vita sociale e cbe rispondono quindi a finalità essenzialmente sociali: gli altri non sono veramente gusti né bisogni, bensì piuttosto manifestazioni patologiche di un attività antisociale e vanno perciò considerati unicamente da questo punto di vista. Parlare in un Iratlato di economia dell ofelimo in quanto diverso dall'utile vai quanto occuparsi del furto o del ricatto come mezzi razionali di produzione. Risolta l’antinomia tra individuo e Stato, ossia Ira ofelimo e utile, è possìbile tornare al problema del massimo benessere senza incontrarsi nelle difficolta che rendevano assurda ogni soluzione. Il concetto stesso di benessere si sposta dalla soddisfazione del gusto immediato a quella di un gusto consapevole e logicamente determinato: il benessere non è più in relazione a uno stato naturale cbe va appagato per il fatto stesso di essere, ma in relazione a un fine da raggiungere e da far valere nell’organismn della vita statale. È quindi dallo Stato, e non dall’individuo in quanto concepito senza lo Stato, cbe occorre prender le mosse per intendere quale significato possa avere la ricerca del massimo benessere individuale e sociale. Non dallo Stato, tuttavia, concepito come somma di individui, bensì dallo Stato cbe è volontà unica e unica finalità, ogni giorno storicamente determinata e in continuo processo di superamento. Ma domandarsi che cosa sia e come si raggiunga il massimo benessere dello Stato vai dunque quanto chiedersi che cosa sia e come si raggiunga il massimo ideale dello Stato stesso: ed è chiaro che a un tale quesito non nuò seguire che una sola risposta, e cioè che l’ideale di una Nazione è esso stesso processuale e diventa più grande e più alto via via che 10 si raggiunge, così come il massimo benessere che una Nazione può proporsi non ha limiti di sorta e s ingigantisce via via che il benessere aumenta. Se non che non ci si potrebbe arrestare a questa constatazione, che pur è Tunica logica e incontrovertibile, senza eliminare addirittura il problema da risolvere e senza eludere quel tanto di legittimo che pur si cela nella affannosa ricerca delle vie per raggiungere il massimo benessere. Occorre, dunque, che quesla stessa constatazione si traduca in termini di scienza economica, dando una risposta non effimera a un problema sia pur malamente impostato. Se muoviamo dal concetto dell’unità dell’organisnio statale, possiamo agevolmente convincerci che 11 valore dei beni economici varia, aumenta, diminuisce, o addirittura si annulla, col variare del fine dello Stato. Se una legge stabilisce l’uso di una merce considerata pressoché inutile fino alla formulazione della legge stessa, quella merce acquista improvvisamente un valore economico che nessuno prima si sarebbe mai sognato di attribuirle. È lo Stato, che con un atto di volontà ha creato un valore economico, e conseguentemente ima ricchezza già prima esistente, ma non come ricchezza. Le quali considerazioni, si badi bene, non hanno una portata ristretta al caso di una legge vera e propria, ché anzi con il termine legge si vuol significare ogni espressione della vita sociale, sia cli’essa giunga alla determinatezza di una norma giuridica, sia ch’essa si limiti alle vaghe linee di una opinione, di un uso, di una moda, di una convenzione, ecc. Basta assistere a una vendita all’asta per accorgersi delle vicende, a volte stranissime, dei beni economici: ciò che un tempo rappresentava un grande valore, è caduto in disuso e buttato via come cosa inutile, o di nuovo è tornato in gran pregio rispondendo a diversi bisogni spirituali. Ma è chiaro che questa vicenda non è l’espressione di un arbitrio individuale, sibbene di un processo storico che ha una logica. Anche la moda più strana e più insulsa non si afferma se non risponde direttamente o indirettamente a un’esigenza dell’epoca e delle particolari condizioni in cui fa la sua apparizione. Quest’esigenza è appunto la legge che dà vita ai valori economici, come a tutti i valori della vita, e fa nascere gusti e bisogni che non sono individuali senza per ciò stesso essere collettivi. Ne deriva che tutti i beni pennoniici, e quindi la ricchezza di una nazione, sono concepibili e sono determinabili unicamente in funzione della volontà e del fine statale. Nulla esiste che sia un bene economico in sé, bene è solo in quanto tale lo fa essere la volontà dello Stato; e la ricchezza di una nazione, quindi, può variare e varia in effetti continuamente, anche senza che muti la quantità dei beni esistenti. Il che, espresso in altri termini, vai quanto dire che non esiste una nazione povera o una nazione ricca in senso assoluto, ma povera o ricca ogni nazione diventa a seconda del valore attribuito ai Leni ch’essa possiede o che essa è in grado di produrre. In questo senso ogni nazione può essere ricca, perché la ricchezza dipende esclusivamente dalla sua volontà. Ora, se si conviene in queste considerazioni, e in parte almeno di esse convengono, sia pure indirettamente, molti economisti, il quesito circa la via per raggiungere il massimo benessere sociale può ricevere una risposta precisa anche dal punto di vista più particolarmente economico. E la via da seguire è appunto quella che vien rivelata dalla determinazione storica dell ideale economico della nazione: determinazione cui si perviene studiando il problema economico in rapporto al problema politico e che si esprime perciò in un programma non aprioristicamente fissato una volta per sempre, ma in continuo sviluppo e perfezionamento. Il programma naturalmente si concreterà in un indirizzo d insieme e in direttive particolari ben precisate, e tutti i suoi aspetti si integreranno a vicenda in modo sistematico, sì che le diverse manifestazioni dell’attività economica non abbiano a contrastare tra di loro. E l’indirizzo potrà essere, ad esempio, prevalentemente agricolo o prevalentemente industriale, tendente all incremento o alla limitazione demografica. favorevole o contrario all’emigrazione, e via dicendo; tutto in relazione all’avvenire del paese, alla sua individualità e alle sue condizioni: le quali consentiranno poi di determinare in qualche maniera le direttive generali che dovranno essere seguite nell'attuazione delle tante iniziative della vita economica e come in ognuna di esse debba aversi sempre di mira il fine comune. Si comprenderà, in tal guisa, come e perché siano da favorirsi certe industrie e da vincolarsi certe altre, siano da potenziarsi al massimo le industrie più specificamente nazionali e siano da trascurarsi quelle più rispondenti ai fini e alle risorse di altri paesi; siano, infine, da crearsi gusti, bisogni diretti ai beni economici che più conviene produrre. Poiché bisogna ben convincersi che il problema del massimo benessere sociale non si risolve solo creando il modo di soddisfare al massimo i gusti e i bisogni esistenti, ma soprattutto modificando, correggendo, creando gusti e bisogni in relazione all’ideale economico — ed economico in quanto politico — della nazione. E si comprende che quest’opera non deve svolgersi unicamente entro i confini dello Stato, ma divenire il programma della stessa politica economica internazionale, che soprattutto airestero conviene far nascere il gusto di ciò che è prodotto dell’industria nazionale: possibilità questa di cui purtroppo gli Italiani hanno parecchi esempi in casa loro, dove tanti usi stranieri si son lasciati attecchire e con essi l'importazione di tante merci che fanno passare in seconda linea le nostre. Né questo solo aspetto, più propriamente produttivo. va considerato del problema, che anzi ad esso è strettamente collegato quello distributivo, in quanto in un’economia dinamica — e può esistere un’economia non dinamica? — ripartizione dei redditi e determinazione della produzione sono precisamente la stessa cosa. È chiaro che in un’economia nazionale ben consapevole la ripartizione dei redditi avverrà favorendo gli uomini e le industrie la cui attività produttiva sarà più in armonia con l’ideale economico del paese. Questo ideale determina il valore dei beni e questo stesso ideale deve determinare la scala dei valori umani, clie sono in  rapporto con quei beni. Beni e uomini che vengono perciò ad acquistare un significato economico solo nel] organismo statale di cui sono espressioni, e che perciò possono essere valorizzati davvero solo se nell organismo statale sia chiara la consapevolezza della loro particolare funzione e la volontà che essa si adempia nel miglior modo. Se poi, dal problema de] massimo benessere sociale, passiamo a quello del massimo individuale, la soluzione ci dovrà apparire logicamente implicita nel già detto. Sì è visto che ogni individuo vive la sua vita individuale come vita statale, e che anche ciò che sembra più proprio della sua personalità ha un significato e un valore in quanto è in rapporto con l’organismo sociale. Ne deriva, dunque, che il fine di ogni individuo — così politico come economico — non può essere che quello di potenziare al massimo la propria personalità in funzione del fine politico ed economico della nazione. Se sono un buon cittadino, vale a dire se la mia attività non è antisociale e negativa, il mio massimo ideale è quello di esser degno della mia nazione e di fare lutto il possibile per esserne degno. La ricchezza cui tenderò non sarà in antitesi con questo ideale, ma la consacrazione delFessermi reso degno, più dei non ricchi, della mia nazione. Se cosi non fosse, tenderei alla ricchezza senza preoccuparmi del mezzo, vi tenderei soprattutto col furto. Ma se così è, le condizioni per raggiungere il mio massimo benessere individuale non possono essere che due, e cioè in primo luogo la mia decisa volontà di adeguarmi al fine statale e di contribuire nel modo migliore alla realizzazione di esso: in secondo luogo, poi, il riconoscimento sociale della mia attività e il relativo compenso proporzionato. Sì che volendo giungere a una definizione : imissimo benessere dell’individuo è quello che gli proviene dall adeguazione perfetta del compenso della sua opera al valore della sua personalità vista in funzione del fine supremo dello Stato. Se poi volesse conoscersi come e quando il massimo benessere individuale possa effettivamente conseguirsi, sarebbe da osservarsi che, di fatto, esso è sempre raggiunto perché ogni individuo ha quel che si merita, dato l’ideale consapevole cui è pervenuto il suo Stato, ina che poi non è mai raggiunto una volta per sempre, in quanto il livello spirituale dello Slato è in continuo sviluppo e con esso la capacità di riconoscere più adeguatamente Inpera dell’individuo. Se, ad esempio, ci proponessimo il problema di conoscere se gli attuali stipendi dei professori rispondono al massimo benessere individuale di questi, dovremmo convenire eh essi rispondono perfettamente alla consapevolezza che lo Stato ha del valore di questa funzione in rapporto alle altre della vita sociale, ma dovremmo altresì augurarci, e contribuire con la nostra opera a raggiungere, la realizzazione di uno Stato, in cui la funzione culturale fosse maggiormente valorizzata e perciò meglio compensati fossero i professori a confronto di altre categorie di lavoratori. C’e sempre uno St a to reale e uno S ta to ideale nella 3iaiet tica della storia, e il p roblem a del massimo bencssere, c osì social e come individuale, d eve av ere una soluzione che viva in questa dialettica. Basta impostare in tal guisa il problema del massimo benessere per accorgersi del significato che nella sua soluzione può avere lo Stato corporativo; il quale si differenzia dallo Stato liberale così come dall’economia liberale si differenzia la nuova economia. La soluzione scientifica non può differire da quella politica perché scienza e politica non possono essere che le manifestazioni di una stessa vita spirituale. Allo Stato liberale non poteva accompagnarsi che l'ideale scientifico dell’uomo œconomicus, del massimo benessere sociale come somma dei massimi individuali, dell’ofelimità che si differenzia dall’utilità; allo Stato corporativo deve dar significato il principio dell’identità di individuo e Stato, del massimo benessere sociale come massimo benessere nazionale e individuale, deH’utilità che si identifica con l’ofeìimità. Il problema della libertà non può avere che un unica soluzione, sia che lo si consideri dal punto di vista filosofico, politico e giuridico, sia che lo si traduca in termini di scienza economica. Coloro che parlano della libera concorrenza come di una ipotesi scientifiea apolitica da porsi accanto alla opposta ipotesi del regime monopolistico, anch’essa apoliticamente considerata, dimostrano soltanto di aver smarrito completamente la nozione storica dei concetti che adoperano, e soprattutto dei concetti di individuo, di Stato, di benessere individuale e sociale, sui quali la scienza economica deve poggiare come sui suoi fondamenti primi. Avendo già di essi largamente discusso, basterà farli riaffiorare nella determinazione del concetto di libertà, quale può venir dato dall esame il più immediatamente aderente alla vita effettiva della socielà economica. Il modo comune di intendere la libertà è quello individualistico di arbitrio, per cui ogni uomo si considera veramente libero quando ha la possibilità di fare lulto ciò che desidera, senza subordinare o comunque legare la sua volontà a quella di qualsiasi altro. Perché ciò sia logicamente possibile è necessario che 1 individuo, per dirla in termini rousseauiani, sia unità intera e non unità frazionaria: occorre cioè che egli non faccia parte di un organismo sociale, ma viva allo stato selvaggio, soddisfacendo da solo a tutti i suoi bisogni. Ne deriva, dunque, che l’usuale nozione di libertà si adegua soltanto all idea presociale dell’uomo-fiera. Facciamo invece il caso di due uomini o di piu uomini che, insoddisfatti dì una vita puramente animale, decidano — e anche qui restiamo nei termini di Rousseau — di legarsi in società, dividersi il lavoro, e migliorare con l’unione delle forze il tenore della vita. Allora la situazione cambia radicalmente e i collnhnralori debbono anzitutto porsi il fine comune da raggiungere, a esso subordinando le singole attività. Se prima, ad esempio, l’uomo svegliandosi al mattino poteva andare a caccia o restare ili riposo rinunciando per un giorno al cibo, ora, invece, a caccia deve andarvi in ogni caso, perché il sistema piu perfezionato di ricerca e catturatone degli animali esige ch’egli sia al suo posto pronto ad aiutare gli altri individui con i quali si è unito in società. S’egli restasse a riposare, gli altri dovrebbero rinunziare alla sua collaborazione, e la società si spezzerebbe, perché il fine comune per cui si è costituita non potrebbe essere raggiunto. Il passaggio dalla fiera all’uomo implica dunque: la costituzione di un organismo sociale; la determinazione di un fine comune; fideiitità di questo fine comune con ì fini dei singoli; l’elevazione del fine comune a LEGGE della società e la subordinazione a essa dei singoli membri; la conseguente necessità dell’attuazione della legge e la trasformazione dell’organismo sociale in STATO; l’identità del benessere individuale e di quello statale; la rinunzia definitiva alla libertà intesa come arbìtrio. Si apre a questo punto un dilemma, al quale non vedo come si possa seriamente sfuggire: o la vita civile non è conciliabile con la libertà o della libertà occorre formarsi un concetto che non sia quello di arbitrio individuale. Prima di risolvere il dilemma, occorre eliminare ogni dubbio circa la possibilità di un terzo termine. e precisamente di quel terzo termine escogitato dalla stessa teoria contrattualistica, secondo cui il necessario vincolo imposto dalla vita sociale dovrebbe essere il minimo possibile e tale da lasciare la più ampia sfera all’arbitrio dell’individuo. È questa la teoria ebe è a fondamento dello Stato liberale e, secondo essa, l'unico arbitrio vietato al singolo sarebbe quello dell invadenza nella sfera di arbitrio degli altri individui: il contenuto sociale o statale sarebbe appunto la garanzia dei particolari arbitri. Ma e chiaro che questa teoria, equivocando sui termini di società e Stato, sposta il problema, ponendolo in termini affatto fantastici: io Stalo vien concepito come un ente distinto dalla società e la legge è ridotta al significato formale e negativo di limite. Se riportiamo, invece, la questione nei termini concreti dell’agire economico, è facile convincersi che la legge non è un limite formale, bensì una esplicita norma di produzione e di distribuzione. che non si esaurisce in un divieto di sconfinamento. ma impone un determinatissimo lavoro. Se voglio far parte della società, debbo in modo assoluto occupare il posto che mi spetta e fare tutto quello che il mio posto esige. Quando sono entrato in società con il mio simile, non Tho fatto per dividere la mia sfera dalla sua e segnare i confini della mia proprietà (legge limite, Stato carabiniere, ecc.) ma l'ho fatto per condurre con esso una vita migliore, per produrre più e meglio, per raggiungere risultati impossibili alle mie sole forze (legge di azione, Stato etico). Sì che il confine posto tra la proprietà mia e quello degli altri non ha neppure esso un valore négàlivojjfi^pura“difesa''tjrrisTTpi^e^de'ter ni ina li va-del-campo _in cui esercitare la mia opera di collaborazione: non indica la sfera del mio arbitrio, ma il mio posto di lavoro. Né quello che io faccio, vincolato dalla società, può stare comunque accanto ad altro ch’io faccia all’infuori di questo vincolo, perché all’infuori del vincolo io non ho altra realtà oltre quella dell’animale, e tutto quanto dall’aniinale mi distingue ho conquistato nella società, collaborando, ossia sottomettendomi alla legge del fine comune. Se oggi v’è apparentemente la possibilità di separare un’attività libera da un’altra obbligatoria, ciò avviene solo per un equivoco di valutazione, che consiste nel considerare alcuni elementi sociali scissi dalla vita da cui sono stati originati. Ma, a guardar bene, bisogna pur convincersi che nulla della nostra condotta sfugge alla legge della convivenza sociale e che anche nelle questioni propriamente personali, noi agiamo secondo una volontà comune, individuale e sociale insieme, in piena identità di termini. Se mi vesto, posso apparentemente abbigliarmi come mi detta la fantasia, ma in realtà debbo pur seguire le leggi, gli usi, le tradizioni, il gusto, ecc., della società in cui vivo; e se, ad esempio, posso mettermi una cravatta rossa ovvero una grigia, anche questo arbitrio non è un arbitrio, ma un operare entro quella legge che nell’attuale momento storico impone varietà di colori nelle cravatte. Questa è la realtà della vita sociale, e, quanto più progredita e complicata essa diviene, tanto più ferrea è la disciplina cbe la governa e die deve rendere possìbile l’armonia di tanti elementi disparati. Le leggi, i regolamenti, le mode, gli usi, le convenzioni, gli orari ecc. ecc., investono sempre più metodicamente tutta la nostra vita quotidiana, da un minimo cbe è lasciato alle forme rudimentali di vita (vita dei campi) a un massimo elle caratterizza l’azione dei maggiori esponenti della politica, della cultura, dell’industria e del commercio. Sì che assenza di arbitrio e massimo di civiltà divengono via via termini equipollenti, e la vita del più civile uomo di domani non può immaginarsi se non attraverso un’adeguazione sempre più perfetta della vita e della volonlà del singolo a quella dello Stato. Ma, dunque, si potrà obiettare dai nostalgici del liberalismo vecchio stile, la vita deve diventare una schiavitù, un procedimento meccanico e inesorabile, al quale non sia possibile sottrarsi a nessun costo, per rivendicare la spensierata felicità di chi si leva al mattino arbitro incondizionato della propria giornata? È dunque questa la vera civiltà o non conviene buttar tutto all’aria e tornare all’immediatezza della natura? Questione vecchia cotesta, almeno quanto l’opera di quel Rousseau cbe ci ha dato In spunto per discuterla : e, appunto perché vecchia, orinai risolta e superata, se pur la soluzione non abbia ancora avuto modo di pervenire agli orecchi degli economisti. Essi amano indulgere tuttavia al miraggio di d  Spinila — felina libertà individualisticamente intesa, e non si sono neppure domandati se ormai occorra, o se sia comunque possibile, che la scienza economica dia anch'essa un altro significato al termine tradizionale. Poiché di un altro significato deve ben potersi parlare, dato che al dilemma sopra proposto non si può rispondere, evidentemente, eoi negare addirittura la libertà. Notiamo anzitutto che la libertà dei liberali è. per loro stessa eonfessione, una libertà a mezzo, la quale lia sempre qualcosa da invidiare alla completa libertà dello stato di natura. A quell’assoluto arbitrio si è dovuto rinunziare per necessità di vita e per sicurezza reciproca, ma intanto di una rinunzia pur sempre si tratta, che fa assaporare con voluttà quel giorno felice in cui, per il superiore livello della comune moralità, sarà possibile abolire lo Stato e la sua funzione di inutile gendarme. La libertà del liberale, dunque, nessuna maggiore profondità e spiritualità acquista con lo svolgersi della storia, che anzi essa ha lasciato alle sue spalle il proprio modello perfetto e immodificabile. Basterebbe questa considerazione per farci diffidare della giustezza della comune soluzione del problema: se libertà è sinonimo di valore, la sua realtà non può essere che nel suo approfondirsi e spiritualizzarsi continuo, sì che il suo modello possa brillare della luce dell’ideale da instaurarsi e non perdersi nel buio della preistoria. La giusta soluzione, dunque, dovrà ricercarsi nel concetto di una libertà che non si è persa, ma cbe si deve conquistare; di una libertà non seivaggia, ma identificabile addirittura con la vita civile. E la via ci è indicata dalla stessa ipotesi contrattualistica, da cui volutamente abbiamo preso le mosse per restare nell’ambito dei problemi cari agli ideologi del liberalismo. Quando due o più uomini deliberano di unirsi in società per migliorare le loro condizioni, liberamente si sottopongono alla legge del comune lavoro, e questa legge diventa, per ciò stesso, il contenuto del loro atto di libertà. Libertà e legge, lungi dairescludersi, si identificano senza residui. Ma la loro identificazione, si badi bene, non è accidentale, bensì essenziale, perché, se contenuto dell atto di libertà non fosse la legge, la libertà stessa tornerebbe ad essere arbitrio. Quel che distingue infatti la liberta dall arbìtrio è appunto l’universalità della prima di fronte alla particolarità del secondo: il selvaggio può agire in un qualsiasi modo; 1 uomo civile, invece, deve agire secondo una volontà che, pur essendo sua, abbia insieme un valore universale {la legge). Costitutivo, insomma, del nuovo concetto di libertà deve essere la sua identificazione con la legge, ossia la identificazione della volontà particolare con quella universale, dell’individuo con In Stato. Né si creda che il libero processo secondo cui gli individui si costituiscono in società si esaurisca nell’atto della costituzione — il quale anzi non esiste ebe nella fantasia dei contrattualisti — poiché esso si perpetua in tutta la vita sociale e ne caratterizza ogni momento. La legge cbe lega gli individui nel comune lavoro non si determina una volta per sempre meccanicizzando l’attività da essa regolata, ma si rinnova continuamente in virtù della stessa forza d’iniziativa che l’ha fatta sorgere. Ogni individuo, infatti, è indotto a perfezionare l’organismo sociale ed escogita nuovi procedimenti e ricerca nuove vie, sempre insoddisfatto dei risultati conseguiti e sempre pronto a conseguirne di nuovi. Ma si comprende che in questo processo ogni iniziativa del singolo deve inserirsi nel processo unitario della vita sociale: la sua volontà deve diventare la volontà di tutti e la sua libertà di attuarla deve coincidere con la legge che ne impone l’attuazione. Che se l’iniziativa restasse particolare e si giustapponesse a infinite altre iniziative ancli’esse particolari, tutte si intralcerehbero a vicenda spezzando l’organismo della socielà e portandolo fatalmente alla disgregazione aiomistica. Questa identificazione iniziale e processuale della volontà e libertà del singolo con l’universalità della legge risulta molto evidente dalla considerazione del funzionamento di una qualsiasi associazione. Anche se prendiamo ad esempio il caso limite dell’associazione a delinquere, dobbiamo convenire ch’essa si costituisce con un atto di libertà dei singoli membri, volonterosi di sottoporsi alla sua disciplina; che i singoli tendono al benessere dell’associazione vedendo in esso il proprio; che ogni particolare iniziativa di un membro è subordinata all’approvazione degli altri; e che insomma l’associazione tanto meglio vive, ed è capace di conseguire il fine che i singoli si sono proposti nel formarla, quanto più unitaria è la sua volontà e quanto più rigorosa la sua disciplina. Ma se dall’esempio di una singola associazione, passiamo a quello della grande società che è lo Stato, l’evidenza della identità si attenua, i termini del problema divengono indecisi e la questione arbitrariamente si sposta dando luogo agli equivoci propri dell’individualismo liberale. Ogni cittadino nello Stato, come ogni delinquente nell’associazione di cui abbiamo discorso, 6arà tanto più degno di appartenere alla società quanto più saprà far coincidere la sua libera volontà con quella sociale. Che se nel caso del cittadino par ci sia differenza tra il benessere proprio c quello dello Stato, la ragione va trovata solo nel fatto che, per la maggiore estensione e complessità dello Stato rispetto all’associazione a delinquere, più facilmente il cittadino smarrisce la coscienza dell’organismo e più facilmente è indotto a frodare gli alIri membri della società cui appartiene. Ma per ciò appunto il contrasto tra le due volontà rappresenta il lato negativo e non quello positivo della vita dello Sfato e tutte le forze debbono essere impegnate a eliminarlo. Anche nell’associazione a delinquere uno dei membri può sottrarsi alla disciplina sociale e averne i vantaggi senza gli oneri, ma egli sarà appunto il prepotente, l’elemento disgregatore della società e finirà col fare il danno di essa e quello proprio. In tal guisa considerata la libertà, si comprende come si sia decisamente sorpassata l’ambigua soluzione del problema data dal liberalismo. Il cittadino non si sdoppia più in due attività opposte, nell una delle quali si conserva la libertà originaria dell' uomo di natura e nell’altra invece si riconosce Tobbligatorietà della legge: il cittadino è libero in ogni sua manifestazione a patto che tale libertà sappia conquistare dimostrando il valore dei suoi atti e facendo 1 ! perciò riconoscere dalla società di cui fa parte. La libertà per esser vera deve costare, e il suo costo è dato appunto dallo sforzo necessario a trasformarla da volontà particolare in volontà universale. Abbiamo ora gli elementi cbe ci sono indispensabili per discutere il tormentatissimo problema della libera concorrenza e del monopolio. Secondoi termini tradizionali la libera concorrenza si esercita Ira individui cbe cercano il massimo benessere individuale, senza alcuna preoccupazione del fine sociale. L'ideale della perfetta concorrenza è appunto quello dì un giuoco di forze individuali autonome, la cui autonomia o irrelatività sia assoluta, 6Ì cbe il fenomeno economico scaturisca dall’incontro indisciplinato di interessi diversi e opposti. Ogni limite sociale, ispirato dalla visione di un fine che trascenda quello dell’arbitrio dei singoli, è considerato come una menomazione della concorrenza e come una forza antieconomica. Si consacra in tal modo nel campo dell’economia l’assolutezza del principio della libertà come arbitrio, cbe aveva dovuto trovare un limite nel riconoscimento della necessità giuridica dello Stato. Quando tuttavia da questa concezione ideologica ritorniamo all’analisi dell’effettivo processo della vita sociale, dobbiamo riconoscere cbe un tal modo di intendere l’ideale economico è intimamente incongruente. Se la società, infatti, è costituita al fine di collaborare, essa implica, come abbiamo visto, una disciplina comune, una legge che neghi gli arbitri dei singoli, e cioè i loro interessi individuali in quanto altri da quelli sociali. Ne viene di conseguenza che o bisogna ripudiare la libera concorrenza come un fenomeno essenzialmente antisociale o bisogna intenderla e promuoverla in un senso radicalmente diverso da quello comune. Per rendere più evidente la questione sarà opportuno ritornare un momento all’esempio dell’associazione a delinquere, e vedere in questa forma rudimentale di società il sorgere della concorrenza e il suo adeguarsi al fine unico della collettività. Determinate le mansioni dei sìngoli membri, a qualcuno di essi può sembrare dì avere attitudini speciali per un compito assegnato a un altro. In tal caso egli fa la proposta di mettere a confronto le due capacità e di decidere chi dei due debba essere adibito a quel compito o anche se debbano esservi dedicati entrambi. Si inizia così nell’ambito della società un fenomeno di concorrenza, ma esso ha il peculiare carattere di essere voluto dalla società stessa e per un fine sociale: volontà e finalità che ne costituiscono l’intima legge e l’unica ragion d’essere. Lungi dall’affermarsi come un contrasto di interessi particolari, esso si realizza e sì giustifica in virtù del criterio fondamentale della società, per il quale ogni atto dei singoli membri è integralmente libero e insieme integralmente necessitato. Né diverso deve apparire l’opposto caso del monopolio, che, secondo l’interpretazione corrente, rappresenterebbe l’antitesi netta della libera concorrenza, perché toglierebbe ai singoli la libertà di far valere i propri interessi particolari. Ritornando anche qui all’esempio dell’associazione a delinquere, è facile dimostrare che, quando uno dei suoi componenti abbia rivelato qualità speciali per l’adempimento di una funzione, l’attribuirgliene il monopolio è atto libero di tutti, e, né più né meno della libera concorrenza, fondato sulla comune volontà. Libera concorrenza e monopolio, dunque, visti nella loro effettiva origine e giustificazione, si rivelano dotati della stessa libertà e della stessa necessità, e nessun elemento essenziale può comunque caratterizzarne una differenza logica. La molteplicità dei concorrenti nell’un caso e l’unità del monopolista nell’altro sono affatto apparenti, poiché la volontà che agisce in entrambi i casi è quella di tutti, e identici ne sono gli effetti. Questa tesi, teoricamente ineccepibile, può apparire smentita dalla realtà della vita economica, in cui concorrenza e monopolio troppo evidentemente si differenziano nei caratteri costitutivi e nelle conseguenze immediate. È esperienza molto elementare quella che ci insegna il diverso determinarsi dei prezzi nei due casi, né alcun ragionamento potrà mai riuscire a convincerci che si tratti di un unico processo. Bisogna trovar, dunque, la ragione della differenza e vedere in che modo essa possa conciliarsi con i risultali cui siamo pervenuti. Caratteristica della libera concorrenza è l’arbitrio dei singoli non vincolati da alcuna necessità, caratteristica del monopolio la necessità eliminatrice di ogni libero procedimento : due fenomeni opposti, entrambi in antitesi con il carattere fondamentale della società, quale è stato fin qui chiarito. Il che può subito farci avvertiti che i due fenomeni, in quanto si differenziano, non rispondono al regolare effettuarsi della vita sociale, ma ne rappresentano la radicale alterazione e trasformazione. Libera concorrenza e monopolio sono i casi limiti, patologici e assurdi, della normale vita economica caratterizzata dairidentificazione della libertà e della legge. La prova più evidente della contraddittorietà e anormalità dei due fenomeni opposti può esserci data dalla constatazione della impossibilità di una loro effettuazione integrale. Anche il liberista più convinto è oggi d accordo nel ritenere che una vera libera concorrenza non è mai esistita né potrà mai esistere e, anche guardando ad essa come al perfetto ideale, egli si arresta alla solita soluzione a mezzo del liberalismo politico, che in tal guisa riaffiora in economia attraverso questo riconoscimento di fatto : è tutto il mondo della necessità che grava sull’arbitrio dei singoli e finisce col distruggerlo o con Televario alla vera libertà. Né altrimenti avviene per il monopolio, costretto sempre a far i conti con una concorrenza potenziale, sempre limitato dalla forza della legge o dalla pressione delTopinione pubblica, spesso evitato per vie traverse o collaterali. È la realtà effettiva che reagisce sulle sue deformazioni e lentamente o violentemente finisce con Taverne ragione. I$|W La libertà economica, dunque, non può concepirsi se non come la perentoria negazione degli opposti arbitri rappresentati dalla libera concorrenza e dal monopolio, ovvero dalTanarcbia e dalla tirannia economica. E basta porre in questi termini rigorosi il problema per comprendere tutta la vanità degli sforzi compiuti dagli economisti per riportare i loro teoremi a quelle due ipotesi scientifiche. Lungi dall’essere scientifiche, quelle ipotesi esprimono la più radicale istanza antiscientifica e conducono necessariamente a una generale, continua miscomprensione dell’essenza della vita economica. Né vale opporre che tali ipotesi sono soltanto schemi irreali ed astratti, ai quali lo scienziato perviene per intendere fenomeni economici in prima approssimazione: ciò che a quegli schemi si rimprovera non è l’astrattezza, bensì la netta opposizione alla realtà effettiva dei fenomeni economici sociali, i quali si svolgono normalmente fuori di quelle ipotesi e vi tendono solo in quanto degenerane. Perché la scienza economica possa darci il tipo astratto del fenomeno economico occorre che abbandoni decisamente la via finora percorsa e, al di sopra dei concetti negativi dj libera concorrenza e monopalio, ponga quello evidentissimo e concretissimo di collaborazione, Resta ora da esaminare come l’ideale della vera libertà economica debba intendersi nelle sue determinazioni pratiche e quale via debba seguirsi per la sua più profonda attuazione. Se il nuovo concetto è fondato stili identità di liberta e di legge, è chiaro che instaurare una maggiore libertà economica vuol dire rendere sempre più rigorosa tale identità e cioè considerare 1 individuo sempre più identico allo Stato, così nei fini della vita come nei mezzi per raggiungerli. L ideale della vita economica e di quella sociale in genere dovrà condurre a una lotta più consapevole contro tutte le forme dualistiche tendenti a separare il mondo dell’individuo dalla realtà dello Stato, e dovrà insemina imporre il capovolgimento delle ideologie individualistiche del liberalismo politico e del liberismo economico. Il che nel campo più strettamente economico si traduce nell'istanza scientifica e pratica di combattere con ogni mezzo 1 individualismo che ispira il dogma della libera concorrenza e insieme lo statalismo che per 10 più è a fondamento delle forme, monopolistiche. Consentire ancora che gli individui si esauriscano in una lotta destinata al soddisfacimento di particolari interessi, e non ricondurre la lotta stessa ai fini dello Stato, significa indulgere tuttavia alla più immorale e antieconomica forma di vita politica, riaffermando inconsapevolmente il trionfo del più egoistico arbitrio. Se lotta deve esserci e rimanere a fondamento del progresso, occorre ch’essa si impegni per la conquista di un più alto fine statale, e sempre con la coscienza di tendere a un benessere individuale che sia il benessere sociale: non lotta dunque di individui contro individui per il trionfo degli uni sugli altri, bensì lotta tra gli individui per il trionfo di un unico fine che rappresenti il massimo bene di tutti. Non si tratta di eliminare la concorrenza, ma di intenderla nel solo significato giusto, che è quello dell’affermazione dell’iniziativa individuale nella ricerca del bene comune. Essa deve svolgersi nello Stato e per lo Stato, con ì limiti, la disciplina e la volontà dello Stato: la statalità deve costituirne l’essenza e il fine. Ma se convien combattere l’individualismo tradizionale della lihera concorrenza occorre poi eliminare con non minore energia tutte le forme statali che tendono a differenziarsi dagli individui. Come 1’individiio degenera nell’egoismo, così lo Stato degenera nel particolarismo della classe o degl’uomini dominanti: allora esso diventa lina forza contro altre forze, un’entità contro altre entità, e il dualismo di benessere individuale e benessere statale si riafferma come differenza di arbitri e di egoismi. Così si spiega e si giustifica incontrovertibilmente la critica del liberalismo alle forme statali monopolistiche o comunque di intervento. Quando il monopolio, o l’azione economica delloStato, è ispirato da una volontà trascendente quella dei cittadini, quando lo Stato si differenzia dalla Nazione e diventa burocrazia o governo o oligarchia o comunque un ente particolare con volontà autonoma, allora 1 intervento statale è antieconomico e il monopolio distruzione di ricchezza. All’arbitrio degl’individui abbandonati nella lotta egoistica si sostituisce l’arbitrio di un governo che impone un proprio fine altrettanto egoistico : e in entramhi i casi la libertà economica è radicalmente legata. Il perfezionamento della vita economica non potrà essere che in forme sempre più unitarie di collaborazione, con il progressivo allargarsi degli organismi produttivi e il disciplinarsi delle varie forze nell’unico sistema statale. Questa è l’intuizione fondamentale dello Stato corporativo, destinato a realizzare con progressiva consapevolezza la compenetrazione e identificazione assoluta di individuo e Stato, ossia della volontà e dell’iniziativa dell’individuo con il fine supremo dello Stato. La critica dell’econoinia liberale e la tesi dell’identità di individuo e Stato, che di quella critica è la inevitabile conclusione, hanno condotto a una impostazione radicalmente diversa dei problemi tradizionali. E la differenza fondamentale va trovata nella sostituzione del concetto di molteplicità di soggetti economici — gli individui o gli homines (Economici, arbitri del proprio mondo particolare, limitato solo dalle sfere di arbitrio degli altri individui — con quello di organismo economico unico, con unica volontà e unico fine, quello statale. Nell’economia liberale la molteplicità degli individui è sostanziale e costituisce il valore base della costruzione: l’unità del mondo economico risulta solo dalla giustapposizione e conciliazione estrinseca delle diverse volontà e dei diversi fini. Nell’economia nuova, invece, l’unità dell’organismo politico è il presupposto imprescindibile, e la molteplicità degli individui è risolta in essa senza dualismi di alcuna sorta. Si nega, cioè, che oltre al fine statale abbia ragion d’essere un qualsiasi fine economico individuale. Naturalmente questa differenza teorica tra le due economie ha una conseguenza pratica anchessa fondamentale, che può, all ingrosso, determinarsi contrapponendo al concetto di concorrenza e di lotta, che domina la vecchia economia individualistica, quello di collaborazione e di organizzazione che è caratteristico della nuova. La concorrenza e la lotta sono anch essi concetti trasvalutati : non cozzo violento di interessi diversi e contrastanti, ma sforzo e competizione per il miglior raggiungimento deirinteresse unico. La stessa nozione di equilibrio viene ad essere intimamente corretta, in quanto non si pensa più ad una risultante meccanica, ma a un processo intelligentemente voluto e guidato. Dove i soggetti sono molti, Limita è secondaria e fatale: dove il soggetto è uno, l’unità è originaria e intelligente. Ma ima grave obiezione può sollevarsi a questo punto, ed è stata difatti sollevata a difesa dell’economia individualistica. Ammesso pure, si dice, che la concezione unitaria del soggetto economico si dimostri giusta e irrefutabile, quando si consideri a fondo la realtà di un'economia nazionale, non per questo il ragionamento può estendersi all’economia internazionale. Se Stato e individuo si identificano, facendo con ciò diventare unico il soggetto economico, resta tuttavia sempre una molteplicità di stati, che non possono non concepirsi come molteplicità di soggetti economici. Ne consegue — si conclude perentoriamente — che, se l’economia individualistica non ha più valore per lintelligenza dei fenomeni economici nell’ambito di una Nazione, essa è. ciò non ostante, l'unica che ci consenta di comprendere i fenomeni dell’economia interstatale. Gli stati, infatti, diventano essi individui economici e la toro azione va considerata alla stessa stregua di quella degli individui dell’economia liberale, Criteri fondamentali per l’intelligenza della loro vita econemica saranno quelli di concorrenza e di lotta : secondaria e necessaria sarà l'unità della vita economica: meccanico e fatale l’equilibrio delle diverse forze contrastanti. E il ragionamento, a prima vista, sembra impeccabile, sì da rendere vana o almeno solo parzialmente valida la tesi dell’idemità di individuo e Stato: la struttura dell'economia liberale e individualistica resta quella che è, almeno per ciò che riguarda la vita internazionale. Ma fortunatamente il ragionamento non resiste a un’indagine più accurata e profonda, e la stessa critica rivolta all’individuo cittadino finisce per valere per l’individuo StatoI economia individualistica non può reggere in nessun caso, perché non può reggere il principio naturalistico su cui essa è fondata. Per chiarire adeguatamente la questione è necessario approfondire il concetto di Stato e di rapporto interstatale quale si è venuto delineando attraverso la speculazione e il diritto pubblico contemporaneo, Occorre precisare alcuni presupposti teorici c e servano a illuminare la concreta prassi nella vita economica. Di organismo economico inteso come unità essenziale, se pur in modo affatto meccanicistico, si è già parlato dai sociologi, i quali, muovendo dall’individuo isolato, son passati alle diverse forme dei gruppi sociali (famiglia, tribù, società, comuni, regioni. nazioni, umanità) tutti ponendoli su di un unico piano ed eliminando ogni differenza qualitativa tra i gruppi stessi. E si parlato, quindi, di economia individuale, familiare, nazionale, sociale, mondiale, ecc., riconoscendo la possibilità di tante economie quante sono le forme sociali o di un unica economia che tutte le comprenda. Pur ammessa, perciò, la necessità di considerate i fenomeni economici nell’organismo della vita sociale, sembrerebbe. dal punto di vista della sociologia, affatto ingiustificata Videntificazione di individuo e Stato, e la riduzione dell’economia a economia statale. Perché mai arrestarsi o sollevarsi allo Stato per riconoscervi il fondamento della scienza economica, se è possibile concepire una vita economica sia di gruppi inferiori allo Stato sia dell’umanità che gli Stati tutti comprende? L’obiezione, anche qui, sembra inconfutabile e decisiva ; e finisce per congiungersi all’altra dell'economia individualistica, in quanto riconosce, essa pure, la molteplicità degli individui sociali, o come persone fisiche o come gruppi di persone. Al solito, l’esigenza sociologica antindividualistica, e perciò antiliberale, è condotta dai suoi presupposti naturalistici agli stessi risultati della tesi che vuol superare. Ma l’obiezione, anche qui, è destinata a cadere definitivamente quando si abbia la forza di sollevarsi a un punto di vista più alto, dal quale e le persone e gli enti possano essere considerati nella loro vera essenza unitaria. Unità che non può esser data né dall’individuo particolare, in quanto uno Ira ì tanti, né dall’umanità, in quanto sommaNi^^ wU tanti, bensì dallo Stato in cui l’individuo e l’umanità acquistano la loro effettiva concretezza. Il superiore punto di vista nel quale occorre metterci per giungere a questo risultato è dato dalla concezione storicistica o dialettica della vita sociale, per cui allo Stato e soltanto allo Stato è consentita quella vera individualità ebe coincide con la vera universalità. E la ragione è questa: che tutti gli individui (persone o enti) che sono nello Stato, vivono, appunto, nello Stato, e sono perciò in esso risolti come momenti della sua vita; laddove al di sopra degli stati non può concepirsi un’umanità che sia organismo unitario (Stato o superstato) senza annullare, per ciò stesso, il concetto di Stato. Lo Stato, infatti, ha questo di caratteristico rispetto a tutte le altre unità sociali storicamente esistenti: di essere la suprema unità dialettica della storia, in quanto è unità differenziata rispetto alla molteplicità degli stati e non ha al di sopra nessuna unità differenziata. Lo stato-umanità è una contraddizione in termini in quanto unità senza molteplicità, e perciò unità statica, indifferenziata e indifferenziabile, sottratta a ogni dialettica spirituale. Lo Stato non può essere che unità-molteplicità, ossia veramente sovrano, per il fatto di avere una sovranità riconosciuta dagli altri stati: se non ci fossero gli stati a riconoscere lo Stato, Io Stato non sarebbe perché non avrebbe coscienza della sua sovranità, non avendo ragione di essere sovrano. In tanto lo Stato può dettar legge ai cittadini, in quanto deve fonderli in un unità che viva e si affermi nella molteplicità: che, se questa molteplicità non esistesse, lo Stato non avrebbe un fine suo, ma vivrebbe per i " Svinilo fini degli elementi che lo compongono: non sarebbe perciò sovrano ma strumento, e la vera sovranità competerebbe agli organismi (persone o enti) cbe vivono nello Stato; sollevati al grado di vero individuo, unità-molteplicità, o unità dialettica. Questo primo risultato della nostra indagine ci consente di rifiutare ristanza sociologica di più economie sociali, a seconda delia qualità dei gruppi considerati, o di un’unica economia sociale, coincidente con l’economia dell’umanità. La vera unità storicamente concreta è quella dello Stato, e perciò l’economia scientifica non può essere cbe statale. Ma, se ! istanza sociologica è superata, non altrettanto sembra quella individualistica, cbe si fonda appunto sulla molteplicità degli stati. Che, anzi, questa seconda obiezione pare rafforzata dal riconoscimento esplicito die abbiamo fatto della molteplicità degli stati, e addirittura del carattere essenziale e imprescindibile di tale molteplicità. Se non cbe, guardando più a fondo, si deve convenire cbe il nostro riconoscimento non può avere lo stesso significato di quello su cui si fonda l’obiezione individualistica, per il fatto cbe nel caso nostro si tratta di nna molteplicità essenziale soltanto ai fini deirunità. E la unità è lo Stato, ossia l’individuo concreto, in cui gli stati, in quanto molteplicità, si risolvono senza residuo. Per intendere con precisione questo carattere di interiorità degli stati rispetto allo Stato, occorre m ritornare al concetto di sovranità, cui abbiamo prima accennato. Perché lo Stato sia sovrano è necessario che tale sovranità sia riconosciuta dai cittadini, ma è necessario insieme che venga riconosciuta dalla molteplicità degli stati. Il che vuol dire che la sovranità ha due aspetti egualmente imprescescindibili: uno interno e 1 altro esterno, rispetto ai cit-tadini e rispetto agli stati. E se di fronte ai primi la sovranità si esprime con ridentificazione dei fini individuali col fine statale, è necessario che anche di fronte ai secondi la sovranità abbia la stessa ragion d’essere. In altri termini, nella vita internazionale lo Stato deve vedere negli stati altrettanti elementi del proprio organismo unitario, vale a dire altrettanti strumenti del proprio fine. Il che, si badi bene, non va inteso nel senso assurdo di un nazionalismo cieco, bensì in un senso affatto spirituale e perciò il più internazionalistico possibile. Come i cittadini, invero, sono strumenti dello Stato, non sacrificando i propri fini particolari a quello dello Stato, bensì riconoscendo che i primi si identificano col secondo e lottando per un sempre maggior riconoscimento di tale identità, così gli stati debhono trovare nel fine dello Stato gli stessi loro fini particolari e dare incremento a una vita che, se è potenziamento dello Stato, è, per ciò stesso, potenziamento della collaborazione internazionale. Se così non fosse, se cioè lo Stato non fosse sovrano così verso i cittadini come verso gli stati, non si avrebbe sovranità di sorta, perché la stessa sovranità, esercitata sui cittadini non sarebbe sovranità, in quanto necessariamente condizionata dalla realtà degli altri stati. Il che sanno bene quei giuristi i quali non ammettono che il diritto internazionale sia un diritto superstatale, di natura diversa dal diritto interno. Due modi, insoninia, ni sono di intendere la vita internazionale: uno, che può dirsi liberale o individualistico, per cui esistono gli stati nella loro molteplicità atomistica, legati da un rapporto estrinseco concepito come risultante della coesistenza degli stati stessi; un altro, invece, che potremmo denominare idealistico o storicistico, per cui esiste Io Stato nella sua unità assoluta, che risolve in sé dialetticamente la molteplicità degli stati, legati da un rapporto sostanziale e intrinseco che è il fine stesso dello Stato. Da una parte una vita internazionale che è quella che è, bruto incontro di forze eterogenee e di fini particolari contrastanti; dall’altra un organismo internazionale che ha un fine consapevole e un unico centro : lo Stato. Ora, se applichiamo questo concetto dello Stato e della vita internazionale alla scienza dell’economia, possiamo ripetere in questa sede la critica già svolta a proposito deireconomia liberale o individualistica. 0 si accetta la concezione atomistica della vita internazionale, e allora bisogna riconoscere che una scienza deireconomia non può esistere, in quanto i fenomeni economici internazionali hanno la stessa illogicità (itnprevedibililà) dei fenomeni economici dell’individuo soggettivisticamente inteso e non possono sottrarsi alla sfera del puro arbitrio; o, invece, si crede che una scienza deireconomia possa esistere, e allora bisogna riconoscerne il fondamento in un organismo intelligibile, che è, così nella vita economica nazionale come in quella internazionale, lo Stato nella sua concretezza storica e nella sua consapevole attualità. E lo Stato in nessun caso può venir superato o sostituito, come principio primo della scienza, senza annullare la scienza stessa nella sua possibilità teorica e nella sua validità pratica. Ancora una volta l’identità di individuo e Stato segna il punto di arrivo delle scienze sociali in genere e deireconomia politica in particolare. Risolto il problema dei rapporti tra economia nazionale ed economia internazionale, riconducendolo al più vasto problema del concetto dello Stato, occorre ora mostrarne le conseguenze più particolarmente economiche e vedere in quale senso le conclusioni cui finora è pervenuta la scienza vadano rivedute e corrette. È opportuno anzitutto precisare il significato che per la scienza tradizionale ha il concetto di economia interstatale. Purtroppo tale precisazione non può avere che un carattere tulio negativo, in quanto a rigore per reeonomia classica un problema economico interslatale non può neppure sussistere. Dato, infatti, il concetto di homo ce conomicus come presupposto fondamentale della scienza, tutta l’indagine si esaurisce in un’economia individualistica nella quale non v’è posto alcuno per lo Stato. Quando lo Stato ha fatto sentire la sua esigenza imprescindibile, airesigenza stessa si è tentato soddisfare individuando lo Stato in un ente particolare, con un fine e una vita economica propri, diversi da quelli degli individui. Ne è derivata, nella migliore delle ipotesi, una sottoscienza sui generis cui si è dato il nome di scienza delle finanze. Ma lo Stato vero, quello che si identifica con l’individuo, e ne costituisce la vita logica, quello non è entrato mai in questione e i fenomeni economici sono stati studiali in quanto fenomeni interindividuali. La vita economica naturale esclude lo Stato e si esprime tutta nella libera concorrenza delle forze particolari, sì che rintervento statale può essere studiato lutt’aì più come causa di deviazione dal corso naturale, ossia come uno degli ostacoli alla libera estrinsecazione delle forze in contrasto. E questa conclusione non varia col passare dall’economia nazionale all’economia internazionale, per il fatto stesso che lina nazione o uno Stato come unità economica è negato a priori nel modo più categorico. Come neirambito dello Stato i fenomeni economici si svolgono indipendentemente dallo Stato, così si svolgono pure quelli che si verificano nel più vasto mercato mondiale. Non sono, infatti, gli stati che contrattano fra loro, sibbene gli individui o i gruppi di individui che ne fanno parte, e che agiscono economicamente così quando si trovano ad appartenere a una stessa nazione, come quando sono cittadini dì stati diversi. I fenomeni economici che ne risultano sono precisamente gli stessi, e la scienza non ha ragione di porre un qualsiasi problema al riguardo. Problemi diversi nascono invece quando tra slato e stato si elevano delle.barriere che distìnguono il mercato interno da quello esterno. Sono le barriere doganali, espressioni tipicamente statali, che alterano tutti gli scambi facendo sorgere, anche nell’economia classica, la specifica teoria del commercio internazionale. Tuttavia bisogna star bene attenti alla natura del problema, e non credere che la scienza tradizionale abbia con ciò abbandonato o comunque menomato il presupposto individualistico. Lo Stato di cui, anche qui, discorre la teoria, è sempre quello che è oggetto della scienza delle finanze e cioè un ente a sé con particolari fini e funzioni. E la scienza in tanto lo prende in considerazione in quanto esso fa deviare l'economia naturale dal suo libero corso. Se, infatti, si analizzano le comuni teorie del commercio internazionale, è facile avvedersi come tutto il loro contenuto si risolva, per un verso, in un’istanza negativa, implicita o esplicita, contro l'intervento degli siati (soppressione delle barriere doganali), e, per un altro verso, nell’indagine delle conseguenze che il sussistere delle barriere doganali ha nell economia degli individui appartenenti ai diversi stati. In ogni caso si resta ligi al presupposto d eWhomo ceconomicus, unico centro e ragione della vita economica, e si resta conseguentemente ligi al vecchio concetto di Stato, inteso come una superfetazione, sia pur necessaria, e un limite più o meno grave della libera vita dell’individuo. Una vera economia internazionale può nascere solo col sorgere del concetto di Stato, come organismo economico di carattere universale ; lo Stato, cioè, come soggetto economico in cui si fonde tutta la vita economica dei cittadini. In che cosa consista la differenza essenziale dei due concetti di Stato nella concreta prassi economica potrà risultare molto agevolmente da un esempio notissimo. In Italia si produce meno grano di quel che non si consumi: non solo, ma io posso trovar convenienza a rinunziare alla coltivazione del grano e a importarlo dall’estero. Secondo la dottrina liberale, della convenienza economica di produrre grano o di importarlo, sono giudice assoluto io solo: lo Stato è tenuto a disinteressarsene completamente. Nel caso di un suo intervento, questo è dovuto o a ragioni politiche concepite come extraeconomiche o al bisogno di provvedere, mercé i proventi di un dazio doganale, alle spese inerenti alle sue peculiari funzioni. 0 un problema politico, dunque, o un problema di scienza delle finanze: e l’economia scientifica, in ogni caso, non ne è toccata, racchiusa come essa è nell’indagine dello scambio tra me, produttore e consumatore, e il produttore straniero. Ma quando lo Stato cessa di essere un ente particolare per divenire la stessa nazione nella sua unità, il problema del grano diventa problema economico solo in quanto problema nazionale. E come quello del grano 6Ì impostano tanti e tanti problemi — a rigore tutti i problemi economici — che non hanno significato alcuno per l’economia fondata sul presupposto dell’homo œconomicus. Che significato, infatti, possono avere per una concezione individualistica problemi come quelli della ruralizzazione o industrializzazione, dell’incremento demografico, dell’emigraQuando considero la scienza delle finanze lucri dell'economia politica non intendo parlare di un'estraneità assoluta, bensì relativa al particolare concetto di Stalo sul quale la scienza delle finanze finora è stata costruita. Dato uno Stalo —essa dice — else ba particolari funzioni (pubblica sicurezza, giustizia, esercita, ecc.l, esso deve pur avere un proprio bilancio; e le sue entrale e le sue spese, come pure la loro influenza sulla vita economica dei cittadini, devono esser studiate dalla scienza economica: tuttavia la vita economica dello Stato è altra cosa dalla vita economica dei cittadini, sì che scienza delle finanze ed economia politica non coincidono. Cbi invece crede allo identità di indivìduo e Stato deve necessari ante me intendere tale identità come fondamento di quella di scienza delle finanze ed economia. Ma sul problema della riforma della scienza delle finanze avremo modo di tornare in altra sedezione, ecc.? A ognuno, secondo i suoi gusti e le sue capacità, risponde Peconomia pura, perché per essa tali problemi sono tanti quanti gli individui. Ognuno al suo posto secondo il fine unico dello Stato, risponde la nuova economia, perché per essa tali problemi si risolvono in uno solo. E i gusti si educano e le capacità ci creano: sì che al posto di tanti centri economici se ne mette soltanto uno, e all’incontro di tanti mondi si sostituisce un organismo consapevole. Organizzazione: ecco la grande realtà della vita civile in genere e della economia in particolare; ma organizzazione vuol dire organismo e l’organismo non può essere che unico: lo Stato. V’è poi l’organizzazione internazionale e sembra vi sia anche un organismo internazionale. E difatti esso esiste, ma in un senso diverso da quel che comunemente si crede. Se lo Stato ha un fine da raggiungere, risolve a suo modo tutti quei problemi economici cui abbiamo prima accennato, risolvendo la vita economica dei cittadini in quella della propria unità. Ma è chiaro che il fine non sarebbe raggiunto se lo Stato non operasse egualmente con gli stati, che tutti, direttamente o indirettamente, entrano in rapporto con esso. Scendendo anche qui a un esempio concreto, possiamo notare come l’Italia per industrializzarsi deve importare alcune materie prime e trovare i mercati di esportazione per i manufatti. Il che è possibile solo in quanto altri stati siano disposti a darci quelle e a comprare questi; vale a dire a divenire strumento di raggiungimento del fine che ci proponiamo. Ora, le condizioni necessarie perché gli altri diventino mezzi per il nostro fine sono essenzialmente due. Prima: che il fine che ci proponiamo sia davvero proposto, e cioè sia un fine consapevole; seconda: che si abbia la capacità di far divenire tale fine il fine economico degli altri stati. Perché la prima condizione si verifichi è necessario che lo Stato si identifichi con l’individuo, ossia con la nazione, e sia organismo unico, soggetto economico unico. Perché si verifichi la seconda è necessario che lo Stato si identifichi con Tumanità, ossia con la vita internazionale, risolvendo nel proprio organismo l’organismo internazionale. La forza dunque che ci può consentire di raggiungere il nostro fine è forza organizzativa di noi e degli altri, ossia la forza di collaborazione, in cui la lotta e la concorrenza vengano risolte come momenti dialettici. Vi sono, infatti, due modi di concepire la lotta e la concorrenza economica, come, in genere, ogni sorta di lotta: l’uno per il quale il fine della lotta è la distruzione dell’avversario, l’altro, invece, per cui il fine è l’unificazione delle volontà. TI primo è puramente negativo e infecondo, il secondo, momento necessario di ogni sviluppo e progresso. Ora, nel campo economico internazionale una lotta intesa nel primo senso non potrebbe avere alcuno scopo intelligibile all’ìnfuori di quello del distruggere per il distruggere. E ciò non può lasciar dubbio di sorta se si pensa che lo stesso effetto della distruzione sarebbe raggiungihile senza il minimo sforzo chiudendo i confini e facendo divenire l’economia nazionale un’economia chiusa. Se i confini restano aperti, è segno che gli altri stati non sono ostacoli da abbattere, ma forze da utilizzare, e utilizzare vuol dire coordinare le proprie forze per procedere in un’unica direzione. Allora la concor rema diventa — così come nel campo nazionale — voluta, disciplinata e subordinata al fine nazionale da raggiungere: il suo scopo non è più quello di eliminare delle forze avverse, ma di convertirle a una funzione che risulti più rispondente ai bisogni dell’organismo. 11 che si ottiene non lasciando che i concorrenti si urtino a vicenda seguendo i propri fini particolari, ma regolando la competizione verso la più opportuna divisione di lavoro. Che le conclusioni, cui siamo pervenuti, noti siano arbitrarie e utopistiche, lo dimostra, a chiunque abbia gli occhi per vedere, la trasformazione sempre più rapida del mondo economico nella direzione indicata. All’interno il processo di unificazione della vita economica ha fatto passi giganteschi e tutto fa pensare che il cammino sarà ancora più notevole nel prossimo avvenire. Il concetto di organismo economico va sostituendosi, nella realtà ancor prima che nella scienza, a quello di individuo o di homo o economicus, tra svalutando soprattutto i concetti di monopolio e di libera concorrenza. Sul terreno internazionale poi le intese e gli accordi economici sono sempre più frequenti e l’esasperazione della lotta doganale va richiamando sempre più l’attenzione generale sulla necessità di una organizzazione più salda e profonda delle forze economiche dei diversi stati. E anche qui la concorrenza va di fatto mutando i caratteri arbitrari di una volta, per rientrare nel circolo di un sistema dalla — lofi cui logica unità viene incanalata e corretta. È una disciplina certamente più ardua e instabile, data la immensità del mercato e la molteplicità degli elementi da controllare, ma solo i ciechi potrebbero negare 1 abisso che corre tra l’atomismo economico di alcuni decenni fa e l’ingranamento odierno d’infiniti centri economici in giganteschi organismi a carattere internazionale. Né l’urto e l’esasperazione di tanti nazionalismi sorti o rafforzati nel dopoguerra riescono ad arrestare questo processo di collaborazione internazionale, che è, d’altronde, l’unico strumento di un nazionalismo non illusorio. L’economia individualistica o liberale ha fatto il suo tempo e la realtà ce lo insegna additandoci le necessità della vita economica dentro e fuori i confini. Al dogma del liberismo e alla fede nella lotta incondizionata degli arbitri dei singoli va sostituendosi la convinzione critica dell’apriorità dell’organismo economico coincidente con la realtà dello Stato. E con la realtà deve ormai procedere la scienza, che, non avendo più a suo oggetto una molteplicità caotica e inintelligibile come quella presupposta dal liberismo. può cominciare a veder chiaro nella logica del1 organismo economico e trovare quei fondamenti sistematici che ha invano perseguito per due secoli. Dopo aver precisato il concetto di libertà economica e i rapporti tra economia nazionale ed economia internazionale è possibile procedere all’analisi della secolare antinomia tra liberismo e protezionismo. Nessun problema della scienza economica e stato tanto dibattuto come questo e l immensa letteratura sull argomento continua di giorno in giorno ad arricchirsi di nuovi saggi, che sostanzialmente si esauriscono nella ripetizione dei motivi fondamentali addotti dai fisiocrati in poi in favore dell’una o dell altra tesi. Ma, nonostante tutta questa mole di studi, sta di fatto che l'antinomia è rimasta teoricamente e praticamente insoluta, sì che liberisti e protezionisti continuano tuttavia ad accusarsi a vicenda di sproposilare nel campo scientifico e di rovinare, in pratica, l’economia della nazione. La soluzione classica del problema — conforme al motivo fondamentale della scienza dell’economia quale si è venuta configurando dal secolo XVI1T a — è quella rigorosamente liheristica. Muovendo dal presupposto del carattere naturale della vita economica, si è giunti a fil di logica alla eonclusione che. così negli scambi interindividuali come in quelli internazionali, le varie forze vadano lasciate affatto libere nel loro giuoco e che il risultato dell’anarchico incontrarsi e scontrarsi sia quello della loro più perfetta composizione. A tale teoria naturalistica degli scambi internazionali ha dato poi — come si è detto — nuova forza la scuola psicologico-matematica, che, giungendo, con Pareto, al concetto di ofelimità e frantumando, in tal guisa, il giudizio della economicità delle azioni nella molteplicità dei soggetti economici postulati, ha sottratto alla sfera di competenza dello scienziato e a quella dell’uomo politico la stessa possibilità di un giudizio obiettivo di valore. Intervenire negli scambi non si può perché si ignorano in modo assoluto le utilità soggettive di coloro che scambiano. L'opposta tesi protezionistica, invece, non ha mai trovato un fondamento ideologico così deciso e preciso e, sebbene confortata dal costante esempio storico di una politica più o meno antiliberistica, è rimasta nel campo scientifico in condizioni di evidente inferiorità. Il che spiega come essa nella maggior parte dei casi non abbia assunto le caratteristiche di una vera e propria teoria, ma si sia limitata a contemperare il rigore della concezione liberistica, mettendo capo a varie forme intermedie. E il compromesso ha finito, in sostanza, col trionfare nella letteratura scientifica più recente, sia per l’impossibilità di eliminare in modo assoluto i motivi della tesi protezionistica, sia per la sempre maggiore coscienza storicistica dei cultori dell’economia, costretti, volenti o nolenti, ad avvicinarsi alle nuove concezioni speculative. I tentativi di conciliazione si possono raggruppare intorno a due tipi principali. Gli ortodossi bauno mantenuto fede al postulato Veristico limitalidosi a confinarlo nel campo della così detta economia pura. Da un punto di vista astrattamente economico, essi dicono, resta incontrovertibile che ogni dazio protettore distrugge ricchezza: ciò non vuol dire, tuttavia, che in pratica sia da eliminare sempre e dovunque ogni sorta di barriere doganali; possono esservi, infatti, altre ragioni di carattere politico che consiglino l’intervento protettivo non ostante il danno economico da esso prodotto. Ma accanto agli ortodossi vi sono ormai parecchi esempi di economisti che, nello stesso ambito dell’economia pura, ammettono la possibilità di un dazio proficuo. Secondo essi, l'economia pura non può stabilire a priori se un dazio sia economicamente vantaggioso o dannoso: in certi casi la protezione, lungi dal distruggere ricchezza, è condizione necessaria per il suo accrescimento. A chi, direttamente o indirettamente, segua le tracce della vecchia economia sembra verità di carattere addirittura lapalissiano che con le soluzioni del problema ora prospettate si siano esaurite tutte le alternative possibili. 0 liberismo, o protezionismo o forme intermedie di compromesso: e la venta va cercata eliminando due di queste soluzioni. Ma chi ormai ci ha seguito nella critica della scienza economica e nella riduzione dei diversi indirizzi a quello classico liberale, può agevolmente rendesi conto dell’impossibilità di giungere a un risultato davvero conclusivo accettando i termini della questione e limitando l’indagine a una semplice scelta. Se il problema ha messo capo a queste tre alternative e fra di esse si è dibattuto per due secoli, è segno cb'esso è rimasto aderente a una determinala concezione scientifica e cbe è vano tentare ancora di risolvere l’antinomia, senza superare quella concezione e porre la questione in termini affatto diversi. Ma perché il superamento non sia illusorio e perché l’antinomia appaia nella sua assoluta irriducibilità, è necessario anzitutto chiarire la sostanziale identità dei due termini opposti. Occorre, in altre parole, dimostrare che liberismo e protezionismo non sono due soluzioni cbe si riportano a due diverse concezioni della vita economica, sì che l’errore dell'uno possa significare o per lo meno possa non escludere la verità dell'altro, bensì che l’uno e l’altro scaturiscono da uno stesso principio informatore e rappresentano l’antinomia interna di esso. L’errore dell’uno è lo stesso errore dell'altro, ed entrambi si spiegano con l’errore del principio di cui sono espressioni. Il principio, s’intende, è quello solito dell’individualismo economico. Si parte dal presupposto che le forze reali siano gli indivìdui nella loro autonomia e si pretende ch’essi soddisfino i loro bisogni nel libero giuoco della concorrenza, Nel caos in cui si scontrano le infinite forze individuali ognuna salvaguarda come può i propri interessi e cerca di trarre il massimo profitto possibile. Così come per la naturalistica legge della selezione, i migliori si affermano e trionfano, i peggiori sono travolti e soccombono: né mai altro equilibrio o composizione delle forze si instaura che non sia quello derivante dall urto disorganico e disordinato. Ora, in questa concezione liberistiea o individualistica del1 economia, la teoria protezionistica, se appare come una contraddizione alle leggi di natura e però sostanzialmente illogica dal punto di vista scientifico ortodosso, è tuttavia escogitata per servire allo stesso sistema della concorrenza di cui apparentemente è la negazione. Quando un’industria chiede un dazio protettore lo faesclusivamente per vincere la concorrenza, e il dazio si risolve in un aiuto a una delle forze concorrenti e non in una forza eliminatrice della concorrenza. Anche nel caso di un dazia proibitivo il fine ultimo è quello dì spostare e non di eliminare la concorrenza: i dazi, insonuna, non sono che altrettante forze gettate sul mercato per meglio resistere allumo e vincere nella lotta. Ma, con o senza dazi, la vita economica resta sempre quella primitiva o naturale di una bruta molteplicità di elementi contrastanti. Nel mercato internazionale come nel mercato interno si incontrano soggetti economici diversi, reciprocamente estranei fino al momento deH’incontro e che dal solo atto deirincontro debbono trarre norma per l’ulteriore difesa di propri fini particolari. Ragione della concorrenza è quindi il persistere di una molteplicità atomistica incapace di unificarsi, e il mercato, che è appunto la classica espressione dell’economia liberista, rappresenta il campo di lotta di individui (persone o nazioni) fino allora chiusi in mondi non comunicanti. Ambita Il carattere primitivo della vita economica fondata sul principio della concorrenza (compreso in questo termine l’intervento protezionistico) è dovuto, dunque, alla sua disorganicità o irrazionalità. Come il liberalismo politico di cui è la necessaria conseguenza, essa è il punto di partenza per il cammino della civiltà e non l’ideale della civiltà stessa. Il trionfo assoluto della concorrenza, lungi dal rappresentare, come pensano i liberisti, un ideale da raggiungere allorché sarà superata ogni sorta di pregiudizi antiscientifici, è soltanto una realtà che si perde nella notte del primitivo stato di natura, in quello stato precontrattuale che vagheggiava la mente del ginevrino. Il carattere irrazionale della vita economica fondata sulla concorrenza e sul protezionismo è dato appunto dalla irrelatività primitiva degli uomini e dei paesi, i quali rimangono gli uni fuori degli altri e non possono o non vogliono fondersi in un organismo unico. Credere che ogni forza economica possa rimanere autonoma e tuttavia ottenere il massimo di utilità possibile nello spontaneo equilibrio di tutte le altre forze, significa cadere nella più grossolana delle contraddizioni, in quanto si pretende far derivare la razionalità da un processo non razionale. Se razionalità vuol dire universalità, ossia unità di volere e di fine, è chiaro che il modo migliore di raggiungere il fine non potrà esser quello di ignorarsi reciprocamente e di procedere per vie diverse. La scienza dell’economia che finora ha teorizzato la libera concorrenza o la protezione è caduta in un errore che ha tutto compromesso.’in quanto ha cercato di dare le leggi di ciò che è ex ege.. e ha lasciato fuori proprio la vita economica razionale. Libera concorrenza e protezione sono al di qua di ogni norma per il fatto stesso che sono al di qua di ogni organismo: esse rappresentano ratinino, la natura, il male, il frammentarismo, la negatività, msomma, della vita; e fare scienza di esse vai quanto fare scienza del caso. La vera vita economica e quindi la vera scienza può sorgere soltanto allorché si comincia a uscire comunque dalla irrelatività e a unificare i mezzi e i fini da raggiungere. Se, in apparenza, la vita degli individui e quella delle nazioni è stata finora denominata dalla concorrenza e dal protezionismo e tuttavia ha proceduto nel cammino della civiltà, ciò è dovuto in realtà al fatto che, di là da ogni liherismo e protezionismo, si è andata sempre più affermando una intesa e una collaborazione di forze completamente sfuggita alla miopia degli scienziati. Accordo, collaborazione, organismo: ecco ì termini del problema, una volta superato il presupposto irrazionale dell’individualisnio. E tanto più è necessario porsi per questa via quanto maggiore è lo sviluppo della vita economica e dei suoi elementi essenziali. Se, infatti, si resta nei limiti di iorze individuali o quasi, la cieca competizione dà luogo a danni meno appariscenti e profondi: ma quando, come nella vita contemporanea, gli organismi economici sono diventati tanto complessi e grandiosi, andare avanti ignorando quel che faranno gli altri significa esporsi a crolli improvvisi e spaventevoli. Superate in gran parte nella vita economica interna le forme dell’individualismo e divenute normali le forme delle società anonime, delle banche, dei trust, ecc., continuare a tener fede all’individualismo nei rapporti internazionali diventa sempre più assurdo e pericoloso. La crisi economica mondiale è l’espressione più evidente e convincente di tale assurdo. Dunque: né liberismo, né protezionismo; nessuna, insomma, di quelle soluzioni che presuppongono l’autonomia radicale delle forze economiche. Anche qui l’obiezione più facile sarà quella che deriva da una grossolana ipostasi della lotta e della dialettica della vita. Ma, anche qui, è facile rispondere che c’è lotta e lotta, e che il camminodella civiltà sta appunto nel rendere sempre più elevata e spirituale la competizione e sempre più abnorme ed eccezionale la guerra. E della guerra e non della competizione hanno proprio i caratteri la concorrenza economica e la protezione, in quanto tendono a sopraffare e non a collahorare con l’avversario. La competizione che si deve instaurare è quella che ha per fine l’inciemento dell’organismo e si svolge quindi nell’ambito dell’organismo, non quella che ha, invece, per fine l'incremento dell’individuo (persona o nazione) visto nella sua particolarità irrelata. Dalia tesi teorica è molto facile scendere alla pratica applicazione nella vita politica. La realtà urge da tutte le parti e sta già facendo giustizia dei vecchi dogmatismi scientifici. Dobbiamo rendercene 9empre più consapevoli e affrettarne il procedimento. Le forme concrete di realizzazione sono naturalmente quelle die tendono all’unificazione dell’organismo economico mondiale. In primo luogo, lo studio internazionale delle forze economiche dei diversi paesi e delle vie più adatte alla loro collaborazione e fusione. E, in conseguenza, la politica degli accordi industriali e commerciali atti a realizzare quella fusione. La traduzione in pratica della tesi non avverrà tanto facilmente, né mai in forma assoluta. Ma, se questa è la mèta cui tendere, bisogna die il periodo di transizione sia informato alla coscienza del punto d arrivo. Voglio dire che nell’organizzare l’economia della nazione occorre dalle fin d’ora quella fisionomia che più risponde alla sua funzione specifica nel sistema dell’economia mondiale. Eliminando, per quanto è possibile, ogni sterile concorrenza, deve cercarsi un’affermazione dell’industria che assuma un’importanza essenziale nella vita del nostro e degli altri popoli. 11 nostro orizzonte deve allargarsi e non si può più pretendere di giovare alla nostra economia senza con ciò stesso giovare all’economia degli altri. Questa è la legge di ogni organismo e a questa legge deve essere informata anche la politica economica di un paese che voglia guardare sul serio all’avvenire. V è, abbiamo detto, una concorrenza superiore a quella comunemente intesa; ed essa si vince oggi ponendosi all avanguardia nel processo dell’unificazione. La grandezza economica di una nazione si instaura col darle un posto di primo ordine nell’organismo internazionale: chi ha la consapevolezza della via da seguire può concorrere più decisamente degli altri alla creazione di un organismo in cui far valere al massimo le proprie energie. Ma a quest'azione politica internazionale va accompagnata, s intende, una trasformazione adeguata della vita interna in modo da porla all’altezza di quella vita mondiale del cui rinnovamento ci si fa promotori. Per uscire dai termini generali e scendere al1 esempio pratico del nostro Paese, che dei fondamenti della nuova economia ha tentato prima e più degli altri una concreta attuazione, è facile precisare alcune conseguenze imprescindibili da cui trarre norma per l’avvenire. L’Italia è la prima nazione — si può aggiungere la Russia, ma per essa dovrebbe farsi altro discorso — cbe ba proceduto alla formazione di un sistema economico nazionale, attraverso l’ordinamento corporativo: ma i suoi sforzi, per quanto innovatori e fecondi, non possono raggiungere un risultato decisivo finché il suo sistema rimarrà un centro organizzato in mezzo a una vita mondiale disorganizzata. La vera vittoria del FASCISMO o del corporativismo si avvererà il giorno in cui avremo fascistizzato o eorporativizzato tutto il mondo. Fino a quel giorno avremo la possibilità di resistere un po’ meglio degli altri ai marosi dell’oceano, ma rimarremo in gran parte in balìa di essi. Primo compito, dunque, quello di persuadere il mondo della verità dell’economia corporativa e di farsi iniziatori di un sistema corporativo internazionale. Ma questo fine, a sua volta, implica la necessità di considerare fin d’ora il sistema corporativo italiano, non come un sistema a sé, chiuso e sufficiente nella sua autonomia, bensì come il sistema in cui si risolve tutta la vita economica mondiale. E alla realtà di questo più ampio sistema bisogna volgere gli occhi per la soluzione degli infiniti problemi propri della nostra nazione. Se, per esempio, nella soluzione del problema del grano consideriamo il sistema economico nazionale come un sistema chiuso, è chiaro che spingeremo al massimo la produzione fino al punto da non importare più un quintale dall’estero; ma se, al contrario, badiamo al sistema corporativo mondiale, i nostri sforzi tenderanno a raggiungere una produzione massima per ettaro coltivato, ma insieme a ridurre progressivamente la superficie coltivata. È evidente che una produzione che per reggersi ha bisogno di un dazio di 75 lire a quintale oltre a varie altre provvidenze legislative, e che non può sperare di modificare sensibilmente queste condizioni nell avvenire, deve rappresentare uno stadio provvisorio nel processo dell’organismo mondiale. Ben diverso è il problema dell’industria siderurgica e delle industrie meccaniche nella cui soluzione non si può affatto convenire con i teorici del liberismo. (Tanto è vero che l'economia corporativa è di là da ogni liberismo o protezionismo). Le industrie siderurgiche e meccaniche sono al fondamento di tutta la più alta industria moderna, e una nazione che vi rinunci, si suicida. Ma anche qui occorre non perdere d’occhio il sistema mondiale e quindi indirizzare tali industrie verso quelle forme superiori in cui il tecnicismo (preparazione e ingegno dei dirigenti e bontà della mano d'operai diventi fattore di produzione predominante fino a rendere trascurabile il maggior costo delle materie prime. Alla visione dell’avvenire, verso cui certamente si cammina a gran passi, contrasta la politica dell’oggi con altissime barriere doganali e con la sfrenata concorrenza. Ma se la logica è dell’avvenire -— ci dicono ancora gli scettici — intanto come si va innanzi? Dobbiamo togliere le barriere e dar ragione ai liberisti, ovvero dobbiamo elevarne ancora e difenderci a tutti i costi? La vita economica sociale, si è detto, è conoscibile scientificamente solo in quanto razionale e organica. Se il problema resta posto nei termini consueti della concezione individualistica, nessuna risposta può darsi ebe abbia valore di norma. Liberismo e protezionismo sono le soluzioni di uno stato di guerra, di un urto violento e indisciplinato; e in guerra, si sa, ci si difende come si può. Se un individuo viene affrontato, deve uccidere o deve corazzarsi? Tutte e due le soluzioni sono buone, ma certo sarebbe meglio che i due casi fossero eliminati e ebe gli avversari si dessero la mano, risolvendo in modo logico la ragione del contrasto. E così oggi nella vita economica internazionale: cerchiamo di affrettare il processo di razionalizzazione, e intanto andiamo avanti con o senza barriere doganali, secondo l’urgenza del momento e le particolari condizioni economiche e politiche. Lettera operici di Berlini a S.) Chiarissimo Professore, Intorno ai problemi dell’Economia corporativa ai è formala in breve tempo una vasta letteratura, ma di carattere — oom Ella afferma — piuttosto giornalistico, mentre i tentativi di rigorosa sistemazione scientifica della nuova materia sarebbero scarsi o poco notevoli. Di tale condizione di cose Ella chiama responsabili gli economisti della cattedra, i quali evitano di parlare di quei problemi, considerandoli pertinenti ad un indirizzo antieconomico e, per ciò stesso, estraneo alla scienza. Richiesto cortesemente del mio avviso, non voglio chiudermi in un silenzio che potrebbe essere interpretato come un adesione al modo di fare e di pensare, da Lei attribuito ai miei autorevoli eollegbi. Veramente, il mio tacere avrebbe avuto piuttosto lo scopo di prender tempo, innanzi di esporre un’opinione molto radicale, la cui elaborazione non è forse arrivata a termine nel mio proprio pensiero. Ma, se non è arrivata a perfetto termine, essa ha già fatto tal cammino, che il discorrerne non parrà intempestivo o inopportuno. Le persone di spirito non la troveranno neppure irritante. Io consento in quasi tulle le riflessioni da Lei svolte nell’articolo: «Verso l’Economia corporativa» — ma vado più diritto alla sede del male. Dico dunque, senza ambagi, che alcuni economisti fanno dell'Economia teorica una mezza scienza. Non « mezza » nel significato poco riguardoso di scienza superficiale, dalle conclusioni mal cucite alle premesse; ché anzi (io lo riconosco volentieri) da certe cattedre fluiscono ragionamenti, i quali partecipano del rigore delle matematiche. Dico mezza scienza nel significato dimensivo dei termini, ossia dottrina che nelle sue premesse fondamentali non ha gettato il seme diquestioni che pur le appartengono; questioni di vita della stirpe o di potenza della Nazione; questioni di interventi o non interventi dei poteri pubblici nei rapporti d’interesse privato; questioni anche di scuole o di parLiti economico-politici. Certo, ogni buon professore sa trattarne, e spesso ne tratta in apposite lezioni dedicate alla politica economica, alla storia delle dottrine, ecc.; ma altro è che ne discorra fuori sistema, per la coltura generale de’ suoi allievi, senza sentirsi obbligato a farlo dalla forza delle premesse; ed altro è che ne discorra, perché così esige lo sviluppo logico degli enunciati, previdentemente inseriti in uno schema introduttivo della disciplina. Ora, il problema dell’ordinamento corporativo, al pari di altri consimili, non è discusso affatto (a quanto sembra) o è discusso « fuori sistema » a titolo semplicemente informativo. Esso appartiene alla... seconda metà della scienza — quella che non s’insegna come scienza, ma piuttosto come storia — e invano ne cercheremmo nella prima metà i cardini d’attacco o i motivi prenionilorii. Ciò dipende anzitutto, a mio avviso, dalla ripugnanza che provano non porhi economisti ad accogliere nei loro preliminari scientifici il concetto dello Stato, quale fattore della produzione. Tale disposizione d'animo non si giustifica menomamente. Il processo della ricchezza è la risultante di due fasci di forze componenti: l’attività individuale, singola o associata, e l’attività dell’organizCfr. La critica dell'economia liberale. Milano, Treves. zazione politica, di cui lo Stato è l’espressione suprema. I punti d'applicazione di queste forze (diciamoli cosi per completare la similitudine coi fatti della meccanica) son da ricercare nella stessa ricchezza esistente al momento iniziale del processo — ricchezza in gran parte d’origine ereditaria, cioè prodotta da anteriori generazioni. Fa della scienza a metà colui che si ferma alla prima componente e tace della seconda o l’assume come « costante » lungo tutta la linea di condotta della sua disciplina. Lo Stato, che provvede alla difesa nazionale, alla sicurezza, alla giustizia, alla viabilità, all'istruzione, ecc., e trasforma così buona parte della ricchezza privata in potenza collettiva (che rigenera ricchezza), è un produttore continuo di beni, servizi e ordinamenti aventi carattere di stretta complementarità coi beni, servizi e ordinamenti dell’iniziativa privata. E come questi secondi si sviluppano in quantità e varietà, col progredire dell incivilimento, e fanno luogo a rapporti viepiù complessi o differenziati tra gli individui o i gruppi, così i primi, cioè i loro complementari forniti dallo Stato, non hanno colonne d’Èrcole che li fermino ad un punto obbligato. Lo sstato è coevo all’uomo, ché la prima famiglia umana fu in embrione un impero. I caratteri di necessità e immanenza, che gli son proprii, non ammettono che si prescinda da esso per astrazione, come se fosse una circostanza secondaria, accidentale o di semplice perturbazione. Basterebbe un momento d’incertezza nella vita dello Stato per rompere tanti fili nel tessuto della società, da gettare il disordine in ogni specie di operazioni. Voler vedere in esso anzitutto un elemento perturbatore dell’attività spontanea dei privati e dei loro calcoli edonistici, è generalizzare solo a suo carico difetti di funzionamento che non sono né più rari, né meno gravi presso i singoli individui. Si può invece assumere lo Stato come una costante fin che l’assunto giovi alla soluzione di problemi in prima approssimazione; ma per conclusioni più aderenti alla realtà è mestieri rivedere da vicino il valore della costante. E allora si scorge che costante non è. Lo Stato è un organismo in evoluzione, ad immagine degli uomini che lo compongono e soprattutto ad immagine degli uomini più rappresentativi di interessi, dì 126 ideali, di temperamenti, che esercitano una influenza sulla legislazione e si avvicendano al potere. Qui cessa d’esser valida la similitudine presa dai fatti della meccanica. Nelle scienze l’uso dei trafilati, che sono spedienti proprii delle belle lettere, vuoisi fare con cautela e sobrietà. Coloro invece che vi insistono a fondo, trattando le forze evolutive dell’uomo, come se fossero le forze rigide della fisica, non scrivono l’economia dell’homo sapiens, ma dell’uomo-macchina, tutto ruote dentate e molle di precisione. Può l’eeonomista addurre a sua scusa che Io studio della componente Stato appartiene ad altre discipline? L’eccezione d’incompetenza sarebbe irricevibile. Ad altre discipline spetterà di considerare lo Stato ir relazione ad altri scopi della vita, che non siano la costituzione della ricchezza; ma per questo particolare scopo, che implica la conoscenza di due variabili essenziali e interdipendenti, l’egoismo individuale e lo spirito di solidarietà nella sua più imperativa espressione che è lo Stato, sarebbe strano che il più interessato ad averla, non la volesse avere che per una delle variabili e chiamasse pura anziché incompleta la teorica innalzata su base siffatta. Ho insistito varie volte su questo punto: non esserci Ira 1 homo oer.onomicus e il cittadino ( civis ) soluzione di continuità. La moda di oggigiorno è quella di separare una figura dall altra. Ma se c’è qualità che non si possa isolare dal soggetto dell’economia politica se non per un capriccio dialettico, è proprio quella del cittadino. Essa lo segue come l’ombra il corpo. L’individuo può essere dotto o indotto, credente o miscredente, originale o imitatore, padre o non padre di famiglia; ma cittadino lo è sempre. E come tale spiega un'influenza più o meno grande sulla formazione del costume e su quella del diritto. L’àomo ceconomicus, dunque, inseparato dal cittadino, è creatore del diritto. Ecco scoprirsi alla nostra veduta l’aspetto genuino della questione. Tutti veniamo al mondo con un patrimonio ereditato, che può variare da zero a qualche miliardo di nostra moneta; ci presentiamo alla carriera della vita, come ad una gara di corsa, movendo da posizioni iniziali vantaggiose o svantaggiose. La distribuzione dei corridori in posti di partenza diversamente avanzati rispetto al traguardo, non è per anco entrata nelle regole sportive ma certamente fa regola nel mondo economico. Anzi, il primissimo capitolo da scrivere in Economia — dopo la definizione e un po’ di nomenclatura — dovrebb’essere proprio quello delle posizioni iniziali più o meno avanzate (leggasi: distribuzione più o meno equa della proprietà) che la sorte e la legge ci assegnano al nostro nascete, perché da esse dipendono molte cose: educazione d’ambiente, modi di sentire riguardo al valore dei beni e dei servigi, professioni preferite, capacità di resistenza nei contratti, possibilità (grazie al diritto successorio e al fenomeno dell’interesse del capitale) di far vivere una discendenza infinita su una quantità finita di ricchezza. E così via. Ond’è con meraviglia che vediamo gran parte degli economisti e l’autore stesso della felice similitudine posizioni iniziali relegare la premessa in capitoli terminali dell’insegnamento o in separata sede; insomma, fare dell’Economia teorica una costruzione senza la chiave di volta, che le è necessaria per reggersi in piedi in tutta la sua interezza. I fatti dimostrano che l’uomo (chiamisi pure l’uomo economico) venuto al mondo senza i favori della sorte, cioè in posizione iniziale svantaggiosa, si industria come cittadino, a modificarla in meglio per sé o per la sua classe, influendo, come può, sulla legislazione; e se ci venne in posizione favorita s’industria, come cittadino, a conservarla. Le armi a ciò non sono tutte dell’arsenale economico, perché una delle parti in campo, già per ipotesi non ne possiede; se le possedesse in pieno, vorrebbe dire che disuguaglianza di posizioni non c’è, e non c’è la ragion del contrasto. Le armi, allora, sono quelle del cittadino: la scheda elettorale, la lega di resistenza, lo sciopero, ecc. ; e le chiamo del cittadino, in quanto presuppongono il riconoscimento di libertà e diritti che a poco a poco fanno mutare ilviso e l’animo al legislatore. Or si domanda: questo giuoco di azioni e reazioni potendo riuscire pericoloso alla collettività, ossia agli stessi combattenti e ai semplici spettatori, a chi toccherà di regolarlo nell interesse della pacìfica collaborazione delle classi? A chi, se non allo Stato, a cui fanno capo tutti i problemi attinenti alla coesione sociale? Ed ecco come dalla considerazione del cittadino — qualità inseparabile dal soggetto dell’Economia politica — arriviamo al regolamento dei contrasti di classi, come ufficio di competenza dello Stato. Che il regolamento sia bene o male idealo, che il servizio valga o non valga quello che costa, sarà questione subordinata da risolvere in Economia applicata, se l’altra Economia teme di perdere della sua purezza. Il fatto che il regolamento implichi un costo, non costituisce motivo perché si debba riguardarlo come un affare antieconomico ed estraneo alla scienza. Chi afferma questo, dimentica che i beni, i servizi, gli ordinamenti che lo Stato crea, non li crea ex nihilo ; il rapporto in cui stanno coi beni, servizi, ordinamenti prodotti dall’iniziativa privala è di stretta complementarità, complementarità ebe deve intendersi nel duplice rispetto, delle utilità e dei costi. Gl’economisti, che vedono nell'aumento di spese generali delle aziende una ripercussione, a tutta perdita, dell’assetto corporativo della Nazione, si mettono da un punto di vista unilaterale, quello degli imprenditori; ed anche in questo riducono la loro scienza ad una mezza scienza. L’assetto corporativo fu pensato nell’interesse di ambo le parti: imprenditori e lavoratori; meglio ancora, fu pensato nell'interesse generale del paese. La disciplina restituita al lavoro, lo spirito di concordia che va informando ogni giorno più i contratti collettivi e il valore morale della magistratura che veglia sulla loro osservanza e sui mutamenti delle condizioni del mercato, sono vantaggi, che non si misurano in moneta, come non si misurano in moneta quelli di una efficace organizzazione della giustizia, della sicurezza, dell’istruzione o della difesa nazionale. Si ripensa forse con nostalgia ad un’economia prettamente individualista? Senza dubbio essa, limitando all’estremo le funzioni dello Stato, riduceva al minimum le spese dell’azienda pubblica e di riflesso alleggeriva il carico alle private imprese; ma lasciava esposti ad un maximum di rischio i buoni rapporti delle classi, Che le poche funzioni attribuite allo Stato erano giusto quelle desiderate dai cittadini delle posizioni favorite, ai quali faceva comodo che la macchina collettiva da produrre il diritto e la forza esecutiva del diritto, lavorasse a conservarle. Ma era inevitabile che gli altri cittadini ruminassero a farla lavorare altrimenti, prendendone in mano le leve, di forza o di sorpresa. Quindi lotta aperta o insincera collaborazione di classi. Molti molto si aspettano da un sistema collettivista. \ogliono, dunque, un maximum di funzioni dello Stato, il sistema implicando la trasformazione, graduale o di impeto, dei servizi oggi resi dalla privata proprietà e dalla libera concorrenza in servizi pubblici. Ma quel maximum si accompagnerebbe ad un minimum di rendimento del lavoro e delle libere iniziative. Tale la previsione più ragionevole. D'altronde lo sfruttamento del1 uomo per l’uomo, cacciato dalla porla rientrerebbe dalla finestra, perché esso è un fenomeno generale, non del1 officina soltanto, ma dell’ambiente stesso della famiglia, di quello delle amicizie, dei partiti politici, ecc.; ha radici nella natura umana. Il sistema socialistico ne svilupperebbe in un senso la fioritura, come il sistema individualistico la sviluppava in un altro senso. L’assetto corporativo nazionale si tiene egualmente lontano dai due estremi: mira ad attuare un maximum di rendimento del lavoro con un minimum di attriti fra le classi sociali e di ritardi per il progresso civile della nazione. Se non è il sistema perfetto, è perfettibile. Avrei altro da dire, ma la lettera aperta vuol essere chiusa. Le sono quasi grato, caro professore, d’avermi indotto a scriverla. Che, alla mia età, si può anche promettere un trattato di Nuovi principiì, ecc.; ma difficile e mantenere la promessa! Devotissimo Benini 5 S m bit* La lettera che precede fu pubblicata in Nuovi Studi di diritto, economia e politica ed era seguita da un articolo di Fnvel su L’individuo e lo Stato nella scienza economica in cui si discutevano alcune mie affermazioni. Al Bellini e a Fovel rispondevo con le pagine seguente. Il tentativo compiuto da questa rivista per un primo orientamento nello studio dell’economia corporativa comincia a dare i suoi frutti, e già si veggono chiarite alcune posizioni fondamentali, che consentono una certa disciplina nell’ulteriore ricerca. I due scritti pubblicati in questofascicolo — la lettera aperta del Benini e l’articolo di Fovel — sono due sintomatici documenti di quella svolta decisiva nella storia della scienza economica che deve ormai risultare evidente a chiunque abbia una mentalità non irretita da pregiudizi dogmatici. Ma il risultato raggiunto è soprattutto notevole perché il significato della svolta è stato reso esplicito e ìnequivocahiìe, ed è stato posto il criterio fondamentale per le nuove costruzioni scientifiche. Si è usciti — ìai insomma dallo stato dì disagio proprio di chi, pur insofferente del vecchio, non conosce ancora la nuova via da intraprendere ; e si è posto un quesito che non può più restare senza una risposta categorica. Benini, con squisita ironia e con una critica che va anche al di là delle sue affermazioni esplicite, ha accusato senz’altro l’economìa teorica di essere una mezza scienza, e mezza « nel significato dimensivo dei termini, ossia dottrina che nelle sue premesse fondamentali non ha gettato il seme di questioni che pur le appartengono; questioni di vita della stirpe o di potenza della Nazione; questioni di interventi o non interventi dei poteri pubblici nei rapporti d’interesse privato; questioni anche di scuole o di partiti economico-politiei. Certo, ogni buon professore sa trattarne, e spesso ne tratta in apposite lezioni dedicate alla politica economica, alla storia delle dottrine, ecc. ; ma altro è che ne discorra filari sistema, per la coltura generale de’ suoi allievi, senza sentirsi obbligato a farlo dalla forza delle premesse; ed altro è che ne discorra, perché così esige lo sviluppo logico degli enunciati, previdentemente inseriti in uno schema introduttivo della disciplina. Ciò dipende, continua Benini, anzitutto dalla ripugnanza che provano non pochi economisti ad accogliere nei loro preliminari scientifici il concetto dello stato, quale fattore della produzione. Tale disposizione d’animo non si giustifica menomamente ». E non si giustifica perché lo Stato è coevo all’uomo », perché tra 1 homo (Economicità e il civis non ci può essere soluzione di continuità, perché infine solo per un capriccio dialettico » è possibile isolare la qualità del cittadino dal soggetto dell’economia politica. Né meno categorico è l'atteggiamento di Fovel, il quale prende atto « che la scienza — ripetiamo ancora: la scienza nel suo stato più puro — è negativa di fronte alle scelte statali, le esclude da sé, non le mette neanche, a rigore, nel novero delle scelte, è, insomma, negativa di fronte allo Stato. Ciò può essere venuto per le origini antistatali della scienza economica stessa; oppure per un incolpevole e vergine oblio teorico: oppure insomma (sia detto con la massima prudenza) per un errore, che la ha viziata fin qui. Lasciamo andare: il nascere del fatto poco ei importa. E ci importa, invece, il fatto stesso, che è questo: per la scienza l’ipotesi statale, o, meglio, lo Stato-ipotesi è (oppostamente aH’individuo-ipotesi) la non economia; e lo è solo, e solo perché la scelta statale implica per definizione, la non libera scelta individuale ». 11 quesito, dunque, che si pone oggi alla scienza può formularsi brevemente così. È lecita ed è scientificamente giustificabile una costruzione sistematica dell’economia pura che prescinda dal concetto dì Stato e dal rapporto tra Stato e individuo? E in caso negativo, in quale senso tale concetto va introdotto nella scienza e a quali conseguenze teoriche deve condurre? Questo, il punto di partenza per un’intelligenza critica dell’economia corporativa, e ci sembra ormai che nessuno onestamente possa eludere il problema con una fin de non recevoir. Finché il corporativismo s’intende come una mera esperienza pratica, i puristi possono disinteressarsene, chiusi come sono nel loro preconcetto dualistico dei rapporti tra scienza e politica, ina quando esso si traduce in una perentoria istanza teorica, bisogna pur decidersi ad accogliere o a respingere criticamente. E noi ci auguriamo di avere dall’esperienza dei maestri un valido aiuto all’attuazionedel nostro programma. Una volta posto il problema in siffatti termini, il primo punto da chiarire e da precisare concerne, naturalmente, il significato stesso da attribuirsi al termine Stato e, correlativamente, al termine individuo. E su tale punto conviene insistere con molta perseveranza, soprattutto perché il concetto di Stato sembra a prima vista il più semplice ed evidente che ci sia, sì da poter su di esso costruire senza preoccupazioni di sorta; ma la sicurezza, poi, con cui si procede su tale terreno viene subito a mancare appena si cessi dal presupporre noto il conceLto e si tenti di determinarlo effettivamente. 11 che ci sembra di poter dimostrare alla luce degli stessi scritti sopra accennati. 11 Benini parla dello Stato, come di chi provvede alla difesa nazionale, alla sicurezza, alla giustizia, alla viabilità, all’istruzione, ecc., e altrove osserva che il processo della ricchezza è la risultante di due fasci dì forze componenti: l’attività individuale, singola o associata, e l’attività della organizzazione politica, di cui LO STATO è l’espressione suprema. Ora, questo linguaggio implica un dualismo irriducibile di Stato e individuo, e per quanto il vigile senso di concretezza che ispira Benini lo conduca a concepire i rapporti di complementarietà delle due forze nel modo più in134 timo e indissolubile, sussiste tuttavia una radicale contrapposizione di funzioni e di finalità che compromette il sistema, Tanto è vero che il Benini avverte infine il bisogno di mettere in guardia contro la tendenza di attribuire « un maximum di funzioni allo Stato, perché « quel maximum si accompagnerebbe ad un minimum di rendimento del lavoro e delle libere iniziative ». L’assetto corporativo sarebbe ottimo sol perché « si tiene egualmente lontano dai due estremi. Inutile dire che la critica contro il collettivismo, ripetuta da Benini e mossa da tutta l’economia lihcrale a quella socialista, è esatta nella diagnosi e nella conclusione, ma occorre tener presente che il socialismo è superato sol perché è superato  il concetto di Stato ch’esso implica, e che è quello stesso del liberalismo, dal quale non riesce a staccarsi neppure il Benini. Lo stato, cioè, è circoscritto a un ente immaginario, in limiti imprecisabili, e con personalità essenzialmente distinta da quella degli individui che lo compongono. Si cambia cioè 10 Stato con un organo centrale, relativamente estraneo alla vita della nazione e perciò sopraffattore delle energie individuali. Di quest’organo — che è poi la burocrazia — a ragione si diffida e giustamente si protesta contro l’attribuzione che a esso si voglia fare di un maximum di funzioni. Ma questo è lo Stato ancien regime, al quale il FASCISMO deve opporsi con tutte le sue forze, perché essenzialmente contrario al suo spirito; lo Stato non deve essere, non è, un organo fuori delTorganismo, una sovranità opposta ai sudditi, una realtà sui generis diversa dal cittadino: lo Stato, insomma, non è più quello contro cui insorgeva il secolo elei lumi e che si è trascinato come misero residuo nella storia del liberalismo. Lo Stato s’identifica con l’individuo, in una sintesi idealmente assoluta, e, di fatto, sempre più realizzabile e realizzata. Se noi cercassimo infatti di precisare i confini dello Stato ci accorgeremmo subito di questo progressivo suo immedesimarsi nella vita della nazione. Dallo Stato alle provincie, ai comuni, agli enti parastatali, agli enti morali è tutto un lento compenetrarsi della vita pubblica in quella privata, sino all’esperienza rivoluzionaria del FASCISMO che, prima sul terreno più strettamente politico dell organizzazione del partito, poi, e ben più radicalmente, su quello dell’organizzazione sindacale, ha posto decisamente l’esigenza di un combaciamento assoluto della sfera dell’attività statale e di quella individuale. Lo stato contro il quale nacque il liberalismo è veramente morto eoi morire dello Stato propugnato dallo stesso liberalismo. E continuare oggi a discutere dello Stato, illudendosi di poterlo individuare entro quei limiti in cui lo si individuava nel Settecento, significa perpetuare un equivoco di gravissimo pregiudizio per tutte le scienze sociali. Il potere dello Stato non ba limiti e chiunque tentasse di determinarne le funzioni resterebbe fatalmente a mani vuote: ogni determinazione della sua sfera rispetto agli individui sarebbe fondamentalmente erronea. Ritornando ora alle esemplificazioni del Bellini è facile spostare i termini del problema: uno Stato comequello concepito dal fascismo, non provvede soltanto « alla difesa nazionale, alla sicurezza, alla giustizia, alla viabilità, all istruzione, ecc., ma provvede a tutto perché è immanente a tutto. Ed esso perciò non può rappresentarsi come un fascio dii forze da aggiungersi all’altro delle attività individuali, bensì come le stesse forze individuali nella loro vita solidale. Di quest unica vita sono manifestazioni tutti i poteri pubblici e privati, centrali e periferici: e, nel campo economico, il bilancio dello Stato, quello degli enti pubblici, degli enti para¬statali e morali, delle organizzazioni di partito e sindacali, e infine di tutti i cittadini, che tutti nello e per lo Stato vìvono. Ogni barriera che si volesse porre a un punto della serie sarebbe affatto arbitraria e irragionevole. E si comprende, dunque, come 1 ideale del corporativismo non debba esser quello dì rimanere egualmente lontano dai due estremi (sopravvento dell’iniziativa privata o della pubblica), bensì di rendere insussistente il problema eliminando ogni differenza tra l’essenza delle due iniziative. Certo, se per Stato s’intende la burocrazia, affidare ad essa l’economia nazionale non può non essere una mostruosa utopia: ma lo sforzo del FASCISMO deve essere appunto quello di sburocratizzare lo Stato, elevando ogni cittadino al grado di funzionario pubblico. Il processo di trasformazione non è dei più facili e dei più rapidi: v’è anzi il pericolo di periodi di transizione in cui il fenomeno burocratico si aggravi, e dia luogo a nuovi inconvenienti. Si pensi che l’organizzazione sindacale e corporativa, prima di aderire in modo soddisfacente alla realtà, è destinata in gran parte a pesarvi su come una soprastruttura — vale a dire come una burocrazia. Ma gli ostacoli non debbono arrestare ilcammino, anzi debbono porre la necessità di accelerarlo, sì da superare con energia sufficiente gli inevitabili punti morti. E per accelerare il ritmo, a me sembra che uno dei mezzi {ondamentali debba essere fornito dalla scienza, la quale deve sgombrare il terreno dai pregiudizi teorici che arrestano, con la forza della tradizione, la stessa mano dell’uomo d’azione. L immedesimazione assoluta della vita dello Stato con quella dell’individuo dà il criterio preciso della riforma della scienza economica, la quale, dunque, non è « mezza scienza nel significato dimensivo dei termini), vale a dire nel senso di essersi occupata dell’individuo (una delle componenti) e non dello Stato (l’altra componente), ma mezza proprio nel significato deteriore di scienza fondata su premesse erronee, e propriamente sull’ipostasi di un individuo e di uno Stato inconcepibili, o concepibili soltanto come manifestazioni patologiche (individuo anarchico e Stato tiranno. ÀI quale ulteriore concetto sembra accennare Fovel nella chiusa del suo articolo quando dice che per colmare l’iato tra le scelte dette libere dell’individuo e le scelte dette non libere dello Stato (si può tentare di mostrare che anche le sedicenti scelte libere dell’individiio non sono libere, ma economicamente imperative, quanto quelle statali; e ciò perché sono esattamente prescritte dalle scelte pure libere degli altri individui, ossia dalla società economica. Oppure si può tentare di mostrare che anche le cosidette scelte non libere dello Stato sono libere, né più né meno che le scelte individuali; e questo perché anche le scelte dello Stato non sono altro, anch’esse, che scelte di individui nella società economica. Senonché per Fovel, Stato e individuo hanno ancora una loro particolare personalità, e lo Stato conserva una fisionomia corpulenta, che rende estremamente difficile il processo di risoluzione della sua autorità nella libertà degli individui e viceversa. Quando l'iato sarà effettivamente colmato, il vero concetto di libertà economica apparirà in tutta la sua luce e le forme stereotipate della libera concorrenza e del monopolio, che restano a fondamento della costruzione del Fovel, si risolveranno in uno schema economico ben altrimentiadeguatoalla realtà.II SE ESISTA, STORICAMENTE, LA PRETESA REPUGNANZA DEGL’ECONOMISTI VERSO IL CONCETTO DELLO STATO PRODUTTORE. Alla lettera sopra riportala del Benini rispose anche L. Einaudi con il seguente articolo pubblicato in Nuovi Studi. Renini, 1. Mi è accaduto solo adesao di leggete, una tua suggestiva lettera aperta pubblicata nel lasci colo di gennaio-febbraio di quest’anno dei Nuovi Studi-, suggestiva, perché costringe a pensare e a dubitare. Le questioni « di interventi o non interventi dei poteri pubblici nei rapporti d’interesse privato; questioni anche di scuole o di partiti economico-poi itici », sarebbero di quelle questioni che dagli economisti sono discusse fuori sistema; apparterrebbero a quella « seconda metà della scienza, quella che non s’insegua come scienza, ma piuttosto come storia ed invano ne cercheremmo nella prima metà i cardini d’attacco o i motivi premonitorii. Quale la spiegazione del fatto? fecondo te, eaao « dipende anzitutto dalla ripugnanza che provano non pochi economisti ad accogliere nei loro preliminari scientifici il concetto dello Stato, quale fattore della produzione ». E benissimo aggiungi: «Tale disposizione d'animo non si giustifica menomamente. Il processo della ricchezza è la risultante di due fasci di forze componenti : l’attività individuale, singola o associata, e l’attività dell’organizzazione politica, di cui Io Stato è l’espressione suprema... Fa della scienza a metà colui che si ferma alla prima componente c tace della seconda o l’assume come « costante » lungo tutta la linea di condotta della sua disciplina. Lo Stato, che provvede alla difesa nazionale, alla sicurezza, alla giustizia, alla viabilità, all’istruzinne, ccc., e trasformacosì Intona parte della ricchezza privala in potenza collettiva (che rigenera ricchezza), è un produttore continuo di beni, servizi e ordinamenti aventi carattere di stretta complementarità coi beni, servizi e ordinamenti dell’iniziativa privata ». 2. Chiudo qui la citazione, perché, altrimenti, dovrei riprodurre tutta la tua bella lettera. Né la chiudo, per ridiscutere il problema della parte avuta dallo Stato nella produzione della ricchezza; ma esclusivamente per porre un problema di storia: chi sona quei cotali economisti (non pochi, dici tu, e dal contesto del discorso sarebbero i più, sicché occorre affermare contro di essi, quasi come teoria nuova, la tesi dello Stato come fattore necessario e inscindibile della produzione), M i quali repugnerebbero ad accogliere nei loro preJ ) Appunto perché non intendo menomamente intervenire nella sostanza della discussione aperta Ira te ed il prol. Spirito : ma soltanto porre un dubbio storico su ehi e quanti siano coloro quali reputarono alla tesi da te posta, così non discuto la critica che a queeta tesi muove lo Spirito: implicare dessa, sebbene materiata di realtà, un « dualismo irriducibile di Stato ed individuo » oramai superato dalle nuove concezioni dello Stato, le quali identificano lo Stalo con l’individuo «in una sintesi idealmente sssoIma, e, di latto, sempre più realizzabile e realizzata ». Vero è che, incidentalmente, lo Spirito afferma ebe il suo dualismo è implicito nel « linguaggio a da le adoperalo. Il che porterebbe a chiedersi se, per avventura, non si traiti di un contrasto — Ira la tua (e quindi fra quella degli economisti ebe io tento di dimostrare essere identica alla tua) e la tesi di S. — più di linguaggio — di terminologia, che di parole. Se io possedessi la meravigliosa facoltà «he in sommo grado aveva il compianto amico Vadali di tradurre una qualunque teoria dal linguaggio geometrico in quello algebrico, da quello edonista in quello della morale kantiana, dalla termino limiaari scientifici il concetto dello Stato come fattore della produzione? La domanda non è impertinente. È rosi supremamente difficile sapere chi, in economia, ha detto o non detto qualcosa, ei è dichiarato fautore od avversario di un certo indirizzo, o teoria, soxT-attutto è cosìstraordinariamente difficile riprodurre, anche usando il massimo scrupolo, esattamente il pensiero altrui che forse, penso, sarehhe opportuno non citare mai nessuno e non attribuire ad altri, neppur ricordati genericamente, un qualunque pensiero. 3. La mia impressione è che di codesti negatori o dimentichi dello Stato, non ce ne siano oggi e non ce ne siano stati mai tra gli economisti. Non bisogna scambiare per negazione o repugnanza atteggiamenti mentali profondamente diversi. Se l’economista intendeva compiere una ricerca del tipo che diceBi astratto  — ed i classici conseguirono i loro maggiori successi per tal via — era ovvio ragionassero sulla base di premesse semplici, ridotte talvolta ad una sola, e giungessero a conseguenze vere nell’ambito delle premesse fatte. Se tra le premesse non aveva luogo lo Stato, sarehhe illogico tuttavia affermare che essi lo negassero o vi repugnassero. Anzi, il loro stesso procedimento logico dilogia economico pura normativa in quella applicala precettistica, potrei tentare di ritradurre la pagina dello Spirilo nella formuliallea tua, orna economialica classica. Sarebbe un esercizio feconda, simile a quelli di cui racconta Loria, da lui intrapresi in gioventù; di RBporre 6uccessivamenie una data dimostrazione economica prima in linguaggio di Smith, e poi di Ritardo e quindi di Marx, di  Mill e di Cairnes. Ma sono esercizi che vanno, come faceva Loria, dopo fatti, ripoBti nel cassetto. Giovano ad ingegnate la umilio ad ognuno di noi, quando per un momento ci illudiamo dì aver visto qualcosa di nuovo. Perché se questo novità poteva essere stala delta con le loro parole e inquadrarsi nel pensiero dei vecchi, segno è che quel qualcosa era contenuto in quel pensiero. Ma non posaono né devono impedire cheogni generazione usi quel linguaggio che meglio si adatta al modo suo di pensare e d’inlendere il mondo. Si riscrive la Binria ; perché non si dovrebbe riscrivere la scienza economica, prima in termini di costo di produzione, e poi di utilità e quindi di equilibrio statico e poi di equilibrio dinamico?  mostrava che essi affermavano la esistenza dei fattori esclusi e riservavano ad allra indagine il tenerne conto. Si può criticare il metodo, si può cercare di dimostrare che con quel metodo non si può giungere alla scoperta della verità; non si può tuttavia dire, senza offesa alia verità storica, che a causa della adozione di quel metodo essi negassero la esistenza dei fattori da eui in prima approssimazione astraevano. Tanto poco negavano o repugnavano che, per lo più, quando esei dall’indagine astratta si voltavano alla concreta, dalla costruzione di schemi ipotetici passavano allo studio dei problemi reali, ossia complessi e vivi, essi per lo piò facevano nelle loro discussioni gran parte allo Stato. 4, Si può ammettere, sebbene storicamente si debba andare assai guardinghi nel fare affermazioni generali in proposito, che gli economisti, a partire dai membri della « setta » fisiocratica, attraverso a Smith sino a Mill non compreso, siano stati contrari all’intervento dello Stato e favorevoli al laissez faire, laisser passar. Ma fu già dimostrato (c(t., per le fonti, una mia recensione del libretto The end oj laissez-faire del Keynes, in La Riforma Sociale) che siffatta contrarietà non era teorica, ma puramente contingente. l 'avversione all’intervento dello Stato non aveva cioè alcuna connessione logica necessaria coi postulati fondamentali della dottrina economica, non faceva corpo, come dici tu, con i cardini d’attacco della scienza; ma discendeva da ragioni contingenti. L’osservazione degli effetti dannosi delle vecchie corporazioni d’arti e mestieri, e del vincolismo economico e doganale spiegano abbastanza il liberalismo di Adamo Smith e dei classici. Dopo le ricerche di Nicholson in A Project oj empire (di cui il concetto dominante è che per lo Smith la considerazione delTacquisto della ricchezza deve cedere dinnanzi aquella della difesa ossia della grandezza dello Stato: de.je.nce is oj much more impor lance than opulence)-, dopo Laureo libretto di  Schùller, Les économistes classiqu.es et leurs adversaires fin cui viene dimostrato, testi alla mano, che la accusa rivolta agli eco-Doratati di avere creato un fantoccio (il eosidetto homo rp.conomicus] avulso dai luoghi, dai tempi, dalla storia, c di aver dato ad un puro strumento di indagine figura di realtà concreta o storica, è una invenzione gratuita dei loro avversari socialisti, socialisti della cattedra, economisti storicisti, ecc. eec.], non è più lecito attenersi ad una tesi dimostrata. all’iiifuori di ogni dubbio, contraria alla verità storica. Quegli stessi economisti, i quali affermavano i danni di certe determinate maniere di intervento dello Stato reputate feconde di male, altrettanto recisamente affermavano la necessità rii quell’azione (azione e non intervento, ae la parola intervento implica il concetto che lo Stato si immischi sempre in cose non sue] nelle maniere che reputavano più confacenti all’indole dello Stato e più vantaggiose alla collettività. 5. S'intende che sempre fu d’uopo non occuparsi degli imitatori, dei pedissequi, dei sicofanti i quali colgono a volo le idee che corrano nell’aria ed impasticciando scienza e pratica, un po’ di senso comune e molti pregiudizi correnti, si gittano dalla parte che è alla moda e dimentichi oggi di quel che avevano asseverato ieri, oggi sono liberisti e domani, indifferentemente, interventisti. Costoro non sono scientificamente nulla, sebbene siano i maggiori fabbricanti di scuole, di conventicole protezioniste, interveniste, liberiste, cattedratiche e delle vane ingiurie che i rispettivi adepti ai scagliano l’un l'altro. La caratteristica fondamentale del pensiero degli economisti in questo particolare campo (naturalmente essi si occuparono sovratutto di problemi più difficili, che dai laici sono detti, per dispregio, tecnici e che sono e probabilmente sempre saranno i problemi economici specifici) è stato un approfondimento vie maggiore del problema dei rapporti fra Stato, individuo, società, gruppi sociali. Da Mill a Marshall, da Marshall a Pigoli è tutta una indagine minuta e delicata, la quale talvolta diventa un ricamo tenuissimo, rivolta a precisare, a limitare, a scrutare i metodi di massitui 77azione della ricchezza, del benessere, della felicità, della potenza degli uomini organizzati in società. Come è accaduto in tutte le scienze progressive, ogni passo innanzi si innesta su perfezionamenti precedenti ed è preludio a perfezionamenti successivi. Nella nostra chiesa non è di moda la parola superamento, che veggo assai usata tra ì filosofi; ma ben potrebbe tale parola eesere usata ad indicare gli stadi successivi del pensiero economico, di cui ognuno non nega ma contiene e trasforma gli stadi precedenti c sarà contenuto e trasformato negli stadi fuluri. Perché, caro Benini, non ricordare il contributo che taluni italiani colleghi tuoi e miei maestri hanno dato a queata meravigliosa ascesa della scienza economica? Per ragioni scientifiche di divisione del lavoro, è toccato a quella sottospecie degli economisti, la quale studia ed insegna la cosiddetta scienza delle finanze, di occuparsi dello Stato e dell’indole teorica del suo operare. Piace anche a me il pensiero che supera Stato ed individuo ed insieme li fonde; ma piace non meno e per la difficoltà dell’impresa soddisfa intellettualmente di più lo sforzo di coloro che hanno tentato di ficcare lo sguardo in fondo all’azione dello Stato ed hanno tentato definire in che cosa consistesse la sua azione. Scartata la concezione errata dì uno Stato il quale interviene a cose fatte, a ricchezza prodotta e preleva l’imposta per consacrarla, ossìa distruggerla, sia pure per altissimi fini pubblici (ed un ultimo vaghissimo ricordo di questa concezione lo vedo nelle tue stesse parole, laddove parli di uno Stato, il quale (( trasforma buona parte della ricchezza privata in potenza collettiva », dove l’errore involontario sta nel supporre che esista una ricchezza privata da trasformare, dopoché essa è stata prodotta, in qualcosa di collettivo, mentre la realtà è che la ricchezza che lo Stato trasforma in potenza collettiva, non fu mai privata, ma fin dall’inizio era prodotta dallo stato, se per prodotta intendiamo cosa che non sarebbe nata se lo Stato non fosse esistito e non avesse operato secondo l’indole sua), i teorici italiani assai discussero intorno all’indole dell’apporto od azione dello Stato. Tu bene bai scritto, continuando, che nella atessa maniera come i beni, i servizi e gli ordinamenti delTiniziativa privata « ai sviluppano in quantità e varietà, col progredire dell’incivilimento, e fanno luogo a rapporti viepiù complessi e differenziati Ira gli individui o i gruppi, così i beni, servizi ed ordinamenti] loro complementari forniti dallo Stato non Iranno colonne d’Eicole che li fermino ad un punto obbligata. Quarantanni fa Mazzola aveva già scritto: c Che CROCE non comprenda l'accusa di antistoricismo da me rivolta alla scienza economica, non deve certo meravigliare chiunque legga i periodi ora riportati. L’economia come l’arilxnetiea non cangia quale che sia il corso della storia : l’economia è matematica anch’essa, e quattro e quattro hanno fatto e faranno sempre otto. Con quale entusiasmo accoglieranno queste parole ì nostri economisti matematici, che giurano sulla purezza della loro scienza 1 Ma che queste parole avessero dovuto suonare con tale durezza anche sulla bocca di un filosofo e di uno storico, non ci saremmo davvero aspettato. Oh, dunque, anche per Croce la distinzione tra economia pura ed economia politica è ovvia? Che ovvia sia sembrata e sembri a tanti economisti — non a tutti — è cosa fuori dubbio, ma non crede Croce che io, aprendo quei tali trattati cui egli allude, abbia già dimostrato come, in realtà, la distinzione non stia né in cielo né in terra, e sfugga immediatamente dalle mani, appena si cerchi comunque di precisarla? Ecco, io non vorrei ritorcere l’accusa di scarsa conoscenza delle opere degli economisti, ma non so proprio come spiegarmi questa fiducia illimitata che Croce ha sull’esistenza effettiva di un’economia pura e, peggio ancora, di una economia matematica che non abbia fondamenti illusori. Non si lasci intimidire dall apparente rigore delle ben collegate serie di formule, penetri un poco in questo mondo di superiore tecnicismo e veda se gli sia possibile trovare un tentativo sistematico di economìa matematica — nella possibilità e opportunità del metodo matematico nella determinazione dei rapporti di alcuni fenomeni economici non ci può esser dubbio — che non poggi su basi di creta e non si riattacchi a presupposti affatto arbitrari e verbalistici. L articolo di Croce si chiude con un esempio, che dovrebbe provare ad oculos la riduzione allW surdo dell’economia attualizzata. Ma l’esempio — oltre la poco simpatica e poco generosa ironia verso un uomo che merita tanto rispetto — riesce a provare soliamo una cosa, vale a dire la poca coscienziosilà di un critico che pretende di far giustizia di un tentativo scientifico, artificiosamente riducendolo a una sua particolare espressione. Poeti giorni prima che uscisse il fascicolo de La Critica era apparsa sul Giornale critico della filosofia ita liana la mia recensione del libro di Emilio La Bocca Abbozzo di una interpretazione idealistica della economia politica, Perugìa-Vcnezia. «La Nuova Italia »): che io non intenda a quel modo l'identità di scienza e filosofia, CROCE avrebbe dovuto risultar chiaro, e che nel libro dei La Rocca io veda Io stesso pericolo che vi vede Croce, anche questo avrehhe dovuto essere evidente a chi si fosse accinto alla discussione con animo sereno. Ma di serenità oramai il Croce non è piu capace e prima di ogni altra cosa egli cerca di convincersi che le nostre « manipolazioni pseudodottrinali siano più o meno direttamente a servigio di equivoci ideali », che lo autorizzino a diicuteruè in maniera astiosa e ingiusta. Terreno, questo dell ingiuria, nel quale sarebbe vano seguirlo, sia che si cercasse di pagar della stessa moneta eia che si tentasse di persuadere dell’errore. In chi lavora con fede, trascurando frutti che pur sarebbe facile (e quanto facile!) raccogliere, la ripetuta insinuazione di Croce può gettare solo un’ombra di tristezza: forse un giorno, ritornando con altro animo su queste discussioni e avendo altri elementi per giudicare gli uomini di oggi, egli sentirà il rimorso dell’ingiustizia commessa. Ed ecco la recensione del saggio di Rocca : È un audace tentativo di dominate nelle sue grandi linee tutta la scienza economica da un punto di vista rigorosamente idealistico : un tentativo che va considerato con molta attenzione da quanti sono persuasi della necessità di porre in primo piano il problema del rapporto tra scienza e filosofìa. Rocca, dopo aver accennato al principio fondamentale dell’attualismo, cerco appunto di chiarire nel secondo capitolo il concetto di scienza in generale e di scienza empirica in particolare, e conclude « che se non può proprio parlarsi di identificazione perfetta tra quella che è l’attività del filosofo e quella che è l’attività dello scienziato, non deve potersi escludere tra esse una parentela molto stretta che, mutate talune circostanze, potrebbe diventare quasi tra esee una vera e propria identificazione. In verità, questa soluzione, così schematicamente riassunta, non può non apparire alquanto indecisa e problematica, né tutte le argomentazioni che la precedono e la seguono valgono a farci superare effettivamente lo stato di dubbia da casa ingenerato. L’Autore ai oppone con malta efficacia a una concezione necessariamente naturalistica della scienza, ma quando si tratta di giungere alla estrema conseguenza di tale critica arretra un po’ perplesso e ripristina il dualismo che voleva eliminare: la distinzione di scienza e filosofia, dialetticamente negala con acutezza non comune, ai riafferma infine in modo categorico e nel senso forse più pericoloso. Ma, osserva infatti Rocca, se una distinzione rigorosa Ira le due non si può avere perché non può nel fatto aver luogo, non è mica detto che una distinzione dedotta dal diverso oggetto o fine che entrambe perseguirebbero non si possa avere. Si può avere di fatti, consistendo la prima nella risoluzione nello spirito della realtà universale, e l'altra nella risoluzione in esso di un aspetto particolare della realtà universale. Dove è. chiaro che la realtà universale viene abbassata a oggetto e che la filosofìa si concepisce ancora al vecchio modo intellettualistico. La soluzione non molto rigorosa del problema ha avuto le sue necessarie conseguenze nella scelta dei criteri seguiti per determinare i principi fondamentali del1 economia. La filosofia come scienza della realtà universale è rimasta un presupposto di fronte all’economia che è scienza di un particolare aspetto di quella realtà, sì che la ricostruzione filosofica dell'economia è stala intesa nel senso di ricondurre ì principi scientifici alle categorie filosofiche. E Rocca ha potuto perciò avvicinarsi all’economia dall'esterno c tradurre i principi scientifici in termini altualisticì, senza preoccuparsi troppo della fecondità di un tale procedimento, destinata a esaurirsi in una zona di confine tra la scienza c la filosofìa, intese al vecchio modo. Concepito in tal guisa il problema, la prima preoccupazione di Rocca è stata quella di individuare il principio primo della scienza economica, e l’individuazione naturalmente e stata da lui cercata non sul terreno storico dell’origine c dello sviluppo della economia, bensì sul terreno filosofico della dialettica dello spirito. L a priori è stalo inteso non nell’attualità dell’esperienza scientifica, ma come la determinazione prescientifica del principio della scienza. E il principio è diventato allora un momento assoluto della dialettica dello spirito, astoricamente concepito. «Ma», dice infatti il La Rocca, parlando del rapporto tra economia ed etica, « se per quel che riguarda la sua legittimità filosofica esso si identifica perfettamente col principio dell’eticità, non si deve concludere insieme, che non possa avere un suo oggetto speciale c inconfondìbile pur sulla base della sua realtà etica. Es90 può ben affermare un suo originale compito: quello della spiritualizzazione-materializzazione, deH’acquisizione-alienazione, della valorizzazione-degradazione, il quale non è certo il compito della eticità che, se lien l’occhio al primo termine, non lo tiene, nello stesso tempo, ad entrambi. Tale procedimento dialettico non si limila alla determinazione del principio primo, ma si estende a tutti i concetti tradizionali della scienza economica, e Rocca tenta di dedurre apeculativamente anche i termini di produzione, circolazione, distribuzione e consumo; e finisce infine con l’idealizzare la figura dell imprenditore identificandolo addirittura con il soggetto economico. Ma per quanta fede e calore l’Autore ponga in siffatta ricostruzione, l’astrattezza del procedimento non può non colpire l’attento lettore, che vede, pur attraverso l’esigenza giustissima di cui il La Rocca è tra i primi sostenitori, il grave pericolo di un ritorno all’hegelismo o al filosofismo antiscientifico. Ho voluto insistere più sul lato negativo che su quello positivo del libro del T,a Rocca — che pur è ricco di belle pagine e di acutissime critiche — perché ritengo necessario e urgente sgombrare nettamente il campo di tutti quei preconcetti filosofici e scientifici ohe non consentono ancora di giungere all’assoluta convinzione di un’unica forma del sapere e alla conseguente ricostruzione storicistica della scienza. L idealismo attuale ha dato il colpo di grazia al concetto intellettualistico di categoria, che è vano voler fare risorgere comunque in una malintesa determinazione di principi assoluti. I principi di tutte le scienze non possono che ricercarsi sul terreno concreto dell esperienza stosebbene egli siTuìa^ Rocca ’ w problemi filosofie-;  narnn •of.ro « MMh> (atelier,„ (1 ]i M "r iivemlno^ne 0110  mente sinonimi. — lv enlano necessariad 1'~ » '•*.Srrjiar * »In un articolo, Verso l’economia corporativa, Nuovi studi: La critica dell’economia liberale, Milano, Treves) ebbi occasione di occuparmi di Tonelli e di accennare agli errori metodologici delle sue teorie di politica economica. Esemplificando in una nota, scrivevo. Rinviando la critica della concezione ebe il de Pietri Tonelli ha della scienza della politica economica a quando sarà pubblicato il trattato che I A. annunzia, ci limitiamo qui, in via d’esempio, a riferire una delle presunte leggi della nuova disciplina. Nella prolusione citata {Di una scienza della politica, in Rivista di politica economica, fase. 1) si afferma perentoriamente che « gli impulsi non si possono creare, né distruggere «, che, « se gli impulsi esistono, si trovano in proporzioni diverse in tutti gli uomini, dello stesso tempo e di tempi diversi )), ecc. Non ci meraviglieremmo se tutto ciò, prima o poi, fosse tradotto in termini matematici e additato come una delle eipiesaioni della scienza più pura ; ma la facilità che cobi bì dimostra di trasportare sul terreno scientifico i termini più empirici e indeterminati non può non rendere diffidenti contro le leggi dell'economia razionale. La mentalità è sempre la stessa, e cioè — piaccia o non piaccia l'aggettivo essenzialmente dogmatica, come potrebhe riconoscere anche Tonelli, qualora provasse a domandare a uno studioso di psicologia e se Raffermare che gli impulsi non si creano né si distruggono possa avere un qualsiasi significato men che banale. Come risposta a questa critica il de' Pietri Tonelli non ha trovato di meglio che recensire con troppo evidente acrimonia il volume in cui Particolo è stato riprodotto (Rivista di politica economica, Ma a una recensione che si limita a una filza di improperi non è il caso di ribattere : la polemica diventerebbe personalistica e quindi estranea ai fini di una discussione scientifica. Sarà piuttosto opportuno prendere in esame quel trattato che allora Tonelli ci annunciava e di cui recentemente è apparso il primo volume (Corso di politica economico, Introduzione, Padova, Cedam. Purtroppo le previsioni contenute nella mia nota sono state confermate dalla realtà, e sarà sufficiente qualche assaggio perché chiunque voglia giudicare con animo sereno se ne possa convincere. Dopo aver discusso in generale dell'oggetto della politica economica, 1\A. determina gli elementi fondamentali dello studio. « Per limitare », egli scrive, « o meglio, per delimitare, il campo della ricerca politica che ci interessa e metterlo alla portata della mente dello studioso, si può cominciare con lo sceverare e considerare, in sé, e nelle loro reciproche relazioni, tre elementi fondamentali della realtà sociale, cioè della vita delle cerehie sociali. Insieme coi fatti di natura, questi clementi formano la vita deU’universo. Tali elementi sono precisamente: 1) gli impulsi, che indicheremo con I, cioè i moventi, o le determinanti, o gli stimoli, ecc., quali i bisogni, i sentimenti, gli interessi, le passioni, il raziocinio, ecc., assai vari e che si conviene debbano effettivamente esistere e operare, per indurre gli uomini ad agire e ad esprimersi ; 2) gli atti, che indicheremo con A, cioè le azioni, di diversa specie, a cui si ritengono indotti gli uomini, soprattutto dagli I; 3) le espressioni, che indicheremo con E, cioè le manifestazioni di linguaggi, gestiti, verbali e scritti, riguardanti appunto gli I e gli A. Tutta la costruzione del sistema è impostata su questa tripartizione della realtà sociale, sì che convien fermarsi al limitare e domandarsi quale sia il carattere e la validità scientifica di tali presupposti. È chiaro che una distinzione fra impulsi, atti ed espressioni non può avere valore sistematico se non si giustifica alla luce di tm criterio scientifico, ed è chiaro che un tale criterio non può trovarsi se non nella disciplina che si occupa ex professa di tali fenomeni. La distinzione, in altri termini, ha bisogno di una giustificazione logica che le venga dalla psicologia: ogni allra giustificazione sarebbe di carattere empirico e però irrilevante ai fini di un sistema scientifico. Ma, intanto, dal punto di vista psicologico, nessuno potrebbe dare un qualsiasi valore a quella distinzione, affatto arbitraria aia per la scelta degli elementi, sia per la loro definizione, sia per l’interferenza dei rispettivi campi, bolo chi non ha alcuna dimestichezza con questi studi può illudersi di dare un significato critico a termini così radicalmente antiscientifici. . Si P° lr ehbe, a questo punto, porre una pregiudisiale perentoria a tutto il sistema escogitato da Tonelli e chieder conto di tali presupposti, esihiti senza alcuna garanzia della loro legittimità. Ma noi vogliamo far credito all’À. e ammettere che si possa accettare, su un terreno meramente astratto, una classificazione ottenuta con un gros¬olano senso comune. Se non che, riconosciuto nel senso connine o nell’opinione il fondamento della distinzione, è possibile pervenire da essa a risultati che trascendano la sfera del senso comune e dell’opinione? In altri termini, se la distinzione ha carattere empirico, può da essa ricavarsi una qualsiasi conclusione non empirica? La risposta non dovrebbe esser dubbia, e il lettore dovrebbe aspettarsi che nel resto del volume si continuasse a discutere mantenendosi sullo stesso terreno sul quale poggiano gli elementi fondamentali. Ma le cose, purtroppo, procedono ben diversamente, perché, appena esposta la distinzione delle tre classi, le classi stesse vengono ipostatizzate e si comincia a giuncare con esse come con quantità esattamente definite. Le tre classi a loro volta si suddistinguono m classi minori, in cui l’arbitrio della definizione e sempre più palese, ma nelle quali la rigidità del metodo appare via via più dogmatica. La molteplìcita delle classi acquista corpulenza numerica, e tra lettere e numeri si trova subito il materiale per una trasformazione in termini matematici. Dopo poche pagine le grossolane definizioni si sono cangiate in entità aritmetiche c dalla penna tecnicamente formidabile del de Pietri Tonelli cominciano a scaturire le formule algebriche. Per chi volesse delibare la bontà del metodo riportiamo il seguente periodo: « Così ad es., in 5a la ed Iy possono, negli individui e quindi nelle C. accentuarsi, palesando individui e C materialistici; in 82, Ix ed le possono, negli individui e quindi nelle C, accentuarsi palesando individui c C spiritualistici; in II 2, Ih ed le possono, negli individui c quindi nelle C, accentuarsi, palesando individui e C aperti alle novità nel campo spirituale; in 122, Ih ed Iy possono, negli individui e quindi nelle C, accentuarsi, palesando individui e C aperti alle novità nel campo pratico; in 22, la ed Ih possono, negli individui e quindi nelle C, accentuarsi palesando individui e C inclini a rinnovarsi nel loro interesse, poiché coloro i quali hanno lai,2 ed Ib son coloro che vogliono salire nel campo economico e in quello politico e son disposti alle mutazioni necessarie » (pp. 39 Son cose che farebbero sorridere ironicamente, se poi non atterrissero con la conseguenza di duecento pagine irte delle più complicate formule matematiche, sotto le cui lettere e i cui numeri si celano le elucubrazioni psicologiche e sociologiche del professore di Tonelli, ad ineffabile gaudio dei suoi studenti. Non è il caso, naturalmente, di dimostrare ciò che ha solo bisogno di esemplificazione: casi simili di aberrazione scientifica si spiegano solo con motivi di carattere patologico che fanno smarrire ogni contatto con la realtà e con quello stesso buon senso con cui la imitazione vorrebbe iniziarsi. E tanto più grave diventa la sensazione del patologico, quanto più l’A. insiste sul carattere obiettivo delle sue ricerche, facendo amene riserve sulla loro attendibilità. Come non rimanere addirittura sconcertati leggendo, dopo non poche costruzioni matematiche relative agli impulsi, che « ancora non sappiamo se gli I siano una nostra astrazione, per coprire la nostra ignoranza, non esistendo di fatto che gli A; ovvero se gli 1 siano effettivamente una realtà finora poco o nulla conosciuta? Le constatazioni ora fatte a proposito del saggio del de 1 Tonelli non vogliono limitarsi a un caso particolare, ma dal caso particolare, in cui l’assurdità giunge alla massima evidenza, debbono estendersi un po’ a tutti i tentativi di mateinatizzare i fenomeni sociali e alla stessa economia matematica quale è comunemente intesa. L’unione della psicologia e della sociologìa con il metodo matematico è una delle espressioni più gravi della mentalità antiscientifica che domina nel campo delle scienze sociali: e non è ormai lecito ritenere comunque valido uno solo dei tentativi compiuti in tal senso. Il che, si badi bene, non è dovuto a una impossibilità costitutiva di applicare la matematica a siffatti fenomeni, bensì all’incapacità di ridurre a unità matematiche ì fenomeni stessi. E l’incapacità si spiega eoi fatto che, se gli studiosi i quali si cimentano nell’impresa hanno una preparazione matematica sufficiente, non hanno poi alcuna preparazione scientifica alla intelligenza dei fenomeni psicologici e non si sono resi conto delle critiche mosse alla sociologia dalla speculazione moderna. Sì che, assumendo a fondamento delle proprie ricerche concetti scelti e definiti arbitrariamente, scambiano l’oggettivo col soggettivo, il determinato con l’indeterminato, e matematizzano indifferentemente tutto, senza preoccuparsi di raggiungere l’effettiva quantificazione degli elementi posti nelle loro formule. L’errore del procedimento appare con maggiore evidenza nel campo delle ricerche sociologiche, dove l’ncongruenza stessa delle conclusioni basta a far giustizia dell inutile fatica degli studiosi che tuttora vi insistono. Ma purtroppo nel campo della cosiddetta economia matematica l’illusione è più saldamente radicata e le conseguenze dell’errore, meno manifeste, sono e diventano sempre più pericolose. Siccome a nessuno può venire in niente di negare l’opportunità e la necessità di servirsi della matematica nella analisi dei fenomeni economici, il senso del limite si smarrisce agevolmente e messici per quella china si sdrucciola a poco a poco dalla matematica utile all’economia all’economia matematica, che è la negazione dell’economia. Per comprendere la differenza che passa tra l’uso lecito della matematica nel campo delle scienze economiche e la cosiddetta economia matematica, è necessario distinguere la matematica come mezzo di ricerca dalla matematica come sistema in cui le ricerche vanno composte e fissate una volta per sempre. Ora, la validità del primo criterio non dimostra affatto la legittimità del secondo, che è fatalmente destinato a fallire. La matematica come sistema, infatti, implica la necessità di quantificare non solo i fatti economici, ma anche la ragione di tali fatti; e il processo di oggettivazione, perciò, investe illecitamente il mondo della soggettività. Basta riflettere un poco sui risultati dell’economia matematica di Pareto per accorgersi delle mostruose conseguenze cui dà luogo rillegittimo bisogno di presupporre quantificato o comunque quantificabile ciò che condiziona lo stesso processo di quantificazione. Perché gli economisti possano una buona volta uscire dal vicolo cieco in cui si sono andati a ficcare, occorre che si decidano ad abbandonare la loro psicologia da dilettanti e a distinguere nettamente il fatto dall’atto, vale a dire ciò che è necessario considerare in veste di numero e ciò che del numero è condizione. Allora finalmente si accorgeranno che l’economia matematica non è possibile, per il semplice fatto che il numero è nella vita, ma la vita non può essere numero. Per chi lavora, desideroso soltanto di allargare gli orizzonti e di aver la certezza di andare innanzi nel cammino della scienza, vi sono dei dissensi che hanno perfino maggior valore dei consensi. E sono i dissensi dei cattedratici, che, allarmati e disorientati dai colpi inferti agli schemi tradizionali della loro scienza, scendono in campo uno dopo l’altro a difendere il loro regno pericolante, non senza gratificare di burbanzose parole chi osa ficcarvi lo sguardo un po’ a fondo. Ne vengon fuori delle confutazioni, le quali, o raggiungono 1 effetto contrario per la inadeguatezza dei vecchi criteri di giudizio relativamente alle nuove teorie da combattere, o addirittura sbagliano il bersaglio per la mancanza di quel tanto di buona volontà che occorrerebbe per scorgerlo davvero, e per la fretta di liberarsi di qualcosa che inconsciamente s intuisce come un grave pericolo. Effetto contrario, dico, in quanto tali critiche finiscono col fare insuperbire chi ne è oggetto e col far trascurare, in conseguenza, anche ciò che di valido può essere al fondo di siffatte negazioni globali e violente. 0 come non insuperbire, infatti, considerando lo sforzo compiuto da Contento ’) attraverso ima quarantina di pagine dedicate a difendere P homo œconomicus dalle, mie critiche.' 1 Come non insuperbire di fronte a tanta ingenuità di argomenti e a tanta incomprensione della mia tesi? Ma è un malinconico insuperbire, come quello di cbi pur vorrebbe convincere e far sì che la propria certezza, sempre più consapevole e salda, diventasse la certezza degli altri. Il che purtroppo non è neppur da sperare di fronte a chi troppo evidentemente è su una strada affatto diversa e parla un linguaggio che non consente la discussione. La risposta non può avere valore che per i terzi, vale a dire per quelli che, affacciandosi più spregiudicatamente alla questione, sono in grado di vedere obbiettivamente e di fare quello sforzo di buona volontà che è indispensabile per comprendere ciò che si vuol giudicare. Prendendo lo spunto da quanto affermarono Alfredo Rocco e Filippo Carli nel congresso della Associazione Nazionalista del 1914, che non vè « forse un’azione economica che l’uomo compia sotto la spinta del puro interesse economico, cioè sotto l’impero del principio edonistico », il Contento giustamente fa osservare che Vhomo cecarwmicini è una astrazione scientifica per nulla compromessa dall’affermazione dei nazionalisti, con la quale non si può non concordale. Dal punto di vista scientifico una sola cosa importa ed è la preciJ ) Albo Contento, Dilesa dell'ut homo œconomicus. L'homo œconomicus » nello STATO CORPORATIVO, in « Ginnialo degli economisti. sazione del concetto di homo cecanomicus : precisazione alla quale 1 A. vuole addivenire dopo aver convenuto con me che « molta dell'incertezza che domina nello svolgimento e nelle conclusioni della scienza economica, derivi da una mancata definizione di quel postulato, cui si assegnano valore e limiti più o meno diversi. Senonché raccordo si arresta a questa constatazione, dopo la quale le vie divengono sempre più divergenti, per non incontrarsi mai più. E, per cominciare, il Contento attribuisce anche a me la mancata precisazione del concetto, quasi che fosse possibile precisare ciò che si nega in quanto imprecisabile. Io ho affermato che l’uomo osconnmicus non può valere come ipotesi scientifica, perché è un termine scientificamente tutt altro che rigoroso e determinato: chi pensa il contrario ha il dovere di mostrare la possibilità di ima definizione valida, ma non può pretenderla da me. Alla definizione, per conto suo, si è accinto Contento, eliminando in via preliminare i comuni concetti di egoismo, edonismo e utilitarismo. Questi concetti non sono adatti a caratterizzare l'homo œconomicus ed è stato un errore degli economisti aver fatto implicitamente o esplicitamente una tale confusione. La dimostrazione che ne dà l’A. non appare, in verità, gran che persuasiva, fondata cont essa è sulle definizioni dei vocabolari di Zingarelli e di Tramatter: comunque possiamo dare per buona la conclusione e passare all'analisi del concetto che si vuol sostituire a quelli ritenuti errati. Richiamandoci al pensiero, scrive Contento, di quelli che fecero dell’fi. ne. il postulato fondamentale, o la base di tutto l’edificio scientifico, può dirsi deva intendersi, con tale designazione. 1 individuo immaginato nella sua pura condotta economico, la quale, nei moventi e nei fini, si ritiene informata, generalmente, ad un tipo uniforme corrispondente alla ricerca della massima soddisfazione col minimo di sforzo cioè all'applicazione integrale del principio del minimo mezzo. Si comprende bene come dopo questa definizione l’A. non sappia giustificare la critica che si fa dell 5 *. ck., né sappia vedere alcuna incompatibilità tra Vh. 03. e la concezione corporativa dell’economia. Un individuo che cerchi di seguire il principio del minimo mezzo non solo è perfettamente a posto qualunque sia l’ambiente politico in cui vive, ma è anche Punico individuo concepibile nella sfera della normalità. Il che riconosce esplicitamente lo stesso Contento quando afferma: « Ogni uomo vivente tende a comportarsi da h. ce., cioè misurando la convenienza dei mezzi al fine, non pure nel rampo stoltamente economico, ma in ogni campo della sua esistenza, e affermiamo che, se così non fosse, se ognuno non cercasse di condursi, sempre, seguendo il principio della economicità, danneggerebbe, alla fine, non pure se stesso, ma la società tutta intera. Chi così non facesse, sistematicamente, darcbhe prova non tanto di non essere un egoista, quanto di essere... un incosciente! E allora? Relegate nella sfera delFincoscienza le azioni non subordinate alla legge del minimo mezzo, l’uomo è sempre Vh. ce. non pure nel campo stoltamente economico, ma in ogni campo della sua esistenza [enfasi mio], né resta dunque modo di distinguere mediante tale principio le azioni economiche dalle non economiche. Il presupposto fondamentale della scienza economica si dissolve in una vuota generalità e la fictio del1 h. ce. si rivela ancora una volta assolutamente inadatta a servire da ipotesi scientifica. Ex ore tuo iudico te: e non v’è bisogno di aggiungere altro alla confutazione che Contento ha fatto involontariamente della sua definizione. Inutile dire che con ciò stesso viene a mancare ogni ragion d’essere alla critica mossa a Rocco e a Carli — con la quale pur avevamo convenutotendente a mostrare il carattere astratto dcll’ft. re.: se Yh. re. è colui che segue il principio del minimo mezzo, h. re. è l’individuo concreto nella pienezza della sua realtà, in ogni momento. Dato un concetto così anodino di li. re., si comprende come Contento non sappia spiegarsi il suo necessario collegamento col liberalismo politico. Qualunque sia la concezione politica dell’economista, l’astrazione dell’/i. re. resta nella sua assoluta integrità, perché rispondente a un rapporto di mezzo a fine che non muta per il mutare del fine. V’è Yh. re. nel regime liberale, come in quello autocratico come nel democratico, e Yh. re. adatterà la sua condotta all’ambiente in cui vive seguendo tuttavia in ogni caso il principio della economicità. Di qui scaturisce la seconda accusa che Contento muove alle mie affermazioni circa l’intervento dello Stalo e il rapporto Ira individuo e Stalo. Per l’A. esistono due modi d’intendere lo Stato e, in particolare, lo Stato corporativo. « Secondo alcuni, die partono dal vecchio e normale concetto dello Stato, quale ente rappresentativo degli interessi generali dei cittadini, creato come organo ad essi superiore, la figura dello STATO CORPORATIVO è una concezione che evitando i mali dello stretto individualismo, o liberalismo, come quelli del completo statalismo, riunisce di tali principi i vantaggi, creando nuove forme d'organizzazione politico-economica, nelle quali le varie categorie ed i vari ed opposti interessi sociali si riuniscono e con temperano, consentendo al progresso della vita civile un più armonico e intenso sviluppo. Secondo alcun altTo. come, e specialmente, lo Spirito, la differenza consisterebbe in ciò, che la nuova forma, non pure avvicina e unisce, ma chiaramente accomuna e immedesima Stato e cittadino, in modo da renderli un unico ente Alle due diverse teorie il Contento fa seguire i seguenti perentori giudizi. La seconda delle ricordate concezioni è, a nostro avviso, inconsistente per lo Stato corporativo, come per ogni altro Stato. Se pur corrispondesse alla realtà, e sarebbe, evidentemente, per qualunque Stato, ciò avrebbe importanza dall aspetto filosofico, più che economico. La prima invece, fondamentalmente vera, parte da un presupposto errato, quale quello della semplice condotta negativa dello Stato nella organizzazione liberale. E Contento continua mostrando come anche lo Stato liberale sia sempre intervenuto, in misura maggiore o minore, nell’economia della nazione e abbia quindi influito sulle economie individuali. Con l’ECONOMIA CORPORATIVA non si è mutato il problema, e l’intervento dello Stato è rimasto sostanzialmente della stessa natura. L’unica questione viva è quella dei limiti di tale intervento, e i limiti sono stati certamente spostati, richiedendo nìf individuo una limitazione più ampio alla sua condona economica. Ld ecco come 1"A. può concliiudere ripetendo ancora una volta la concezione dello Stato contrattualista-liberale per cui questo, pur frenando l’arbitrio individuale », concede all’uomo ({il massimo di libertà compatibile in lina civile convivenza. Ma, intanto, scartata come meramente filosofica (che cosa mai Contento intenderà per filosofia?) la teoria dell’identità di individuo e Stato, mito il ragionamento ha preso altra direzione e la mia tesi, che pur si voleva confutare, non è stata neppure sfiorata. Io volevo contrapporre Stato liberale e Stato corporativo in quanto il primo è concepito come Stato limite delle libertà individuali e il secondo invece come Stato potenziatore delle libertà stesse: volevo contrapporre al dualismo di individuo e Stato, e alla conseguente distinzione di economia individuale ed economia statale, l'unità dei due termini e la negazione dell economia individualisticamente concepita: volevo insomma negare, insieme alla vecchia concezione economicopolitica dello stato, quel concetto di homo œconomicus che il Contento si affanna a difendere. Ma la risposta dell'A. lascia assolutamente impregiudicala la questione, perché gira, senza affrontarlo, proprio il principio fondamentale della mia critica, vale a dire quello che dà significato e valore a tutte le particolari conseguenze. Quell’ individuo che vive nello Stato senza essere lo Stato e che perciò può venir limitato nella sua lihertà dallo Stato stesso; quell'individuo che ha finì propri, realtà propria e diversa, sia pure in parte, dall’organismo di cui è espressione; quel1 individuo è appunto l’esponente del liberalismo politico e del liberalismo economico, in netta antitesi col corporativismo come è stato da me teorizzato. Quell’individuo si è scientificamente dimostrato irreale, e con lui è venuto a mancare ogni fondamento alla ficiio dell’homo œconomicus di cui è il presupposto necessario. Non avendo inteso né avendo comunque analizzato questa negazione perentoria, Contento è rimasto anche lui sulle orme del vecchio liberalismo, precludendosi la via a ogni comprensione del significato rivoluzionario della concezione politica del fascismo e del corporativismo. Al quale proposito il Contento crede di scoprirmi in grossolana contraddizione, quando io, pur avendo riconosciuto proprio di ogni Stato il carattere dì immanenza all’individuo, affermo esplicitamente che solo l’ECONOMIA CORPORATIVA pttò dirsi sul serio scientifica. Confermato così, anche su questo punto, dice infatti l’A., il carattere di congiunzione, o di derivazione, dello Stato corporativo da quello liberale, non possiamo spiegarci come lo Spirito, che asserisce non potersi separare, nel campo economico, la concezione della vita dello Stato da quella delle economie individuali, dato che lo Sialo interviene sempre in queste, sostenga poi che soltanto l’ECONOMIA CORPORATIVA sia degna del titolo di scientifica, scrivendo; « che lo Stato sia costitutivo essenziale della vita individuale non è verità che s’instauri col regime corporativo, né è limitata alla vita politica dell’Italia di oggi: ma mai come nell’Italia di oggi questa verità è slata esplicitamente affermata, inai si è concepita la vita economica nazionale come una unità così saldamente organica ». — 11 semplicismo di questa conclusione è troppo evidente per dovervi insistere. — Sarebbe come dire che soltanto quello e degno del nome di inverno, perché mai come allora ci si accorse del freddo !). Ma semplicistica, a ver dire, è la osservazione del Contento ed egli stesso dovrà convenirne se rifletterà sul senso preciso delle mie parole. Che la concezione copernicana del mondo sia la sola scientifica non vuol dire che prima di Copernico il mondo fosse governato da altre leggi; allo stesso modo con l’economia corporativa, o, per essere più esatti, con l’economia che riconosce l'identità di individuo e Stato (il corporativismo essendo solo l’espressione teoricamente realizzantesi di questa identità), si giunge alla consapevolezza della vera realtà dello Stato e ci si pone in grado di eliminare quegli errori teorici e pratici che ostacolavano la libera affermazione deH’individuo. Tra la libertà del liberalismo e quella del corporativismo bene inteso, v’è appunto la stessa differenza che passa tra Vhomo mconomicus e l’individuo visto nella sua identità con lo stato. RIFORMISMO 0 RIVOLUZIONE SCIENTIFICA? In un recente articolo (1/economia corporativa, l’individuo, lo Stato e una polemica, in Politica Sociale, FoveI cerca di chiarire in qual senso egli consente e in qual senso dissente dalle tesi da me sostenute. E conclude con questa pagina che è opportuno trascrivere per intero: « Identificazione ideale, dunque, fra individuo e Stato. D’accordo. Ma per quale via? Qui si affaccia la terza cosa, che si deve dire allo Spirito. Essa è che, se la sua posizione del problema è perfetta, la soluzione che egli ne dà è, dal punto di vista della scienza economica, imperfetta. Dal punto di vista della scienza economica, noti bene Io Spirito, e non già da un altro diverso, per esempio, quello genericamente storico. Ma però, noti ancor meglio lo Spirito, dal punto di vista della scienza economica toni court. e non già di quella detta liberale. E dove sta Firnperfezione? Non si può certo qui. nello scorcio di quest’articolo, già troppo lungo, neanche delibare la questione. Indichiamo soltanto la grande direttivi! di marcia. Eccola. Spirito tenta la idenlificuzione ideale dell'individuo e dello Stato, risolvendoli entrambi in una terza nozione, che è la Nazione. Ora ci chiediamo noi. forse, qui, se questo tentativo può, scientificamente, riuscire? Ossia se la nozione di Nazione sia esprimibile in termini quantitativi? No. Si può anche aggiungere che non siamo troppo diffidenti in proposito. 0, almeno, non vi crediamo molto meno di quello che crediamo all'esprimibilità quantitativa dell’individuo. Ci limitiamo invece a dire clie, tentando questa via. Spirito tenta ab imis una nuova scienza economica. E che noi invece pensiamo che la identificazione possa avvenire, estendendo allo Stato lutti i dati formali dell’individuo (e viceversa), cosi come oggi la scienza economica lo concepisce. E che, così facendo, la identificazione voluta si realizza attraverso una espansione energica, ma non eversiva, della scienza economica, quale oggi si presenta. È un metodo. È un metodo anche questo — esso consiste nell'innestare nuove teorìe sui vecchi principi rianalizzati e rifecondati, e che chiameremo riformista — che ha i suoi vantaggi. E che, tralasciando quelli teorici che ci trascinerebbero nel cuore della questione, ha i vanlaggi pratici seguenti. Mettendosi per questa via si potrebbe marciare, almeno per un bel tratto, fianco a fianco con altri molti studiosi; quelli che anche in altri paesi pensiamo soprattutto alla nuova scienza economica dinamica americana — lavorano a rinnovare e a ricostruire, senza ripudiarla, la scienza economica accettata. Si utilizzerebbero, agli effetti della penetrazione delle nuove teorie nello spirito pubblico e sopratutto nelle élites, quei sedimenti, che la tradizione sdentiliea forma sempre, ravvivandoli senza distruggerli. FoveI, dunque, d’accordo con me con la tesi fondamentale di ricostruire la scienza economica alla luce del principio della identificazione di individuo e Stato, non erede che ciò debba farsi operando una vera rivoluzione scientifica e propone un metodo riformista ebe concilii il nuovo col vecchio e utilizzi i sedimenti della tradizione. Ora, lasciando da parte i vantaggi pratici che sono e debbono essere fuori questione, bisogna riconoscere che una scienza, qualunque essa sia, non può progredire che su se stessa, svolgendo e perfezionando i principi che ne costituiscono il fondamento. È questa una verità ormai lapalissiana, specialmente per chi riconosce nello storicismo il carattere precipuo della nuova scienza. Chi si proponesse a un bel tratto di arrestare il corso delle cose, e ricominciare daccapo, dimostrerebbe per lo meno una grande ingenuità e sarebbe costretto suo malgrado a smentire con i fatti la sua pretesa verbalistica. Anzi, v’ha di più: a guardare bene a fondo, ogni scienza coincide con la sua storia, e intenderla e perfezionarla non si può senza intendere e continuare il suo processo di formazione. E se questo avviene in generale per ogni scienza, tanto più deve verificarsi per le scienze sociali e per leconomia politica in particolare: scienze in cui l’aderenza alla vita storica è più immediata e palese e in cui le vicende politiche sono più manifestamente condizioni del sorgere e dello svilupparsi di certi problemi teorici. Né ad altro, in fondo, ha miralo lutto il lavoro eia me compiuto, con cui ho cercato di porre in chiaro il delincarsi delle nuove esigenze scientifiche alla luce de] processo storico che in esse è sboccato trasvalutondosi. Ora, è chiaro che. se questo è il nostro programma e il carattere fondamentale della nostra critica, porre il dilemma se convenga meglio una revisione riformistica o un’opera rivoluzionaria non può avere il significato che a] dilemma stesso si da accennando all utilizzazione dei residui tradizionali. Nessun dubhio infatti che tutto il passato vada utilizzato e inverato, e non superficialmente o rapsodicamente, bensì nella sua realtà integrale e imprescindibile. Nessun dubbio, dunque, che si debba trattare di riforma e non di negazione pura e semplice di quanto è stato fatto nel campo di questi studi: di riforma, e cioè di ulteriore processo che viva dell’esperienza già fatta e la conduca a nuovi e più profondi risultati. Se non che c’è riforma e riforma: quella che si svolge nel ritmo normale della vita di ogni giorno e cambia il mondo quasi inavvertitamente ponendo pietra su pietra; e quella, invece che segna un punto di arresto e di ripresa, perché nel lento processo di trasformazione ci si accorge a un tratto che la via presa non è proprio la più adatta e che, se non si vuol precipitare, eonvien volgersi in altra e più giusta direzione. V’è, insomma, la trasformazione ordinaria e quella straordinaria, senza che tra l’una e l’altra ci sia iato o contraddizione, che anzi il lento modificarsi delle condizioni crea a poco a poco mia nuova situazione, la quale all’improvviso si svela ed esige un nuovo orientamento. Abbiamo allora la rivoluzione, che non è, si comprende, neppur essa negazione, bensì processo accelerato e rapido dissolvimento di tutto il negativo che via via era andato affiorando. Una rivoluzione degna di questo nome non è eversiva, non distrugge nulla che non sia già distrutto, ma toglie via le macerie perché il lavoro proceda senza impedimento. e il nuovo si affermi in tutta la sua pienezza di vita. A chi ci domandasse, a questo punto, se nella revisione della scienza economica occorra oggi una opera riformistica o rivoluzionaria, potremmo sicuramente rispondere, senza timore di essere fraintesi. che la crisi di questa disciplina è giunta ormai a un punto culminante e che vano sarebbe aver fiducia in soluzioni non assolutamente radicali. Ma si deve, poi, aggiungere, che la rivoluzione da noi auspicata acquista un carattere storico sui generis e quasi in apparente contraddizione con quanto è stato fin qui detto. È una rivoluzione, infatti, che nega, in un certo senso, la scienza economica quale si è venuta svolgendo da due secoli a questa parte e che tende a far riprendere il cammino ex nova, per vie finora non tracciate. Contraddizione apparente, dico, perché anche qui la negazione non è sterile negazione, e cioè annullamento di qualcosa che abbia una realtà positiva, bensì riconoscimento esplicito dell’inesistenza di ciò che si nega. E quel che si nega è addirittura la dignità di scienza airecnnomia costruita da Smith in poi: si nega, in altri termini, che sia esistito un economista capace di superare l’empiricità delle ricerche particolari per assurgere a un sistema informato a un principio unico e organico; si nega che la sistematicità dei più famosi trattati di economia sia più che estrinseca e formale; si nega, infine, che ci sia un solo concetto fondamentale dell’economia (valore, utile, bene economico, gusto, homo œconomicus, libera concorrenza, ece.) cui si attribuisca un significato non intimamente contradditorio. Si comprende bene come un’affermazione così perentoria, così grave e paradossale, debba provocare il dissenso e anzi lo sdegno di ehi, educato a questi studi, ha imparato a venerare come sommi maestri Smith e Ricardo, Mill e Pareto; ma bisogna pure una buona volta spezzare l’angusto cerchio in cui l’economista si chiude, geloso del suo tecnicismo, e reinterpretare i classici alla luce del loro tempo, dei loro presupposti speculativi e delle esigenze loro fondamentali. Occorre, insomma, far scendere gli dèi dall’olimpo in cui sono stati posti con scarsa consapevolezza storica e procurare di giudicarli con criteri più larghi e comprensivi, senza farsi deviare dall’esagerato rispetto di fame consolidate troppo esotericamente. Ma perché questa opera dia i suoi frutti, è necessario pure che coloro i quali sono urtati nelle loro convinzioni o nelle loro opinioni abbiano la forza di considerare senza intolleranza i risultati che loro si offrono, e soprattutto si dispongano a sceverare ciò che nelle loro convinzioni è frutto di ricerca personale da ciò che vi si confonde come presupposto acquisito e indiscutibile sol perché non discusso. Certo, agli occhi loro deve apparir strano ed assurdo che si possa dubitare del valore scientifico di una siffatta disciplina e che scrittori ritenuti classici nel senso più alto della parola siano di punto in bianco riportati a una non aurea mediocrità; ma essi debbono pur convenire che tutto è relativo e che con un occhio solo si è re nel inondo dei ciechi, sì che chiudendosi nel mondo dell'economia non v’è da meravigliarsi se diventino luminosissimi soli le semplici lanterne del più vasto mondo della cultura. 0 che forse avrebbero nozione della loro piccolezza i lillipuziani se non conoscessero altro che il paese di Lilliput? Né, d’altra parte, è lecito pretendere che i giganti di Lilliput siano presi sul serio fuori del loro regno. E 1’economia non è un regno che possa vivere in una beata solitudine. Uno degli esempi tipici del consolidarsi di una fama esageratamente superiore alla realtà dei meriti effettvi è quello di Smith, il cosiddetto fondatore dell’economia scientifica. Mezzo empirista e mezzo huonsensista, incline per educazione alle vaghe ideologie, con troppa abbondanza coltivate nelle sfumature di una etica inconsistente, lo Smith era certo la persona meno adatta a dar forma scientifica a una disciplina come l’economia. >) Vero è rbe ormai i migliori Ira gli storici dellVonomia mettono per lo meno in dubbio tale qualifica, ma ciononostante Smith reeta sempre in altissimo loro e in lulti i modi si certa di gontiare ciò che a Smith non appartiene o ciò che, a lui appartenendo, non è certamente esempio di particolare prolondilà. Tra labro Smith è diventalo il classico ohbligalorio per chi si presento agli esami di concorso per l’insegnamento dell’economia politica nelle scuole medie. A quale titolo? Sta di fatto che i candidali non lo Studiano e gli esaminatori girano al largo. Evidentemente ne gli uni nò gli altri riescono a entusiasmarli per una sì grande □para. Non sarebbe tempo di finirle? Ma, intanto, se il suo nome, per quel che rigirarti 1 etica, è stato completamente offuscato dai colossi della speculazione, a cominciare dal suo maestro ed amico Hume, Leu altra è stata la sorte della sua opera sulla ricchezza delle nazioni, assurta, non certo per meriti superiori a quelli della sua etica, a pietra miliare o addirittura iniziale della storia della scienza economica. E il più strano è che tra le lodi più comunemente rivolte allo Smith v’è appunto quella di aver sistemato in un organismo unitario ciò che prima di lui era frammentario e disperso. Ora, se v’è cosa che salta subito agli occhi a chi legga 1 opera di Smith, è proprio la sua radicale incapacità a porre unità nelle sue considerazioni e a dare una qualsiasi veste sistematica alle sue aprioristiche affermazioni da esscryist. Se poi dall unità passiamo alle singole teorie, la stessa indeterminatezza di limiti e di formulazione si rivela, anche là dove l’espressione verbale sembrerebbe più categorica e decisiva; e da indeterminato a indeterminato, si scende giù giù fino alla fine dell opera senza aver mai agio di poggiar su un terreno di una qualche solidità. Comunque — valore sistematico a parte — quale la parola nuova dettaci da Smith? Vano sarebbe cercare una risposta nella sua opera, ma anche vano cercarla negli storici e negli apologeti che ne hanno consacrato la fama. La letteratura intorno a Smith è immensa, ma tutta fondamentalmente viziata dal pregiudizio di trovare ciò che non c’è: nulla di strano dunque che ancor oggi si discuta se Smi ili abbia seguito il metodo deduttivo ovvero quello induttivo, se la sua economia sia conciliabile con la sua etica, se l’interesse personale Spunto faccia a pugni con la simpatia, e via dicendo: restando sempre, come Fautore di cui si discute, nel campo di un’economia a base di opinioni. Che se poi si tenta di fare di Smith il teorico del liberalismo economico, lo si solleva, sì, nel campo della storia, dandogli finalmente una fisionomia ben determinata, ma si commette una grande ingiustizia verso i fisiocrati che in modo ancor più perentorio e genuino erano giunti prima di lui alle stesse conclusioni. Figura scialba e inconsistente, mentalità antiscientifica c mnralisteggiante, Adamo Smith è tuttavia oggi onorato come il padre o uno dei padri dell’economia: non è certo questa una grande garanzia per la serietà di una scienza. Ma l’esempio di Smith non è un'eccezione nella storia dell’economìa, che anzi il fatto che egli stia ancora a godere una fama pressoché incontrastata è la dimostrazione più evidente del livello speculativo al quale sono rimasti gli economisti posteriori. Sviluppatasi sempre fuori o ai margini del movimento idealistico, l’economia politica ha ricevuto a volta a volta l’impronta di filosofie di secondo ordine, rese ancora più superficiali dal contatto con i fenomeni empirici presi a trattare. Empiristi, storicisti, scettici, positivisti, sociologi, ideologi dell’umanitarismo, e simili, si son conteso il campo, costringendo la realtà viva dei fatti economici entro gli schematismi aprioristici di vieti dogmatismi. E la realtà è stata svisata e resa irriconoscibile, ora in nome della scienza, ora in nome di una astratta idealità sociale, senza mai uscire dall'astratto che si postulava e senza mai accostarsi alla vita per intenderla davvero e dominarla con una scienza che non fosse una pseudoscienza. Non è qui il caso di continuare in una esemplificazione che saia data in forma organica in altra sede: tanto più che a questa conclusione non è opportuno arrestarsi considerando solo gli economisti che hanno fatto la scienza, ché anzi dagli economisti convien passare alla scienza per vedere se il lavoro di molti non ahhia potuto compensare la mediocrità dei migliori. Al di là della consapevolezza dei singoli. la scienza può venirsi costruendo in modo pressoché anonimo, col lento fondersi e integrarsi dei contributi degli studiosi, e quella concezione che non è stata mai chiara nella mente di ciascuno scienziato, tutt’assorto nel suo lavoro particolare, potrchhe rivelarsi all’occhio dello storico abituato a guardare dall’alto e a comprendere il molteplice nell’unità. Ma purtroppo v’ha nella storia dell’economia un vizio di origine che ha tolto finora a questa scienza la possibilità di giungere a un organismo logico e non contradditorio. È un vizio sui generis, in quanto più che infirmare la perfezione della scienza, ne ha addirittura vietato la nascita: è un presupposto assolutamente negativo che ha sbarrato il cammino prima che si avesse modo di incamminarsi. Si è detto che si cercherebbe invano nella stoiia dell economia un sistema informato a un principio unico e sistematico. Ma se questo è vero in senso positivo non è altrettanto vero in senso negativo; e a tutti è noto, infatti, come la storia dell’economia coincida in modo quasi assoluto conla storia del liberalismo economico, anche se questo, velato da un apparente obiettivismo scientifico, sia rimasto celato agli occhi di molti economisti. Un principio informatore c’è stato, dunque, e sistematica perciò deve essere stata la scienza che ad esso si è attenuta. Il che è tanto evidente da non poter temere smentita, soprattutto da parte di chi quel principio ha cercato e cerca di mettere nella maggior luce possibile, ad esso riportando anche quelle conseguenze teoriche che ai più non sembrano necessariamente connessevi. Ma il fatto è che quel principio lungi dall’essere un principio costruttivo è meramente negativo e distruttivo, sì che proprio ad esso si deve Timpossibilità in cui l’economia si è trovata di assurgere a vera scienza. Per intendere la negatività del principio è opportuno confrontare la storia dell’economia con quella del diritto, dal secolo XVIII in poi. E il confronto si rende necessario per il chiarimento di quel concetto di individuo, che è alla base di tutte le scienze sociali quali si sono svolte in questi ultimi due secoli. Presupposto, infatti, di queste scienze, che, alimentate dalle ideologie illuministiche, hanno poi avuto il loro massimo sviluppo col positivismo sociologico, è l’esistenza di un individuo concepito come un microcosmo, un individuo, cioè, fine a se stesso, con volontà autonoma, con libertà di arbitrio, e insomma come un mondo chiuso in sé, col sacrosanto diritto di rimaner chiuso e di regnare indisturbato entro la sua sfera d’azione. È il presupposto liberale, ormai superato da una critica perentoria e inconfutabile, in nome di una libertà ben altrimenti profonda e coerente. Ma intanto a quel presupposto bisogna risalire per spiegarsi il valore e i limiti delle scienze sociali nella loro attuale struttura. Ora, da una libertà intesa in senso atomistico è chiaro che non può, a rigore, derivare alcuna scienza, se è vero che una scienza è tale in quanto studia dei rapporti obiettivi. Una scienza sociale può esistere solo a patto che la società costituisca un organismo e cioè un’unità intelligibile. Ma quando si sostiene a priori che la vera unità è l’individuo e che i rapporti sociali sono disciplinati al solo fine del benessere individuale, l’oggetto della scienza si frantuma nella molteplicità di individui, per definizione irrelati e inconfrontabili. L’unica scienza che si salva è il diritto: e il perché è evidente. Se la società si costituisce e vive non per un fine sociale bensì per la salvaguardia dei fini individuali, l’unico contenuto della società sarà la difesa dei diritti reciproci e Tunico contenuto della scienza sociale sarà Io studio dei limiti delle sfere individuali: il diritto. Sarà anche questa una concezione formale ed estrinseca del diritto, inadeguata alle superiori esigenze oggi manifestatesi, ma intanto è certo che un contenuto specifico e positivo la scienza del diritto lo ha pur restando nell’ambito di una teoria prettamente individualistica. E un contenuto positivo ha il diritto perché ha lo Stato cui propriamente quella funzione compete, e che in tanto lia una realtà in quanto ha lo scopo di garentire le sfere degli arbitri individuali. Si spiega, dunque, molto bene come la scienza giuridica ahhia potuto tanto svilupparsi in questi ultimi due secoli; e si spiega anche prescindendo dal fatto che al mondo giuridico si sono affacciati scienziati e filosofi di ben altra forza speculativa che non quella dei più illustri economisti. Si può dire anzi che nel diritto si conchiude ed esaurisce teoricamente tutto il mondo sociale illuministicamente inteso, senza alcun margine per altra scienza che non sia affatto descrittiva. Trasportato questo stesso principio nel campo deH’economia, esso si è necessariamente mutato in principio distruttore della scienza. E, infatti, logicamente lasciata in disparte la realtà dello stato — realtà affatto giuridica con l’esclusiva funzione di determinare i confini interindividuali — o relegata in una particolare scienza detta scienza delle finanze, l’economia ha ipostatizzato l’individuo, rendendolo assolutamente irrelato attraverso l’astrazione dell’homo œconomicus. Ma una volta fatta oggetto di scienza una molteplicità irrelata, nessuna via era aperta per la determinazione di un qualsiasi rapporto entro la stessa molteplicità. 0 l’homo œconomicus è veramente arbitro e allora la relazione tra gli homines si potrà soltanto constatare a posteriori, o la relazione è in qualche modo scientificamente determinabile e allora l’arbitrio dell’individuo è negato. E la scienza economica per gran parte è stata fedele al principio individualistico giungendo a conclusioni meramente negative (libera concorrenza), e quando se ne è scostata è caduta in una serie di contraddizioni che hanno rotto l’unità del sistema, o ne sono rimaste al margine. Peggio è avvenuto quando l’economia, raffinata metodologicamente e spinta da esigenze di maggiore sistematicità, ha voluto togliere al proprio liberalismo la veste di mera ideologia politica, traducendn il presupposto individualistico in termini di pura scienza. Ne è venuta fuori la scuola psicologica e matematica, sboccata in quel fuoco d’artitìzio cbe è la teoria dell’equilibrio economico generale. Non è il caso di ripetere qui quanto si è detto altrove e ripetutamente di questa scuola: basterà porre in rilievo l’antinomia irriducibile tra l’esigenza di scientificità che l’ispira e l’impossibilità di soddisfarla per la natura stessa del presupposto da cui muove. Tutta la storia dell’economia è giunta al suo logico plinto di sbocco e ha segnato il fallimento di una scienza costruita su una base illusoria. Alla debolezza speculativa degli uomini si è aggiunta la contradditorietà del principio informatore e l’economia ha invano tentato per due secoli di sollevarsi a un grado veramente scientifico. La scienza dell economia è ancora una speranza dell’avvenire. Ma cbe cosa è oggi, dunque, la scienza della economia? Credo che migliore risposta non possa esservi di quella data da Luigi Einaudi parlando della storia delle dottrine economiche, nelle pagine riportate in questo volume. Per lui tale storia « dovrebbe occuparsi solo di quelle che sono dottrine economiche proprie, ossia postulati, assiomi, teoremi, corollari enunciati dagli economisti come tali e non come filosofi, o politici, o religiosi, o industriali. Quei teoremi o corollari non sono moltissimi e si chiamano prezzi di monopolio o di concorrenza, o dei beni congiunti, costi comparati, distribuzione dei metalli preziosi fra i diversi paesi del mondo, rendita del produttore, del risparmiatore, del consumatore, equilibrio economico, equazione degli scambi, rapporto fra moneta propriamente detta e surrogati della moneta, elasticità delle curve di domanda e di offerta, traslazione e capitalizzazione dell’imposta, doppia tassazione nella tassazione del risparmio, e simili astruserie, fortunatamente noiose per la comune degli uomini e poco appetitose per gli uomini storici, politici, pratici esercenti banca o commercio o industria, sebbene atte a formare l’unica e suprema delizia degli economisti di professione. Da qualche secolo gli economisti faticano per costruire, in questo campo chiuso, un beH’edificio astratto di teorie logiche e coerenti. Sono lontanissimi dalla meta e questa non sarà mai raggiunta, perché ad ogni passo compiuto, nuove mete, nuovi teoremi attraggono la loro attenzione. Per tanto tempo si erano industriati a creare schemi astratti statici, rappresentazioni atte a raffigurare un meccanismo in equilibrio in un dato momento. Disperavano, per la imperfezione degli strumenti di ricerca da essi posseduti, di riuscire mai a creare schemi atti a raffigurare il « movimento » da un equilibrio a quello successivo ; ossia a trasformare i loro schemi astratti relativi ad un momento del tempo in schemi pure astratti, ma relativi al susseguirsi dei momenti del tempo. Da qualche anno si sono gettati su questo terreno vergine e, nonostante la difficoltà dell’impresa, non dobbiamo disperare che un giorno un uomo di genio, capitato a prediligere la dinamica economica, abbia da dire qualcosa ai filosofi cd ai politici che quei campi del movimento, ossia del reale e del vivo, hanno sempre, a modo loro e giustamente a modo loro, coltivato. Per ora, non sarebbe bene che noi confessassimo di non essere riusciti in tante generazioni adorne di qualche uomo di genio e di molti ingegni di prim’ordine, i quali avrebbero onorato, se ci si fossero dedicati, i più illustri campi della matematica pura, della fisica, della chimica e delle altre scienze, ad uscire dal regno del [Se, dell ipotetico, dell irreale? Non per mancanza di buona volontà; ma per sordità della materia, la quale appena ora si piega, in mano a sottilissimi statistici armati di tutti i più penetranti strumenti del calcolo, a fornire qualche pallidissima luce, per ora diffusa attraverso schemi astratti, intorno al reale, che è vita e movimento. Confessione di fallimento, dunque, e riduzione della scienza alla molteplicità di alcuni postulati, teoremi e corollari. E questa è la parola di uno di quegli economisti che, rifiutando la qualifica di liberali, credono ancora alla saldezza scientifica di teoremi alla concezione liberale pur intrinsecamente connessi. Vano sarebbe per lui fare una storia dell economia, che fosse la storia di un principio della molteplicità delle sue derivazioni. Soltanto alla molteplicità deve badare lo storico e ricercare 1 atto di nascita dei vari teoremi che mette conto d’illustrare. Al di là dei teoremi non c’è il sistema e tanto meno la storia del sistema. E la scienza dunque non c’è se non come giustapposizione di ricerche particolari. La diagnosi è precisa, ma non altrettanto precisa ne è l’interpretazione. La scienza non c’è perché è fallito quel principio liberistico che la negava nell atto stesso rEinformarla : oggi non sono rimasti che gli scarsi frammenti (postulati, teoremi, corollari) che vanno finalmente intesi e rifusi alla luce di un principio ricostruttivo positivo. E, se è vero che il nuovo principio deve rappresentare il superamento del vecchio, contrapponendo alla pura negatività di un individuo irrelato la positività e la concretezza deiridentificazione di individuo e Stato, non può trattarsi evidentemente di un procedere sulla via già percorsa se non nel senso di riprendere il cammino con la consapevolezza del fallimento avvenuto. Nulla di quanto si è fatto deve essere negato: e nessuno potrebbe in buona fede cancellare i tanti risultati raggiunti nella soluzione di particolari problemi (molti, se non tutti, tra quelli citati d’Einaiidi, e altri ancora non meno importanti); ma soli risultati limitati a fenomeni ridotti a termini matematici, o illustrati da una sapiente statistica, o descrittivi di momenti storici determinati: non sono la scienza, l’organismo, il sistema, in cui la luce e sempre unica perché unico il principio c il fine. Quel che si nega è appunto la scienza che non c’è, e non ci potrà essere fino a quando non sarà compiuta quella rivoluzione scientifica di cui fin qui si è discorso. Tra le tante critiche rivolte alla tesi della identità di filosofia e scienza nell’applicazione fattane nei problemi della scienza economica, meritano di essere considerate a parte quelle che ci provengono dai cultori della filosofia. Curiosa posizione, invero, la nostra, di fronte a scienziati, che loro malgrado sono indotti a occuparsi, sia pure di sbieco, di filosofia, per rispondere alle critiche di principio che loro moviamo; e di fronte a filosofi, costretti a scivolare, con evidente senso di disagio, nel campo scientifico, per salvare la filosofia da una presunta contaminazione. Curiosa, perché ci troviamo a dover discutere con illustri scienziati, i quali, per evidente inesperienza di studi filosofici, vengon fuori con ingenuità sconcertanti e gettano un’ombra non lieve sulla stessa scienza che professano; e con non meno illustri filosofi, i quali immaginano una scienza che non esiste e con essa fanno i conti senza voler uscire dal guscio di quella pseudo universalità di cui si ritengono depositari. E gli uni e gli altri, naturalmente, ci combattono in relazione a quella filosofìa o a quella scienza che non conoscono e concordano a priori nella conclusione di ritenerci pseudofilosofi o pseudoscienziati. Ma non è colpa nostra se, stando nel mezzo, ci punge il desiderio di sollevarci sulla reciproca incomprensione di cui gli uni e gli altri danno prova, e di dimostrare come quell’universalità cbe i filosofi difendono sia verbale e apparente e come il rigore sistematico di cui gli scienziati sono orgogliosi abbia la stessa consistenza delle affermazioni filosofiche che si lasciano sfuggire. A noi non resta cbe invitare ancora una volta a porsi da questo più comprensivo punto di vista, dal quale è possibile una visione precisa di quel cbe siano la falsa filosofia e la falsa scienza. Armando Carlinicomincia con l’avvertire, in linea di massima, cbe « bisogna vincere il preconcetto, ancora molto diffuso, cbe ci siano dei principi da riformare nelle scienze con criteri filosofici, per poi procedere alla riforma di esse. I principi sono immanenti al lavorio scientifico, il quale procede riformandosi da sé: l’enunciazione dei principi avviene dopo, non prima. Se non che tale modo d’impostare il problema presuppone già un dualismo dogmatico di scienza e filosofia che preclude inevitabilmente la strada alla comprensione del nostro tentativo. Se principi scientifici e criteri filosofici son cose diverse, se 1 enunciazione dei principi vien dopo, se il lavorio scientifico procede riformandosi da sé, vuol dire cbe la lesi dell’identità di scienza e filosofia resta fuori discussione e che rammonimento va a coloro i quali 5 ) CIr. la sua recensione del mio libro su Lo critica dell'econamia liberale, in Leonardo. mescolano una scienza e una filosofia intese Alla vecchia maniera. Per conto nostro non possiamo aver la pretesa di riformare i prìncipi delle scienze con criteri filosofici perché non conosciamo criteri filosofici che non siano i principi stessi delle scienze: ammettiamo che il lavorio scientifico proceda riformandosi da sé per la semplice ragione che non conosciamo alcun altro lavorio oltre lo scientifico: e infine non possiamo ammettere che l enunciazione dei principi avvenga dopo per la stessa ragione per cui non possiamo ammettere che avvenga piìma essendo i principi, come ben osserva Carlini stesso, immanenti al lavorio scientifico. Ma il Carlini non si arresta a queste osservazioni e riafferma il dualismo in modo ben più perentorio. La vita, egli scrive, nella filosofia gentiliana è pura spiritualità e personalità del soggetto: per lo scienziato, è nel divenire storico della realtà eh egli studia, e a questa cerca di adeguare i suoi concetti. La scienza, se non procede così, con questa mentalità, non è più scienza. Introdurre nella scienza una questione morale (la consapevolezza che quel mondo della scienza ha dei limiti, e che in noi è una ragione di vita che lo supera) è distruggere il prohlema proprio dello scienziato. Dove è da osservare che la vita del soggetto è appunto il divenire storico della realtà ch’egli studia; che il mondo della scienza non ha limiti, bensì li ha ogni scienza vista nella sua particolarità ; e infine che lo scienziato, il quale non avesse la consapevolezza dei limiti della sua particolare scienza, non sarebbe scienziato. Del resto, il dualismo cui si arresta il Carlini è più un residuo di vecchie teorie che non una precisa convinzione. Tanto è vero ch’egli ammette la bontà dei miei saggi e la spiega « non con gli schemi dellTntroduzione ma con quanto l’autore vi porta di conoscenza concreta dei problemi dibattuti, e soprattutto con quel vivo senso della storicità di questi problemi ch’è, nel campo della cultura in generale, specialmente per noi italiani, una delle conquiste fondamentali dell’idealismo contemporaneo. Ora, è chiaro che il senso della storicità dei problemi discussi è appunto la consapevolezza dei limiti delle affermazioni scientifiche e sta a dimostrare, in atto, l’identità di scienza e filosofia. Che poi l’Tntroduzione si riduca a schemi irrilevanti ai fini delle affermazioni scientifiche contenute negli altri saggi, è cosa per lo meno discutibile: comunque ciò non denoterebbe la natura filosofica dellTntroduzione in contrasto con la natura scientifica dei saggi, bensì lo scarso valore filosofico e perciò lo scarso valore scientifico della Introduzione stessa. In altri termini, in essa permarrebbe alcunché di quell’astrattismo filosofico che noi ci proponiamo di combattere non meno del correlativo astrattismo scientifico. Il dualismo di scienza e filosofia è presupposto in modo ancor più perentorio da COLAMARINO (vedasi), che ripetutamente ha voluto dimostrare  ) G. Col A Marino, Scienze e filosofìa, in Nuovi problemi; recensione, La eritrea della economia liberale; Scienze sociali, filosofia e scienze economica, 1 autonomia della scienza dando come unica legittima una scienza non filosofica e perciò a lui. studioso di filosofia, affatto ignota. « Ma peggio sarebbe certamente », egli osserva, « se l’idealismo assoluto volesse entrare nel dominio della scienza per migliorarla e renderla più rispondente alla vita — come appunto sostiene il libro di cui parliamo. Non potendo la filosofia dettar legge alla scienza. né costruirla come una finzione intellettuale che le rimarrebbe sempre estranea, potrebbe accadere che, col concorso di circostanze che non occorre specificare, l’invocato connubio tra scienza e filosofia, segnasse in Italia l’inizio di un periodo di grande confusione, se non nel mondo della cultura, per lo meno in quello della scuola (recensione cit.). E qui, al solito, si parla di una filosofia che dovrebbe entrare nel mondo della scienza, e di un connubio di scienza e filosofia, laddove la tesi che con ciò si vuol combattere è quella di una scienza che è filosofia e che filosoficamente progredisce correggendo i suoi principi. Non si tratta di unire due mondi, bensì di riconoscerne l’identità. Al che Colamarino, finché rimarrà sulla via intrapresa, non potrà certamente giungere per l’inesperienza da lui dimostrata degli studi scientifici in genere e deireconomia in ispecie. Chi dubitasse di questa mia affermazione non avrebbe che a leggere le osservazioni che Colamarino fa sulla mia critica di Pareto, e riflettere in particolare sul seguente passo, in cui si cerca di svalutare il mio giudizio giudicandolo meramente filosofico. Bisogna concludere perciò, egli scrive, « che di uno scienziato è troppo vano e tardivo fare la critica filosofica, dopo che tale critica si è già esercitata sulla forma del sapere scientifico, e che quella critica è poi anche fuor di luogo se deve valere per gli scienziati. Se Pareto non avesse scritto il Manuale, tutti i suoi libri pseudostorici e sociologici non sarebbero valsi a ricordarlo agli scienziati, e quindi lo Spirito non avrebbe sentito il bisogno di occuparsi di lui. Ora, parlare di Pareto, come egli ha fatto, svalutando il Manuale, e concentrando tutto Tinteresse sullo scetticismo sorto nell’animo paretiano nel vano tentativo di combinare insieme la sociologia con l'economia, significa rimanere ai margini dell’argomento, rinunciare a parlare di scienza per eccessivo attaccamento alla filosofia. Se Colamarino avesse letto davvero Pareto e si fosse reso conto delle mie critiche, non avrebbe certamente scritto queste righe che sono la conferma decisiva dell’impossibilità in cui egli si trova di discutere il problema dei rapporti tra filosofia ed economia. Il Manuale ch’egli contrappone ai libri pseudostorici e sociologici è proprio il saggio di Pareto in cui le ideologie sociologiche e pseudofilosofiche prendono il sopravvento sulla scienza economica più aderente alla tradizione rappresentata dal Cours, e mettono capo a leggi e teoremi privi di qualsiasi rigore logico. Lungi dal rinunciare a parlare di scienza per eccessivo attaccamento alla filosofia, io ho voluto dimostrare l’inconsistenza scientifica della costruzione di Pareto dovuta al suo impelagarsi nella filosofia (che è, s’intende bene, una cattiva filosofia). Se Colamarino ritiene che scientificamente il Manuale rappresenti qualcosa di altro e di meglio di ciò che è stato da me filosoficamente criticato, lo dimostri, e si finisca ima buona volta dì contrapporre al mio Pareto un Pareto scienziato che nessuno dà prova di conoscere e di saper difendere contro un giudizio che ne investe i principi fondamentali. E qui mi occorre di dare un consiglio ai contraddittori, filosofi o economisti, che siano, ma soprattutto se economisti: non continuino a oppormi inutilmente vaghi filosofemi e opinioni approssimative sulla possibilità o impossibilità del mio assunto, ma cerchino di saggiare in concreto la validità deile critiche particolari e dei criteri ricostruttivi. Allora soltanto la discussione potrà riuscire feconda ed esser liberata da quel filosofismo di cui sono purtroppo infetti i miei accusatori. Delle tante pagine che il Colamarinn mi ha dedicate non interessano certo quelle che pongono una pregiudiziale filosofica: non interessano e perciò non le discuto. Interessano invece, e vorrei quindi discutere, le osservazioni circa i problemi concreti della scienza economica, ma purtroppo di queste vi ha molta scarsezza negli articoli citati. L’unico punto un po’ determinato è quello che concerne l’ipotesi dell homo cp.canomic.ua, da Colamarino riproposta a fondamento della scienza economica. Contro il Contento, ch’era della stessa opinione, e che aveva definito l’homo œconomicus « l’inividuo immaginato nella sua pura condotta economica, la quale, nei moventi e nei fini, si ritiene informata, generalmente, ad un tipo uniforme corrispondente alla ricerca della massima soddisfazione col minimo sforzo, cioè all’applicazione integrale del principio lfi Suino del minimo sforzo », avevo opposto che, se tale è l’ homo cp.conomicus. l’uomo è sempre economico, in ogni campo della sua esistenza, perché sempre tende alla massima soddisfazione col minimo sforzo, e che dunque la fictio dell’/i. ce. si rivela ancora una volta assolutamente inadatta a servire da ipotesi scientifica. Ora, su questo ragionamento, « impressionante nella sua semplicità », come dice lo stesso Colamarino, si trova modo di sofisticare distinguendone la validità scientifica da quella filosofica e concludendo che il principio si estende, sì, a tutti i campi dell’attività umana, ma acquista un particolare significato allorché si parla di economia politica. « E qual’è, continua Colamarino, C( l’economicità sulla quale si erge l’edificio della scienza economica? È indubbiamente l’attività che sì esercita nella produzione, nello scambio, nel consumo dei beni materiali, misurabili, trasferibili, o riducibili comunque a nozione quantitativa. E l’homo œconnmicus non è altro che l’individuo che esercita tale attività: individuo che non è certo l’Io della filo sofia e neppure tutto l’individuo sociale (che allora la economia sarebbe tutta intera la scienza sociale), ma che è appunto quell’astrazione, quella fictio necessaria alla scienza dell’economia » (Scienze sociali ecc.). Ma con ciò Colamarino conferma appunto che la definizione del Contento, e di tanti altri prima, è errata, perché generica, e che il vero homo ceconomicus è invece l’individuo che esercita la sua attività nella produzione, nello scambio, nel consumo dei benimateriali, misurabili, trasferibili, o riducibili comunque a nozione quantitativa. Filosofica o scientifica che fosse, la mia obiezione era dunque valida e la definizione è stata cambiata. Che poi la nuova formula non abbia, neppur essa, alcun valore scientifico, è cosa che dovrebbe risultare abbastanza evidente dopo tante discussioni in proposito, ma non sono alieno dal tornarvi su, se al Colamarino, o a qualche altro in sua vece, venisse il desiderio di maggiori delucidazioni. Ciò che importa è di discutere su questa piano, senza continuare a domandarsi se si tratti di scienza ovvero di filosofia, e cercando, semplicemente, di ragionar bene. À coronamento della sua grande opera di storia economica. Werner Sonibart ha voluto compiere un tentativo di sistemazione scientifica dei principi fondamentali dell’economia, e ha scritto un’opera (Die drei Nationalókonomien, Miinchen und Leipzig, Duncher und Humhlot) intenzionalmente rivoluzionaria, che non potrà non destare scandalo presso tutti gli economisti convinti dell'assolutezza e infallibilità delle loro leggi. Ai cattedratici ortodossi che si compiacciono della solidità di quel corpo di dottrine economiche messo insieme dai classici e via via perfezionato dagli scienziati puri pervenuti al rigore delle discipline matematiche, il Somhart getta risolutamente in faccia l’accusa di radicale incongruenza e di cieco dogmatismo. Lungi dal rappresentare una scienza esatta, l’economia si trova oggi in una situazione disperata -verzweifelle J.u&tand unserer Wissenschaft -che Somhart non teme di rappresentarsi con le fosche tinte di uno spaventoso caos. Naturalmente il giudizio è confortato dallanalisi dei motivi e dalla dimostrazione inoppugnabile della indeterminatezza dei principi su cui la scienza delFeeonomia è stata fondata. Si tratta di un imprecisione che ha involto lo stesso concetto di economia e poi lutti i metodi di ricerca e tutta la terminologia scientifica. Criteri estrinseci di classificazione, interferenza di motivi disparati, delimitazioni arbitrarie, presupposti infondati e concetti equivoci hanno portato la confusione nel campo degli studi economici, facendo smarrire ogni senso dei suoi confini e delle sue caratteristiche peculiari. L’economia si è accontentata fin qui di concetti che a guisa di vagabondi si sono aggirati tra 1 confini dei vari paesi, senza Leu sapere dove avessero diritto di cittadinanza. Con tal genia errante e vagabonda l’economia ba voluto riempire i quadri del suo esercito di concetti: valore, bisogno, bene, piacere, pena, utilità, eco., e ha persino concesso a questi vagabondi la dignità di “Grundbegriffe.” Non si tratta dunque di eliminare errori o di colmare lacune, bensì di trasformare ab imis tutta la scienza economica mediante l’assunzione di principi affatto diversi e a confini ben determinati. Non v’è uno solo dei concetti di cui ] a scienza economia oggi fa uso che non sia di carattere empiri co e perciò suscettibile delle infinite interpretazioni giustificate dalle contingenze del suo uso. Aver la pretesa di far della scienza rimanendo su un terreno così poco stabile è un assurdo che il Somharf riesce a mettere efficacemente in luce, mostrando l’urgenza dei rimedi. Ed egli senz’altro’ afferma, con simpatico orgoglio, di aver appunto intenzione di recare « un po’ d’ordine in questo caos )) e di dar finalmente rigore scientifico a una disciplina che con troppa evidenza ha dimostralo di non averne affatto. Con questo libro una nuova epoca dovrebbe, dunque, iniziarsi nella storia della scienza economica. Per chiarire la sua posizione di fronte a tutti gli altri indirizzi scientifici, Sombart compie fin dalle prime pagine una generale ripartizione dei sistemi di economia in tre grandi tipi, caratterizzati dal metodo di ricerca: il metafisico o normativo (Tirhtende Nationalokonomie), il naturalistico o classificatorio o descrittivo (ordnende A lational-Òknnomie) e infine lo spiritualistico o critico (vptslehende Nationalokonomie). Del primo sarebbe rappresentante tipico Sau Tommaso, del secondo il Pareto, del terzo il Sombart (das « meinige »). E tutto il libro quindi vien ripartito in tre parti, due delle quali volte alla critica dei sistemi giudicati inadeguati (metafisico e naturalistico) e l’ultima invece destinata a porre i fondamenti della nuova costruzione spiritualistica. L’economia normativa non ba lo scopo di studiare il mondo nella sua effettiva realtà, ma di indicare ciò ch’esso deve divenire: non si riferisce all’essere ma al dover essere, e in quanto tale pone le direttive della condotta umana per l’instaurazione dell’economia giusta. I concetti su cui essa si fonda sono perciò concetti sociologici come classe o mestiere; concetti di giustizia come giusto prezzo, giusto salario o giusta distribuzione; concetti di valore come sfruttamento, ecc. I suoi fini sono quelli di determinare i valori assoluti, di riconnettcre ad essi le proposizioni scientifiche, di tradurli nella pratica della vita e di segnalare le deviazioni della realtà dall’ideale. Dopo aver esposto i vari tipi di questa economia normativa, l’Autore si domanda se essa sia scientificamente ammissibile e se possa quindi rappresentare il vero canone metodologico dello studioso. Nella risposta si rivelali d’un tratto tutti i limiti dell’orizzonte speculativo del Sombart e si iniravvedono le difficoltà che egli dovrà superare per liberarsi, almeno in parte, dai pregiudizi della ideologia da cui prende le mosse. Ancora fedele al concetto positivistico di scienza e alla conseguente critica antifilosofica, egli distingue in modo categorico il mondo dell’esperienza dal mondo dei valori, la scienza dalla filosofia, e alla prima riconosce la possibilità di una verità obbiettiva laddovealla seconda consente un significalo esclusivamente soggettivo. L’economia, in quanto scienza, non può indicarci l’ideale di una maggiore produzione, perché tale ideale implica la soluzione di un problema non semplicemente economico, ma totale o metafisico, quale è quello del fine sociale: implica, cioè, una particolare visione del mondo una Weltanschauung, che trascende assolutamente i meri dati scientifici. Né è possibile, secondo il Sombart, che tale concezione integrale informi comunque di sé una scienza particolare, perché la differenza fra la parte e il tutto, ossia tra la scienza e la filosofia, non è soltanto quantitativa, bensì anche qualitativa. La filosofia è da lui intesa come intuizione religiosa, come conoscenza personale e soggettiva: se essa si insegna, i] suo insegnamento non può considerarsi come 1 introduzione a una verità, ma come una suggestione personale del maestro sull’alunno, come un invito alla lede del maestro. La conoscenza filosofica, perciò, è essenzialmente relativistica e può rivelarci un solo aspetto della realtà, mutando legittimamente da persona a persona, con pari validità per ognuno. Alla fede scientifica, originariamente positivistica, il Sombart può giustapporre, senza timore di ledere la sicurezza obiettiva dell’esperienza, una filosofia relativistica e scettica, fornitagli a troppo buon mercato dall’indulgente Simrnel. E allora dalla scienza si dà il bando a tutti i giudizi di valore, che. in quanto personali, non possono costrìngere logicamente, ma debbono rimanere fuori dell’esperienza e dell’evidenza. 11 loro fondamento è Femore: per i valori 1 uomo vive e muore, ma i valori non conosce: essi appartengono alla sfera filosofica o religiosa, nella quale dunque può solo rientrare tutta l’economia normativa. In tal guisa vien liquidato dal Sombart uno dei tipi fondamentali della scienza economica, e il lettore non può non rimanere sorpreso dalla facilità e diciamo pure — superficialità, con cui si ripetono monotonamente la istanza scientifica del positivismo, l’affermazione dogmatica della validità di un’esperienza e di un’evidenza logica non meglio definite, l’accusa di relativismo alla filosofia, e 1 impossibilità scientifica di un qualsiasi giudizio di valore. Se dovessimo arrestarci a questa prima parte del libro, non avremmo che a concludere in modo affatto negativo, perché se il Sombari avesse sul serio mantenuto fede a tale pozione iniziale, nessun motivo nuovo e nessuna nugoli esigenza sarebbero scaturiti dalla sua ricostruzione. 1] dualismo di conoscenza e fede, di fatto e valore, di oggettivo e soggettivo, ci appare finora così radicale e grossolano, da far ritenere completamente fallito il tentativo e da far per lo meno dubitare della serietà di un effettivo riordinamento della scienza economica. Più che la rozzezza dei motivi critici^ meraviglia vedere in un uomo di tanta cultura l’assoluta incapacità di prender atto dello sviluppo del pensiero contemporaneo e delle infinite istanze critiche sollevate d’ogni parte al massiccio credo positivistico, cui il Sombart sostanzialmente serba ancora fede. Lo stesso Pareto, del quale egli ricalca fin qui le orme, aveva detto queste cose in ben altra e più nuova maniera: né si capisce come vi si possa ancora tanto insistere, senza porre in campo argomenti nuovi o senza impostare diversamente la logora questione. Si tratta, oltre tutto, anche di sensibilità e di gusto. Ma fortunatamente il Sombart. pur portando attraverso tutto il libro il peso di tali presupposti, sa presto sollevarsi a un altro livello e affacciare esigenze in netta antitesi con le prime affermazioni. Da una parte si affina in lui il concetto di esperienza, dall altra si attenua fin quasi a scomparire il crudo dualismo di scienza e filosofia. E già nell analisi del secondo tipo di sistemi economici, quello classificatorio o descrittivo, si comincia a delineare una forte istanza critica rispetto alla comune concezione naturalistica della scienza. Caratteristiche della scienza della natura sono la validità universale e l’assoluta obiettività dei principi e delle leggi: ma questo risultato, che è il risultato più grande raggiungibile dalla scienza, è possibile solo a patto di rimanere in una zona meramente formale. Se analizziamo, infatti, le proposizioni delle scienze naturali, ci accorgiamo ch’esse si riferiscono a fenomeni morii, già realizzati fìssati e resi calcolabili attraverso un processo di elementarizzazione. Il tutto, l’essenza della natura sfugge completamente e va relegato nei campi della metafìsica: ciò che resta oggetto di scienza sono i particolari aspetti, i fatti semplici, i fenomeni misurabili, i quali vengono raccolti e ordinati secondo principi formali estrinseci (concetti generali, schemi, leggi, uniformità). « La conoscenza, come viene intesa nelle moderne scienze naturali, è una comprensione esteriore delle cose; è una conoscenza dal di fuori, o, come fu anche detta, particolare, vale a dire ch’essa si limita a un solo carattere: la quantità (Gròsse). Fornendoci solo la misura o il numero delle proprietà dei fenomeni, le scienze naturali hanno sostituito un rapporto formale e unilaterale all’unità complessa. Ora, v’è un modo di costruire la scienza delreconomia, che si ispira appunto a tali criteri naturalistici, poco preoccupandosi del valore conoscitivo dei risultati. E il Sombart giustamente ravvisa nei seguaci di questa ordnende Nationalókonomie non solo i teorici delFoggettivismo, ma gli stessi soggettivisti, gli psicologi, i marginalisti e i seguaci delle teorie dell’equilibrio. Egli non si lascia ingannare da un presunto soggettivismo e. dopo aver osservato cbe esiste un modonaturalisticodi fare la scienza dell’anima e dello spirito, giunge fino a rilevare il carattere equivoco del principio di ofelimità del Pareto. Una critica condotta in termini sì efficaci e rigorosi della concezione naturalistica della scienza basta a farci comprendere come la posizione piattamente positivistica dell’altra critica alla richtende Nationalókonomic non fosse sufficiente per individuare il livello speculativo cui Sombart è pervenuto. Qui si rivela una coscienza abbastanza esatta e approfondita di tutto quel movimento di reazione idealistico alla scienza che ha caratterizzato gran parte del pensiero filosofico e scientifico degli ultimi decenni, e si dimostra a chiare note una radicale insoddisfazione per rinfallibile obiettività e assolutezza di cui presumevano avere il monopolio i positivisti. Se, quindi, si volesse nuovamente definire, limitandoci a questa seconda tappa, la concezione speculativa del Sombart. occorrerebbe cercarne i limiti in quella stessa critica alla scienza cbe caratterizza le filosofie contemporanee antintellettualistiche. E i lìmiti allora si ritroverebbero nel dualismo di natura e spirito, cbe pesa purtroppo sulla scienza e sulla filosofìa come dualismo delle stesse discipline, e che fa ritenere tuttavia a molti insuperabile la concezione naturalistica delle scienze naturali. L’accusa che il Sombart muove alla scienza della economia non riguarda, per sua esplicita confessione, la scienza della natura, la quale è e deve essere naturalistica, e necessariamente degenera nella metafisica quando voglia supeiare il proprio caratiere meramente formale: il che vuol dire che scienza naturale e scienza sociale sono assolutamente eterogenee, e che alla prima competono metodi di ricerca affatto diversi da quelli seguiti dalla seconda. La conseguenza ultima sarà che la scienza sociale per quel tanto che interferirà con la scienza naturale diverrà per definizione impossibile e assurda, come appunto confermerà nell’ultimo svolgimento del suo pensiero lo stesso Sombart. Egli, al solito, non sospetta che la critica alla scienza ha il solo valore di una critica alla concezione naturalistica della scienza e non pensa neppure che la scienza della natura possa farsi con altri criteri che non siano quelli estrinseci del positivismo : dalla sua critica perciò egli non perviene a una nuova visione della scienza, in generale, bensi soltanto a un distacco arbitrario delle scienze sociali, che vorrebbe sottrarre alla metodologia propria delle scienze naturali. È questo certamente un passo innanzi rispetto alla comune critica alla scienza, ma è un passo fatto a costo di un dualismo che comprometterà inevitabilmente la nuova costruzione. Dall’analisi compiuta della richtende Nationalókonomie e della ordnende Nationalókonomie sono scaturiti per contrasto i caratteri che dovrà avere la vera scienza dell’economia, la verstehende Nationalokonomie. E il problema viene a porsi in termini almeno apparentemente rigorosi, quando il Sombart affaccia l’esigenza di un criterio conoscitivo che sfugga per la sua obiettività al relativismo di una metafisica soggettività e non si esaurisca d altra parte in una sistemazione affatto estrinseca e classificatoria dei fenomeni sottoposti a indagine. La nuova scienza dovrà giungere alla essenza della realtà economica, pur non abbandonando mai il terreno concretissimo dell’esperienza. Per giungere a questo risultato il Sombart compie il maggiore sforzo speculativo che gli è possibile assumendo entusiasticamente a guida indiscussa il pensiero del nostro Vico, dal quale appunto trae argomento per ipostatizzare il dualismo, cui abbiamo accennato, di scienza della natura e scienza sociale. (( lo sono disposto )), afferma risolutamente il Sombart, « a riconoscere in Vico il padre delle moderne scienze dello spirito e di un relativo particolare metodo di conoscenza. Egli è. a mio modo di vedere, il primo che nei tempi moderni abbia contrapposto con coscienza le scienze storiche alle scienze naturali e abbia dimostratolanecessità perle prime di un metodo d indagine diverso dall’usuale)). E che il Vico sia proprio il padre della « verstebende » sociologia il Sombart vuol dimostrare trascrivendo addirittura nel testo italiano il noto passo della Scienza nuova: «Questo mondo civile certamente egli è stato fatto dagli uomini: onde se ne possono, perché se ne debbono, ritrovare i Principi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana. So che a chiunque vi rifletta sopra, deve recare una somma maraviglia, come tutti i Filosofi seriosamente si studiarono di poter conseguire la Scienza di questo Mondo naturale, del quale, perché Dio egli il fece, esso solo ne ha la Scienza ; e trascurarono di meditare su questo Mondo delle Nazioni, o sia Mondo civile, del quale, perché l’avevano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la Scienza gli uomini ». Ora, la scienza dell’economia, come tutte le scienze sociali e la sociologia in genere — il Sombart preferisce ancora questo termine a quello di storia — riguarda appunto il mondo fatto dagli uomini, vale a dire non il mondo della natura, bensì quello dello spirito o della Kultur : quel mondo che noi possiamo conoscere veramente perché costruito da noi. « Noi e noi soltanto siamo i creatori della cultura e ci muoviamo in questo piccolo mondo come Dio in quello grande. In questo nostro mondo noi siamo in effetti il Dio onnisciente e onnipotente », Intesa in tal modo la cultura come tutta l’opera umana in contrapposizione alla natura, si comprende bene come il Sombart possa concepire una scienza dell’economia spiritualistica e al tempo stesso sperimentale e obiettiva. Metafisica era la richtende Natianalòkonomie perché presumeva di conoscere un mondo trascendente il nostro pensiero: formalistica era la ardnende Nationalòkonomie perché voleva arrestarsi nel campo delle scienze sociali agli stessi criteri validi per le scienze naturali : ma non più metafisica né formalistica sarà la verstehende JSationalókonomie, che potrà giungere all’essenza delle cose, senza tuttavia sconfinare in un mondo trascendente. Essa potrà divenire veramente una Erfahrungxwi.'isp.nschaff, quando sarà concepita come una Geistwissenschaft nel senso di Kulturtcissenschaft. Con l’affermazione della verstehende Nationnlofconomie come sociologia il Sombart raggiunge il più alto livello che gli è consentito dai suoi presupposti filosofici: e alla luce di essa ci è ota possibile ritornare alle critiche delle due prime forme scientifiche dell’economia e intravederne quel più profondo significatico intuitivo che mal ci è apparso attraverso la rigorosa riduzione in termini logici che ne abbiamo fatto. Perché adesso ci è dato capire come la critica grossolanamente positivistica rivolta alla richtende Natiflìialakonomie non stava a dimostrare una meschina adorazione del fatto, visto fuori della vita dello spirito e della storia, bensì piuttosto l’insofferenza per ogni forma di scienza moralistica, volta a determinare aprioristicamente i fini dell’attività umana in genere e di quella economica in ispecie. Se in quella critica predominava senza dubbio il vecchio pregiudizio positivistico di un’esperienza intesa in modo affatto oggettivo, è pur vero che a esso si accompagnava una coscienza storicistica di ben altro valore, tendente non all’eliminazione dei valori spirituali, bensì al loro spostamento dall’astratto campo della metafisica moralistica alla salda e concreta realtà della storia. Che è poi la 6tessa esigenza che induce Sombart a svalutare le scienze naturali e insieme il modo naturalistico dì costruire la scienza economica. Non che egli non creda utile una sistemazione formale dei dati dell’econoniia, che anzi ne conferma in questo stesso libro l’opportunità e addirittura la necessità, ma non ritiene che in essa possa esaurirsi il compito di una scienza destinata allo studio di una realtà viva e progrediente quale è l’attività umana creatrice della storia. Gli economisti tanno finora oscillato tra un arbitrario moralismo e un formalismo tautologico enon hanno mai saputo assurgere a una effettiva comprensione dei fenomeni che volevano spiegarsi: Sombart ne ha visto efficacemente le ragioni ed è salito a lina forma superiore di storicismo. Lo storicismo del Sombart, infatti, è molto diverso da quello tradizionale della scuola storica e si comprende come egli non ami troppo la parola, che pur è la più adatta a caratterizzare la sua posizione. Al vecchio storicismo Sombart è giustamente contrario e la diagnosi che ne compie coglie proprio il segno. Se la scuola storica aveva avuto rintuizione delle complessità e varietà dei fenomeni economici, non aveva poi saputo elevarsi fino al loro dominio ed era finita neH’irrazionalismo : lo storicismo, come descrizione empirica dei fenomeni visti nella loro caotica molteplicità, non è la scienza ma la negazione della scienza. Lo storicismo di Sombart, invece, penetra al fondo della mutevole realtà e vuol coglierne la logica del movimento: e questo può fare, perché, grazie a VICO (si veda), ha compreso che quella logica è la logica stessa del nostro pensiero. Ma se così è, necessariamente ne deriva che in tanto è possibile intendere un qualsiasi fenomeno della realtà — e nel caso particolare, un fenomeno economico — in quanto lo si riconduce al sistema integrale di quel pensiero che gli ha dato origine dando origine a tutto il mondo della cultura. Vano e assurdo è ogni tentativo di determinare un qualsiasi principio scientifico nel campo dell'economia, se non si tiene ben presente che il fatto economico è intelligibile soltanto in funzione di tutti gli altri aspetti della realtà in cui esso sorge e si svolge. E il significato stesso dei termini cbe si adoperano dagli economisti non è definibile se non in rapporto alle diverse condizioni storiche, continuamentevariando con il variare di queste; sì che soltanto con un atto di arbitrio ingiustificato è possibile agli economisti fissare una legge sciertifiea di presunto valore assoluto, trascendente il tempo e lo spazio. L’errore più grave della scienza economica quale si è svolta fin qui è stato appunto quello di ipostatizzare alcuni termini e alcuni principi, obliando il nesso loro imprescindibile con la concreta vita storica dalla quale termini e principi avevan tratto alimento. Anche le parole di significato più generale e apparentemente affatto libere da legami con una particolare epoca storica — ad es. scambio — in effetti non significano nulla, e per diventare davvero intelligibili hanno bisogno di una determinata qualificazione storica — lo scambio presso i primitivi, nell’epoca capitalistica, ecc. Il che implica che la scienza dell’economia va ricostruita ex novo, come scienza storica che utilizzi concetti storici e si ponga perciò in grado di superare l’attuale stato caotico dovuto al giustapporsi di principi originati da diverse situazioni storiche e tuttavia messi su di uno stesso piano, con la pretesa di farli corrispondere a qualsiasi situazione storica. Si continuano oggi a ritenere scientifiche tante leggi dell’economia classica, e non ci si accorge che quelle leggi non hanno più valore perché i termini in cui sono espresse 17 - Srum  hanno cambiato di significato, senza che Leconomi- sta ahhia riflettuto sulla portata di tale mutamento. E a poco a poco l'economia è diventata un lavoro di mosaico, in cui ogni pietruzza sta per conto suo, senza che neppure in tale indipendenza possa avere una fisionomia sua, suscettibile com’è di infinite colorazioni, alle diverse luci che la illuminano. 11 Somhart ha visto come pochi questa essenziale inorganicità e incongnienza della scienza economica e ha saputo scoprirne la piu profonda ragione. Senonché il Somhart non può raccogliere tutti i frutti della sua concezione per i limiti stessi entro cui rigorosamente la circoscrive arrestandosi alla dottrina dì Vico. Se l'aver riallacciato il nuovo storicismo al pensiero del grande filosofo italiano costituisce il più gran merito del Somhart, l’aver poi creduto che si possa ancor oggi, dopo due secoli di intensissimo travaglio speculativo,impostareil problema proprio negli 6tessi termini, è purtroppo tale un errore da compromettere in modo irrimediabile il risultato di ogni ricerca. L’errore consiste nel dualismo vichiano di mondo umano e mondo naturale, considerati l’uno come fattura dell’uomo e l’altro di Dio. Poiché si può essere dualisti quanto si vuole, ma bisogna pur rendersi conto che, se esistono due realtà, esiste per ciò stesso il problema del loro rapporto. Ora, tale rapporto è sfuggito in gran parte alla mente del Vico, ed è appena analizzato da Somhart che lo concepisce in modo molto estrinseco e a posteriori. Egli non si preoccupa, infatti, di ricercare l’unità originaria dei due mondi, sì ch’essi possano rendersi intelligibili alla luce di un unico fine, ma si limita a constatarne i rapporti di coesistenza e il reciproco influsso: le due realta restano presupposte e la soluzione del problema si trasforma in un mesebino modus vivendi. Se l’uomo fosse davvero costretto a creare — secondo le parole del Somhart — il piccolo mondo della cultura lasciando nel mistero della sua essenza il grande mondo della natura creata da Dio, evidentemente il grande non potrebbe non soffocare il piccolo e renderlo affatto illusorio. Se viviamo nella natura, se natura siamo noi stessi venendo alla luce, se la nostra vita fisica e spirituale è costretta a svolgersi nelle determinate condizioni fissate dalla natura, com’è poi possìbile comprendere l’essenza di quel che facciamo ignorando l’essenza di quel che troviamo? Se esistono due mondi, l’uno nostro e l’altro di Dio, è pur necessario che il primo sia subordinato al secondo e adegui il proprio fine a quello dell'altro; ma se è così, o l’uomo conosce il fine di Dio, vale a dire l’essenza della natura, e allora può agire seguendone le tracce, o non lo conosce, e allora procede alla cieca senza aver coscienza della direzione del proprio cammino. E la scienza, del cui rinnovamento il Sombart giustamente si preoccupa, deve ormai decidersi ad affrontare il problema nella sua integrità, diventando storicistica nel senso più rigoroso della parola e cioè intendendo per storia dell’uomo la storia stessa del mondo, e riconoscendo in tal guisa l’identità assoluta di storia e di filosofia.Scienza storicistica e scienza filosofica non possono essere altro che sinonimi. Da questa conclusione rigorosa e perentoria il Sombart si è ritratto per un residuo di positivistico odio contro la filosofia e per il conseguente agno- ticismo metafisico ; ma s’egli si informasse più ade-  ^natamente dei risultati del movimento idealistico italiano finirebbe forse eoi convenire cbe, se ancora di metafisica resta traccia nella filosofia contemporanea, è proprio in cotesto agnosticismo positivisti- co, il quale, proprio perché nega la possibilità di conoscere l’essenza della natura, ammette nientemeno l’esistenza di un mondo trascendente e si preclude la via a una conoscenza effettiva della realtà. Perché si possa parlare di scienza è necessario cbe il nostro conoscere non abbia limiti insuperabili e cbe il mondo di Dio sia lo stesso mondo nostro: fino a quando nel concetto tedesco di cultura non sarà risolta anche la natura, esso non potrà caratterizzare l’umana realtà nella sua più profonda consapevolezza. Che tale sia veramente il limite della concezione del Sombart basterebbe a dimostrarlo la parte ricostruttiva della sua teoria, nella quale dovrebbero essere tracciate le linee maestre della nuova scienza economica. Putroppo questa è la parte più scadente e irrilevante del libro, dove l’insostenibi- lità del dualismo viebiano finisce col rivelarsi a ogni passo in continua ed evidente contraddizione, e dove l’urgenza dei motivi più disparati non consente una visione organica del problema. Tutto ciò ch’era stato negato e relegato nel mondo della filosofia o della metafìsica, viene ora bruscamente fuori a riaffermare esigenze imprescindibili, e il Sombart lutto accetta rifacendo un posticino alla filosofia deH’eco- nomia, alla richtende ISationalòkonomie, alla dottrina dei valori, ece., senza che nella molteplicità degli elementi giustapposti sia più possibile discernere un criterio direttivo rigorosamente determinato. È la scienza che deve servire alla vita e cbe deve perciò riconciliarsi in qualche modo, attraverso una serie di compromessi, con il mondo naturale e il divino incautamente trascurato. Ma intanto Punita della visione si spezza a causa della molteplicità dei punti di vista e la scienza diventa la somma anodina di infinite constatazioni. L’esigenza storicistica è tradotta in termini po9tivistici e si muta nel bisogno di tutto includere oggeltivisticamente nel gran pozzo della scienza, dove tutto il bene e tutto il male va buttato a pari titolo per il fatto stesso di esistere. E la così detta W'ertefreiheit torna a essere ancora una volta — sia pure attraverso qualche timida smentita — il più alto ideale scientifico. Se vogliamo ora trarre le somme di quanto 6Ì è detto e indicare brevemente il risultato del tentativo compiuto dal Somhart di giudicare tutta la scienza economica classica e contemporanea, e di gettare le fondamenta della nuova costruzione, dobbiamo concludere che l’istanza critica dell’opera supera di gran lunga il breve abbozzo sistematico e che il lato veramente positivo si riduce in effetti a una mera esigenza. Quel che v’è di saldo e perentorio nel volume è la diagnosi, spietata ma giustissima, delle attuali condizioni della scienza. La erisi è presentata nelle sue effettive proporzioni e soprattutto nc sono indicate con grande precisione le ragioni più notevoli: dogmatismo, antistoricismo, indeterminatezza di principi e di terminologia, asistema licita, metodo naturalistico, moralismo. Sono accuse di cui gli economisti non riescono a persuader- si, ma che pure ormai dovrebbero richiamare una più profonda attenzione ed essere esaminate con mentalità più sgombra da preconcetti. A noi in particolare, che da quattro anni andiamo precisando questa diagnosi nei Nuovi studi di diritto, economia e politica, non può non esser gradita l’analogia dei risultati cui è pervenuto il Sombart; e tanto più interessante e fecondo sarebbe raccordo se potesse estenderei al lato più propriamente ricostruttivo del sistema. Poiché se la diagnosi della economia attuale basta a dimostrare la necessità di una visione storicistica della scienza, non è sufficiente di ner sé sola a chiarire la peculiare forma che deve avere il nuovo storicismo. F a noi pare che il Sombart, per gli stessi presupposti speculativi da cui prende le mosse, è fatalmente destinato ad arrestarsi ad una forma di positivismo vichianeggiante in cui la vita vera della storia 9Ì frange e si acqueta tuttavia nell’eclettica stasi contemplativa della sociologia. Ugo Spirito. Spirito.Keywords: stato/cittadini, pathos romantico, romanticism e nuovo ordine, sindicalismo, fascismo da sinestra, filobolcevicco, corporativismo, attualismo, stato fascista, equilibrio liberta/autorita, gentile e spirito, i filosofi fascisti, filosofia e revoluzione, romanticismo, proprieta, filosofia come pedagogia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Spirito” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Spisani: la ragione conversazionale della contestazione – la scuola di Ferara -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Ferrara), Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Ferrara, Emilia-Romagna. Si laurea a Padova con una tesi di sull'attualismo italiano, Natura e spirito nell’idealismo attuale” (Milano, Fabbri). In seguito collabora a Urbino. A Bologna fonda “Rassegna di Logica”  e il centro di logica. In una lettera Carnap critica una sua decisione di non pubblicare un'opera. Morì suicida. Altri saggi: “Neutralizzazione dello spazio per sintesi produttiva” (Bologna, Cappelli); “Implicazione, endo-metria e universo del discorso” (Bologna) e “Introduzione alla teoria generale dei numeri relativi, con ingresso dei numeri moltiplicatori e divisori, legati alla logica e alla matematica trascendentale” (Bologna, Centro di logica e scienze comparate, analisi matematica). C'è una relazione divisoria che ipotizza il valore “M,” numero logico trans-infinito all'origine della neutralizzazione dello spazio trans-finito. “ℵ” va verso successivi aumenti. Ma è la relatività dei numeri, espressa nel calcolo per valori di posizione, che ne individua la direzione inversa. Spiega le sue scoperte in forma di dialogo. Tra gli interlocutori la misteriosa figura della piovra Clipso.  Logo-fenica.  Altri saggi: “Il numero nell'istanza ontologica del rapporto d'identità” (Imola, Galeati); “Logica ed esperienza” (Milano, Marzorati); “Logica della contestazione” (Bologna, Cappelli).  Sulla storia della pubblicazione della Teoria generale, importanti ricerche erano già pronte. Allora, dice: “Ne discuto con Carnap. Carnap sottopone i risultati dell'indagine. Carnap spiega anche le ragioni che mi induceno a non diffonderne le conclusioni. Carnap risponde che quella scelta gli sembra affatto ingiustificata: l'operas crises non poteva rimanere nel silenzio. Tuttavia non cambiai parere. Non avrei pubblicato, e glielo confermai. “Dai numeri naturali ai numeri relativi, moltiplicatori e divisor”. Gallo, “Un uomo genial”, Nuova Ferrara, L'ha vegliato prima di suicidarsi, di Gulotta, la Repubblica, sezione Bologna, Archivio. Franco Spisani. Spisani. Keywords: il concetto di numero, numero naturale, numero relativo, logica auto-genetica, numero relativo moltiplicatore, numero relativo divisore, opposto, contradittorio, regole e segni, contestazione, esperienza, limiti della metafisica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Spisani” – The Swimming-Pool Library.

 

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