Luigi Speranza -- Grice e Sarapione: la ragione conversazionale al portico
romano – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A philosopher of the Porch
imprisoned by the Romans, Grice: “for no other reason than the Romans deeply
detesting the Porch!" Sarapione
Luigi Speranza -- Grice e Sarlo: la ragione conversazionale dell’idealismo
– la scuola di Napoli – filosofia napoletana -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo campanese.
Filosofo italiano. Napoli, Campania. Francesco De Sarlo Francesco De Sarlo (San
Chirico Raparo, 13 febbraio 1864 – Firenze, 14 gennaio 1937) è stato un
filosofo e psicologo italiano. Biografia
Nel 1900 vince la Cattedra di filosofia teoretica presso il Regio Istituto di
studi superiori di Firenze dove resterà fino al 1933. È in questa città che
frequenta i seminari tenuti da Franz Brentano presso la Biblioteca Filosofica.
Nel 1903 fonda a Firenze il "Laboratorio di psicologia sperimentale"
che fu inizialmente annesso alla Facoltà di Lettere e Filosofia del Regio
Istituto di studi superiori. Allievi di De Sarlo furono, tra gli altri, Antonio
Aliotta (1881-1964), Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952), Enzo Bonaventura
(1891-1948), Eustachio Paolo Lamanna, che sposò sua figlia Edvige, Eugenio
Garin e Alberto Marzi. Il De Sarlo si
trova in aperto contrasto con Benedetto Croce e Giovanni Gentile che ritenevano
si dovesse separare il metodo della filosofia da quello della scienza. Per De
Sarlo, invece, il metodo conoscitivo doveva essere comune in quanto sia il
filosofo che lo scienziato si occupano dello stesso campo d'indagine. Per
questo considera come unico metodo quello rigorosamente sperimentale di Wilhelm
Wundt e quello esperienziale di Brentano. Nello stesso anno pubblica, nel
capoluogo toscano, il saggio: I dati dell'esperienza psichica. La novità introdotta da De Sarlo è il
concetto che i fenomeni fisici esistono in quanto diventano fenomeni psichici,
contenuto della nostra coscienza. Dunque, l'oggetto di studio della psicologia
doveva essere l'esperienza intenzionale del soggetto. L'unica vera esperienza
diretta è quella psichica. Esperienza interna ed esperienza esterna vanno così
a configurarsi come due aspetti dello stesso fenomeno; non c'è un'esperienza
più vera dell'altra poiché nessuna delle due è indipendente dall'altra. Per De
Sarlo è imprescindibile studiare la coscienza: a suo avviso, gli
"oggetti" arrivano necessariamente alla nostra coscienza attraverso
gli organi sensoriali. Essi vengono ordinati, studiati, usati, catalogati sia
dal singolo nella sua esperienza quotidiana sia dalle varie scienze che ne
approfondiscono lo studio. Siccome tali "oggetti" sono complessi,
cioè pieni di proprietà, attributi etc., De Sarlo si chiede come accada che si
compongano nella coscienza dell'individuo e stabilisce che due sono le
modalità: o l'oggetto equivale al
contenuto della coscienza oppure che la percezione del soggetto dipende dalla
relazione del soggetto stesso con l'oggetto percepito. Nel primo caso De Sarlo
parla di "esperienza con carattere statico", nel secondo di
"esperienza a carattere dinamico". In entrambi i casi non si può
prescindere dal ruolo del soggetto. La
differenza tra esperienza psichica ed esperienza pura è l'aggiunta del
significato ai dati primitivi. Per De
Sarlo sono possibili solo due modi di studiare tutto questo: il metodo sperimentale e il metodo
introspettivo Nel 1907 fonda il periodico La cultura filosofica, che darà
spazio alla discussione di problemi psicologici e presterà attenzione a quanto
avviene in campo psicologico ed epistemologico negli altri paesi.
L'impostazione filosofica di questa rivista fu più volte criticata da Benedetto
Croce e Giovanni Gentile. Tra il 1912 e
il 1915 è tra gli autori della rivista fiorentina Psiche, il cui redattore capo
è Roberto Assagioli: altri redattori sono Agostino Gemelli, E. Bonaventura. Le
teorie di Francesco De Sarlo furono influenzate molto dalla concezione della
conoscenza scientifica e dalle teorie di Franz Brentano. Nel 1925 è tra i firmatari del Manifesto
degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce. Nello stesso anno
pubblica, per i tipi Le Monnier, Gentile e Croce. Lettere filosofiche di un
«superato». Nel libro De Sarlo prende atto della sconfitta culturale del
neoidealismo italiano, ma al contempo rivendica le ragioni della sua prospettiva
filosofica. L'obbiettivo polemico erano senza dubbio sia Croce che Gentile, ma
a quest'ultimo erano dedicate le pagine più aspre. Infatti De Sarlo e Croce
erano legati dal comune sentimento antifascista e convinti della necessità di
misurarsi con ricerche concrete, quali quelle di Croce in ambito storico che De
Sarlo aveva sempre apprezzato. Non a caso Croce fece passare sotto silenzio
questo testo mentre sul Giornale critico della filosofia italiana, fondato e
diretto da Gentile, apparvero varie recensioni critiche del volume. Opere F. De Sarlo, I dati dell'esperienza
psichica, Galletti e Cocci, Firenze, S. e Calò, Principi di scienza etica,
Sandron, Palermo, S., Gentile e Croce. Lettere filosofiche di un «superato»,
Firenze, Le Monnier, 1925. F. De Sarlo, Introduzione alla filosofia, Ed. Dante
Alighieri, Milano 1928. F. De Sarlo, Il metodo naturale nella ricerca
scientifica, Ed. Dante Alighieri, Milano 1929. F. De Sarlo, L'uomo nella vita
sociale, Laterza, Bari S., Vita e
psiche: saggio di filosofia della biologia, Le Monnier, Firenze. V. Russo,
Filosofia e psicologia nell'attività psichiatrica di Francesco De Sarlo, Il
Mulino, Bologna 1987. AA. VV., Studi per Luigi De Sarlo, Giuffrè, Milano 1989.
L. Albertazzi, G. Cimino, S. Gori-Savellini (ed.), Francesco De Sarlo e il
laboratorio fiorentino di psicologia, Laterza, Bari 1999. G. Sava, Francesco De
Sarlo e la psicologia filosofica, «Il Veltro», Guarnieri, fupress.com/scheda.asp?idv=2296[collegamento
interrotto], Firenze University Press, Firenze 2013. Altri progetti Collabora a
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Collegamenti esterni De Sarlo, Francesco, su Treccani.it – Enciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. De Sarlo, Francesco, in Dizionario
di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata
De Sarlo, Francésco, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata Patrizia
Guarnieri, DE SARLO, Francesco, in Dizionario biografico degli italiani, vol.
39, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1991. Modifica su Wikidata Francesco
De Sarlo, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Modifica su Wikidata Opere
di Francesco De Sarlo, su MLOL, Horizons Unlimited Portale Biografie Portale Filosofia Portale Psicologia Categorie: Filosofi
italiani del XX secoloPsicologi italianiNati nel 1864Morti nel 1937Nati il 13
febbraioMorti il 14 gennaioNati a San Chirico RaparoMorti a Firenze [altre] FRANCESCO DE S. SAGGI
DI FILOSOFIA La Vecchia e la
Nuova Frenologia. — La nozione di Legge,,. —
L’origine delle tendenze immorali. Il senso muscolare. L’ohbietto della
Psicologia fisiologica. La filosofia dell’attività : Paulsen. TORINO CLAUSEN Roma.
Tipografia di G. Balbi — Via Mercede. 29-29.
La vecchia e la mura Frenologia
Fatto psichico e fatto fisiologico o fisico sono denoaminazioni esatte,
precise e intelligibili, meglio che le
parole spirito e corpo, le quali, come già ebbe a notare il Renouvier, peccano per la loro
indeterminatezza e pre.suppongono già un’opinione formata sulla natura del sostrato
dei fatti psichici e di quelli fisiologici. La distinzione tra detti fatti
porta con sè la ricerca della relazione esistente tra loro: nè può essere
altrimenti, data l’intima connessione di
entrambi. Non deve quindi far meraviglia
se da vari punti di vista, sia stata indagata
tale relazione e mentre dapprima sì fissò l’attenzione sull'azione che lo spirito in genere può
esercitare sul ‘corpo preso nel suo insieme
e viceversa questo su quello, negli
ultimi tempi in seguito al progresso delle scienze positive e della critica della conoscenza si
è badato massimamente alla relazione tra singoli fatti psichici e de‘terminati
fatti e processi fisici (1). In ogni
modo la relazione esistente tra l’anima e il
«corpo può formare oggetto d'indagine da due diversi Chi voglia avere un esatto, comunque
riassuntivo, ragguaglio .delle varie
maniere con cui successivamente è stato considerato dai filosofi, il rapporto tra spirito e corpo,
può consultare il volume del Bain
L'esprit et le corps. Paris, Germer et Bailliére. LA VECCHIA E LA NUOVA
FRENOLOGIA punti di vista: i° Si può
considerare il rapporto esistente tra
determinati stati di tutto il corpo coi suoi vari organi e dati fatti psichici,
si può in altri termini considerare l'azione che il fisico esercita sul morale
e viceversa il morale sul fisico: esempi di tale trattazione ci vengono forniti dai classici lavori del
Cabanis e dell’Hack Tuke; 2° si può
limitare l’indagiue al rapporto esistente
tra il fatto psichico e la corrispondente variazione dell'organo
rivelato dall'esperienza in precipna connessione colla psiche (sistema nervoso). La prima
indagine non ha interesse. particolare e
decisivo per la soluzione del problema
filosofico concernente la natura dello spirito : ed infatti l’azione reciproca, come si dice,
tra fisico e morale non è negata da nessuno in tesi generale, comunque: possa essere variamente interpretata, ed
aggiungeremo che le descrizioni che di
quella possediamo sono pressochè complete e definitive. Per l'opposto la
seconda indagine riguardante il rapporto tra sistema nervoso e fatti spirituali non solo costituisce un elemento
importante per poter risolvere il
problema capitale della psicologia che è
quello della natura e del modo di esplicarsi dell’attività spirituale, ma è
causa delle maggiori discrepanze tra i vari filosofi. È nostro intento di
fermarci appunto su questa seconda indagine per vedere se nello stato attuale della fisiologia e della
psicologia sia possibile venire ad una soluzione definitiva e razionale. Bisogna risalire al secolo XVII per trovarele
prime indagini fatte allo scopo di
cogliere il rapporto esistente tra il
cervello e l’anima: e ciò sì comprende dileggieri, se si pone mente al risveglio delle scienze
naturali ca LA VECCHIA E LA NUOVA
FRENOLOGIA 5 ratteristico di quel
tempo: già il sistema copernicano aveva portato una trasformazione nelle idee
generali riflettenti l'universo; la meccanica aveva ricevuto da Galilei ‘una base solida, donde la tendenza a ridurre
i fenomeni fisici a fenomeni meccanici;
e Harvey colla scoverta della
-circolazione sanguigna aveva presentato il principale motore della vita, il cuore, come una pompa
aspirante e premente. Non è quindi a far
meraviglia se agli occhi «di Cartesio,
il quale cercò di formare un sistema completo delle cognizioni naturali del suo
tempo, la natura .sî sia presentata
sotto l'aspetto meccanico, il corpo animale come una macchina naturale e il
cervello come un congegno atto a
contenere in un dato punto l’anima -di
natura semplice ed inestesa (1). (1)
Non bisogna però credere che prima del XVII secolo non fosse stata messa in alcun modo in chiaro la
connessione esistente tra il cervello e l’anima: non poteva non fermare
l’attenzione di chiunque il fatto per sé
ovvio che animali sd uomini, dopo aver ricevuto una lesione al cervello, mostrano un mutamento notevole
nelle loro condizioni psichiche, — C’è
stato chi è arrivato a Democrito, Eraclito, Areteo, Ippocrate, ecc., i quali avrebbero fissato in
astratto che ad ogni manifestazione e modificazione della natura corrispondesse
una pacticolare organizzazione cerebrale. — Aristotele nel «:onfrontare la
intelligenza deli'uomo con quella degli animali, vedendo nell’uomo la
testa più piccola che negli altri
animali, ne inferì che fra gli uomini la intelligenza è in ragione del minor
volume del capo. — Gregorig Nisseno
faceva il seguente paragone del cervello umano: « È una città, in
cui tante strade di andata e ritorno
pegli abitanti non fanno confusione,
perché ciascuna ha il suo punto di partenza e di arrivo determinato
». ‘È un antichissimo accenno alla
divisione delle funzioni. — Ma le prime
ricerche sperimentali che si conosca essersi fatte sul cervello
umano, sono di Galeno, il quale disse
che la forma del cerebro era quale con‘viene, e quale sarebbe se, prendendo una
palla di cera in forma ro«tonda perfetta, la si premesse leggermente ai lati
per modo che rse-atasse la fronte e la calotta con un po’ di gobba. In
conseguenza colui big isdihy FRANCESCO DE S. SAGGI
DI FILOSOFIA. La Vecchia e la
Nuova Frenologia. La nozione di Legge. L’origine delle tendenze immorali. Il
senso muscolare. L’ohbietto della Psicologia fisiologica. La filosofia
dell’attività: Paulsen. TORINO CLAUSEN Roma,
Tipogratia di G. Bulbi. — Via Mercede. 29-29.
La vecchia e Ta nova Freologa.
Fatto psichico e fatto fisiologico o fisico sono denominazioni esatte,
precise e intelligibili, meglio che le
parole spirito e corpo, le quali, come già ebbe a notare il Renouvier, peccano per la loro
indeterminatezza e pre.suppongono già un'opinione formata sulla natura del sostrato
dei fatti psichici e di quelli fisiologici. La distinzione tra detti fatti
porta con sè la ricerca della relazione esistente tra loro: nè può essere
altrimenti, data l'intima connessione di
entrambi. Non deve quindi far meraviglia
se da vari punti di vista, sia stata indagata
tale relazione e mentre dapprima sì fissò l’attenzione sull'azione che lo spirito in genere può
esercitare sul corpo preso nel suo insieme
e viceversa questo su quello, negli
ultimi tempi in seguito al progresso delle scienze positive e della critica della conoscenza si
è badato massimamente alla relazione tra singoli fatti psichici e determinati
fatti e processi fisici (1). In ogni
modo la relazione esistente tra l’anima e il
-corpo può formare oggetto d'indagine da due diversi Chi voglia avere un
esatto, comunque riassuntivo, ragguaglio
delle varie maniere con cui successivamente è stato considerato dai filosofi, il rapporto tra spirito e corpo,
può consultare il volume del Bain
L'esprit et le corps. Paris, Germer et Baillière 1880 (da pag. 144 »
essere adempiute con scrupolo nei loro più minuti particolari. Se nou
che tutto questo, a dire il vero, piuttosto
che ai tempi primitivi dell'umanità si riferisce a quelli in cui gli uomini si sono già organizzati in
gruppi più o meno vasti con capi
politici e religiosi. Questi capi sì finsero o si credettero effettivamente
ispirati da esseri sovrannaturali e legiferarono: e le loro leggi furono varie
secondo le condizioni dei popoli e i criteri politici e religiosi, dai quali i detti capi furono guidati. Riassumendo, nell’inizio, in qualsiasi
aggregazione umana non esiste dritto nè
legge nel vero significato della parola’
ma bisogni umani che possono essere sentiti e riconosciuti di necessaria soddisfazione. Se per comune
volontà la soddistazione di quei bisogni con talune modalità o limiti riconosciuta
legittima, viene conseguita, si hanno allora alcune consuetudini che non possono a rigore dirsi
giuridiche, perchè manca un potere
tutelatore, ma preparano l’apparizione delle forme giuridiche, dei dritti,
iniziando la trasformazione dei rapporti bio-etici in rapporti giuridici.
Se poi quelle consuetudini si formano
sotto la direzione di colui che sta a
capo dell'associazione, allora esse meritano
il nome dì giaridiche. E posto che il dritto, subbiettivamente inteso,
sia la facoltà di operare in una maniera determinata, riconosciuta legittima e
necessaria dall'autorità sociale,
obbiettivamente sì presenta sotto questi due aspetti: 1° sotto quello della garentia o protezione
che ha vita appunto con le disposizioni
legislative, con leleggi; 2° sotto quello
di un insieme di azioni umane, svolgeutisi nei limiti e con le modalità stabilite da queste leggi. Di guisa che il dritto è il complesso delle
norme generali dell'operare umano necessarie al conseguimento dei fini sociali ed individuali dell'uomo. Se non che
qui giova notare che non è perfettamente conforme al vero affermare sic et simpliciter che le consuetudiri sì
fissino nelle leggi giuridiche, ma
invece occorre dire che dopo la separazione
delle consuetudini propriamente dette dal dritto, quest’ultimo si vale
dei mezzi di obbligazione esterna, mentre le
prime adottano i mezzi più blandi dell’imitazione e del ri. spetto dell'opinione pubblica. Le consuetudini ed il diritto hanno però per
lungo tempo questo di comune che il
valore delle loro norme è fondato tutto
sull'uso e sull’abitudine. La /egge (lex) espressamente ‘formulata e quindi
letta e quella scritta (Vorschrift,
prescrizione) sono di origine molto più tardiva ed anche dopo che sono sorte, abbracciano in modo
molto incompleto il diritto che vige nella società: dritto che si differenzia
dalle pure consuetudini per la costrizione fisica di cui effettivamente si serve. Presso i Romani
queste leggi non scritte, da cui però
attingeva la legislazione scritta,
queste consuetudini si dissero « 120res » per accennare all'assenza in
esse di ogni forma di promulgazione esterna
reputata caratteristica della legge vera e propria (lex da legere). Presso di noì moderni la differenza
tra consuetudini e leggi s'è andata sempre più accentuando per il fatto che le prime sono andate perdendo di valore a
misura che si è lasciato maggior campo
alla esplicazione della libertà ed
iniziativa individuale e che in riguardo ad esse è venuto meno ogni mezzo di costrizione. Per contrario
è divenuto molto più sensibile il
carattere obbligatorio delle norme
giuridiche basato appunto sui mezzi di costrizione esterna. 58 LA NOZIONE DI « LEGGE >» Come si vede, nel concetto originario di
legge non era incluso per niente il
significato che oggi si dà alle leggi
naturali, quali rapporti costanti esistenti tra dati termini, ma bensi, quello di norme o regole dirigenti
l’attività umana. In questo senso
Empedocle considera il divieto di uccidere
gli esseri viventi quale legge applicabile fin dove si estende la luce del sole e lo spazio infinito e
Sofocle fa dire ad Antigone che i comandi divini non scritti, ma imprescindibili,
hanno valore non da ieri o da oggi, ma ab aeferno e nessuno sa « da quando sono stati rivelati. »
In Eraclito troviamo solo un accenno a
concepire la legge divina quasi come una
legge naturale, quando dice, « che tutte le leggi umane tendono ad avvicinarsi a quella divina,
in quanto questa è onnipotente e forte
abbastanza per dominare tutte le altre
leggi »; qui la legge divina non solo è considerata come una norma dello
svolgimento dell’attività umana, ma come
fattore essenziale dell’ armonia universale chiamata anche da Eraclito col nome
di Dike. Decorse però molto altro tempo
prima che la nozione di legge fosse
libera dagli elementi ad essa inerenti nel suo
significato originario: basta pensare che i sofisti riguardavano il
Nomos ela Fise, la legge e la natura delle cose
come antitesi inconciliabili, per convincersi che in quel tempo il concetto di legge (intesa questa
quale forma dell'ordinamento naturale) non poteva in alcun modo prendere
consistenza ed acquistar valore ed anzi va notato che gli autori di quel tempo ponevano ogni cura a
differenziare la legge dalla natura, osservando che la legge era stata data dagli nomini, mentre la natura di
tutte le cose era stata ordinata dagli
Dei. E quei filosofi che riconoscevano le leggi naturali nel senso moderno si
guardavano bene dal chiamarle con tal
nome: Democrito, per esempio,
chiaramente espresse il concetto che niente di casuale avviene nel
mondo, ma tutto ha la sua ragione necessaria;
se non che egli non parlò mai di leggi naturali, bensi d ella
necessità di ogni evento, anzi fu egli che pose la legge di rincontro alla natura delle cose. Del pari
Platone ed Aristotele parlarono della
necessità a cui sottostanno tutti i fatti della natura, comunque la
subordinassero poi all’ attività finale
di questa, ma non ci fu caso che essi
considerassero tale necessità quale legge della
natura. Questo nome fu da essi conservato esclusivamente per designare le norme dell’operare umano,
distinguendo le leggi particolari dei
singoli stati, suddivise poi alla lor
volta in leggi scritte e non scritte, dalla legge morale universale per
cui gli uomini son tratti istintivamente a giudicare (uivtevovta:) del giusto e
dell’ingiusto. Teofrasto più
precisamente disse che per tale via tutti gli uomini, in forza dell'unità della loro natura, sono spinti a
considerarsi come affini o aventi una
medesima origine. Tale legge, diciamo
così, naturale però sta a significare soltanto un'esigenza pratica della natura umana, non una necessità
incorabente al modo di agire delle forze
naturali: e se Aristotele una volta si
avvicina ad un tale concetto, non tralascia di
osservare che è solamente in senso improprio che si può parlare di legge naturale (1). Bisogna arrivare a Zenone per trovare
adoperata la (1) V.a tal proposito,
Zeller: Philosophie, der Griechen, Vol. I, pag.
1005 e segg., Vol. II pag.865 e segg.; V. inoltre Zeller: Vortrige
u. Abhandlungen. Dritte Sammlung.
Leipzig 1884, pag. 191 e segg. 60 LA
NOZIONE DI «€ LEGGE » prima volta la
nozione di legge ad esprimere l' ordinamento della natura, il che parrà logico
a chiunque conosce la struttara del
sistema stoico. Dagli stoici infatti fu affermata la necessità di ogni evento,
l'inviolabilità dell’ordine naturale tanto più decisamente in quanto
Epicuro aveva ammesso l’arbitraria
declinazione negli atomi e il libero
arbitrio nell'uomo. Se Democrito ed Epicuro rifuggirono dal designare il corso
necessario degli eventi naturali col nome di legge, perchè ciò poteva far
considerare l'ordinamento della natura quale opera di un volere superiore e di un'intelligenza plasmatrice
dell’universo, gli stoici avendo
ricondotte tutte le cose ad una sola causa
riguardata non soltanto come sostanza materiale, ma come Forza creatrice o Ragione, furono spinti a
considerare il concatenamento delle cause
naturali e il necessario svolgimento dei fatti come mezzi per cni la Ragione
universale potesse attuare i suol fini.
Da tai punto di vista tutto l’ordinamento dell'universo sì presentò come un prodotto del volere di
detta ragione, in altre parole come la
legge che essa aveva dato ; ed anzi essa
stessa fu chiamata legge naturale, e se qualche volta la natura piuttosto che la ragione figurò
come legislatrice, | se sì parlò di
leggi della natura a cui tutto doveva sottostare, compreso l’uomo, ciò avvenne
perchè la natura nella sua intima
essenza era fatta coincidere colla ragione
universale (divinità) (1). In tal guisa è giustificato il detto di Zenone che la legge naturale è una legge
divina. (1) Quid enim aliud est natura
quam Dcus et divina ratio toti mundo ct
partibus cius inserta ? Seneca, De Benef. La legge universale fu riposta nella
Ragione somma, la quale penetra da per
tutto, onde Cleanto nel suo inno, dopo
aver detto che Giove tutto regola in conformità di una legge, chiama le esigenze morali
egualmente leggi. Qui non troviamo
differenza notevole tra la legge naturale e la legge morale. Del resto tutta la
dottrina morale stoica è fondata appunto
sul principio di dover vivere in
conformità della natura, principio, il quale non dice altro. che la legge morale è legge naturale
dell'’operare umano. La nozione di legye
naturale qui nor appare delimitata in
modo netto da non poter essere confusa per l’origine e per la forma colla legislazione positiva e per il
contenuto colla legge morale, essendo
guidato il volere divino dal fine di
procacciare il maggior bene agli esseri ragionevoli. Sembra adunque che
fosse dalla scuola stoica che l'espressione
di legge naturale passasse nell'ordinario linguaggio, tanto più che l’indeterminatezza del suo
significato rimase immutata per il resto dell'evo antico e medio. Le leggi governanti
la natura al pari di quelle obbligatoriamente regolanti le azioni umane
figurarono come comandi divini : e senza
badare se tutti gli enti avessero la capacità propria dell'uomo di dare ascolto
ai detti comandi, le leggi naturali
furono presentate quali ordini positivi provenienti necessariamente da una Volontà superiore. A questo punto giova notare che il
sentimento mitico della natura per cui i
fenomeni di questa furono riguardati
espressioni di impulsì e di tendenze interne, trovò il suo appoggio nell’analogia esistente tra il
corso invariabile dei fatti naturali e
l’indirizzo, regolato da norme fisse, degli
atti della vita umana; indirizzo alla sua volta fondamentato almeno in
parte sul succedersi ritmico dei bisogni
fisici. Alla costrizione esterna
si sostitni l'esigenza interiore emotiva
per cui si fu tratti a conformare il proprio modo di operare all’operare della natura. Il divino
dall’uomo posto nella natura si
riverberò sull'uomo stesso quando gli atti
divini (fatti naturali) furono posti come modelli della condotta umana;
cosi l'ordine della natura divenne esemplare
dell'ordinato svolgersi delle consuetudini umane e la nozione di legge
che ricevette la sua prima determinazione
nella società umana e che fu trasportata allo studio della natura in seguito ad una tardiva riflessione,
appare derivata nei suoi fondamenti primitivi ed originarii dalla natura stessa
(natura fisica dell’uomo). Del resto il
nesso esistente tra l’ordine naturale e quello
delle consvetudini si rende manifesto nelle intuizioni religiose
degl'indiani. Negli atti simbolici religiosi di questi è espresso il sentimento di regolarità fissa e
immutabile dominante dapertutto nell'universo. In alcuni sacrifici sono ‘simboleggiati i fenomeni celesti svolgentisi
con regolarità costante. I sacrifici
fatti ad Agni corrispondono ai fenomeni naturali (dappriina adorati essi stessi
come divinità) in cui per così dire,
quel Dio s’incorpora. E i detti fenomeni son reputati atti religiosi compiuti
dalla divinità. Di qui il rispetto
pauroso per la natura che raggiunge il
massimo grado presso i Greci, come provano i miti di Prometeo, di Icaro, di Fetonte, e il riguardo
usato agli animali, i quali
rappresentano un elemento dell'ordine e
del sistema della natura. | In
tal guisa, dallo stadio mitico primitivo in cui sono confusamente rappresentati
l'ordinamento naturale e morale dell'universo si passa allo stadio estetico in
cuì l’ordinamento esterno delle cose è presentato come simbolo o manifestazione dell'ordinamento morale
interiore, stadio che coincide colla
trasformazione degli dei della natura in
potenze morali. La natura è sempre riguardata come qualche cosa di divino, ma i singoli obbietti
naturali cessano di essere considerati
come dèi, simili agli uomini (V. il
Timeo di Platone). Col suddetto stadio coincide
l’inizio della conoscenza delle leggi fisiche dell'universo, in quanto la contemplazione estetica non
considera più i fatti naturali come
prodotti puri e semplici del capriccio e
dell’arbitrio di esseri divini simili in tutto all'uomo, ma bensi come segni, accenni a qualcosa
d'elevato, di razionale, di assoluto, di
necessario e quindi di permanente che è degno di essere conosciuto ed indagato,
per quanto si celi all’occhio
volgare. Di qui l’inizio e l'avviamento
alla comprensione razionale dell’universo, la quale giunta al suo completo
svolgimento menò allo sconoscimento di ogni valore etico obbiettivo nella
natura, sia perchè questa non fu più contemplata nel suo insieme, data
l'esigenza della divisione del lavoro,
sia perchè gli effetti emotivi suscitati dalla
detta contemplazione essendosi rivelati variabili e incostanti, furono riguardati un prodotto del soggetto,
da questo trasportati nella natura. Bisugna arrivare ai secoli XVI e XVII per
trovare delimitato nell’ultimo modo anzidetto il contenuto della nozione di
legge naturale, per la quale s’intese appunto il rapporto costante di dati termini, la
relazione fatalmente necessaria esistente tra condizionato e condizione.
Talchè la nota caratteristica della
legge naturale fu allora riposta nel suo
valore assoluto, universale, privo d’eccezioni. E la conoscenza di essa si rivelò tanto più
perfetta quanto più chiara appariva la
conoscenza degli eventi e delle loro
condizioni determinanti, raggiungendo il massimo grado di perfezione colla possibilità di esprimere
matematicamente il rapporto implicato
nella legge in modo da poter senza fallo
prevedere un dato evento, una volta note le rispettive condizioni.
Che si riuscisse per la via induttiva o per quella deduttiva a fissare e
ad enunciare determinate leggi, ciò che
sopratutto si ebbe di mira fu che la legge avesse ‘n valore assoluto e
incondizionato ; il che poteva avvenire solo
- nel caso che tra le circostanze accompagnanti un dato evento e
quest'ultimo fosse riconosciuto un nesso causale, comunque la conoscenza di una legge naturale
potesse essere indipendente da quella
delle cause determinanti il nesso
espresso nella legge stessa. Molte leggi empiriche furono infatti
fondate su ipotesi scientifiche. Il modo di comprendere la causalità in genere esercitò però sempre
una grande azione sulla maniera
d'intendere l’assolutezza delle leggi
naturali. Fu notato poi che per
poter ammettere la possibilità di
strappi alle sudette leggi, per poter ammettere in alcun modo delle deviazioni dal corso naturale delle
cose, per poter accettare in altri
termini i miracoli, occorreva implicitamente od esplicitamente tornare a
considerare le leggi naturali quali leggi positive derivanti dall'arbitrio di
una forza saperiore. Una volta infatti
affermato che intanto si può parlare del corso regolare degli eventi naturali,
in quanto sotto date condizioni sempre
si presentano fatti identici non è più
possibile risguardare come naturali eventi, i quali si sottraggono ad ogni spiegazione naturale. Le
leggi naturali interpretate secondo i concetti dominanti nella scienza in stato di progresso e di svolgimento,
appaiono assolutamente inconciliabili e irriducibili a quelle precettive o normative,
in quanto le prime hanno il carattere precipuo di essere necessarie in sè stesse e prive di
eccezioni, mentre le altre esprimono
delle regole, dei precetti a cui si può
sempre derogare. ]ua necessità nell’ultimo caso è sempre relativa ad un dato scopo da conseguire. Dicemmo di sopra che lo svolgimento della
nozione di legge e la sna formale
enunciazione e introduzione nel dominio della scienza andavano differenziate
dal fatto reale ed obbiettivo formulato
ed espresso in un periodo tardivo nella
legge stessa. Invero fin da quando fu riconosciuto un rapporto ‘costante e necessario tra due
fatti (Matematica e Astronomia), fin da quando sì cominciò ad enunciare un
giudizio universale ed a ricavare da date premesse date illazioni ordinando il
tutto in modo chiaro e preciso, fin da
quando fu riposta la ragione dei vari eventi in un processo
matematico-meccanico svolgentesi in modo
incondizionatamente necessario, fin da quando il mondo in tutte le sue manifestazioni anche le più
esigue, fu considerato come wn organismo governato da un concatenamento di
cause, fin da quando pose radici Ia convinzione
che conoscere equivale a determinare e che pertanto conoscere un oggetto
equivale a ricercare in che modo questo
nella sua essenza ed esistenza dipende da un altro, fin da quando
adunque la scienza intesa in senso lato ebbe la
sua prima origine, il contenuto .reale della nozione di legge s'imponeva alla considerazione dello spirito.
Dal momento che lo spirito senti il
bisogno di distinguere il permanente e
l'essenziale dal contingente e dall’accidentale, attribuendo al primo maggior valore e significato, dal
momento che andò in traccia dell'unità
al disotto della varietà, pose perciò
stesso la necessità della ricerca della legge. Questa ha radice in una necessità del concepire
umano, in quanto nel fondo del
nostrointelletto, è insita la tendenza ad andare in cerca di qualcosa di
assoluto, d'immutabile e d'identico : ond'è che dagli antichi filosofi Ionici,
o meglio dagli antichi matematici ed
astronomi dell’oriente fino a noi fu un
continuo affaticarsi del pensiero umano per fissare gli elementi invariabili di tutte le cose e per
sostituire alla concezione mitica, e antropomorfica quella della
connessione necessaria e
incondizionalmente regolare dei vari eventi.
Ed è cosa degna di nota che parallelamente all’interpretazione
teleologica della natura si conservi con un numero maggiore o minore di
variazioni e di ondeggiamenti la
tendenza a ricercare i puri rapporti causali tra le cose e gli eventi. Chi segue lo svolgimento
storico della scienza in genere constata
subito che la corrente che potremmo dire
materialistica decorre parallela a quella idealistica, attraverso tutto il mondo antico e tutto
l’evo medio fino a che nel rinascimento
s’iniziò quel movimento che ebbe per
esito l'abbandono di qualsiasi veduta teleologica nel dominio della scienza vera e propria. Se non che qui si presenta la questione: Se
il fatto reale espresso mediante la
legge è antico quanto la scienza, perchè la nozione di legge vera e propria
sorse così tardi ? Al concetto di
necessità naturale che cosa si deve aggiungere perchè si abbia il concetto di
legge ? Finchè la conoscenza umana sì portò, per così dire, in modo diretto
ed immediato verso il suo obbietto che
d'ordinario era la natura, senza curarsi di determinare l'essenza generale,
il concetto dei fenomeni, senza ferinare
l’attenzione sulle relazioni stabilite mediante l’intelletto umano, era impossibile
che sorgesse la nozione di legge, la quale è resa possibile piuttostochè dalla
considerazione delle cose per sè stesse,
da una veduta esatta in ordine alla natura della nostra conoscenza. Finchè i principii delle
cose furono riposti nelle cose e non nei concetti, ognun vede che di leggi non era possibile parlare. Ma tostochè
per opera segnatamente della filosofia stoica, la ragione fu reputata immanente al mondo e fine a sè stessa, e il
mondo nel suo progressivo svolgimento fu
reputato la manifestazione di una logica
che sta nella sua stessa essenza, anzi fu reputato la ragione stessa che si determina, per ciò
stesso fu posta la base del principio
fondamentale delle leggi della natura. Queste,
infatti, esistono, sono necessarie e sono intangibili, perchè sono la natura stessa; non possono esser
tolte alla natura, perchè non furono poste
alla natura. Se fossero tolte, sarebbe
tolta la natura, il mondo. L'esistenza è la giustificazione di quello che esiste; esiste perchè non può
non esistere. Ora è questa idea la
garanzia della scienza, la quale non può
reggersi quando si ammetta la possibilità dell’arbitrio: l’azione di una volontà esterna al mondo.
Senza il concetto o palesamente
affermato o inscientemente ammesso di una
logica immanente, il pensiero brancola nel vago e nel buio e la nozione
di legge, che implica ordine, regolarità, e fissità, non può prendere origine. In conclusione
perchè si arrivi a concepire la legge,
all'idea della necessità naturale si
deve aggiungere quella della logica immanente: la nozione della necessità interiore o logica, ecco il
presupposto dell'insorgenza della nozione di legge. Una volta entrata nella
mente degli scienziati la persuasione che pensare è fissare in forme costanti
la cangiante materia delle
rappresentazioni, è cercare, come il saggio di
Schiller, den ruhenden Pol in de» Erscheinungen Flucht, una volta ammesso che, giusta l’espressione
dell’Helmholtz, das erste Product des
denkenden Begreifens ist das Gesetsliche, è chiaro che i filosofi dovettero
essere spinti a penetrare per vie
differenti la natura intima della legge
la quale appariva come il risultato ultimo delle varie forme d'indagine
scientifica, come l’espressione pi esatta e completa del lavoriointellettuale
intorno ad un dato contenuto. Noi
crediamo chetutte le idee emesse dai filosofi su tale argomento possano essere raggruppate in tre principali
categorie, contrassegnate coi seguenti tre nomi: concezione intellettualistica,
concezione animistica e concezione dualistica delle leggi in genere. Se non che qui si potrebbe
obbiettare: stando a tale divisione,
parrebbe che le leggi, le quali in sostanza non sono che il risultato ultimo
della conoscenza umana e quindi un
prodotto dell’intelligenza, possano essere inter pretate anche non ricorrendo
all’attività intellettuale; a fianco
alla concezione intellettualistica, infatti, si pone quella animistica ; ora, non racchiude tale
affermazione una contradizione? A ciò si
risponde che senz’alcun dubbio la semplice determinazione ed enunciazione di
una legge è già un fatto intellettuale;
il quale però può essere valutato e
interpretato diversamente a seconda che esso
vien rapportato alle funzioni semplicemente intellettive e quindi ricondotto sotto il dominio esclusivo
dei principii supremi del pensiero puro
(principio d'identità, ecc.), ov| vero viene considerato come implicante un
elemento che non ha a che fare
coll’intelligenza pura e semplice. A.
tal proposito giova far distinzione tra la natura propria delle leggi (il loro significato
reale ed obbiettivo) e la conoscenza di esse. Riguardo a quest’ ultimo punto tutte le leggi a qualunque categoria
appartengano figurano, si, comes trascrizioni in termini intellettuali (in
giudizi universali) di rapporti reali, figurano
cioè come il risultato dell’applicazione dei processi intellettivi agli
obbietti reali; ma a seconda che i detti giudizi universali enuncianti le leggi sono ridotti
tutti a giudizi d'identità o analitici,
ovvero (almeno in gran parte) a giudizi di dipendenza o sintetici, irriducibili
ai primi, si avranno due forme
fondamentali d’'interpretazione delle leggi. Riguardo al primo punio a seconda
che l'essenza delle leggi è riposta
tutta in un processo di equazione obbiettiva tra ì due termini della coppia legge, ovvero in
una determinazione dell’attività propria delle cose e nell'azione reciproca delle
stesse, si avranno del pari due forme principali di concezione della
legge. Va notato qui che d'ordinario le
dette quattro forme si corrispondono in
modo che l’interpretazione, diciamo così,
analitica coincide con quello dell'equazione obbiettiva e la sintetica con quella dell'attività. Sicchè
noi ci siamo creduti autorizzati a
partire per prima in due grandi categorie le
concezioni circa la natura delle leggi in genere, dando loro i nomi di concesione intellettualistica, e di
concezione animistica, nomi che filologicamente considerati non hanno alcun
valore e sono delle semplici denominazioni atte a contrassegnare due forme di
concepire le leggi. Siccome poi si hanno
delle concezioni miste in cui le leggi sono interpetrate, per una parte
intellettualisticamente e per un'altra
parte animisticamente, così noi abbiamo creduto di ammettere una terza
forma di concezione detta dualistica.
Aggiungiamo infine che in questa terza categoria vanno compresi quei casi in cui tra le leggi
esplicative e quelle normative viene
ammessa, una differenza essenziale e fondamentale. A seconda che è ammesso adunque il concorso
di uno piuttosto che di un altro elemento per la genesi della nozione di legge, a seconda che il valore di questa
si fa o no dipendere esclusivamente da un fatto di conoscenza e a seconda che
la causalità è riposta semplicente nell'essere,
ovvero nell’identità dell'essere e dell'agire, si avrà un vario modo di concepire l’essenza delle
leggi. E la concezione meriterà il nome di intellettualistica ogni qualvolta le
leggi o sono considerate come legami per così
dire estrinseci alle cose (veduta meccanica), ovvero come enunciazioni
di rapporti d’identità. Meriterà invece il nome
di animistica ogni qualvolta le leggi vengono considerate come determinazioni primitive e originarie
dell’attività delle cose, o come
espressioni di ciò che vi ha d’interno
in queste ultime. Meriterà infine il nome di dualistica ogni qualvolta la natura delle leggi viene
interpretata per una parte
intellettualisticamente e per un'altra parte
animisticamente. Sui particolari concernenti queste tre concezioni
c'intratterremo in seguito, quando tratteremo partitamente di ciascuna di esse.
Secondo la concezione intellettualistica, o meglio secondo la forma predominante di essa, chi dice legge dice
rapporto, dice, cioè, legame esistente
tra due caraiteri generali, i quali non
sono mai staccati l'uno dall'altro in natura e si richiamano, o tendono a
richiamarsi a vicenda; ed anzi si può
dire che i due caratteri, dei quali ora il primo richiama il secondo, ora il
secondo richiama il primo, formano una coppia, che è poi una legge. Pensare,
formulare una legge equivale a legare
insieme due idee generali; e formare un
giudizio generale, è enunciare mentalmente
una proposizione generale. « Ogni pezzo di ferro esposto all'umidità si arrugginisce »: « tutti i
corpi immersi in un liquido perdono una
parte del loro peso eguale al peso del
liquido spostato »; ecco delle leggi, ciascuna delle quali consiste in una coppia di caratteri
generali ed astratti collegati tra loro: da una parte la proprietà del ferro d’essere esposto all'umidità, dall’
altra l'origine del composto chimico
detto ruggine, da una parte la quantità
del peso perduta dal corpo immerso e dall'altra
la quantità eguale del peso di liquido spostato. Niente di più utile allo spirito umano di questa
struttura delle cose, giacchè una volta
scoverta la legge, il primo carattere appare l’indice del secondo. Prima però
di considerare le leggi in sè stesse e
nelle loro applicazioni, giova ricercare
la natura di detti caratteri generali o astratti, sempre secondo i detti
intellettualisti. Lungi dall’essere creazioni
della nostra mente, semplici mezzi di classificazione o strumenti di
mnemotecnica, quelli esistono di fatto al difuori dì noi, al di là della portata dei nostri sensi
e delle nostre congetture; sono
efficaci, anzi sono gli agenti più importanti della natura, in quanto ciascuno
di essi trae seco uno o più altri, sono
la porzione fissa ed uniforme dell’esistenza per sè frammentariamente dispersa
e successiva, giacchè allo stesso modo
che vi sono dei caratteri comuni la cuì
presenza continua collega tra loro i diversi momenti dell’esistenza
individuale, così vi sono dei caratteri
comuni la cui presenza moltiplicata e ripetuta collega tra loro i vari individui della classe. Senza i
caratteri comuni e le idee generali ed
astratte che loro corrispondono nell’intelligenza umana non solo non sarebbe a
parlare di scienza (cosa già notata da
Aristotile), ma non esisterebbero nemmeno individui, i quali in sostanza sono
come obbietti particolari che durano,
che serbano nel tempo e nello spazio
qualcosa di comune e di permanente, una data forma, cioè a dire un
gruppo di caratteri fissi aventi importanza capitale e costituenti la parte
essenziale. Abbiamo detto che ai
caratteri comuni obb'ettivamente
esistenti fanno riscontro nell’intelligenza le idee o i concetti, 1
quali lungi dal confondersi colle rappresentazioni sensoriali o cogli schemi fantastici o
rappresentazioni generali che sono un fatto semplicemente concomitante,
vanno riguardati come nomi di classe,
nomi significativi ed atti ad essere
compresi, in modo che essendu questi uditi, svegliano la rappresentazione
sensibile più o meno chiara e
circoscritta d'un individuo della classe e esistendo invece la rappresentazione sensibile di un individuo
della classe, appare subito
sull’orizzonte psichico l'imagine del suono
del nome di questa e la tendenza a pronunziarlo. Talchè i caratteri
astratti delle cose sono pensati per mezz»
di nomi astratti (idee astratte) che sono specie di sostitutivi
dell'esperienza sensibile che noi non abbiamo, nè possiamo avere del carattere
astratto presente in tutti gli individui simili. Essi lo sostituiscono,
adempiendo al medesimo ufficio. L'origine di tali nomi astratti e generali
va ricercata in una forma particolare di
associazione tra un dato suono e la
rappresentazione o l’immagine non solo di
individui assolutamente simili, ma anche di individui a volte differenti in tutto, trannechè in un
carattere. Il potere di trovare analogie
tra le cose più o meno disparate, il potere di cogliere dei rapporti è appunto
la caratteristica dell’intelligenza
umana e insieme ciò che rende possibile
la formazione di nomi astratti e generali. L'idea nasce col segno, ma perchè sia adattata in modo
completo all'oggetto, perchè risponda al
carattere comune, è necessario che sia rettificata a gradi, giacchè nel
linguaggio ordinario e nella esperienza
volgare è incompleta e vaga: è soltanto per
mezzo dell'osservazione attenta, dell'esperienza variata ed estesa e della comparazione ripetuta, che noi
riusciamo, tralasciando tutti i caratteri inutili e accidentali, a
conservare quelli essenziali e
permanenti. Non tutte le idee generali
vengono formate con detto processo: vi
sono, infatti, quelle che agiscono come modelli, perchè hanno per obbietto non
il reale, ma il possibile, ed esse piuttostochè adattate all'oggetto, vengono
costruitte, E il carattere comune di tutte le idee che noi costruiamo è che
esse si riducono a schemi, a cornici in cui
può venire inquadrata la realtà, comunque esse siano formate senza tener presenti determinati oggetti
reali. La conformità delle costruzioni
mentali colla realtà può e non può aver
luogo: in ogni caso essa non è lo scopo a cui si mira. Lo adattamento non è sempre esatto e vi sono dei
casi in cui è soltanto approssimativo; e
ciò perchè il fatto reale è molto
complicato, mentre la costruzione mentale relativamente semplice: sbarazzato
dei suoi suoi elementi accessori e ridotto a quelli principali il primo si
presenta come una copia della seconda e
tanto più entrambi coincidono quanto più
o mediante l’astrazione praticata sulla realtà
tutto ciò che è accessorio vien tralasciato, rimanendo conservato ciò
che è primitivo ed essenziale, ovvero mediante
il processo contrario, la determinazione, tutto ciò che manca agli
schemi mentali vien loro attribuito dall'immaginazione. Tre condizioni sono richieste perchè le
costruzioni mentali abbiano un certo valore obbiettivo : 1° bisogna che
gli LA NOZIONE DI « LEGGE ® 15 elementi mentali di esse siano calcati
esattamente su quelli delle cose reali:
2° che gli stessi elementi siano generali e possibilmente universali: 3° che le
combinazioni mentali siano le più
semplici possibili. Tale processo costruttivo si può applicare alle varie
classi di obbietti, giacchè in tutti noi possiamo riscontrare e isolare i
caratteri generali atti ad essere
combinati tra loro. Tra i tipi mentali per tale via costruiti ve ne sono di
quelli che c’interessano in modo particolare e aì quali noi vivamente desideriamo
che le cose si conformino, tanto che il bisogno e l'esigenza di tale conformità diviene stimolo
all’azione. Noi costruiamo l'utile, il
bello e il bene e operiamo in modo da
far coincidere, per quanto è possibile, le cose colle nostre costruzioni.
Avendo noi scorto ora in uno, ora in un
altro degli individui che vivono in società con noi e con cui noi siamo in continuo rapporto dei segni
esterni che sono l'espressione di
qualità interiori atte a svegliare la nostra
attenzione, perchè benefiche all'individuo o alla specie, quali l'agilità, il vigore, la »alute, l’energia
ecc., siamo tratti a mettere insieme i
detti segni, affine di potere contemplare
un corpo umano in cui siano appunto manifestati i caratteri da noi
giudicati i più importanti e pregevoli: ond'è che se un artista giunge ad avere la visione
interiore, la immagine viva e intensa
dell’insieme di queste note, egli prende
un blocco di marino e v'imprime la forma ideale che la natura non era riuscita a mostrarci per
l’innanzi. Del pari essendo dati i vari
motivi del volere umano, noi constatiamo che l’individuo opera più di frequente
in vista del suo bene personale e quindi
per interesse, molte volte per il bene
di un individuo da lui amato e quindi per simpatia e 76 LA NOZIONE DI « LEGGE » rarissimamente in vista del bene generale
senza altra intenzione che di essere utile alla società presente o futura di
tutti gli esseri forniti di sensibilità
e d'intelligenza. Noi isoliamo
quest'ultimo motivo e desideriamo vederlo preponderante in ogni deliberazione umana, lo lodiamo tanto da
raccomandarlo a tutti gli altri e da fare ogni sforzo per dargli il predominio in noi medesimi. Formatosi così
l’ideale del carattere morale, noi cerchiamo ogni mezzo per adattare a tale modello il nostro carattere effettivo.
Di guisa che le opere d’industria,
d’arte e di virtù sorgono allo scopo di colmare o discemare l'intervallo che
separa le cose dalle nostre
concezioni. Vediamo ora in che
consistono, sempre stando alla concezione intellettualistica, i rapporti o i
legami esistenti tra due caratteri
comuni (leggi). Notiamo subito che essi
sono di varie specie: a volte i due caratteri collegati insieme sono simultanei e allora due casi si
possono presentare o il primo carattere trae seco il secondo senza che l’ultimo tragga seco il primo: così ogni
animale fornito di mammelle ha vertebre, ma non ogni vertebrato è fornito di mammelle (legame unilaterale o
semplice): ovvero la presenza del primo carattere trae s eco quella del secondo e alla sua volta la presenza del
secondo trae seco la presenza del primo;
in ogni mammifero i denti incisivi
accompagnano sempre un tubo digestivo breve e
lo svolgimento di istinti carnivori e reciprocamente (legame bilaterale e doppio). Altre volte dei due
caratteri collegati, l'uno, chiamato
antecedente, precede e l’altro detto conseguente segue; al primo si dà il nome
di causa ed all’altro quello di effetto. E anche qui due casi si possono pre LA NOZIONE DI « LEGGE » CAL d sentare o il primo carattere provoca colla
sua presenza l'insorgenza del secondo e
alla sua volta il secondo per prodursi,
esige la presenza del primo : ogni mobile al quale s'applicano due forze divergenti di cui l’una
è continna, descriverà una curva; ed
ogni mobile per descrivere una curva
richiede l'applicazione di due forze divergenti di cui l'una è continua (legame bilaterale o
doppio): ovvero il primo provoca colla
sua presenza il secon:lo senza che il
secondo per prodursi esiga la presenza del primo — le vibrazioni di una certa celerità trasmesse al
nervo acustico provocano la sensazione
di suono, ma quest’ultima può prodursì
in noi spontaneamente nei centri sensitivi — (legame umilaterale o semplice,
nesso di causa ed effetto) (1) Ma in
che consiste il legame esistente tra due caratteri ? Vi è qualche virtù o
ragione segreta che risiedendo in uno di
essi, trae, provoca l'altro? Su questo punto i
filosofi fautori della concezione intellettualistica non sono d'accordo, come si dirà in seguito; per ora
basterà notare che per la più parte dei filosofi e scienziati moderni intellettualisti le parole provocazione,
legame, produzione, esigenza non sono
che metafore abbreviative. « La sola
nozione » dice Stuart Mill sulla traccia di Hume, « di cui a tal proposito noi abbiamo bisogno può
esserci fornita dall'esperienza, la quale c’insegna che nella natura regna un ordine di successione invariabile, e
che ogni fatto vi è sempre preceduto da
un altro fatto. Noi chiamiamo causa
l’antecedente invariabile, effetto il conseguente invariabile. La causa reale è
la serie delle condizioni, l’inTAINE -- De VPIntelligence. sieme degli
antecedenti, senza i quali l'effetto non può aver luogo. » Sicchè la causa è la
somma delle condizioni positive e
negative prese insieme, la totalità delle circostanze e contingenze di ogni
specie che una volta date, sono
invariabilmente seguite dal conseguente. E la volontà produce i nostri
atti corporei come il freddo produce il ghiaccio o come una scintilla produce un'esplosione di
polvere da cannone; vi è li del pari un
antecedente, la risoluzione, che è un
carattere momentaneo del nostro spirito, e un
conseguente, la contrazione muscolare che è un carattere momentaneo di uno o più dei nostri organi;
l’esperienza collega insieme i due fatti
in modo da render possibile la
previsione che la contrazione terrà dietro alla risoluzione, non altrimenti che l'esplosione della polvere
segue il contatto della scintilla —- In modo più preciso si può dire che qualunque siano i due caratteri,
simultanei o successivi, momentanei o
permanenti, la forza colla quale il primo trae,
provoca o suppone il secondo come contemporaneo, conseguente o
antecedente, si riduce ad una particolarità del
primo considerato solo e separatamente. S'intende dire con ciò che esso ha per sè la proprietà di essere
accompagnato, seguito o preceduto
dall'altro. Del resto niente di meraviglioso in tale costituzione delle cose,
se si riflette che non è più strano
trovare delle concomitanze, dei precedenti e dei conseguenti rispetto ed un carattere generale
di quello che sia il trovarne rispetto
ad un individuo particolare o ad un
fatto attuale. Non alrimenti che gl’individui e i fatti particolari, i caratteri generali sono forme
dell’esistenza non ditferenti dai primi,
se non perchè sono più stabili e più
diffusi. La difficolta è tutta nel poter osservare separatamente un tale
carattere che si riscontra sempre frammisto a molti altri c-»ratteri. Due
metodi ci conducono allo scopo, a
seconda che si tratta di caratteri generali
reali o possibili. 1 primi essendo formati per estrazione vera e propria vengono stabiliti con processo
graduale: e i rapporti intercedenti tra
loro sono scoverti per via induttiva e formano l’obbietto delle scienze
sperimentali. I secondi essendo
costruiti per combinazione, sono come a
dire delle forme, degli schemi in cui possono essere inquadrate le cose
reali. I rapporti esistenti tra loro sono
rintracciati mediante il processo deduttivo e formano l'oggetto delle
cosidette scienze costruttive. Il
metodo induttivo nelle sue varie forme è un processo molto lungo, perchè suppone la raccolta, la
scelta e la comparazione di più casi. Va notato poi che più una legge è generale e più richiede del tempo per essere
scoverta, presupponendo essa l'acquisto di diverse leggi parziali : come anche che al di fuori della cerchia ristretta
dell’esperienza compiuta, una data legge
ha soltanto un valore di probabi lità.
Le proposizioni delle scienze costruttive, o deduttive invece sono contrassegnate da caratteri di
natura opposta. In ciascuna di queste
scienze, infatti, vi sono certe idee primitive che una volta presenti allo
spirito si collegano istantaneamente tra loro e con un vincolo necessario ed
universale. Tali giudizii primitivi,
fondamentali, irreducibili si dicono
assiomi,la cui validità può essere dimostrata mediante un processo lento, approssimativo, sperimentale
(induttivo), ma d’ordinario la è
mediante un processo breve, esatto ed analitico
(deduttivo). Qnesta seconda specie di prova è resa possibile per questo,
che i cosidetti assiomi sono in fondo delle proposizioni ANALITICHE – cf. Grice,
Method in philosophical psychology --, in cui il soggetto contiene l'attributo
o in modo molto appariscente, il che rende l’analisi inutile (1), o in modo molto implicito, il
che rende l’analisi pressochè
impraticabile. In ogni istante noi sentiamo l’efficacia di dette proposizioni
analitiche (idee latenti regolatrici): cosi affermiamo che una data persona non
ha potuto agire così, ovvero che tale
condotta non mena allo scopo, che tale
atto è lodevole o biasimevole, senza che il più delle volte noi possiamo assegnare la ragione di
tuttociò, comunque questa giaccia nascosta nel fondo del nostro animo. Tali sono per taluni (Mill, Taine ecc.) i
principii d’identità e di contradizione
“ Le premier, dice il Taine (De l’Intelligence, Vol. 2°, Lib. 1V, pag. 336), peut s’exprimer ainsi: si
dans un objet telle donnée est présente,
elle y est présente. Le second peut recevoir cette formule;
si dans un objet telle donnée est pr':sente, elle n’en est point
absente: si dans un objet telle donneé
est absente, elle n°’y est point présente.
Comme les mots présent et non absent, absent et non présent sont synonymes,
il est clair que dans l’axiome de contradiction aussi bien que dans l’axiome d’identité, le second
membre de la phrase repète une portion
du premier; c'est une redite; on a piétiné en place. De là un troisibme axiome metaphysique, celui
d’alternative moins vide que les
précedents, car il faut une courte analyse pour le prouver; on peut l’enoncer en ces termes: dans tout
objet telle donnée est présente on
absente. En effet supposons le contraire, c'est à dire que dans l’objet la donnèe ne soit ni absente, ni
présente. Non absente cela signifie
qu’elle est présente, non présente cela signifie qu'elle est absente: les deux ensembles signifient donc que dans
l’ohjet la donnée est à la fois présente
et absente, ce qui est contraire aux deux branches de l’axiome de contradiction, l’une par laquelle
il est dit que si dans un objet telle
donnée est présente elle n’en est pas absente et l’autre par laquelle il est dit que si dans un objet
telle donne est absente elle n’y est pas
présente. Maintenant, reprenons l’axiome d’alternative et observons l’attitude de l’esprit qui le rencontre pour
la première fois. Il est sousentendu dans une fonle de propositions; c'est
parce qu'on l’admet implicitement qu’on l’admet explicitement. Par cxemple quelqu’un vous dit: Tout triangle est équilateral ou non; tout
vertebré est quadrupede ou non, Sars
examiner aucun triangle ni aucun vertebré vous réconsono tali che il primo
racchiude il secondo, e questo è come
parte di quello, noi stabiliamo per ciò stesso la necessità della loro
connessione. EÉ=si non sono che una cosa
sola considerata sotto due aspetti, onde l’ universalità assoluta del loro legame. Le proposizioni che
esprimono quest'ultimo, comunque in
fondo ipotetiche in quanto aftermano soltanto che data l'esistenza della prima
idea ne consegue l’esistenza dell'altra,
non sono passibili di dubbi, di limiti,
o di restrizioni. E qual'è l’ essenza
delle leggi scientifiche che formano
l'oggetto delle scienze sperimentali? qual'è la ragione dei rapporti esistenti tra le cose e tra le
corrispondenti idee del nostro spirito ?
La ragione di ogni legge è riposta in
quel qualcosa che essendo comune ad entrambi i dati (intermediario
esplicativo di Taine), forma il loro legame vero ed essenziale. Tale intermediario o mezzo
termine esplicativo in qualunque modo si presenti, semplice o multiplo composto alla sua volta d’intermezzi
successivi o simultanei, di mezzi
termini differenti o d-llo stesso mezzo termine
ripetuto con elementi dissimili, sì mostra sempre come carattere o
insieme di caratteri più generali («e considerati separatamente) racchiusi nel primo elemento
della coppia detta legge. S'intende che
i detti caratteri sono separabili coi nostri processi ordinari di isolamento e
d' estrazione Allo stesso modo che nelle
scienze costruttive, ogni teorema
enunciante una legge è una proposizione analitica; e dei due dati collegati insieme, il secondo è in
rapporto col primo in modo oscuro o
chiaro, diretto o indiretto per mezzo di
un terzo dato detto ragione, o mezzo termine esplicativo che contenuto nel primo elemento, contiene
esso stesso una serie d’intermediari
racchiusi gli uni negli altri; per modo
che se si cerca la ragione ultima della legge, il perchè ultimo dopo di che la dimostrazione è
completa, si trova che esso si riduce ad
un carattere compreso nella determinazione dei fattori o elementi primitivi, il
cuì insieme forma il primo dato della
legge, così in ogni legge sperimentale il primo dato è, come a dire, un
contenente più grande che attraverso una
serie di contenenti sempre più piccoli
racchiude come contenuto ultimo il secondo dato. Va notato però che nella legge sperimentale
non basta, come nel teorema matematico,
metter la mano ogni volta sul contenente
per trovar ciò che si cerca (intermezzo
esplicativo), ma è necessario uscir fuori dal proprio spirito e andare a ricercare il detto intermedio
nella natura e trarnelo fuori a furia di reiterati esperimenti ed
induzioni. Anche le scienze sperimentali
a forza di generalizzare arrivano a formulare delle leggi fondamentali che
fanno riscontro agli assiomi delle scienze deduttive, ma vi è questa ditferenza che nelle ultime gli assiomi
essendo ottenuti per costruzione,
possono, mediante l’ analisi, sempre essere ridotti a qualcosa di più semplice
e di più generale fino ad arrivare al
principio d'identità che è la loro sorgente comune, mentrechè nelle prime,
essendo le luggi fondamentali ottenute per mezzo dell'induzione, non si può
risalire più in alto che col seguire un
metodo analogo, fino ad arrivare anche
per questa via ad un assioma ultimo o principio
supremo; cosa che potrà verificarsi solo in un avvenire più o meno lontano. Tanto nelle scienze di
esperienza quanto in quelle di costruzione
l' intermediario esplicativo e
dimostrativo è un carattere o un insieme di caratteri differenti o simili inerenti agli elementi
del fatto complesso. Qualunque siano le
proprietà di questo, è sempre sulle particolarità dei suoi fattori.che devono
vertere le nostre osservazioni e congetture. È chiaro pertanto che ogni
nostro sforzo deve tendere a trovare gli
elementi generatori di ogni fatto, per
poterne considerare i loro caratteri e
dedurre da questi le proprietà di ciò che ne risulta. Ed anche per risolvere le questioni di origine
occorre andare in traccia del mezzo
termine esplicativo e dimostrativo, in
quanto la maniera di riunirsi degli elementi ha anche la sua ragione di essere. Quella non è che un
risultato e trattandosi di un fatto
storico, racchiude un elemento dippiù,
cioè l'influenza del momento storico, ovvero delle circostanze e dello stato antecedente.. Si domanda: Vi è una legge universale e
d'ordine superiore che, per così dire, regola ogni altra legge? Dopo tutto quello che precede, la risposta non può
esser dubbia: essa esiste ed è il
principio d'identità che non è un semplice prodotto della struttura del nostro
spirito, ma è valido in sè, avendo il suo fondamento nelle cose:
proseguita l'analisi fino all'estremo
limite, si trova che il composto
(effetto) non è che l'insieme dei suoi elementi ultimi disposti in un
dato modo, onde è evidente che ogni efficacia ed attività appartiene ai detti
elementi o alla loro disposizione. Il
detto principio può ricevere i nomi di principio di ragione esplicativa
(ragione sufficiente) e di causalità a
seconda che si considera come principio e regolatore supremo della
conoscenza ovvero della realtà. Ammesso (e
non si può non ammetterlo, perchè equivarrebbe a negare il principio d'identità) che la presenza
delle condizioni genetiche di un dato fatto trae seco il fatto stesso, è
chiaro che ogni alterazione, nel fatto
presuppone un mutamento nelle
condizioni: di qui il principio che ogni evento ha una causa, la quale è alla sua volta un altro
evento. Tale è il modo di concepire la
natura delle leggi in genere da parte di quei filosofi che non essendo disposti
ad accordare alcun potere originario,
alcuna spontaneità all’intelligenza umana, fanno coincidere la realtà
coll’intelligenza, l'essere col
pensiero, in modo che il principio d’ identità
figura come il principio supremo della conoscenza e dell'’esistenza.
Ora, si domanda: Tale veduta intellettualistica è atta a soddisfarci in modo completo? Nel caso
negativo, dove è manchevole e per che
via si può rimediare al suo difetto?
(l’intellettualisti considerando Je leggi come nessi di caratteri o
proprietà comuni ad oggetti molteplici, ai quali nessi corrispondono poi nello spirito coppie
di idee generali, mostrano di attribuire
maggior valore alle astrazioni che alla
realtà concreta : e infatti essì a più riprese ripetono che i caratteri comuni, e quindi astratti,
costituiscono ciò che vi ha di più
stabile e di più solido nelle cose: ciò mostra
che essi confondono l’universale coll’ astratto. L'universale 88 LA NOZIONE DI « LEGGE » è per sna natura obbiettivo in quanto la
validità obbiettiva di un determinato contenuto della coscienza è data dal fatto che esso si rivela identico a
qualsivoglia coscienza simile; ed è per
mezzo dell’evidenza della percezione o del
pensiero che l’universale si stabilisce. L'universale riguarda la forma, non il contenuto delle idee e dei
giudizi, il quale riducendosi ad un
complesso di proprietà, esistenti solo
nella mente del soggetto per mezzo delle nozioni corrispondenti, figura
effettivamente come qualcosa d’astratto. Dal
che consegue che trovare il carattere ola proprietà comune ad una serie di oggetti non equivale ad
acquistare cognizione perfetta della
natura stesa degli oggetti, come classificare
le cose non equivale a determinare le leggi che le regolano. Se noi in seguito alla comparazione di molti
caratteri e di molte nozioni riusciamo a
significare con un'espressione astratta
ciò che essi presentano di comune, non possiano
dire di aver formato con ciò un nuovo concetto nello stretto. senso della parola. Per mezzo della
comparazione delle leggi naturali fra
loro e dell’astrazione logica di ciò che esse offrono di comune, noi non
scovriamo nessuna legge naturale nuova,
ma abbiamo semplicemente un nuovo nome generico, un segno mnemonico riassuntivo delle leggi
che noi già per altra via conoscevamo.
Pertanto va distinta la interpretazione induttiva dei fenomeni dalla
generalizzazione della interpretazione
stessa; e la definizione data dal Mill e
dai suoi seguaci dell'induzione, che questa si riduca ad un processo per cui sì conchiude da ciò «he è
vero di alcuni individui di una classe
ciò che è vero di tutta intera la
classe, o da ciò che avviene in un dato tempo ciò che avviene sotto
circostanze eguali in tutti i tempi, non può non rivelarsi assolutamente
insufficiente. Il metodo induttivo nelle sue varie forme si fonda da una parte
sul principio di ragione sufficiente che sarebbe vero ancorchè nella natura non sì presentassero neanche due casi
eguali, e dall’altra sul principio dell’eguaglianza della causalità o dell’uniformità
della natura che, come il primo, da una parte
esprime un'esigenza del nostro pensiero e dall’altra nn dato di fatto fornito dall'esperienza; dato di
fatto che non sarebbe mai stato constatato se la natura propria del nostro
pensiero non avesse per tale via indirizzato il processo sperimentale. I caratteri comuni e le idee generali
corrispondenti non possono dunque
costituire la struttura della realtà, giusta
l’atfermazione ‘egli intellettualisti. Già i caratteri o proprietà
comuni e le idee generali vanno profondamente differenziate tra loro; i primi
riguardano il contenuto delle nostre
rappresentazioni e sono null'altro che astrazioni del nostro spirito: le altre non sono che dei
giudizi potenziali e quindi implicano in
sè le leggi, anzi sono le leggi espresse
e riassunte in un segno o simbolo che è la parola. Il nome significativo pertanto lungi dall’essere un
semplice prodotto l'associazione tra
date rappresentazioni e moti corrispondenti (associazione che non si saprebbe
dire come e perchè nata) è un prodotto
della collettività, i cui membri sono
legati tra loro dai vincoli della simpatia e dell'attività comune. Le
prime parole espressero atti compiuti în società, e 1 primi nomi i prodotti di detti atti quali
furono percepitt e rappresentati dai vari individui. Onde consegue che le parole non sono da considerare quali
semplici SEGNI O SEMBOLI d’associazioni di rappresentazioni, ma bensi come SEGNI
O SIMBOLI del modo di prodursi di una data cosa, delle maniere di operare di una data forma di
attività; è chiaro quindi il nesso
esistente tra concetto, legge e parola: il
primo è una legge o giudizio potenziale in quanto è il centro delle relazioni che congiungono una
data cosa colle altre che agiscono su di
essa, la seconda è il concetto esplicato in forma di giudizio e la parola il
simbolo esterno del concetto e insieme
della legge. E qui giova notare che al
di fuori della mente che concepisce e ragiona non è lecito parlare nè di
proprietà, nè di loro legami: è nel
soggetto che hanno la loro radice questi fatti.
Nell’unità della nostra coscienza noi abbiamo il tipo e il presupposto
di ogni unità empirica, sia questa dell'universo nella sua totalità, sia di una cosa singola.
Ogni forma particolare di esperienza,
ogni legge dei fenomeni porta in sè
l'impronta della natura sintetica del nostro pensiero. A parlare propriamente le leggi della natura
esistono soltanto per la ragione che pensa la natura stessa. É la ragione che
per prima riduce la stabilità e l'uniformità dei fenomeni a premesse generali e quindi a leggi
da cui conseguono ì tatti singoli. Parlare di leggi naturali al di fuori. dell’intalletto equivale a cadere in un
antropomorfismo logico che non è meno irrazionale di quello teleologico. Certamente
il concetto dell’universalità delle leggi naturali é occasionato e rafforzato dall'esperienza in
quanto senza il corso regolare dei fatti
constatabile empiricamente non sarebbe stato mai possibile applicare la nozione
di legge alla natura e la ragione
sarebbe rimasta una potenza vuota,
ignota a sè stessa; ma d'altra parte la medesima nozione di legge non sarebbe mai potuta provenire
dalla semplice osservazione esterna, giacchè la natura accanto aì fatti succedentisi regolarmente ne presenta di
quelli che in apparenza non seguono nel loro accadere alcuna regola. La nozione di legge è un portato del riflettersi
del nostro stesso pensiero, applicato di
poi alla natura. Gli antichi infatti
chiamavano /ogos della natura ciò che noi diciamo legge. E per convincersi come la struttura
della realtà quale viene presentata
dalla scienza, sia una elaborazione del
nostro spirito, basta pensare che a seconda del
predominio che in un'età viene assegnato ad una facoltà psichica
piuttosto che ad un'altra, si ha un concetto diverso del corso naturele dei fatti e della
costituzione intima della realtà. A ciò
si aggiunga che noi in fondo in fondo scovriamo
nella natura quelle leggi che in certa guisa vi abbiamo poste: nelle interpretazioni scientifiche le leggi
da principio assumono la forma di anticipazioni che vengono soltanto appoggiate
dai fatti piuttosto che esserne addirittura derivate o, come si dice, estratte.
La percezione non ci mostra mai casi
perfettamente eguali e noi passiamo dall'esperienza sensibile a quella intellettuale, riducendo
eguali i casì col pensiero e
coll’esperimento allo scopo di trovare una conferma ai postulati logici
riflettenti l'universalità delle leggi
regolanti il corso dei fatti, e l'uniformità della natura. Un altro errore della concezione
intellettualistica è quello ‘diaver fatt o delle leggi tante ipostasi.
Gl’intellettualisti, infatti, presentano
le leggi come premesse a cui, a guisa di
conclusione, sono subordinati i fatti particolari, dando a quelle più o meno celatamente una
sussistenza, ed una priorità rispetto ai
fenomeni che assolutamente non hanno.
Quando si dice che il rapporto di causalità si riduce alla proprietà che
ha un carattere di essere preceduto, accom
pagnato o seguito da un altro, in fondo si atterma appunto che una legge esistente per sè possa dominare
e regolare le cose. L’ espressione
differente non deve porre ostacolo alla
giusta valutazione delle cose, giacchè dire che un carattere è fornito della
proprietà di essere in un dato rapporto con un altro carattere equivale a dire
che la legge determina il corso dei
fatti. Soggiungiamo che per quel che
concerne i rapporti delle cose, l’azione
reciproca che e=se esercitano tra loro (dati
di fatto innegabili), o noi ci contentiamo di constatarli semplicemente, di descriverli e allora non è
lecito parlare d’ interpretazione dei
fatti, giacchè in tal caso l’esigenza
propria del pensiero d’indagare il perchè delle cose rimane
insoddisfatta, ovvero si procede alla ricerca delle cause ed allora la semplice constatazione del
modo di operare delle cose si rivela insufficiente ed occorre trovare un nuovo termine in cui sia riposta la
ragione del detto modo d’agire. E chiaro poi che la concezione
intellettualistica presentandoci la realtà come un mosaico di caratteri e
proprietà comuni cuì l'intelligenza sì
deve contentare di riprodurre e di
descrivere, è nell'assoluta impossibilità di spiegare il cangiamento, il divenire, il moto delle cose
e l’azione che queste reciprocamente
esercitano fra loro : è vero che parecchi
di talì filosofi negano l'esistenza di questi fatti o li dichiarano prodotti illusori della mente,
errori di prospettiva mentale ; ma chi vorrà appagarsi di simili affermazioni
sfornite come sono di qualsiasi fondamento ? Inoltre tali filosofi che, come si è visto, dànno
un'importanza ed un valore speciale ai caratteri astratti, non dicono
donde verrebbe a questi la proprietà di
presentarsi moltiplicati e ripetuti nei
fatti particolari. Se si vuol negare loro qualsiasì attività, se non si
vogliono essi considerare come energie, e ciò facendo, si ritornerebbe a
qualcosa di simile alle idee platoniche,
non è giocoforza confessare che una simile
struttura della realtà, non ci spiega la realtà stessa? Le interpretazioni scientifiche, affinchè siano
esatte, devono essere contrassegnate dalle note dell’universalità e della necessità;
ora l’universale, non l’'astratto, in tanto ci può dar ragione del particolare in quanto contiene le
condizioni genetiche dei reali (es.:
l'attività rispetto agli atti singolì);
l’astratto invece può essere un indizio, una manifestazione dell’universale, ma non mai la stessa cosa di
questo. I filosofi intellettualisti per
dar ragione dei rapporti delle cose
espressi nelle leggi non hanno saputo far di meglio che ridurre queste a giudizi analitici o
d'identità più o meno manifesti; in
tanto il secondo termine della coppia
legge, essi hanno detto, è connesso col primo, in quanto più o meno direttamente, più o meno
implicitamente vi è contenuto. Allo
stesso modo che la realtà non fa che ripetersi continuamente esplicando in una
data forma ciò che era implicito in una
forma antecedente, così le leggi non
fanno per cosi dire, che distendere ciò che era involuto in uno dei caratteri
del primo termine della legge. È ciò
ammissibile ? Noi sappiamo che i rapporti fondamentali che possono intercedere
tra i concetti sono due, quello di
identità e quello di dipendenza (spaziale, temporale, condizionale): ora essi
sono irriducibili l’uno all’altro e se
a taluni logici è sembrato facile riguardare la dipendenza come un'espressione
diversa dell’identità, ciò è avvenuto perchè in virtù di una interpretazione
speciale data alle formole matematiche e
logiche si sono considerati come equivalenti i rapporti d'identità e di
dipendenza: ma è chiaro che il mutamento
di una espressione simbolica quale A _F
(funzione) B in A — f B non può avere la virtù di rendere identici i concetti di A e B. Nella seconda
formola il simbolo della funzione cela il rapporto di dipendenza. Non è lecito considerare il rapporto di dipendenza
intercedente tra A e B come equivalente
all'affermazione di una identità parziale di A e B, giacchè il simbolo
dell’eguaglianza in tal caso piuttosto
che voler significare che una parte di A
coincide con B vuol dire che una parte dei casi in cui A si presenta è uguale all'insieme dei
casi in cui si presenta B. Ciò che noi
effettivamente poniamo come parzialmente
eguali non sono A e B, ma i casì del loro
apparire. Ed ogni eguaglianza matematica che pone come identiche due relazioni funzionali è valida
soltanto sotto la condizione di un
analoga interpretazione logica. È solamente l’attività sintetica del nostro
pensiero che può generare in noi le
convizione della verità della tesi che
gli angoli di un triangolo equilatero sono eguali e che due grandezze eguali ad una terza sono eguali
tra loro: in tutti questi rapporti noi
abbiamo a che fare con dati irriducibili
ad identità, sia questa parziale che totale:
l'eguaglianza degli angoli di un triangolo è la condizione dell’eguaglianza dei lati, ma si può dire che
i due fatti siano identici? Il giudizio condizionale o ipotetico « Se À
è B è », può indicare una dipendenza
unilaterale, onde può venire espresso in termini di sussunzione – cf. Grice,
reductive/reducctionist -- e d'identità parziale; « tutti i casì in cui À si presenta sono eguali ad
alcuni dei casi in cui B sì presenta »:
come può indicare nna dipendenza
reciproca ed in tal caso il suddetto. giudizio condizionale può essere trasformato in un giudizio
d'identità totale del seguente tenore: «
tutti i casì in cui A si presenta sono
eguali a tutti i casi in cui si presenta B »: dal che si desume che
tutt’ e due le volte non si tratta dell’ identità propriamente di A e B, ma bensi dell'identità
dei casi del loro presentarsi. Appenachè
A e B sitoccano nello spazio, nel tempo
o nel nostro intendimento è lecito affermare che il loro apparire coincide, con che sì esprime
soltanto la dipendenza nella sua forma locale, temporale o condizionale. La dipendenza lungi dall’essere distrutta, ha
assunto un’atra forma. — D'altra parte il giudizio d'identità parziale « A è una parte di B» si può trasformare nel
giudizio ipotetico « Se A è questo è B
come quello d’ identità totale Ax-B
nell’ipotetico « Se A è, questo è Be se Bè questo è A»: in entrambi i casì l'identità espressa
già nel collegamento dei due membri del
giudizio di identità, è passata nel conseguente del giudizio ipotetico, nel
quale il soggetto è sostitituito dal pronome dimostrativo. L'identità parziale
diviene così una semplice sussunzione e quella totale una sussunzione doppia, che è poi equivalente nel
fatto. In ciascuna comparazione di A e
di B l'esistenza di questi è già
presupposta e mediante la trasformazione del giudizio d’idenità in giudizio
condizionale ciò che era sottinteso viene messo in evidenza: invero a fianco ad
ogni identità è da ammettere il pensiero implicito di una condizione come a fianco ad ogni condizionalità
un'identità totale o parziale. Nell’un caso è l’esistenza o la posizione
dei concetti sottintesa come condizione
del loro rapporto, mentre nell'altro ad ogni rapporto di condizionalità -corrisponde
la frequenza della coesistenza dei dati condizionantisì, frequenza che può
essere significata soltanto con un
giudizio d'identità totale o parziale
Una delle caratteristiche principali della concezione intellettualistica
è data dalla maniera con cui essa dà ragione delle leggi normative e quindi
delle costruzioni ideali che ne sono
l’espressione. Noi conosciamo perfettamente per
che via siè giunti a all’enunciazione delle principali leggi normative logiche, estetiche e morali e in
base a ciò possiamo affermare con tutta sicurezza che come esce non ebbero la
loro radice nell'adattamento dell’intelligenza,del senso estetico e della volontà a determinati
rapporti esteriori, cosi non furono
prodotte dalla semplice combinazione e
costruzione di elementi ricavati dal di fuori; tanto è cio vero che i fatti esterni sono giudicati
alla stregua delle dette norme, le
quali quindi devono essere considerate
come aventi un’ esistenza propria indipendente. D'altra parte i principii della Logica, dell’
Estetica e dell’Etica non sono innati,
ma vengono appresi, e richiedono uno sforzo
per esser seguiti e ciò perchè essi non sono l’espressione di leggi
naturali dello spirito, come sarà più am.
piamente svolto in seguito, ma di leggi normative. E lo stesso va detto delle nozioni fondamentali
della matematica, la quale ha questo di comune colle scienze normative, che non
ha per oggetto ciò che è, ma ciò che ha
da essere, che quindi può o deve essere: così il concetto della retta è un
prodotto puro dell’attività del nostro pensiero che invece di esser derivato da
molteplici rappresentazioni particolari, serve come norma per valutare le intuizioni sensibili. Gl'ideali di qualunque
genere siano, a qualsivoglia dominio
appartengano, non vanno considerati quali estratti dalla realtà, giacchè
servono all'opposto per misurare,
regolare, apprezzare questa. Per
formarsi un chiaro concetto della natura delle leggi normative o precettive, giova tener presenti
i caratteri che contradistinguono le
regole estetiche, in cui salta dippiù agli
occhi da una parte la differenza esistente tra le leggi naturali e le precettive in genere, e dall'altra
quella esistente tra le precettive
ricavate da un complesso di fatti (regole dietetiche, igieniche, ecc.), e le
leggi che hanno la loro origine in una determinazione primitiva della volontà e
dell’emotività dell'anima umana. Una regola estetica ancorchè ricavata, mediante l’astrazione, da tutte le
opere artistiche esistenti non è valida
in modo incondizionato : un’opera sola
che si mostri felicemente superiore ai dettami della detta regola può limitare il valore di
questa: non è il numero di date produzioni artistiche, non è la frequenza
con cui esse si presentano che le rende
belle : ogni opera artistica porta con
sè la regola, la stregua con cuì deve essere giudicata. Sicchè ogni valutazione
estetica presuppone qualcos'altro che non siano le regole astratte, e questo
qualcosa è il gusto estetico (che corrisponde al senso morale nella valutazione morale). Se non che non bisogna
credere che l'opera d’arte vada giudicata alla stregua pura e semplice del gusto individuale, il quale per contrario
dev'essere basato sulle norme richieste
dalla natura propria di una data produzione
artistica, natura propria che non è in rapporto coll’attività spirituale
di questo o quell'individuo, ma dell’uomo in genere. Il gusto estetico non è la fonte, ma
l'indice della bellezza, la quale emerge dalla concordanza dell’opera
d’arte coll’ideale estetico, che, come
tutti gl'ideali, è un prodotto della
collettività e varia al variare delle circostanze. . « Der wahre Kunstrichter », diceva Lessing, «
folgert keine Regeln aus seinem Geschmack, sondern hat seinen Geschmack nach den Regeln gebildet, welche die Natur
der Sache fordert ». Ogni creazione artistica, come ogni prodotto spirituale è
un fatto originale che va considerato per sè e che in opposizione all’uniformità del corso della
natura ha motivi e fini propri. Ond'è che essa non può essere valutata in modo giusto che rapportandosi ai detti
motivi e fini. Sicché il giudizio
estetico come quello morale non può limitarsi a considerare semplicemente il
prodotto spirituale — opera d'arte o
azione morale —, ma deve tenere il dovuto conto della natura propria dello
spirito umano, delle sue tendenze ed
esigenze. La valutazione estetica e morale
non può essere fondata soltanto sugli effetti degli atti spirituali, ma
segnatamente sulle determinazioni primitive
della volontà e dell'emotività che diedero loro origine. E qui occorre fare un'altra osservazione
della più alta importanza. Se i risultati delle costruzioni compiute dalle
scienze che hanno per obbietto il
possibile, possono essere presentate in
forma di giudizi, nel cui soggetto è già implicito il predicato, si può sempre
domandare, a quali esigenze risponda (e
con quali norme e criteri) la formazione originaria di tali costruzioni ideali, quali appaiono nel
soggetto dei sumentovati giudizi. Se il principio d'identità può essere valido
a farci scomporre sussecutivamente e secondariamente ciò che è già composto, non può mai valere a
darci la chiave per intendere la
costruzione degl'ideali, per spiegare i processi sintetici primitivi. Per convincersi della differenza esistente
tra i prodotti della conoscenza e le
costruzioni ideali basta riflettere che
mentre ì primi sono veri o falsi, reali o non reali, le altre sono rispondenti o pur no ad un dato scopo,
onde includono un apprezzamento, possibile soltanto col riferirsi ad un ideale che funge da pietra di paragone. Si
dicono vere o false bensi anche le
costruzioni matematiche, come d'altra
parte le costruzioni logiche, ma la verità o falsità in tal caso non sta a significare la rispondenza di
un dato processo mentale a qualche cosa di già esistente come accade nella conoscenza della realtà, ma esprime la
rispondenza di una data costruzione alle
norme generali del pensiero. La caratteristica della concezione animistica è
riposta nella tendenza a penetrare nel
cuore delle cose: mentre la concezione intellettualistica nella sua forma più
diftusa si arrestava alla
classificazione degli obbietti, andando in
traccia del carattere generale, astratto e comune a più individui, mentre essa quindi cercava di
presentare delle ‘ormule, degli schemi
in cui potessero essere compresi molteplici fatti concreti, mentre faceva
giungere la sua analisi tanto in alto da
arrivare al principio d'identità, senza curarsi della genesi dei fatti
diversificati e particolari, mentre essa poneva all'origine delle cose l’
universale senza darsi pensiero del
principio del movimento, mentre insomma essa
si contentava di catalogare la realtà, la concezione animistica ha
l'intento di esaminare i vari presupposti delle nozioni tanto adoperate nella
scienza, di legge, di rapporto, di
necessità, ecc. ha di mira di non fermarsi alla considerazione della superficie
delle cose, ma dì spingere lo sguardo
nella loro interiorità per arrivare alla conchiusione che le leggi sono niente altro che determinazioni di
questa. Nel linguaggio ordinario, quando
si vuol dar ragione di una cosa se ne
formula la legge, mostrando di considerare
questa come una potenza, una forza, la quale posta al di fuori o tra le cose costringa queste ultime a
presentarsi in un dato modo; ora nulla
di più falso; come possono le leggi, come può qualsiasi forma di necessità
atta a regolare il corso delle cose,
esistere per sè ? Niente è concepibile
al di fuori o tra gli esseri, non una forza costruttrice, non una potenza
ordinatrice antecedente o staccata dalle cose da ordinare. Si crede di poter dar ragione delle azioni
che le cose esercitano tra loro,
considerandole coie effetti di determinate
proprietà esprimenti la loro natura, colla cooperazione di determinate circostanze: ma, se ben si
riflette, vi è ragione a convincersi che
vuoi il rapporto reciproco delle cose, vuoi
gli effetti particolari che in ogni singolo caso sì notano in seguito alla coincidenza di varie cause
rimangono misteri inesplicabili senza la presnpposizione di un potere sostanzialmente unico, il quale in luogo di
una legge o formula (che, si noti, non può non essere inattiva data l’impossibilità
di spiegare la maniera in cui agisce sui fatti ad essa sottoposti e da essa
regolati), colleghi le varie cose in
modo che la modificazione di una possa riflettersi sulle altre. L'attività unica del principio supremo, fondo
dell’ universo, svolgentesi in maniere e con tendenze determinate, dà ragione della corrispondenza e delle
molteplici relazioni esistenti tra le
cose. L'unità della vita del Tutto spiega
il nesso delle sue varie parti costitutive. I fatti reali e le leggi che non sono separabili tra loro,
essendo la medesima cosa considerata
sotto due punti di vista, non sono chè determinazioni interiori, momenti dalla
vita universale. Non è più a parlare
quindi di necessità estrinseca alle cose,
ma bensi di spontaneità interiore, non di leggi costrittive, o di rapporti o di legami congiungenti le
cose, esistenti per sè, ma bensi di modi
di operare o di processi aventi origine
nell’interiorità del Tutto. Non si tratta più di moti o di urti trasmessi dall'esterno, ma
d’impulsi, di tendenze interne, di forme
dell’attività interiore. Per formarsi
un chiaro concetto della veduta animistica,
giova tener presente che essa non fa distinzione tra leggi fisichè è leggi precettive o normative,
riguardando le prime come riducibili
alle ultime. Allo stesso modo chele leggi regolanti i rapporti sociali, dicono
gli animisti, non vanno considerate come esistenti in modo indipendente, al di
fuori o tra gli uomini, come potenze
atte a costringere e a guidare questi in date maniere, ma cone esistenti solo
nella coscienza degl’ individui, come
aventi valore e forza solo per mezzo
degli atti degli esseri umani, così le leggi naturali vanno risguardate quali
particolari direzioni della vita
interiore dell’universo. In entrambi i casì le leggi sì riducono all’
indirizzo assunto in modo concorde dall'attività dei vari esseri, indirizzo che
all'osservazione esterna e posteriore appare come effetto di un potere
superiore regolante estrinsecamente i
fatti singoli. A convincersi della
necessità di riguardare le leggi in
genere quali determinazioni o forme dell’ attività interiore degli esseri, è
bene (sempre secondo i fautori della
concezione auimistica) tenere a mente che ogni specie di rapporto in tanto realmente esiste in quanto
ha radice nell'unità della coscienza che l’apprende, o meglio, che lo stabilisce,
formu landolo, la quale coscienza passando appunto da un
termine all’altro li abbraccia insieme entrambi, e li congiunge
intimamente colla sua attività sintetizzatrice : onde consegue che ogni
ordinamento, ogni disposizione, ogni legge che noi poniamo nelle cose
indipendentemente dalla nostra conoscenza, non ha la sua origine e base
che nell’ Unità del Reale, che tutte cose comprende, e che per tale
via si presenta come il vero mezzo termine esplicativo di tutte lc leggi,
di tutti i rapporti e legami esistenti nell'universo. Come nell'anima
individuale la relazione reciproca dei vari stati interni dipende dalla base
comune in cui tutti hanno la loro radice, cosi l’' azione reciproca
delle cose è fondata sulla loro comune natura : ciò che fa e produce ogni
singolo elemento non lo fa e produce in quanto è questo e non altro, in
quanto é formato così è non diversamente, in quanto è fornito di
queste note e proprietà e non di altre, ma in quanto è parvenza, simbolo,
espressione dell’ Uno-Tutto. Ogni forza e attitudine ad agire emerge non
da determinate proprietà delle cose che non si sa donde provengano e su
che poggino, ma dal fondo interno che per loro mezzo si manifesta, 1’
intima verità, ragionevolezza e salda struttura del Reale, si esprime
nella concatenazione, nella coerenza e costanza dei fenomeni richiesta
dal significato che la serie fenomenica ha appunto come momento della
vita interiore universale. E molti di quegli assiomi, di quei giudizi
universali reputati per sè evidenti, lungi dall’ essere delle necessità
del pensiero, lungi dall'essere fondati sull'intima organizzazione dello
spirito, sono un prodotto dell’ esperienza, la quale col presentare in
modo costante dati rapporti finisce coll’ ingenerare nella mente la convinzione
che si tratti di rapporti logici: così il principio
dell’indistruttibilità della materia sì crede a torto fondato sulla
categoria mentale della permanenza della sostanza. I dati dell'esperienza
però stanno ad indicare le particolari direzioni in cuil’attività
dell’Uno-Tutto tende a svolgersi per rispondere alle esigenze inerenti
alla sua natura. — E chi crede di poter stabilire le leggi regolanti il
corso dei fatti naturali, basandosi esclusivamente sull a imperfetta
cognizione del finito, senza considerare questo quale espressione della
Realtà universale, somiglia a colui che volesse formare una teoria dei
movimenti delle ombre, facendo astrazione dal moto dei torpi, da cui quelle son
proiettate. Se gli animisti. pongono l’esseuza della legge in
genere nel diverso modo di determinarsi dell’attività interiore del
Tutto nei suoi vari momenti, non è a oredere che essi intendano di affermare
che le leggi singole quali vengono formulate ed enunciate dalle scienze
particolari vadano senz'altro considerate come espressioni complete,
esclusive ed immediate dell’interiorità dell’ Uno-Tutto. È da tenere a
mente che le le leggi generali, le classificazioni, gli schemi della
scienza se servono come mezzi di riproduzione e di richiamo delle cose
concrete, non valgono ad esaurire la natura del reale, tanto è ciò vero
che a seconda del vario punto di vista degli scienziati, un medesimo gruppo di
fenomeni può dar origine a leggi ed a classificazioni di ordine diverso.
Nessuna delle forme e delle leggi presentate dalla scienza può essere
considerata come perfettamente corrispondente al reale ordinamento
delle cose, le quali si rivelano come una totalità atta ad essere
rappresentata nei modi più diversi a seconda del punto di vista da cui la
si considera. Spetta alla filosofia di riguardare l'insieme valendosi
delle vedute parziali offerte dalle scienze particolari. (1)
Secondo una delle forme della concezione animistica, le leggi in
genere vanno considerate come funzioni dei principii reali ed insieme come
norme, come tipi, come modelli a cui i fenomeni tendono a conformarsi;
beninteso che tali norme non sono al di- fuori, ma immanenti nei
reali stessi. In altri termini ogni cosa deve avere un dato ufficio, deve
rispondere ad una data esigenza nel sistema universale, deve essere in un dato
rapporto col Tutto : ora CITAZIONE IN TEDESCO DA SARLO: DER WANDERER, der
einen Berg umgeht,, nota molto 2a propoSito il Lotze (Microcosmus, dritt. b.
217), “ sieht, wenn er wiederholt vor-und zuciick, auf-und abwirts gcht,
eine Anzahl verschiedener Profile des Berges in voraussagbarer Ordnung
wiederkehren. Keines von ihnen ist die wahre Gestalt des Berges, aber
alle sind giltige Projectionen derselben. Die wahre Gestalt selbst aber
wilrde eben so wie alle jene scheinbaren, in irgend einer Lagerung aller
seiner Punkte zu einander bestehen. Diese eigene Gestalt, der wirkliche
innere Zusammenhang der Dinge lisst sich vielleicht auch finden, und
gewiss wirrde man dieses wahre objective Gesetz der Wirklichkeit allen
abgeleiteten und nur giltigen Ausdriicken desselben vorziehen. .in questo
legame dell’elemento singolo del Tutto consiste appunto la legge, la
quale considerata per sè assume la forma di una regola astratta e quindi
di qualcosa di universale, di eterno, d'immutabile, capace d'avere un'attuazione
ed una concretizzazione più o meno complete (1). Di leggi o di forme se
ne possono poi distinguere tre diversi gruppi: 1° quelle che hanno la
loro piena ed Teichmiiller, Philosophie u. Daricinismus, Dopart. Qu
sorge spontaneo un quesito della più alta importanza : le leggi o norme
considerate nella loro universalità hanno la prima origine nell’ intelligenza
umana, ovvero presuprongono un’altra intelligenza d’ordine superiore ? Se
le leggi sono un prodotto dell’ intelligenza umana, non si vede come
possano essere considerate quali norme, tipi, modelli a cui i fatti
particolari e concreti tendano a conformarsi. D'altronde se la legge vien
considerata obbiettivamente come una funzione del reale, non può essere
più riguardata come norma o tipo, a meno che non si vogliano identificare
tutti i reali collo spirito umano quale si presenta in un grado avanzato
di svolgimento, quando cioè ha acquistato l’attitudine ad operare secondo
principii o rappresentazioni di leggi. — Non si vede poi come le leggi
normative concepite quali funzioni, quali disposizioni specifiche, possano
essere considerate modelli o tipi dei fatti reali. Un fatto può essere
modello rispetto ad un altro fatto, ma non lo può mai una funzione o
un’esigenza che in tanto è reale in quanto è in azione, in quanto riceve
la sua completa esplicazione dal concorso di svariati fattori. Eppoi come si fa
a conciliare l’assolutezza, l’eternità, l’ immobilità delle leggi
normative col fatto che esse vengono riguardate quali modelli atti ad
avere un’attuazione più o meno completa? La concretizzazione di un tipo,
la realizzazione di un ideale racchiude necessariamente un processo reale
nel tempo, tanto più se si considera la norma, il tipo come un’esigenza
immanente nella realtà concreta; diversamente bisognerà ammettere la
disgiunzione dell’ idea dal fatto: concetto codesto che implica una
quantità di problemi insolubili: p. es. l’idea come, dove e perchè esiste
disgiunta dall’esistenza concreta ? Il fatto è che le leggi nel loro
significato reale sono funzioni dei reali e come tali non avendo alcuna
esistenza separata da questi, non sono modelli o norme determinanti i fenomeni:
è solamente il pensiero umano che riesce a separarli dall’esistenza e a
riguardarli per sè come elementi intelligibili e quindi nenessari,
universali, eterni (su) specie aeternitatis) della realtà, assoluta
attuazione nei fenomeni (leggi fisiche e chimiche), perchè non sono che
funzioni semplici dei reali; 2° quelle che si presentano solo come regole
che non hanno un'applicazione necessaria (leggi biologiche, etiche, ecc.),
in quanto presuppongono la co-operazione di molteplici reali
determinantisi vicendevolmente in svariate funzioni rispondenti ad uno scopo in
rapporto alla loro dipendenza da un principio unico, centro della
sintesi; 3° quelle forme della realtà che d'ordinario si chiamano
accidentali risultanti dalla cooperazione. di molteplici fattori non sottoposti
però ad alcuna regola o norma. Onde sì hanno forme necessarie, normative
ed accidentali. Da tuttociò consegue che la legge presupponendo l’azione
reciproca dei reali, presuppone per ciò stesso il loro nesso, la loro
unità reale che è concepibile soltanto come sistema, e quindi come
coordinazione di elementi diversi in vista del conseguimento di un fine
unico. Accennavamo già disopra al modo di considerare il rapporto
esistente tra leggi naturali e normative da parte degli animisti: giova
ora insistere su ciò, notando che il modo di concepire l'essenza della
legge in genere ha spesso il suo riflesso nella maniera di valutare la
differenza esistente tra ì vari ordini di leggi. — La concezione animistica
pone su una stesssa linea le leggi fisiche e quelle morali o precettive
dando ad entrambe uno stesso valore. Il rapporto di causalità (sempre
secondo tali filosofi) è il fondamento delle regole pratiche nella
Morale, nel Dritto, come lo è delle leggi sperimentali: rapporto di
causalità che nelle sue modalità sta ad esprimere la natura propria
delle cose. Le leggi « non devi rubare; non devi mentire » (leggi
morali): ovvero: « chi ruba, chi mentisce è punito » (leggi giuridiche)
poggiano sul seguente rapporto causale che non differisce in nulla da
qualsiasi legge naturale : il rubare, IL MENTIRE, ecc. RENDONO
IMPOSSIBILE LA CONVIVENZA SOCIALE E CIVILE [argomentazione trascendentale debole].
Si dice d’ordinario che le leggi precettive o normative a differenza di
quelle naturali esprimono il DOVER [Grice on the dullness of the IS versus the
rationalist interestin of OUGHT] e non l'essere e possono soffrire eccezioni
– CAETERIS PARIBUS -- GRICE. Se non che, rispondono i fautori della
concezione animistica, approfondendo l'analisi delle leggi pratiche o precettive
– o MASSIME O DESIDERATA – GRICE -- , seguendone Jo svolgimento storico, è
agevole persuadersi che il dovere, il precetto è in ultimo fondato sulla cognizione
anteriore di dati rapporti tra le cose, sugli insegnamenti forniti
dall'esperienza in antecedenza compiuta. Infatti, nota Paulsen, si pensi a ciò
che accade nelle regole grammaticali – cf. Austin/Grice, rule, SYMBOLO --
, il cui carattere normativo attuale si presenta come l’espressione
dell'evoluzione storica del pensiero e della lingua. Il grammatico
considera le forme grammaticali antiquate (le quali un tempo erano anche
normative), non in modo diverso da quello in cui il paleontologo
studia le forme fossili. Quanto alle eccezioni, queste si presentano
nelle leggi precettive con una frequenza maggiore che non nelle fisiche,
perchè le prime esprimendo rapporti senza confronto più complessi,
lasciano adito all'intervento di numerose condizioni pertarbatrici;
il che si può constatare anche nelle leggi biologiche, rispetto a quelle
fisiche o chimiche. Non va dimenticato che, anche queste soffrono degli
strappi dovuti a condizioni atte a neutralizzare l’azione di date cause;
si pensi al modo di comportarsi dei corpi più leggieri dell'aria rispetto
alla gravità. La ragione ultima per cui la concezione
auimistica non ammette differenza di sorta tra le leggi esplicative
e quelle precettive va ricercata in ciò che per essa tanto i fatti
naturali quanto gli atti umani non rappresentano che forme dell’attività
o spontaneità interiore, e mentre il fondamento prossimo di entrambe le specie
di leggi va riposto nell' esperienza, quello ultimo risiede nel significato che
hanno per lo Spirito universale date forme di attività.
L’imperativo delle leggi precettive è dovuto al fatto che esse si
rapportano in modo immediato e diretto all'attività pratica umana e
solo in quella forma apportano vantaggio allo sviluppo umano, mentre le leggi
dichiarative esprimono dei rapporti estrinseci a noi ed hanno
l’obbiettivo di constatare semplicemente dati di fatto. Le prime insomma
considerano gli eventi dal punto di vista del valore pratico, lasciando
nell'ombra le basi di questo; le altre si fermano sulle premesse, trascurando
ciò che ne consegue; le prime mirano a porre sott'occhio i mezzi senza
curarsi dello scopo ultimo, le altre invece fondate segnatamente sulla
conoscenza, esaminano la ragione e la base di quei mezzi. (1).
Trattando della concezione animistica merita una particolare menzione
l'opinione sostenuta dal Trendlenburg (2) (1) Citeremo tra i
fautori della concezione animistica, il Lotze, il Fechner, il Teichmiller
il Paulsen. La discussione critica di essa sarà fatta in seguito,
trattando della concezione dualistica che è la più completa e comprensiva,
comunque non risponda a tutte le esigenze, come vedremo. È qui notiamo che non
bisogna aspettarsi di trovare in ciascun autore l’interpretazione della
natura dei vari ordini di legge nel modo tipico e quindi schematico da
noi tratteggiato, giacchè è facile comprendere come ciascun filosofo abbia un
modo proprio di considerare e di risolvere i problemi. Si tratta solo di
cogliere il concetto dominante e il principio direttivo. (2)
Trendlenburg, Logische Studien. Leipzig, 1870. LA NOZIONE DI «
LEGGE » 109 che sia soltanto per via della nozione di movimento
che s’intendono le varie forme di rapporto esistente tra le cose, l’azione
reciproca che queste esercitano tra loro e sopratutto il nesso
dicausalità in cui propriamente è riposta l'essenza della legge. Il
movimento per il filosofo tedesco è per sè stesso attività creatrice,
tanto è ciò vero che da esso provengono lo spazio, il tempo, la figura e
il numero : ora nel rapporto dell'attività produttrice colla grandezza
prodotta consiste appunto il nesso di causalità ; il movimento genera
delle forme e in tale azione si rivela primitivamente causalità. E la
necessità del rapporto causale trae la sua prima origine dalla coscienza
dell’ identità e continuità della nostra attività produttrice. Il nesso
causale estendendosi poi fin dove arriva il movimento, e un certo movimento
trovandosi in ogni forma di pensiero, non è a meravigliarsi che la
causalità appaia una legge del pensiero a cui fa riscontro il moto
di generazione e di attività che si lascia constatare nella realtà
esterna. Del resto la Fisica riduce l'essenza della causalità a
movimento, il quale colle sue molteplici trasformazioni può dar ragione delle
più svariate potenze della natura: ed è mediante il movimento che noi intendiamo
la formazione di qualcosa a sè che è considerata come effetto: questo invero è
concepito quale moto arrestato, quale prodotto esistente per sè e a parte
dal flusso dei fenomeni da cui ésso proviene e che d’altro canto ad
esso fa seguito. Riassumendo, per il Trendelenburg l'essenza della
legge va ricercata nel moto del farsi o di prodursi di una cosa,
quasi diremmo nel cammino che percorre l’attività generatrice del
reale e per lui la conoscenza delle leggi in tanto è possibile in quanto
l'intelligenza rifà mediante i giudizi il medesimo movimento, dando
origine ad un prodotto intellettuale esprimente l'essenza — o ciò che val lo
stesso — la legge della cosa: tale prodotto logico è il concetto vero e
proprio o universale concreto. Nulla vi ha di dato nel mondo, ma
tutto si fa, tutto si costruisce in vista di un fine: ond’'è che tale
movimento di costruzione nel cui fondo giace sempre un pensiero, è la legge
obbiettivamente considerata, mentre che il medesimo moto o attività
costruttrice formulata in un giudizio ci dà la legge quale viene
enunciata dal soggetto pensante. E il concetto è un sistema di
giudizi mediante i quali lo spirito pensa fuse e compenetrate tra
di loro tutte quelle condizioni che rendono necessaria l’attuazione del
processo. Se una di quelle condizioni si pensa in sè e come capace ad
unirsi con condizioni diverse di gruppi diversi, cioè capace
d'intrecciarsi in altri processi egualmente necessari, si ha, secondo il
Trendelenburg, l'universale della reale condizione. Ciò che non va
dimenticato è che lo spirito non giunge alla vera conoscenza
scientifica, al regno della necessità, prima di esser pervenuto al concetto
(legge); stantechè in esso non solamente egli informa l'essere della sua
universalità, ma scorge il processo necessario per cui questa universalità si
pone, si attua e sì svolge. Ond’è che non basta avere la
rappreseniazione, la percezione o anche la nozione astratta di una cosa
qualsiasi per dire che se ne ha una notizia scientifica, ma occorre
averne il concetto, vale a dire occorre conoscerne la legge o l’essenza.
Così io dopo aver percepito la rugiada posso averne la nozione, pensando
la rugiada quale è da sè a prescindere dalle determinazioni accidentali
di spazio o di tempo: in LA NOZIONE DÌ «€ LEGUE » 1il
tal caso nel puro pensiero non ci sarà quella data rugiada, ma la rugiada in
generale di cui posso dare una definizione nominale, buona per tutte le
specie di rugiada: ma me ne manca ancora la notizia scientifica, il
concetto: per il che devo ridurre quel fenomeno particolare alla categoria
dei fenomeni affini e che provengono da un disquilibrio di temperatura,
conoscere il limite della quantità di vapore acqueo che può contenersi
nell'atmosfera, e come esso limite vada restringendosi a misura che la
temperatura vada abbassandosi; come dallo intrecciarsi di queste condizioni
con l’altra della gravità per la quale i corpi non sostenuti cadono,
riceva il fenomeno della rugiada compiuta spiegazione. Ciò
che vi ha di vero, secondo noi, nell'opinione del Trendelenburg è che se si
vuo] dar ragione del divenire delle cose, del loro modo di farsi e di
generarsi non è possibile astrarre dal fattore dell'attività, la quale si
può estrinsecare in vari modi e tra gli altri per mezzo del movimento.
Questo anzi si può considerare come l’estrinsecazione per eccellenza, la
forina intuitiva dell’attività stessa. Noi però non possiamo per nessuna
via considerare col Trendelenburg il movimento come qual cosa di primitivo e
di originario, giacchè esso non è che una rappresentazione
complessa derivata dai rapporti di spazio e di tempo delle nostre
sensazioni, onde non è lecito invertire i termini at‘tribuendo a ciò che è
sussecutivo e derivato l’ufficio di principio atto a dar ragione di ciò
che almeno relativamente è originario. Per poter considerare il movimento
in sè © per sè, bisognerebbe poterlo osservare o sperimentare, senza ricorrere
all’azione dei sensi, il che è assurdo: ed anzi vi ha dippiù: a seconda
delle varie formé di sensibilità si ha di esso una notizia diversa: p.
es. al senso tattile esso si rivela con proprietà diverse da quelle
con cui si rivela al senso della vista. E ciò che noi percepiamo mediante
l’azione di uno, o di un altro senso non è il modo con cui un oggetto in
moto inizia e prosegue il passaggio da un sito all’altro dello spazio, ma
bensi il fatto che l'oggetto stesso è già passato in un altro posto: percezione
codesta che ci vien fornita dalla constatazione dei nuovi rapporti in cui
l'oggetto si trova. In tanto è possibile considerare il moto come
qualcosa di primitivo e di originario in quanto ad esso vengono
meta foricamente e simbolicamente attribuiti i caratteri propri
della nostra attività interiore. I caratteri che contradistinguono la
concezione dualistica sono due: 1° stando ad essa le leggi sono una
elaborazione anzi sì potrebbe dire addirittura una produzione dello
spirito sulla base dei dati provenienti dall'esperienza, dati che
son sempre qualcosa di profondamente diverso dall'attività intellettuale
capace di apprenderli, trasformandoli ed enunciandoli in forma di leggi.
E qui va notato che a seconda che si ammette o pur no affinità o identità
tra le forme del pensiero e quelle della realtà si avranno, come si
vedrà più tardi, delle suddivisioni nel seno stesso della concezione
dualistica. Ciò che in ogni caso forma il tratto caratteristico di detta
concezione è che secondo essa il contenuto dell’esperienza, la
costituzione intima del reale essendo inaccessibile all'intelletto, non
può per ciò stesso essere espresso ed intrinsecato nelle leggi, le
quali ci danno così nelle loro enunciazioni la forma del reale, ma
non mai la sostanza. Così mentre per la concezione intellettualistica e
per quella animistica le leggi figurano come dei semplici riflessi di
fatti e nessi reali nell’intelligenza umana, perla concezione dualistica le
stesse si presentano come vere costruzioni e creazioni dello spirito. 2°
Stando alla medesima concezione, vi sono due categorie fondamentali di
leggi irriducibili l’una all'altra, le leggi esplicative (leggi naturali)
e le leggi normative (leggi pratiche): le prime esprimono l'essere, le altre il
dovere, e mentre quelle sono delle formule, degli schemi che ci aiutano a
richiamare in mente i casì concreti e a catalogare la realtà, il cui
contenuto è impenetrabile, le ultime indicano le direzioni, o meglio, le
esigenze della nostra attività. É naturale che se il contenuto obbiettivo delle
leggi esplicative rappresenta un'incognita per lo spirito, non sì
può dir lo stesso del contenuto delle leggi normative, le quali
riferendosi alla nostra attività figurano come l’espressione di ciò che è
intimo a noi ed ha la maggiore realtà. Il primo sostenitore della
veduta dualistica, la quale, come si è veduto, implica in fondo il
distacco del dominio dell'intelletto da quello dell'attività e il riconoscimento
della spontaneità interiore che appropriandosi dei dati dell'esperienza, li
elabora e li trasforma in determinate guise, fu E..Kant. Ogni
cosa, disse Kant, è regolata dalle leggi che nell'apprenderla e nel conoscerla
vi ha impresse l'intelletto umano, ma solainente un essere ragionevole
opera secondo rappresentazioni di leggi, ossia secondo principii ed ha
quindi un volere. Ora il volere può essere deterininato d_lla ragione in
modo assoluto e imprescindibile, ovvero no: nel primo caso le azioni
riconosciute come obbiettivamente necessarie, diventano pur tali
subbiettivamente, perchè allora il volere sta nella sola facoltà di
eleggere ciò che la ragione riconosce come buono, nel secondo caso, il
quale ha luogo quando il volere può esser mosso da impulsi soggettivi
e quindi non è interamente conforme a ragione, le azioni sono
obbiettivamente necessarie e subbiettivamente contingenti; cioè la legge
obbliga e rivolgendosi al volere di un Essere ragionevole gli prescrive
una determinazione conforme a ragione, ma senza costringervelo. Però i
precetti che la ragione porge al volere e quindi le formole che li
esprimono e che vengono da Kant chiamati Imperativi, possono essere di
due maniere. La ragione cioè può prescrivere un'azione come buona per se
s‘essa, e quindi come obbiettivamente necessaria senza aver riguardo ad
alcun fine e allora l'imperativo che formola questo precetto è un
imperativo categorico; oppure la ragione può prescrivere un'azione come
praticamente necessaria ad ottenere un fine reale o possibile e allora
gl'imperativi che ne formulano i precetti si dicono Iporetici; (potetici
problematici, se il fine è possibile, cioè può soltanto avvenire che l’uomo
se lo proponga, ipotetici assertori, se il fine è senz'altro e sempre
voluto. È facile il vedere come, secondo il pensiero di Kant, sebbene non
sempre chiaramente espresso, al solo Imperativo categorico debba propriamente
attribuirsi la facoltà di obbligare, di prescrivere un dovere, mentre gli
altri non ci dànno propriamente che delle regole e dei consigli.
Gl’imperativi ipotetici assertori prescrivono i mezzi ai fini
svariatissimi (moralmente buoni o cattivi) che un Essere ragionevole può
proporsi: questi imperativi non sono propriamente che regole e potrebbero
chiamarsi gli imperativi dell’abilità (Geschicklichkeit). Se
non che tale veduta kantiana fu fatta segno ad obbiezioni di varie sorta. I)a
una parte Schleiermacher, Paulsen e in genere i fautori della concezione
animistica, opposero che tra legge naturale e legge normativa non esistono
differenze apprezzabili, ma a ciò fu risposto che l’affermare una tal cosa
equivaleva a confessare di non aver un’idea chiara di ciò che sia nè una
legge naturale, nè una legge precettiva. Una legge naturale infatti
esprime solamentu ciò che sotto date condizioni accade sempre senza
che sia possibile il presentarsi di una eccezione : è naturale che le
condizioni divengano complesse a misura che dalle leggi naturali di
ordine generale si scende a' quelle speciali: ma non vi è caso che un
dato fenomeno enunciato in una legge naturale si presenti immutato o
costante se le condizioni corrispondenti o non si presentano del
tutto, ovvero sl presentano in modo variato o imperfetto. Ora è lecito
porre sopra una medesima linea le deviazioni degli obbietti singoli dal
loro tipo generico (ammesso pure che le dette deviazioni possano essere
identificate colle deviazioni dalle leggi naturali, il che non è) e gli
strappi fatti dalla volontà individuale ad una legge precettiva ? O
nella nozione generica s’introduce una forma di valutazione, intendendo per
quella l'ideale verso cui gl'individui di una data specie tendono, date le
condizioni favorevoli, e reputando o gni allontanamento dall’ideale come
qualcosa che non doveva essere, come una
imperfezione, e in tal caso si avrà il
perfetto riscontro colle deviazioni della volontà individuale dalla legge
normativa, ma ci si troverà agli
antipodi della legge naturale: ovvero si considera il tipo generico come l’insieme di quelle
proprietà che in una pluralità
d’individui, data l’uniformità e la relativa immutabilità delle loro condizioni
d’origine e d'esistenza, sì presentano in modo costante, ed in tal caso le
variazioni del tipo generico prodotte
dall'azione di date cause hanno un certo
riscontro colle apparenti modificazioni delle leggi naturali, ma sono agli
antipodi delle deviazioni della volontà
della legge precettiva. Per considerare le leggi naturali come identiche in fondo a quelle morali,
bisogna ridurre queste ultime a pure
descrizioni del modo come gli uomini si
conducono sotto date condizioni, ma con ciò il concetto vero del dovere viene ad essere tolto via,
giacchè le azioni umane in tal caso come
i fatti naturali vengono ad essere
sottratte al giudizio valutativo vero e proprio. Il difetto della concezione animistica sta
tutto qui: nell’aver creduto di poter cancellare qualsiasi differenza tra le leggi esplicative e quelle norinative che
invece sono controdistinte da caratteri diversissimi: le prime esprimono le condizioni sotto cui la realtà diviene
pensabile e intelligibile, stanno a significare le peculiari maniere in cui
la ragione umana reagisce di fronte
all’apprensione del reale, nulla dicendo
della natura intima e del significato del
reale, mentre le altre sono esigenze proprie dello spirito rivelantisi immediatamente alla coscienza ed
esprimenti la natura propria di quello ; le prime pur accennando necessariamente
a qualcosa d'interno, non l’estrinsecano in alcun modo, arrestandosi alla
considerazione della parte formale della
realtà, le altre invece esprimono le direzioni dell’attività umana: le prime
infine possono far pensare ad una forma di attività che è il riflesso di
quella interiore, mentre le altre sono
le determinazioni immediate di tale
attività. Confondere le leggi dichiarative colle precettive è come confondere
la causalità esterna (trasmissione di
movimento) con quella interiore (motivazione dell’attività). Dall'altra parte fu obbiettato a Kant: se la
necessità obbiettiva si differenzia da
quella puramente subbiettiva per questo
che la prima fondata com'è sulla natura delle
cose, é valida egualmente per tutti gli esseri, mentre l’altra fondata
su particolarità individuali e subbiettive è valida soltanto per i soggetti che
son forniti di queste, come mai può
avvenire che tutto ciò che è necessario per gli
esseri forniti di ragione, non è poi più necessario per una parte di essi? Ciò accade, risponde Kant,
perchè l’uomo risulta di varî elementi
per modo che ciò che è necessario per
l’uno di questi, può benissimo essere accidentale per l'altro. È necessario così l'adempimento
della legge morale per l’uomo
considerato come essere ragionevole, il quale
colla ragione appunto conosce la necessità della legge stessa ; ma all'opposto non è necessario per
l’uomo considerato solo come essere fornito di volere, perchè come tale non è spinto all’azione solo dalla ragione,
ma anche da altri impulsi. E la legge
morale è appunto una legge della
volontà, in quanto pone come necessario che l’uomo segua col suo volere
una determinata direzione. Riconoscere questa necessità e insieme affermare che
la volontà umana non concorda
necessariamente con la legge morale non
include nient'affatto contradizione, se sì pensa che nel primo caso si tratta di una necessità diversa
da quella del secondo caso: donde la
distinzione della necessità obbiettiva della esigenza morale da quella
subbiettiva basata sul rapporto della
volontà con la detta esigenza. Se non
che tale distinzione, si è notato dagli oppositori, non regge in quanto la neeessità obbiettiva si
riferisce appunto alla voloutà e quindi
abbraccia la necessità subbiettiva. In
seguito a ciò, pure ammettendo che il concetto «li legge sia suscettibile di due interpretazioni
diverse a seconda che si tratti di leggi esplicative o precettive, si è cercato altrove il fondamento della detta
distinzione. Si è cominciato col notare
come non soltanto nel campo della
morale, rua in tutti i dominii dell'attività umana, nessuno escluso, accada che gl’individui in casi
numerosissimi non seguono leggi, che
pure si presentano col carattere più accentuato dell’universalità. Così per
quanto incondizionatamente valide si presentino le leggi logiche e
matematiche, ciò non impedisce che
conclusioni false ed errori di cali colo
abbiano luogo : e lo stesso si può dire delle leggestetiche, grammaticali, ecc.
V'ha dippiù : ciò che si rileva in
opposizione alle leggi normative generali, non solo è possibile e reale, ma è in un certo senso
necessario : come al fisiologo sembra
naturale la sanità allo stesso grado che
la malattia, così al psicologo l’errore e il male sembrano naturali come il vero e il bene. Del resto le leggi precettive non esprimono
tutto ciò che è possibile, ma bensi ciò
che è giusto o rispondente ad un dato
scopo. È evidente che la parola neccesità non ha un valore eguale trattando di leggi esplicative
o di leggi normative: nel primo caso la necessità implica che un dato fenomeno
risulta necessariamente dal complesso delle sue cendizioni, nel secondo caso
invece indica ciò che si deve fare
perchè l'obbiettivo di una data forma d'attività, la conoscenza del
vero, la produzione del bello o la pratica del
bene, sia raggiunto. Dall’un canto la necessità serve a contrassegnare
il nesso del conseguente colle sue condizioni
quale sì presenta partendo da queste ultime come da ciò che è dato; dall'altro canto la necessità
serve a contrassegnare lo stesso nesso quale si presenta dal punto di
vista del conseguente, partendo cioè
come da ciò che è dato dalla
rappresentazione dell’intento da conseguire, per mostrare sotto quali
condizioni, con quali mezzi ciò è reso possibile. Ora mentre colle cause son
dati sempre e necessariamente anche gli effetti, non si può dire che col fine
o meglio colla rappresentazione del fine
sia dato sempre e necessariamente
l’impiego di dati mezzi e le modalità dell’impiego stesso, onde consegue che le
leggi naturali hanno un valore
universale, mentre quelle pratiche dicono, sì, che incondizionatamente certi scopi possono
essere raggianti solo con un dato ordine
di mezzi, e in tale rapporto, se esse
sono giuste, non temono smentita dai fatti; ma dell'applicazione
effettiva dei detti mezzi nulla ci dicono, per modo che non è esclusa la possibilità che i mezzi
non siano applicati e che per conseguenza lo scopo non sia neanche lontanamente raggiunto. Le leggi dichiarative
dicono: date queste condizioni deve
necessariamente conseguire questo effetto: quelle pratiche invece: se un dato
scopo deve essere raggiunto, bisogna
operare in tale maniera e non diver
samente. Se poi nei casi particolari si procederà effettivamente così e
se quindi l’obbiettivo corrispondente sarà aggiunto non è certo appunto perchè
ciò dipende dal modo in cui sì determina
l’attività individuale ed è tale incertezza
che trasforma la legge in una forma di esigenza umanae. la necessità che l’esprime in dovere. Qui si presenta une questione: É giusto
mettere tutte in un fascio le leggi
normative o precettive? Noi crediamo di no, in quanto alcune di esse si
presentano come regole dedotte da
determinati rapporti offerti dall’esperienza, mentre altre figurano come
l’espressione della natura propria del
soggetto e quindi vanno considerate come
funziori di esso : così le leggi precettive igieniche, dietetiche ecc. in tanto sono valide in
quanto sono fondate su determinati nessi causali constatabili per mezzo dell'esperienza e quindi contingenti, per
contrario le norme logiche e morali sono
anteriori a qualsiasi esperienza, s0no esigenze dell’attività umana e stanno a
significare ciò che vi ha di proprio
nella natura del soggetto pensante sia
dal punto di vista teoretico che pratico. Ma di ciò sarà trattato più diffusamente in seguito. Dicemmo di sopra che Emmanuele Kant va
considerato come il vero fondatore della
concezione dualistira, avendo egli
ammesso, dopo aver profondamente differenziato le leggi normative da quelle esplicative, che ì
giudizi necessari ed universali intorno alla realtà occasionati dall’esperienza,
in tanto sono possibili, in quanto lo spirito umano è fornito della capacità di apprendere i
fatti concreti per mezzo di forme a priori o appercettive, le quali
servono ad universalizzarli e ad
obbiettivarli. Sono queste nozioni
appercettive, o predicati universalissimi o categorie, o forme a priori, o funzioni dell’intendimento
umano che unite, mediante giudizi di ordine speciale (giudizi sintetici a priori) coi dati percettivi concreti, rendono
possibile .la scienza, cioè a dire la
trasformazione del fatto subbiettivo del
sentire in qualche cosa di obbiettivo esistente in modo ordinato nello spazio e nel tempo e insieme
l'enunciazione in formule universali
delle varie sorta di azioni e di relazioni
esistenti tra le cose. Non è nostro intendimento ora fare la storia e la critica delle vedute kantiane
intorno alla possibilità dei giudizi sintetici a priori, in quanto ciò ha formato oggettò di svariatissime e
importantissime ricerche il cui risultato è stato la trasformazione del
primitivo kantismo. I mutamenti che ha
subito il pensiero kantiano, passando
attraverso ia mente dei vari Logici moderni sono stati molteplici e non sempre si fu d'accordo
intorno al modo d’interpretare, di
completare e di svolgere il pensiero del
maestro: tuttavia non è impossibile collegare insieme le varie opinioni emesse, considerandole da
un punto di vista superiore. Per quanto
numerose e rilevanti siano le
discrepanze tra i filosofi criticisti intorno alla estensione ed al
significato dall’a priori kantiano, vi sono dei
dati ammessi da tutti e su cui non cade alcun dubbio o disparere. Così tutti concordano
nell’ammettere il corrispettivo obbiettivo dell'elemento formale di ogni conoscenza,
vale a dire la cooperazione della realtà nella genesi delle forime
appercettive, in modo che questo lungi
dall’esser considerate come semplici funzioni o obbiettiva trai zioni
dello spirito umano, sono ritenute il risultato della cooperazione di due fattori, del fattore
subbiettivo e di quello obbiettivo.
D'altra parte si è d'accordo nel riguardare le forme appercettive (le nozioni
di uguaglianza e di differenza, di tutto
e parti, di grandezza, di rapporto causale tra i fatti successivi e di
connessione reciproca tra fatti coesistenti e di fine) come acquisti dello spirito umano avvenuti sotto la guida di
alcuni principî supremi comuni al
pensiero ed all'essere, quali il principio
d'identità, quello di contradizione e quello di ragione, ecc. E qui va notato che non tutti i filosofi son
disposti ad attribuire un egual valore
ai suddetti principii, giacchè per
taluno, come per il Riehl, il principio regolatore supremo è quello d'identità,
mentre per altri è quello di
contradizione colla cooperazione però più o meno valida degli altri principii : questione codesta che
a noi non compete di esaminare.
Conchiudendo, possiamo dire che il neo-kantismo non considera più le varie leggi scientifiche
quali giudizii sintetici aventi il loro fondamento ultimo nei giudizii sintetitici
a priori, costituenti poi i veri principii delle scienze, ma come il risultato della trasformazione dei
nessi e rapporti puramente sperimentali
in nessi e rapporti logici. Non è dunque
riposta l’essenza della legge nell’applicazione di determinate categorie ai fatti concreti, ma
nella trascrizione dei fatti o processi sperimentali in fatti e processi aventi organismo e struttura logica. Tra i filosofi criticisti quegli che più e
meglio di tutti ha trattato la quistione
della natura e delle forme della
conoscenza scientifica è certamente il Riehl], il quale nella sua
pregevole opera // Criticismo filosofico, ha emesso delle vedute degne di essere conosciute. Egli
comincia coll'’ammettere una profonda differenza tra le leggi normative e quelle esplicative in quanto le prime
esprimono il dovere in rapporto al
conseguimento di un dato scopo, mentre le
altre esprimono l’essere; in base alle prime giudichiamo del valore, dell'importanza di una data cosa,
mentre in base alie altre della realtà o
della verità : le prime denotano tendenze e s’indirizzano all’avvenire, le
altre dati di fatto e vertono su ciò che
è ed accade: le prime infine sono una
determinazione del gusto, del sentimento e della volontà umana, mentre le altre
sono emanazione della ragione e
dell’attività coroscitiva. Dal che consegue che la scienza, la quale si può considerare come l'ordinamento
razionale delle leggi esplicative,
presenta l’uomo quale un prodotto della natura, quale risultato delle leggi
generali di essa, mentrechè la filosofia
pratica riferendosi al possibile e all’ideale, risguarda l’uomo nella natura come causa, come un essere
cioè che in base alla conoscenza delle
leggi natarali può proporsi dei fini e
mettere in opera tutta la sua attività per raggiungerli. Ma se la filosofia
pratica può avere il suo punto di
partenza nella conoscenza della natura umana fornita dalla scienza (Antropologia, Pisicologia,
Storia ecc.), rapportandosi poi a ciò che deve essere, esplica la sua
azione, ponendo sempre nuove esigenze al
sentimento, al volere ed alla coscienza
umana. Nell’approfondire la natura
della conoscenza scientifica il Riehl
nota che la legge esplicativa che è sinonimo di
rapporto necessario, esprime l’azione esercitata sulla ragione dalla
stabilità ed uniformità del corso dei fenomeni. La relazione esistente tra la
realtà e il pensiero costituisce l'esperienza propriamente detta: e le
leggi scientifiche sono il prodotto da
una parte della regolarità con cui sotto
condizioni eguali si presentano fenomeni
identici, o della stabilità delle proprietà fondamentali delle cose, e dall’ altra dell’ attività
concscitiva del soggetto. Onde la legge è per l'intelligenza ciò che è il
fine per il volere e il bello per il
senso estetico : in tutti e tre i casi i
due termini s'implicano a vicenda; tanto é
ciò vero che le cosidette leggi naturali lungi dall'essere in rapporto, come a dire, accidentale colle
leggi del pensiero, sono il risultato, quanto alla loro forma, di queste ultime. Pertanto l’affermazione che in natura
tutto av. venga in modo meccanico è
falsa, se s'intende dire che per tale
via si riesce a comprendere la natura propria, e le qualità intime del processo naturale; il
meccanismo delle cose lungi dal manifestare
l'essenza di un qualsiasi fatto
naturale, rappresenta la forma di questo; e la meccanica ricercando
l'equivalente dei cangiamenti svolgentisi
nella natura, non svela nient’affatto la natura propria delle cause dei detti cangiamenti. É per questo che
le leggi esp imenti i rapporti delle cose devono presentare i termini connessi in modo continuo e immediato nel
tempo e in maniera intelligibile per l'intendimento, vale a dire congiunti secondo il rapporto dell'uguaglianza
quantitativa, riducibile al principio
d'identità. E a che ai riducono le
leggi del pensiero, le categorie
logiche, che applicate alla realtà, rendono possibile la formazione
delle leggi scientifiche ? « Le condizioni logiche dell'esperienza, dice il Riehl (1), » le
categorie della (1) Rienc, Der
philosophiscrie Kriticismus. Zw. B. Leipzig. sostanza, della causalità e
dell’unità sistematica della natura, non sono, come insegnò Kant, forme
primitive diverse e irriducibili del
nostro intelletto, ma derivano da un unico principio saperiore, da quello
dell'unità e conservazione della coscienza in genere, il quale dà loro
origine quando viene applicato ai
rapporti generali presentati dall'intuizione. L'Io è cosciente della suna unità
e della sua identità con sè stesso,
condizione prima di ogni altra conoscenzà, sia che scompone una molteplicità
simultanea di impressioni (la cui forma
intuitiva è lo spazio), sia che connette
una serie successiva di impressioni, sia finalmente che scompone e congiunge insieme, vale a dire
che unisce i due atti precedenti,
affinchè emerga il concetto dell’unità
sistematica del tutto. Noi possiamo quindi distinguere tre diverse funzioni pertinenti alla coscienza
(una ed identica con sè stessa), una
funzione analitica (che ci dà la categoria di sostanza), una sintetica (che ci
dà la categoria di causalità) ed una
sintetica ed analitica insieme (che ci
dà la categoria dell'unità sistematica); mediante la prima è differenziato il permanente dal mutevole,
mediante la seconda è collegato il
cangiamento colla sua causa, mediante la terza finalmente tutto il reale, cose
e processi, viene considerato come un
sistema organico composto di varie
parti. È questa l’espressione più
completa e più perfetta della concezione
dualistica; e non si può non convenire che essa
segna un notevole progresso rispetto agli altri modi d’interpretare la
natura delle leggi; ma possiamo noi dichiararci soddisfatti appieno ? Notiamo
subito che il difetto di tale veduta sta
tutto nel ritenere che la natura propria della legge si riduca all’affermazione
di un rapporto di natura quantitativa;
ora la legge oltreché l’espressione di
una equivalenza, è l’espressione dell'attività di una cosa sull'altra. L'ideale verso cui tende la
scienza nel fomulare le sue leggi non è
l'affermazione esclusiva dei rapporti
quantitativi, ma l'indagine delle condizioni determinanti dati fenomeni,
condizioni che diventano spesso visibii
all'intendimento e vengono fissate per mezzo dei rapporti quantitativi non altrimenti che in un quadro
è pel colore che diventano visibili le
linee, i punti e fino la mancanza
perfetta di linee, il nero, la tenebra. É evidente però che l'essenza della legge non può essere riposta
in un momento subordinato ed ausiliario,
per quanto necessario. Con le sole leggi
della meccanica, con le sole ridistribuzioni
della materia e del movimento non s’in'ende come si possano produrre forme così diver:e della realtà. La
concezione meccanica, come quella che è
solamente quantitiva, non soddisfa al
bisogno che la conoscenza ha del sistema, non
rende ragione della Zinitazione e direzione delle forze. Con la materia e col movimento soltanto noi
abbiamo una possibilità affatto indeterminata, la possibilità di mondi innumerevoli
diversi: che cosa determina la genesi del mondo
della nostra esperienza ? Ciò posto, come mai si può affermare che la
scienza abbia per compito essenziale d' indagare la costituzione meccanica del
Reale? La scienza tende invece a
conoscere la natura propria delle cose quale
sì manifesta per mezzo delle loro azioni o funzioni e per mezzo del numero maggiore o minore di attinenze
(delle quali le quantitative sono una
sorta soltanto) che esse hanno col
rimanente della realtà. L'essenziale della conoscenza scientifica non
sta nel delineare semplicemente le variazioni
spaziali e temporali di una cosa, ma nel cercare di studiare le proprietà, le qualità e le relazioni di
essa, tanto è ciò vero che la scienza
seria ed esatta lungi dall’abbandonarsi
a ricercare la spiegazione e la ragione di tutti i fatti nei semplici spostamenti spaziali e
temporali, studia ciascuna categoria di fenomeni separatamente senza
lasciarsi fuorviare dalle analogie o
somiglianze astratte e va in traccia
sempre delle condizioni peculiari concorrenti a determinare una data classe di
fenomeni. E tutte le ipotesi
scientifiche non hanno la loro ragione di essere nella esigenza
imperiosa della scienza di approfondire la natura propria delle cose, prescindendo dalla
esclusiva considerazione della grandezza e della quantità ? L'errore del Riehl è di aver identificato
ogni forma di cansalità con quella
esterna o meccanica (1), chiudendosi cosi la via di interpretare i fatti di
cristallizzazione, di coesione, ecc.
ecc,, buona parte dei fatti chimici e biologici e tutti i fatti spirituali, ove
vige in modo evidentissimo ‘0 principio dell’ aumento dell’ energia ; ora
si (1) La causalità fisica è
profondamente diversa da quella psichica, in
quanto ciò che è causa nella prima — e quindi fa essere una cosa — diviene
motivo nella seconda, cioè, giustifica la cosa, ciò che in quella è azione meccanica proveniente dall’esterno
(causa ed effetto son considerati come l’una fuori dell’altro) ed è quindi
accessibile alla osservazione esterna e alla comparazione quantitativa,
nell’altra è azione interiore proveniente, anzi da ciò che vi ha di più
profondo nell'essere ed è accessibile
soltanto all'osservazione interiore. La causa agisce per ciò che è in sè, mentre il motive per il valore
che gli vien dato dall'insieme della
vita spirituale, valore che può variare moltissimo, donde la varietà delle determinazioni volontarie nei varii
individui e le reazioni subbiettive diverse ad un medesimo fatto, Da tutto ciò
consegue che è una conpuò affermare che in tutti questi casi non è a parlare
di leggi, vale a dire di maniere
costanti ritmiche di operare, di
rapporti necessari e universali, di funzioni determinate, quindi di scienza? Aggiungiamo che se il
principio di identità fosse l'esclusivo principio supremo della intelligenza
e se quello di ragione non fosse
inerente alla natura propria
dell'intelletto, non si vede come e perchè la cosidetta identità
sintetica potrebbe entrare in azione. Secondo il Riehl, infatti, noi siamo tratti a identificare
sempre ciò che è straordinario o inusitato con ciò che già sappiamo: ora in
questo caso l’identificazione non
rappresenta che il messo di poter
rispondere all’esigenza di ricercare la ragione di ciò che ci sì rivela come nuovo e irriducibile al
resto. Il fatto prinitivo è sempre il
principio di ragione e l'identificazione
non è che un mezzo, nè necessario, nè universale. Noi potremmo riferire
numerosissimi esempi per provare come la
essenza della legge non vada riposta nell’enunciazione di un rapporto quantitativo. Citeremo qualche
fatto soltanto tolto dalla
Biologia, Così è noto che il ricambio
materiale se può ra ppresentare una delle condizioni indispensabili al
funzionamento degli organi, non ne è la
causa determinante ed essenziale, la quale deve essere ricercata nell’
organizzazione, tradizione parlare di
leggi naturali della volontà in quanto questa opera, trasformando le cause in motivi, rendendole
cioè un fatto interno. L’operare in seguito a motivi non rende possibile
l’operare secendo leggi, m a l’operare
secondo norme e regole, dal seguire le quali è agevole sottrarsi una volta ammesso che la forza dei
motivi dipende dal valore che vien loro
dato dal complesso della vita psichica, la quale essendo diversa per ciascuno individuo, produrrà
diversità anche nel modo di operare dei
motivi e quindi nella maniera di attenersi alle dette norme, nella morfologia
dei tessuti: quand’anche conoscessimo e
sapessimo determinare quantitativamente tutte le innumerevoli reazioni
chimiche che si svolgono nel nostro organismo, ci resterebbe a conoscere come
l’ energia che esse sviluppano si
trasformi in funzione, come nei complicati
ingranaggi dei nostri tessuti la stessa possa estrinsecarsi sotto forma di calore, di elettricità, di
moto, di secrezione, di attività
nervosa, ecc. Nell’atto chimico si deve riconoscere la causa dell’energia disponibile, ma la
funzione si determina trasformando quell’energia, plasmandola in mille modi, presentandola sotto diversissime
manifestazioni. E qui giova notare che
non selo i risultati delle reazioni
chimiche che avvengono in un organismo, ma anche le condizioni che le
determinano hanno qualche cosa di speciale e
di e clusivo agli esseri viventi, all’organizzazione, cioè ed ai suoi prodotti. Noi possiamo infatti
riprodurre alcuni di quei processi
chimici che si svolgono nella trama dei nostri tessuti, ma per ottenere gli
stessi risultati dobbiamo impiegare
delle altissime temperature, delle enormi pressioni, delle correnti elettriche
assai potenti o l’azione di reattivi di
tale violenza da distruggere qualunque organismo, Negli esseri organizzati
invece si hanno gli stessi effetti ad
una temperatura egnale o di poco superiore a quella del''ambiente, alla pressione atmosferica
ordinaria, sotto l'influenza di correnti
appena dimostrabili ed approfittando di
debolissime affinità. Ora forse dal fatto che la vita non può ridursi al ricambio materiale puro e
semplice, determinabile quantitativamente, deriva l'impossibilità di pailare di
leggi fisiologiche o biologiche ? Tali leggi saranno indeterminate dal punto di
vista quantitativo, ma sono determinatissime dal punto di vista qualitativo.
L'essenziale non è la fissazione
quantitativa, ma quella qualitativa
delle condizioni genetiche di un fenomeno. L'opinione di Kant che si possa parlare di scienza soltanto
nei casi in cuì sia applicabile il
calcolo ha ormai fatto il suo tempo,
perchè anche i rapporti qualitativi formando obbietto d'indagine, possono
essere formulati in leggi. Le leggi
intese in largo senso non rappresentano soltanto il prodotto della fusione del fattore
subbiettivo dell’ unità ed identità
della coscienza (e categorie logiche che ne
derivano) con quello obbiettivo dell’ uniformità e rego larità dei fatti esterni, ma figurano anche
come il rifiesso o meglio l'applicazione delle varie forme di attività psichica (tra le quali merita particolare
attenzione l'esigenza della ragione e del fondamento delle cose e la tendenza a
rintracciare la loro reciproca dipendenza) all’azione reciproca che presentano
le cose. La scienza naturale, è vero, s'arresta alla valutazione dei rapporti
quantitativi, che sono quelli accessibili alla misura, perchè i suoi obbietti quali determinazioni spaziali e
temporali e quali limitazioni di qualche
cosa d’identico e di continuo sono
paragonabili quantitativamente, ma ciò non toglie che una forma di conoscenza superiore e più
completa debba tener conto delle varie
forme di azione esercitate dalle cose
tra loro. Ed anche nelle scienze che hanno per
obbietto la natura, le leggi puramente descrittive e basate esclusivamente su rapporti quantitativi tendono
a divenire genetiche e condizionali,
segno che l'esigenza della scienza non è
quella di trovare semplicemente dei rapporti di equivavalenza, ma di mostrare
come le cose sussistenti solo in quanto sono attive, operino nelle varie
contingenze (1). Ciò che ha il maggior
interesse per l’intelletto umano non è
la pura fissazione di rapporti quantita‘ivi, ma la determinazione dei rapporti di condizionalità
e di causalità, rapporti che se sono
resi visibili per mezzo delle variazioni
concomitanti quantitative, non implicano nient'affatto l'equivalenza dei
termini dei detti rapporti. D'altra
parte le varie funzioni di analisi, di sintesi, e di analisi e sintesi insieme non s'intende come
possano esser ascritte all'unità della
coscienza che è sempre un concetto
puramente formale e quindi vuoto : è necessario la sostituzione di qual
cosa che dia ragione della possibilità di
differenziare e diidentificare i vari fatti psichici e insieme della possibilità di scomporre e
successivamente comporre i singoli fatti
per poter fondere in ultimo i due processi
in uno. Ora il concetto che risponde a tali requisiti per noi è quello dell’altività, la quale può
divenire sorgente di atti molteplici;
atti che mentre da una parte si differenziano tra loro, sono però congiunti per
questo chehanno un'origine comune. Di
guisa che la funzione analitica della
(1) RieuL: Op. cit. — Fr. B. Schluss, pag. 194 e segg. — Qui è bene riferire un passo del medesimo Riehl:
“ Es kinnte in der Natur nichts auch nur
relativ Selbstindiges geben wenn es in ihr nicht wahre, sondern immer nur ùbertragene, mithin
scheinbare Thàitigkcit gàbe. Nicht bloss
im Moralischen, auch im Physischen wurzelt die Selbststindigkeit in der
Selbsthiitigkeit Obgleich wir uns die Elemente nicht auf psychische Art wirkend zu denken haben, also
nicht als Monaden vorstellen, so weist
doch, “ie FErscheinung der physischen Thiitigkeit auf eine wahre von den Elemznten ausgehende,
nicht blos denselben 4usserlich
eingeprigte Action zuriick. Nur was fàhig ist zu wirken ist
und heisst wirklich. In d r
Empfindung, die nicht blosse Receptivitàt ist.
sondern Reaction gegen den empfangenen Reiz haben wir den Typus der Wechselwirkung auck in der nicht
empfindenden Natur vor uns, coscienza è resa possibile dall'avvertimento dei
molteplici atti emergenti dall'attività
psichica, quella sintetica dall'’avvertimento della loro identità d'origine e
quella sintetico-analitica dalla fusione dei due processi o dal congiungimento
dei due momenti del medesimo fatto. Da tal
punto di vista l'essenza della legge in genere è riposta nel tentativo d’interpretare l'azione
reciproca delle cose presentateci
dall'esperienza, basandosi sul modo d'operare
della nostra attività interiore. Del resto ciascun individuo nell'’enunciare una legge, per quanto non
l’esprima, sottintende tale concetto fondamentale dell'attività. Ed è
questo il sulo mode di poter comprendere
l’unità delle cose. Il detto fattore
dell’attività non trova espressione adequata,
perchè ciò che è qualitativo e interno non può essere obbiettivato e
insieme universalizzato come i rapporti quantitativi, spaziali e temporali che
rappresentano il contenuto della
coscienza intesa in senso universale e non di quella individuale soltanto. Al di fuori del Criticismo, la concezione
dualistica della legge assunse una forma
particolare nel Wundt, la quale merita
di essere mentovata (1). Il filosofo di Lipsia dopo aver messo in sodo che il concetto di legge
in genere originariamente derivò da quello di norma, riconobbe che esso sì andò sempre più allontanando da questo a
misura che i fatti costituenti l'oggetto
delle scienze esplicative non furono più
considerati quali estrinsecazioni d’ impulsi
interiori, a misura cioè che furono presi in considerazione dalla
scienza le relazioni formali delle cose e non
(i) Wundt. Etk:k, Stuttgart 1886, — Id. Logik. il loro contenuto e
significato obbiettivo. Pertanto la nozione di legge-norma divenne estranea da
un pezzo alle scienze naturali,
contrariamente a ciò che accadde nelle
scienze psicologiche e storiche. Il processo delle scienze esplicative, nota il Wundt, s’intreccia
spesso con quello delle scienze
normative, per modo che in queste si hanno delle leggi dichiarative a fianco alle normative e
viceversa: ciò che non va dimenticato è
che spesso il punto di vista esplicativo
è anteriore e quindi presupposto da quello normativo, il quale ha soltanto in
esso la sua base. In ogni caso le
scienze normative si differenziano profondamente da quelle dichiarative e
descrittive per questo che nelle prime
predominando le leggi-norme, alcuni fatti
sono differenziati da altri per mezzo del momento valutativo, in base al
quale i dati sono riguardati come conformi
o contrari alla norma. La contrapposizione del normale all’anormale mena alla differenziazione del
dovere dall'essere. Ora il punto di
vista esplicativo conosce semplicemente
l'essere, onde le scienze che hanno per obbietto la natura considerano ciò che è già dato e se esse
accolgono anche la nozione di norma e di
dovere, l'essere in tal caso coincide
col dovere per modo che non vi può essere contradizione tra i due: il so/len
diviene mdassen. Col toglier via adunque
ogni forma di valutazione viene ad essere tolta
ogni possibilità di differenziare i fatti in regolari e irregolari, in
normali e anormali. Ma la valutazione
in tanto è possibile in quanto gli atti
singoli che sono obbietto della valutazione, sono considerati come un prodotto del volere umano, ond'è che
essi vengono distinti in atti conformi o
non conformi alle esigenze (norme), alle
direzioni fondamentali del volere stesso. Ed è su ciò che è fondata anche la distinzione del dovere
dall’ essere. D'altra parte la norma di
fronte alla volontà può assumere la forma di comando, di regola riferentesi non
soltanto alla valutazione di atti già compiuti, ma alla produzione di fatti avvenire. Però ogni uorma
è originariameate una forma d’attività, una determinazione, una regola del
volere, e come tale, una prescrizione; è solo secondariamente che può divenire
una specie di stregua, di misura
indispensabile all’apprezzamento di a'ti già compiuti. Qui va notato che il carattere normativo non
sì rivela identico e costante in tutte
le così dette scienze normative : così di tutte le norme o regole grammaticali,
una sola conserva il suo carattere
obbligatorio ed è che le forme
grammaticali delle varie lingue devono esser conformi alle leggi logiche del
pensiero. Tutte le altre regole
grammaticali figurano coine il risultato di svariate condizioni
psicologiche e fisiologiche. In modo analogo, mentre la più parte delle norme giuridiche hanno la
loro origine nelle mutevoli e
particolari condizioni storiche della società,
alcune soltanto indipendentemente da queste cause posseggono forza
obbligatoria dovuta alla natura morale dell'uomo. Anche nelle norme estetiche va distinto
l'elemento transitorio prodotto dalle
influenze storiche della moda e delle consuetudini da quello permanente, a cui
noì siamo disposti ad attribuire il
massimo valore. Dalle molteplici radici
del sentimento estetico emergono le
norme estetiche che prendono due direzioni diverse : da una parte quella riferentesi ai principii
della regolarità, della simmetria, dell'armonia,
dell'ordine che sono un prodotto del pensiero logico: e dall'altra quella
relativa alle bela Li et e i e "e
—___m..{«i-_ b-__°’’ _ieccosieliani esigenze ed emozioni etiche, per il cui
mezzo il bello parla al. cuore,
assumendo le forme più elevate. Logica
ed Etica, ecco le due scienze normative vere e
proprie: formando la prima la base normativa delle scienze teoretiche, la seconda quella delle pratiche
(1). Le norme della Logica possono
estendersi a tutto ciò che ci è dato
dalla intuizione e dalle nozioni da questa derivate ; ma nella loro applicazione non involgono un
giudizio valutativo intorno agli oggetti del pensiero logico ; può solo tanto il soggetto considerato in rapporto
alla sua attività cogitativa costituire
la base di un apprezzamento valutativo; le norme dell'Etica si riferiscono
immediatamente agli atti volitivi dei soggetti pensanti ed agli oggetti
solo inquanto questi debbono la loro
origine agli stessi atti volitivi: come si vede, in tal caso è il soggetto
agente che nello stesso tempo forma
oggetto della nostra valutazione. Onde è chiaro che il subbietto del pensiero
logico in tanto può essere in qualche
modo apprezzato in quanto è insieme
obbietto etico : il pensiero logico infatti come libero atto volontario può
essere subordinato all'attività morale.
E la Logica avendo fra gli agli altri compiti anche quello di trattare e di esaminare i criterî
del pensiero vero e il valore dello
stesso, può benissimo essere chiamata
Etica del pensiero. Di guisa che
il concetto del dovere non ha un significato eguale nella Logica e nell’ Etica,
giacchè per questa il dovere emerge
dall'obbietto stesso della sua considera
(1) Teoretica è la ricerca scientifica vertente sul nesso reale dei dati di fatto; pratica quella che ha per
obbietto le produzioni della volontà
umana e le creazioni dello spirito. zione,
mentre che nella Logica il dovere nasce soltanto quando il processo logico è sottoposto ad un
giudizio valutativo, vale a dire quando è annoverato tra le azioni etiche. In
tal guisa per il Wundt la sorgente ultima della
nozione di norma è nella moralità, e la scienza normativa per eccellenza è l'Etica. Dipoi l’idea di norma prende due direzioni,
da una parte è applicata a quei dominii
scientifici che per le loro condizioni
d'origine subbiettiva (atti volontarii)
sono più affini ai fatti morali, dall’ altra parte è applicata a tutti
gli oggetti dell’esperienza esterna ed interna, i quali sono apparsi sottoposti
ad una costante regolarità riguardo al loro modo di presentarsi, di svolgersìi
ecc. Si comprende agevolmente che la
prima trasformazione ed applicazione
dell'idea di norma ha preparata la seconda, giacchè il pensiero logico, è stato
tratto con molta facilità a trasportare
il suo proprio carattere normativo
agli obbietti ad esso sottoposti. D'altra parte il carattere ‘ normativo del pensiero logico non avrebbe
mai potuto svolgersi completamente senza
la corrispondente costanza e regolarità
degli obbietti, la quale però, giova tenerlo a
mente, non sarebbe mai stata appresa senza il concorso dell'attività del pensiero sottoposta a date
norme: sicchè possiamo ben dire che i
due indirizzi presi dall'idea di norma,
intrecciandosi, sì sono aiutati a vicenda nel loro svolgimento, l’azione preponderante pur
essendo esercitata dal carattere
normativo del pensiero logico. E qui si
potrebbe osservare che considerando la norna
quale regola della volontà, quale determinazione primitiva di questa,
non si spiega come essa possa assumere la forma
di comando, senza implicare costrizione, necessità subbiettiva. Se la
norma rappresenta una determinazione della volontà, perchè si può e uon si può
seguirla? Donde la scissione, lo sdoppiamento del dovere dall'essere,
dell'ideale dal reale ? Ogni difficoltà
sul riguardo viene a sparire, se si tien
conto del fattore sociale nella genesi della norma. Questa è, sì, una
determinazione della volontà, una forma d'attività, ma una determinazione della
volontà sociale, una forma dell'attività
collettiva, rispetto alla quale la volonta
individuale si può benissimo trovare in antitesi per svariatissime
ragioni. Il carattere normativo ha la sua sorgente nell’intima relazione
esistente tra i varii individui
(soggetti pensanti e volenti) componenti una società, i quali sono come parti organiche di un Tutto
d’ordire superiore. È il volere e la
coscienza sociale che si può imporre al
volere dei singoli individui (1).
Tutte le norme e regole che hanno un valore obbligatorio sono da
considerare quale prodotto della coscienza e
della volontà sociale. Invero le varie forme di società (1) Recentissimamente taluno ha affermato
che i prodotti della collettività sono inferiori alle opere compiute dagli
individui isolati: riunite insieme, si è
detto, i più grandi ingegni, in modo che tutti cooperino alla produzione di un’opera collettiva, e
vedrete che ne verrà fuori qualcosa d’ imperfetto. Se ciò sia vero o no, non
importa discutere qui: ciò che voglia no
mettere in evidenza è che le produzioni collettive naturali non vanno identificate colle produzioni
artificiali, arbitrarie di una qualsiasi riunione d'’ individui, giacchè in
quest’ultimo caso la collettività lungi
dal presentare i caratteri dell'organismo assume l’aspetto di qualcosa di
meccanico. È per questo che le note antagonistiche presentato dai vari individui invece di essere
armonizzate in un’unità superiore, si
elidono a vicenda. umana, costituiscono delle vere e proprie .unità
organiche, le quali hanno delle funzioni
determinate, superiori a quelle
degl'individui, adempiono ad uffici più elevati e rispondono ad esigenze, per cui sarebbe inefficace
l’attività individuale. La connessione
degli spiriti, l’azione reciproca, la solidarietà vera, perché fondata su
rapporti spirituali, dei varìl membri
delle società è un fatto che ci dà la chiave per spiegare taluni prodotti psichici complessi,
che altrimenti rimarrebbero un mistero.
Così il lavorio intellettuale dei
diversi individui componenti la società umana ha avuto per effetto di fissare lo scopo ultimo, l'ideale
della conoscenza, togliendo dalle
direzioni particolari dell’ attività spirituale
tutto ciò che vi era dì accidentale, di subbiettivo, d’incoerente,
d’inefficace e determinando una direzione unica e consistente, atta cioè a connettere insieme i
varii momenti del processo cogitativo e
a stabilire il rapporto del pensiero individuale con quello universale. La
volontà e la coscienza sociale hanno universalizzato il pensiero, fissando l'ideale e quindi le norme a cui si deve
conformare il prodotto psicologico individuale, affinchè possa adempiere
al suo vero ufficio. Tutto ciò che non
può essere messo in rapporto col sistema di relazioni stabilite dalla vita
storica e sociale dell'umanità non ha
consistenza, e quindi non è reale nello
stretto senso della parola, nè vero: e le norme
o le leggi del pensiero non rappresentano che il modo, la via da tenere per poter connettere il fatto
singolare col sistema universale;
sistema che d'altra parte alla conoscenza riflessa si rivela come generato
appunto da quei postulati della conoscenza.
Ciò non toglie che si possa presentare un fatto psichico il quale, pure
essendo un prodotto naturale e quindi fornito di una certa realtà, non possa
però essere messo in connessione col
sistema di relazioni fissato dallo spirito
sociale, cnde proviene che esso è rigettato come erroneo, come falso, come non rispondente all' ideale
della realtà e verità. Con questo, intendiamoci, non sì vuole
escludere la parte che la costituzione
psichica individuale ha nel determinar:
le norme logiche ; così l’unità e l'identità della coscienza rispetto alla molteplicità e diversità dei
suoi atti e del suo contenuto, la cos‘anza
della sua attività rispetto alle varie
direzioni di essa concorrono a far considerare come norma e legge dell’attività psichica un
determinato modo di operare che sembra
sottratto a variazioni arbitrarie e
accidentali. Onde consegue che ammesso il caso che l’unità e l'identità della coscienza non sia
conservata o che il sistema di relazioni tra i varii fatti psichici,
costituente la continuità di tutta la
vita mentale non siasi peranco formato (bambini, stati particolari dello
spirito, sogni, ecc.), sì potrà avere un
prodotto psichico naturale si, ma non logico,
e quindi una violazione delle leggi che furono dette costituire l'ossatura del nostro essere spirituale. Ma
la nozione completa di norma coi
caratteri che la controdistinguono, tra i quali
primeggia l'obbligatorietà, non si sarebbe potuta avere senza la
cooperazione del fattore sociale. Da qualunque punto di vista si voglia
considerare la natura dello spirito
umano, lo si faccia pure identico nella
sua origine all’assoluto e al divino, il certo è che a questo spirito il
sapere costa sforzo e fatica e che sulle cose
a noi bisogna pensarci e ripensarci su, prima di intenderle, La cosa — fuori di noi, se reale, diversa
essenzialmente da noi, se ideale — sta
da una bande, il pensiero nostro sta
dall'altra. Questa opposizione, almeno immediatamente nella esperienza ordinaria, è innegabile,
quando pure si accordi che la
speculazione possa perimerla ed annientarla.
Ora in un tal distacco della cosa dal pensiero, a questo non riesce d'’acquistare tutta la cognizione
della cosa per un atto d'intuito o per
una deduzione continua da un intuito primigenio o da una qualunque astrazione
ultima. Il pensiero tenta e ritenta,
cerca e ritorna a cercare, prova e
riprova. La cosa sta lì come a dire immobile; il pensiero, come nota un arguto
filosofo contemporaneo, le si agita
intorno per ghermirla e farla sua: il che vuol dire per pensarla tutta e rendersela intima. Il
prodotto di questo moto del pensiero intorno all'oggetto è la scienza. Un fatto si complesso non è a meravigliarsi che
dia origine a problemi diversi. Infatti,
si può ricercare : Quali sono i
presupposti psicologici e logici di tale
movimento del pensiero ; Che cosa
nell'oggetto occasiona il detto moto del
pensiero ; 3° Come il pensiero
riesce a rendersi suo l'oggetto e a
pensarlo qual'è; 4° Che cosa è il
pensato: che cosa, cioè a dire, è in sè
il prodotto mentale di questo moto del pensiero intorno all'oggetto.
E dalla soluzione di questi problemi che dipende la de terminazione dell'essenza della legge,
Cominciamo dalla discussione del
primo. 1° È evidente che il primo
presupposto psicologico della scienza è
l’esistenza dell'intelletto o facoltà di pensare esplicantesi nel riunire o
separare mentalmente i fenomeni secondo certi rapporti (potere di sintesi o di
analisi). Come il senso ci presenta il risultato di operazioni aritmetiche e geometriche inconsapevoli sui
movimenti esterni, così il pensiero, il
quale fu detto la facoltà di confrontare le cose e di vederne i rapporti, con
un secondo lavoro ordina ed elabora le
sensazioni; la qual cosa fu espressa
metaforicamente dicendo che il senso fornisce la trama con cni l'intelletto tesse la stoffa
del pensiero. I rapporti stabiliti dall’intelletto sono stati distinti in
semplici e composti: come l’analisi
chimica ha mostrato che il numero
infinito dei corpi naturali si riduce a combinazioni di una sessantina di corpi semplici, i quali
potranno forse ancora ridursi ad un
numero minore, così l’ analisi psicologica ha
trovato che le nostre idee possono ridursi a poche idee elementari.
Talchè se i rapporti composti sono in numero infinito, quelli semplici sono
pochi: si riducono ai seguenti: rapporto
di spazio e tempo (forme dell’intuizione), rapporti di numero (unità e
pluralità), di qualità (identità e differenza, di sostanza e di causalità. Come
si vede, i detti rapporti si riducono in
parte alle categorie. A noi ora non
compete di passare a rassegna ì tentativi fatti dai vari filosofi per ridurre il numero di essi e per
dare a ciascuno un valore determinato in
rapporto alla sua genesi; a noi basta di
aver messo in sodo che il pensiero non potrebbe
intendere la realtà, se non avesse l’attitudine a stabilire dei rapporti
fonda:nentali tra gli oggetti e ad ordinare e
classificare questi in date maniere.
Un secondo presupposto psicologico della conoscenza scientifica è l’esistenza della ragione
propriamente detta, dell’attitudine cioè
del pensiero a riflettere, a ripiegarsi su
sè stesso, è l'esistenza della coscienza di secondo grado per cuì il fatto psichico concreto viene
idealizzato. Mentre gli animali non
riescono a distingnere il caldo dalla sensazione del caldo, l’uo.no distingue
la parola dal pensiero e il pensiero
dalla cosa pensata. Ora ognuno comprende
che l’astrazione e la generalizzazione che sono i due principali
istrumenti di cui lo spirito umano si serve per fissare l’essenziale e il
permanente in mezzo agli accidenti, in
tanto sono possibili in quanto esiste la coscienza di $econdo grado. Cosi
facciamo un’astrazione quando separiamo mental nente le cose dalle loro qualità
: p. es. pensiamo al tringolo facendo
astrazione dal corpo triangolare e pensiamo al corpo (cioè ed una estensione
tangibile), facendo astrazione dalla sua
figura e dalla materia di cui è composto : e facciano una generalizzazione
quando riuniano mentalmente in un'idea
sola delle cose che hanno delle
somiglianze, ossia delle qualità comuni: coll'idea di corpo ci rappresentiamo in qualche modo tutti i
corpi nello stesso tempo. Ora è evidente
che queste operazioni non si possono
fare sulle cose sensibili, ma bensi sulle idee delle cose, sui pensieri; per compiere queste operazioni
dunque bisogna sapere che pensiamo. Si
aggiunga che è mediante l’astrazione e la generalizzazione che noi possiamo
pensare le cose per via di concetti veri
e propri, i quali sono come a dire delle
presentazioni di cose non imaginabili; infatti
sì può immaginare un dato color rosso, ma ciò che pensiamo colla parola
colore non è imaginabile, perchè non è
nè bianco, nè nero, nè di alcuno dei colori dello spettro. Un terzo presupposto di pertinenza della
psicologia e insieme della logica è
quello riflettente il criterio dell'evidenza e della verità obbiettiva. Se lo
spirito umano non avesse la capacità di
far distinzione tra il pensare obbiettivamente necessario e quello non
necessario mediante la coscienza
immediata dell’evidenza, se esso non potesse differenziare in modo sicuro un
giudizio necessariamente ed
universalmente valido da uno subbiettivo ed individuale, se insomma il pensiero umano non potesse
elevarsìi al disopra dell'esperienza e
in base alla permanenza, alla unità e identità della coscienza e in base alle
norme che da queste derivano andare in traccia del concatenamento logico
delle varie leggi regolanti lo svolgersi
dei fenomeni dell’universo, la scienza
non avrebbe mai potuto esistere. Ora un tale
criterio si trova in ultima analisi nel peculiare sentimento di evidenza che accompagna un dato modo di
pensare, nella necessità subbiettivamente
sperimentata, nella coscienza che noi abbiamo di non poter pensare
diversamente in date circostanze. La
fede nella giustezza e nella validità di una determinata maniera di pensare è
la base di ogni certezza, onde chi non
ha una tal fede non può ammettere veruna
scienza, ma solamente un npinare. Sicchè l'universalità del nostro pensiero
poggia in ultimo sulla coscienza della
necessità, e non viceversa. È evidente quindi che solo il pensiero possiede da una parte la
capacità di conoscere e dall'altra la regola per valutare la realtà di ciò che non è prodotto dal soggetto, ma figura
come esistenza extramentale. La validità obbiettiva del contenuto del nostro pensiero scientifico è l'effetto
della concordanza criticamente stabilita
tra le forme del pensiero e quelle della
realtà, la quale non è prodotta dall’ attività dello spirito (realtà esterna): da tal punto di vista la
verità non figura come concordanza
iniziale, primigenia del pensiero coll'essere, sopratutto non figura come
armonia tra un atto del soggetto ed una
qualità dell’ oggetto, ma bensi come
concordanza criticamente giustificata del contenuto del nostro pensiero, reso subbiettivamente certo,
con una realtà che almeno in parfe
oltrepassa l'attività puramente
subbiettiva. « Non dalla molteplicità accidentale, dice il Sigwart, del contenuto su cui si affatica il
nostro pensiero, ma dall’attività del
pensiero stesso deve emergere il criterio
della verità ». Dall'esame critico che il pensiero fa di sè stesso emerge la convinzione della verità di
ciò che è posto necessariamente come
reale dal pensiero, la fede nella verità obbiettiva, e invero quale fatto
psichico particolare potrebbe condurci al concetto della realtà se non il pensiero
che pone sè stesso? L'identità e l’immutabilità delle determinazioni logiche foudamentali
rispondono all'unità della coscienza, la
quale unità sparirebbe, se le funzioni nelle quali sì esplica non si compissero
sempre nello stesso modo. Dopo aver parlato dei presupposti
psicologici passiamo a quelli prettamente
logici. Questi son dati da quei postulati, da quei principii indimostrabili che
se possono essere violati di fatto non
lo sono mai di dritto nella coscienza e
nella riflessione umana, da quei principii riconosciuti anche dalla logica veri
per una forza intima, per un sentimento. Se rifiutiamo infatti i detti
principii noi rinneghiamo il nostro stesso pensiero, struggiamo noi stessi come esseri pensanti. Essi fanno la loro comparsa nel pensiero,
allorchè questo di fronte al prodotto
delle leggi psicologiche (meccanismo
interiore) s'accorge che l’ultimo è manchevole, incompleto, non quale dovrebbe essere in rapporto sempre
all’ideale dell'attività cogitativa.
Ond'è che essi si mostrano dapprima sotto forma negativa e relativa, ossia come
esigenze di ciò che manca al prodotto
psicologico, di ciò che è ne. cessario
per renderlo accettabile. Il processo psicologico, poniaino, ha addotto nel nostro pensiero una
contraddizione ? Noi non possiamo accettarla e in questo rifiuto di riconoscerla apparisce la legge logica
dell'identità. Tra i detti postulati
merita anzitutto menzione quello
dell'unità razionale del tutto.
Noi nello svolgere le nostre cognizioni procediamo come se tutti gli oggetti si potessero e si
dovessero ridurre ad una sistematica
unità, comunque non sia lecito asserire dogmaticamente che tutte le cose stiano
realmente sotto principii comuni ed abbiano una ragionevole unità. Questa
non è richiesta dagli oggetti come
condizione assolutamente necessaria e determinata, ma vi è solo presupposta da
noi. Però se con un principio
trascendentale, come Kant lo chiama, noi
non presupponessimo questa unità sistematica
come esistente negli oggetti stessi, allora questa non sarebbe nemmeno
più possibile, o almeno perderebbe ogni
valore anche come principio logico. Nè tale principio trascendentale si
può derivare dall'esperienza, poichè la ricerca di quell’unità è per la ragione
una legge necessaria: e senza di questa
non vi sarebbe più ragione, senza ragione nessuna attività connessiva
dell'intelletto, e senza quest'unità
niun criterio sufficiente della stessa verità empirica. Per il che noi dobbiamo
rispetto a questa considerare quell’unità sistematica come obbiettamente valida
e come necessaria. Questa
presupposizione dell'unità della natura
si trova, notò già Kant, nascosta in molti principii dei filosofi senza che
essi talora se ne siano accorti. Cosi il
principio logico che ci fa ridurre la varietà degli oggetti a generi
determinati, si fonda naturalmente sopra un
principio trascendentale, in forza del quale noi presupponiamo sempre
una certa uniformità nei variì oggetti dell’esperienza, perchè senza di
quell’uniformità non sarebbe possibile
nessun concetto e quindi nessuna esperienza.
E qui è necessario accennare al postulato dell’ uniformità della natura, il quale si può formulare cosi:
in circostanze uguali gli stessi
antecedenti sono seguiti dagli stessi conseguenti e reciprocamente. In fondo
esso afferma che tutta la natura è
soggetta a leggi. Passiamo ora a dire
degli altri principali postulati della
conoscenza, quali quello d'identità, di contradizione, del mezzo escluso e di ragione sufficiente. La
legge d'identità significa in ultima analisi che è possibile fare dei giudizi,
i quali abbiano un significato e siano
veri : essa quindi, nonostante le differenze riscontrabili nel contenuto di un giudizio, enuncia l’identità
o l’unità reale di questo : stabilisce,
in altre parole, che l'affermazione —
sintesi delle differenze riferita alla realtà, — è vera. La legge d' identità esprime l’ unità della
realtà, in quanto ogni affermazione
esclude la discontinuità nel mondo reale,
per modo che un giudizio non può essere vero da un lato e falso dall'altro, ciò che è una volta vero
è sempre vero senza riserva; la quale
può però sempre rapportarsi al contenuto
del giudizio. L'affermazione come tale è incondizi onata, cioè non è limitata
da condizioni differenti dalla
determinazione del proprio contenuto (in relazione al tempo, p. es.), il quale se è vero, è vero senza
riserva. Non vi è una realtà di cui una
data affermazione sia vera, ed un'’altra di cuì sia falsa. La legge di contradizione è il complemento
di quella d'identità, giacchè essa pone
la realtà come unità consistente, vale a dire come unità che poggia su sè
stessa e le cui parti od elementi si
mantengono a vicenda. Ciò che è vero non
solo rimane sempre vero applicato alla realtà,
ma ha una sfera d'azione estesa, giacchè produce effetti attì a limitare cose che sono prima facie al
di fuori della verità enunciata. Inferire
dall’affermazione A è B che A non è nox
B equivale a dire che A è determinato da B
rispetto a C e D. . La legge del
terzo escluso è il principio essenziale della
disgiunzione, la quale implica l'alternativa assoluta tra due O più membri positivi e significativi. Un
dato giudizio e la sua negazione non solo non possono esserè entrambi veri, ma o l’uno o l’altro dev'essere vero e
quindi significativo; dunque la negazione implica conseguenze affermative. In
tal guisa il principio del medio escluso afferma che la realtà non solo è unità consistente,
ma è un sistema le cui parti si
determinano reciprocamente. Dicendo che
una negazione può menare ad una conseguenza determinata ed
esplicitamente positiva, e non soltanto, come afferma la legge di
contradizione, che una verità può trar
seco conseguenze definite negative, la legge del medio escluso presenta la realtà come un tutto avente la
sua ragione in sè stesso. La legge di ragione sufficiente emerge, per
così dire, dal punto di vista da cui è
stata considerata la realtà mediante le sudette leggi negative del pensiero.
Essendo, infatti, la realtà un sistema
di parti determinantisi reciprocamente, è chiaro che ogni elemento può essere
considerato come conseguenza, effetto, prodotto di uno o di più altri elementi e in ultimo del tutto preso
nel suo complesso. Ogni fatto, dice la
legge di ragione sufficiente, ha un fondamento o ragione da cuì necessariamente
deriva. La necessità però non significa altro che una volta dato l’antecedente,
la causa, la ragione è perciò stesso dato il conseguente o l’effetto (1). (1) Qui è bene notare che l’assoluta
necessità è una contradizione în
adjecto, perchè ogni necessità è condizionata ex hypothesi all'esistenza del fatto. La necessità di cui si vuol
parlare qui è quella reale, che ha il
suo fondamento ultimo nel dato di fatto elaborato. dal pensiero, elaborazione
che si riduce a porre in relazione un fatto particolare col tutto. Che cosa nell'oggetto occasiona quel
moto del pensiero che costituisce la scienza? ecco il problema che ci tocca ora di esaminare dopo aver rapidamente
passato a rassegna le varie condizioni
subbiettive. É necessario che noì qui
facciamo una distinzione tra le scienze che hanno per obbietto il reale, e quelle che hanno per
obbietto ciò che può essere o che deve
essere, le prime costituendo le scienze
esatte o sperimentali, le altre le scienze normative o costruttive, quali la Logica e la
Matematica, l' Etica e l'Estetica;e ciò
perché il suddetto moto del pensiero è occasionato in modo differente nei due
casi : nel primo è in funzione la
variazione successiva in qual cosa di unico, il modo costante e regolare di
operare di determinate cause, il ritorno
ritmico di dati fenomeni sotto date circostanze, nel secondo la constatazione di fatti interiori
presentantisi con una forma di necessità
che manca ai dati sperimentali. Come si
vede, il fatto obbiettivo che agisce, quasi diremmo da stimolo del processo scientifico è diverso a
seconda che si tratta di scienze
puramente esplicative, ovvero di scienze
normative; nè può essere diversamente se si pensa al profondo divario
esistente tra i due ordinidi sapere. Il
primo ha la sua base nella costanza e regolarità dei fenomeni ed esprime il
rapporto di causalità quale si offre
all'osservazione e alla sperimentazione esterna, rapporto giustificabile unicamente coi fatti e non
significante altro che il modo costante
con cui i medesimi fatti avvengono: ed a
tal proposito notiamo che anche le cosidette scienze pratiche in quanto prescrivono i mezzi
necessari, perchè un dato scopo sia
raggiunto, hanno la loro base obbiettiva
nella costanza e regolarità dei fatti, giacchè esse in fin dei conti
enunciano le regole con cui certi fatti si debbono compiere, regole fondate
sopra un ordine particolare di fatti;
tale è il caso dei precetti dell’ Igiene, della Dietetica, ecc. L'altro ordine di sapere, che lungi dal
rappresentare la semplice
generalizzazione. ricavata da un complesso di fatti empirici, esprime l'ideale verso cui tende la
conoscenza e l’attività umana, deve
necessariamente avere il suo punto di
partenza obbiettivo da una parte nelle tendenze, nelle aspirazioni, nelle esigenze primitive
dell'anima umana e dall'altra nell’
esperienza scientifica, artistica, storica e sociale dell’ uman genere tutto
quanto. Cosi, ad esempio, il carattere
proprio dell'obbligazione morale non può esser
derivato dalla pura esperienza, dal fatto p. es., che taluni uomini e siano anche molti, si son prefissi
questo o quello scopo, ma da una
necessità interna indipendente da qualsiasi esperienza e risiedente nella
natura propria del soggetto volente, 1n
altri termini va derivato da leggi o funzioni a
priori dell'essere umano, la interpretazione delle quali può essere ricercata dalla psicologia, ma il cui
valore ne dipende così poco come quello
delle leggi matematiche o logiche. È
vero che recentemente si è cercato di derivare tutte le determinazioni etiche e giuridiche dai
cosidetti rapporti bio-etici, dai
bisogni sociali e quindi dall'esperienza e non
dalla nozione formale della volontà; e non v'ha dubbio che in realtà ogni determinazione giuridica
concreta risponde ad uno scopo
particolare e che ogni forma di dritto piuttesto che esser sorta originariamente da
riflessione filosofica, è sorta dalla
necessità di regolare le azioni di una parte grande o piccola della società umana: ma la
trasformazione di tale necessità in
fatto di dritto, il riconoscere come cosa conforme al dritto e come
necessariamente giusto ciò che l’esperienza mostrò rispondente ad uno scopo, e
ciò che l’abitudine, mediante le consuetudini, fissò, è cosa che può
essere compresa soltanto, tenendo
presente la natura morale dell'uomo in genere e non dell'individuo singolo. Il
contenuto delle leggi giuridiche e
morali, lo scopo a cui esse servono è
determinato dai bisogni dell'individuo e della società, ma la loro forza obbligatoria può essere
fondata solo sopra una necessità
interiore ed universale risiedente nella costituzione propria dalla ragione
umana:ragione umana che non si può
ridurre ad una funzione dell’individuo, ma va considerata come l'espressione
dello spirito umano inteso nella sua
universalità, come il riflesso della connessione intima delle anime umane. Le esigenze morali sono una emanazione di
quell’elemento della nostra natara che
c’innalza al disopra della sfera
individuale o subbiettiva. Tale elemento è appunto ciò che chiamiamo spirito, in quanto con questo nome
vogliamo ntendere ciò che ci rende atti
a riflettere sulle cause e natura delle
cose, a godere del bello per sè, e a porci
davanti dei fini diversi da quelli riguardanti il nostro benessere
individuale. E il sentimento di
obbligatorietà, non può sorgere insino a
tanto che il ben operare non è stimato qualcosa di necessario all'uomo come uomo, qualche cosa
di richiesto dalla sua propria natura e
d’implicito in essa, qualcosa che,
trascurato, mette in contraddizione l’uomo con sè stesso, insino a tanto cioè che non prende
origine in qualsivoglia forma la coscienza della necessità morale. Quello che abbiamo detto delle leggi
normative morali può esser ripetuto,
mufatis mutandis di tutte le altre leggi
normative (logiche, estetiche, matematiche, ecc.) : ond' é che crediamo più opportuno passare al fattore
obbiettivo delle leggi esplicative.
Queste in quanto causali hanno
principalmente il loro fondamento obbiettivo nell’ azione che una cosa esercita sull'altra; azione che
in principio è ammessa soltanto quando
si osserva continuità spaziale e
femporale di movimenti o di altri cangiamenti. La semplice successione di due
fatti non esaurisce il significato del
concetto di azione, il quale implica il passaggio dell'atto, dell'agire da una
cosa in un'altra, producendo in
quest'ultima un cangiamento che senza di ciò non si sarebbe mai prodotto. L’idea primitiva vaga e
indeterminata che vi possa essere qualche cosa come causa, atta cioè a produrre qualcos'altro ha il suo
fondamento in tale concetto
dell'agire. Se noi esaminiamo con
attenzione le particolarità dei fatti
fra i quali intercede in modo chiaro una reciproca azione, noi troviamo che la continuità
spaziale e temporale dei cangiamenti svolgentisi nelle cose porge la prima occasione a considerare queste come parti di
un unico fatto o processo. Se la vanga
penetrando nella terra rimuove le parti ad essa vicine, se la scure divide un
pezzo di legno, se la mano, premendo,
spinge un corpo innanzi, nol non
possiamo rappresentarci l'uno dei movimenti senza l'altro, giacchè per l'assioma che dice che
in uno stesso luogo non possono trovarsi
simultaneamente due cose, ogni movimento
di un corpo richiede lo spostamento dell'altro:
e poichè l'impulso e lo spostamento si presentano in intima connessione, è chiaro che l’imagine
complessiva del processo LA NOZIONE DI
«LEGGE » 153 è ciò che primitivamente
si rende evidente Di esso poi vengono
separatamente considerati, in rapporto alla duplicità delle cosein movimento,
due fatti, il moto del corpo che spinge
e quello del corpo spostato. Emerge chiara così
l'idea che l’atto del primo corpo va considerato come continuantesi nel
cangiamento del secondo attraverso lo spazio
e il tempo insino a che tutto il continuo dei cangiamenti sì arresti.
Nell'’azione va ricercato adunque il fondamento reale delle connessioni che la nostra coscienza continua
nel tempo e comprensiva nello spazio
stabilisce tra due fatti che si
congiungono spazialmente e temporalmemente. E allo stesso modo che rispetto ai cangiamenti delle cose
singole, noi troviamo che la continuità
del cangiamento non permette di
considerare cessata d'un tratto l'esistenza di una cosa e iniziatane un'altra, l’avvicendarsi
continuo delle sensazioni presupponendo anzi un fondo unico, così la continuazione
ininterrotta delcangiamento di una cosa in quella di un'altra è indizio sufficiente che l'atto
della prima passa nella seconda, e che
quindi in quella risiede il punto di partenza dell’azione. Oltre l’azione reciproca delle cose, in
seguito alla continuità spaziale e temporale, fanno parte del fondamento reale ed obbiettivo della legge naturale
esplicativa il corso mutevole delle
cose, il presentarsi ritmico di un fenomeno,
specialmente se questo, non potendo essere riferito all'attività interna
della cosa che sì muta e si muove in modo
ritmico, deve essere riguardato come prodotto da qualcosa d'esterno ; il cangiamento insomma nelle sue
varie forme e colle sue molteplici
caratteristiche da una parte e la regolarità e costanza dall'altra. Si aggiunga
infine la necessità esistente nella concatenazione dei mutamenti, la quale nell’ inizio si presenta sotto la forma
di costringimento esterno subito
dall'obbietto dell’azione e poi come necessità
interiore proveniente dalla natura propria delle cose. 3° Il terzo problema verte sulla maniera in
cui il pensiero riesce a rendersi suo l’ oggetto e a pensarlo qual’ è.. Se l’uomo fosse fornito di una coscienza di
infimo ordine i cui atti non avessero
continuità psichica nel tempo, ma
fossero come chiusi nell'istante nel quale accadono, è chiaro che il pensiero vero e propriò sarebbe
impossibile. L'intelletto in tanto può impadronirsi dell'oggetto che gli sta davanti
in quanto, distaccato il fatto psichico dalla sua matrice reale, che è poi
l’atto del sentire e del percepire, lo
trasporta nel campo dell’idealità, vale a dire lo pensa nella” sua essenza o possibilità o quiddità: ora
come può avvenire ciò? Quale è il processo per cui un fatto psichico concreto diviene pensabile ? Se l’oggetto è semplice, irriducibile, esso
viene afferrato con un atto elementare,
e tutto è finito ; non si potrà tutt' al più che ripetere un numero di volte
quella medesima percezione; ma se
l'oggetto sopra un fondo identico presenta una molteplicità di aspetti, se le
variazioni successive di qualcosa di unico si presentano in modo ritmico o in guisa da descrivere un ciclo ripetentesi
necessaria- ‘ mente, occorrerà che anche
la coscienza né percorra a cosi dire il
contorno e lo segua nei suoi scompartimenti e mutamenti. Questa operazione che
il Trendelenburg, come si vide a suo
luogo, figura come un movimento del pensiero il quale riproduce il movimento
generatore dell’ oggetto, rappresenta
appunto il processo con cui il pensiero fa suo
l'obbietto : processo che da una parte suppone l’azione delle leggi fondamentali del pensiero che sono le
forme primitive della coscienza, e
dall'altra l'esame dei vari caratteri costituenti il contenuto dell'obbietto
stesso. Sicchè il pensare un oggetto
equivale a fissarne e a connetterne i caratteri per mezzo delle leggi del pensiero, dal che
risulta la determinazione della forma o della legge dell'oggetto stesso, giacchè
la legge non è che la forma considerata come mezzo di riproduzione della cosa che ha quella data
forma. In altri termini, noi per pensare
una cosa, di cui abbiamo avuto una
percezione, dobbiamo obbiettivarla, universalizzarla, tra. sformarla in idea, il che può avvenire
soltanto, se noi la facciamo divenire
centro di un sistema di relazioni fisse e
determinate, cioè a dire di relazioni logiche e non puramente empiriche e psicologiche. È per questo che è
stato detto che la conoscenza è data
dall’appercepire un dato contenuto per
mezzo di date forme, dette categorie. La conoscenza in tanto è possibile in quanto una data
rappresentazione è messa in rapporto (e
di qui la necessità dell'unità della coscienza)
con qualcos’ altro, che vale come misura, regola, stregua. Così noi volendo pensare un oggetto,
cominceremo dello studiarne i vari caratteri e proprietà, azioni e relazioni,
per vedere se attraverso la varietà
delle circostanze, la molteplicità dei mntamenti, ci vien fatto di cogliere
qualcosa di identico, di stabile e di
permanente che valga appunto come misura
delle apparenze fenomeniche e che in tal guisa renda possibile la pensabilità dell'oggetto stesso,
giacchè non va dimenticato che obbietto
dell'intelletto è appunto il fissare l'unoe il permanente attraverso il
molteplice e l’ accidentale. Se le cose non presentassero nulla di uniforme, se
il modo di aggrupparsi di dati caratteri
non fosse costante, se la maniera di
succedersi di dati eventi giammai si ripetesse, se insomma le funzioni e le
relazioni di ciascuna cosa sì
mostrassero dipendenti soltanto da contingenze empiriche e casuae il permanente
attraverso il molteplice e l’ accidentale. Se le cose non presentassero nulla
di uniforme, se il modo di aggrupparsi
di dati caratteri non fosse costante, se
la maniera di succedersi di dati eventi giammai si ripetesse, se insomma le
funzioni e le relazioni di ciascuna cosa
sì mostrassero dipendenti soltanto da contingenze empiriche e casua li, non
sarebbe a parlare nè di pensiero nè di
scienza. Noi dunque possiamo
rappresentarci il processo con cui il
pensiero s' appropria l’ oggetto come un moto tendente a determinare ciò che vi
ha di fisso in un complesso di fenomeni;
per il che i mezzi che devono esser posti in
opera saranno quelli di scomporre o analizzare il complesso fenomenico per differenziare l'essenziale
dall’ accidentale, unendo insieme
l’identico e il simile e sceverando il diverso. È chiaro poi che ciò che agisce come nozione
appercettrice (che è sempre una funzione della coscienza variamente eccitata da dati empirici) può divenire in
una ricerca posteriore essa stessa
obbietto d'indagine, per cuì avrà
bisogno di una forma appercettiva di ordine superiore, fino ad arrivare alle forme logiche supreme, oltre
le quali il pensiero non può andare.
Anche queste però possono formare
oggetto di riflessione, tanto è ciò vero che sono considerate quali regole o norme logiche e ciò per il
ripiegarsi perpetuo che il pensiero fa sopra di sè medesimo, sicchè al sopravvenise
di ogni nuova riflessione pare che quello che
ne forma l’oggetio entri allora per la prima volta nel dominio della coscienza. È naturalè che a seconda dell’obbietto verso
cui l’intelletto si volge varierà il processo con cui vien conseguito lo scopo
che è l’intellezione delle cose. Cusi mentre nelle cosidette scienze normative lo spirito
tenderà ad isolare, mettendoli in forma
di giudizi, gli elementi intelligibili
che sono a così dire incorporati nelle tendenze primitive dell'attività logica, etica ed estetica,
nelle scienze esplicative si cercherà di mettere in evidenza sotto forma di giudizi
universali i rapporti costanti e regolari in cui si trovano gli oggetti. Nel
primo caso si avrà di mira di obbiettivare, di universalizzare, di idealizzare
le direzioni fondamentali dell'attività
umana, il che può avvenire staccando mediante la riflessione dal fatto concreto
la rappresentazione o la forma dell'attività stessa, mentre nel secondo caso si tenderà ad idealizzare, ad
obbiettivare ciò che le cose presentano
d’identico e di permanente (le loro azioni e relazioni), considerando questo
come la causa generatrice dei vari
fenomèni appartenenti ad una data categoria. Cone si vede, nel primo caso si universalizza
effettivamente il modo di farsi delle
cose, mentre nel secondo caso solamente il modo di presentarsi a noi delle cose
stesse. Vi è stato chi ha sostenuto che
il processo per cui il pensiero può
effettivamente far suoi gli oggetti, segnatamente nelle scienze naturali, sia
da ridurre al processo con cui vengono
stabiliti dei rapporti di eguaglianza, per modo
che, stando a tale opinione, allora soltanto si può dire di comprendere una cosa quando può essere
stabilito un rapporto di equazione tra quella cosa e qualcos'altro di già noto. A noi sembra che non soltanto per mezzo
del rapporto d'identità, ma anche, e sopratutto per mezzo del rapporto di
dipendenza si riesca a riconoscere le forme e ì
caratteri che valgono a fissare le leggi di dati fenomenf, Riassumendo, noi diremo che il processo con
cui il pensiero riesce a far suo un obbietto è quello di andare in traccia delle condizioni genetiche
dell'oggetto stesso, mediante la determinazione delle relazioni essenziali
(logiche) che esso ha cogli altri
obbietti. Pensare un oggetto equivale a considerarne la sua possibilità, la
quale è data dalla rappresentazione od
obbiettivazione non didati caratteri o di date funzioni, ma
dall’obbiettivazione del modo costante
di presentarsi dei medesimi caratteri, dall’obbiettivazione della forma
regolare permanente che essi presentano. Dal che consegue che effettivamente
ogni conoscenza è puramente formale :
solamente va tenuto presente che la
forma della conoscenza non può ridursi a quella esclusiva dell'equazione. La
conoscenza di un obbietto, giova
ripeterlo, è data dalla conservazione ed obbiettivazione, mediante la riflessione di tutti i rapporti
logici fondamentali considerati a sè, a preferenza dei fatti particolari tra cui intercedono, giusta la determinazione
fattane dall'intelletto. Lo spirito
umano iu tanto può compenetrare e far sua
la realtà in quanto fissa gli elementi costanti e regolari (vale a dire ripetentisi in modo ritmico) in
essa contenuti come quelli che valgono a
misurare e a valutare gli elementi variabili e accidentali. Quanto più di
costanza e di regolarità si riscontra in
una cosa tanto più vi ha di essenziale e di razionale, onde si è tratti a
considerare l’elemento fisso ed immutabile come ciò che rende possibile, condiziona, genera la realtà concreta e varia
nelle sue manifestazioni ed estrinsecazioni. Se non che va notato che se l'intelletto nmano si arrestasse qui non
potrebbe dire d’essersi veramente impadronito dell'oggetto, giacchè mancherebbe
ancora la prova della necessità dell'elemento costante quale generatore della realtà, prova che si
può ottenere soltanto ricorrendo all'esperimento come mezzo appropriato a mettere in evidenza le condizioni essenziali
della produzione di un dato fenomeno. Co:ne sì vede, la mente umana per conoscere una cosa deve determinare la natura
propria di questa mediante le relazioni
d'identità e di condizionalità ; deve
dunque cercare nelle cose il corrispettivo delle relazioni logiche, il che può
avvenire soltanto determinando e
fissando le azioni reciproche delle cose in funzione di quei dati obbiettivi che presentano delle
proprietà logiche evidenti, quali lo spazio, il tempo, la quaatità, ond'è che
la scienza enuncia le relazioni delle
cose da essa rintracciate in funzione di
spazio, di tempo, di numero che contengono insieme i due momenti della identità
e della differenziazione, dell’attività continua e degli atti per sè esistenti. S'intende che il suddetto processo è proprio
delle scienze esplicative, giacchè
quelle normative non fanno che estrinsecare, anzi trascrivere in forma di
giudizi (massime) le determinazioni
dell’attività ed emotività umana, obbiettivando mediante la riflessione e la
parola ciò che dapprima è soltanto
sentito. È naturale che si possano ricercare i
fondamenti e le ragioni delle determinazioni primitive della volontà ed attività umana e in tale indagine
le scienze normative non si allontanano dalle altre scienze esatte, in quanto non fanno che dedurre conseguenze da
dati di fatto o da principii. Il
risultato del moto del pensiero intorno all’obbietto costituisce la scienza
propriamente detta, la quale è un
sistema logico di leggi, ossia di verità generali. La legge, ecco il prodotto del pensiero riflesso, ecco
il mezzo con cui l’uomo pensa e ragiona.
Che cosa è la legge? La legge può essere
definita nna forma logica, atta a fare appercepire nna data categoria di
oggetti non da questo o da
quell’individuo, ma dalla coscienza in genere. La legge rappresenta ciò che vi ha d'intelligibile
nell'universo, in quanto si considera la
possibilità per sè e nonl'esistenza, il
was e non il dass. Il rapporto del fatto concreto colla sua legge può essere schematizzato mediante
un giudizio il cui soggetto è il fatto
concreto e il cui predicato esprime il
sistema di relazioni o di condizioni genetiche atte a spiegare e a dare ragione del fatto concreto
stesso. Una ragione nota poi è nello
stesso tempo una spiegazione ed una premessa, o piuttosto prima una
spiegazione e poi una premessa; trovar
per induzione la spiegazione di un fatto
è trovare quella premessa dalla quale si poteva
dedurre il fatto, se non l’avessimo saputo prima. Così la causa del movimento d'un pianeta è nella sua
posizione rispetto al sole; la legge del
suo movimento è il modo costante con cui
si muove; la ragione del suo movimento è
una legge generale scoperta da Keplero, mediante la quale (come premessa maggiore) si può argomentare dalla
posizione del pianeta rispetto al sole (come da premessa minore) in che modo esso si muove, anche se non lo
sappiamo dal telescopio. Le leggi formulano i rapporti esistenti tra
le cose, espri mendo le modalità
dell'azione di queste e la maniera di connettersi tra loro. Esse però in tanto
hannc valore (contrariamente a ciò che
gli scienziati specialisti e i dilettanti credono) in quanto simboleggiano,
accennano alla natura propria,
all'essenza delle cose. Le leggi insomma
hanno bisogno di un fondamento reale che le giustifichi e le renda valide, e quanto più esse riescono a
manifestare in qualche modo e a far
intravedere tale base, che è riposta in
fin dei conti nell’interiorità delle cose, tanto più rispondono alle esigenze
dello spirito umano, che tende a comprendere e a compenetrare la realtà. Le
leggi adunque sono nient'altro che mezzi
di espressione dell’intimità dell'essere, ed hanno l’ufficio da una parte di
farci orientare in mezzo al continuo
divenire ed alla instabilità delle cose
facendoci classificare, ordinare e prevedere gli eventi, e dall’altra hanno l’ufficio di rendere
possibile la comunicazione e
l’intendersi reciproco degli uomini nella ricerca del vero. E quanto più le leggi figurano come segni
delle determinazioni primitive dell'attività interiore delle cose come nel caso delle norme logiche, etiche ed
estetiche, tanto più esse perdono il
carattere di puri schemi per divenire mezzi
acconci a farci penetrare nel fondo della realtà. Le leggi naturali, infatti, che d'ordinario
s'arrestano a formulare i rapporti esistenti
tra le cose senza curarsi dei presupposti
di tali rapporti e senza quindi curarsi di penetrare nell’interiorità di
quelle, sì presentano come qualcosa di estraneo
allo spirito, come qualcosa di manchevole e di provvisorio che esige un completamento. Pertanto le leggi
normative appagano il nostro spirito,
perchè fondate in modo diretto
sull’intimità dell'essere, mentre che quelle esplicative non avendo -un legame evidente coll’ interiorità
delle cose, ci lasciano insoddisfatti.
Non intendiamo con ciò di scemare il
valore o l’importanza delle leggi naturali, giacchè queste hanno sempre l’afficio di schematizzare il
corso degli eventi, ma vogliamo soltanto
affermare che esse per sè sono insufficienti, onde presuppongono qualcosaltro,
un certo concetto intorno alla natura propria del reale. Affermare che accumular fatti e formular leggi debbano
costituire gli obbiettivi esclusivi dell'attività dello spirito umano
equivale a confessare di non avere
un'idea chiara nè della realtà, nè dello
spirito e insieme di non aver mai riflettuto sulla natura della legge in genere. I giudizi leggi, costituendo i soli punti
fissi in mezzo al fluttuare continuo ed ai cangiamenti molteplici e svariati
delle cese, sono i veri legami per cui è
resa possibile la solidarietà intellettuale umana, e sono in intima relazione
non soltanto colla condotta
dell’individuo, ma eziandio colla vita
sociale dell'umanità. Per darsi ragione
del fascino che le leggi in genere esercitano sulla mente dell’uomo,
‘nonostante la loro manchevolezza nell’esaurire e nel manifestare il contenuto
del reale, è bene tenere a mente la
profonda analogia e l'intimo legame che
esiste tra legge e linguaggio, in quanto questo
serve ad esprimere gli elementi della realtà, mentre quella i rapporti tra i detti elementi. Le legge è
come a dire una formazione (naturale
collettiva, possiamo dire) simbolica,
schematica della realtà di second’ordine che completa il linguaggio,
formazione di prim'ordine. A tale uopo giova ricordare l'ufficio della
denominazione e della parola che trovano il più perfetto riscontro nella
determinazione e fissazione delle leggi. La denominazione invero è il mezzo
più acconcio affinchè lo spirito passi
dalla sfera del particolare a quella dell’universale, stantechè quando la cosa
è determinata pel suo nome, essa si
colloca per lo spirito nel luogo
assegnatole nel gerarchico conserto degli esseri, cioè si subordina alla categoria in cui è inchiusa
e si rivela per le attinenze che la
collegano agli altri esseri, in una parola
apparisce nella sua universalità. Riproduciamo sul proposito le seguenti
parole del Lotze: « Anche dopo avere osservato un oggetto e le sua proprietà
sotto tutti gli aspetti, dopo essercene
formata dentro di noi una imagine completa
non ci pare ancora di conoscerlo perfettamente, finchè non ne sappiamo il nome. Il suono di questo,
(come il semplice formulare una legge a proposito di un fatto, soggiungiamo
noi) sembra dissipare tutto a un tratto quell’oscurità E donde mai questa meravigliosa virtù della
parola? Non ci basta che la cosa sia
obbietto della nostra percezione, essa
esiste a buon diritto solo quando fa parte di un ordinato sistema di cose, il
quale ha un proprio valore e significato indipendentemente affatto dall’averne
noi contezza o no. Se noi non siamo in
grado di determinare effettivamente il posto che un avvenimento occupa nel
tutt’insieme della natura, il nome (come
la legge) ci accheta. Esso è almeno un
indizio che l’attenzione di molti altri nomini si è fermata su quell'oggetto che ora viene a
colpire i nostri sguardi. Esso ci
assicura almeno che la intelligenza universale si è occupata di assegnare anche
a questo oggetto il suo luogo
determinato in un tutto maggiore. Perciò un
nome imposto da noi a capriccio non è un nome: non basta che la cosa sia
stata denominata da noi comechessia,
bisogna che essa sì chiami proprio così. Lotze, Mikrokosmus. Il
linguaggio supplisce in parte all’inevitabile limite dell'’umana attività,
stantechè ci agevola a maneggiare e ad
adoperare come fossero compiuti e perfetti certi prodotti del pensiero ancora incompiuti ed imperfetti e
che non possono giammai uscire da tale
incompiutezza e imperfezione. Avvegnachè gli è certo, nota il Bonatelli, da un
canto che noi si pensa e si ragiona
assai volte con perfetta dirittura e
sicurezza per mezzo dei vocaboli senza che ci occorra di svolgere nei loro elementi, ossia di pensare
esplicitamente i concetti che a quelli
corrispondono e dall'altro è pure un
fatto innegabile che il più delle volte non son quei con| cetti, per
così dire, se non abbozzati in noi. Il che se è
un vantaggio inestimabile per l’uorao, rendendogli agevole e breve un'operazione che altrimenti
tornerebbe lentissima e penosa, non è
men vero che può essere eziandio fonte di
superficialità, di sofismi, di errori e sopratutto di quella vacuità di pensare che è vizio funesto non
meno dei filosotanti che dei saccenti volgari che si atteggiano a dottori dei popoli.
E qui è il luogo di domandare : Che cosa corrisponde nella realtà alle leggi? In altre parole, le leggi
in genere sono un prodotto esclusivo
dello spirito umano, ovvero il riflesso
di qualcosa di obbiettivo? L'universo è realmente razionale, come lo
mostra la scienza, ovvero quest’ultima è da
considerare come una fantasmagoria del cervello umano ? È evidente che se le leggi fossero
interamente soggettive, mancherebbe ogni
criterio della loro applicazione all’esperienza e ogni delimitazione del loro
dominio ; non resta dunque che ammettere
le leggi quali segni, trascrizioni di: qualcosa d’obbiettivo. E questo non può
consistere che nel nesso essenziale
esistente tra le varie parti costituenti
la realtà, la quale va concepita come qualcosa di organico nel senso che gli elementi costitutivi sono
mezzi e fine nello stesso tempo. Dal che
consegue che l’intima ragionevolezza che
anima il tutto non soltanto tiene connesse le varie parti, ma le fa agire in modo determinato,
costante e regolare. Le leggi obbiettivamente considerate si presentano come funzioni di vari ordini di reali aventi
un’ estensione maggiore o minore. Non
altrimenti che accanto allo spirito
individuale si ammette lo spirito collettivo, il quale ultimo senza alcun dubbio determina l'altro, così si
devono ammettere nella realtà tutta quanta diversi ordini di unità collettive le cui funzioni costituiscono poi
il corrispettivo obbiettivo delle varie
leggi, a cominciare da quelle particolari ad andare a quelle universalissime
che contengono in sè tutte le altre come
loro casi concreti o momenti di
differenziazione. Le leggi infatti sì mostrano tra loro in ordine
logico, per modo che quando fossero trovate tutte, si potrebbero disporre in tale maniera che
partendo dalle più generali si
dimostrerebbero deduttivamente tutte le altre.
É naturale poi che le varie forme di relazione in tanto sono possibili in quanto in ultimo sono per
così dire assorbite in una unità suprema armonica e insieme comprensiva. A
misura che le dette unità collettive crescono in complessità e che la vita psichica mediante
la coscienza e la riflessione diviene
predominante, le dette funzioni perdono
i loro caratteri di necessità e d'immutabilità per acquistare quella spontaneità e quello sdoppiamento
dell’essere e del dovere che caratterizza
le forme dell’attività umana. Sicchè possiamo conchiudere che la legge-essenza
ha il corrispettivo obbiettivo nella
funzione; ma si potrebbe domandare :
nella funzione di chi ? giacchè la funzione, come l'atto, l’azione e la qualità suppongono
qualcosa a cui ineriscono o di cui sono una produzione : ebbene, noi rispondiamo
che le essenze delle cose vanno appunto considerate come funzioni, atti di un reale d'ordine
diverso (d’ ordine più elevato) e questo
va alla sua volta considerato come
funzione di un reale di ordine ancora più elevato fino a giungere al Reale che tutto in sè contiene e
di cui l'universo è funzione. Obbiettivamente
l' elemento intelligibile è una cosa
sola coll’ elemento esistenziale, il was è inseparabile dal dass, l'ideale è nel reale, sicchè legge
e funzione, pensiero ed azioue (se possiamo cosi dire) coincidono; ma mediante
l'intelletto umano avviene la disgiunzione, onde è resa possibile la formazione delle leggi
esistenti per sè nella mente umana. Dopo aver esaminato i fattori che
concorrono alla formazione della nozione
di legge, ci sembra opportuno porre
sott'occhio un tentativo di classificazione delle varie sorta di legge che nello svolgimento del
sapere umano ci si presentano. Noi già
per lo innanzi accennammo alla divisione
fondamentale delle cosi dette leggi esplicative o dichiarative da quelle normative; ora
scenderemo a maggiori particolari, ricercando le principali forme che le suddette
categorie alla lor volta possono assumere. E per prima è necessario chiarire il significato
logico delle parole osservazione ed
induzione, giacchè pare che quando sì dice
osservazione si dica esperienza, che tutto quello che è obbietto dell'una sia anche obbietto
dell'altra, dal che deriverebbe l'esistenza di una sola specie di leggi
qualunque fosse l’obbietto della
conoscenza umana. Ora ciò non è
nient’affatto esatto, in quanto vi sono delle osservazioni alle quali non è possibile attribuire la qualità
di essere empiriche nel senso in cui
questa qualità si considera come opposta
all'essere 4 priori. Empiriche sono senza dubbio tutte le osservazioni che ci rivelano le proprietà e
leggi delle cose esteriori, empiriche
quelle che ci mostrano il nascere lo
sviluppo e l'intreccio dei fenomeni psichici, empiriche quelle dalle quali apprendiamo la realtà dei fatti
storici: epperò la scienza della natura
esteriore, la psicologia e la storia
sono scienze a posteriori o empiriche, comunque i metodi di dette scienze variino in rapporto alle
particolarità presentate dagli obbietti e in rapporto alle difficoltà di esaminare
questi ultimi. Ma non sarebbe giusto qualificare come empiriche quelle scienze delle quali
sono oggetto o il pensiero, o
l'intuizione, o la volontà o l’emotività, diremmo così, in azione, La dimostrazione e
l'induzione scientifica in casi siffatti
è l'esplicazione della stessa attività di queste funzioni e le conoscenze particolari
coincidono coi prodotti particolari di
queste funzioni. In tali scienze ha certamente luogo l'osservazione, ma nou si
esercita sopra un obbietto estraneo, il
quale sia bell'e fatto indipendentemente dall’ attività del soggetto: ogni
osservazione in esse non è passiva, ma
attiva; è una nuova produzione del fatto
osservato che non è diversa dalla dimostrazione
e dalla spiegazione scientifica. Ciò accade in quelle scienze che hanno il pensiero come oggetto, cioè
nella logica e nel calcolo, in quelle
che studiano le funzioni dell'intuizione costruttiva, cioè in quelle che hanno
il tempo, le spazio, il movimento come
oggetto e in quelle infine che hanno per
oggetto le funzioni etica ed estetica dell'anima umana, in quanto ogni fatto
etico ed estetico può essere studiato in
modo esatto soltanto salendo alla categoria dall'effetto, mediante cioè
l’analisi del fenomeno psicologico in cui quell’ effetto consiste. I fatti
estetici ed etici non sono, come i
fenomeni della natura esterna, indipendenti dal soggetto, ma accadono in esso,
sono imaginì obbiettive si, ma passate
attraverso il mezzo della coscienza,
della fantasia e del sentimento umano. L' induzione etica ed estetica deve analizzare prima di tutto il
fenomeno psicologico, perchè esso è il solo criterio sicuro, la sola base positiva per determinare e definire il
concetto, In secondo luogo è bene
intendersi sul significato della parola
induzione. L'induzione scientifica è una sola : quella che da n casi sperimentati conchiude a tutti
i casi omogenei possibili, in virtù del postulato della uniformità delle leggi naturali e del principio di causa. L'
induzione scientifica non può dunque aver luogo se non per leggi causali, epperò è affatto estranea alla logica, alla
atematicam, all’ etica, all’estetica
ecc., le cui leggi non sono punto
causali. Resterebbero
l'induzione per semplice enumerazione e
l’induzione descrittiva, ma la prima non ha valore al di là dei casi osservati e quindi è
perfettamente inutile nelle summentovate
scienze (matematica, etica, estetica ecc.),0 se
è adoperabile, vale soltanto ad apparecchiare la materia delle costruzioni scientifiche, può talvolta
indicare la via, ma è destituita di
qualunque valore di prova. Per ciò che
riguarda l’induzione descrittiva, essa è adoperata nella geometria
elementare, allorchè la somiglianza di due figure si dimostra dalla loro congruenza; ma in
geometria ha un valore diverso da quello della prova empirica; perchè la dimostrazione dell’ uguaglianza
suppone la invariabilità e la congruenza
dello spazio con sè stesso (come del resto
i casi d' applicazione dell’ induzione descrittiva in etica, estetica ecc., suppongono una determinata
natura dell'animo umano e la sua identità con sè stesso) che non potrebbero essere dimostrate empiricamente» A
ciò si aggiunga che le verità matematiche, logiche, etiche, estetiche non sono leggi della natura in quanto
sarebbero vere anche se una natura hon esistesse e la loro certezza è indipendente
dal numero delle esperienze, onde tutti si terrebbero autorizzati a correggere
l’esperienza, se questa paresse in
qualche mado loro contraddire. Infine va ricordato che l'induzione non è ritenuta mai prova
sufficiente nelle scienze normative:
così un teorema che si trovi vero praticamente per una serie di numeri non si
ritiene per ciò solo dimostrato e non si
estende al di là dei casi osservati. Non
si può, come vuole il Mill, il Taine ecc. spiegare la certezza assoluta che hanno le verità del
calcolo, col carattere ipotetico di questa scienza; perchè la perfetta eguaglianza delle unità elementi dei numeri
non è un'ipotesi, ma una proprietà della natura puramente logica del numero, la quale rende possibile di riferirlo
ad uua unità di misura che non è quella
di nessuna grandezza reale avente questa
o quella qualità, ma l'unità in senso puramente logico. Sicchè noi in base a ciò che precede siamo
autorizzati a partire per prima le leggi in due grandi classi: Leggi funzionali (Leggi logiche, matematiche,
etiche, estetiche). Leggi causali (Leggi
naturali, psicologiche, storiche ecc.).
Per formarsi un concetto chiaro delle differenze che controdistinguono
le sudette due classi di leggi basta comparare le leggi logiche e matematiche
con quelle naturali. L'oggetto della
conoscenza, dagli elementi sensitivi in fuori,
è una costruzione della quale le idee di sostanza, di causa, di numero sono gli artefici e il principio di
contraddizione è la regola e la garenzia
di verità: i sudetti principii costituiscono appunto le leggi logiche
fondamentali o le categorie
dell’intelletto umano. Diconsi infatti categorie quei concetti che sono determinazioni dell'essere perchè
sono determinazioni del pensiero, e vieevecsa, che sono impliciti nel pensiero
di qualunque ente reale perchè reale e non perchè è questo o quell’ente, cioè perchè sono le
maniere necessarie di concepire la
realtà. Tali forme del pensiero o categorie
sono concetti, da differenziare però da quelli che vengono studiati dalla logica ordinaria e che hanno
il loro corrispettivo nelle leggi empiriche o causali. Invero gli altimi sono
essenzialmente concetti rappresentativi, mentrechè quelli sono giudicativi; e i
concetti rappresentativi sono formati
mediante la comparazione o l’analisi dei dati
oggettivi delle percezioni e mediante l’astrazione, i giudicativi per
contrario sono l'elemento soggettivo della percezione e delle forme così
statiche che dinamiche del pensare. I primi sono concetti di oggetti, di classi
di oggetti e di rapporti
indifferentemente, i secondi sono concetti di
rapporti intelligibili ; gli uni hanno un'estensione determinata, gli
altri un'estensione indeterminata. L’universalità e necessità dei concetti rappresentativi è
condizionata e limitata all’esistenza
dei loro oggetti: quella delle categorie si estende quanto si estende l'essere
e il pensare; quelli funzionano da
soggetti e da predicati dei giudizi :
questi possono funzionare soltanto da predicati. L'originalità poi delle leggi o funzioni
logiche sì appoggia a ragioni logiche, non psicologiche. Noi conosciamo mediante i concetti, i giudizi e i raziocinii
: la materia è data; ma il concepire, il
giudicare, il ragionare sono funzioni. E queste funzioni debbono pure avere una
forma, perchè una funzione senza una
forma determinata è impossibile. Ora quali sono le forme di queste funzioni,
cioè quali sono queste funzioni in loro
stesse, prescindendo dalla forma logica
che rivestono ? Evidentemente se pensare è
porre una relazione, le funzioni saranno i pensieri di quelle relazioni, di.natura intelligibile, nelle
quali e mediante le quali il pensiero sa
e si muove, cioè le categorie. Ora sono
questi da repntare daccapo concetti empirici? Se sono, qual'è la funzione mediante la quale sono
formati? In breve, se il pensare suppone
una materia e una forma, come si può
intendere che la forma sia presa da fuori, cioè
sia materia essa stessa? Non saremmo da cupo nella necessità di supporre
una forma per la funzione di concepirla e così in infinito? Passando alle leggi matematiche, noteremo
anzitutto che l’ idea di numero non
sorge, come i concetti generali per un
procedimento conscio e riflesso del pensiero, ma per un procedimento spontaneo ed inconscio. I
teoremi sui numeri ed anche un sistema
di numerazione sono, è vero, prodotti, riflessi, ma l'idea di numero pur
nascendo all’occasione delle sensazioni
e percezioni d'ogni maniera e non perdendo mai
il suo significato oggettivo, non esprime mai, neppure per la coscienza più comune, una classe di
oggetti reali, un genere sommo, ovvero
una proprietà delle cose dello stesso
genere di quelle che diciamo qualità. Ed è per questo suo isolarsi dalle cose in virtù di un
procedimento non artificiale, bensì spontaneo, pur conservando un valore
oggettivo, che si rende possibile alla
riflessione scientifica di studiare il
numero come un' entità a sè non solo separabile dalle cose, ma completamente indipendente da queste, come
un' entità di tal natura che le sue proprietà e leggi si possono trovare e verificare indipendentemente da
ogni constatazione che non sia quella stessa di pensarle e di produrre, pensando, tutte quelle analisi e sintesi in
cui consistono lo studio che ne facciamo
e la scienza che per essa veniamo ad
avere. E qui va notato che il
fondamento del calcolo aritmetico, che è il sistema di numerazione, ha la sua
radice nella funzione sintetica del
pensiero formale, senza contenuto
qualitativo. Il primo modo di formazione da esso espresso è una sintesi successiva indefinita ; il
secondo è una sintesi con una certa
norma, per gruppi uguali di unità; ma la
norma è puramente arbitraria, perchè non c’è nell'esperienza niente che determini la composizione di un
gruppo, per esempio la serie binaria o
la decimale. Stabilita nel sistema di
numerazione la maniera uniforme di
formazione dei numeri, si possono deduttivamente trovare tutti gli altri. I
modi composti sono innumerevoli, ma
poichè essi sono combinazioni di più modi semplici, suse Pra
A o ripetizioni dello stesso
modo semplice, l'importante è di
determinare questi ultimi. I quali rispetto ad un numero qualunque x sono riducibili alle forme
segnenti : a zta,x—- a, cr X_ a, x:x,2, Vi, 108.2 (alla
base a). Difatti un numero è o somma o
ditferenza di un altro numero, quindi le
maniere semplici di formazione sono
tante quante sono le maniere del sommare e del differenziare. Tutte le
maniere di sommare si riducono a tre: addizionare numeri diversi (addizione),
lo stesso numero un numero qualunque di volte (moltiplicazione), lo stesso
numero un numero qualunque di volte, ma
sempre ad esso uguale (elevazione a potenza). Similmente tre sono le possibili
forme del differenziere: togliere da un
numero un altro numero qualunque
(sottrarre), togliere da un numero quel numero
di volte che è possibile lo stesso numero dividere (divisione), togliere da un numero uno stesso numero un
numero di volte a questo uguale e che lo
misuri esattamente (estrazione di radice). Però l'elevazione a potenza e
l'estrazione di radice non sono i soli
modi possibili del calcolo delle
potenze. Il primo risolve il problema di trovare la potenza, data la base e l'esponente; il secondo di
trovare la base dato l'esponente e la
potenza; resta un terzo problema; date
la base e la potenza, trovare l'esponente (logaritmo), cioè dato il prodotto di un numero
indeterminato di fattori uguali, e dato
il loro valore, determinare il numero dei
fattori. È evidente che ognuna
di queste operazioni è una funzione e non un'esperienza. Ai sostenitori della
teoria empirica si potrebhe chiedere con ragione d’indicare la testimonianza o
base sensibile delle idee di radice e di logaritmo. Ma senza dubbio una prova
anche più concludente della teoria del
numero-funzione ci è data dalle estensioni
dell'idea di numero, alle quali conducono le operazioni inverse. Giacchè
taluni dei problemi che queste ci propongono si mostrano insolubili col
concetto primitivo di numero reale.
Cosi, allorchè il numero delle unità sottratte è eguale al numero delle unità
dalle quali si sottrae, si ha lo zero, e
se è maggiore, il numer» negativo. Similmente, nella divisione, il quoziente
può essere non un numero intero, ma corrispondere al concetto di un numero posto tra due numeri contigui. E poichè
questo può non corrispondere nè a un
numero intero, nè a un numero frazionario, nè a un intero unito ad un fratto,
cosi rende necessaria un'altra estensione del concetto di numero, il
numero irrazionale, il quale non esprime
propriamente un numeco, ma il rapporto
di due operazioni; la radice di 2 non corrisponde a un numero, ma indica un
rapporto di due specie di calcolo,
quello di formazione del numero 2, e quello di
estrazione della radice. E
questa può condurre in casì speciali ad una terza estensione del concetto di numero, perchè se
il numero di cui si cerca la radice è
negativo, sorge la nozione di numero imaginario, cioè di un numero che diventa
reale mediante l'elevazione a potenza. Ora come potrebbero i numeri negativi, irrazionali, imaginari derivare da
rappresentazioni empiriche? É chiaro che essi sono funzioni, o più propriamente rapporti di funzioni e che il
loro concetto implica che la funzione è
materia a sè stessa. Sicchè nel: calcolo il pensiero lavora su dati che
sono suoi, come nella logica formale:
per modo che il calcolo si potrebbe ben
dire, la logica formale della quantità. Il
còmpito del calcolo è di concepire la quantità, come abbiamo già visto,
ma appunto perchè è rivolto soltanto alla
quantità, il calcolo è un pensare estrinseco e meccanico. Hobbes ebbe dunque torto di ridurre il
pensare a nume. rare; ed èillogico
attribuire alle matematiche una illimitata
potenza educatrice della mente. Esse servono soltanto per una parte alla educazione e disciplina
della mente, perchè la quantità è la realtà nella sua parvenza esteriore, non nella sua essenza. Ora se noi consideriamo le leggi matematiche
in rapporto a quelle propriamente naturali noi troviamo che i due ordini di leggi si presentano intimamente
connessi tra loro; e ciò per parecchie
ragioni: 1° perchè essendo la quantità
una proprietà essenziale della realtà e il numero l'espressione logica della quantità, è
naturale che quello che l'intelletto matematico
determina col semplice discorso si trovi
vero nella realtà; 2° le leggi indagate dalle scienze che hanno per obbietto la realtà essendo
leggi causali e le stesse operando
secondo leggi matematiche, è chiaro che il
calcolo debba essere, astrattamente parlando, applicabile a tutta la scienza del reale. La
proporzionalità dell'effetto alla causa,
un corollario dell'assioma di causalità, importa che l’effetto è sempre una funzione della
quantità della causa e per la realtà
spaziale, anche della sua posizione,
ond'è che se possiamo determinare con precisione gli elementi numerici
dei fenomeni, il calcolo vale come mezzo
potentissimo per discendere dalle cause agli effetti o per risalire da questi a quelle. Esso non solo
formula Je leggi naturali, ma le
connette altresi e non solo sintetizza le
altre parti della matematica, ma anche le scienze della natura e non appena si può adoperarlo
completamente cangia il carattere di
queste, trasformandole di induttive in
deduttive. Se non che qui va notato che in tale funzione sintetica si trovano due limiti, uno nella
possibilità molto limitata finora di
determinare gli elementi numerici dei fenomenìi; un altro nella piccola potenza
sua rispetto alla crescente complessità
dei medesimi. Non basta. Le leggi
matematiche non possono essere identificate con quelle naturali anche per altre
ragioni. Le leggi numeriche, essendo
puramente formali, sono le più remote
che si possano imaginare da ciò che diciamo natura ed essenza Per es. le leggi: la forza viva è uguale al
prodotto della massa per la velocità; il
momento statico della leva è uguale al
prodotto del peso per la lunghezza del braccio di leva; la grandezza del moto uniforme è uguale al
quoziente dello spazio per il tempo; nel
moto accelerato gli spazi sono come i
quadrati dei tempi, ecc., sono leggi di rapporto geometrico le prime, di
rapporto di potenze l’ultima: ma in nessuna di esse la legge aritmetica vale a
dare ragione del fatto, ma soltanto a
formularlo nel modo più esatto. Non basta che il calcolo formuli e connetta le
leggi della natura per dimostrare che la
natura ha essenza numerica; la dipendenza
che il calcolo dimostra trala egge di Coulomb sull’attrazione e repulsione dell'elettricità positiva e
negativa, e la legge elettrostatica,
secondo cui l’ elettricità nei corpi conduttori
come i metalli si raccoglie tutta alla superficie : la splendida applicazione della teoria delle funzioni
ellittiche nella meccanica e tutta la fisica matematica provano bensi che
la natura obbedisce a leggi numeriche, e
che conosciute queste, la scienza della
natura si può cangiare da induttiva in deduttiva, ma non provano punto che le
leggi della natura sono conseguenza
delle leggi dei numeri. Se anche fosse
realizzato quell’ideale di conoscenza scientifica che il Du Bois Reymond chiama astronomica, se cioè
tutto quello che è e accade
nell’universo fosse completamente rappresentato da uno sterminato sistema di equazioni
differenziali simultanee, questo sistema
sarebbe uno dei sistemi possibili e non avrebbe altra realtà che la realtà di
fatto; sarebbe impossibile dedurlo dalla essenza numerica della realtà,
epperò non ne darebbe la prova. La
metafisica numerica non potrebbe trovare la sua prova sufficiente nella
funzione sintetica che il calcolo esercita o può esercitare in ogni dominio di
scienza se non quando il sistema delle idee numeriche e il sistema della realtà
fossero affatto coincidenti, ovvero
quest'eltimo fosse parte di quello e trovasse nel tutto considerato come sistema di entità
numeriche, la ragione del suo essere non solo cume parte della scienza del calcolo, ma come realtà e natura. Ora è vero
perfettamente il contrario : il calcolo
spazia e può spaziare molto più largamente della natura; questa, ad esempio,
non conosce né il sistema di numerazione
dell’ aritmetica elementare, nè gli
spazi ad ” dimensioni della geometria superiore. Verifica bensi sempre delle leggi numeriche, ma la
ragione di verificarle non è nelle stesse leggi dei numeri, ma nelle proprietà
e nell'intreccio delle cause del reale. Neppure una Raqione matematica assoluta alla quale tutte
le proprietà e le leggi dei numeri,
tutt» il sistema compiuto delle verità numeriche fosse presente, potrebbe
dedurre da questo assoluto sapere non diciamo il sistema della realtà, ma
una sola legge reale. A. ciò si aggiunga che leipotesi ultime
nelle scienze naturali hanno in sè sempre dell'arbitrario, del non
ispiegato e che il carattere scientifico
nella spiegazione dei fenomeni della
natura consiste appunto nella riduzione e limitazione dell’arbitrario e del non ispiegato. Così
l'inerzia e l’attrazione, le due propietà fondamentali della materia nella
fisica moderna, sono esse stesse
inesplicabili. Per ispiegarle e in
generale per fondare una teoria fisica su principii che non solo non siano ipotetici, ma reali e
necessari, bisognerebbe ricorrere ai
principii e teoremi della logica e matematica ;
se non che dedurre da principii puramente formali, come son questi, una dottrina fisica sarebbe come
se un architetto intendesse innalzare un edificio con le sue cognizioni di meccanica pratica, senza il materiale
occorrente. Di contro alle leggi
logiche e matematiche sono quelle
naturali o causali. Queste sono generalizzazioni esatte, non approssimative. appuntoin quanto hanno il
loro fondamento in un rapporto causale.
Fu detto che bisogna distinguere tra la
necessità di una legge causale empirica e la necessità della legge causale in genere, la prima non essendo
mai assoluta come la seconda: ora è vero
bensi che di una legge empirica di casualità si può pensare che avrebbe potuto
anche non essere o essere altra, ma solo in un altro ordinamento della natura.
Poichè questa è intessuta e dominata nel
tutto e nelle singole parti della legge di causa, tutto è in essa dipendente e determinato; onde per
pensare che qualche cosa possa accadere diversamente, bisogna pensare che tutto l'ordine di natura muti. Se non si
pensa questo e nondimeno si pensa come possibile un fatto contrario ad una legge, non è negata soltanto una legge
empirica, ma la stessa legge causale
logica che può essere appunto enunciata anche cosi: che cause simili producono
in condizioni identiche effetti
simili. Del resto l’éssenza della legge
naturale viene abbastanza bene
lumeggiata dal concetto del caso, il quale implica la negazione della legge vera e propria e non
della causa. Il concetto della caso,
infatti, non è in realtà così opposto al
concetto di causa, come pare a prima vista. Nel pensiero comune pare che sia, perchè diciamo casuale
quello che non possiamo ridurre ad una
legge e ad una causa; nascendo dall’ ignoranza della causa, il caso sembra
tutta un’ altra cosa da essu. Ma se si
riflette, si vede che invece di essere una negazione, è una conferma della funzione
necessaria dell’ idea di causa nella conoscenza: il principio ignoto sì sostituisce al
principio noto che manca. In logica poi
il casnale è definito come un fatto di
coincidenza di fenomeni, che non si può elevare a legge. Taluno esce di casa e incontra un
amico o gli casca una tegola sul capo,
sono queste coincidenze casuali, perchè
non si può dire che cosi avverrà anche pel futuro La teoria del caso come incidenza delle serie
risale ad À ristotile che primo lo
defini a quel modo. È infatti se una
sola serie causale esistesse, il casuale non sarebbe possi bile; ma perchè le serie causali sono
innumerevoli e sì svolgono contemporaneamente, è possibile che ue
coincidano due o più. Così definito, il
caso non è in contraddizione con la causa, perchè non soltanto ciascuna delle
serie in: cidenti è determinata in ogni
sua parte, ma è determinata anche la loro coincidenza. Difatti, perchè
coincidano, le loro direzioni debbono
formare un angolo, e perchè coincidano piuttosto in questo che in quel punto
debbono formare determinati angoli. Dunque il casuale é effetto di un doppio rapporto causale, di quello che
determina i fenomeni coincidenti
ciascuno nella sua serie e di quello che determina la loro coincidenza. Questa seconda
determinazione causale non è per lo più una costante e nonè mai una legge, non dipende cioè dalla natura e qualità delle
serie, ma dal loro essere insieme. Adunque il casuale può definirsi: « una
coincidenza che non autorizza
l’inferenza d'una uniformità che sia una legge
causale ». La definizione è dello Stuart Mill, il quale la spiega e chiarisce cosi. La coincidenza si dice
casuale quando i fenomeni che coincidono
non sono effetti l’uno dell'altro, nè effetti
della stessa causa, nè effetti di cause collegate da una legge di coesistenza, (cosi le leggi di
Keplero non sono casuali, perchè
dipendono dall’azione combinata della forza
contripeta e della tangenziale necessariamente coesistenti nel sistema solare); nè effetti di una
determinata proporzione delle cause che i logici inglesi dicono
collocazione (p. es. non è casuale la
varia velocità dei pianeti per ciascun punto delle loro orbite, perchè dipende
dalla varia collocazione o rapporto
delle forze contripeta e tangenziale). È
necessario aggiungere poi che vi possono essere delle coincidenze uniformi e prevedibili, le quali
nondimeno sono casuali appunto perchè
l’uniformità in tal caso non è l’espressione di una legge causale: es. i fatti
umani coincidono » l1 4 » 16 12 12—- ©” » 10 — 19 » 13 — 7 » 838 — 7 141 — 10 » 19 — 5 In ordine alle cause che determinarono la
loro chiusura in Casa di custodia vanno
distribuiti nel modo seguente: Per
assassinio 1. Per incendio (10 volte) 1
individuo di 141 anni. Per ferimento 2
(uno involontario), Per atti contro il
buon costume 1. Per furto 30, dei quali
uno dell'età di 11 anni, recidivo per .7
volte. Per ozio e vagabondaggio
16. Per discolaggine 38. Gli 89
giovinetti ricoverati nell’Istituto di Beneficienza vanno distribuiti per età nel modo che segue:
Di anni 10 — 11 bambini Di ann i15 — 10
bambini » lil — 8 » » 16 — 13 » » 12 -— 14 » » 17 -— 7 » » 13-- 7 » » 18 — 5 » 2a 14-12 » » 19 — 2 » Di essi, 34 andavano a scuola e 55
passavano le ore del giorno in diversi
opifici della città per apprendere ciascuno
il mestiere che gli garbava. Per
ciò che riguarda i caratteri fisici od antropologici diremo che quelli raccolti non ci autorizzano
a trarre alcuna conclusione definitiva. C'è stato chi un pò affrettatamente ha
negato ogni valore all'esistenza dei caratteri esteriori; e certamente il
limitarsi all'esame di soli tali caratteri è un difetto, giacchè essi non sono
che l’espressione, l'estrinsecazione
delle anomalie interiori. La loro esistenza
rappresenta un éulizio più 0 meno sicuro e non altro, di un disturbo nell’euritmia morfologica e
fisiologica dell’organismo preso nel suo insieme e la loro mancanza certamente
non autorizza ad affermare sane le condizioni morali e mentali dell'individuo;
onde non è lecito destituire d'ogni
valore la ricerca di detti caratteri esterni. Nei 178 giovanetti esaminati non riscontrai in alcun
modo caratteri degenerativi speciali per
numero, qualità o grado; non posso dire,
in altr? parole, di aver trovato che la curva dei caratteri anormali morali e
psichici in genere coincidesse
perfettamente con quella dei caratteri fisici anormali, ma posso però asseverare con convinzione che
l’esistenza di questi ultimi caratteri
deponeva, accennava quasi sempre a
particolari condizioni ereditarie, siano queste morbose semplicemente (pazzia,
alcoolismo, turbecolosi, ecc.), o anormali dal punto di vista sociale (tendenze
antisociali dei genitori p. es.) e per
conseguenza ad una predisposizione
generica allo sviluppo di uno stato psichico anormale. Passando all'esposizione dei risultati
forniti dall'esame psichico diremo che la più parte di tali giovanetti pur
essendo andati per parecchi anni a
scuola, a mala pena sapevano leggere e
scrivere. Pochi giungevano a fare una moltiplicazione. L'attività
dell'attenzione era debole in quasi tutti.
La debolezza della memoria del tempo era quella che sì constatava più frequentemente ; pochi, cioè,
sapevano ripetere l'ordine di successione di avvenimenti loro occorsi da poco tempo. Il pudore difettava nella più
parte di essi. Rarissimamente si trovava
quel senso di soggezione che molti
bambini bene educati mostrano al truvarsi per la prima volta dinanzi a persone di età
maggiore. La più parte mancavano di
volontà ferma e persistente. Una tendenza molto diffusa era quella di negare
ogni cosa: il no era il monosillabo che
più prontamente e più frequentemente
veniva da loro pronunziato. Molti s'emozionavano facilmente, ma
passavano con pari facilità dal pianto al riso
come da qualunque emozione alla sua contraria. Il contegno appariva
ordinariamente scomposto, prendevano le
pose più strane e nei movimenti erano per lo più goffi e sgarbati. Erano in genere noncuranti della
persona e della pulizia. Parlavano
soventi in modo laido: spesso si lanciavano a vicenda delle amare invettive e
si davano dei sopranomi. C'era una certa gerarchia fra di loro; ci erano i
capi, i potenti e i seguaci, i deboli.
Predominava lo spirito di ribellione a qualunque obbedienza. Il carattere però
che spiccava sopra gli altri era indubbiamente l'egoismo inteso nel senso più
stretto. Pur di fare il loro comodo, pur
di fare paghe le loro brame erano pronti
a tutto osare. Per loro l'io era il centro dell’universo: al di fuori del
proprio io nulla poteva destare il loro
interesse. Non solo non mostravano di sentire affetti oltre l'inclinazione al soddisfacimento delle
loro basse voglie, ma rimanevano sordi a
qualsiasi lamento, freddi a qualunque soffererenza degli altri. Avevano quindi
ciò che d'ordinario si dice istinto
della malevolenza, godendu dei dolori
degli aitri, e mostrando di provare un intenso piacere a far dispetti ai
compagni ed a martirizzare i più
innocui. Appar.va, è vero, in loro, un certo spirito d’associazione, in
quanto parecchi tandevano ad unirsi per
forinare combriccole : ma il cemento di tali unioni non era l’ aftetto reciproco, disinteressato, non lo
scambio di idee e di emozioni, non il
sentimento dell'unità di natura su cuì
soltanto può essere fondata qualsiasi forma di vera solidarietà, bensi la tendenza ad appagare le
proprie voglie, il bisogno di dominare,
la smania di usare prepotenze. Erano,
infatti, i grandi, i forti che cercavano di circondarsi dei piccoli per poterli fare loro istrumenti
e per potersene servire a loro agio. I
piccoli e i deboli d’altra parte li
subivano, perchè non avevano l'energia di reagire e di ribellarsi e
perchè trovavano il loro tornaconto ad essere
protetti, ed a rimanere sotto l'egida dei capi. E tale asserzione vien
comprovata dal fatto significantismo che non
fu mai possibile osservare un segno di generosità o di abnegazione.
Erano capacissimi di accusarsi a vicenda presso
il Direttore, sempre però di nascosto e in segreto, il che depone della
loro vigliaccheria. E se si presentava il caso che per un fatto qualunque fosse minacciata di
punizione una classe intera, dato che
non si riescisse a conoscere il colpevole, non accadeva mai che questi si
svelasse confessandosi reo, non fosse altro per non far soffrire i suoi
compagni. Era sempre una massima quella
che dominava : ciascuno per sè. Per ciò
che riguarda i sentimenti estetici sì può
dire, per quanto le condizioni miserrime in cui tali ragazzi sono ordinariamente mantenuti autorizzano a
dirlo, che questi mentre presentavano
poca attitudine per il disegne, con una
certa frequenza mostravano invece attrattiva per la musica. Giova osservare che lo svegliarsi
in essi delle tendenze estetiche,
fossero pure elementarissime, coincideva col miglioramento del loro carattere
morale. Dove si potè avere
propriaraente il riflesso della loro anima fu nelle corrispondenze reciproche,
avendo essi una straordinaria tendenza a
scrivere delle lettere, dei biglietti
che per mezzi svariati giungono a destinazione. Circa le caratteristiche della loro scrittura non fu
possibile pronunziarsi in modo positivo, giacchè le ripetizioni, i tremori,
ecc. provenivano da ignoranza. Qualche
rara volta poì si notò la somiglianza
della loro scrittura con quella dei vecchi. Si
osservaruno molte cancellature, molti errori dipendenti da disattenzione. Erano rare le asteggiature
dritte e decise, abbondavano le curvature e le paraffe; sopra uno stesso
pezzo di carta spesso si notava la
tendenza a scrivere la medesima cosa in
diverse guise, prima in lungo, poi di traverso, prima con una specie di caratteri e poi con
un'altra; e di frequente le parole,
specie i nomi propri, erano circondati da ghirigori e nella scrittura erano imitate le lettere a
stampa. Si notò pronunziata la tendenza a servirsi di simboli più o meno strani per non essere intesi, come anche di
altabeti convenzionali. Qual’era il contenuto di quelle lettere? L’amore. Si è
già di sopra fatto cenno della loro tendenza all’o. scenità, ma i casi di una degenerazione
sessuale vera e propria sono in genere
rari. Si direbbe a prima giunta che
l'inversione sessuale formi uno dei caratteri che contradistingue i
corrigendi, ma, per giudicare rettamente, bisogna tener presenti le condizioni strane,
stranissime in cui sì trovano
agglomerati tali giovinetti, proprio negli albori della loro vita sessuale. Se per un momento
pensiamo a ciò che accade non raramente
in taluni dei nostri collegi, ci
convinceremo che non si può parlare nel maggior numero dei casi di una
degenerazione sessuale congenita, ma di
un vizio acquisito, transitorio, dipendente dalle condizioni di antigiene
sociale in cui quei ragazzi sono allevati.
I grandi vivono coi piccoli, i buoni coi cattivi: che cosa c'è da aspettarsi? La dilatazione della
macchia del vizio. Del resto a questo
proposito è bene notare che sulla natura e caratteri dei così detti vizii od
appetiti congeniti bisogna intendersi
bene, giacchè non sì deve credere (toltine i casi di malattia mentale e di
degenerazione vera e propria) che
l'individuo nasca con un determinato vizio :
ciò che in realtà si eredita è la predisposizione, vale a dire il bisogno vago ed indeterminato di
procurarsi un dato ordine di piaceri:
ora tutto ciò non implica nulla di
fatale e di necessario : fornite Je condizioni opportune, vale a dire un’educazione morale intesa a spingere
l’individuo coll’esempio,
coll’abitudine, colle suggestioni appropriate, a cercare l’appagamento di quel tale bisogno in
modo lecito e voi avrete trasformato una tendenza al vizio in una tendenza alla
virtù o almeno avrete arrestato lo svolgimento
di quel germe che o dall’eredità o da altra influenza malefica era stato
deposto nella psiche di un giovinetto. Citerò un esempio concreto per essere
più chiaro. Un fanciullo, poniamo, perchè discendente da individui affetti
da quel vizio funesto che è l'inversione
sessuale, viene al mondo con una certa
tendenza vaga ed indeterminata a
compiacersi (nient'altro che compiacersi) della compagnia di dati individui del suo sesso: se verrà
educato in modo che da una parte i suoi
bisogni sessuali trovino la loro
soddisfazione in maniera normale e che dall'altra l’azione del volere sociale su lui abbia per risultato
di farlo rifuggire dal solo pensiero di ciò che è meno che conveniente in rapporto alla condotta verso i suoi
compagni, come fatto oltremodo
abbominevole, cosa accadrà? Che la primitiva
attrattiva verso gl’individui del proprio sesso piuttosto che dar luogo al vizio, si trasformerà in un
sentimento nobile ed elevato qual: quello dell'’abnegazione, dell'amicizia vera e profonda, della generosità e via di
seguito. Lo stesso dicasi di tutti i
vizi, di tutte le abitudini malsane: esse
non vengono ereditate bell'e sviluppate, fisse e rigidamente conformate, ma quali predisposizioni, quali
esigenze, quali tendenze che possono
essere dirette al bene come al male.
Come si vede, tutto ciò è da tenere a mente per formarsi un concetto esatto non solo della genesi
dell’immoralità, ma anche della portata
dell'educazione morale nei bambini. Notiamo fin da ora, comunque avremo agio
diritornarvi sopra più tardi, che
l'insorgenza e la fissazione delle tendenze
immorali in tantosono possibili in quanto il volere sociale o non agisce o agisce in modo non appropriato
sul volere individuale : il segreto
dell'educazione morale sta tutto qui,
nello stabilire la necessaria comunione dello spirito individuale con
quello della società. E naturale poi
che i caratteri psichici antisociuli in genere
sì trovino riuniti nei cosi detti cattivi soggetti (pochi per fortuna,
una diecina su 150), nei quali i germi dell’immoralità sono abbastanza
sviluppati. Questi hanno tutti i vizi,
son bugiardi, ipocriti, testardi, prepotenti, irruenti, maneschi,
svogliati e formano la disperazione dei superiori. Uno di questi p. es. ha solamente 10 anni, ma
già fin dall’età di 8 anni ne faceva di
tutti i colori; non è buono a imparar
nulla; va a scuola da 2 anni ed a mala pena
sa leggere; non ha nozione dell'anno e del mese in cui siamo; passa da un'officina all'altra senza
riescire a trovare un mestiere che gli garbi. Nè è a pensare che sia sfornito d'intelligenza, chè anzi si rivela
abbastanza svegliato. Le punizioni e gli avvertimenti in qualunque maniera
fatti non hanno presa sul suo animo. — Un altro a 10 anni diede mentito nome alle guardie. — Un
terzo che presenta un aspetto di una
dolcezza serafica ha percosso varie
volte la madre. E mì fermo, perchè non vedo l'utilità di fare l’'enumerazione
di tutte le deficienze morali che si
possono riscontrare. Aggiungerò solo che tali tipi cattivi sì fanno conoscere fin dalla prima
età. *# # *
Esporrò ora i risultati ottenuti dall'esame psicologico praticato sugli 89 giovinetti chiusi
nell'Istituto di Benificenza. Non mi fermerò molto sulle somiglianze che
l'esame rivelò tra i caratteri psicologici dei corrigendi e quelli propri degli orfani per fissare l’attenzione
massimamente sui caratteri differenti.
Per ciò che riguarda le somiglianze dirò
che negli 89 orfani riscontrai nelle medesime proporzioni e, direi anche, nel
medesimo grado, se a ciò mi autorizzasse la circospezione di cui bisogna
circondarsi ne'l'emettere giudizi circa l’intensità dei fenomeni morali, i caratteri della fisonomia, la tendenza al
riso smodato e senza causa
proporzionata, le tendenze all’oscenità, agli
abusi del vino e del fumo, la frequenza nei disordini del l'attenzione e della memoria, l'indifferenza
per la famiglia e la diminuzione dell’intelligenza.
Con frequenza press'a poco eguale
riscontrai la rapidità del passaggio da uno
stato emotivo al suo contrario, la mancanza di pudore, la furberia, l'irascibilità, l'arroganza, la
tendenza all’ipocrisia, ed a mostrare di
comprendere più di quello che realmente
comprendessero coll'apparire noncuranti della religione, degl'insegnamenti che venivano forniti dai
preti, ecc. Accanto a questi caratteri simili sì possono porre dei caratteri
differenziali, quali 1 seguenti: 1° il numero maggiore di quelli che coll’ età
sogliono migliorare; molti che fino
all’età di 15, 16, 17 anni erano giudicati cattivi, raggiunta tale età, divennero buoni: 2° la
poca frequenza con cui sì nota il
contegno scomposto e la trascuratezza
nella pulizia della propria persona: 3° la mancanza di ogni tendenza alla ribellione, a fare delle
combriccole, ecc.: 4° l’assenza di
quell’egoismo ributtante che si notò nei
corrigendi : tanto è ciò vero che non c'è caso di poter strappare una
confidenza, una confessione ad uno di loro, sia pure il più semplice, a danno
degli altri: 5° la tendenza meno
pronunziata a cambiar mestiere, a mostrarsi svogliati ed a rimanere nell’ozio. Ora di questi caratteri dovendo ricercare
l'origine, diremo che alcunì di essi
evidentemente dipendono dall’organizzazione diversa del Ricovero di mendicità,
rispetto alla Casa di custodia che pare
costituita a posta per sviluppare le
tendenze antisociali meno accentuate, ma altri dipendono dall’ indole propria
dei corrigendi. Esistono adunque, sì può qui domandare, dei caratteri
psicologici originari, primitivi, i
quali controdistinguono il candidato
all’immoralità ed alla delinquenza, facendone un tipo a parte, per modo che chi ha la sventura di
sortire da natura caratteri psichici
cosiffatti inesorabilmente, fatalmente è destinato alla delinquenza ? Per
rispondere a tale domanda fa d’uopo
tener presente l’enumerazione dei carat.
teri psicologici già fatta, per vedere quali sono i più costanti, i.più
universali ed anche i più importanti dal punto
di vista cell’interesse della società. Ed in tale disamina fa d’uopo scegliere i caratteri anormali
prettamente originari come quelli che
sono del più alto significato : così gli atti
di malevolenza per sè, senza tener conto dei motivi e della loro genesi psicologica non ci autorizzano a
fare un tipo a parte dell’individuo che
li compie. *% *% %
Se noi ben riflettiamo sulla psicologia dei candidati, diciamo cosi, al
vizio ed alla delinquenza e sulle cause che
determinarono la loro chiusura in Casa di correzione, ci accorgiamo
subito che le note psicologiche veramente caratteristiche si riducono alle
seguenti : 1. Tendenze anormali
(tendenza a rubare, a incendiare ecc. ).
Deficienza dell’intelligenza. 2.
Tendenza all’ozio. 3. Tendenza alla
menzogna. 4. Deficienza della simpatia
quale fondamento dello spisito sociale. |
b. Assenza di spirito sociale.
6. Insubordinazione. Mancanza di disciplina e di rispetto e quindi impossibilità di apprendere. 7. Assenza di poteri inibitori e quindi
debolezza della volontà. La discussione intorno all'origine di tali
caratteri mostrerà fino a che punto
possono essere considerati come
congeniti o come acquisiti sotto condizioni determinate. Prima però di cominciare ad occuparci
partitamente di cia scuno di essi notiamo che nei casi concreti lungi dal presentarsi
isolati appaiono variamente intrecciati e fusì insieme; Non potendosi ridurre la psiche ad un fascio
di facoltà e di attività giustaposte,
non dobbiamo aspettarci di trovare
l'alterazione isolata, poniamo, degli istinti o delle tendenze o dell’emotività e non dell’intendimento :
gli stati e le modificazioni delle varie attitudini intimamente
compenetrate tra loro si devono
necessariamente influenzare reciprocamente, producendo soltanto un risultato
complessivo differente a seconda della potenza psichica alterata in modo
più accentuato. È indabitato che
parecchi, molto precocemente e molto
insistentemente, nonostante le punizioni loro inflitte, mostrano
tendenze speciali al furto, all'incendio, al suicidio, all’assassinio : non altrimenti che molti
altri mostrano una deficienza notevole
nelle facoltà intellettuali. Individui di
tal fatta sono certamente dei psicopatici e la ricerca accurata dell’
anamnesi individuale ed ereditaria, qui soprattuto necessaria ed
indispensabile, ci darà dei lumi in
proposito. Un individuo che all’età di 14 anni è già stato incendiario 10 volte, che interrogato
sugli atti da lui commessi, risponde che
ve lo spinse il diavolo, che si mostra
impulsivo, dedito a tutti i vizii, svogliato, è giudicato molto presto uno psicopatico. Se non che
individui siffatti, i quali si
potrebbero dire candidati al manicomio, si presentano di raro: e le tendenze
veramente morbose (cleptomania, piromania ecc.) non sì osservano con molta
facilità nei bambini, ond'è che bisogna
andare molto cauti nel pronunziare
giudizi di tal fatta, tanto più se si pensa che
i reati che più spesso vengono commessi dai bambini e per cui gran parte son chiusi in Casa di
custodia, sono i furti. Ora, se la
cleptomamia è indubbiamente morbosa e rientra
nell’orbita della psichiatria, la tendenza ai furti ordinari (tra le due vi è un abisso, se si pensa ai
caratteri differenziali esistenti, e basta accennare solo di passaggio
all'assenza di qualsiasi veduta d'interesse nel caso della cleptomania) è in rapporto colla cattiva
educazione e col cattivo esempio avuto
nella propria casa e fuori o colla mancanza di qualsiasi forma di educazione, è
in rapporto colla miseria e
cogl’incitamenti a rubare che i bambini
ricevono molte volte dai proprii genitori, dai compagni, ecc. Avendo io ricercato con molta cura le cause
dei furti commessi dai minorenni
corrigendi, mi son dovuto convincere che la più parte di quelli non sono
imputabili ai minorenni stessi, ma alle loro famiglie ed alla società in
cui sono nati ed educati. È indubitato
che molte caratteristiche dei corrigendi
trovano la loro origine e sono fondate sulla tendenza all’ozio e al
vagabondaggio. Qual'è la base di questa ? Essa
è una delle espressioni, uno dei segni di quella debolezza, di quella incoordinazione e di quel
sussecutivo disgregamento dell’unità della vita psichica che costituisce il
fondo su cui germogliano le varie
tendenze immorali. Noi sappiamo che tutti gli organi normalmente costituiti sì
trovano di solito, ma in modo senza confronto più accentuato prima della funzione, in uno stato di
tensione che figura come l'esponente
della forza ir essi accumulata; è chiaro
che quanto maggiore e la energia in essi contenuta, tanto maggiore sarà la tensione in cui essi si
troveranno, tensione che subbiettivamente si rivela come bisogno di mettere in
opera le proprie risorse, come bisogno di lavorare. E tuttociò appare evidente non solo nel tono
dei muscoli, ma eziandio in tutti gli
apparecchi fisiologici e quindi anche
nel sistema nervoso. Dato che questo si trovi in uno stato di debolezza
dipendente da cause svariate, p. es.
dalla insufficiente nutrizione, dal poco o inadatto esercizio ecc. : per modo che in esso sia di molto
difficoltato l’accumulo delle forze da una parte e la possibilità dall'altra
di dirigerle e di farle convergere tutte
ad un dato scopo, si comprende
agevolmente che in tali condizioni debba manifestarsi la tendenza all'ozio. La
debolezza dell'organismo in gen ere e
del sistema nervoso in ispecie si renderà palese massimamente
call’impossibilità a persistere in un dato
lavoro, coll’incapacità a fissare e a mantenere l’attenzione sopra nn dato obbietto. Gli oziosi sono
distratti, svagati, disordinati,
incostanti, perchè presto sì esauriscono. Volgarmente si ritiene che alcuni
individui divengono presto stanchi
perchè sono oziosi, ma è vero proprio l'opposto. La tendenza all’ozio adunque va riferita ad
uno stato anormale dei centri nervosi
per cai la loro capacità nutritiva non è tale da permettere l’accumulo di forza
di tensione indispensabile al lavoro persistente e vantaggioso. Si può rimediare in qualche modo ad un tale
stato di debolezza? Certo rafforzando l'organismo e segnatamente il sistema
nervoso, e più di tutto, mettendo in opera i mezzi atti ad operare come potenti stimoli alla
funzionalità intensa e insieme regolata dei centri nervosi stessi, si potranno
ottenere dei vantaggi. Qui l'educazione bene intesa, l'esercizio, l'esempio, la rimunerazione
equa, la messa in gioco dell’ amor
proprio e il rendere le condizioni della
vita tali che rendano possibile la nutrizione e lo sviluppo degli organi, produrranno senza dubbio il
loro frutto. Se non che non bisogna
troppo illudersi sui risultati che si
possono ottenere, nè esagerare l’uso e la portata dei mezzi che si
mettono in opera. Agire sui singoli individui puramente e semplicemente non
basta: fa duopo ricorrere a mezzi di
natura sociale, atti cioè a modificare l’ambiente sociale in genere e i rapporti sociali in
ispecie, atti quindi ad esercitare
l'influenza su tutti gl’individui componenti la
società. Occorre cancellare dalla mente del comune degli uomini l’idea falsissima che il lavoro sia in
sè un’infelicità o una maledizione e che
quindi il minimo di lavoro coincida col massimo di felicità. Fa duopo per
contrario ingenerare nell’anitno la convinzione che il lavoro è un elemento
indispensabile e integrante del godimento umano e che senza alcun dubbio una vita tutta piaceri
ed ozio renderebbe infelice l’esistenza che la parte più preziosa della vita umana è data dal lavoro stesso, il quale
rende possibile lo svolgimento delle migliori facoltà umane in quanto ci è di sprone a sormontare gli ostacoli ed a
sacrificarci, iniziandoci così alla vera
moralità. Questa invero consiste appunto
nel lavorare coroggiosamente per il bene di tutti, rinunziando, se ciò è necessario, volentieri
e con piacere al proprio benessere e
alla propria parte di felicità. Ma per
che via si può ciò ottenere? Prima di
tutto contribuendo coi precetti e coll’esempio
a riformare i cattivi costumi esistenti nella società attuale e cercando soprattuto di colmare l’abisso
artificiale che si è scavata tra le
varie classi, donde la necessità di modificare i metodi educativi; si
potrebbero citare una quantità di fatti
validi a dimostrare che la tendenza all’ozio e
l’abborrimento per il lavoro nella più parte dei casi riconoscono la
loro origine nel dispregio che la gente altolocata in genere mostra per tutti i
mestieri ed occupazioni ritenute d’ordine inferiore, circondandosi così di
molte persone che potrebbero essere adibite alla produzione di lavoro più proficuo. Poi, facendo partecipare le
classi lavoratrici alla vita
intellettuale delle classi colte, il quale desiderato forse non rimarrà per sempre lettera morta,
come ce ne fornisce l’esempio
l'Inghilterra, dove si è iniziato un movimento tendente a colmare tale lacuna.
Alludiamo al movimento di espansione delle università, allo sforzo
compiuto da queste ultime per mettersi a
contatto delle masse operaie, comunicar loro una parte del proprio patrimonio
intellettuale, educarle moralmente e intellettualmente e spingerle ad
acquistare il sentimento della dignità umana. A
tal uopo anzi sono stati messi in opera due mezzi: da una parte vanno ad abitare dei giovani usciti
dall'università nei quartieri operai
delle grandi città manifatturiere, passando una parte del loro tempo in mezzo
ai lavoratori e interessandosi
dell’amministrazione e del miglioramento delle
condizioni igieniche dei detti quartieri; dall’altra parte gli stessi professori d’università consacrano dei
corsi speciali o delle lezioni agli
operai, iniziandoli alla comprensione
delle que=tioni che possono loro interessare. Infine — ed è forse il mezzo più efficace e più
importante — mettendo in opera tutti i
mezzi atti a dare all'operaio una cultura
tecnica per modo che egli riesca a comprendere le condizioni generali
della vita industriale e si renda conto della
comunità sostanziale d'interessi esistente tra operai e padroni. A tale
esigenza rispondono le associazioui sul tipo
delle 7’rades - Unions, nelle quali il sentimento di solidarietà
esistente nei membri dell’associazione, contribuisce a frenare l'egoismo e a tener desto il
sentimento del dovere, dell'onore e
della dignità. Le nostre conchiusioni sì possono ridurre alle seguenti. La tendenza all’ozio deriva massimamente, non
esclusivamente dal poco valore
attribuito al lavoro per sè, onde è necessario
che gli sforzi della società siano intesi ad ovviare a tale inconveniente. A tal uopo sì richiede un
sistema sociale d’educazione destinato a
trasformare non soltanto ì padroni, ma
anche gli operai, preparandoli ad una vita novella. Se è necessario combattere nei primi l’egoismo e
lo spirito di dominazione, negli altri
occorre fare scomparire la diffidenza, l'invidia, la cupidigia. A. proposito
della menzogna è bene notare che molti dei
caratteri psicologici riscontrati nei corrigendi, riconosciuti nocivi alla società, non sono loro patrimonio
esclusivo. E già su questo fatto è stata
richiamata l'attenzione da altri, specie
da Lombroso. La tendenza alla menzogna p. es. è
carattere che si trova con molta frequenze nei bambini; se non che nei corrigendì non solo raggiunge
un grado massimo, ma può produrre gli effetti più disastrosi, trovandosi in
connessione con condizioni che lungi dall’opporsi, ne favoriscano lo sviluppo, rivolgendola sempre
a produrre del male. La tendenza alla
menzogna, che certamente è favorita da un’educazione difettosa e non
rispondente allo scopo e che per sè sola
non costituisce un carattere distintivo del candidato al vizio, va tenuta in
conto quale espressione di un'organizzazione mentale non perfetta. Donde proviene la tendenza alla menzogna,
quale ne è il meccanismo di produzione? Che cosa sta essa a significare? Un giorno nel fare l’esame psichico di uno
dei minorenni chiusi nella casa di
custodia, intelligente abbastanza, invitai
costui a leggere attentamente un periodo facilissimo ad intendersi,
affinchè dopo potesse espormi a memoria ciò che ne aveva compreso. Ed egli pronto a leggere e
dopo svelto a dirmene il senso. Nemmeno
un’acca di ciò che effettivamente dice il
libro: il suo discorso era del tutto differente. A domande improvvise riflettenti il contenuto
vero del passo letto, a domande cioè
intese a ricercare se effettivamente
aveva compreso nella maniera in cui si esprimeva, rispose in modo da generàre in me la convinzione che
in sostanza aveva interpetrato a dovere
il senso generale, comunque
l'esposizione dapprima fatta fosse totalmente diversa. Questo aneddoto mi pare significantissimo per
l’interpretazione del meccanismo della
menzogna, le cui essenza sta appunto
nell'antagonismo, se così posso esprimermi, esistente tra ciò che è percepito e ciò che s'estrinseca :
antagonismo che dipende originariamente
dal perchè le vie e i modi di esprimersi
non sono agevoli, data la mancanza di esperienza, ovvero dal perchè gli
elementi mentali non sono ancora
disciplinati per una regolare e coordinata funzione e questo è il caso dei
bambini : e dipoi, da questo che la
volontà individuale a ragion veduta, per un dato scopo cioè, fa da forza inibitrice, realizzando
così le condizioni dell'impedita
estrinsecazione di ciò che sé ha dentro. È la
mancanza di corrispondenza tra il di dentro eil di fuori, è la difficoltà di esprimersi ciò che
impedisce al bambino di dire quello che
pensa, spingendolo a girare intorno alla verità. Una volta fatto il primo
passo, una volta insorta quella
tendenza, l’educazione e i motivi in genere che spingono a MENTIRE – Grice: “MENTARE,
MENTIRE” --, come sarebbe quello di fuggire le punizioni e le minacce, fanno il resto. È indubitato però
che, data un’organizzazione (sia fisica che psichica) debole, imperfetta a tal segno che le risorse, per quel che
concerne l’estrinsecazione siano scarse, la tendenza alla menzogna
dev'essere accentuata. È per questo che i degenerati, e i bambini
in tesi generale sono oltremodo bugiardì; ed È TALMENTE FISSATA IN LORO L’ABITUDINE
A MENTIRE – ‘cry wolf’ -- che molte volte è soltanto dopo che hanno detto la menzogna che ne acquistano
la coscienza chiara. La tendenza alla menzogna a volte diviene un automatismo che funziona indipendentemente
ed anche malgrado la volontà. In
conclusione io credo che della tendenza
alla menzogna oltremodo pronunciata nei giovanetti vada tenuto conto come d’un
sintoma di debolezza dell'organizzazione
mentale, in quanto in tal caso i fatti [Stando alle recenti indagini
sull’origine del linguaggio, la parola e
la rappresentazione, il SEGNO e l’imagine dell’oggetto si svolgono parallelamente,
seguendo leggi proprie. Ia prima è un prodotto in via di formazione e di svolgimento, mutevole quindi,
variabile in rapporto allo stato
dell'animo individuale e sottoposto alla volcnià indivi. vali (‘n potestate
nostra), mentre l'altra apparisce come qualcosa di già costituito e quindi di stabile e di rigido, È naturale che
le due serie, quella delle parole e
quella delle rappresentazioni non coincidano, essendo differenti la loro
origine e le condizioni di loro svolgimento. Si aggiunga che la parola quale SEGNO è una semplice
estrinsecazione dell’attività iteriore,
estrinsecazione che si riferisce ad una sola forma di sensibilità (udito). La percezione sensibile invece
rappresenta il prodotto di svariate
forme di sensibilità, donde la sua maggiore stabilita e permanenza
di fronte al flusso dei sunni vocali. V.
a tal proposito l'opera di Noiré Log908
Ursprung und Wesen da Begriffe, Leipzi ig. interni non riescono a trovar la via
per estrinsecarsi in modo giusto e
deviano da una parte o dall’altra, provocando
l'attività d’elementi che per condizioni particolari sono più disposti
all’estrinsecazione. La tendenza alla menzogna
intanto ha importanza in quanto accenna ad una coordinazione irregolare,
o meglio ad una forma d’IN-co-ordinazione
alla incompleta unità, identità e continuità di tutta la vita psichica, e quindi ad una forma d'incapacità
a governare sè stesso. Non v'ha dubbio
che l'educazione, l'esempio, specie se
intesì a rimuovere qualsiasi forma di duplicità nella vita — e i bambini hanno ben di sovente occasione
di osservare due diverse maniere di
condursi da parte dei GENITORI – cf. H. P. Grice, “The Genitorial Programme” --
e degli altri educatori a seconda che
questi sono in famiglia, nel circolo
degli amici, ecc., ovvero al di fuori della vita intima, nella società — possono mettere un
argine all’invadente tendenza alla menzogna. Vanno però sempre tenute d'occhio da una parte le condizioni che
favoriscono lo svolgimento dell’energia individuale e del carattere e
dall'altra i motivi che d’'ordinario
spingono a mentire. Si è già detto che uno dei caratteri psichici dei corrigendi
è il freddo egoismo, per cui essi non hanno altro di mira che il proprio utile. Non hanno amici
nel vero senso della parola, nè sentono
affetto pei pareuti. Ordinariamente sì
dice che individui di tal fatta hanno il prepotente bisogno di far male agli altri e provano un intenso
piacere a vederli soffrire. Ora per dar ragione di tali fenomeni, alcuni si
sono arrestati all'affermazione che codesti individui sono sforniti del senso morale, quasichè questo
fosse qualche cosa di semplice e
d’irriducibile (press'a poco come qualsiasi senso percettivo, vista, udito,
ecc.): ma, prima di tutto nei bambini in
genere non si può parlare di esistenza di
senso morale vero e propriu, ma di teudenze morali, presupponendo quello
lo svolgimento completo della vita psichica
sia dal lato della conoscenza che dell'attività, e poi esso è cosa tanto complessa che, per
giustificarne e interpretarne la
presenza o la mancanza, vanno prima
considerati gli elementi di cui si compone. A me pare che le caratteristiche antisociali suesposte
riconoscano almeno in parte la loro
origine nella diminuzione della simpatia,
intendendo per quest'ultima la proprietà che ha l’animo di un individuo di riflettere i sentimenti
che sì rivelano nell'espressione del
volto delle persone che lo circondano.
Per essa, intesa in senso largo, la vista di un movimento. come l’assistere ad una sofferenza desta
fenomeni analoghi nella psiche dell’
osservatore (1). Questa impressionabilità
individuale che ha un fondo organico e corrispettivo fisiologico
consistente nell’attitudine di taluni centri nervosi ad entrare in funzione anche se agisce da
stimolo la percezione di date
espressioni emotive (2), questa simpatia istintiva che (1) Maudsley ed altri notarono a tal
proposito che l’uomo comincia il suo
sviluppo colla sinergia (contagio dei movimenti, imitazione), poi arriva alla simpatia (contagio dei sentimenti) e
infine raggiunge la sintess (comunione delle idee) Si è stabilita tale connessione intima tra
determinate espressioni emotive e le
emozioni che basta la semplice percezione delle prime come i1 altri casi la insorgenza delle stesse per
richiamare le seconde, onde il proce-so
nervoso espressivo che dapprima figura come conseguente o concomitante del processo nervoso costituente
il corrispettivo fisiologico delle
emozioni, diviene l’ antecedente. negli esseri forniti della medesima
organizzazione provoca il simile col
simile, fondata psicologicamente sull’associazione già stabilitasi in noi tra le manifestazioni
espressive e il corrispondente
sentimento altre volte provato per cui la
percezione di quei segni provoca il fantasma del sentimento, fantasma che contiene già un iniziamento dsl
processo reale di cui è l'immagine,
questa disposizione che fa concentrare
l'attenzione dei bambini sull’espressione del volto e perfeziona, come
dice il Perez, il dono innato di leggere nelle
fisonomie, è quanto vi ha di congenito, di originario e, diremo anche,
di organico nelle tendenze sociali o antisociali che l'uomo presenta nel corso della sua vita.
Noi possiamo simpatizzare con qualunque
essere, il quale presenti qualche
analogia con noi e tanto più quanto maggiore è lu rassomiglianza; quindi
più facilmente e più fortemente cogli
altri uomini e tra questi sopratutto coi parenti, coì connazionali, con
quelli della medesima razza e cosi di seguito:
poi via via in grado sempre decrescente cogli animali più simili all'uomo, scendendo fino a quelli in
cui la differenza dell’organizzazione è
tale che le loro manifestazioni ci riescono quasi affatto inintelligibili e
cilasciano indifferenti. - Ora che i
bambini in genere abbiano attitudine a simpatizzare non è a dubitare, come
dimostrano i numerosi esempi riferiti
dagli autori che si sono occupati della psicològia infantile e specialmente dal
Galton, il quale ha soggiunto che i
bambini sono più disposti a sentire la simpatia per gli animali che non gli
adulti .(1). (1) Riferirò a tal
proposito un esempio riportato dalla signora Mana. ceine, la quale racconta che mentre nel
giardino zoologico di Pietroburgo una
folla numerosa stava ad ammirare la destrezza e i giuochi eseguiti da un elefante e tra le altre cose una scena
nella quale il guardiano si Vediamo
qual'è l'origine di questa proprietà psichica
congenita che abbiamo detto simpatia. Molti hanno messo in rapporto la simpatia collo sviluppo della
riflessione individuale, ecc. : quasichè la simpatia nascesse
nell'individuo dal semplice ricordo dei
dolori provati e fosse quindi come il
risultato di un calcolo egoistico o di un ragionamento. La vista di una data sofferenza in tanto
desterebbe dolore in quanto provocherebbe il ricordo di una sofferenza analoga già provata dall’individuo o
susciterebbe la paura di provarla. La
simpatia sarebbe cosi un egoismo mascherato e poggerebbe tutta sulle emozioni
già provate o imaginate o in qualche modo comprese. Ed è così che accade d'imbattersi non di raro in espressioni come
queste: « Noi non siamo veramente
pietosi se non per le miserie che possiamo chiaramente comprendere. Le altre
non cì ispirano che ribrezzo e
dispregio. Per questo i fanciulli sono generalmente crudeli ». Ora tutto ciò non è esatto; la più
parte dei bambini nascono col dono della
simpatia e non è necessario che comprendano in modo chiaro e cosciente i
dolori, perchè in essi si desti la
simpatia, e se con uua certa frequenza appaiono
crudeli, è in grazia di un'educazione falsa loro impartita ed anche in grazia delle condizioni di
debolezza in cui si trovano, per cui
sono costretti a ricorrere necessariamente
alla crudeltà per difendersi e vincere. Co ciò non s'intende negare l’azione che lo svolgimento
dell'intelligenza e della coricava per
terra e l’clefante si metteva a camminarvi per disopra, una bambina di due anni, seduta sulle braccia
della balia cominciò a piangere tanto forte ed a protestare coi suoi gesti e
col suo irregolare linguaggio infantile contro quella vista per lei ributtante,
che non fu pos+Sibile renderla tranquiila pruma che il guardiano si levasse in
piedi. riflessione può esercitare sulla simpatia, rendendola più fine, più squisita e più differenziata, ma si
vuole affermare che la simpatia non è a
considerare quale prodotto della ragione
e dell'esperienza individuale. Finchè
in psicologia dominò la veduta individualistica, finchè si credette di poter dare ragione di
tutti i fatti spirituali per mezzo delle attitudini della psiche
individuale e finchè questa fu
considerata come qualcosa d’indipendente,
di completo, di esistente per sè e di chiuso in sè stesso, non sì potè non considerare la simpatia come
un prodotto sussecutivo e secondario. Da
tal punto di vista il centro di ogni
vita psichica essendo l'io individuale, questo non poteva figurare come momento e parte di una
vita psichica superiore, nè la simpatia
poteva esser riguardata come una
attitudine originaria, In tale ordine di idee rimasero i psicologi
darwiniani quando cercarono di determinare il tempo in cui la simpatia fa la sua coinparsa
nell'anima umana (età di 5 mesi) e nella
serie animale (/menotteri). Se non che
qui è bene notare che gli scienziati su tale argomento non son punto d’accordo : così Sir John Lubbock
ritiene le formiche da lui osservate
sfornite di affezione e di simpatia
almeno relativamente allo svolgimento delle emozioni di natura opposta,
mentre altri naturalisti come Maggridge, Belt
asseriscono di aver potuto constatare in talune specie di formiche un' attitudine particolare alla
simpatia. Gli stessi dispareri
s'incontrano a proposito delle api e di altri insetti (1). (1) Cfr. Romane8s, L'’intelligence des animaux, trad.
fr., Paris, Alcan, 1887, Tom. I, pag. 41 e segg. e pag. 145. — Cfr. anche
Romanes, L’evolution mentale ches les
animaux, trad. fr., Paris, Reinwald, 1884, pag. 352. — Il s Il
disaccordo esistente tra gli scienziati sta a provare la mancanza di consistenza del loro punto di
partenza, avendo essi prese le mosse dal
presupposto che la simpatia sia qualche cosa di secondario, di derivato e di
accidentale che possa e non possa
esistere, e che quindi possa sorgere in un dato
momento piuttosto che in un altro; ora, nulla di più infondato.
L'’attitudine alla simpatia è universale, primitiva, originaria in tutto il
regno animale e sono soltanto le sue
Romanes pone la benevolenza tra i sentimenti posseduti dagli animali, p.
es. dal gatto, riferendo i seguenti esempi: “ Au sujet d’un chat domestique,, dice quest’autore, “ voici ce
qu’écrit M. Oswald Fitch. Il dit que l’on
vit ce chat “ prendre des arétes de poisson et les emporter de la maison an
jardin: on le suivit et on le vit les déposer devant un chat étranger mistrablement maigre et
évidemment affamé, qui les dévora; non
satisfait encore, notre chat revint, prit une nouvelle provision et recommenca
son offre charitable qui sembla étre acceptée avec autant de gratitude. Cet acte de
bienveillance accompli, notre chat revint
à l’endroit où il prenait d’habitude ses repas, près de l’évier où se lavent
les assiettes, et mangea le reste des débris de poisson, (Nature, 19 avril 1883, pag. 580). — Un cas presque
identique m’a été communqué par le docteur Allen Thomson, membre de la Société
royale de Londre. La seule différence
est que le chat du docteur Thomson attira
l’attention de la cuisinière sur un chat étranger affamé, en la tirant
par la robe et en la menant à l’endroit
cù se trouvait le chat. Quand la
cuisinière donna è celui-ci quel jue nourriture l’autre se promena tout autur, tandis que le premier faisait son
repas, en faisant gros dos e ronronnant
bruyamment. — Un autre exemple de bienveillance chez le chat suffira. H. A. Macpherson m'écrit qu’en
1876 il avait un vieux matou et un jeune
chat de quelques mois. Le vieux chat qui avait longtemps été un favori, était jaloux du petit et lui
témoignait une aversion notable. Un
jour, on enleva en partie le plancher d’une chambre du sous-s0l pour réparer quelques tuyaux. Le
jour qui suivit celui où le planches
avaient été remises en place, le vieux “ entra dans la cuisine (il vivait presque entièrement è l’étage au
dessus) se frotta contre la cuisinière
et miaula sans tréve ni cesse jusqu’à qu'il eft attiré son attention. Alors
courant de ci, de là il la conduisit dans la chambre où le travail avait été fait. La domestique fut très-intriguée jusqu'’ à ce qu'elle estrinsecazioni,
le sue manifestazioni che variano a seconda
delle circostanze e massimamente a seconda del maggiore o minore grado
d’intensità dei sentimenti di natura opposta, dei sentimenti che potremo dire egoistici, i
quali sono del pari originari e universali. È naturale che lo svolgimento
diverso dei sentimenti dipende dalle
differenti condizioni di vita: così s'intende da sè che negli animali in cuì
l'ordine sociale è bene entendît un
faible miaulement venant de sous ses pieds. On enleva une planche et le jeune chat sortit sain et sauf,
mais è moitié mort de faim. Le vieux
chat surveilla toute l’opération avec beaucoup d’interét jusju’à ce que le jeune fàt remis en liberté : mais
s’étant assuré que celu-ci était sauf,
il quitta la chambre aussitòt sans manifester la moindre satisfaction de le
revoir. Ultérieurement, non plus,
il ne devint nullement amical pour lui.,
Se il Rumanes e gli altri vogliono chiamare gli
atti surriferiti atti di benevolenza, padronissimi, a patto però che
tale banevolenza sia considerata come nient’altro che espressione di un sentimento
di simpatia. Tra la benevolenza mostrata dai gatti e quella umana corre un abisso, giacchè la prima non include
la coscienza dell’obbligatorietà del compimento degli atti di benevolenza, nè
presuppone alcun principio o massima
fondamentale come l’altra: gli atti provengono immediatamente, saremmo tentati
di dire automaticamente da una tendenza,
da un’esigenza, da un bisogno dell'organismo fisico-psichico e qui
finisce tutto. Perchè gli atti compiuti
dai gatti divengano identificabili coi corrispondenti compiuti dall'uomo,
occorre che la coscienza dia loro le note
di necessità e di universalità, occorre che l’individuo compiendoli
sappia di compiere un'azione che deve
essere compiuta, onde vi concorre con tutta
la propria energia individuale. I gatti son tratti ad operare in tale
o tale altro modo, mentre l’uomo opera
così, perchè crede che così ss deve
operare. — L'’essersi i gatti adoperati a soccorrere i loro simili
prima di appagare i loro appetiti lungi
dal poter essere citato come una prova
del loro rpirito di sacrificio s’interpreta benissimo al lume di quella
nota legge psicologica, secondo cui i
sentimenti e gli appetiti che si presentano fuori del consueto assumono
un’insolita intensità e vivacità in
confronto di quelli usuali, ordinari ed insorgenti ad intervalli fissi
e determinati. — Si aggiunga poi che
dalla psicologia moderna gli animali non son più considerati come incapaci di
qualsiasi iniziativa e sforpiti di qualsiasi forma di aitività individuale, organizzato,
poggiando sul principio della cooperazione, i
sentimenti di tenerezza e di affezione reciproca devono giungere ad un
grado notevole di sviluppo, come quelli che
stanno a significare l'accordo esistente tra l'interesse dell'individuo
e quello della comunità. Del resto lo stretto e
rigoroso individualismo non è più ammesso nemmeno in biologia, in quanto si è andata sempre più
accentuando una reazione benefica alle
vedute prettamente darwiniane colle
ricerche compiute sulle varie forme di associazione presso gli animali. Basta ricordare qui le accurate
indagini dell'Espinas, del Cattaneo e del Perrier, le quali tutte hanno mirato a porre in sodo che l'associazione,
l'assistenza reciproca, la divisione del lavoro (la cui influenza fu
dapprima in modo cosi evidente posta in
luce da H. Milne Edwards) e la
solidarietà che ne risulta hanno esercitato un'azione preponderante sulla formazione, sullo
svolgimento e perfezionamento degli organismi.
Se l'esistenza della simpatia nel regno animale quale fatto primitivo ed universale può formare
oggetto di discussione trai naturalisti psicologi, ogni dibattito cessa di essere g'ustificato per quel che riguarda
l'uomo. Noi conoscia:no questo soltanto come essere sociale e quindi come determinato nelle sue azioni ad uno stesso
tempo dal suo proprio volere e dal
volere della collettività a cui l’individuo appartiene: la relativa
indipendenza e separazione del volere individuale appare solo come il risultato
di uno svolgimento tardivo. Si pensi che
il bambino diviene solo gradatamente
cosciente della forza della propria volontà,
mentre da principio a mala pena si distingue dall'ambiente da cui è come a dire trascinato. Del pari
nello stato naturale I n= “© Redi a ee
; e e e i . @1’oo@-@ a e e il predominio e la preponderanza appartiene al
sentire, volere e pensare collettivo. L’ uomo, per così dire, s' individualizza
a poco per volta emergendo da uno stato d'indifferenza sociale, senza separarsi
però mai completamente dalla sua
comunità. Il dire che noi abbiamo bisogno della
riflessione e del calcolo e dell'esperienza per poter agire a favore degli altri è tanto assurdo come
voler dar ragione delle azioni
egoistiche, ricorrendo agli stessi mezzi del
calcolo, della riflessione, ecc. : in entrambi i casì la volontà agisce
in modo immediato; ed anzi possiamo aggiungere che ogni complicazione avrebbe
per effetto di paralizzare o di rendere meno pronto l'operare. Ogni forma di riflessione e di calcolo piuttosto che
precedere segue gli atti. D'altra parte l'affermare che la simpatia
nasce dal riflettersi dei sentimenti altrui nell'anima nostra in rapporto alla loro intensità, e in qualche maniera
alla loro qualità, non . implica
nient'affatto l'identità del sentimento originario e di quello riflesso. Tra la sofferenza o il
dolore originario e la pietà, o la
compassione vi è una profonda differenza dal
punto di vista qualitativo : è lecito forse identificare rispettivamente
l'angoscia di colui che sta per annegarsi o
la sofferenza dell'operaio disoccupato che teme la fame coi sentimenti che producono in modo riflesso
in chi osserva la coraggiosa risoluzione di salvare il primo e l 'atto di carità tendente ad alleviare la
miseria del secondo ? Se così stesse la cosa, nota molto a proposito il Wundt (1), il sentimento riflesso perderebbe
appunto quelle (1) Wundt — Ethik,
Stuttgart. proprietà che lo rendono un motivo di soccorso attivo. Insomma
l’anima umana è cosiffatta che non rimane indifferente di fronte
all'apprensione dei fatti psichici dei suoi
simili, ma in certa guisa se li appropria, rendendoli parte del contenuto rappresentativo ed emotivo
della sua propria psiche : i fatti
psichici altrui però penetrando nella. nostra
coscienza conservano qualcosa di proprio, come a dire un segno della loro provenienza estrinseca, per
cui assumono uno speciale valore emotivo
per il nostro spirito. Di guisa che da
una parte i sentimenti altruistici sono originari allo stesso titolo degli egoistici e dall’altra
ciascuna delle due categorie di sentimenti presenta delle qualità specifiche
irriducibili per cui non può non fallire ogni tentativo di derivare gli uni dagli altri. Allo stesso modo che non v'è caso — altro
che nel sogno e in talune forme d'alienazione mentale — che noi scambiamo la nostra propria personalità con
quella di un altro, così non è possibile
un'identità originaria dei sentimenti riferentisi a noi stessi e di quelli
relativi ad altri soggetti. Da ciò
consegue non solo che il conflitto degl’inpulsi egoistici con quelli
altruistici è una delle forme più
frequenti di contrasto tra i motivi della volontà, ma anche che in tale lotta vincono ora quelli di una
specie, ed ora quelli di un' altra. Del
resto se le tendenze sociali fossero
qualcosa di secondario e di derivato non si vede come e perchè non sarebbero sempre vinte e superate
dai sentimenti originari. Nessuna riflessione e calcolo avrebbe la virtù di produrre un tale effetto. Di maniera
che l’ individualismo psicologico mena dritto all’ egoismo morale. Fortuna che la forza dei fatti è maggiore di
quella delle teorie ! (Wundt). Il fondo
dell’individualismo è una concezione meccanica
del mondo morale ; esso isola l’uomo nel bene come nel male, facendo poggiar tutto sull’individuo e
non vede in ogni associazione umana che
un aggruppamento artificiale ed
essenzialmente transitorio. La veduta collettivistica concepisce il mondo come
un vero organismo, alla cui vitalità collabora l'individuo come membro e parte.
La società in quanto produce e consuma
non è più considerata come un aggregato
d'atoii isolati, ma come un sistema organico
nel quale la produzione e la distribuzione delle ricchezze rispondono alle funzioni di assimilazione e
di circolazione proprie di ogni essere
vivente. Onde la conservazione dell'organismo apparisce alla coscienza
dell'individuo come il dovere più alto e
imperioso, o alineno quest’ultimo dovere
prende posto accanto al dovere di conservazione personale. È evidente che tale concezione dello spirito
sociale racchiude l'idea più alta della moralità, la quale è una produzione
della società di cui segue i progressi e le vicende. Del resto anche nell'individuo isolato la
moralità non consiste soltanto nel
verdetto interiore della coscienza (tanto è ciò
vero che le buone intenzioni non bastano a sostituire una buona azione), bensi nella collaborazione
reale all’organizzazione della natura secondo la ragione, o nella contribuzione
al bene generale a cui l'individuo ha il dovere di sacrificare senza esitazione i suoi interessi
ed anche la sua persona. La disfatta dell’individualismo e
dell’egoismo per mezzo del principio
morale, ecco adunque l’ideale: se non che
vincere non equivale a distruggere completamente : l’io è l'io, e rimane tale necessariamente : e si
trova da per tutto, anche, come sì è
veduto, nei sentimenti di simpatia e di
pietà che si provano per gli altri. Onde se si vuole che un individuo cooperi al benessere degli altri
bisogna fargli occupare nella società il
posto che gli compete; così egli potrà
svolgersi interamente e spiegare liberamente, ma sempre legittimamente la propria
attività. n'e Dopo aver determinato la natura e i
caratteri della simpatia che va considerata come il fondamento organico
dello spirito sociale e quindi della
moralità, s'affacciano alla nostra mente parecchi quesiti: 1° E ammissibile
l'assenza completa della simpatia o
anche una deficienza notevolissima di
essa, e nel caso affermativo, si possono porre in opera dei mezzi per accrescerla, o per produrla
addirittura? — 2° Che significato ha la
deficienza della simpatia e quali sono
le cause determinanti di un tal fatto? — 3° In che rapporto si trova la simpatia colla morale
vera e propria ? 4° La tendenza alla
malevolenza è spiegabile solamente con
l'assenza pura e semplice della simpatia, ovvero bisogna ammettere auche l'antipatia come
determinazione originaria primitiva e
positiva ? 1° Che l’attitudine a
simpatizzare possa mancare del tutto non
è ammissibile, almeno fino a tanto che non si
esce dai confini del normale; è soltanto in stati morbosi o semplicemente anormali che si può
riscontrare la preponderanza, e nemmeno allora assoluta, dell’egoismo. In casi determinati però sì può osservare una
notevole diminuzione di detta
attitudine, ed è impossibile negare che l'animo dei bambini alle volte non
appare, giusta le parole di Heine, come
lo specchio fedele dei sentimenti che si
producono intorno a lui. Se non che qui occorre
osservare che il contagio dei sentimenti può avvenire tanto nel s:nso buono quanto nel senso cattivo,
onde da tal punto di vista tra i giovani
chiusi in una Casa di custodia bisogna distinguere quelli che avendo attitudine
alla simpatia e all’imitazione e che
trovandosi a contatto dei tipi
sfornitine completamente son divenuti malvagi anche loro, rotti al vizio e sordi alla voce di
qualunque sentimento sociale, da coloro che effettivamente nacquero deficienti
in fatto di simpatia e di attitudine ‘all’imitazione. Son questi ultimi i tipi che si potrebbero
dire gli originali dal punto di vista
antisociale. Essi non intendono conformarsi a nessun modello e a nessuna
regola, il che non esclude che possano
avere del talento. Sorge spontanea la
domanda: Ci son dei caratteri differenziali tra chi è divenuto
antisocievole in seguito all'esempio ed alla suggestione e chi è nato tale per
deficienza di attitudine alla simpatia
? I dati anamnestici accuratamente
raccolti possono fornire dei lumi a tal proposito, ma è l’esame
psicologico fatto ripetute volte e
l'osservazione diligente del soggetto
fatto a sua insaputa che potranno fornire il bandolo della matassa. Un bambino che non ha nessuna
tendenza ad imitare ciò che vede fare
dinanzi a lui, un bambino che tende a
starsene isolato in un canto e che non sente il bisogno di ripetere i giuochi e
di trastullarsi, un bambino che rimane
estraneo a tutti i sentimenti degli altri e che
risponde alle osservazioni fattegli col silenzio o con frasi prive di senso, con repliche amare e con
scuse false, un 220). L'ORIGINE DELLE
TRNDENZE IMMORALI tale bambino deve
destare sospetto, giacchè le note suesposte depongono per un carattere, il
quale per natura ha poca attitudine alla
simpatia. Bambini di questo genere,
specie se in età precoce, nelle ore di allegrezza si gettano su di voi e magari vi stringono con furore,
vi tirano le braccia con tutta la loro
forza e vi tormentano in mille modi e
sembrano d’ignorarlo ; se li avvertite si meravigliano . e se insistete perchè vi lascino in pace,
continuano a molestarvi e nel caso che prolighiate loro delle carezze non sentono
il bisogno di ricambiarvele. Del resto si può dire che il carattere persistentemente egoistico si
riconosce da una quantità di nonnulla,
dei quali ognuno preso per sè val poco,
ma messi insieme difficilmente ingannano il pedagogo ed il psicologo sagace.
Aggiungiamo che colui che è fornito del dono della simpatia naturale si mostra
più passibile di miglioramento e di educazione. L'individuo, infatti, il quale
in forza del contagio morale è divenuto cattivo, ma che ha l’attitudine alla
simpatia e che perciò presenta un
carattere modificabile può d'un tratto, date le
condizioni opportune, presentare mutata la sua fisonomia morale, può divenir buono appunto perchè la
sua psiche è organizzata in modo da
sentire l’azione della suggestione e
dell'esempio, mentrechè l'individuo in cuì predomina l'egoismo rimane sordo a qualsiasi stimolo,
epperò si rivela incapace di notevole miglioramento, s'intende nelle ordinarie Case di correzione (1), giacchè la
cosa muta sott» A lui si possono
rivolgere le parole di Mefistofele (GOtbc, Faust): « Du b'st am Enda was du bist « Setz dir Perruecken auf von Millionen
Locken « Setz deinen auf ellenhohe
Locken « Du bleibst doch immer, vas du
hist ». condizioni diverse, come vedremo
in seguito, parlando del rapporto della
simpatia colla moralità. S'intende da
sè che di tipi siffatti fortunatamente se ne
riscontrano pochissimi: ed è chiaro del pari che l’uducazione, l'esempio
come tutti i mezzi atti a spiegare la loro
azione sull'individuo si dimostrano inefficaci a produrre o ad accrescere quella disposizione psichica
che, come abbiamo veduto disopra, ha una base organica e fisiologica molto manifesta ; non altrimenti che chi
sorte da natura una qualsiasi deficienza
organica, per quanti storzi faccia, non
arriverà mai ad acquistare ciò di cui manca, così chi è nato manchevole in riguardo, diremmo quasi,
del senso so.ciale, deve rassegnarsi a rimanere tale, senza sperare che in lui avvenga un radicale mutamento,
s'intende sempre dal punto di vista
della sensibilità sociale. ° 2° Vediamo
che significato vada attribuito alla deficienza della simpatia e quali ne siano
le cause. Già Maudsle;- dichiarava che la posterità degli uomini le cui azioni
durante la vita si ispirarono ad uno stretto egoismo manifesta maggior predisposizione alle
malattie mentali che non la discendenza
di uomini, i quali durante la loro vita
ebbero degli ideali morali e sociali elevati. Stando allo psichiatra inglese, l'amore esclusivo
del guadagno e per conseguenza una vita
dedicata al conseguimento del proprio
vantaggio esclusivo ha per effetto dapprima che
le attidudini nobili ed elevate divengono rare e dipoi che i fenomeni della degenerazione cominciano
a predominare. Ed il medesimo autore aggiunge che il cammino della degenerazione in certe famiglie attraversa le
seguenti tappe: 1° sviluppo notevole,
sotto l'influenza dell'ambiente sociale, delle passioni egoistiche ; 2°
apparizione di qualche forma leggera di
disturbo psichico che però può raggiungere anche il grado di una vera psicosi;
3° ulteriori passi della degenerazione
che per lo più sono rapidi e funesti.
Senza stare ora a ricercare la parte di verità contenuta in tale asserzione del Maudsley, noi ci
crediamo autorizzati ad affermare che la deficienza della simpatia è
indizio di un disordine abbastanza
profondo dell'attività psichica e quindi
anche del sistema nervoso o di tutto l'organismo addirittura. Essa rivela un'anomalia ancora
più profonda che non le tendenze
all’ozio ed alla menzogna, tanto più se
si pensa che l'attitudine alla simpatia ed all'imitazione è un dono che noi abbiamo comune cogli
animali superiori. Si comprende agevolmente che le cause, le quali hanno prodotto un tale effetto hanno dovuto
essere persistenti ed oltremodo importanti. Per noi sono determinate condizioni d'esistenza sociale, le quali
hanno imposto all’uomo civile di mettere in opera tutti i mezzi egoistici
a sua disposizione per poter vincere
nella lotta per la vita che accompagna
l’individualismo. La scuola del successo
non insegna altro che ad appuntare ed affilare le armi dell’egoismo. Non è in una forma determinata
di degenerazione patologica del cervello, ma nelle condizioni d'’esistenza
sociale, specie delle grandi città, che il delinquente può trovare la più forte, quantunque sempre
incompleta, scusa. E le pene applicate
nelle prigioni e nelle case di
correzione sono, com'è noto, completa nente inefficaci a migliorare i colpevoli. E appunto perchè la
miseria è la grande sorgente dell'immoralità
e del vizio, la produttrice dei falli e dei delitti di ogni sorta, s'impone il
dovere di combatterla e di farla scemare quanto più è possibile. La ricchezza,
è vero, rende il cuore duro, si accompagna con l’'avarizia, la cupidigia, la
lussuria, l’accidia e la superbia come
d'altra parte la povertà ha le sue virtù
proprie e la sua grandezza morale particolare, ma chi oserebbe negare che l'estrema povertà e la
squallida miseria sono oltremodo favorevoli al rigoglio della delinquenza e che insieme costituiscono le più potenti
cause per cui l'uomo si dà
all'ubbriachezza, Ja donna alla prostituzione,
onde il bambino, rimanendo privo d'educazione, d'istruzione, di assistenza, di buoni esempi, diviene
precocemente ipocrita, mendico ed anche ladro? E chi oserà inoltre porre in dubbio che la cattiva azione compiuta
nella prima generazione sotto l'impero della necessità e del bisogno passa con molta facilità sotto forma di
tendenza nel sangue della seconda
generazione, presso la quale si esplica anche spontaneamente e naturalmente ? E
chi negherà infine che sopratutto nelle
grandi città, date le orrende condizioni
di abitazione, la perversità e il vizio entrano come elemento necessario
e inevitabile della esistenza ? Da
tutto ciò consegue che una ripartizione più equa della ricchezza, il miglioramento generale
della vita di famiglia e dell’educazione
infantile, l'aumento delle ore di
libertà concesse all’ operaio e l'aumento del suo salario contribuiranno necessariamente a far
decrescere il numero dei criminali e dei
predisposti alla delinquenza ed al
vizio. 3° Ma, si può qui domandare, chi
non ha attitudine alla simpatia, è
perciò stesso condannato alla immoralità, al vizio, è un candidato alla
delinquenza ? A tal uopo prima di tutto
bisogna ricordare quello che noi abbiamo detto di sopra, vale a dire che l’assoluta mancanza della
simpatia è inammissibile, onde deriva che una delle basi naturali della moralità non viene mai a mancare del tutto e
che la sua deficienza può essere
compensata da una cooperazione maggiore degli altri fattori : poi è necessario
intendersi snl significato esatto da
dare alla parola simpatia: se questa è
presa in senso lato, vale a dire come l'attitudine a ricevere qualsiasi
influenza proveniente dal di fuori, di qualsivoglia natura questa sia, se essa
è scelta a designare un rapporto
qualsiasi, anzi la possibilità di ogni rapporto
intercedente tra l'attività dell’individuo e quella della collettività
in cui egli vive, opera e si muove, allora non vi è dubbio che il dominio della simpatia
coincide perfettamente con quello della
moralità, in quanto spirito sociale (simpatia)
e spirito morale sono espressioni che si equivalgono. Ma la simpatia intesa così non può mai mancare:
l’uomo sfornito di spirito sociale è un'astrazione bell'e buona, giacchè la caratteristica dell’uomo sta appunto nel
suo essere intimamente collegato per natura coi suoi simili, come la caratteristica
vera del folle è nell’essersi liberato dai vincoli che legano l'individuo alla società. Ed
ancorchè lo spirito sociale si mostri
alquanto affievolito, non mancano i mezzi
per ratforzarlo, come si vedrà in seguito. Se invece la simpatia è presa in senzo stretto, vale a
dire come l’attitudine dell'individuo a provare sentimenti analoghi a quelli dei suoi simili in seguito alla
percezione dei segni o rlelle
espressioni dei detti sentimenti, allora la debolezza della simpatia non trae
seco l’immoralità : ed è la simpatia
intesa così che se si sorte debole da natura, non può per nessuna via essere rafforzata con mezzi
artificiali di qualunque genere questi siano. Insomma l’attività od il
volere individuale può essere
indirizzato al bene o perchè spintovi
dalla percezione delle estrinsecazioni dei sentimenti esistenti negli
altri, i quali per tale via si riflettono nell'anima dell'individuo, ovvero in
virtù dell’azione esercitata sulla vita psichica individuale dal volere
sociale. L'uomo più o meno
consciamente, più o meno riflessivamente come più o meno intensamente si lascia
influenzare dall'ideale umano, che
rappresenta il prodotto della società
presa nel suo insieme attraverso il corso della storia, anche quando l'attitudine a simpatizzare è
deficiente nell'individuo. Nè può essere
diversamente, se si pensa che ciascun
individuo è legato all'umanità tutta quanta da comunità di natura, di vita, di
bisogni, di tendenze, di principii. L'esistenza dell'individuo è così
strettamente congiunta con quella della società che tuttociò che è favorevole
ad essa torna a vantaggio dell’individuo, mentre soffrendo essa, una parte
delle sue sofferenze ricade necessariamente su quest'ultimo. Interesse
generale, maggior felicità per il più
gran numero, bene supremo son tre espressioni
diverse d'uno stesso principio. Ciascuno sente in modo più o meno vivo, più o meno chiaro che il
bene supremo non ha la sua sede
nell’individuo, ma al di fuori di lui nelle
grandi opere collettive, nei grandi risultati sociali ai quali l'individuo deve collaborare, e su cui ha
anche il dritto di prelevare la sua
parte di benefici. Se non che il bene
supremo non è per il genere umano una proprietà stabile, fissa e
definitiva, un bene acquisito una volta per sempre, ma un ideale non mai totalmente attuato, che
ciascun individuo, anche il più umile deve sforzarsi di far trionfare. Di qui la grande contradizione, l'eterna
antinomia che, come dice lo Ziegler (1)
nessun Dio, nessun miracolo faranno
scomparire : l’antinomia dell'individuo e della collettività, della felicità individuale e della moralità.
Da una parte l'individuo per sua propria
natura tende alla felicità. — dritto
assoluto per lui — e dall’altra il dovere sociale gli prescrive di sacrificare questa felicità al
bene dei suoi simili. Ora ciò che va
tenuto in considerazione è che il volere
sociale ha efficacia sugli individui non solo in quanto havvi tra loro comunità di sentimenti per via
della percezione reciproca delle manifestazioni di questi, ma anche e sopratutto perchè gl’individui son atti a
sentire l’azione dell’ideale sociale per
qualsiasi mezzo ciò intervenga. Da una
parte adattare la propria vita individuale alle esigenze dell'esistenza sociale, compiere il proprio
dovere equivale a salvaguardare nel
miglior modo i proprii interessi e dall'altra
separarsi dai suoi simili, voler brutalmente far trionfare la propria personalità a detrimento di quella
degli altri (il che propriamente costituisce
l'egoismo e la malvagità) equivale a non
possedere nemmeno la felicità individuale,
in quanto la vita di colui che si sente solo è necessariamente vuota e
triste. Tale è l'ordine delle cose, quale risulta non da una legge esterna e trascendente, ma
dail’essenza (1) Ziegler. « La
question sociale est une question morale » trad. fr., Paris, stessa dell'uomo e della società
umana. Tale è il fondamento sul quale
poggia la fede ottimista nel trionfo del bene; trionfo che pur non essendo mai definitivo e
completo, riceve sempre una conferma
dalle lotte che si sostengono e dagli sforzi
che si compiono in suo nome. È
qui il luogo di accennare ai mezzi che devono essere messi in opera affinchè lo spirito sociale si
svolga anche là dove il dono naturale
della simpatia si presenta a mala pena
accennato : e ognuno intende che il primo posto a tal riguardo tocca all’educazione, la quale
deve essere tutta intesa a rafforzare i
rapporti tra l'individuo e la società,
per modo che questa agisca incessantemente e in modo preponderante su
quello, deve essere intesa, cioè, a generare
nell'animo individuale l’intima convinzione che al disopra del proprio volere havvi una volontà ed un
potere d’ordine superiore a cui è impossibile sottrarsi, deve dunque mirare ad abituare l’individuo a sentire il
proprio volere modificato e determinato
da un altro volere superiore. À. tal
uopo va ricordato che nella prima età è su tante piccole cose, su tante minuzie che si edifica
spesso il carattere morale dell’individuo. Gli atti che si eseguono, le parole che si pronunciano in presenza dei
bambini, tutto ha una importanza
grandissima in un'età, nella quale propriamente avviene l’organizzazione della
vita psichica e lo spirito acquista
l'impronta propria (1). Magni interest,
diceva Cicerone, quos quisque audiat
quotidie domi, quibuscum loquatur a puero quemadmodum Bonfigli. Dei /attori sociali della pazzia in
rapporto con l'educazione infantile. Roma 1894. Cicerone, De claris oratoribus. Id. De lege agraria od popul. VIN patres, paedagogi, matres etiam
loquantur. Senza che l’intelligenza difetti, senza che vi sia la cosidetta
anestesia morale, l'individuo, in virtù dell’ educazione si può rendere per abitudine moralmente insensibile,
perchè nell'infanzia le di lui relazioni
coi parenti e con la società non si son volute accompagnare con sentimenti
piacevoli corrispondenti, nè sono state dirette a svegliare in lui interessamento per tutto ciò che varca il
proprio io. Nei casi di mancanza di
affetti, d’anestesia morale spesso l'organizzazione non ha coloa, ma si deve
tutto a circostanze esteriori, delle quali tocca all’educatore tener
conto. « Von tngenerantur hominibus,
diceva anche Cicerone, mores tam a
stirpe generis et seminis, quam er its rebus,
quae ab ipsa natura loci et a vitae consuetudine suppeditantur. La volontà, come tutte le funzioni
psichiche, può essere coltivata e
condotta a maggiore sviluppo mediante l’esercizio: onde nei bambini hanno
un'importanza speciale gli esercizii di
detta facoltà. Il Perez ha scritto
pagine importantissime su tale argomento, insegnando al pedagogista come anche
nelle più piccole circostanze questi
possa trovare il modo di esercitare nel bambino questa nobile attività dello
spirito. Noi non terremo dietro al
citato autore nell’ indicare i varii
mezzi con cui la volontà può essere ratforzata: diremo solo che egli molto opportunamente not a che
le decisioni e ie convinzioni del
bambino sono /ragilissime, non tanto per
la sua inesperienza quanto per la sua impulsività (data la poca coordinazione, la diversità e
il numero relativamente piccolo dei motivi che spingono all'azione) e per aL ansi ——rr iz _la debolezza relativa del
cervello e dei muscoli, ond’è bene che
gli esercizii della volontà siano fatti quando essa non è stanca e quando il bambino è fresco e
vivace. Ciò sopra tutto riguarda gli
esercizi della cosi detta volontà repressiva, in cuì si concentra la forza
d'inibizione. Il fatto d'inibizione
incosciente per cui i gridi di dolore di un
bambino vengono arrestati da un rumore improvviso, c’insegna come si
debba da noi esercitare nel miglior modo
questa specie di volontà repressiva. Così potremo arrestare ì movimenti di collera in un bambino,
producendo in lui un nuovo stato di
coscienza, mercè una sgridata; e fra
quei due stati si stabilisce un'associazione che rende più facile l'arresto nell’ avvenire. Nello stesso
modo si può esercitare la volontà repressiva, facendo si che il bambino moderìi l’ istinto della fame e della sete
col prestare attenzione ai preparativi che si stanno facendo pel desinare e così via dicendo. « È cosi — dice il Perez
— che la ‘ volontà comincia a poco a
poco e dolcemente, a trionfare degli
istinti più potenti ed a sopportare le punizioni più penose ».
Oltrechè con i mezzi che si possono dire derivatici e in certo modo preliminari, applicabili
specialmente ai bambini di minore età,
la volontà viene e rafforzata favorendo certi dati sentimenti, quali l’ amor
proprio, l'amor dei parenti, l'orgoglio
di far bene, ecc. e lo svolgimento di
determinate facoltà quali l’attenzione e la riflessione. Il vivere nella famiglia, il conversare coi
parenti e coi compagni, la società
intera, le leggi civili ecc., debbono
concorrere coll’esempio, coll’approvazione e disapprovazione, coi comandi, coi divieti, coi premi, coi
castighi a produrre nel giovine la convinzione che la sua propria volontà
è sotto l’azione di un'altra volontà
d’ordine superiore. Importantissimo sotto questo rispetto è l’influsso della
religione: perocchè il rappresentarsi certe azioni come approvate o
disapprovate, prescritte o vietate, premiate o punite dal più alto e perfetto
degli esseri, dal potere e dalla santità
suprema, non può a meno d'imprimere nei sentimenti relativi una forza, una
profondità, un carattere sacro ed
inviolabile che senza questa credenza difficilmente a vrebbero.
Se poi sì considera come la prima relazione morale che si presenta tra i genitori e il fanciullo è
quella dell'autorità da un lato, della
dipendenza, soggezione dall'altro, s'intende facilmente che il primo passo
nella via di questo svolgimento è dato
dall’obbedienza da parte dei bambini. Per ottenere tale virtù varî sono stati i metodi posti in
opera dai filosofi. e pedagogisti. Così
Locke aveva fiducia nell'amore e nella’
paura, Fénélon nell’ autorità, Rousseau nell’efficacia degli” ordini e delle proibizioni, fondati entrambi
questi sulla necessità delle cose e
sull’effetto morale prodotto dalla
conseguenza naturale degli atti, Spencer parimenti nella teoria disciplinare delle conseguenze, Bain
nella paura temperata dall’ affetto,
nell’ autorità che s'impone persuadendo, e talora anche nella correzione e
Perez ed altri nell'azione del piacere e
del dolore adoperati insieme da chi presso il bambino gode di simpatica
autorità. Noi crediamo che nessuno di
questi mezzi sia sufficiente se
adoperato in modo esclusivo; tutti devono esser messi in opera nei casì in cui la simpatia naturale si
presenta debole; ma certamente la preferenza tocca a quello dell’autorità,
purchè questa sappia mostrarsi fornita di pregio e di valore agli occhi del bambino. Il segreto sta
tutto qui: nel sapersi imporre al
bambino non con la semplice forza, ma
con questa circondata da tutte le doti atte a suscitare l'ammirazione e l'interesse, ed anche la
curiosità di lui. Sicchè nei casi suaccennati
l’educazione morale ha bisogno del soccorso delle rudimentali tendenze
estetiche ed intellettuali del bambino.
È naturale che un individuo sfornito anche di queste non entra più nel dominio
normale, ma in quello prettamente
patologico. Chi pone una barriera
insormontabile tra un individuo e
l'altro dal punto di vista dello spirito e considera oghi forma di attività spirituale come
esclusivamente legata al corpo
dell'individuo ed anzi ad un punto dello stesso corpo si chiude la via per poter intendere la
realtà dello spirito sopraindividuale
che non riconosce la sua base negl'individui
come tali, ma nelle associazioni di questi e insieme si chiude la via per intendere l’azione che può
esercitare lo spirito collettivo nelle
sue varie forme su quello individuale,
Eppure è un fatto che dalla vita puramente organica si è svolta una vita
sopra-organica, il cui primo grado è rappresentato dalla famiglia, composta di individui o
membri che sono parti dello scopo a cui
tende quella forma collettiva e insieme mezzi appropriati a raggiungere lo
stesso. E questa associazione spirituale
degli uomini non sì presenta come un‘
aggregato, nel quale l'individuo rimanga immutato nelle sue proprietà, ma come un sistema per cuì egli
acquista caratteri che diversamente non avrebbe mai ottenuto. Le potenze
superiori dello spirito della vecchia psicologia descrittiva (ragione, volere,
ecc.) sono da riguardare appunto
è quali facoltà psichiche
acquisite solo per mezzo della vita
sociale, a differenza di quelle inerenti propriamente all’individuo che
sono di ordine inferiore (intendimento, appetito, ecc.). L'uomo pensa il suo istesso pensiero e
lo sottopone a norme universali, come
valuta il suo volere rapportandolo alle
leggi morali; e ciò perchè egli ha, per così dire, una doppia vita interiore, una individuale ed una
comune cogli altri uomini, la quale
ultima è sopra-ordinata all'altra.
Riassumendo, quando la simpatia (intesa in senso stretto) è debole, l'educazione morale può essere
sempre compiuta a patto che il bambino
venga abituato a sentire la sua propria
volontà influenzata da una volontà d’ordine superiore. A ciò conseguire è
necessario che sia lbene fissato un
peculiare rapporto implicante autorità da una parte e soggezione dall'altra : rapporto che alla sua
volta non può divenire stabile e
regolare se non sotto la condizione essenziale che l’autorità, l'energia si
circondi di una certa aureola atta a
rispondere alle rudimentali esigenze este
tiche ed intellettuali del bambino.
È evidente però che l'educazione non potrebbe mai produrre simili
etfetti, se non esistesse in ogni uomo (a prescindere dall’attitnnine alla
simpatia affettiva) il germe della
moralità, vale a dire l'attitudine ad avere ed a sentire la propria volontà in
dipendenza di un'altra volontà :
attitudine che, come si è visto, costituisce l'essenza propria dell’uomo qual’essere ragionevole e
socievole. L'educazione non può creare
la moralità allo stesso modo che
l'educazione artistica non potrebbe creare il senso del bello e l'educazione del palato il senso
del gusto in chi da natura ne fosse
sprovvisto. Quello che noi abbiamo T
-—Tr_r*—0- T Da quando sì cominciò a
riflettere sui vari poteri dell'anima umana, si notò che almeno due grandi
categorie di attitudini — passive o
recettive le une, attive o appetitive le altre — bisognava assolutamente
distinguere. Nè poteva esser
diversamente dato il fatto che ogni processo
psichico realmente presenta due aspetti, quello recettivo da cui germogliano tutte le funzioni
conoscitive e quello attivo da cui
germogliano le varie fore dell’attività pratica. Lo spirito umano d'altra
parte, spinto dalla tendenza a tutto
unificare ed armonizzare, a misura che progredi nella riflessione e nella speculazione, cercò di
isolare i caratteri e le proprietà
comuni ad un complesso di fenomeni nella
credenza che in questi prodotti della sua facoltà astrattiva potesse trovare i principii veri delle cose:
nè si curò di vedere se i detti elementi
comuni esprimessero altro che caratteri
puramente formali. Onde avvenne che fin nella
filosofia greca noì troviamo itentativi più audaci per porre il principio di tutti i principii in qualcosa
di puramente formale : cosi per
Aristotele il fondo dell’universo è il movimento, mentre per Platone,
segnatamente nel Fedone, è il mondo
delle idee concepite come forze, e in tutto il
corso della storia della filosofia noi troviamo sempre ripe (1) Questo Saggio che ora rivede qui la luce
con molte modificazioni ed aggiunte, fu
pubblicato la prima volta col titolo “ Il fattore della motilità nelle dottrine gnoseologiche moderne,
nei Rendiconti dell’ Accademia dei Lincei. tute queste due intuizioni in modo
più o meno chiaro ed evidente. L'attività, ecco la formola atta ad
esprimere la sostanza dell'universo.
Ognuno vede che l’attività, la forza, il movimento essendo concetti puramente
formali potettero essere applicati agli usi più disparati in rapporto al
vario contenuto ad essi attribuibile. Da
tal punto di vista gli assiomi logici
furono considerati impulsi atti a muovere
la mente in date direzioni, impulsi che se ostacolati producono un senso
di disagio, il quale alla sua volta cessa
coll'appagamento di quelli. Il pensiero adunque fu ridotto al tentativo di soddisfare ad un impulso
speciale incitante ad una forma di
movimento spirituale diretta a produrre
appunto l'appagamento e quindi la quiete. È evidente che in tal caso le parole tendenza, movimento,
impulso, ecc., hanno un significato
differente da quello in cui sono ordinariamente
adoperate per indicare mutamenti nelle relazioni spaziali, ovvero mutamenti nei rapporti della vita
pratica. Ciò che va notato è che noi
abbiamo degli impulsi, delle tendenze di
natura differentissima, i quali vengono poi aggruppati in una sola categoria soltanto per mezzo di un
carattere espresso dal nome, il che, è
evidente, non basta per dichiarare identico
e neanco affine il contenuto delle cose che si vogliono significare.
Certamente voi potete esprimere il processo intellettuale per mezzo di una
tendenza al movimento, ma in tal caso
dovete ricordare che si tratta di un movimento di ordine speciale ; infatti l'imperativo logico
può assumere la forma di « opera così »
ma l’ « opera così » equivale in tal
caso a « pensa così » e il « pensa così » significa « è così >»; l'imperativo pratico « opera
così » invece non mira all'affermazione della realtà, ma solamente al raggiungimento
dello seopo speciale prefissosi a cui è inerente l'appagamento. Se io non sono soddisfatto dal
punto di vista teoretico, se io cioè non
ho operato in conformità delle leggi
logiche la cosa non sta in realtà come mi appare, ma se io non sono soddisfatto
dal punto di vista pratico la stessa
conchiusione è evidente che non è ammissibile ; in altri termini
l'insoddisfacimento pratico non implica
alcun giudizio sulla realtà, ma soltanto sul valore di essa.
Quando adunque in filosofia si parla di attività, di forza, di energia, di movimento come di concetti
atti a darci la chiave per risolvere i
più ardui problemi, in sostanza non si
dice nulla di concreto e di determinato; vi è sempre luogo a domandare in ogni singolo caso in cui
una di tale parola è adoperata, di che
sorta di attività, di che sorta di forza
s'intenda parlare. E forse il fascino che spesso tali espressioni esercitano sui metafisici
dipende appunto dal vago e dal nebuloso
che esse contengono, onde ognuno vi può
sottintendere ciò che vuole. In ogni
modo l’analisi di dette nozioni, per quanto vaghe ed indeterminate, meritava di
esser fatta; e in questi ultimi tempi la
psicologia esatta, e la teoria della conoscenza hanno cercato di rispondere «
tale esigenza, col ricercare la loro
origine e gli elementi concorrenti alla
loro formazione. Il concetto che più degli altri ha attirato l'attenzione dei filosofi è stato quello di
forza o di attività, la cui base psicologica è stata riposta nel cosidetto senso muscolare. Pertanto questo ha formato
oggetto di studi accuratissimi da parte
dei psicologi e dei fisiologi in modo che senza tema di esagerare si può
affermare che tale ordine d’indagini
forma una parte interessantissima della
psico-fisiologia moderna. Noi ci proponiamo appunto di ricercare che valore abbia effettivamente
il senso muscolare per sè considerato e in rapporto ai vari uffici che gli si vogliono attribuire per lo svolgimento
della vita psichica in genere.
Cominciamo dall’indagare la natura delle
sensazioni muscolari. Le
sensazioni muscolari. Esistono le
sensazioni muscolari? Parrà strano, ma pur troppo è così; dopo tanto discutere
sull'ufficio delle sensazioni muscolari nello sviluppo della psiche umana,
ancora c' è bisogno di porre il problema
circa l’esistenza di esse. È già da molto
tempo che la questione delle sensazioni muscolari è dibattuta, sia in
fisiologia che in psicologia ; e anche coloro
che concordano nell’ammettere tali sensazioni sì scindono per quel che concerne la natura e la sede di
esse: si ha così la teoria
dell'innervazione centrale (Bain, Wundt, Ludwig
ecc.) e quella dell’ innervazione periferica ovvero la teoria efferente o centrifuga e quella afferente o
centripeta : secondo la prima, all'esecuzione del movimento precederebbe la coscienza dell'impulso dato e dello sforzo
fatto per compiere il movimento stesso: e sostrato di tale coscienza sarebbero i centri e i nervi motori, la cui
funzione precedente all’ esecuzione del
movimento non potrebbe non rivelarsi
alla coscienza. In favore di tale opinione parlerebbe massimamente la
coscienza che si ha dello sforzo per muovere vn arto paralitico. Stando alla
seconda opinione, il senso della forza
sarebbe dato dai nervi sensitivi che dai muscoli e dalle placche esistenti tra
i nervi e i muscoli trasmettono ai centri notizia delle varie condizioni in cui
i muscoli si possono trovare prima e
dopo la contrazione e dopo una fatica
maggione o minore. In favore di tale opinione
starebbero poi le osservazioni (Gley e Marillier) cliniche e sperimentali, le quali provano che con un
arto paralitico non è possibile valutare
nè il peso nè la direzione dei movimenti, nè la posizione degli arti,
semprechè, bene inteso, gli occhi siano
bendati. Qui dobbiamo notare che l'opinione del Wundt si è andata modificando ed ormai egli non ammette più la
coscienza pura e semplice della
innervazione centrale, ma per conciliare in
certa maniera le due vedute, egli è d’avviso che il senso dello sforzo da principio fu di origine
prevalentemente periferica, e come tale
trasmesso e registrato nei centri cerebrali; ma poichè si trova connesso
coll’immagine del movimento compiuto, è
naturale che riproducendosi quest’ultima, si debba presentare anche l’imagine
mnemonica delle sensazioni muscolari che
l'hanno per l’innanzi accompagnata. In tal guisa sarebbe spiegabile come il senso dello sforzo e la
misura della forza necessaria precedano
l'esecuzione di un dato movimento. Del
resto la questione non è definita in modo decisivo, ed anche oggi si pubblicano dei lavori in
appoggio dell’ una e dell’ altra tesi.
Parrebbe, ad esempio, dalle ricerche di
Mosso e di Waller, che il senso della fatica non sia solamente di origine periferica, tanto più che volendo
ridurre quella ad una forma di
avvelenamento, è naturale che quel medesimo veleno, il quale agisce sulle
terminazioni periferiche nervose, possa agire anche sui centri da cui deve partire l'impulso. Il Waller applica i
risultati ottenuti dagli esperimenti
fatti sul senso della fatica allo studio
del senso dello sforzo, comunque questo sia una sensazione che accompagna l’ azione muscolare, mentre la
fatica una sensazione chè segue l'
azione muscolare : esse hanno però una
causa ed una sede comune. La fatica, stando ai risultati offerti dal Mosso, si
manifesta con segni tanto centrali che
periferici : se l'attività volontaria di un muscolo è protratta fino al suo limite estremo,
l'eccitazione diretta del muscolo può
farlo agire ancora, il che prova che l’esaurimento centrale interviene prima
dell’ incapacità ad agire da parte del muscolo : donde si è dedotto che se
la fatica è dovuta ad ogni esaurimento
tanto centrale che periferico, il senso
dello sforzo del pari accompagnerà tanto
l'attività centrale quanto quella periferica. Vi sarà un senso centrale d'innervazione motrice che aiuta e
regola i movimenti muscolari. Al Waller però si è obbiettato che egli ammette come provati tre fatti, i quali
effettivamente non lo sono: 1° i segni
obbiettivi dell’esaurimento in un data
parte non depongono sempre per il consumo di energia nella medesima parte: gli esperimenti del
Mosso, infatti, provano che il lavoro
intellettuale ol’ attività di alcuni muscoli fa scemare la forza dei muscoli in
riposo ; 2° il senso subbiettivo della
fatica non indica un previo sforzo nella
stessa parte, come vien provato dal fatto che il senso di fatica e di peso nelle palpebre non è niente
affatto proporzionato al lavoro che quest'organo ha compiuto, specie molte volte il mattino, dopo il completo
riposo di quei muscoli; 3° i segni obbiettivi dell’ esaurimento non corrispondono
per il sito della loro origine al senso subbiettivo della fatica, e lo stesso va detto dei segni
obbiettivi dello sforzo rispetto al
senso subbiettivo dello sforzo stesso. Il senso
di fatica non accompagna necessariamente l'esaurimento obbiettivo, nè esso è localizzato dove questo
ha luogo : lo stesso va detto del senso
dello sforzo, il quale, sia mentale o fisico, non è localizzato negli organi
centrali, ma in vari muscoli della testa
e del corpo. Gli oppositori recisi alla
teoria dell’ innervazione centrale vogliono che le sensazioni muscolari non
siano per niente differenti dalle altre
sensazioni speciali; il senso muscolare
per loro è un sesto senso specifico proveniente
dai muscoli che dà il sentimento dell’ attività, come l'’or| gano della
vista dà il senso della luce e del colore. Non
è ammissibile quindi che i centri e nervi motori entrino in simile meccanismo, come quelli che hanno una
funzione diversa, ben definita da
compiere. Il senso della forza e dello
sforzo come precedente al movimento da eseguire, considerato come centrale, è
un'illusione : è dai muscoli che quando
già sta per incominciare il movimento, partono
quelle eccitazioni, le quali danno il senso dello sforzo (1). Se non che molte obbiezioni sono state
rivolte a coloro che hanno ammesso
sen’altro le sensazioni muscolari periferiche. L'argomento che doveva
presentarsi per il primo alla mente
degli oppositori doveva essere quello dell’assen?a di ogni rivelazione della loro esistenza
all’introspezione. Al che i sostenitori
dell’esistenza delle dette sensazioni hanno risposto che essi ammettono solo la
cooperazione, il concorso (1) V.atal
proposito Bastian, “ L’Attention et la colonté,, Recue philosophique. di
elementi muscolari nello svolgimento dei fatti mentali, in quanto i muscoli in contrazione
(contrazione che accompagna i diversi stati psichici) agiscono come
stimoli delle terminazioni nervose
periferiche : la loro esistenza viene
perciò mascherata dai molteplici fatti concomitanti. Allo stesso modo che, secondo James, la sensazione
di rosso non si combina con quella di
violetto per produrre il purpureo, ma i due stimoli agiscono nello stesso tempo
in modo da dar luogo ad un processo
cerebrale di una terza specie, il cui
fatto concomitante è la sensazione purpurea, così noi possiamo benissimo avere una gran
quantità di stati mentali, nei cuì
processi organici concomitanti entrino degli
elementi muscolari, mentre non possiamo dire di avere stati mentali che contengano sensazioni muscolari
come parte della loro composizione. I
processi nervosi derivati dagli stimoli
della contrazione muscolare si uniscono coi processi nervosi provenienti da altra sorgente per
produrre degli stati coscienti che sono
irreducibili, come avviene della
sensazione purpurea quando è considerata per sè. « Gli atomi delle sensazioni, sempre secondo James,
non possono combinarsi per produrre
delle sensazioni più complesse, non
altrimenti che gli atomi della materia non compogono i corpi fisici: è vero che quando essi sono
aggruppati' in una certa maniera, n0: li
chiamiamo questa o quella cosa, ma la
cosa nominata non ha esistenza fuori della nostra mente ». Qui si potrebbe obbiettare che noi
possiamo otte. nere sensazioni separate
del rosso e del violetto, e possiamo
scovrire anche la somiglianza del purpureo con entrambi ì suol costituenti : ora come avviene che noi
non percepiamo gli elementi muscolari come sensazioni separate ? Ma a ciò si risponde che uno stato mentale si
può solamente analizzare e scomporre in quegli elementi che sotto condizioni diverse possono essere
sperimentati come fenomeni separati; vi sono molte ragioni, perchè le
sensazioni muscolari non possano essere
sperimentate o solo con grande
difficoltà. L' esplorazione colla vista e col tatto, che in altri casi aiuta e rende necessario il
processo di localizzazione, qui appare impossibile. Noi impariamo, dice 1’ Hellemholtz,
a dirigere l’' attenzione sopra quelle sensazioni separate, le quali servono come mezzi per
stringere i rapporti col mondo esterno. Ora ognuno vede che non presenta alcun interesse pratico la distinzione delle
sensazioni muscolari come tali, mentre è di grande importanza che le eccitazioni sensoriali provenienti dagli
organi interni si combinino con quelle
dei sensi specifici per formare quei
processi nervosi complessi i cui concomitanti coscienti sono i sensi dello sforzo, della grandezza
spaziale, ecc. D’ altra parte in casì
speciali le sensazioni muscolari si rivelano
all’introspezione : i crampi, la tensione muscolare giunta all'estremo, la fatica ecc. sono sensazioni
localizzate nei muscoli. Infine
Goldscheider ha mostrato che se lasciando
passare per un muscolo anestesico una corrente elettrica, lo facciamo contrarre, abbiamo una certa
sensazione somigliante a quella ottenuta colla pressione del muscolo, e localizzata non in tutto l’arto che si
muove, ma solo nelle parti più
profonde. Un secondo argomento degli
oppositori è questo, che pur ammesso che
nervi sensitivi esistano nei muscoli, questi
serviranno solamente a darci notizia del grado di stanchezza dei muscoli
stessi. Ma qui è facile rispondere che il senso di tensione è molto differente
da quello di fatica e che taluni
esperimenti fisiologici mostrano che l'attività
muscolare diviene presso che impossibile senza la regolarizzazione
apportata dalle sensazioni muscolari.
Un'obbiezione fatta per prima da A. W. Volkmann dice che il senso muscolare può al più darci
notizia dell’esistenza del movimento, ma difficilmente un’informazione diretta
sulla estensione e direzione di questo. Noi non possiamo sapere se la contrazione del supinafor longus
ha un'estensione maggiore di quella del supinator brevis ecc. Qui occorre
ricordare che gli elementi muscolari essendo fusi con altre eccitazioni, non possono essere
riconosciuti come tali e non possono
essere localizzati nei muscoli, da cui traggono origine, ed è perfettamente
vero che in molti casì è impossibile
aver nozione dell'estensione e direzione del
movimento muscolare; associati però con altri elementi sensoriali rappresentativi, possono essere di
aiuto nella determinazione delle differenze esistenti tra i movimenti di varie parti del corpo. Miller e Schumann richiamarono l'attenzione
sul fatto che ad un certo grado
d'intensità dell’ eccitazione nervosa muscolare non sempre corrisponde una
stessa posizione delle membra. « Una stessa pressione sui nervi sensitivi dei muscoli può esistere nel caso
di un grado notevole di contrazione, e di un grado leggero di tensione, come nel caso di un grado leggero di
contrazione con: giunto con un grado
notevole di tensione ». A ciò si risponde che noi abbiamo imparato colla
propria esperienza a distinguere
esattamente tra una pura tensione muscolare non accompagnata da movimento ed
un’ eccitazione capace di produrre il medesimo : e ciò perchè in ogni movimento
le sensazioni sia mmnscolari, che tattili, visuali ecc. differiscono a seconda della resistenza
incontrata da parte degli oggetti
esterni o dei muscoli antagonisti; e tutte le
combinazioni possibili di estensione, resistenza e rapidità sono associate con complessi di sensazioni
differenti. Nel caso della semplice
tensione la resistenza incontrata è minima, mentre è massima nel caso del
movimento attuale: nei due casi le
sensazioni concomitanti a quelle muscoluri devono per necessità essere
differenti; e pur non considerando le sorgenti dei vari elementi sensoriali,
l'impressione totale prodotta dalle loro differenti combinazioni è avvertita e differenziata Se moi avessimo
solamente le sensazioni provenienti dai
muscoli in contrazione l’obbiezione anzidetta reggerebbe, ma il nostro giudizio
è sempre aiutato da elementi provenienti
dai muscoli antagonisti e dalle parti
connesse : pelle, tendini, ecc. Si è
obbiettato che noi comparando i pesi paragoniamo in generale solamente la rapidità dei
movimenti che ne risultano, e pensiamo che il peso leggero sia quello che
più agevolmente sia stato alzato, come
vien provato dal fatto che se un
individuo è stato abituato per qualche tempo
a sollevare alternativamente dei pesi di 600 e di 1200 grammi, solleverà con grande rapidità il peso
di 800 grammi | sostituito a sua insaputa
a quello di 1200 grammi, giudicandolo anzi più leggero di quello di 600 grammi.
Tale fatto contraddice, a sentire.
taluni, non solo alla teoria
dell'innervazione centrale, ma anche a quella secondo cui le sensazioni muscolari c’informerebbero
della resistenza, giacchè se così fosse,
i pesi sollevati con impulso più energico dovrebbero essere maggiori. Se non
che, come si è detto, é l’insieme delle
sensazioni concomitanti che rende
possibile la distinzione tra movimentoe resistenza: è la fissità di
quelle associazioni che produce talune illusioni, quando le condizioni di esperimento non sono
le abituali. Nel riferito esperimento il
maggior adattamento all’ impulso può essere rivelato allo spettatore solamente
per via della maggior rapidità che ne
risulta, ma per la persona sottoposta
all'esperimento la cosa essenziale non è la maggiore rapidità, nè l'impulso
preparato, ma l’accomodamento maggiore
dei muscoli nel momento di sollevare il peso
minore. Si è notato ancora che
la sensibilità muscolare non differisce nel caso che i movimenti siano prodotti
attivamente da quando sono passivi.
Bernhardt dapprima e poi Ferrier e
Goldscheider stabilirono degli esperimenti facendo sollevare dei pesi per
.mezzo della stimolazione elettrica dei
nervi, e trovarono che la valutazione dei pesi è esatta ed accurata ogni volta che il movimento è
prodotto da stimolazione elettrica o riflessa. Inoltre fu sperimentalmente provato che nel caso di movimenti passivi il
minimum dell'escursione percettibile
difficilmente differisce da quello dei
movimenti attivi. Ma ciò non prova nulla contro la importanza delle impressioni muscolari nella
percezione dei movimenti: pure ammesso
che i movimenti attivi differiscano dai passivi non solo perchè l’immagine di
essi precede e produce direttamente i
movimenti, ma anche per molti fatti
concomitanti periferici, in quanto nei movimenti attivi agiscono gruppi più
estesi di muscoli, e vi è un maggior
grado di tensione nei muscoli antagonistici e nei tendini, rimane sempre vero
che nei movimenti passivi gli elementi essenziali per giudicare del grado e
della direzione di quelli non mancano,
ond’è che la ditferenza nei due casi non
può essere grande. Si è cercato di
spogliare quasi completamente di sensibilità i muscoli, attribuendola alle
parti annesse, pelle, tendini, ecc., e
Goldscheider sì è creduto autorizzato ad emettere formalmente una tale ipotesi,
dopo aver constatato che nei casì di diminuita sensibilità delle parti an nesse la valutazione tanto dei movimenti
attivi quanto di quulli passivi
apparisce minore. Certamente la sensibilità
delle parti annesse-è un fattore importante dell’accurata percezioné del movimento, ma non è il solo; e
l’introspezione in dati casi ci rivela così l’esistenza di sensazioni
localizzate puramente nelle parti annesse come delle sensazioni puramente muscolari. L'intervento
delle impressioni provenienti dalle parti annesse può, secondo Delabarre, esser
necessario per distinguere una pura tensione
muscolare da un movimento attuale; ma taluni fatti provano che le
medesime impressioni hanno poco o nulla a
che tare con la valutazione dell’estensione del movimento: di due movimenti p. es. di eguale estensione
è stimato più breve quello nel cui
inizio i muscoli sono più attivamente
contratti : ora le impressioni provenienti dalle parti annesse non
possono spiegare questa illusione, giacchè esse
non differiscono nei due casi, che il braccio sia più o meno contratto al principio del movimento. Miller e Schumann, essendo discesi ai
particolari, hanno negato che le
sensazioni muscolari provenienti dall'occhio
possano spiegare le localizzazioni delicate ed. accurate che noi
facciamo nel campo della vista. Noi certo non abbiamo coscienza dei movimenti oculari come tali, ma
ciò era da aspettarsi riflettendo, che
una tale notizia essendo di poco
interesse per l'individuo non vale a svegliarne ed a fissarne
l’attenzione. Le impressioni muscolari formano un insieme colle sensazioni
della luce ; il che rende debole nella
coscienza non solo la nozione dell'eccitamento di una data parte della retina, e la nozione della
posizione o dei movimento del globo
oculare, ma la nozione di una posizione particolare del punto di fissazione
nello spazio a tre dimensioni. Altri autori finalmente per provare come le
sensazioni muscolari non hanno niente a
che fare colla nostra facoltà
localizzatrice, riferirono il caso di un uomo, il quale era stato completamente cieco per sette anni: se a
costui si volgeva la parola dalla parte
destra, i suoi occhi si muovevano verso
questa parte senza divergenza, ma se gli si parlava da sinistra, si notavano bensi degli accenni
a movimenti associati in entrambi gli
occhi, ma questi finivano poi col restar
fissi nel mezzo delle orbite ; tuttavia il soggetto aveva l’idea che i suoi
movimenti fossero della massima
estensione verso sinistra. Ma i fautori delle sensazioni mascolari hanno
interpretato tale fatto, dicendo che il citato
individuo attribuiva il senso di tensione proveniente da altri muscoli a quelli oculari; cosa che può
avvenire con molta facilità. Dopo aver mostrato per mezzo
dell'esposizione e discussione delle principali obbiezioni fatte all'esistenza
delle sensazioni muscolari, la
possibilità teorica di ammetterle, è giusto ricercare se l’Istologia e la
Fisiologia sul terreno dei fatti e
degli esperimenti siano nel caso di dare
una risposta decisiva, Nel tessuto connettivo superficiale che involge i muscoli furono scoverte delle
fibre nervose sensitive, le quali
terminano nei corpuscoli di Pacini; ma
nella sostanza muscolare contrattile non sono state osservate finora
fibre sensitive; ed ora nessuno crede più alla
scoverta del Sachs. Golgi scovri un organo muscolo-tendineo situato
nella zona di passaggio dul muscolo al tendine, connesso colle fibrille
dell’uno e col tessuto dell’altro e fornito di nervi sensitivi. Il Cattaneo
crede che questo sia l'organo della sensibilità muscolare. Anche le ricerche fisiologiche starebbero a
provare l’esistenza di nervi sensitivi nei muscoli. Sachs afferma che molti dei nervi intramuscolari possono essere
stimolati senza produrre contrazione, e
che dopo la sezione dei tronchi motori
solamente una parte dei nervi muscolari degenera. Francesco Franck avendo ripetuto i medesimi
esperimenti, arrivò alla conchiusione
che i muscoli contengono fibre
centripete. Altri esperimenti mostrano che sì può aver paralisi tanto
tagliando i nervi sensitivi che finiscono nella
regione muscolare, quanto tagliando i nervi motori stessi ; il che prova che la sensibilità è
indispensabile per regolare i movimenti. Bell (1832), Magendie (1841), ed ultimamente
Exner arrivarono al medesimo risultato. Allo
Chauveau però va attribuito il merito di aver provato in modo luminoso che le impressioni sensitive
necessarie alla motilità provengono dal
muscolo stesso ; egli infattì trovò nel
cavallo due muscoli forniti di due branche nervose distinte, l'una sensitiva e l’altra motrice:
A) un muscolo volontario striato, lo sterno mastoideo ; e B) un muscolo
involontario striato, quello dell'esofago: ora la sezione della branca motrice
produce paralisi in entrambe ; la
sezione della branca sensoriale di A) non sospende la reazione agli stimoli volontari, essendo
associata nella sua funzione motrice con
altri muscoli forniti dei loro nervi
sensoriali; la sezione delle fibre sensitive di B) produce disturbo
delle funzioni motrici. La stimolazione elettrica delle fibre sensitive di A) e di B) produce
tetanizzazione o contrazione. Da tutto
ciò il Chauveau dedusse che i muscoli sono forniti di nervi motori e sensitivi,
e che i filamenti terminali dei nervi sensitivi probabilmente non hanno relazione diretta cogli elementi muscolari,
ma contribuiscono a formare le anastomosi preterminali o reti dei nervi motori, dove essi sono direttamente eccitati
dalla corrente motrice: si verrebbe così
a formare un completo circuito sensitivo
motore necessario all'azione dei muscoli.
Volendo riassumere, diremo che le questioni relative alle sensazioni muscolari si riducono
principalmente a due, se esistano delle
sensazioni muscolari e se esse vadano localizzate nella periferia o nei centri
motori. Ora che esistano delle
sensazioni muscolari capaci di farci valutare il peso, la pressione, la tensione, l'estensione e la
direzione dei movimenti, ormai è fuori dubbio: una quantità di esperimenti lo provano, e d'altra parte è naturale
supporre che la funzione muscolare si riveli in qualche maniera alla
coscienza, come tutte le funzioni degli
altri organi corporei in un modo più o
meno vago e indeterminato. Certamente quando si
parla di sensazioni muscolari non bisogna credere che esse provengano esclusivamente dai muscoli ; è più
ragionevole pensare che secondo i casi, con esse si denoti un complesso di sensazioni provenienti da parti
differenti. Già il Lewes notava che la
sensibilità cutanea ha una parte importante
nella coordinazione dei movimenti tanto che un'anestesia provocata nella pianta dei piedi può dar
luogo (cosa notata anche dall'Heydt) a fenomeni d'incoordinazione muscolare. Ma
anche senza seguire il Lewes, il quale ammetteva le sensazioni muscolari come
provenienti: 1° dagli impulsi motori; 2°
dalle intuizioni motrici; 3° dalle contrazioni muscolari vere e proprie; 4°
dagli effetti di queste contrazioni
sulla pelle; 5° dalle coordinazioni muscolari, cioè dalle sensazioni che
suggeriscono o accompagnano i movimeuti ideali non eseguiti e quelli reali, è
indubitato che quando si parla di sensazioni muscolari dobbiamo sempre
intendere un insieme di sensazioni di origine
diversa. D'altra parte è
possibile ammettere senza alcuna riserva
l'opinione di coloro che vogliono fare del senso della forza, come del senso della fatica un senso
specifico proprio dei nervi centripeti
muscolari? È ciò che vedremo orora passando ad esaminare i vari uffici
attribuiti al senso muscolare. Per mezzo di questo infatti si è voluto dar
ragione del senso peculare di energia
interiore, della valutazione
dell’intensità, della genesi psicologica delle rappresentazioni di movimento, di tempo, di spazio, e della
percezione della realtà esterna. Si è
tentato adunque per prima di derivare dalle sensazioni muscolari il senso di energia o la percezione
dell'attività inferiore sotto qualunque forma si presenti. Si è detto: ad
ogni sensazione e percezione segue in
modo reflesso un movimento, ossia una contrazione muscolare, la quale di
rimando trasmette al centro le notizie
circa le modalità della sua contrazione,
trasmette cioè le sensazioni muscolari afferenti o ceutripete: queste poi si
associano intimamente colle sensazioni
provocatrici dei movimenti conservandosi e registrandosi in appositi centri
cerebrali. Da ciò consegue che al
presentarsi di una sensazione o percezione identica o simile alla primitiva, per associazione si
ridestano le immagini dei movimenti
compiuti, immagini che, guidando i
movimenti da ripetere, costituiscono l’essenza dello sforzo. Va notato qui che un tale schema ha subito
molte variazioni da parte dei fisiologi e dei psicologi (1): recentemente, p.
es., si è negato financo che nella corteccia cerebrale esistano dei centri
psico-motori, la zona rolandica a cui
era stato per lo innanzi attribuito tale ufficio, conterrebbe solamente i
centri delle sensazioni muscolari. I
centri motori, alla cui funzione è stato negato in modo assoluto (contro
l'opinione segnatamente del Bain) la possibilità di divenire cosciente, sono posti nella base
del cervello e (1) Per una chiara e
precisa esposizione dello stato attuale della
questione v. Bastian, I Attention et la Volonté, * Revue philosophique. nel
bulbo. C'è però chi (Ferrier), pur escludendo la coscienza (come tali scienziati dicono) dai centri
motori, ammette nella corteccia
l'esistenza di centri motori puri a fianco a quelli cinestesici. Questi ultimi poi per tutti non
si troverebbero solamente in una
determinata regione corticale del cervello
ma frammisti ai vari centri sensoriali (1). Sicchè tali psicofisiologi
credono di poter ridurre le funzioni psichiche
fondamentali ai movimenti reflessi, senza punto dar importanza a taluni
fatti che evidentemente contradicono
alla loro opinione, come per es. l'insorgenza di taluni movimenti
spontanei, che non si possono in alcun modo rapportare a stimoli esterni, e
l'impossibilità di spiegare per via del
puro meccanismo i movimenti reflessi rispondenti ad uno scopo, in mezzo ad una molteplicità di
stimoli esteriori. A ciò sì aggiunga che voler dare ragione dell'attività
psichica vera e propria, fondandosi sulla fisiologia, è impresa presso che disperata, giacchè senza
l’osservazione interiore, quella sola del sistema nervoso non ci potrà mostrare che dei mutamenti molecolari, non
mai psichici. Ma anche lasciando da
parte tali considerazioni, il senso
muscolare può dar ragione di quella forma di attività interiore che si
esercita sul corso delle nostre idee ? Molti
:1) L'origine della forza adoperata a produrre le contrazioni muscolari
appropriate dovrebbe essere cercata, secondo tale teoria, nell’attività
molecolare dei centri sensitivi e cinestesici. Ed in appoggio si riferisce il caso di persone, che volevano,
ma non potevano eseguire con successo
certi movimenti d’elocuzione in seguito alle impressioni visuali appropriate e tuttavia conservavano
la facoltà di produrre questi movimenti
in risposta ad eccitazioni uditive corrispondenti. D'altra parte si racconta di persone incapaci di effettuare
i movimenti della scrittura quando lo
stimolo era uditivo, mentre erano capaci di compiere immediatamente gli stessi
movimenti in risposta alle impressioni visuali.
tra i quali il Ribot, il Richet ed altri, non esitarono a rispondere in modo affermativo, ma altri più
circospetti dovettero concedere che il
senso muscolare non è un fattore costante dell’attività interiore, soggiungendo
però che quest'ultima in tanto si rivela
come tale alla coscienza, in quanto
mediante la riflessione e la memoria è messa in
rapporto con sensazioni muscolari in antecedenza provate. Ognuno' però vede l'errore che è in fondo a
questa affermazione: la riflessione e la memoria non possono mutare
qualitativamente nessun fatto psichico. Inoltre le sensazioni muscolari possono
solamente essere un indice dell'intensità della volontà, allo stesso modo che
in un atto di scelta la forza dei motivi
in contrasto guida il nostro giudizio
sull’intensità della volontà chiamata et scegliere : ma esse non possono mai dar ragione del caso
semplicissimo in cui una rappresentazione per la prima volta ecciti l’attenzione. Coloro che hanno riposto l'essenza della
volontà come di ogni attività psichica
nelle sensazioni muscolari, non si sono
mai domandati, perchè noi consideriamo (il che è un fatto) un'azione, un movimento, o una
contrazione muscolare come voluta, ma non come parte essenziale della volontà,
dal che sì deduce che le sensazioni che accompagnano la contrazione muscolare
non possono essere comprese quali elementi della volontà : è ciò che precede
ad esse che forma il nocciolo
dell’attività. Non basta : Perchè alle
rappresentazioni dei movimenti, si può domandare, non sempre tengono dietro i movimenti
effettivi corrispondenti? È vero che Miinsterberg risponde che in tali
casi un impulso più forte impedisce a
quelle di effettuarsì : ma donde e in che consiste questo impulso più forte? E
qui l'opinione del Miinsterberg si
confonde con quella dello Spencer e
dello Steinthal, i quali alla lor volta non possono dar ragione del disaccordo
che si nota spesse volte tra la
rappresentazione di un movimento e la sua esecuzione, del perchè anche
nell’assenza delle condizioni di arresto, non sempre una rappresentazione di
movimento produce un movimento reale, e
del perchè fra molteplici rappresentazioni di movimento anche non contradicentisi
fra loro, una sola riesca a produrre di preferenza un movimento effettivo. Senza dire poi che
rimane sempre da spiegare in che
propriamente consista l'arresto. Il
senso di energia non rivela una qualità particolare del mondo esteriore come, poniamo, il suono,
la luce, ecc., ma è essc stesso una
qualità generale, applicabile a tutto il
contenuto della vita psichica. E in ciò proprio, secondo noi, sta la ragione principale per cui il
senso di forza non può avere un organo
speciale, nè può appartenere alla proprietà della nostra mente che si chiama
rappresentativa. Nessuno penserà mai di
applicare una sensazione tattile o
luminosa ad una sensazione sonora, ma tutti crederanno di poter applicare la nozione di forza ai
vari elementi psichici: dal che si
deduce che una tale nozione ha la sua
base in una proprietà generale di tutta la psiche, la quale proprietà come la vita, si rivela
immediatamente alla coscienza. Coloro
che hanno creduto di poter ricondurre il senso
di forza alle sensazioni muscolari, non hanno in alcun modo provato come queste possano ottenere il
privilegio di divenire regola e misura
di tutte le sensazioni. Se esse sono sensazioni come le altre, se esse hanno i
medesimi caratteri, non potranno dare
che effetti affini, vale a dire. una
notizia più o meno precisa delle impressioni che si producono nelle parti periferiche, in cui
vanno a finire le terminazioni nervose.
Da ciò al poter salire al grado che
occupa nella nostra coscienza e nel nostro sviluppo psichico il
sentimento di energia molto ci corre: non basta che talune sensazioni variino in una certa
maniera ed in minor grado rispetto ad altre con cui sono in stretta relazione,
perchè le une diventino misura delle altre. Quelli che hanno attribuito alle sensazioni
muscolari l'ufficio di divenire forma di
tutto il contenuto psichico non hanno
riflettuto che perciò stesso venivano implicitamente ad ammettere
un'attività o spontaneità interiore, capace di ordinare e disporre in una certa
guisa taluni fatti psichici rispetto
agli altri. L'attività interiore non
diviene cosciente solamente in seguito
alle sensazioni muscolari, ma anche in seguito a tutti gli altri fatti psichici, dai più
semplici ai più complessi, nei quali la contrazione muscolare non ha niente
a che fare. La vivacità con cui
irrompono nella fantasia di un artista
le imagini di cui egli compone l’opera d'arte e
le varie forme d'intensità con cui reagisce lo spirito agli stimoli esterni sono altrettante modalità con
cui si rivela alla coscienza l’attività
interiore. I’altronde la tendenza ormai
accentuata a spiegare il senso dell'attività per mezzo delle sensazioni muscolari ha un fondamento
solido, positivo, sperimentale, o non è piuttosto un'ipotesi comoda per velare la nostra ignoranza ? Oramai è notorio
che taluni psicologi attribuiscono alle
sensazioni muscolari tutto ciò che non è spiegabile per mezzo delle altre
sensazioni periferiche e in ciò sono seguiti dagl'inesperti, i quali non si domandano se le sensazioni provenienti da
organi come i muscoli possano dare tanti
effetti strordinari. L'argumentum crucis di tali scienziati in fin dei conti è
che se un individuo è reso privo della
sensibilità nei muscoli di un arto, non’
può valutare nè il peso, nè l'estensione, nè
la direzione dei suoi movimenti e nemmeno la forza necessaria per
compiere questi ultimi. Ma, domandiamo noi,
è lecito da un tal fatto dedurre che il senso della furza e dell'attività
è dato dai muscoli senz'altro ? Un tal ragionamento non somiglia forse a quello per cui si
considera il pensiero una funzione del
cervello, sol perchè pensiero e cervello
mostrano di essere in connessione fra loro ? Se ciò fosse esatto, si dovrebbe dire che l’idea è una
funzione o un effetto della parola, sol
perchè l’idea e la parola che l’esprime sono intimamente connesse fra loro. A
noi sembra più positivo affermare che
l’attività dello spirito, come la vita,
lungi dall'essere riposte in una parie sola dell'organismo, compenetrano tutto
quest’ultimo ed hanno bisogno di esso
per attuarsi, deterininarsi e concretarsi, come l’idea dell’artista ha bisogno della materia (marmo,
colore, ecc.) per tramutarsi in qualcosa
di reale. Noi certo non possiamo dire,
come credette Maine de Biran ed altri,
di aver coscienza immediata dell’energia in
quanto motrice, ma semplicemente in quanto mentale, cioè in quanto sforzo di volontà per produrre un
mutamento di stato : sforzo mentale che
si accompagna 1° con una scarica cerebrale
di cui si ha un sentimento particolare
(senso di sforzo cerebrale); 2° con una corrente centrifuga attraverso l'organismo, della quale non
abbiamo coscienza; 3° con movimenti
muscolari che ci sono noti per via di
sensazioni afferenti. E ciò che esiste nella coscienza non è il movimento come mutamento di relazione
nello spazio, ma il principio reale del
movimento, il suo fondo interno, cioè
un'azione od una reazione che ha per conseguenza dei cambiamenti interiori e dei cambiamenti
locali. Il movimento effettuato è una rappresentazione della memoria, la quale ha bisogno di essere interpetrata. Coloro che credono di poter fare a meno di
ammettere una forma di attività
originaria dello spirito, credono di
poter spiegare l’azione che ha la volontà sul corso delle idee mediante le ordinarie leggi
dell’associazione. Essi dicono p. es. : se noi intendiamo di modificare. o di
mantenere o di sviluppare una serie di pensieri determinati, noi non dobbiamo far altro che richiamare per via
di associazione quelle impressioni che ci sembrano utili al nostro scopo : impressioni di natura differente, se
si tratta di cacciar via o d'interrompere un seguito di ricordi, della
stessa natura quando noi desideriamo di
fortificare e di sviluppare le associazioni, alle quali ci siamo fino allora
applicati. Jl sentimento di sforzo per costoro è connesso col conflitto delle
idee e dei motivi, il quale deve produrre la preponderanza di uno di essì. Tale
sentimento di sforzo nou può che essere
l’appannaggio dell'attività dei centri sensoriali e dei loro annessi
concorrenti all'esercizio dei nostri processi intellettuali. Ognuno vede qual'è
l'errore di ‘ coloro che ragionano nel
modo sudetto ; essi elidono la difficoltà che è riposta appunto nel dover dar
ragione della nostra capacità di richiamare in soccorso quelle impressioni che
ci fanno comodo (1): essi ammettono come provato quello che era appunto da provare, la
possibilità di dire « io voglio », e
quindi di interrompere un dato corso di
idee e di cominciarne un altro o di sviluppare quello già esistente. Nel passaggio dallo stato di-
distrazione a quello di attenzione vi è
aumento di lavoro, vi è dunque trasformazione di forza di tensione in forza
viva, di energia potenziale in energia attuale : ora è questo un momento iniziale
molto differente dallo sforzo sentito che è un effetto. Il rapporto del desiderio colla sensazione
piacevole o dolorosa costituisce la reazione della volontà ed in quanto noi riteniamo ciò che è piacere e respingiamo
ciò che è dolore abbiamo un senso di sforzo volontario, di sforzo mentale che è ben altra cosa dello sforzo
ordinariamente sentito. Tale momento
iniziale è precisamente la volizione, la tensione del desiderio dominante, la
vera attenzione : è qui la coscienza
dell'attività; mentre il preteso sforso sentito
non è che la sensazione della resistenza degli sforzi contrari al nostro
e differenti da esso. La coscienza della passività o della resistenza subita
risponde alle sensazioni venute dai muscoli. Cosi anche l’attenzione muscolare
non è che quella, la quale, avendo
incontrato una resistenza, è obbligata a
riflettersi su sè stessa, divenendo più chiara,
più distinta, come nota il Fouillée (2). Non ogni forma (1) In tanto lo spirito, dice Emanuele
Hermann Fi.:hte, può prenlere un dato in'lirizzo,
in quanto può volgere il «sorso dell: sue idse nel senso che maggiormente lo interessa ; ora
l'interesse non è che una tendenza, una
direzione «dell'attività volitiva che se si trova in rapporto soltanto col g‘ado di chiarezza cosciente può essere
chiamata attenzione volontaria
dipendente dall’intenstà di dati fatti psichiri. 2) V, « Revue phlosoqhique. d'attività però
si può ricondurre alla ripercussione dell'ostacolo. Non va dimenticato che l’attività di cui
abbiamo coscienza in modo permanente in mezzo a’ tutti i mutamenti può essere rappresentata da noi solo dopo che
è stata apapplicata a produrre determinati effetti, nel qual caso diviene tale
o tal altro sforzo ; e di ciò si comprende la ra | gione: l’azione, rappresentando il fattore
subbiettivo che concorre alla produzione
di un fenomeno, è cosa soggettiva per
sua natura e deve quiudi sfuggire alla rappresentazione propriamente detta. Volersi rappresentare
obbiettivamente l'azione subbiettiva è
come voler rappresentarsi l’attività
sotto la forma della passività. Ferrier e Ward dissero già che non è esatto nemmeno affermare che noi
ignoriamo i caratteri dell'attività,
giacchè non vi può essere ignoranza se
non di ciò di cui si può acquistare scienza: questo noi possiam dire, che abbiamo coscienza immediata
del subbiettivo, dell’attività. Del resto valenti filosofi affermarono le mille volte che la critica della
conoscenza riconosce due limiti, ciò che
è troppo lontano da noi (Assoluto) e ciò
che è troppo vicino a noi, troppo noi stessi per esser posto dinanzi a noi. Il soggetto è presente a sè
stesso, ma non è rappresentato a sè
stesso: noi siamo certi di esistere e di
vivere, ma non possiamo rappresentarci in modo astratto e generale che cosa è esistere e molto meno
che cosa è vivere. È Münsterberg, se non
andiamo errati – Grice: “In fact, the first was Cicero!” -- , il primo ad emettere l'opinione che l’unico fondamento
psichico delle nostre misure d’intensità
è la sensazione mus colare, in quanto ogni
misura riflettendo o la estensione, o la
durata o la massa, la stessa non è possibile che sulla base della sensazione muscolare.
Misurare è constatare l’esistenza in maggior quantità nel tutto, in minor quantità nelle parti di un elemento identico;
ora in ogni percezione la sensazione
muscolare è il solo elemento che quando
si divide in parti l'oggetto della percezione stessa, sì ritrova in ciascuna parte, ma in minor
quantità che nel tutto. Ciascun pezzo di
carta rossa, p. es., dice il citato
autore, resta tanto rosso quanto tutt’intera la carta, e però il rosso del tutto non può essere
misurato per mezzo del rosso di un pezzo
preso come unità. D'altra parte ogni
sensazione provocando una reazione centrifuga muscolare, al solito s'associa con una sensazione
determinata di tensione muscolare che vale a conferirle un dato grado d’intensità
e nello stesso tempo a renderla misurabile. Solo la sensazione muscolare offre il carattere della
sensazione debole contenuta nella forte, giacchè l’una e l'altra non sono qualitativamente differenti, ma differiscono
solo per la durata ed estensione. C'è
stato chi a tale teoria esclusiva e si può dire anche Minsterberg, Beitrige zur experimentellen
Psychologie H. III.Freiburg. eccessiva del Miinsterberg ha rivolto delle
obbiezioni, notando come anche per altre sensazioni si possa dire che la debole è contenuta nella forte (es. :
gusto, odorato, senso terinico ecc.),
tanto è vero che quando uno tocca
l'acqua d'un bagno caldo con la mano prova una sensazione di calore
molto meno forte che quando visi immerge
tutto intero dentro. Inoltre, ed è questa l’obbiezione più seria, se veramente solo le sensazioni
muscolari potessero essere misurate, ne
conseguirebbe che le altre non lo
potrebbero in alcun modo, il che non è; è innegabile, infatti, che vi è l’equivalente di una misura
diretta del calore per mezzo del calore,
come si verifiva quando noi paragoniamo
diversi gradi di calore a cul ci troviamo sottoposti. Ora supponendo che nella
pratica solamente le sensazioni muscolari associate alle altre potessero essere
misurate, il principio che a ciù ci autorizzerebbe sarebbe il postulato che le
variazioni delle sensazioni specifiche sono sottomesse alle medesime leggi
delle variazioni muscolari a loro
corrispondenti. In tal guisa si
presuppone che gli aumenti di calore progrediscano secondo una legge identica a quella della
progressione della dilatazione: si presuppone non solo la misura diretta delle
dilatazioni, ma anche la misura diretta o la comparazione delle temperature fra loro. E poi, se i gradi d'intensità sono delle
qualità, se le intensità delle sensanzioni muscolari si riducono a
variazioni nella durata, se non vi è
posto per le intensità delle sensazioni particolari, perchè anche nel
linguaggio comune sono distinte
nettamente le intensità, le qualità e le durate? Donde viene la nozione d’intensità e con qual
diritto si può più parlare della intensità dello stimolo ? Si aggiunga che il Munsterberg non distingue
sufficientemente l'intensità della
sensanzione muscolare dalla percezione dell’ampiezza del movimento effettuato. Or tali divergenze non devono essere
considerate come senplici opinioni
contradittorie, atte a provare soltanto la
difficoltà delle indagini psicologiche e la impossibilità di giungere a risultati positivi : esse per
contrario di:nostrano come attualmente
s’imponga alla mente del filosofo l'’esigenza di considerare e di valutare i
rapporti esistenti tra i fatti psichici
e l'a‘tività originaria dello spirito. Il Miinsterberg ha ragione fino a tanto
che ricerca nella estrinsecazione della spontaneità dello spirito la misura comune
di tutti i fenomeni psichici, i quali effettivamente in gran parte, com'è stato luminosamente provato
dal Berg. son, presentano delle
differenze di qualità più che d'intensità o di quantità. E se noi ci limitiamo
a considerare la mente come una
coordinazione di vari elementi psichici,
di varie sensazioni rispondenti agli stimoli esterni, non ve. diamo realmente la possibilità di arrivare
alla nozione del l'intensità di varie
sensazioni appartenenti ad un medesima
senso specifico e molto meno vediamo la possibilità di paragonare le
intensità di sensazioni specifiche differenti.
Ond'è che per noi il merito del Miinsterberg è di avere intraveduto due verità : 1° che la
valutazione e la misura dei varî gradi
d’intensità di una sensazione è possibile solamente ammettendo nel fondo
un’unità coordinatrice che renda
possibile il riferimento tra cose differenti; 2° che questa unità si rivela mediante la percezione
immediata della propria attività. Ma il suo errore comineia quando crede di
poter ridurre tutta l'attività psichica
al movimento (senso muscolare), il quale
non ne è che uno dei fenomeni concomitanti, ovvero consecutivi. Ciò non esclude però che qualche
volta in via indiretta possa il senso
muscolare esserci di valido aiuto nella
comparazione dell'intensità di sensazioni provenienti da sensi diversi. Infatti, delle sensazioni
di luce, di suono, di peso di un dato
grado d'intensità sono state paragonate da una parte coi moviinenti del braccio
e dall'altra coi movimenti degli occhi;
e sì è ottenuto il risultato che
l'aumento dei movimenti coincide con quello dell' intensità degli
stimoli: vi è rapporto adunque tra l’accrescimento dell'intensità propriamente
detta e quello della reazione muscolare
concomitante. In ogni caso però non si
può limitarsi a considerare le sensazioni muscolari come misura dell'intensità delle altre sensazioni,
se non ponendo ‘ il postulato che ciò
che è vero di esse sotto certi rapporti
lo è anche delle altre sensazioni.
La valutazione dell'intensità presuppone un'attività originaria
differenziatrice e insieme assimilatrice la quale da una parte distingue qualitativamente gli
effetti prodotti da varî stimoli sugli
organi dei sensi e tutti i fatti psichici
aventi come concomitanti fenomeni organici diversi, e dall'altra
stabilisce, intuendoli, quei rapporti dati dall’identità o somiglianza della forma ed estensione della
reazione psichica agli stimoli esteriori. Noi non potremmo valutare come gradi differenti d’intensità le
sensazioni appartenenti ad un medesimo
senso, nè potremmo stabilire dei rapporti tra le intensità di sensi differenti,
se non fossimo in grado di avere una
percezione immediata dell'attività psi
IL SENSO MUSCOLARE 275 chica
che pur essendo unica e identica nel fondo, spiega in guise differenti la sua azione a seconda
delle numerose e variabili
circostanze. L’intuizione del
movimento. Per la rappresentazione il
movimento è fin da princinio un continuo
cangiamento di luogo; quindi l'origine sur
deve ricercarsi nelle sensazioni geometriche, visive e tattili, e
specialmente in quelle che conferiscono ad esse la continuità, l’uniformità e la misura, cioè
nelle sensazionmuscolari. Queste si dicono e sono sensazioni di movi
mento; ma da ciò non si potrebbe
conchiudere che il movimento sia una
sensazione. Se esso è un'intuizione coordinata con quelle del tempo e dello spazio, che non sono
sensazioni, se la sensazione muscolare
per se stessa è una pura successione interna, il movimento non può essere il
suo con tenuto immediato più di quello
che possa essere il contenuto immediato delle sensazioni uditive, Le sensazioni
muscolari diventano dunque sensazioni di movimento, come diventano sensazioni di spazio; e poiché esse
sono anche il fattore psicologicn più
importante delle percezioni di spazio,
si vede come la coordinazione delle intuizioni dello spazio e del movimento risulti anche dalla
loro origine psicologica. La quale, a volerla studiare più a fondo, si
mostra dipendente da varie condizioni. Anzitutto, perchè ci sia percezione di
movimento, occorre che il mobile e lo spazio
(visivo o tattile) restino identici, almeno quanto è neces. 976 iL SENSO MUSCOLARE sario, perchè sia conservato un punto di
riferimento, dal quale si possa
apprezzare il cangiamento di luogo. Se
tutto mutasse nella stessa direzione, lo spazio e il mobile, non ci sarebbe percezione di movimento.
Inoltre bisogna che il cangiamento di
luogo sia insieme continuo e percettibile. Continuo, perchè se vedessimo una
cosa ora in un luogo, ora in un altro,
senza vedere il passaggio, non potremmo
avere percezione di movimento, ma solo argomentarlo qualora avessimo già idea
di quello che è il movimento. Percettibile, perchè se non ci riuscisse di
vedere cangiar luogo, ma solo di vederlo
cangiato, non ci potremmo formare la
prima volta l'idea del movimento. Continuo e
percettibile insieme, perchè la continuità senza la percettibilità
sarebbe immobilità apparente, e la percettibilità senza la continuità sarebbe cangiamento di
luogo senza transizione. E non basta,
perchè nasca l’idea del movimento, il continuo e percettibile cangiamento di
luogo d'un oggetto su un fondo
invariabile; bisogna ancora che la
coscienza ponga unità tra i luoghi, e tra essi e il mobile. Siccome il movimento è il rapporto di due o
più collocazioni che si succedono con
continuità, accade per esso quello che
accade pel tempo, che la sua rappresentazione suppone la funzione unificatrice della coscienza o del
sentimento dell'organismo. Queste sono
le condizioni generali dell'origine della rappresentazione del movimento, ma ce
n'è un'altra, costante anch'essa, ma che
può subire piccolissime variazioni da
individuo a individuo, ed anche nello stesso individuo per effetto dell’esercizio, e che possiamo
designare col nome di limite della
percettibilità. Cotesto limite dipende dalla misura individuale del movimento
come rapporto del tempo e dello spazio,
la quale è nna grandezza finita, che non
può misurare qualunque movimento oggettivo, ma lascia senza misura, e quindi senza percezione
corrispondente, tanto i movimenti
estremamente lenti quanto gli eccessivamente rapidi. Non vediamo crescere il
filo d'erba, nè volare il proiettile; e non avremmo nessuna percezione di movimento tanto se la nostra misura
individuale fosse troppo grande quanto
se fosse troppo piccola ; nel primo caso i tempi geologici ci parrebbero un istante, nel
secondo qualunque successione ci
parrebbe infinita. E poichè per apprezzare
una successione, e quindi anche un movimento, è necessaria una certa continuità nella coscienza, così
la nostra misura soggettiva deve avere
una certa grandezza, che non corrisponde a nessuna misura che sia
oggettivamente asso luta, ma che è rispettivamente somma o parte delle grandezze
oggettive minori o maggiori. È facile intendere che quella che è un'unità di misura indivisibile
per la sensibilità, non è tale oggettivamente o per l'intelligenza. In questa unità l'elettricità p. es., percorre
uno spazio grandissimo, e l'accrescimento di una pianta secolare percorre uno spazio piccolissimo. Quindi noi
giudichiamo che si è svolta nel primo
caso una serie di unità obbiettive che sono
parti dell'unità soggettiva, e che nel secondo caso questa è una frazione di quella. Di qui si vede che il movimento non solo non
è una sensazione, ma non è neppure una
conoscenza, una rappresentazione, la cui origine si possa riportare
interamente all'esperienza. Certo la
misura psicologica dipende dall'organismo, ed è impossibile che sia la stessa
pel pachiderma 19 ole e r—men = —_r_—__ror ——_ rr
m1r.rr—r——_—‘— E ::]5h5I:5D anch'esse il
risultato di un processo in cui
l'intelligenza e la cultura figurano come
fattori determinanti. É notorio d'altra parte che le rivoluzioni
compiute nel campo della scienza a lungo andare. finiscono per mutare anche il punto di vista
morale e religioso. Il fatto è che in ogni religione va distinto
l'elemento invariabile ed inalterabile da quello caduco e variabile, ma ì «detti due elementi nello svolgimento della
vita religiosa sono inseparabili e
s'influenzano a vicenda: è soltanto la
nostra facoltà di astrarre che viene a separarli ed a considerarli
isolatamente. Così l'evangelo stesso, è vero, non involge alcun sistema
cusmologico ; ma involge bene un giudizio intorno al valore della vita e dello
spirito umano. L’ amore per il prossimo,
lo spirito di sacrificio non son fondati
forse sull’idea dell’eguaglianza degli uomini e sul concetto che l'io è nulla di fronte al Tutto
? Ora i concetti dell’eguaglianza degli
uomini e della piccolezza dell'io non
rappresentano per una parte un portato della Ragione e non poggiano sopra una base speculativa?
Del pari chi vorrà più sostenere che la
filosofia socratica non ha un fondamento
metafisico, quando Socrate stesso ci parla della sua preparazione speculativa? Sicchè possiamo dire che è bensi vero che la
religione ha la sua radice nel cuore uinano,
ma ciò non implica che essa sia un
prodotto esclusivo del sentimento: perchè il
cuore abbia e riconosca in sè tracciate le vie da seguire, occorre bene l’azione dell'intelletto, in
quanto quello non fornisce una specie di
rivelazione immediata e prodigiosa, ma
anch'esso si forma ed alla sua determinazione concorrono parecchi fattori, tra
i quali l'intelligenza. Anche nel modo
di concepire la finalità il Paulsen appare dominato dal preconcetto del
sistema. Egli, infatti, afferma che la veduta teleologica è un prodotto del
sentimento e della volontà e non dell’intelligenza : ora se egli intende dire
con ciò che la concezione teleologica non è
conoscenza nello stretto senso, ma contemplazione, ha ragione ; ma in
tal caso, è necessario osservare che il bisogno
del sistema della razionalità del reale, al quale risponde appunto la considerazione teleologica, è un
bisogno eminentemente intellettuale, e non un bisugno puramente subbiettivo ed
arbitrario. La veduta teleologica è la sola forma possibile di rappresentarsi il tutto e di
superare l’infinità mostruosa del
naturalismo meccanico che nega ogni natura
ideale della realtà. Se l’esperienza ci presenta realmente un ordine di fenomeni che è un ordine di
valori pel pen| siero, non c'è ragione di ritenere che quest'ordine non
sia una cognizione, solo perchè non
sappiamo determinatamente come l’ordine
causale, effettuandolo, si subordini ad esso
e gli serva. Possiamo noi forse pensare un'altra maniera di esistenza oltre quella che è soltanto, e
quella che è e _ 8a di essere e vuole, e
crea dal suo sapere e volere un mondo
superiore a quello della semplice natura? Edè egli possibile di non scorgere un progresso
dall'una all'altra forma d'esistenza, un
progres;o che pone in ordine di valori razionali una serie di fatti e di forine
naturali ? Questo valore dell'esistenza
dipende forse dal modo di sentire di un
individuo ? Non è piuttosto anch'esso un fatto, la cui constatazione (giacchè non è possibile la
determinazione del modo d’operare della
finalità) (1) figura già per sè come una
forma di cognizione ? (1) Veramente
qui le idee del Paulsen non sono chiare ed anzi in un certo senso sembrano contradittorie. Da una
parte egli dice che la cone cezione
teleologica è un prodotto delsentimento e del volere individuale (del volere e del sentimento del soggetto
umano che si trova di fronte Dopo tutto
quello ‘che precede non abbiamo bisogno di.
spendere molte parole per discutere del rapporto posto dal Paulsen tra la filosofia e la religione, e
tra la filosofia e le scienze
particolari. Una volta che lo spirito umano è
uno e che le sue funzioni non sono compiute maiisolatamente, quando si vuole determinare il compito della
filosofia rispetto a quello della religione non basta affermare che quest'ultiina risponde alle esigenze
dell’emotività, mentre la prima a quelle
dell'intellisenza. Nella filosofia vi è il
momento dell’emotività e del volere come nella religione vi è necessariamente il momento della
conoscenza. Si tratta appunto di
determinare fino a che punto ed in che senso
il momento della conoscenza interviene nella religione e quello del sentimento nella filosofia. Ora
noì di passaggio notiamo che mentre per
la filosofia il fine ultimo è la conoscenza, ond’essa mira appunto a
trascrivere in termini di conoscenza le
esigenze emotive e le aspirazioni del volere,
formando un tutto armonico intelligibile, per la religione lo scopo è di
trovare un appagamento ai bisogni
dell'animo per il che si serve della conoscenza come di mezzo appropriato a raggiungere il suo
intento. Ciò che. all'universo) e
dali’»ltra crede di poter dare una certa idea del modo di operare del principio teleologi:0,
riferendosi a ciò che ci presenta l’esperienza interna in quei casi in cui la
nostra attività raggiunge un dato <
risultato (fine), senza che esista alcuna rappresentazione dello scopo
a cui inconsciamente essa tende
(Zielstrebigkeit). Egli si riferisce ad una
tale esperienza in forza del parallelismo psicofisico e
dell’animazione universale da lui
ammessa, Noi osserviamo che una volta ammesso che l’attività opera in modo cieco, non è
possibile parlare di cognizione te
leologica vera e propria, ma di contemplazione nel senso di Kant e di Lotze. in un caso vale come mezzo e come
un momento subordi. nato, nell’altro diviene fine 0 momento essenziale. Quanto al rapporto poi della filosofia colle
scienze particolari osserviamo che è impossibile confondere il compito della filosofia con quello delle scienze per
due ragioni: 1° Non è vero che le
singole scienze si possano e sì debbano occupare dei presupposti da cui le loro
indagini prendono le mosse, che, p. es., la fisica si debba occupare della natura dello spazio e della materia. La
filosofia bensi ha bisogno di fondarsi
sulle leggi e propretà scoverte dalle
scienze, ma elabora i detti risultati a suo modo, ed elaborandoli, li
trasforma. Quel che è certo è, che si può essere . scienziati senza esser filosofi, ma non si
può essere filosofi senza avere una base
scientitica. 2° Il cultore di una scienza
particolare non varca quasi mai i limiti della propria specialità e, se
li varca, rimane sempre entro i limiti delle
scienze vicine ; non mira mai a ricercare il nesso, il rapporto che esiste tra i vari ordini di sapere, sia
di quelli che sono affini tra loro che
di quelli che sono lontani; ora ciò fa
appunto il filosoio. Ciò che vi ha di esatto nell'opinione del Paulsen è che il vero in ogni parte del
nostro sapere sta in un processo di
approssimazione indefinità ad un ultimo senso, ad un significato delle cose
impossibile a conseguirsi da noi, e che i sistemi metafisici non sono,
come direbbe il Barzellotti, che le
cèntine immense su cui i grandi .
architetti del pensiero voltano uno dopo l' altro l’ edificio ideale compiuto dal sapere del loro
tempo. Notiamo infine che una volta
ammessa quale parte della filosofia la
metafisica, come si può dire che la biologia, la fisica e la chimica sono anche parti di
quella? Ciò che LA FILOSOFIA
DELL'ATTIVITÀ 453 vi ha di filosofico
in dette scienze è preso dalla metafisica.
Il compito della filosofia è sciogliere il problema nella sua totalità. La filosofia pertanto ha un
obbietto proprio e non è più lecito
affermare che essa sia una semplice sintesi
riassuntiva del lavoro compiuto dalle altre scienze. III!
Dall'impossibilità di derivare il fenomeno fisico dal fatto psichico e questo da quello il Paulsen fu
tratto ad ammettere il parallelismo psico-fisico e quindi l’ animazione universale, con cui egli volle esprimere
evidentemente l’unità fondamentale della
natura e dello spirito. Ora si domanda:
Vi è una vita psichica superiore, più elevata, più comprensiva, come ve
ne è una di grado inferiore a quella d'ordinario ammessa ? Il Paulsen risponde
di sì ed è questo, a noi pare, uno dei
punti importanti, o almeno caratteristici, della sua metafisica. Per risolvere
una tale questione occorre tener
presenti i criteri che noi abbiamo per giudicare della realtà psichica. Noi
sappiamo che tanto più di realtà una
cosa ha quanto più di valore possiede e
quanto più di forza, di efficaciaè atta a spiegare: così noi siamo disposti ad ammettere un volere ed una
coscienza collettiva, perchè noi siamo in grado di constatare gli effetti che essi producono sulla vita degl'individui
e sullo svolgimento della società: per contrario le unità psichiche d'ordine
superiore, quali vengono ammesse dal Paulsen, che effetti psichici producono ? Per quanto
sappiamo noi, nessuno. I fenomeni esterni che noi osserviamo nella vita
degli astri in genere, avranno anch'essi
il corrispettivo interiore, 484 LA
FILOSOFIA DELL'ATTIVITÀ ma questo sarà
di natura semplice ed elementare, come sono
i fenomeni esterni (movimenti più o meno complicati) da essi presentati. Quale ragione noi abbiamo per
ammettere una vita psichica
differenziata, complicata ed insieme armonica
negli astri? Se per lo svolgimento «dello spirito è richiesto un sostegno esterno così complesso, se in
tutta la distesa dell'esperienza la
natura è giunta a maturare in sè il frutto
dell’esistenza spirituale quale a noi attualmente e nel processo storico
si presenta, se la vita spirituale ha bisogno
di svariati istrumenti complessi (tra 1 quali basta citare il linguaggio che rappresenta una delle
condizioni di essenziali ogni forma di
esistenza psichica d'ordine elevato), con che
dritto attribuiamo noi una vita psichica superiore agli astri, iquali si presentano cosi monotoni e
indifferenziati nel loro modo di operare
? Notiamo in ultimo che l'argomentazione a
cui è ricorso il Paulsena tal proposito è quella per analogia; ma ognuno sa che questa in tanto ha valore in
quanto i caratteri riscontrati simili in
due serie di fatti sono essenziali; ora tra i fenomeni presentati dai pianeti e
quelli presentati dagli esseri
spirituali veri e propri non si può in
alcun modo dire che vi sia corrispondenza essenziale. IV.
Passiamo alla teoria della conoscenza. — Si è veduto che la parte essenziale della (inoseologia
del Paulsen è che in un punto solo
conoscenza e realtà coincidono, vale. a
dire nella coscienza, giacchè i fatti interni noh possono essere fenomeni, ma sono la sola e vera
realtà. I fatti psichici, infatti, in tanto esistono in quanto sì rivelano alla
coscienza; la loro natura sta tutta appunto nell' apparire nella coscienza — la natura del pensiero è
tutt’ una collo sperimentare e
coll’avvertire il pensare, come la natura del
sentire è tutt'una collo sperimentare e coll’ avvertire il sentire. È impossibile, in altri termini,
separare la vita psichica dall’avvertimento della stessa, come è impossibile
separarla da ogni forma d’'interiorità : togliete questa ed avrete per ciò stesso annullato la vita psichica vera e
propria. D'ultra parte per poter
affermare chei fatti psichici suno fenomeni
bisogna ben sapere in rapporto a chi possono essere essi feno meéni; e
per tal via non sì viene ad ammettere come a3sodato ciòche è un problema, vale
a dire l’esistenza dell'anima come sostanza semplice ? Ma da ciò consegue forse che di reale nella
vita psichica non vi siano che i singoli
fatti psichici, quali le
rappresentazioni, i sentimenti, come mostra di credere il Paulsen? A noì non
pare: invero, ciascun fatto psichico,
esso sia una rappresentazione o un sentimento o
qualsiasi altro elemento, lungi dal rivelarsi qualcosa di semplice, d’
irriducibile, di primitivo e d'indipeudente, si manifesta come qualcosa di
derivato dalla cooperazione di parecchi
fattori, tra i quali primeggia il soggetto, intendendo per questo ciò che
costituisce il punto di appoggio, il
punto di riferimento, e quindi il fondamento e il sostegno di ogni singolo fatto psichico. L'esistenza
del soggetto figura ‘come la condizione
essenziale del prodursi di un fatto psi.
chico. Ciò è stato riconosciuto anche da coloro che negano la realtà del soggetto; ma essi hanno cercato
di eludere la difficoltà, dicendo che il
punto di riferimento del nuovo fatto
psichico è dato dall’insieme della vita psichica svoltasi per lo innanzi: se
non che va osservato che si vada indietro quanto si vuole, bisognerà bene
arrivare al punto in cui il primo fatto
psichico si presenta: ed in questo caso
è evidente che è presupposta del pari l'esistenza del soggetto,
l'esisteuza di qualcosa d'interno che non può più consistere nell’ insieme dei fatti psichici
antecedentemente svoltisi. Da tuttociò
emerge chiaro che non è possibile considerare i singoli fatti psichici come i
soli elementi reali, giacchè
presuppongono necessariamente qualcosaltro che
concorra alla loro produzione; in caso contrario si rimane chiusi in un circolo; per dar ragione dei
singoli fatti psichici si ricorre ail'esistenza di un soggetto, all’ esistenza
di un punto di riferimento, e
dall'altra parte per dar ragione di
quest'ultimo si ricorre ai sentimenti, alle rappresentazioni. Aminessa come innegabile la realtà del
soggetto, si può domandare quale
concetto dobbiamo noi formarcene : ora noi
crediamo che tale questione non si possa risolvere altrimenti che
ricorrendo a similitudini, ad analogie atte a farci intendere che la realtà del soggetto non
deve essere ri posta in una sostanza semplice, in una sostanzaatomo, in
un'ipostasi insomma, ma in quel qualcosa
che rende possibile l’esistenza delle parti che costituiscono la vita psichica. Noi per denotare questo
qualcosa siamo costretti a ricorrere ad espressioni vaghe ed
indeterminate, come la parola sostanza,
le quali sono soltanto valide a celare
la nostra ignoranza. Allo stesso modo che la lingua non è reale come semplice aggruppamento di suoni
e di parole, le quali, anzi, in tanto
esistono in quanto vi è la funzione del
linguaggio, ailo stesso modo che un organismo non figura come il puro risultato
dell’ aggruppamento delle sue parti, le quali anzi presuppongono l’attività del
germe da «cui si svilappano, così
l’anima lungi dal risultare dall'insieme dei fatti psichici va considerata come
ciò che rende possibile l’esistenza di
questi. La realtà vera e piena non
appartiene agli elementi ultimi acuisi perviene mediante l'analisi, ma al
tutto, o meglio, all'universale concreto
e individuale, il quale può essere
considerato come funzione di un universale concreto più elevato e questo di un ultro universale più
elevato an‘cora fino a giungere alla Totalità che tutto in sè comprende. L'anima, si dice, è null'altro che la
sintesi delle forze o potenze psichiche,
vale a dire dei fatti psichici possibili;
d'accordo: ma chi dice sintesi dice perciò stesso attività sintetizzatrice, perchè altrimenticome
avverrebbe tale sintesi? E forse da sè
stessi, ez /eye che gli elementi dei tatti psichici si riunirebbervo 2? Non
basta : si dice inoltre: L'unità dei
fatti psichici riferentisi l'uno all’ altro, richiamautisi, implicautisi
a vicenda, ecco che cosa è l’anima: ma tuttociò non trae seco la conseguenza che l’anima è più
che un semplice aggruppamnento di tatti
psichici ? Perchè un fatto psichico
possa richiamarne un altro, bisogna che vi sia qualcosa che colleghi entrainbi, bisogna che un'identità
tondamentale sia il sostrato di
entrambi: e per convincersi di ciò basta pensare che anche i collegamenti spaziali e temporali
in tanto sono possibili in quanto vi è
un soggetto capace di ordinare le
rappresentazioni appunto secondo l’ordine spaziale o temporale. Dall'inerire di a, 6, c, ad A, domanda il
Paulsen, conse gue forse la coscienza
delle loro unità ? Certamente, rispondiamo noi, posto che A abbia la coscienza,
comunque il’ rapporto intercedente tra i
fatti psichici e il soggetto non sia
nient' affatto un rapporto d'inerenza. Dire che cosa. è la coscienza è impossibile, essendo essa un
fatto nltimo e irriducibile: dire che è
attività, forza, sintesi, riferimento e distinzione ecc. equivale a metterne in
evidenza delle note, ma non a
significare che cosa in realtà sia.
Osserviamo infine che il Paulsen sembra quasi che riconosca il suo
errore, quando a proposito dell'anima esce.
in affermazioni come questa: Il tutto precede le parti, l’Anima non è un « Compositum » ecc. Ora in
tal guisa evidentemente abbiamo due’
concezioni dell'anima chenon possono per nessuna via concordare insieme : se
essa. non è un aggregato, un «
compositum », non è lecito affermare che la realtà competa soltanto ai singoli
fatti psichici, quali le rappresentazioni, iî sentimenti, ecc. Se il tutto precede le parti, come si può negare la
realtà del soggetto, come si può
asserire che l’Anima è un' ipostasi a
seconda potenza? Per ciò che concerne
l'Etica del Paulsen, cominciamo dall’osservare che il principio fondamentale di
essa si trova. in contraddizione con
l'essenza della moralità quale è in-.
tesa dall'Autore, Se, infatti, la morale è una produzione del volere e del sentimento e non della
intelligenza umana, come mai si può
affermare che la valutazione degli atti”
si riferisce sempre agli effetti da questi prodotti ? In tal caso l'essenza della morale è
intellettualistica in quanto la considerazione degli effetti delle azioni è un
processo essenzialmente intellettuale. Nè vale il dire che occorre far distinzione
tra vita morale e scienza della vita morale, giac-chè prima di tutto la base
della valutazione degli atti è un
elemento della vita morale nella coscienza umana, in «cui la riflessione, non si disse, agisce
sulla volontà ; poi una delle due, o la
considerazione del fondamento obbiettivo
dell'imperativo morale, vale a dire la considerazione del tine ultimo verso cui tende lo sviluppo della
moralità obbiettivamenie considerata, è da riguardare sempre ed in ogni caso motivo pressochè esclusivo
dell'operare morale (nel qual caso è
giusto fondare il giudizio valutativo sui risultati etfettivamente raggiunti
mediante le azioni morali), «ed allora
non è più lecito parlare dell’ esistenza della vita morale indipendente dalla conoscenza, chè
anzi in tal caso la moralità è fondata
sulla conoscenza e sulla riflessione ;
‘ovvero la vita morale si è in certa guisa svolta indipendentemente
dalla considerazione degli effetti delle azioni, ‘considerazione, la quale si è rivelata
soltanto a chi si è posto a riflettere
sull'insieme della vita morale, ovvero cioè
gl’ individui hanno cominciato coll'operare in un dato modo per seguire gl’ impulsi del loro animo, senza
aver di mira ‘alcun risultato obbiettivo
che è divenuto evidente solo posicziornente, e allora ia veduta teleologica non
ha nell'Etica un ufficio differente da quello che ha nella scienza in genere. In questo caso non è ragionevole
fondare la valutazione degli atti morali
sugli effetti obbiettivi. Ed anche qui
la considerazione teleologica non è una conoscenza nello stretto senso della
parola, ma è una forma di
‘contemplazione. L'Etica del Paulsen rimane impigliata nel suddetto dilemma.
Il Paulsen ha ragione di respingere il puro formalismo kantiano, in quanto
l'analisi dello spirito umano. mostra
che la volontà non può entrare in azione se non
avendo in vista un fine determinato e concreto, ma ha torto di affermare che la valutazione morale
debba essere fondata soltanto sulla
considerazione degli effetti consecutivi all’azione, senza tener conto della
natura propria del volere (ovvero
tenendone conto in modo secondario e
subordinato). La volontà non è qualcosa di accessorio alla moralità, nè questa è fuori della
volontà, allo stesso modo che il bello
non è al di fuori dell'anima che lo
sente e lo gusta. E mentre il prodotto artistico va giudicato alla
stregua dell’ emotività estetica umana (sensoestetico), il fatto morale senza
cessare di essere tale, non può essere
considerato a parte dalla determinazione del
volere che gli diede origine: e ciò perchè l'essenza del fatto estetico è nell’emozione estetica,
mentrechè l'essenza di quello morale è
nel volere. Un fatto staccato dal volere
che l’ha determinato non può mai essere obbietto di un giudizio morale, come un bello che non è
sentito non può essere oggetto di un
giudizio estetico. In tanto è lecito parlare di moralità in quanto è in causa
il volere che è quanto di più intimo
abbia l'uomo, in quanto è in causa l’uomo
stesso: e la considerazione degli effetti di un'azione in tanto può entrare nel giudizio valutativo
degli atti umani in quanto gli effetti
spesso, ma non sempre, sono:
l’espressione del volere, sono il volere umano obbiettivato. L’Etica non si può limitare ad esaminare
semplicemente la forma del volere e
dell’ operare umano, ma deve anche prendere in considerazione il contenuto di
questa, vale a dire il fine da
raggiungere mediante il volere e l’azione.
Ora lo scopo dell'attività umana non può essere determinato che con la
guida della necessità morale e non può
essere valutato che in base alle norme morali stesse. Per il che occorre che all'attività umana venga
proposto non un fine qualsiasi, ma uno
che sia in armonia colla naiura propria
dell’uomo. Onde è che l’esperienza, il fatto cioè che questo o quell’individuo in questa o
quella circostanza sì è proposto un dato
fine e l’ha raggiunto, non ci autorizza niente atfatto a considerare senz’
altro lo stesso fine come morale e come
degno di essere ricercato; è necessario per contrario che il detto scopo sia
fondato necessariamente sulla natura dello spirito umano e derivato dalle leggi « priori dello stesso. La
psicuiogia potrà fornirci un'interpretazione adeguata della natura di
queste leggi, ma nulla potrà dirci del
loro valore e della loro
importanza. In sostanza noi
possiamo dire che ogni precetto morale O
giuridico contiene ad uno stesso tempo elementi empirici ed a priori. Il contenuto particolare e
determinato non può esser fornito alle
norme etiche che dai bisogni e dalle contingenze in cui l’uomo si può trovare,
mentre i caratteri dell’universalità, della necessità e della obbligatorietà
non possono ad esse venire se non da
questo che le varie forme dell'attività
umana vengono considerate come processi e stati aventi la loro origine e il loro svolgimento in esseri
ragionevoli e liberi. Non altrimenti che noi consideriamo come logicamente
necessario solu ciò che, seguendo le regole del pensiero logico, deriva da dati
presupposti, così diciamo moralmente necessarie quelle maniere di operare che
per necessità logica derivano dai
seguenti presupposti: che l’uomo è un essere ragionevole e che la parte
spirituale della sua natura paragonata
con quella animale, non solo ha un valore maggiore, ma ne ha uno incondizionato. Quanto più l'individuo
riconosce tale necessità, tanto più
squisito è il suo senso morale e quanto
più la condotta di una persona si lascia guidare dal sentimento della
medesima necessità, tanto più moralmente puro
sarà il suo operare.
L'adempimento del proprio dovere produce la pace dell’anima appunto
perchè in tal caso la condotta è in accordo
con ciò che all'agente sembra necessario alla conservazione: cd elevazione del proprio vaiore personale,
di guisa che le leggi morali non
esprimono chele condizioni nelle quali
la nostra volontà è veramente funzione dello spirito ed è degna dell’appellativo di volontà
ragionevole. È evidente che a misura che
si va svolgendo la nostra vita spirituale
e il suo valore ci si rende manifesto, acquistiamo coscienza delle esigenze che in rapporto a ciò ci si
impongono e quindi acquistiamo chiara
cognizione delle leggi morali. Fintanto
che in noi non mette radici la persuasione che il comportarsi in un dato
modo è da considerare come esigenza universale della natura umana, non è lecito
parlare di moralità: onde consegne che l'uomo trae la nozione di ciò che deve fare non dalla esperienza, ma dalla
considerazione di ciò che trova di più
nobile ed elevato nel suo animo e dalle
esigenze che una tale considerazione trae seco. Non si vede poi su che base si potrebbe
costituire una norma fis:a ed universale
per giudicare del valore morale di un’
azione, una volta che la determinazione del volere fosse considerata come
unelemento accessorio e subordinato,
tanto più se si pensa che la valutazione degli effetti è pressochè impossibile ad effettuarsi in modo
esatto, tenuto conto delle svariatissime
circostanze che possono concorrere a far
variare l’importonza di essi; vero è che si dice che il giudizio morale ha come punto di
riferimento gli effetti .che normalmente
derivano da determinate maniere di operare,
ma non si vede che in tal caso sono le maniere di operare, vale -a dire ledeterminazioni della volontà, che
costituiscono la base vera dei nostri
giudizi, mentrechè gli effetti figurano come una semplice conseguenza, unaspecie di
estrinsecazione di quelle? Si obbietta
che il giudizio morale fondato sull’intenzione
dell'agente, è pressochè impossibile, tenuto conto delle insuperabili
difficoltà che si oppongono ad un esatto esame
psicologico, ma in tale asserzione vi è molto dell'esagerato. In ogni caso, una volta che si fa dipendere
il giudizio morale esclusivamente dagli
effetti consecutivi alle azioni, bisogna
poi dire secondo quale norma noi valutiamo i detti effetti. Le idee del bene e del male, del giusto e
dell'ingiusto non si sarebbero mai potute formare, se nella natura propria dell'uomo
e segnatamente nella sua ragione, non avesse radice il bisogno e la capacità di
paragonarsi cogli altri uomini, di valutare i loro stati analogamente ai
propri, e di estrarre dalla esperienza propria e da quella degli altri
leggi generali aventi l'ufficio di
regolarlo nei vari suoi atti; se insomma
l'attitudine morale non avesse il suo fondamento ultimo nella ragionevolezza umana. Senza di
questa condizione sarebbe stato impossibile trarre regole universali dai vantaggi o danni derivati da determinate
azioni: ciascuno avrebbe evitato ciò che gli recava nocumento ed apprezzato ciò
che gli giovava. Ancorchè sì voglia ammettereche l'esperienza delle conseguenze
di dati atti abbia dato il primo impulso
alla formazione delle idee morali, riman
sempre da spiegare il loro completo svolgimento, giacchè ogni progresso morale ha come base la
ragionevolezza umana. Da ciò deriva che i precetti morali, se traggono il loro contenuto dall'esperienza, devono la
loro forza di obbligatorietà a leggi universali dello spirito umano indipendenti
da qualsiasi esperienza. Ond’è che la scienza morale o l’etica non può avere
altro obbietto che quello di
rintracciare gli elementi della natura unana, dai quali deriva la
tendenza ad anteporre a tutto gl'interessi spirituali e il benessere della società, nel che
propriamente consiste la moralità. Come si vede, ciò che reude assolutamente
difettosa la concezione morale del
Paulsen è l'asserzione che basti l'esperienza per determinare i precetti
morali. Infatti, si può domandare:
Perchè ciò che è utile alla società deve essere
praticato ? Perchè lo svolgimento delle varie attività e funzioni dell'individuo e dei suoi simili
costituisce il fine umano? — Si
risponde: Perchè la coscienza sociale, perchè
lo spirito collettivo così comanda; ma, si può domandare ancora: E perchè lo spirito collettivo dà di
tali comandi ? Perchè esso è fatto cosi?
E che dritto ha esso di dare dei comandi
? E che prove abbiamo della esistenza e della superiorità ci un tale spirito? —
E le domande non sono finite ancora: Perchè esistono quei tali istinti sociali
che sono la radice di taluni costumi e
consuetudini ? -— Da qualunque. lato sì
consideri la questione, emerge chiaro che non è possibile trarre esclusicamente
dall'esperienza il contenuto della moralità senza tener conto delle direzioni
primitive ed originarie del volere umano illuminato e conpenetrato dalla ragione.
È curioso che il Paulsen ammette che il problema della determinazione del fine ultimo della vita non
possa esser risoluto dall’intelletto e quindi dall'esperienza, mentre
quello riguardante i mezzi per
raggiungerlo (virtù e doveri) sì. Ora se
le virtù e i doveri sono insieme parti del fine ultimo della vita e mezzi per
raggiungerlo, come mai possono essere determinati con metodo diverso da quello
con cui è determinato lo scopo finale
della vita ? L'esperienza non ci può presentare
che fatti concreti collegati insieme, ma non potrà :nai darci la necessità per cui i dati fatti si collegano,
nè il perchè così si collegano, come
non’ può darci mai alcuna norma o regola,
che abbia valor necessario ed universale. È innegabile che per quanto sì osservino fatti e si
notomizzino, non sì caverà mai da essi
una norina assoluta ed universale di operare.
Convien dunque riconoscere in noi una facoltà o una disposizione
primitiva per la quale, sotto l'impulso di alcuni fatti, sì. sveglia in noi l’idea del dovere, l'idea di
un qualche cosa che si deve
assolutamente fare. Questa coscienza del dovere considerata nella sua
generalità quale coscienza d’un fine
obbligatorio, superiore al nostro benessere individuale è, come abbiamo veduto, il fondamento comune
e generale della natura morale degli
uomini: ma a questo fondamento meramente
formale si aggiunge necessariamente, nella coscienza di tutti, una
determinazione materiale, varia secondo i popoli, i tempi e gli individui. Per ciò che riguarda la superiorità
attribuita allo spirito collettivo nelle sue varie forme rispetto allo
spirito individuale, giova notare che
non ogni forma di collettività. è superiore all'individuo, come non in ogni
caso l’indivi duo deve seguire i più. È da questo punto di
vista che le idee emesse dal Paulsen
sulla natura del dovere meritano di
.-essere completate. Le unità collettive che hanno un valore più elevato
sono quelle che condizionano l’individuo,
quali la famiglia e la società presa in senso lato. È evi- | . dente che senza la famiglia e la società
non vi sarebbe nè individuo, nè
cittadino, il quale dapprima è per cosi
dire una cosa con esse, e se ne distacca soltanto in un tempo posteriore, quando il volere
individuale ha acquistato tanta forza da
poter vivere e svolgersi in modo autonomo.
Le dette unità collettive condizionando la vita individuale, sono
universali, nel senso che non vi è uomo, il
quale non appartenga ad una famiglia, o ad una società. È chiaro che le stesse collettività lungi
dall'essere un prodotto .
dell'astrazione, sono quanto vi può essere di concreto, e vivono ed operano negli individui ; è
evidente del pari che . ciascun
individuo sì sente intimamente legato ad esse, ri flette nel suo animo le loro tendenze ed
aspirazioni, e le ri . conosce come
qualcosa di superiore. Una volta che l'individuo ha nella collettività il suo punto
d'origine, il suo fondamento, . @ il
suo sostegno, non può non attribuire ad essa un po tere ed una forza stragrande. Non basta.
ciascun individuo come elemento isolato,
sente prepo:ente il bisogiio di com.
pletarsi, congiungendosi col Tutto, onde il suo volere quanto. più è compenetrato dalla ragione tanto più è
tratto a compiere quelle azioni che lo fanno sentire uno col Tutto, e che, togliendo ogni restrizione, contribuiscono ad
allargare l'Io. Le forme particolari ed
artificiali di collettività non .
sempre hanno un valore superiore e più elevato, in quanto non contengono ciò
che vi ha di essenziale negl'individui. Le unità collettive naturali lungi
dall’eliminare le differenze
individuali, le armonizzano e le elevano ad una . potenza maggiore. Gl'individui possono (ed è
bene che avvenga) fare a meno dal seguire i dettami della collettività quando questi non si riferiscono a ciò che vi
ha di universale nella natura umana È
soltanto a questa condizione che l'individuo, seguendo la collettività, si
sente’ più che sè stesso, si sente parte
di ciò che vi ha di meglio nel mondo, in modo da trovare un appagamento
calmo e completo alle più profonde
aspirazioni del suo cuore, e. alle
intime esigenze di tutto il suo essere.
Prima di finire noterò che chi si fa a considerare l'insieme delle
dottrine morali del Paulsen, s'accorge subito che in esse si ha come il riflesso della
psicologia quale venne trattata dal nostro Autore. Vedemmo, infatti, che per
lui il fatto psichico primitivo ed
originario è dato dall’attività, dall’energia, mentre tutte le altre potenze
non rappresentano . che dei mezzi adatti
a far raggiungere all’attività il maggior dispiegamento. Da tal punto di vista
ciò che è pura-mente subbiettivo, quale il sentimento, figura come il semlice
riflesso o come l’intertoriszazione del fatto obbiettivo dell’operare, che è l'essenziale. Una tale
dottrina psicologica fondamentale trasportata nel campo morale che cosa. doveva darci? La trasposizione della base
della valutazione, diremo così, dall'interno all'esterno. Infatti, una volta che l'essenziale è l’ attività, e che
questa nonsi può misurare che dal lavoro
che compie, dagli effetti che produce, è
naturale che il giudizio valutativo debba .
riferirsi agli effetti consecutivi alle azioni, invece che alle- determinazioni
subbiettive del volere e dell’emotività, i
- quali rappresentano qualcosa di accessorio, di sussecutivo . © di incidentalmente concomitante.
L'importante per il nostro Autore non è
la genesi subbiettiva dell’atto, ma .
l'attività, per così dire, obbiettivata.
Ma non è questa, domandiamo noi, una maniera di snaturare la moralità ?
Non è l'essenza di questa riposta nel processo per cui l'ideale si attua, per
cui ciò che non è ancora tende a
tramutarsi in fatto? Non ha essa la sua nota caratteri. stica nel procedimento
per cuiil mondo veramente uinano siva
formando ? Togliete l’ideale dal dominio morale ed avrete annullato la
moraità : ora, non si viene a destituire d'ogni
valore l'ideale, una volta che si pone come obbietto della ‘ valutazione morale l’effetto che consegue
all’azione, cioè a dire quella parte
dell'ideale che è stata già tramutata in
fatto? Bisogna ben tenere a mente che l’ideale è un pro. dotto del soggetto, prodotto che ha valore ed
efticacia per sè, a prescindere dalla
sua attuazione, la quale può essere |
arrestata o di molto diminuita per cause svariatissime. E la scienza morale si differenzia da tutte le
altre scienze appunto per questo, che essa non sì riferisce a fatti, ma ad ‘idee ed a sentimenti che tendono a
tramutarsi in fatti : in caso contrario
la scienza morale quasi quasi non ha ragione di esistere. La classificazione,
l'ordinamento ed anche la valutazione
degli effetti di date azioni sono di spettanza
di altre scienze. Aggiungiamo in
ultimo che, ammesso il teleologismo
«alla maniera di Paulsen, si viene a destituire d’ogni valore la volontà, la quale è quasi considerata come
una forza, le cui determinazioni per sè
possono essere trascurate, tanto è ciò vero che il giudizio morale principale
si riferisce .agli etfetti consecutivi
all’azione, iquali possono essere
maggiori o minori in rapporto a numerose circostanze che non hanno niente a che fare colla volontà
vera ‘@ propria; per contrario le
determinazioni primitive di questa e i
loro motivi vengono lasciati da parte come
qualcosa di superflno e quindi d'insignificante. Non si ha cosi una nuova forma di fatalismo, una volta
che più o meno manifestamente viene ad
essere ammesso che la volontà presa per sè non è degna di considerazione ? È degno
di nota il fatto che i sistemi filosofici, ì quali pongono il volere come fondo
e sostanza dell’ universo, sono
costretti dalla forza delle cose a negare ogni efficacia al volere vero e proprio: diciamo al volere vero
e proprio, giacchè il volere aminesso
dai filosofi pantelisti è qualcosa di
così chimerico e di così inconsistente che non può esistere, se non nella
fantasia di quelli che ne hau fatto il
doro Dio. Chi si fa a considerare
tutto il movimento della filosofia contemporanea non può a meno di notare che
le varie direzioni di questa hanno i loro nuclei di origine nella filosotia
kantiana. I germi delle varie forme che ha assunto l’attività del pensiero filosofico nel secolo
nostro si trovano tutti nel Kantismo,
tanto è ciò vero che ciascun filosofo
prende come punto di partenza qualche veduta kantiana, e non fa che
trarre da essa tutte le conseguenze possibili, svolgendola nelle varie sue
parti. Nè ciò deve far meraviglia, se
si pensa che Kant piuttosto che darci un sistema filosofico vero e proprio, ci
diede una critica della conoscenza e della metafisica anteriore, ond'egli, qua e là potette emettere delle vedute forse
non perfettamente atte ad esser
coordinate in un tutto armonico non atte
cioè a divenire elementi di un sistema unico,
ma atte a divenire punti di riferimento di concezioni posteriori. Non è
nostro intendimento ora di passare a
rassegna i vari sistemi filosofici che presero le . mosse da Kant: notiamo soltanto che tra le varie
direzioni del pensiero speculativo contemporaneo due si possono segnalare in modo spiccato come germinazioni dirette
del Kantismo: alludiamo alla filosofia
critica propriamente detta o al cri.
ticismo e alla filosofia dell'attività o pantelismo nelle sue varie forme. Le dette due direzioni
presentano dei caratteri netti e delle note speciali, per cui non sì può
non: considerarle separatamente: il
criticismo, infatti, ha, per cosi dire,
il suo centro di gravità nella teoria della conoscenza. che costituisce per esso l’obbietto speciale
dell'indagine filosofica ; il pantelismo invece è concezione essenzialmente
metatìisica e lungi dal limitare le sue ricerche alle discussioni gnoseologiche,
ha di mira di penetrare la natura intima della
realtà sia fisica che psichica.
Entrambe queste direzioni del pensiero filosofico, dicevamo, si rapportano a Kant; ma mentre il criticismo
cerca di dare il più ampio svolgimento
alle vedute d'ordine teoretico, il pantelismo ha l'intento di accentuare e di
esagerare il pensiero fondamentale della filosofia pratica del grande filosofo
di Kénigsberg. É noto che mentre nella critica della ragion pura Kant, dopo l'esame e l’analisi del potere della
conoscenza umana,. affermò
l'impossibilità di oltrepassare il fenomeno, nella critica della ragione
pratica ammise una sola via di penetrare
nel regno del Reale e questa per lui era il volere umano. È del pari noto che si volle trovare
un’antitesi tra il pensiero e il metodo della ragione teoretica e il pensiero e
il metodo della ragione pratica, onde
avvenne che alcuni seguirono Kant nella teoria della conoscenza, mentre
altri nella metafisica che poteva esser
dedotta dai presupposti della sua Etica.
Avendo il grande filosofo tedesco proclamato il primato della ragion pratica ed
avendo ammesso nel volere umano una
specie di accenno all’Assoluto, era da
aspettarsi che i filosofi, i quali non si appagavano delle semplici discussioni gnoseologiche, dovessero
cercare di costruire una metafisica, dando svolgimento e trasformando pressochè completamente i postulati della
ragion pratica. Tale fu il caso dello
Schopenhauer. Non abbiamo bisogno di
esporre la metafisica di questo filosofo per mostrare come essa abbia una delle sue radici nel
pensiero kantiano. È necessario piuttosto
domandarsi a questo punto se il
pantelismo abbia in realtà interpretato e svolto il pensiero . kantiano: fa d'uopo, cioè, ricercare se in
fondo i presupposti della filosofia morale e religiosa di Kant siano proprio
quelli che formano il caposaldo della metafisica pantelistica. Ora a tale questione non si può
che rispondore negativamente : chi ben considera, infatti, l'insieme della filosofia kantiana nota subito come
l’antitesi tra la filosofia teoretica e
pratica in realtà non sussista; giacchè
in entrambe domina quella che si potrebbe dire veduta formaliatica, nel senso che tanto nella
conoscenza quanto nell'attività pratica
si distingue l'elemento a priori o formale, che dà le note essenziali della
necessità e dell'universalità dall’ elemento materiale, il quale è empirico
e quindi contingente, vario e relativo.
Se non che Kant, intendendo di costruire un sistema di morale pura ed
elevata, volendo dare alla morale un
fondamento assoluto, comprese che
bisognava ridurre al minimum l'azione dell'elemento empirico per riporre ìil carattere normativo
della legge morale in qualcosa di fermo e di stabile; solo cosi il dovere era fine a sè stesso. In tal guisa fu indotto a porre l'essenza
dell’imperativo categorico in una
determinazione primitiva del volere umano,
la quale non poteva non esser formale. Sicchè mentre egli aveva considerato l’ elemento formale della
conoscenza (forme dell’intuizione e
categorie), una volta separato dall'elemento materiale, come vuoto, nella
morale, per timore di contaminare in
qualche modo la purissima concezione
etica, attribui un valore assoluto all'elemento formale considerato per
sè separatamente da ogni determinazione derivante dall'esperienza. Da tal punto di vista è innegabile il
divario esistente tra la filosofia
teoretica e quella pratica di Kant, ma chi
ben riflette sul principio dell'Etica kantiana s'accorge che il detto principio formale implica in fondo
un contenuto materiale, giacchè
l'universalità della regola nun può contenere per sè forza obbligativa, ma solo
perle conseguenze buone che ne derivano,
cioè per l’accordo generale degli animi
e per lo svolgimento dei sentimenti disinteressati. In ogni caso il detto divario autorizza
forse a considerare giusta l'opinione di
chi sostiene che il pantelismo è niente
altro che la continuazione e lo svolgimento di ciò che vi ha di essenziale nella filosofia di Kant? Per
risolvere una tale questione fa d’'uopo ricercare quale sia l'essenza del pantelismo, affinchè dopo si possa vedere se
le vedute kantiane realmente coincidano
con essa. Ora il pantelismo .&fferma
che fondo e sostanza dell'universo è il volere,
ma, si noti, non il volere umano, il volere cioè intimamente «<compenetrato dall’intelligenza, bensi il
volere-forza, l’azione, l'operare per
l’operare: ed afferma inoltre l’assoluta supre.mazia della attività di fronte
all'intelletto. La fanzione
‘conoscitiva, infatti, nelle sue varie forme e gradi non è per esso che qualcosa di sussecutivo e di
secondario, una specie di istrumento
creato dall'attività. É evidente che
questa seconda affermazione è una conseguenza della prima, nella quale propriamente sta il principio
fondamentale del pantelismo. Ciò posto,
chi conosce lo spirito della filosofia
kantiana non può far a meno di constatare la profonda differenza esistente tra essa e il pantelismo,
in quanto Kant ammette, si, il primato
del volere, ma del volere che è tutt'uno
colla ragione, tanto è ciò vero che egli parla di ragione pratica, onde non è lecito
considerare come propria «della
filusofia kantiana l’ affermazione della separazione assoluta del volere e del sentimento
dall'attività conoscitiva. Per quanti sforzi si facciano non si riuscirà mai
a togliere all'etica kantiana la
caratteristica sua propria che è quella
di essere un'etica trascendente; ora chi dice
‘etica trascendente dice etica che ha un fondamento speculativo ; il che
alla sua volta include l'affermazione dell’indissolubilità della morale dalla
metafisica. Non è giusto adunque
riferirsi a Kant quando si afferma
l'indipendenza assoluta dellu morale e della religione dalla metafisica; in fondo il pensiero kantiano è
questo, che la conoscenza e la ragione per sè isolatamente considerate non bastano a darci il fondamento assoluto
dell’etica e della religione, per il che
si richiede la cooperazione di altre
funzioni dello spirito o di altri momenti della vita psichica (sentimento e volontà). L'etica e la
religione però non possono esistere
senza che sia ammesso, sia pure in forma
di postulato, un qualche fatto d’ordine speculativo. Ciò che Kant ha affermato quindi non è la
supremazia o anche l'indipendenza
assoluta del volere cieco di fronte alla
ragione, ma l'insufficienza della ragione isolatamente presa a farci penetrare nel regno
dell'assoluto e quindi la necessità
della cooperazione del volere. Dire adunque che
il pantelismo è una conseguenza necessaria e legittima della filosofia kantiana e dire che la
concezione etica e religiosa propria del
pantelismo è nel fondo quella kantiana equivale ad affermare cose non
perfettamente conformi al vero. Noi ci
siamo alquanto dilungati nell'esporre il rapporto esistente tra il pantelismo ela filosofia
kantiana in quanto le idee del Paulsen,
le quali, come ha potuto vedere chi ci
ha seguito nella esposizione analitica fattane, si riducono ad una forma di
pantelismo, non possono essere considerate come una vera e propria germinazione
della filosofia kantiana, ma vanno riguardate piuttosto come il prodotto della
fusione di svariati elementi, ai quali brevemente accenneremo.
Per sintetizzare in brevi termini il nostro pensiero intorno alla genesi storica delle vedute del
Paulsen diremo che i germi deposti nella sua mente dallo studio delle opere di Kant e di Schopenhauer
maturarono e si svolsero in modo particolare per la cooperazione di molteplici
altri fattori, quali i lavori compiuti dai neocritici, i progressi delle scienze particolari,
specialmente di quelle biologiche, e
l'allargamento della cultura in genere avvenuto negli ultimi anni. Secondo noi,
il Paulsen, spirito fornito di una
grande potenza assimilatrice, ha preso da
Kant la purezza dell'intuizione morale, e la profondità del sentiment) religioso, dallo Schopenhauer il
concetto del primato dell’ attività di fronte alla conoscenza e dalla
cultura contemporanea la tendenza a
considerare la filosofia come la sintesi
delle scienze particolari. Qui, si può
domandare : Ha il Paulsen fuso questi vari elementi in modo armonico da formare
un'opera sotto qualche rispetto
originale ? È riuscito il Paulsen a presentarci una sintesi vera dei vari tentativi fatti dallo
spirito umano per dare una spiegazione
dell’enigma dell’universo ? A noi pare
.che l'opera del Paulsen, notevole per larghezza di vedute € per chiarezza e perspicuità
nell'espressione, sia più che una
semplice introduzione o guida al filosofare, ma sia d'altra parte meno che una concezione filosofica
originale e. meno che una sintesi nuova e
prcfonda di sistemi anteriori. Sul
modo di filosofare del Paulsen oltrecchè gli elementi accennati disopra esercitarono una grande
azione le speculazioni di Teodoro Fechner. Questo filosofo (1), il quale è massimamente noto per aver fondato in
compagnia di Weber la Psicofisica, ebbe
un modo proprio di considerare e di Fechner,
professore deli0’Università di Lipsia. risolvere i problemi filosofici che
merita di essere conosciuto.. Ed è
notevole anzitutto che la Psicofisica lungi dall'essere qualche cosa di estraneo, come a prima vista
si potrebbe supporre, alle sue idee
speculative, non è che una parte integrante di queste: il che apparirà chiaro
dopo che avremo esposto ì punti
principali del sistema fechneriano.
Secondoil detto filosofo adunque dal lato interno e psichico,. la realtà piena e vera si trova nell’Unità
suprema della coscienza divina, mentre dal lato esterno o fisico vanno considerati
gli atomi quali elementi ultimi reali. L'Unita suprema della coscienza che
tutte le altre unità di ordine inferiore
contiene in sè, si deve pensare analoga a quella umana; ed allo stesso modo che vi sono delle
unità di coscienza inferiori alla umana, come quelle degli animali, delle piante, dei cristalli, ecc., così ve ne
sono di ordine superiore, intermedie
quindi tra l’umana e la divina. Tali
sono quelle delle stelle, dei pianeti e degli astriin genere. L'Uno-Tutto abbraccia colla sua coscienza
tutte le unità di ordine inferiore,
mentre queste non sanno di essere comprese nell'unità superiore. La nostra vita terminata quaggiù, entra a
far parte di uua vita superiore e più
elevata; non altrimenti che nella nostra
psiche una intuizione, quando sparisce come tale, sì conserva, o meglio rinasce come ricordo in
una sfera superiore dell'anima, così tutto il nostro spirito perdura in un'esistenza spirituale superiore. Nel mondo
di là gli spiriti non sono più collegati mediante determinazioni spaziali, ma
sono in un rapporto reciproco più elevato, più
intimo e insieme più libero.
D'altra parte l’atomo vero e proprio non può essere percepito, ma
soltanto dedotto od astratto dal complesso dei
fenomeni corporei, e figura come il punto di riferimento di tutti i nostri calcoli nelle scienze esatte.
La prova della realtà degli atomi
risiede nella necessità di farne uso; e
noi intanto arriviamo a concepirli, in quanto l’analisi dei fenomeni corporei, spinta agli ultimi limiti,
pone davanti alla nostra mente questi
elementi assolutamente semplici, i quali
appaiono condizioni essenziali dell’ interpretazione e del calcolo dei vari fenomeni svolgentisi
nell'universo. Il Fechner chiamala sua
concezione idealistica in quanto per
essa è ammessa l’esistenza di una coscienza universale o totale, la quale è come la condizione
im:nanente dell’esistenza della materia ; la chiama matertalistica in
quanto con essa viene ad essere
riconosciuto che non vi è attività dello
spirito, sia umano che divino, che non sia accompagnata da un fenomeno
materiale o di movimento ; la chiama
dualistica in quanto per essa anima e corpo appaiono irriducibili l’una
all’altro; la chiama finalmente concezione
dell'identità in quanto per essa spirito e natura sono due modi differenti d'apparire di uno stesso
processo fondamentale. Ciò che vale a
controdistinguere la veduta del Fechner
di fronte alle concezioni di altri filosofi del nostro tempo, quali l'Herbart, il Lotze, è che egli non
ammette in alcun modo l’esistenza di
sostanze finite, di reali indipendenti,
ovvero anche in connessione reciproca tra loro, ma aventi valore per sè. Per lui la realtà è nel
processo, nella vita, nell'attività
universale ; le sostanze finite, o le monadi non sono che fatti o processi di un ordine
inferiore, i quali devono la loro esistenza
ad un processo simile, ma di ordine superiore. Una volta poi ammessa così dal
Fechner la dottrina dell'animazione
universale e quella della continnità e accrescimento graduale e ininterrotto
della vita psichica e una volta riposta
l’essenza di quest'ultima non nella
qualità semplice di un reale o nella reazione di una sostanza inpenetrabile, bensi nello
svolgimento del processo universale
attraverso a una quantità di momenti di vario
ordine, è chiaro che s’' imponeva l'esigenza non solo di mostrare la possibilità della esistenza di
una vita psichica latente, ma anche di rappresentarla, diremmo, graficamente,
andando in traccia delle condizioni, per cuì si
rendono possibili quei centri concreti di attività psichica che nella loro ordinaria funzione ricevono il
nome di anime. In altri termini, in base
ai suoi concetti speculativi, il Fechner
fu spinto a ricercare una legge, poggiata possibilmente sul calcolo e
sull'esperienza, atta a dar ragione della
discontinuità rivelantesi nella ordinaria vita psichica. A tale esigenza risponde appunto la legge
psicofisica, colla quale viene enunciato
il fatto che la sensazione non comincia con uno stimolo infinitamente piccolo,
ma solo con il valore limite dello
stimolo e che l'accrescimento della
stessa cessa del tutto quando lo stimolo ha raggiunto il limite clell’altezza che è il suo limite massimo. E
qui va notato che se si fa crescere l’
intensità dello stimolo, rimanendo fra il
limite minimo e quello massimo, non ad ogni accrescimento di stimolo tien dietro un accrescimento di
sensazione; lo stimolo deve crescere di
un certo grado, cioè del limite della
differenza, perchè noi lo avvertiamo. Codesto limite di differenza però non è una grandezza
costante, ma dipende dal grado d'intensità già raggiunto dallo stimolo e
relativamente dalla sensazione, per il che si può dire che il limite di differenza dello
stimolo è proporzionale all'intensità dello stimolo stesso. L'
accrescimento della sensazione rimane
indietro all’ accrescimento dello
stimolo, in maniera che l’intensità della sensazione cresce solamente nel rapporto aritmetico (come 1, 2,
3, 4, ....); laddove l'intensità dello
stimolo cresce nel rapporto geometrico (come 1, 2, 4, 8, 16.....). | È chiaro che l’esistenza del limite
inferiore ci guarentisce una certa insensibilità, e perciò anche una certa indipendenza
dai piccoli ed innumerevoli stimoli, i quali, per così dire, senza posa ci vanno ronzando
attorno e che altrimenti ci sarebbero cagione di continue molestie. Dall’altra
parte il limite di differenza assicura alle sensazioni che entrano nella nostra coscienza una certa
durata, in quanto le preserva dalle
variazioni degli stimoli. L'impressione
piacevole che si prova all'udire un pezza di musica si fonda essenzialmente su questo fatto, che noi non
percepiamo le leggiere deviazioni dei
suoni dalla consonanza e dalla partitura, giacchè esse sono al di sotto del
limite di differenza. I valori dei
limiti inferiori sono l’espressione della sensibilità per gli stimoli e per la
loro distinzione, e come tali, mutano
non solamente da persona a persona, ma anche
da tempo a tempo, secondo il grado di stanchezza, di esercizio, di
eccitamento o di paralisi. La concezione fechneriana ha un'importanza
superiore a quella che d'ordinario le
viene attribuita in quanto rappresenta uno dei più audaci tentativi fatti in
questi ultimi tempi per coordinare i
risultati delle scienze particolari con
una costruzione quasi totalmente fantastica della Realtà. Il Fechner in sostanza dice: il meccanismo da
qualunque punto viene considerato, figura come qualcosa di relativo; tutto ciò
che é esterno in tanto ha valore in quanto
appare a qualcos'altro: pertanto l'essenziale va ricercato appunto in
questo qualcos'altro, l’esteriorità essendo semplicemente come un elemento
fenomenico concomitante. Ammesso: il
principio che a tutto ciò che è tisico corrisponde un lato psichico, è agevole pensare che a tutte le
varie formazioni fisiche (astri,
pianeti, ecc.) debbano correre parallele delle
corrispondenti formazioni psichiche fino a giungere alla Coscienza universale che tutto in sè contiene
e comprende. Ora si domanda: Il fatto di
dover ammettere un lato interno,
corrispondente a tutto ciò che appare meccanico o esterno autorizza a porre senz'altro l’esistenza di
determinate unità di coscienza intermedie tra l’uomo e Dio? Che dritto abbiamo noi di credere che la coscienza
universale diffusa sì sia, acosì dire,
differenziata in tali unità di coscienza particolari, quando pur sappiamo che
la formazione della nostra coscienza richiede condizioni e processi speciali e
di ordine complicato? Noi crediamo che
si possa é si debba accettare uno stato di psichicità o di interiorità diffusa,
0scura, ma non crediamo che ciò tragga seco la necessità di ammettere dei centri di coscienza
distinti, intermedi tra l'uomo e Dio,
giacchè i fenomeni presentati dai vari sistemi di astri non possono essere
risguardati quali manifestazioni di coscienze determinate. Anzitutto notiamo
che qualunque speculazione a tal
riguardo appare priva di valore, sia perchè essa siriduce a un modo soggettivo
e arbitrario di rappresentarsi ciò di cui noi non possiamo avere che conoscenza
astratta e incompleta, e sia perchè la conoscenza dell’interiorità in tanto può aver
significato in quanto giova al
conseguimento di fini pratici, agevolando il rapporto e il nesso reciproco
degli esseri e il perfezionamento che ne consegue. Quando per contrario
l’interiorità figura come qualcosa
d’indifferente, come qualcosa di sfornito d'importanza, quando insomma per
poter utilmente agire sulle cose basta
la conoscenza esterna fenomenica che di
esse abbiamo, la ricerca dell’interno va posta a livello di qualsiasi altro gioco della fantasia. Noì in
tanto ricerchiamo ed apprezziamo la
conoscenza dell'interno degli altri uomini in quanto da tale conoscenza ci
ripromettiamo dei vantaggi d'ordine
teoretico (cognizione della natura dello
spirito umano e delle sue leggi) e d'ordine pratico. È per mezzo di essa che noi possiamo utilmente
agire sui nostri simili e su noi stessi,
indirizzandoci a vicenda verso il fine a
cui crediamo che il genere umano tenda.
Il Fechner poi crede che ogni sistema di forze, che ogni determinato aggruppamento di elementi possa
essere considerato espressione di una distinta unità di coscienza; ora ciò evidentemente non è ammissibile,
giacchè occorre far distinzione fra
quelle coordinazioni di elementi che sono
indizi o estrinsecazioni di unità di coscienza realmente esistenti
(unità di coscienza tn sé) e quelle coordinazioni di elementi che hanno il loro fondamento
nella coscienza del soggetto che
contempla i detti elementi. Così i vari sistemi in cui la mente umana ha
ordinato l'immensa molteplicità dei fenomeni, non depongono per l’esistenza di
unità di coscienza corrispondenti, ma hanno per presupposto l’esistenza di una
coscienza, diremo cosi, estrinseca, la
-quale li ha formati, contemplando i fenomeni: invece le «coordinazioni presentate dagli organismi in
genere sono forme di estrinsecazione di
unità di coscienza distinte. Il
Fechner, avendo identificato le due sudette maniere di coordinazione, si è creduto autorizzato ad
ammettere un'’unità di coscienza in ogni sistema. Ma si può qui domandare: Vi è
un criterio per distinguere quei sistemi che
hanno per fondamento una unità di coscienza estrinseca da quelli che ne hanno una intrinseca? Ognuno
vede la grave difficoltà di un tale
problema; noi però crediamo di poterlo
risolvere, ponendo il carattere distintivo nella pro| prietà che ha l’unità di
coscienza veramente distinta (obbiettiva
e di ordine elevato) di poter non solo produrre
| ed avere vari stati, ma di poter agire su questi. Noi solo «allora siamo autorizzati ad ammettere come
espressione di un’ unità di coscienza
distinta un sistema di elementi, .
quando abbiamo degli indizi sicuri non solo che in tale sistema domina un'unità
armonica e coordinatrice, ma che questa
. produce e modifica i vari stati in cui il detto sistema sì può ‘trovare. In ogni altro caso si può parlare
di coscienza universale diffusa, ma non di coscienza distinta e molto meno . di coscienza di ordine superiore. Ciò posto, se noi esaminiamo i fatti
presentati dagli . astri, dai pianeti e
da tutti quegli oggetti che, stando a
Fechner, sono manifestazioni di unità di coscienza intermedie tra
l’umana e la divina, noi troviamo che essi
non presentano alcun indizio dell'esistenza di qualcosa di superiore e di elevato capace di agire sui
propri stati; LA FILOSOFIA
BELL'ATTIVITÀ 513 onde non è lecito
estendere la coscienza distinta al disopra
dell'uomo che presenta in modo evidentissimo la caratteristica
suaccennata. | Concludiamo coll’osse
rvare che la metafisica del Fechner,
come quella del Paulsen, non sfugge al rimprovero che si fa atutte quelle metafisiche che sforzano la
realtà, preten.dendo che l’ordine ideale di questa si realizzi per una via diversa da quella che l’esatta ricerca
scientifica dimostra vera. Tutte queste
metafisiche hanno in comune di esser
modi di rappresentazione dell’incondizionato, onde il meglio è di considerarle come mere ipotesi che nei
loro concetti e nelle loro linee più
generali è bene tener presenti senza
lasciarsene dominare, affidandosi al progresso lento, ma sicuro dell’esatta ricerca scientifica, la
quale mentre da una parte insieme con
tutta la cultura, influisce sulla loro formazione, è dall’altra atta a
decidere, con la cooperazione. di altri
elementi, del loro valore. Fine. Digitized by Google INDICEK
La Vecchia e la Nuova Frenologia
La Nozione di “ Legge, L'origine
delle tendenze immorali . Il senso
muscolare . L’obbietto della
Psicologia fisiologica . La Filosofia
dell’attività — F. Paulsen SAGGI
FILOSOFIA FRANCESCO DE S. SAGGI
DI FILOSOFIA. LA MORFOLOGIA
DELLA CONOSCENZA IL PROBLEMA ESTETICO. IL
PROBLEMA FILOSOFICO SECONDO BRADLEY we
TORINO CLAUSEN Chl 4225:2,3) HARVARD COLLEGE LIBRARY OC JACKSON FUND
(1,49 2 / ro Li te nn a A SI, io
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ZI I O i = 1° r_r_ it (i 7 E | vB8 AA
ANI TE RE IE lr LA NOZIONE DI LEGGE. La
Classificazione delle Leggi o la Morfologia
della conoscenza 0. Si è
concordi nell’ammettere distinzione tra la cono‘ scenza in generale e la
scienza, in quanto la prima implica semplice qualificazione della Realtà,
mentre la seconda include qualcosaltro
ancora, include cioè la connessione
necessaria degli attributi caratterizzanti il Reale. Se la conoscenza in generale verte sul particolare
e sul concreto, la scienza si muove
nell’ universale, nel necessario, nel.
(1) Per ragioni che qui non è necessario esporre, fui costretto ad anticipare di molti mesi la pubblicazione del
1° volume di questi Saggi, nel quale è
contenuta la « Nozione di Legge » — La trattazione di questo importante e
difficile argomento rimase come strozzata;
difatti l’ultima parte, da pag. 123 a 139, dove si parla di una classificazione
delle Leggi, non è bene coordinata col rimanente e, più che una discussione ampia sul detto argomento, è
l'eco di una serie di note prese per la
più parte dalle Lezioni di Filosofia fatte dal Masci all’ Università di Napoli negli anni
accademici 1890-91-92. Riprendo ora
l'argomento interrotto, coll’ intento di dargli quello svolgimento che a me pare che meriti. permanente, avendo
per obbietto non il dato puro e semplice, ma i concetti elaborati sul dato.
Parrebbe adunque che la conoscenza
esprimesse un rapporto o un contatto più
immediato colla realtà, essendo come l’ apprensione diretta di questa, mentrechè la scienza fosse
come una forma di appercezione mediata,
compiuta, cioè, attraverso i concetti
della nostra mente; parrebbe di conseguenza
che tra conoscenza e scienza vi fosse una differenza sostanziale in modo
da essere pressochè impossibile rintracciare, diremmo, la morfologia, o la
figliazione dei vari ordini di
caratterizzazione della realtà. Ora per veder
chiaro in tale questione a noi pare opportuno determinar bene anzitutto in che propriamente consista
la conoscenza. Questa in tutte le sue
forme, a cominciare dalla semplice
percezione a venire al concetto più astratto, lungi dal presentarsi come un contatto, diremmo,
mistico, di due sostanze - il reale e la
mente - poste l'una di fronte all'altra,
figura come un processo di appercezione, mediante il quale ogni elemento nuovo viene come
assimilato dagli elementi affini già
esistenti nella psiche, di guisa che la
legge della relatività è la legge psichica fondamentale. Ciò posto, noi vediamo che tra conoscenza pura e
semplice e conoscenza scientifica non vi
è differenza sostanziale, essendo due stadii di un processo fondamentale
identico: conoscere equivale
appercepire, assimilare, riferire l’ elemento nuovo ai già preesistenti ; se
questi ultimi, distaccati dal processo
psicologico e sottoposti ad un' elaborazione
speciale, vengono considerati come simboli, come segni per riconoscere ogni elemento affine che
sopraggiunge, sì avrà la scienza, in
quanto i detti simboli sono appunto i concetti, gli universali che rendono
possibile l’ appercezione del singolo e
del particolare: se per contrario la forma
appercettiva è incorporata nel processo psicologico si avrà la semplice conoscenza. | Onde consegue che qualsiasi forma di
conoscenza implica la cooperazione di un
elemento universale (forma appercettiva), di un elemento intelligibile, di
qualcosa che trascende il fatto concreto
particolare attualmente in rapporto immediato col soggetto e insieme che non vi
è e non vi può essere una esclusiva
conoscenza di fatti singoli e isolati :
questi son sempre appresi attraverso qualcosaltro che in certo modo li rischiara e li illumina, che,
in altre parole, li rende intelligibili.
E che cosa è questo universale attraverso cui noi appercepiamo qualsiasi fatto
singolo? Se la sua funzione è quella di
rischiarare, di rendere intelligibile il dato, idealizzandolo e in certa guisa
universalizzandolo, esso si confonde con ciò che propriamente si chiama legge. Questa infatti, come fu
ampiamente discusso altrove, è ciò che
rende intelligibili i fatti singoli e concreti, o, ciò che torna lo stesso,
rappresenta ciò che vi ha
d'’intelligibile negli ultimi, è la loro stessa intelligibilità. Eccoci
condotti adunque al risultato finale che il
dominio della « legge » si estende fin dove si estende quello della conoscenza e che pertanto una
classificazione razionale ed esauriente
delle varie forme di legge in tanto è
possibile in quanto le varie specie di conoscenza sono intimamente connesse tra loro da formare un
tutto organico. Nè sembrerà inutile
estendere in tal modo la nozione di «
legge », se si pensa che in tal guisa soltanto s' intende 4 | LA NOZIONE DI « LEGGE » la natura vera del processo conoscitivo ed
è resa possibile una vera e propria
morfologia della conoscenza. E poichè
lo spirito umano non ha soltanto la funzione
conoscitiva, ma ha anche quella emotiva e volitiva, non è priva d'interesse la ricerca dei rapporti
esistenti tra queste ultime e la
funzione conoscitiva, per vedere fin dove estende il suo dominio il fatto conoscitivo e per ciò
stesso la legge. Ora vi sono dei
prodotti dello spirito umano, quali l'Arte,
la Morale, la Religione, i quali sono da parecchi considerati come
estranei assolutamente alla conoscenza: l'Arte,
la Morale, la Religione, si dice, sono un prodotto del sentimento e
della volontà e non già dell’intelligenza umana; rella vita estetica, morale e religiosa
proviamo delle emozioni ed operiamo, ma
non conosciamo. È vera l’affermazione di caloro che pressochè escludono il
momerto conoscitivo dai succitati
prodotti dell'anima umana? Noi crediamo
che pur non essendo riducibili a meri sillogismi i fatti estetici, morali e religiosi, non
cessano però di contenere come lero
momento essenziale quello conoscitivo.
Ed invero l'Arte e la Religione, esprimendo e simboleggiando, ciascuna
alla sua maniera, il Reale, che cos’altro
fanno se non qualificare lo stesso Reale? E la vita morale che sì esplica, mirando all'attuazione di un
certo Ideale di perfezione, che
cos'altro fa se non caratterizzare come
progressiva e perfettibile la realtà stessa? L'Arte, la Morale, la Religione non sono certo un prodotto
esclusivo del ragionamento reflesso, come credevano ì razionalisti, ma non sono nemmeno un prodotto esclusivo del
sentimento e della volontà, come
vogliono gli avversari della conoscenza,
giacchè per poter significare e simboleggiare il Reale n i i it
.$. + nm ©" - —_ >= .,.>-bisogna aver una certa
idea del Reale stesso, altrimenti
l'espressione manca di ogni punto di riferimento e quindi di ogni significato. Ammesso anche che l’idea
artistica, l’idea morale e l’idea
religiosa sia come il portato di date tendenze ed esigenze dell'anima umana,
ciò non esclude che qualsiasi
determinazione estetica, religiosa, ecc. sia come una maniera di conoscere e di sperimentare il
Reale, giacchè le dette tendenze ed
esigenze (sentimenti e volizioni) involgono sempre un elemento intellettivo o
appercettivo. L'Arte, la Religione, ecc. sono poi come vari punti di vista, come varie posizioni di prospettiva
per poter ap-. percepire la realtà, per
modo che attraverso le differenti forme
che esse assumono noi possiamo comprendere i
singoli fatti riferentisi alle rispettive sfere estetica, religiosa,
morale. D'ordinario si crede che un fatto estetico o religioso sia qualcosa d’ individuale, di
concreto, di singolare, qualcosa di chiuso in sè stesso; ora ciò mal si concilia
colla funzione universalizzatrice, tipificatrice e idealizzatrice attribuita
alla funzione estetica, religiosa e
morale. Lo spirito umano quando crea il bello e foggia il simbolo religioso o pone l'ideale morale,
attua i mezzi attraverso cui può
intendere la molteplicità dei fatti concreti e particolari riferentisi alla
sfera dell’arte, della religione e della
morale. Nei casi suddetti adunque la mente
umana da una parte conosce, ha un certo concetto (comunque formatosi)
del reale, e dall'altra porge i mezzi
attraverso cuì possono essere appercepiti una quantità di fatti singoli e concreti che si presentano
nella vita ordinaria. Allo stesso modo che, perchè sia scoverta una legge scientifica occorre il Genio scientifico,
perchè sia scoverto un punto di vista: nuovo da cui appercepire la realtà
in ordine alla morale, alla religione e
all'arte - punto di vista che fissa
l'orientamento in ciascuna di queste orbite sì richiede l'influenza del Genio.
In entrambi i casi il processo è sempre
quello di appercepire e di fare appercepire in un dato modo la realtà, di
ordinare la molteplicità caotica dei fatti singoli, il che equivale a dire che
lo scopo è sempre quello di
caratterizzare e qualificare la realtà.
In fondo ad ogni opera estetica, morale e religiosa si trova poi un giudizio in cui vengono
enunciate le diverse manifestazioni o
differenze di un’ identità fondamentale, un
giudizio in cui vengono esposte le maniere di articolarsi tra loro delle parti componenti un tutto e in
cui infine vengono enunciate le
determinazioni possibili o ideali e non
attualmente reali. Si dice che mentre
l'ipotesi scientifica è formata per
spiegare i fatti reali che da essa conseguono, le costruzioni ideali
dell'Arte, della Religione e della Morale sono
prodotti arbitrari dello spirito, i quali hanno la loro ragione in sè
stessi; ora ciò è vero entro certi limiti per il fatto che scopo dell’Arte, della Morale e
della Religione non è quello di spiegare
il dato, bensì quello di presentare
sotto nuova luce il Reale, di mostrare cioè le varie direzioni entro cui
lo stesso è concepibile. Sarebbe erroneo
però supporre che le costruzioni ideali summentovate siano destituite di qualsiasi fondamento reale:
esse poggiano invece sulla natura
propria dell’ anima umana; e se non sono
costruite in vista degli effetti che da esse conseguono, stanno però sempre ad indicare le maniere in
cui i dati « della realtà possono essere
armonizzati tra loro. Anche l'Arte più spontanea e immediata ha l’ufficio di
sistematizzare, di portare un certo ordine nel caos della realtà empirica. L'Arte produce un godimento più o
meno intenso per il fatto stesso che è
espressione armonica di ciò che la vita
contiene. La realtà passata attraverso l’anima
dell’artista assume una certa « forma », per cui vengono ad esser tolte le asperità dei dati reali e
vengono ad essere come smussati gli
angoli presentati dal decorso delle cose.
Non temiamo di metter fuori un paradosso dicendo che le contradizioni più stridenti dell'universo espresse
dall’artista si trasformano in qualcosa
d'armonico e di sistematico. Sta in ciò
il vero incanto dell'Arte, la quale per esprimere le dette contradizioni, deve per forza
renderle in qualche modo intelligibili,
trasfigurandole e facendone intravedere
l’unità armonica, Si dice
inoltre che la scienza prova e dimostra, mentre
l'Arte, la Morale e la Religione semplicemente costruiscono : ciò è vero ed ha la sua ragione nel fatto che
la scienza vive e si muove nel mondo
delle astrazioni e delle formule,
mentrechè le altre produzioni dello spirito umano si muovono nel mondo
dei tipi concreti, delle individualità. Ciò
che è astratto e formale è immutabile e necessario, mentrechè ciò che è
concreto, ciò che vive, sfugge sempre
per una parte alla misura ed all'analisi quantitativa. A tal proposito giova ricordare che ogni forma
di prova e di dimostrazione in fondo è
riducibile ad un rapporto di
identificazione. Provare, dimostrare equivale a valutare quantitativamente, equivale a ridurre e ad
identificare tra loro gli elementi
formali (le forme) di due cose o eventi.
Può essere identificato solo ciò che presenta una medesima qualità
variabile quantitativamente, non già ciò che presenta qualità differenti e
irriducibili. Riassumendo, noi diciamo
che in fondo ad ogni fatto estetico,
morale e religioso, non altrimenti che in fondo ad ogni fatto scientifico, si riscontra
un’idea, un concetto, il quale per
essere accompagnato nel primo caso da sentimento (interesse) non permane quale
concetto, ma col calore del sentimento
si tramuta in fantasma, in rappresentazione concreta, e ciò perchè il
sentimento tende al concreto, al
rappresentabile e rifugge dall’astratto. Onde
è chiaro che la diversità tra l’appercezione del reale fornita dalla conoscenza scientifica e quella
che ha luogo nel processo estetico,
religioso, etico sta in questo, che la
scienza sia che muova dai fatti singoli, o da concetti (ipotesi) o da principii generali, mira a
spingere o a far rientrare il
particolare nel generale, mentre l'Arte, la
Morale e la Religione tendono sempre ad obbiettivare in forma di tipi o di sistemi concreti, i
concetti o i principii generali: tipi e sistemi che operano come ideali, a cui si deve rapportare la realtà empirica
ordinaria. Va notato qui che la vita
morale, estetica e religiosa da una
parte e la scienza dall'altra, pur seguendo una via diversa nel loro modo di procedere, concordano in
questo che in fondo tutte idealizzano
l’esperienza o il dato e per tal via
simboleggiano il Reale; l'idealizza la Scienza riducendo i fatti a concetti e l’idealizza l'Arte, la
Religione e la Morale col presentare i concetti non incorporati in una
data rappresentazione singola, ma in una
rappresentazione generale, in una rappresentazione tipo atta a raccogliere ed
a sintetizzare in sè molteplici dati
particolari. Giacchè a tal proposito non bisogna dimenticare che l’Arte, la
Religione o la Morale, se da una parte
non volgono su concetti, dall'altra non
volgono su dati di fatto (come fa la storia
— e in generale le cosidette scienze descrittive come la geografia, la
cosmografia, la geologia), ma su tipi, su ideali, su fatti dunque concreti universalizzati,
considerati sub specie ceternitatis. Per
noi insomma la scienza elabora concetti (universali astratti), le scienze
narrative o descrittive riproducono fatti concreti determinati col maggior numero di particolari possibili in modo da
richieder però sempre un ulteriore
complemento, l’Arte, la Religione e la
Morale. hanno a che fare con tipi (universali concreti), con individualità. Possiamo conchiudere col dire adunque che
non vi ha funzione dello spirito umano
che non implichi il momento della
conoscenza e che quindi tutte le produzioni dello spirito- umano ci forniscono qualche maniera
di appercepire la realtà nelle sue svariate e molteplici determinazioni
singolari. Alle varie forme di appercezione corrispondono le varie specie di
leggi. Dal fatto che il processo della
conoscenza è fondamentalmente uno e che esso si estende per tutto il
dominio dell’attività dello spirito non
consegue che esso non presenti delle notevoli differenze in modo da
giustificare l'esistenza di varie
categorie di leggi. E invero, vi sono
delle forme appercettive, le quali agiscono come leggi nel senso che rendono possibile la comprensione e
l'intelligibilità dei dati singoli concreti, ma non possono essere distaccate dal processo psicologico in seno a
cui operano e quindi non possono
assumere la forma di giudizi, come le
40 LA NOZIONE DI « LEGGE »
leggi vere e proprie, per modo che esse mentre agiscono inconsciamente ed organicamente nella mente
degli individui, non si rendono appariscenti che ad uno stadio tardivo della riflessione. Di tal fatta sono le forme
appercettive inerenti agli stadii
iniziali della vita psichica ed ai prodotti
elevati dello spirito quali l'Arte, la Morale e la Religione. Volendo però presentare una prima (1)
classificazione completa delle forme appercettive o leggi, le divideremo
in quattro grandi categorie, in forme o
leggi di riferimento o assimilative, in
forme o leggi rudimentali, in forme o leggi
relazionali e in forme o leggi sistematiche. Queste non possono essere formulate per via
di giudizi, perchè sono anteriori alla
formazione delle idee quali segni del
reale, anteriori al linguaggio significativo, anteriori al distacco cosciente e voluto del
significato dal fatto. Parrebbe a prima
vista che questa classe di leggi non
avesse ragione di esistere una volta che esse non possono essere enunciate, ed una volta che l'essenza
della legge è stata riposta appunto nel
was, nel significato, nell’ elemento intelligibile distaccato dalla realtà; ma,
se ben si (1) Diciamo prima
classificazione, perchè, come vedremo in seguito, sì può fare una seconda classificazione delle
forme appercettive, tenendo conto delle varie maniere in cui la conoscenza è
acquistata. + s- n ®* re» i fi n e ca riflette, nel caso delle leggi
assimilative il processo d’idealizzazione esiste sempre, il was, pur non avendo
ancora trovato un'espressione decisa, e
pur non essendo stato staccato dalla
matrice psichica, è attivo, è sempre in
funzione, tanto è ciò vero che la conoscenza di nuovi fatti è resa possibile appunto da tale modo di
operare dell’attività psichica. Se per legge si deve intendere ciò che rende possibile l’appercezione di un nuovo
elemento, perchè non dovrebbe meritare il nome di legge ciò che rende | possibile qualsiasi forma rudimentale di
conoscenza ? Siffatte leggi concrete operano in tanti modi diversi in
quanti si può esplicare l’attività
tipificatrice e assimilatrice della
psiche. Lo studio di queste forme è di esclusiva spettanza della Psicologia, la quale dà ragione del
nesso o delle relazioni esistenti tra i
vari elementi psichici e della ricognizione, fondandosi sulla funzione
identificatrice della mente. Per
esprimere nel modo più chiaro il nostro concetto in ordine alle dette leggi,
diciamo che esse non sono propriamente
leggi, ma funzionano come le leggi. 2.
Leggi rudimentali. Se il dominio della
conoscenza coincide con quello della
legge, se cioè ogni forma di conoscenza implica una certa universalizzazione del dato, è evidente che
anche i giudizi enuncianti fatti singoli
vadano considerati come leggi rudidimentali o iniziali universalizzazioni dei
fatti percettivi. Ed invero, per
convincersi come qualsiasi giudizio racchiuda
come a dire, in modo rudimentale una verità universale, giova tener
presente in che propriamente consista il giudizio. Molto si è discusso a tal
proposito e non intendiamo far qui la
storia critica delle varie teorie emesse : a noi basta richiamare l’attenzione su questo, che
il giudicare non può ridursi
all'affermazione o al riconoscimento di una
relazione tra due idee, come non può ridursi senz’ altro all'affermazione di un dato nesso tra due
cose. In entrambi ì casi viene ad essere
sformata la natura vera del giudizio, in quanto, se ben si riflette, in tali
casi le nozioni di verità e di falsità
inerenti alla funzione giudicatrice non
ricevono alcuna spiegazione. Il giudizio nasce dal riferimento di un
contenuto ideale alla realtà, contenuto ideale
che può essere o non essere appropriato ad un dato fatto (verità o falsità di giudizio), per il che il
giudizio da una parte si eleva al di
sopra dell’esperienza attuale e dall’altra
non è tutto nella sfera delle idee, avendo un punto di contatto colla
realtà. Il giudizio consiste nell’idealizzazione del dato. Rendere intelligibile il reale, ecco
l'ufficio del giudizio. Ora la legge
che altro ufficio ha se non quello di rendere
intelligibile l’esperienza, estendendola e rendendola continua nelle sue
varie fasi o stadi? Se non che si potrebbero
fare due osservazioni: 1° non è chiaro come il giudizio che è costituito di termini ideali, possa
riferirsi al reale, al fatto obbiettivo
che è sempre qualcosa posto al di fuori
della mente che giudica: 2° se si riesce perfettamente a capire l’identificazione dello « leggi » coi
giudizii universali e ipotetici — i quali poi sono ì più lontani dalla realtà concreta, in quanto si riducono a
connessioni di attributi o di qualità, d'idee e quindi di astratti —, non
si riesce nient’affatto a capire come i
cosidetti giudizii categorici (giudizii singolari, impersonali, dimostrativi,
ecc.) possano essere considerati come
leggi rudimentali, come fatti, diremo
così universalizzati, considerati sud specie
aeternitatis. | Esaminiamo le
due suesposte obbiezioni. 1° Come mai
ogni giudizio, sia percettivo o universale,
può essere schematizzato nel modo'seguente. « Il reale è tale che........ » 0, « Il mondo reale è così
qualificato che........ +», come mai il
giudizio si può ridurre ad un
riferimento al reale, al reale indeterminato in un caso e designato per mezzo di idee nell’altro?
Certamente, se noi consideriamo lo
spirito umano come un’ entità a sè posta
al di fuori della realtà che gli sta di rincontro, se noi imaginiamo la psiche e l'universo come due
mondi staccati, estranei l’ uno all’
altro, non arriviamo a concepire come
possa stabilirsi il contatto dell’io col reale: ed oltrechè appare incomprensibile la conoscenza quale
peculiare relazione tra due mondi separati, perchè si introduce il concetto di
spazialità e di estensione e di uno fuori dell'altro, dove non vi è ragione d'introdurlo, si è
costretti poi a considerare i fatti
spirituali, i processi psicologici come
una reduplicazione del reale. Da tal punto dì vista il mondo ideale della psiche, pur essendo in
corrispondenza col mondo reale, è come
qualcosa d’autonomo, di chiuso e
completo in sè, per modo che l'atto giudicativo p. es., lungi dal rappresentare la qualificazione del
reale, il prodotto del contatto del reale col subbietto, è un processo del tutto ideale, avente soltanto il suo
corrispettivo nel reale. Ora tale veduta
è del tutto erronea: lo spirito non è
posto al di fuori del reale, ma è, vive ed opera in esso: allo stesso modo che
il fiore non è fuori dell'albero, e
questo non è fuori dal terreno e dall'ambiente esterno, da cui anzi riceve nutrimento e tutto ciò che
gli è necessario per la vita, così la psiche non è fuori, anzi è intimamente
collegata col reale, dal quale essa trae la vita vera. Occorre aggiungere però che la mente,
avendo per sua natura l'ufficio di dare
un significato, di obbiettivare il
reale, il quale vive nel soggetto, da una parte è contenuta nel reale e
dall'altra lo contiene, in quanto ciascuno costruisce il suo mondo coi
materiali forniti dall'esperienza, diremo così, psicologica, subbiettiva. Da
tutto ciò consegue che il contatto del
reale col soggetto non è qualche cosa di
accidentale, e di temporaneo, ma rappresenta la condizione essenziale della
vita di quest’ ultimo. L'individuo sente continuamente tale contatto e per quanto mostri di allontanarsene col
qualificarlo, col determinarlo e specificarlo in varie guise mediante segni,
ipotesi, ecc., che sono sempre in ultima
analisi astrazioni, .con tali processi
non ha altro obbiettivo che di trovare un’cspressione intelligibile e
schematica della realtà che vive, agisce
ed opera in lui. Se noi seguiamo il processo graduale con cui si passa dal
soggetto (reale), quale è espresso in
modo indeterminato nei giudizi rudimentali (giudizi impersonali), al soggetto
espressu mediante indicazioni, ma sempre
privo di qualificazioni e di specificazioni (giudizi dimostrativi), per venire al soggetto
designato da un'idea (giudizi universali
ipotetici), noi troviamo che lo scopo ultimo a cui sì mira è di illuminare la
realtà a cui noi ci sentiamo legati
mediante la nostra stessa vita. Con ciò
non si vuol dire che la realtà consiste esclusivamente nel contatto che
noi abbiano con essa nella percezio..e sensoriale: la realtà si estende in modo
continuo oltre tale. punto; ma vogliamo
affermare che il reale così sentito è
come il punto di ritrovo per formare la base di operazione ideale che ha per risultato la concezione
generale o la costruzione dell’universo.
Noi possiamo conchiudere che la realtà,
essendo primitivamente la realtà quale è pusseduta da ciascun di noi, in ogni
giudizio è rappresentata da una data
percezione o idea atta a designare il fondo
reale, che così viene ad essere in qualche modo determinato. Se ciò non
avvenisse, il reale rimarrebbe qualcosa
d'inesprimibile e d’innominabile. Quando ciascuno di noi formula un
qualsiasi giudizio, certamente non ha
coscienza di fare delle distinzioni nel
reale per riconoscere la loro identità fondamentale: quando io dico « la neve è bianca », certamente non
penso che il processo logico vero è
questo : « quella cosa, quel reale che è
neve è bianco », oppure «-la realtà è qualificata anche dall’idea complessiva neve-bianca »; ma ciò
avviene, perchè noi fondiamo il reale con quella parte di esso, che noi in un dato momento riesciamo a distaccare dal
fondo totale in virtù dell’ interesse
che la detta parte suscita in noì. Se il
nostro potere appercettivo non fosse limitato, e se il processo mentale non si riducesse in fondo ad
una simultanea sintesi ed analisi, noi non formuleremmo i giudizii nel modo in cui facciamo. Noi, in sostanza,
da un complesso percettivo per ragioni di varia natura, separiamo una parte e questa qualifichiamo col
riferirle un dato contenuto ideale: ma la parte anzidetta non è un
semplice aggettivo, un'idea qualsiasi,
un universale ‘astratto, ma è come il sostitutivo abbreviato della realtà, è
come la realtà contratta in punto,
perchè ciò agevola la nostra
operazione. In qualsiasi giudizio
adunque ciò che forma il nerbo
dell'operazione logica è l’idea, onde sorge la necessità di determinare in che consiste l’idea o
contenuto ideale, che mediante la
funzione giudicatrice vien riferito alla realtà. La vita psichica fin dall'inizio è
controdistinta dalla tendenza a tipificare. Dal momento che il contenuto
della psiche dapprima indistinto e
indeterminato, comincia ad essere
differenziato, analizzato e riconosciuto suscettibile di determinazioni di vario genere, degli
elementi vengono, per così dire,
staccati dall'insieme: e son questi elementi
astratti ed universali che rendono possibile l’ apprendimento di nuovi
fatti particolari e concreti, in rapporto
all'eguaglianza od all’ identità che taluni elementi di questi ultimi presentano coi primi. Come si
vede, fin dall’inizio l'attività psichica si esplica universalizzando, fissando,
cioè, l'elemento essenziale, e comune ad una serie di rappresentazioni concrete diverse,
ripetentisi un certo numero di volte,
per servirsi di esso come mezzo di intelligibilità di altri fatti particolari.
Non è a credere però che tale elemento
universale e identico sia da considerare
come qualcosa di sostanziale, come un fatto avente sede in un sito della psiche: una tale concezione
mitica deve essere assolutamente
bandita: siffatto elemento universale si
riduce ad una funzione della mente, ad una forma di attività più facilmente esercitata, ad una
specie di abitudine, ad una facoltà, ad una potenza viemaggiormente disposta ad ‘entrare in azione in seguito a
dati stimoli ed a particolarizzarsi variamente secondo le condizioni. Ma finchè l universale contenuto nella mente non
si fissa e sì determina in un segno
(nome), e fin che questo colla imagine
psichica (rappresentazione particolare) concomitante, non è risguardato qual
simbolo avente un significato relativo a
qualcosa di permanente, per sè esistente al di
fuori della mente, non è a parlare di idea nè di funzione giudicatrice. Per modo che noi possiamo
affermare che, affinchè si abbia l’idea
e il giudizio (i quali sono inseparabili fra loro, giacchè l’idea in tanto è
idea in quanto, mediante il giudizio,
viene considerata come segno, come |
qualità, come attributo riferibile al reale, in quanto, cioè, mediante la funzione giudicatrice
l'elemento ideale viene consciamente
riconosciuto separabile dal fatto), è necessario che l' universale, che
dapprima operava inconsciamente nella mente, essendo per così dire incorporato
nel fatto o processo psichico concreto,
venga ad essere riflessivamente distaccato da questo e considerato per sè,
venga ad essere riconosciuto mezzo
appropriato a rendere intelligibili i fatti concreti. Tale universale è
particolarizzato e concretizzato in
un'imagine psichica (nome e rappresentazione particolare), la quale è
riguardata come sostituibile da qualsiasi altra omogenea e quindi fornita
di valore vicariante. Riassumendo, noi possiamo dire che l'idea si
riduce a quell’elemento universale,
astratto ed addiettivo (qualità o
relazione) che, particolarizzato in un segno (nome o imagine psichica sostituibile per mezzo di una
qualsiasi altra), vien considerato come
simbolo avente un significato obbiettivo. È evidente che le idee come idee non
possono esistere al di fuori della mente del soggetto: se esse sono degli astratti universali (aggettivi), non è
possibile che esse abbiano un'esistenza
indipendente. Lo spirito umano, non
potendo penetrare nel cuore della Realtà, non potendo ‘vivere la vita del Tutto, sì contenta di
analizzare e di determinare il contenuto
di essa mediante qualità e relazioni, le quali se si riferiscono, se accennano,
se simbo leggiano il Reale, non vanno
identificate con questo. Sicché le
idee da una parte non sono semplici fatti psichici e dall'altra non sono
realtà, ma sono segni del Reale. Il
fatto psichico concreto diviene idea logica non appena esso è fissato e riferito, il che può
avvenire soltanto mediante la denominazione, denominazione che indica obbiettivazione,
e che è da considerare piuttosto un segno
dell'atto intellettuale (giudizio) che l’atto stesso. Vien data così la forma esplicita del giudizio a
ciò che prima era soltanto un fatto
psichico concreto, una rappresentazione forse persistente, perchè identica in
sè stessa attraverso i mutamenti e le differenze, ma sfornita di qualunque
riferimento cosciente a qualche cosa di obbiettivo. Da tal punto di vista idea e giudizio sono
coevi e proce dono di pari passo,
giacchè il secondo lungi dall’essere una
combinazione meccanica di parti esistenti l'una fuori dell'altra (impressioni, idee, concetti), è
l’espressione, forse la sola vera
espressione, come dice il Bosanquet, dell'unità
della coscienza ed è il generatore di ogni idea o concetto. Il giudizio può contenere idee complesse, ma
in quanto giudizio, presenta il
contenuto di una sola idea, la quale
esiste solo nell’atto del giudicare. É l’astrazione che separa i due elementi intimamente compenetrati tra
loro. E qui cade in acconcio notare che quando noi abbiamo dei dubbi circa l’esistenza di un giudizio
vero e proprio (negli animali p. es.),
il miglior modo d'assicurarsi è di
ricercare se in ciò che sì suppone attività giudicatrice vi sia qualche cosa che possa essere in modo
intelligibile negata (di cui sia possibile
la negazione e la falsità); invero ciò
che rende possibile .il giudizio è il distacco dell'ideale dal reale, del vas dal dass, si è la
formazione dell'idea quale esiste nella
nostra mente, idea che è vera soltanto se effettivamente compete alla realtà.
Fino a tanto che noi non abbiamo ragioni
per credere che nell’ intelligenza degli
animali esistano delle imagini aventi un dato significato obbiettivo, dei fatti psichici atti ad essere
riferiti a qualche cosa che trascende
l'attualità psichica, noi non possiamo
parlare di attività giudicatrice: niente, infatti, in tali casi. può essere intelligibilmente negato, non
l’esistenza dello idee adoperate nel
giudizio, non l'affermazione del loro
significato. | 2° Passiamo ora
alla seconda obbiezione. Come è possibile considerare i giudizi categorici
quali leggi rudimentali? L’obbiezione a prima vista presenta delle
difficoltà insormontabili: da una parte
abbiamo i giudizi universali ipotetici,
i quali effettivamente enunciano dei principii,
delle verità d’ordine generale e possono essere considerate delle vere e
proprie leggi, — e sono quanto di più
lontano si possa immaginare dalla realtà determinata e concreta —, dall'altra abbiamo i giudizi
categorici, i quali sono realmente
qualificazioni del reale, ma esprimono
verità contingenti, particolari. Per convincersi se e fino a che punto i giudizi che asseriscono semplici
fatti (giudizi categorici) siano da considerare come leggi rudimentali, è bene anzitutto enumerarli rapidamente,
affinchè possano essere resi evidenti i
caratteri che li contraddistinguono.
Qui, prima di andare innanzi cominciamo col notare che non esistono giudizi enuncianti la semplice
esistenza del dato, ma sempre giudizi
enuncianti qualche maniera di presentarsi di esso, enuncianti quindi qualche
qualificazione, qualche attributo o
relazione: anche i cosidetti giudizi
storici non esprimono puramente l’esistenza dei fatti, ma, se non altro la relazione dei fatti in ordine
al tempo ed allo spazio, per modo che
questi figurano come forme appercettive atte ad ordinare ed a caratterizzare in
qualche modo l'insieme dei fatti
accaduti. Questi ultimi vengono
riprodotti in maniera particolare in rapporto allo spazio ed al tempo, i quali così vengono a dare una
rudimentale universalizzazione ai dati
concreti. Occorre notare chie il sapere
di una cosa di fatto è vero nel momento
in cui si formula il giudizio: in un altro
momento potrebbe cessare di esser vero, ma in tal caso il sapere che se ze aveva prima non sarebbe
divenuto falso, pevchè esso si riferiva
allo stato di cose che aveva luogo nel
primo di quei momenti e rispetto a tale stato
di cose il sapere che se ne aveva e che se ne ha è sempre vero, esprime
un nesso, rudimentalmente quanto si
vuole, ma sempre necessario ed universale tra il soggetto e l’attributo in quel dato punto del tempo e
dello spazio. Dicevamo adunque che non
esistono g.udizi puramente esistenziali
e ciò si comprende agevolmente se sì pensa
che l’idea della realtà o dell'esistenza, come l’idea del dato, del questo, non è un'idea come le
altre, non è riducibile ad un ordinario contenuto simbolico, il quale, distaccato
da una determinazione attuale del reale, possa essere adoperato senza tener conto più di questa, ed
essere riferito, diremo così, a qualcosaltro. Le idee d'’ordinario sono per così dire estratte da un dato fatto o da
una serie di fatti e poi possono essere
riferite ad un nuovo fatto (simile,
analogo o identico) che sopraggiunga: ora ciò per l’idea del dato non può avvenire, appunto perchè in
tal caso l'idea è inconcepibile per sè
presa: l’idea del dato non può riferirsi
che a ciò che è dato: ma, si domanda, a quale
dato? al dato con cui il soggetto si trova attualmente in contatto? ma questo è un processo ozioso,
inutile e insignificante, perchè non vi è alcun bisogno di asserire che la realtà è reale quando io mì trovo a
contatto della realtà: si può sentir
bisogno di qualificare in qualche molo
la realtà presente nella percezione, ma non di affermare che è reale. E, se ben si riflette, tutto le
volte che si ricorre all’ enunciazione
grammaticale di un giudizio esistenziale è sempre per asserire in modo più o
meno celato e inconscio qualche
attributo o qualche relazione del dato.
È inutile aggiungere che l’idea del dato non può essere riferita a ciò che non è dato, perchè in tal
caso si cadrebbe in contradizione. Da
ciò emerge chiaro che l’idea di
esistenza non è mai un vero predicato. I In altre parole, l’esistenza non è una nota,
una qualità, una determinazione che si
possa aggiungere idealmente ad una cosa.
La realtà, il dato, l’esistenza è sostantivo e non aggettivo, vale a dire, non è elemento
astratto ed universale atto ad inerire,. a caratterizzara qualcosaltro. La nostra niente può - formare anche l’idea
della realtà, ma questa è infeconda, non può estendere nè ampliare il nostro
sapere: essa non ha consistenza come elemento isolato e per sè preso, essendo
inseparabile dal fatto da cui la nostra
mente l’ha per un istante disgiunta. Vi sono
delle note, delle determinazioni, degli universali astratti, delle idee che noi possiamo o non possiamo
attribuire ad una cosa, e ve ne sono
anche di quelle che non possono essere
negate senza sformare la cosa, ma non ve ne sono di quelle che qualificano la cosa come cosa,
come reale. L'essere cosa (l’esser
reule) non è una nota come un’altra:
tolta essa non rimane più nulla, non già che rimanga qualcosaltro che
non sia quella cosa. Essa può essere per un
istante considerata come nota, ma come nota d’un ordiae speciale, come nota sostanza che trae seco
per forza il dato. Reale non può essere
che l'aggettivo della realtà: l'essere
una cosa non può essere predicato che di una cosa; mentrechè una qualsiasi altra idea può essere
predicato di questa o di quella cosa. Nell’enumerazione
dei giudizii somme ai semplicì fatti
seguiremo lo schema di BOSANQUET – citato da H. P. Grice, “Prejudices
and predilections, which become the life and opinions of H. P. Grice” -Giudizio
qualitativo propriamente detto, enunciante una
qualità sensoriale: es. ‘COME’È CALDO’ -- sott’intendi l’acqua, la stanza, ecc.; giudizio interiettivo esprimente
un'emozione, o meglio, l’idea di
un’emozione, nei quali, dal fatto psichico emotivo è distaccata l’idea come SEGNO di esso: es. ‘Cattivo!,’
‘Che dolore!’. Al giudizio propriamente interiettivo fa d’uopo aggiungere il
giudizio o meglio, la proposizione imperativa, precativa, ammirativa, interrogativa,
ottativa, ecc., con le quali espritiamo un comando, una pres -- Giudizio impersonale. Es. ‘Piove.’ Giudizio percettivo, enunciante un fatto
presente che viene esteso per mezzo di
idee, rappresentazioni, imaginì, ricordi
riferentisi a ciò che non è attuale. Es. quando noi riconosciamo un individuo e lo chiamiamo per
nome, not « vediamo chi egli è »,
abbiamo la percezione di lui, Giudizio dimostrativo,
il quale ha per soggetto « questo » « ora » « qui ». Es. ‘Questo è freddo’, ‘Ora piove’, ‘Quì è buio,’ Tutti questi
giudizi presentano a prima vista la caratteristica comune di riferirsi
direttamente al reale, qualificandolo variamente. Il loro soggetto esprime, in
modo indeterminato, senza alcuna
specificazione, cioè, per mezzo di idee,
il contatto del reale col soggetto; dal che si
sarebbe tratti a conchiudere che siffatto giudizo è agli antipodi di ciò che ordinariamente si chiama legge. Questa, infatti, è universale e astratta in
quanto esprime la sintesi di attributi,
di due aggettivi e viene formulata per
mezzo di un giudizio ipotetico : il giudizio categorico della specie summentovata è invece
individuale, concreto in quanto
caratterizza, qualifica direttamente il dato e
viene ad esser riferito a ciò che esiste per sè. Il giudiziolegge, come
ordinariamente è inteso, non esprime che la
ghiera, un sentimento di meraviglia e così via. Questi giudizi non vanno confusi con le espressioni emotive
corrispondenti, giacchè essi sono resi
possibili dal distacco dell'idea dal fatto psichico concreto. Il fatto psichico è individuale, soggettivo e
affatto incomunicabile (è sentito),
mentrechè l’idea formata mediante il giudizio, mediante il riferimento di una qualità od attributo
comune ad un fatto psichico concreto
sentito, è comubicabile, universale, obbiettiva (è intesa). conseguenza di una
data supposizione senza dir nulla circa.
la realtà dei suoi termini; che esista o no nella realtà un triangolo, che esista o no nel fatto in un
dato momento e agisca o no nell'organismo un dato veleno, la legge matematica riferentesi al triangolo e
la legge biologica relativa all’ azione di un veleno sull'organismo è sempre vera. Lo stesso non si può dire del
giudizio categorico, il quale enuncia, qualificandolo, un fatto quale è attualmente, non nella sua possibilità,
tanto è ciò vero che in esso il soggetto
non può essere negato in modo
intelligibile, vogliamo dire che il soggetto non essendo specificato e
determinato in alcuna maniera, non può subire
alcuna alterazione senza cessare di esistere del tutto, e non soltanto come tale e tale altro. A prima
vista adunque si direbbe che tra i giudizi categorici summentovati e quelli ipotetici o leggi vi sia assolutamente
un abisso: il che poi menerebbe alla
conseguenza che mentre i giudizi, diremo
così, rudimentali, esprimerebbero effettivamente delle qualificazioni del Reale, i giudizi
ipotetici universali enuncierebbero soltanto
delle relazioni tra idee. Ora è ciò
vero? Prima di tutto richiamiamo alla mente qual’è l’essenza e l’ufficio
della funzione giudicatrice. L'essenza e l’ufficio del giudizio è, per così
dire, di simboleggiare il fatto, di
trasformare il solido fatto (mi si passi la similitudine) nella volatile idea, di sostituire a ciò che
non può essere oggetto di scambio un
qualcosa che ha valore in quanto segno,
e che è facilmente comunicabile : ora ognun vede che, affinchè ciò avvenga, è necessario che
il fatto sia universalizzato : e che
cos’ altro è mai la legge se non l’
universalizzazione e il processo ideale (astrazione) praticato sul fatto? Ciò
non basta: noi abbiamo detto che il
giudizio si riduce al riferimento di un contenuto ideale alla realtà, il che vuol dire che il giudizio
non è la semplice espressione di una modificazione soggettiva sopravvenuta in
seguito al contatto della realtà col soggetto,
come sarebbe il grido erompente dalla bocca di chi sì trova in un stato emozionale, ma è un
processo per cuì la modificazione del
soggetto a contatto del Reale viene
appercepita per mezzo di qualcosa di universale che mediante l’atto
giudicativo stesso assume una certa configurazione per mezzo della parola,
passando dallo stato di potenza o di
funzione virtuale in atto funzionale. Ora
l'importante è questo, che quando l'atto giudicativo più rudimentale si compie, non è a credere che il
fatto rimanga, dopo che ad esso è stata riferita l’idea, sempre fatto inalterato: un tale modo meccanico di
concepire il giudizio non è ammissibile,
perchè non esiste il fatto da una parte
e l’idea dall'altra : l’idea esiste in quanto si riferisce al fatto e questo
messo in rapporto con l’idea, non è più
un semplice fatto qualsiasi, ma è come a dire idealizzato, è alterato in
rapporto al contenuto dell’ idea. Alcuni
dei molteplici, innumerevoli elementi costituenti il dato vengono lasciati da parte ed altri
vengono ad emergere, perchè armonici
coll’idea. Insomma quando un qualsiasi
giudizio si formula, il contenuto reale reagisce sul dato, trasformandolo in qualcosa di
universale e di astratto, per modo che
in ultima analisi si ha sempre una
sintesi ideale di addiettivi. E
del resto, se ben si riflette, si vede subito che, tolto al giudizio il carattere di universalità,
esso non ha più ragiono di esistere, in quanto diviene un atto del tutto soggettivo, individuale e quindi qualcosa
d'inesprimibile, d'incomunicabile e
d’inintelligibile. Quando formulo un
giudizio sensoriale qualitativo o interiettivo, quando io dico, ad esempio, « ho dolore al dito », io
in sostanza af-_ fermo un qualcosa
d’universale, nè può esser diversamente,
giacchè in caso contrario primamente non sarei inteso da nessuno e poi tale giudizio difficilmente
potrebbe essere ripetuto, mentrechè è
innegabile che esso viene enunciato
innumerevoli volte nelle condizioni più diverse. Il mio dolore al dito non è quello di un altro: se
ne differenzia per rapporti di tempo, di
spazio e per una molteplicità di
circostanze, per modo che io dall’ insieme della realtà quale mi è presente in un dato punto,
astraggo un elemento per metterlo in
rapporto con un'idea (segno). Tale elemento
astratto è indeterminato; non è specificato o qualificato in alcun modo e quindi non è un’idea, ma d'altra
parte non si può dire che sia senz'altro
il fatto, il reale nella sua grande
complessità di elementi; è piuttosto la configurazione della realtà quale è in me in un dato momento. Da
ciò consegue che i cosidetti giudizi
rudimentali in quanto sono manier e di
rendere intelligibili i fatti concreti mediante idealizzazione ed astrazione,
sono delle vere e proprie leggi. Con ciò
non si vuol dire che il giudizio è fuori la realtà, giacchè esso anzi è impiantato in questa, ma, poichè
al suo compimento è necessaria la determinazione e la configurazione del reale, esso, pur avendo le sue radici in
questo, cresce, si ramifica, si svolge
nell’ atmosfera dell’ ideale. In breve,
noi crediamo che i giudizi categorici rudimentali siano delle leggi iniziali,
perchè i loro soggetti pur indicando, per così dire, i punti in cui la realtà è
presente all’individuo, non esprimono
questi nella loro complessità e
compiutezza, tanto è ciò vero che io adopero siftatti soggetti, anzi formulo
gli stessi giudizi in condizioni diversissime: e non basta ; li adopero e li
enuncio io come li adoperano e li
enunciano gli altri uomini in circostanze
disparatissime: il mio « questo », il mio « qui », il mio « ora », non è quello di un altro, pur
venendo denotati in modo identico. Ma da
ciò si deve forse trarre la conseguenza che i giudizi categorici rudimentali e
gli ipotetici universali siano perfettamente identici tra loro e che pertanto qualsiasi forma di giudizio sia
una vera e propria legge scientifica? No
certo: noì dicemmo che i giudizi
concreti categorici sono da considerare come leggi rucimentali, val quanto dire come germi di
leggi e non come leggi addirittura: ed
infatti quando noi in tali giudizi
poniamo in relazione un'idea con un soggetto indeterminato, siamo
nell’impossibilità di indicare la natura,
le condizioni e i limiti della sintesi del predicato col soggetto. E il
compito della scienza è appunto quello di analizzare, di determinare e quindi
di idealizzare il soggetto
indeterminato, di andare in traccia e porre in evidenza quegli elementi di esso che formano un tutto
indissolubile col contenuto ideale
espresso nel predicato. Con tale processo è evidente che ci veniamo
allontanando dal fatto concreto complesso, giacchè l’analisi, come la
dissezione dell’organismo, mentre ci allontana dalla vita vera e propria, ci fa conoscere gli elementi dalla cui
cooperazione la vita stessa risulta. Noi
coi giudizi categorici di cui ci occupiamo,
esprimiamo, si, una sintesi ideale fino ad un certo punto tra due
universali, ma detta sintesi non è necessaria, non è permanente, non è generale, nè assoluta
appunto perchè, essendo indeterminato il
soggetto, questo può presentarsi sotto
le forme e le condizioni più svariate, per modo che un medesimo contenuto ideale, una volta si
trova connesso con un dato soggetto, ed
un'alira volta con un soggetto molto
differente. Un dato contenuto ideale una volta sì trova connesso con un « questo », con un «
qui », con un « ora >», ed un’altra
volta con un « questo », con un «qui » e
con un « ora », il cui contenuto è differente da quello del primo. Conchiusione: i giudizi
qualitativi‘ in generale non sono leggi
vere e proprie, non sono cioè giudizi universali astratti ed ipotetici, ma
leggi rudimentali, giudizi
implicitamente universali ipotetici, in quanto non volgono sulla realtà nel suo insieme, ma su alcuni
elementi di essa che non hanno
un'esistenza propria per sè considerati. La legge, come il giudizio, serve a
qualificare ed a rendere intelligibile il reale: ora le leggi ed i giudizi di
cui . ci siamo occupati finora hanno per
compito di riferire, di attribuire una
qualità al Reale: le leggi e i giudizi
di cui c’ intratterremo al presente hanno l’ufficio di predicare del
Reale una relazione. Una volta che il giudizio
è tale un’ operazione logica che ha necessariamente per risultato l’azione reciproca del soggetto sul
predicato e di questo su quello, è
evidente che se i giudizi-leggi
categorici sono intimamente connessi con i giudizi o leggi ipotetiche in
quanto entrambe rendono intelligibile il dato,
dall’altra si presentano con note distinte in quanto i primi
attribuiscono al reale una qualità e gli altri una relazione di qualunque
genere quest’ultima sia, sia, cioè, una
relazione di quantità, di ragione o di causa. È in questa seconda categoria che vanno comprese tutte le
leggi scientifiche propriamente dette,
quelle connessioni necessarie ed universali che sono come la struttura di
tutte le scienze speciali. | Prima di discorrere partitamente delle varie
sottospecie delle leggi relazionali (leggi causali, leggi razionali e leggi puramente quantitative), analizziamole
in ciò che hanno di comune, ponendole in
rapporto con le leggi che potremmo dire ora qualitative, In queste ultime si
attribuisce una semplice qualità al
reale, per il che questo viene ad essere
come limitato in un punto, viene ad assumere la
configurazione del campo attuale della coscienza, del campo su cui è fissata l’attenzione in un dato
momento: finchè noi non abbiamo che
qualità da attribuire al reale non
sentiamo il bisogno di fare distinzioni entro il contenuto della coscienza, e di stabilire in modo
cosciente dei rapporti tra i termini distinti. Esso nella complessità ed indeterminatezza in cui appare al soggetto, è
senz’ altro qualificato; e poichè
nessuna distinzione, o determinazione sì
è praticata, l'affermazione non può varcare ì limiti di tempo e di spazio in cui è fatta ed ha
carattere prettamente categorico. Essa si rapporta in modo più diretto all'esistenza, perchè non compie alcun atto
di astrazione su ciò che immediatamente
si presenta al soggetto; il fatto,
essendo semplicemente qualificato, non è per così dire allontanato dalla sua
matrice reale, come avviene nel caso che
molteplici operazioni logiche hanno contribuito ad idealizzare il dato,
distaccandolo più o meno completamente
dai rapporti di tempo, di spazio e dalle
condizioni svariate che contribuiscono alla concretizzazione. Nelle leggi relazionali, al reale non è più
riferita una qualità, qualcosa di semplice, un termine isolato, ma una relazione, val quanto dire un nesso di due
termini, il che suppone che il dato
sia stato obbietto di determinazioni e
di distinzioni e quindi obbietto di un processo di astrazione ; per il che si è
entrati nel dominio dell’universale, nel
dominio di ciò che non si riferisce ad un punto determinato dello spazio e del
tempo, ma ha valore sempre e
dappertutto. E poichè l'attenzione è segnatamente fissata su ciò che ha il
maggior interesse attualmente, vale a
dire sulla relazione, sul nesso esistente tra i due termini in cui è stato distinto il contenuto ideale
del dato, è chiaro che la detta
relazione deve essere significata in
modo da informare tutto l'atto giudicativo. Il centro di gravità della funzione giudicatrice si
sposta, in quanto è una data forma di
caratterizzazione, è la connessione che
viene ad essere obbietto del giudizio : il dato, avendo perduto la sua concretezza, entra come nell’
ombra della coscienza, mentrechè il
nesso, la relazione viene ad occupare il primo posto nella visione mentale. Il
dato è come presupposto e la forza del
giudizio si esplica nell’ affermazione del nesso, Se la legge dell’ economia
non avesse vigore nelle funzioni
spirituali e nelle espressioni del linguaggio, avremmo nel giudizio
l’esplicazione chiara di tutto il
processo nelle varie sue parti; si preferisce invece di tacere, di
sottintendere ciò che non è assolutamente indispensabile di esprimere (il dato)
e di significare in maniera completa il nesso in cui sta propriamente il
nerbo del giudizio. Ma donde e come sorge tale relazione che
vien riferita al reale? Perchè il
contenuto ideale viéne analizzato e
distinto in termini, tra cui è riscontrata una determinata relazione ? Il motivo per cui il contenuto
ideale viene al essere analizzato nei
suoi elementi o in termini tra cui poi
intercede un rapporto fisso, è la percezione di un mutamento concomitante e
coordinato nelle varie parti componenti il tutto qualitativo o il contenuto
ideale. Finchè questo non presenta
alcuna variabilità nei suoi fattori e
finchè questi ultimi non variano in modo coordinato, in modo che la determinazione dell’ uno tragga
seco quella dell’ altro, non ha luogo
alcun processo di analisi, di distinzione di termini, nessuna relazione è
riconosciuta e fissata, e quindi nessuna
relazione può essere riferita al
reale. In seguito a ciò sì
comprende perfettamente come le leggi
relazionali siano dei veri e propri giudizi ipotetici universali, coi
quali si viene ad affermare la connessione del
conseguente con l’ antecedente fondata sopra una qualità riconosciuta inerente al reale. E qui sorgono
parecchie questioni degne di essere
attentamente esaminate. Prima di tutto
si nota: Siffatti giudizi ipotetici avendo per termini degli universali, sono
lontani dalla realtà, sono come sospesi
în aria e non asseriscono alcun fatio concreto:
da tal punto di vista si sarebbe quasi tratti a dare il posto d’ onore ai giudizi categorici anche
rudimentali, i quali esprimono il nostro immediato contatto con la realtà.
Che i giudizi ipotetici non enuncino
fatti è innegabile, ma da ciò forse
consegue che siano più lontani dalla realtà di
quei giudizi che vertono semplicemente su fatti? La realtà non è costituita da semplici fatti per quanto
questi siano complessi e complicati,
come non è costituita da termini
isolati, per così dire, da elementi atomi o da qualità semplici, ma da
qualità e da relazioni variamente intrecciate
tra loro. Ogni qualità è riducibile a relazioni, come ogni relazione è fondata su qualità: dal che
consegue che quando noì enunciamo delle
relazioni lungi dal trovarci lontani, ci
troviamo più vicini alla realtà in quantochè ciò che perdiamo in complessità, in concretezza, lo
guadagniamo in estensione, in
precisione. Con la determinazione delle
relazioni necessarie ed universali vengono rimossi i particolari privi
d'importanza e di significato. Noi siamo a
contatto della realtà tanto se predichiamo di essa qualità, quanto se ne predichiamo relazioni, col
vantaggio in quest'ultimo caso che le relazioni purgate di tutti gli
elementi inutili, hanno un valore
assolutò, perchè esprimono la struttura
del reale quale può essere trascritta e delineata dalla mente umuna. Poi si osserva: i giudizi ipotetici
esprimono delle semplici possibilità,
non mai dei fatti reali. Con essi in sostanza si dice: supposto che una tale con:lizione si
verifichi, l’ effetto ne conseguirà necessariamente, e di qui il carattere della relatività inerente a siffatti giudizi,
ma nulla si dice intorno alla realtà
della supposizione. Sono pertanto delle
enunciazioni che non escono dal relativo e dall'arbitrario. Qui occorre fare due osservazioni. 1° La
realtà della supposizione è presa, nor data nel giudizio ipotetico per
questo che il processo di analisi ha
sformato il dato, togliendone tutti gli
elementi insignificanti. Con tale operazione la
connessione affermata non viene ad esser più vera in un dato punto dello spazio e del tempo o in un
dato complesso di condizioni, ma viene ad esser vera dovunque e dappertutto, per modo che la supposizione
lungi dall’essera un prodotto arbitrario
della mente, un qualcosa che viene
ammesso senza nulla sapere se esso corrisponda alla realtà, figura quale elemento (si badi, diciamo
elemento e non già fatto) eminentemente
reale. Essa non si trova nella realtà
come ‘elemento isolato e quindi non si trova in
un dato punto dello spazio e del tempo, ma si trova commista con svariati altri elementi, si
trova nei contesti più disparati a
seconda delle circostanze. La supposizione
non è una mera possibilità, ma è, per così dire, una possibilità reale,
un elemento che è stato e che può divenire
attuale ogni volta che noi ci mettiamo nelle condizioni di prospettiva necessarie alla percezione del
detto elemento particolarizzato. Ognun
vede del resto che il giudizio ipotetico se non avesse una base reale, se non
esprimesse sub specie aeternitatit un
nesso constatato e constatabile nell’ esperienza ogni volta che si vuole,
verrebbe ad essere destituito di ogni
valore. Una supposizione puramente arbitraria non val nulla: rappresenta un
prodotto accidentale dello spirito
individuale e null'altro. Il giudizio
ipotetico lungi dall’ esprimere la possibilità
come contrapposta alla realtà sta a significare la capacità, la facoltà che noi abbiamo di constatare il
nesso, la rela zione esistente tra due
termini semprechè lo vogliamo in condizioni determinate. Esso pertanto
piuttostochè esprimere un qualchè di
meno, esprime un qualchè di più del ‘reale
attuale, un qualchè che è reale non ora e qui, ma ovunque e sempre. Allo stesso modo che l'idea che
simboleggia il fatto, qualificandolo,
non è un prodotto arbitrario e subbiettivo
della mente, ma ha valore reale in quanto si riferisce al dato di cui esprime l’essenza e il
significato, così il giudizio ipotetico è da riguardare come segno di un modo
di essere del dato. L'idea e il nesso
ipotetico non hanno valore per sè, ma in
quanto si riferiscono al reale del quale sono
simboli nella nostra mente. Il giudizio universale ipotetico pur non esprimendo alcun fatto particolare
nella sua complessità concreta, è però sempre sostituibile da una molteplicità
di fatti. Possiamo, è vero, fare delle supposizioni illegittime, come possiamo enunciare dei
nessi necessari, ma non reali in quanto
il supposto da cui muovono non è reale,
ma i casi in cui ciò si verifica sono relativamente rari e son ben determinati. | L'antecedente dei giudizi ipotetici poi in
tesi generali si rapporta più o meno
direttamente ad un fatto: così una legge
fisiologica o biologica che non enuncia nessun fatto reale esistente, ma semplicemente possibile,
esprime però sempre un nesso constatato
e constatabile nell’ esperienza. E
mentre 11 giudizio ipotetico pone in vista le condizioni genetiche del fatto, il giudizio categorico
enuncia semplicemente il fatto. L'enunciazione delle condizioni genetiche suppone già il fatto, anzi una seme di fatti
dalla cui comparazione ed analisi esse sono state estratte. Riassumendo, diciamo che il nesso enunciato in una legge
relazionale non soltanto esprime un
nesso che è stato constatato nell’esperienza (leggi causali), ma esprime la
coscienza della possibilità di
constatarlo ogni qualvolta si vuole; dal che
emerge che essa penetra nel cuore della realtà molto dippiù che la semplice enunciazione di un fatto
isolato, 2® La connessione e relazione
affermata per mezzo dei giudizi ipotetici non è, nè può essere una connessione
arbitraria ed accidentale; il che vuol
dire che essa deve avere una ragione, un
fondamento: ora la coscienza di questa ragione
e fondamento è necessariamente implicita nell’enunciazione di una legge razionale? È questo un problema
della più alta importanza, ed è stato
risoluto variamente dai filosofi: per
non citare che i più recenti, mentre il Bradley ammette che la qualità del reale che rende possibile
una legge di relazione può rimanere
ignota, il Bosanquet è di parere che
ogni giudizio ipotetico ha radici in un sistema, in un fatto, in qualcosa di categorico. Ora, tenendo conto
della maniera in cui le leggi scientifiche sono state scoverte attraverso lo
svolgimento del sapere umano ed insieme del
modo come tuttora vengono rintracciate le condizioni genetiche dei fatti
naturali, noi siamo autorizzati ad affermare
| che effettivamente non solo un nesso, una relazione del genere di quelli enunciati nel giudizio
ipotetico devono avere una base, devono
cioè essere due elementi appartenenti ad
un unico sistema, devono essere correlativi nel senso che emergano da un unità fondamentale (e
altrimenti perchè sarebbero in rapporto
di dipendenza reciproca? perchè l'uno
varierebbe nella misura che varia l’altro, e perchè infine l'uno agirebbe sull’altro ?), ma tale
base deve essere conosciuta o almeno in
qualche modo intraveduta. Se ciò non
avviene,le così dette leggi naturali lungi dall’ enunciare dei rapporti
necessari ed universali, enunciano delle
connessioni di fatto che hanno un valore empirico, provvisorio. Finchè
non si arrivi a conoscere il perchè di una
legge, finchè cioè una data relazione non sia considerata come prodotta da una qualità inerente al
reale, per modo che la stessa entri in
un dato sistema, essa non avrà niun
valore assoluto. Ogni scienziato quando si pone a sperimentare e va in
traccia di una legge muove sempre da un
dato sistema, da un dato ordine d’idee che avrà un colore diverso a seconda dell’ obbietto di una data
scienza - vi è un mondo chimico, come ve
ne è uno fisiologico ecc. —; e quando
una nuova connessione constatata non si collega
in modo chiaro col detto sistema, si possono presentare due casi: o il sistema fondato su basi solide
e razionali, resiste e in tal caso la
legge non è considerata come un
principio universale e necessario, ma come l’ enunciazione di un fatto empirico che richiede ulteriore
esame, ovvero il sistema cede e d allora
è sostituito da un altro sistema consono
alla nuova connessione osservata. Insomma noì crediamo che il punto di partenza
sia sempre qualcosa di categorico, un
sistema, un fatto, un dato ordine d'idee e
che le connessioni che si vengono man mano mettendo in chiaro non siano che ulteriori determinazioni
del detto sistema; e nel caso che ciò non avvenga è giocoforza costruire un nuovo sistema entro cui possano entrare le
nuove connessioni. Dal sistema non possono e non devono essere dedotte a priori (dialetticamente) le leggi, giacchè
esso è come un principio regolativo, nel
senso che non vi può essere una vera e
propria legge, la quale non faccia parte di un
sistema. L'ufficio del giudizio ipotetico e della legge relazionale è
appunto quello di mettere in evidenza alcune
parti o differenze o determinazioni del sistema, lasciando da parte la considerazione dell'insieme, il
che non toglie che l'insieme vi sia e
operi attivamente attraverso le
differenze; anzi si può aggiungere che se il sistema non esistesse non verrebbe nemmeno in mente di
andare in traccia delle leggi. i ‘Ciò che sopratutto occorre ricordare è che
non vi sono sistemi fissi ed immutabili,
bensì progressivi nella misura in cui
progredisce l’insieme delle nostre conoscenze, e che se da una parte la scoverta e il significato
delle leggi di‘pende da vedute sistematiche, dall’ altra parte le leggi reagiscono sui sistemi, contribuendo alla
formazione di questi e dando anche ad
essi un'impronta ed un colore
speciale. Concludendo, diremo
che nell’opinione ordinaria le leggi
vengono considerate come maniere di operare di date cause, maniere di operare che dipendono dalla natura
delle stesse cause: ora, che altro è la
natura di una causa, se non la sua
posizione in un sistema? Pertanto nui possiamo affermare che ogni necessità e
relatività è fondata in ultima analisi
su qualche cosa di categorico, su qualche dato,
sopra un fatto irriducibile.
Aggiungiamo in ultimo che le leggi riguardanti un dato fatto esprimono sempre il ritmo della
variabilità di una data cosa, il ciclo
entro cui il fatto, la cosa, il dato si muove,
esprimono, cioè, le parti o le articolazioni di un sistema. Le leggi appaiono in tal guisa comele
funzioni di varie © forme d’individualità
del reale: le leggi di gravità, le leggi
di una data sostanza chimica vanno riguardate come le funzioni, le maniere di
operare di quella data forma
d'individualizzazione del reale che è il mondo della gravità, ecc. E le dette leggi esauriscono, per così
dire, la natura, la essenza di una data
cosa (1). ° Noi dicemmo che le leggi
relazionali hanno l’ ufficio di
qualificare il reale per mezzo di una relazione: ora si può domandare : Di che natura è questa relazione
? Per risolvere una tale questione è bene passare prima rapidamente a rassegna le varie forme di relazione che
possono caratterizzare la realtà, per vedere quali sono le note differenziali
di ciascuna di esse. La prima forma di relazione che viene attribuita al reale è quella che
risulta dalla comparazione quantitativa, è quella intercedente tra le differenze, o gradi di una stessa qualità :
noi formulando giudizi come questi: «
ora è meno chiaro d'allora », « qui è
più freddo di lì », « questo è più rosso di quello », ovvero « questo è più
rosso ora che non fu antecedentemente », « questo è più caldo in questa parte
che in quella », « questo è più chiaro
qui che lì » (nei quali ultimi giudizi,
come nota il Bosanquet, i dimostrativi di
altra specie assumono l'aspetto di condizioni), veniamo a qualificare il reale per mezzo del rapporto
quantitativo (più o meno) esistente tra
due termini, i quali pertanto si devono
implicare a vicenda: dal momento che una data
qualità è distinta nelle sue variazioni, nelle sue differenze (1) S'intende agevolmente che un dato
sistema può essere alla sua volta
analizzato e scomposto in relazioni in modo da rientrare come parte in un sistema più vasto e comprensivo e
così via. Ciò che in un caso figura come
sostantivo può divenire aggettivo di un sostantivo d’ordine più elevato. o
gradi, ciascuno di questi in tanto ha un significato in quanto è connesso con un altro, Come si vede,
il giudizio comparativo qualifica il
reale per mezzo della relazione
esistente tra la parte e il tutto, il quale ultimo differisce dalla parte per mezzo di altre parti
omogenee. Notiamo qui che secondo che
l'attenzione è richiamata precipuamente
sulla qualità variabile quantitativamente messa in rapporto coi vari punti dello spazio e del tempo
variabili in modo continuo, ovvero è
richiamata sulle variazioni quantitative
delle qualità sensoriali (es. sensazioni muscolari) che determinano le
costruzioni dello spazio è del tempo, il giudizio comparativo coopererà alla
formazione della « cosa » e di una
specie qualsiasi d’individualità, ovvero alla costituzione delle forme
intuitive (spazio e tempo). | La
comparazione quantitativa precisata, resa esatta si trasforma in misura, la quale consiste nel
considerare un oggetto come un tutto
contenente un certo numero di unità :
unità che viene fissata, riscontrandola identica nei vari aggregati in cui entra come parte. In
tal modo dalle relazioni quantitative
concrete si passa a quelle astratte e
perciò stesso aventi significato generale e quando la misura degli oggetti è praticata, riferendosi
ad unità di misura estrinseche ed è
espressa per mezzo di giudizi generali, diviene una vera e propria proporzione
in quanto essa è applicabile a casì in
cui i terminì corrispondenti sono
grandezze differenti. La proporzione, infatti, si riduce all'’eguaglianza di due rapporti. La semplice proporzione diviene poi una vera
e propria legge proporzionale non appena
viene introdotta nel soggetto una specificazione, un attributo (condizione), la
cui esistenza sì mostra intimamente connessa con quella del predicato: es. « questo pezzo di un metallo e
questo pezzo di un altro metallo, che
hanno lo stesso volume, stanno in rapporto al peso come 5 : 9 ». Con la misura noi siamo entrati nel dominio
della quan tità astratta; vediamo ora da
tal punto di vista per via di quali
relazioni il Reale è qualificato. In primo luogo vanno annoverate le relazioni numeriche. Il
tutto riguardato dal punto di vista
puramente quantitativo, è caratterizzato da ciò, che può essere costruito
mediante la ripetizione ideale di unità o parti fisse. Tale ripetizione
ideale costituisce l'enumerazione. Nella
misura si muove dal tutto caratterizzato
per mezzo delle sue differenze, mentre che
nell’enumerazione si parte da un’ unità distinta, per arrivare a
costruire una somma totale, o un aggregato. Nell’enumerazione il tutto, che è
predicato, si presenta come una forma,
diremo così, molto attenuata di quell’ individualità sistematica che nella
misura fu da soggetto. Il tutto dell’
enumerazione poi è un vero aggregato; e la
parte è ridotta al posto che, come unità, può occupare nella somma. È per questo che in un sistema
numerico, la somma delle unità rimane la
stessa, qualunque sia l’ordine in cui queste sono contate; due parti possono
mutar di posto senza che consegua alcuna
modificazione da parte del tutto. Va notato però che in ogni giudizio
enumerativo sono impliciti i due
elementi dell'unità e della comune natura
o identità che fa da sostrato delle differenze rappresentate dalle parti
enumerate. L'unità deve fornire la regola
e insieme il limite dell'enumerazione, la quale si ridurrebbe ad un
processo sfornito di significato, se fosse senza limite e sarebbe impossibile addirittura, se
fosse senza regola. L'identità
fondamentale d'altra parte è indispensabile in quanto, mancando essa, non si
avrebbe uno degli elementi essenziali
del giudizio; l'unità numerica, infatti,
è nient'altro che la differenza o part: presa come distinta dall’identità fondamentale solo mediante un
atto del giudizio. Ciò che noi contiamo nell’ enumerazione sono gli atti del giudizio, come atti di distinzione e
di riferimento in una qualità continua,
identica. Se il processo di enumerazione suppone necessariamente l’esistenza di
una natura propria ben definita e
jualitativamonte determinata nell’obbietto del detto processo, è innegabile
d'altra parte che l'atto del contare
tende ad assumere indipendenza, quasi
che potesse avere un significato proprio a parte dalla qualità continua e identica delle unità componenti il
tutto. É in forza di tale processo di
astrazione che avviene ogni progresso nel calcolo. Lo svolgimento di questo,
infatti, si compie col costruire totalità numeriche, mediante la
sostituzione di relazioni di unità
ideali a unità positivamente concrete;
relazioni che formano un totale numericamente identico, ma generalizzato e ideale. L’unità
quantitativa per sò, o piuttosto
l’astrazione unilaterale dell’unità quantitativa, il solo posto numerico che non è collegato
per mezzo di una qualità identica e
continua (unità organica. o sistematica delle parti) cogli altri posti della
serie, non può avere in sè alcun
principio od esigenza di totalità, cioè a
dire, non può avere alcuna ragione per finire in un punto più che in un altro. Vogliamo dire che
l’'enumerazione delle unità come tali
può esser continuata a piacere ed un tale processo ci conduce al concetto
dell'infinito numerico. L'infinito numerico, trascurando il fattore della natura delle unità, omette l'elemento che può
arrestare il computo ad un punto
piuttosto che ad un altro. Chi può
dunque trattenersi dal considerare l'infinito numerico come un prodotto soggettivo, a cui nulla di
realmente obbiettivo corrisponde? Le relazioni numeriche e quantitative in
genere sono controdistinte dalle
seguenti note: 1° esse sono universali,
necessarie o relative in quanto l'un termine in tanto ha valore in quanto è connesso con l’altro, per
modo che rientrano nella formula del
giudizio ipotetico. « Se A è B allora è
C »; 2° talì relazioni non sono unilaterali, ma reciproche, il « Se A è B
allora è C » può divenire « Sc 4 è C
allora è B »; 3° la ragione di tali connessioni non si trova nell'esperienza, nel dato, comunque
l’esperienza possa presentare delle
applicazioni di tali connessioni: il
valore di queste ultime però non .dipende dalla maggiore o minoreapplicabilità nell'esperienza. Ora
tutte queste noto che cos'altro stanno a
significare se non che la relazione attribuita in tal guisa alla realtà è un
nesso o una relazione puramente
razionale? Se il fondamento del nesso
non fosse nella ragione, potrebbe il detto rapporto essere necessario, reciproco e valido
indipendentemente dall’esperienza? Se non che dire che la relazione è
puramente razionale, che il fondamento
del nesso si trova nella ragione non è
risolvere in modo completo il problema: rimane
sempre da spiegare in che consista un nesso razionale e in che modo la razione possa essere
fondamento di un nesso, Quando noi
vediamo che tra due termini esiste un legame necessario, per modo che uno
implica o trae seco l’altro, che cosa
dobbiamo pensare? Qual'è il concetto che
noi in tal caso ci dobbiamo formare della dipendenza o del nesso ecc.? Per rispondere a tali quesiti
occorre tener presente che il nesso
necessario, reciproco e indipendente
dall'esperienza tra due elementi, non può esser dato che alternativamente da due condizioni
principali: o dal fatto che i due
termini sono perfettamente sostituibili in quanto | sono equipollenti, in quanto cioè sono
espressioni diverse di una stessa cosa:
in tal caso i due termini s' implicano a
vicenda perchè sono termini di un’eguaglianza e di una identità: ovvero dal fatto che i due termini
della connessione sono parti di un tutto organico o di un sistema: in tal caso gli elementi tra cui ha luogo il
nesso non sono identici, ma si
completano a vicenda quali fattori di una
identità sistematica. Ora si domanda: il giudizio ipotetico tipico è espressione della prima specie di
nesso, ovvero della seconda? Finchè non
si esce dalla pura identità, da quella
che si potrebbe chiamare identità formale, non è a parlare propriamente di giudizio ipotetico
come non è a parlare propriamente di
nesso, il quale involge sempre
transizione da un contenuto ad un altro, rapporto di due. parti integrantisi a vicenda e non semplice
tautologia: anche quando noi affermiamo
50 X 3 = 25 X 6, la ragione di tale connessione non va ricercata nella
identità dei termini, ma nella
costituzione propria del sistema
numerico: è il sistema di numerazione che rende possibile la identificazione di 50 X 3 con 25 X 6: In
fondo adunque ogni nesso razionale implica l'esistenza di un’ identità sistematica, di una totalità, le cui parti
sono organicamente congiunte, perchè ciascuna di esse figura come differenziazione,
come determinazione o come manifestazione dell’unità fondamentale. Qui però sorge il problema: Come è mai
possibile la esistenza di una totalità
le cui parti s’implicano a vicenda? Come è mai possibile l’esistenza di un
sistema organico i cui elementi poi s’
implicano a vicenda? È evidente che ciò
è possibile solo nel caso che il sistema
figuri come un’individualità, come un fatto categorico fornito di un certo grado di assolutezza,
avente quindi la sua ragione in sè stesso.
Ora siffatte condizioni si riscontrano: 1° in quei prodotti dell'attività
umana, i quali rispondono ad un fine
cosciente. È in vista di questo che i
vari elementi sono armonicamente coordinati tra loro. L'idea fine agisce come unità regolatrice ed
organizzatrice dei vari elementi
componenti il tutto; in tal caso le varie
parti sono intimamente connesse tra loro, perchè si completano a vicenda
e perchè sono funzioni determinantisi
reciprocamente; 2° quindi anche in quelle costruzioni numeriche e geometriche che presentano uno
spiccato carattere d’individualità in
ragione della proporzionalità che si
riscontra nelle loro relazioni interiori e in ragione della scelta arbitraria delle condizioni
primitive e fondamentali determinanti poi l'andamento generale delle
costruzioni stesse (1); e 3° in quei
casi in cui dopo che è stata scomposta
una totalità aggregato — considerata quindi dal
semplice punto di vista quantitativo — nei suoi componenti, (1) Vedi a tal p-oposito quello che noi,
sulle tracce del Masci, scrivemmo
intorno alle varie operazioni numeriche: Za mozione di « Legge », vol. I di questi Saggi. ciascuno
di questi si mostra dipendente dagli altri. Da
tuttociò consegue che il nesso razionale qual'è espresso dal giudizio ipotetico tipico che non trae seco
alcun rapporto di tempo, ha la sua base
nel fatto che i due elementi tra cui
intercede la relazione di dipendenza reciproca necessaria sono parti di un
unico tutto, che questo sia considerato dal semplice punto di vista
quantitativo, ovvero dal punto di vista
sistematico o organico implicante un
processo di differenziazione qualitativa. Ora chi uon vede che la totalità, il sistema, l’individualità
vera, implicante una relazione
necessaria tra le parti, non può essere che
un effetto dell’attività costruttrice umana, giacchè è solamente ciò che
è fatto, costruito dal soggetto umano che
può da una parte essere completo in sè stesso e dall'altra avere una struttura prettamente razionale e
quindi avere quel grado di assolutezza e
di apriorità che guarentisce la
necessità del nesso intercedente tra gli elementi contenuti nel sistema? Ma
possiamo d’altronde affermare che tutti
i caratteri suaccennati di un nesso razionale e necessario sì riscontrino nei
prodotti umani? Come si vede, il punto
essenziale da dilucidare sta qui: se il nesso razionale implica sistema,
totalità e se questa non può aversi che da
ciò che proviene dal soggetto umano, è necessario precisare se tutti — e
nel caso negativo quali — i prodotti
umani racchiudano una relazione necessaria tra i loro elementi o fattori. A ciò si risponde che una
totalità, un sistema implica una
relazione necessaria tra gli elementi
solo in quei casi in cui questi elementi figurano come determinazioni essenziali del sistema o della
totalità. I vari fattori o componenti di
un tutto non hanno un valore eguale, in quanto alcuni di essi sono essenziali,
indispensabili — quasi si direbbe che in
essi sotto varie forme è la natura
stessa del sistema —, mentrechè altri sono fino ad un certo punto indifferenti al sistema stesso: è
evidente che tra i primi vi è una
relazione necessaria entro il sistema
dato, non già tra gli altri. Non basta. Non tutti i prodotti o le costruzioni sistematiche del soggetto
umano hanno un valore ed un significato
eguale: ve ne sono di quelle che si
riferiscono ad una funzione primitiva, universale e costitutiva dell'anima
umana in genere, e ve ne sono di quelle
che si riferiscono a funzioni variabili ed arbitrarie della coscienza: ora è chiaro che i legami
necessari si riscontrano in quei sistemi prodotti dall’esercizio delle
funzioni inerenti propriamente alla
natura umana. In questi ultimi casi il sistema a cuisi devono riferire i nessi
necessari è sempre posto dallo spirito, mentrechè negli altri casi il sistema può e non può esser posto,
può esser posto in un modoe può esser
posto in un altro. La base dei giudizi ipotetici in quest’ultimo caso non viene
ad esser fissa, ma mutevole in rapporto
ad una quantità di circostanze.
Concludendo, noi possiamo dire che ogni nesso razionale o necessario è fondato sopra l’esistenza di
una totalità o di un sistema, per modo
che i termini del nesso figurano come le
parti o le differenze della totalità e del sistema. Due cose in tanto si possono implicare a
vicenda in quanto sono parti di un
tutto. Ora un tutto, una totalità non è
mai data, giacchè tutto ciò che è dato è sempre relativo: il fatto stesso di esser dato fa sì che agli
occhi del soggetto non possa apparire che come qualcosa che si riferisce a qualcos'altro, e ciò che è dato in tanto
assume a volte l'aspetto di qualcosa
d'individuale e di totale, in quanto noi
proiettiamo, o riflettiamo in esso la nostra stessa attività, lo informiamo
della nostra stessa vita. Solo ciò che è
fatto, ciò che è costruito da nuvi è un tutto completo, è un vero sistema, ha la sua ragione in sè
stesso. Sicchè il nesso razionale non si
può trovare che tra gli elementi di un
tutto, di un sistema costruito dal soggetto: il giudizio ipotetico tipico in
tal guisa non soltanto ha una base
categcrica, ma questa sua base è nell'attività del soggetto umano. Se non che va notato che non tutti i
sistemi e le totalità prodotte
dall'attività umana servono di fondamento
a nessi universalmente necessari e quindi a giudizi ipotetici reciproci,
ma soltanto quei sistemi derivati dallo
esercizio delle sue funzioni costitutive. Tali sono i sistemi della quantità o della grandezza, dei numeri,
dello spazio (1) che forniscono la base
dei nessi razionali e dei giudizi
ipotetici (leggi) di tutte le cosidette scienze esatte o formali. La realtà non è soltanto qualificata per
mezzo di nessi razionali, ma è anche
qualificata per mezzo dei rapporti causali. Quali sono i termini tra cui
inteircedono siffatti rapporti? Sono
qualità od attributi che vengono astratti dalle complicate relaziouii del
reale, perchè sono invariabilmente ed universalmente congiunti tra loro in
qualsiasi contesto o sistema essi si
trovino. Prima di ricercare la natura del nesso causale e le note che lo controlistinguono dovremmo
passare rapidamente in rassegna le varie forme in cui esso si presenta nei principali, rami del sapere: ma
l’enumerare le leggi, sia (1) Le
relazioni del tempo e del movimento sono espresse sempre per mezzo di grandezze, di relazioni spaziali
e numeriche, anche fondamentali di tutte le scienze sperimentali — leggi fisiche, chimiche, biologiche, psicologiche,
storiche, sociologiche e filologiche — non ci sembra di alcun vantaggio,
in quanto tutte presentano un’eguale
struttura logica. Tutte si riducono a
rapporti di attributi e quindi a legami astratti, a generalizzazioni ricavate da sistemi di
fatti concreti: gli attributi connessi
mediante l’indagine fisica sono incommensurabilmente differenti dagli attributi
connessi mediante l’indagine chimica, e gli attributi connessi mediante
l’indagine di siffatti due processi
scientifici sono, lo ripetiamo, incommensurabilmente differenti dagli attributi
connessi mediante le indagini biologiche
in genere. Se gli attributi non fossero
in ciascuna serie di scienze qualcosa a sè, qualcosa d’irriducibile, noi
non saremmo propriamente autorizzati a parlare
di scienze differenti, ma di una sola scienza, la quale, per comodo didattico o per l’esigenza della
divisione del lavoro, potrebbe essere
divisa, ma in sostanza le varie scienze
non sarebbero che capitoli diversi di una sola scienza. Ora ciò non è, e chi ha qualche dimestichezza
con le scienze speciali lo sa; del resto
è per questo che i metodi delle varie
scienze sperimentali, pur avendo dei caratteri comuni, variano
profondamente tra loro. Gli attributi o qualità adunque connesse nei vari ordini di scienze sono
irriducibili le une alle altre, ma esse
per sè prese sono indeterminate e il sapere
scientifico va in cerca di qualcosa di fisso, di stabile, di coerente e
di necessario. Gli attributi son fatti, son dati, ecco tutto: onde è che essi sono materia di
elaborazione scientifica, non sono
scienza. Perchè ciò avvenga è necessario che gli attributi o le qualità ricevano delle
determinazioni quantititive (numeriche), I nessi o le relazioni intercedenti
tra le qualità possono essere fissati e posti in evidenza soltanto per mezzo delle determinazioni spaziali e
temporali, le quali alla lor voita hanno
bisogno di essere specificate per mezzo
del numero. Nessi e qualità devono adunque
esser prese in funzione, devono essere schematizzate per mezzo della quantità, e per mezzo dello
spazio e del tempo quantitativamente
presi. Come il colore è necessario a
delimitare l'estensione, così il numero, lo spazio e il tempo sono necessari a delimitare le qualità e le
relazioni. È per questo che l'esattezza
e la precisione scientifica dipendono dal grado in cui è applicabile la
matematica. Questa trasforma le scienze
empiriche da induttive in deduttive, e quindi in razionali appunto perchè fa
considerare le qualità sotto l'aspetto
della quantità. © Da tutto ciò consegue
che tutte le leggi delle scienze
sperimentali si riducono a relazioni di qualità espresse nelle loro variazioni quantitative e spaziali
e temporali — le quali due ultime
vengono espresse alla lor volta per
mezzo della quantità. Vediamo
ora in modo più particolareggiato quali sono
i caratteri che controdistinguono i nessi sperimentali... Anzitutto si nota che essi sono necessari ed
universali e poì che lungi dall'essere
forniti dalla ragione indipendentemente dall'esperienza, sono tratti da
quest'ultima, nei cui limiti sono
validi. Ora che i nessì costituenti, diciamo
così, la struttura delle scienze sperimentali debbano essere necessari ed universali, ognuno lo comprende,
pensando all'obbietto proprio del sapere
scientifico che è appunto quello di
trasformare le semplici congiunzioni di fatto, per sè sfornite di qualsiasi valore, in
connessioni di dritto, in coerenze fisse, stabili, aventi cioè un fondamento
che le giustifichi: non è egualmente
chiaro fino a che punto i nessi in
questione siano un portato dell'esperienza : è oltremodo importante, infatti,
mettere in chiaro entro quali limiti
vada ristretta l'azione della ragione di fronte all’esperienza, se si riflette
che la coerenza ela necessità non possono
venire che dalla ragione. Qual'è la differenza essenziale tra i nessi puramente razionali e quelli
sperimentali ? La differenza sta in
questo, che i primi sono fondati sull’ esistenza di sistemi costruiti
dall'arbitrio dell'uomo, e quando
diciamo dall’arbitrio dell’uomo non vogliamo dire dall’arbitrio
assoluto, vale a dire sfornito di qualsiasi riferimento a qualche proprietà o qualità inerente al
reale, ma vogliamo dire che l’attività costruttiva dell’uomo è estremamente
preponderante, come avviene nei sistemi numerici, nelle determinazioni spaziali ecc.; gli altri
invece sono fondati su sistemi che hanno
il loro principale punto di appoggio su
qualche fatto o dato. Se si passano a rassegna
ì vari ordini di leggi e di sistemi corrispondenti, si vede che essi vanno a metter capo in ciascuna
serie in qualche dato, o fatto ultimo
inesplicato e inesplicabile, il quale
non è posto dall’arbitrio dell'uomo, ma è propriamente subito. Se anche questo sparisce, viene ad
esser rotto ogni legame colla realtà e
ci troviamo nel regno della pura forma,
dell'astratto e del razionale. I nessi razionali presentano in tal guisa un
grado di assolutezza, di compiutezza che invano si cerca nei nessi
sperimentali, in cui domina sempre il
riferimento a qualcos'altro. Il fondamento
dei nessi sperimentali adunque si trova, sì, nell'esistenza di sistemi che contengono i termini in
connessione, ma i Abbiamo detto che ogni
opera d’arte figura come l’ espressione
di due sorta di leggi sistematiche, di una
riferentesi alle determinazioni del mondo estetico in genere (è quella di cui si è parlato), dell'altra
riferentesi ad un dato fatto estetico,
ad un dato prodotto artistico compiuto in un momento determinato. Ogni opera
d’arte, infatti, incarna un'idea, sì
presenta come un'individualità, come un
sistema fornito di date parti o differenze: ora
prima che essa sia eseguita, nella mente dell'artista esiste il concetto dell’ opera caratterizzata da
date qualità suscettibili di determinazioni disgiunte o escludentisi a vicenda. Il processo della elaborazione
artistica insomma si compie sempre
particolarizzando, determinando, specificando un contenuto ideale di cui si
hanno nettamente i limiti e il contorno;
se ciò non avvenisse l’opera d' arte non
avrebbe unità, nè armonia organica, nè individualità, perchè non avrebbe la sua ragione in sè
stessa. Ciò che abbiamo detto della
vita estetica si applica prefettamente
alla vita morale. Ogni azione morale suppone la cooperazione di due leggi o
giudizi sistematici, col primo dei quali
il contenuto della vita psichica viene
considerato dal punto di vista della moralità, viene cioè ordinato in guisa da costituire un tutto
organico, un sistema armonico a cui si dà l’ appellativo di morale:
sistema che ha questo di proprio, che
per esso tutti gli clementi e fatti
psichici acquistano valore e significato dal modo in cui contribuiscono al raggiungimento dell’
ideale morale, che è quello della comunione spirituale di tutti gli uomini. Il Genio morale, il Santo
appercepisce il reale come sistema
morale in genere di cui coglie tutte le differenze o determinazioni e le loro
relazioni dì reciproca esclusione.
D'altra parte ogni singola azione morale rappresenta l’espressione di un concetto etico, di
un'idea morale determinata: difatti un'azione morale si presenta sempre
come qualcosa di armonico, di
organicamente uno, di individualizzato, avente la sua ragione in sò stessa : il
che suppone nell'animo dell'agente
l’esistenza di un concetto sistematico analizzato nelle sue determinazioni
essenziali in ordine ad una data
condotta. Ogni fatto morale presenta coerenza
ed unità d'indirizzo, il che vuol dire che esso emerge dall’ analisi di una concezione sistematica
determinata, proprio in quella maniera
in cui le proprietà, i rapporti e le
specie dei triangoli derivano dalla natura di quella particolare limitazione
dello spazio che dicesi triangolo, limitazione dello spazio che è resa
possibile dalla natura dello spazio in
genere. Vogliamo dire insomma che come il
mondo estetico così il mondo morale hanno come loro precipuo fattore una
costruzione sistematica della realtà,
caratterizzata e delimitata in guisa da presentare determinazioni
esclusive e disgiunte. Varia il principio informatore, l'universaie concreto,
la funzione, la forma appercettiva, ma permane il processo di sistemazione e
di determinazione. È per questo che
tanto il mondo estetico quanto quello
morale presentano uno spiccato carattere
categorico; le esigenze estetiche ed etiche piuttostochè essere ricavate dalla realtà, dai fatti,
anticipano, regolano quella e questi.
Anche la vita della conoscenza in generale si esplica per mezzo di leggi sistematiche. Ogni
processo conoscitivo è fondato
sull’esigenza di fissare, di qualificare e di determinare il reale per mezzo di
simboli o segni variamente connessi tra
loro (idee, giudizi, inferenze), in maniera da
risultarne una forma di coerenza totale o di sistema. Sicchè appare chiaro che la conoscenza adempie a due
uffici, a quello di rendere chiaro per
mezzo di simboli la realtà (di
costituire delle formole o degli schemi in relazione reciproca tra
loro), e di connettere tali simboli in modo da
formare un sistema. Ora ciò in tanto è possibile in quanto la mente agisce come potenza
universalizzatrice, come potenza tipificatrice : essa infatti, opera
idealizzando il fatto e l’esperienza
(staccando cioè gli attributi e le relazioni
dall’esistenza), andando in traccia del principio informatore di un dato ordine di reali per mettere poi in
evidenza le determinazioni essenziali di
questo. Ed ogni progresso nella conoscenza
è contrassegnato dalla maggiore prevalenza
della tendenza alla sistematizzazione : quanto più la mente riesce, cioè, a individualizzare il reale
tanto meglio adempie al suo còmpito.
Come si vede, la forma generale di ogni
conoscenza è la forma sistematica e le varie categorie non sono che momenti, manifestazioni diverse di
tale funzione o categoria fondamentale;
la sostanza, infatti, implica l’individualità, la causalità implica la finalità
o l’ ordine, il numero implica la
totalità e l’unità: la finalità e la
totalita non sono che espressioni diverse del sistema. D'altra parte è agevole intendere che in
qualsiasi forma speciale di conoscenza è
in azione l’idea sistematica con le sue
varie determinazioni; se pensare è porre in relazione, e se la relazione non è
possibile che tra termini, ì quali
abbiano qualcosa di comune, tra parti di un medesimo tutto, tra differenze di
un'identità sistematica fondamentale, è
evidente che qualsiasi conoscenza implica determinazione di un sistema, val
quanto dire riduzione dell'ignoto al
noto, riferimento del non spiegato a ciò che è spiegato. Le leggi o giudizi sistematici formando come
l'ossatura della vita estetica, morale e
conoscitiva, operano quasi diremmo
celatamente nelle produzioni artistiche e scientifiche, e nelle azioni morali;
le scienze invece che hanno per obbietto appunto di tradurre in termini
puramente intellettivi, di trasformare
in concetti, ordinandoli in modo ‘ sistematico,
di rendere insomma intelligibili i fatti estetici, morali e conoscitivi, mirano a presentare
isolate, separate da tutti gli elementi
con cui si trovano miste, le dette leggi
o giudizi sistematici. L’Estetica, l’Etica e la Logica coincidono in questo che tutte e tre tendono
a costruire il mondo estetico, etico e
conoscitivo per mezzo di giudizi
disgiuntivi completi. Invero
qual'è l'obbietto dell’ Estetica ? È quello di stabilire, in base allo
svolgimento storico dell’arte e della
coscienza estetica e in base all'osservazione psicologica della funzione estetica sia produttiva che
recettiva o contemplativa (genio e gusto), il retto concetto ‘dell’ ideale estetico. Fissando il concetto si viene per
ciò stesso a determinarne le
manifestazioni in maniera completa ed adequata. Le leggio norme estetiche sono
le direzioni o le maniere secondo cui
l’attività o funzione estetica dell’ anima umana, in genere, cerca di
raggiungere l'ideale estetico. Ond'è che le norme o leggi estetiche avent i
una base categorica nelle proprietà
dello spirito umano (atte quindi ad
anticipare ed a regolare l’ esperienza), non vanno confuse con quelle forme di
leggi finali empiriche (aventi cioè il
loro fondamento nei dati forniti dall’esperienza) che rispondono a problemi
pratici del tenore seguente: « Come
ottenere un dato effetto estetico in una data circostanza ? » « Come condursi
moralmente in una data situazione della
vita? » Qual è l’obbietto dell’Etica? È
quello di stabilire in base alla
osservazione psicologica della funzione etica, in base allo svolgimento della cultura e della
civiltà, allo svolgimento storico della coscienza morale e della vita
morale il retto concetto della moralità.
Ed una volta fissato e delimitato tale
concetto, è chiaro che vengono determinate
le manifestazioni e le estrinsecazioni essenziali del principio
informatore della vita etica; basta a tal uopo rapportarsi alle qualità
fondamentali che contradistinguono il
suddetto concetto o principio.
In ultimo qual’è l’obbietto della Logica? È quello di stabilire in base all'osservazione
psicologica della funzione conoscitiva,
in base allo svolgimento storico della scienza
e della dottrina della conoscenza il retto concetto della conoscenza stessa. Trovato il principio
informatore di questa e caratterizzato
per mezzo di date qualità, è facile precisarne le determinazioni, le
manifestazioni ed i limiti di
variazione. Le norme etiche, logiche ed estetiche stanno ad indicare le diverse maniere in cui è
possibile rispondere alle esigenze
etiche, logiche ed estetiche dello spirito
umano; norme che hanno la loro ragione ed origine nell'ideale
rispettivo, il quale alla sua volta non è tratto dall'esperienza, non figura come un dato, ma
è posto da ciò che vi ha di più intimo
nell'essere nostro. Sta in ciò appunto il carattere distintivo delle leggi
normative suaccennate. Da tuttociò
consegue che l’ Estetica, la Logica e l’Etica (1) sono fondate su giudizi
sistematici o disgiuntivi tratti dalla
vita estetica, logica ed etica dell'anima umana. Esse mirando a mettere in evidenza la
struttura logica o intelligibile del
mondo estetico, conoscitivo ed etico, ci
pongono dinanzi agli occhi le diverse maniere in cui il principio informatore, l’universale concreto
e individuale si presenta in ciascuna
delle tre sfere più elevate dello
spirito umano. Nessuno confonderà poi le norme con i giudizi disgiuntivi
o sistematici, giacchè quelle non indicano
le parti del sistema articolate tra loro, ma bensì le vie per cui l’attività umana attua il sistema ideale
espresso nelle sue articolazioni per
mezzo della legge sistematica. Le norme si
riferiscono all’attuazione, al modo di procedere nella realizzazione
dell'ideale e quindi sono leggi della volontà
umana; le leggi sistematiche invece esplicano nelle loro determinazioni i sistemi ideali, per il che
non escono dal mondo ideale. Stando ad alcuni (Bradley, Bosanquet),
l’ultima e più perfetta fase della
conoscenza è rappresentata dal giudizio
disgiuntivo in generale, in quanto per mezzo di questo il principio informatore di un dato ordine di
realtà viene ad essere proseguito nelle
sue determinazioni essenziali o nelle
sue manifestazioni, le quali poi si escludono a vicenda. Nè potrebbe essere diversamente; una volta
che il princi» (1) Quello che abbiamo
detto dell’ Etica, dell’ Estetica e della Logica sì potrebbe dire della
Matematica. pio informatore, attuandosi, assume una data forma, viene ad essere esclusa ogni altra forma in cui
esso può anche presentarsi; e poichè tali forme sono definite ed enumerate invirtù
della conoscenza che sì ha di tutto l'ambito del concetto, è chiaro che dal trovarsi attuata una data
forma si deduce la non attuazione delle
altre, e dalla non attuazione delle
altre si deduce l’attuazione di quella sola che rimane. Col giudizio disgiuntivo si vengono ad enumerare
tutte le possibilità, ond’esso è l’espressione di una certa onniscienza da parte dell’uomo, onniscienza fondata però
sempre sulla cognizione di una data
qualità o attributo, il quale per natura
sua ngn può ammettere che un numero determinato
di variazioni, oltrepassate le quali, esso stesso viene ad essere annientato. Possono variare le occasioni immediatamente
determinanti la formazione dei giudizi
disgiuntivi, ma le loro caratteristiche non variano. Un giudizio schiettamente
disgiuntivo riflette sempre un contenuto o sistema completo in sè stesso, onde proviene che esso, come ogni giudizio
generico, è quasi categorico. Il
giudizio assume la realtà del soggetto ed enuncia nel predicato le varie forme
sotto cui quello in condizioni diverse
si può presentare; forme che esaurendo la natura del tutto posto come reale, si presentano
articolate tra loro mediante giudizi ipotetici o negativi. Ciò che sopratutto è
necessario e indispensabile si è che il contenuto-soggetto, l’individualità o
l’ universale, entri come tutto in ciascuna delle, forme enumerate, per modo
che ogni differenza figurando come
determinazione essenziale dell’ universale viene ad escludere tutte le altre differenze; è
soltanto sotto questa condizione che
ogni congiunzione si trasforma in disgiunzione, La disgiunzione, sempre secondo
tali filosofi, è la sola forma
giudicativa che può stare da sè, giacchè ogni connessione è entro un sistema e
si può dire completo solo quel giudizio
che enuncia insieme un sistema e le relazioni o
determinazioni contenutevi. Certamente non ogni disgiunzione è completa,
indipendente ed assoluta nello stretto
senso della parola, ma ciascuna presenta sempre un certo grado di assolutezza rispetto al numero dei
giudizi ipotetici che in essa trovano il loro fondamento. Così la disgiunzione
che enuncia la natura e le specie dei triangoli
contiene la base di tutti i giudizi ipotetici esprimenti le proprietà di tale figura. Ciascuno di detti
giudizi, se completato e fatto esplicito, metterebbe capo nella detta disgiuzione,
la quale alla sua volta è compresa nel giudizio
fondamentale che espone la natura e i caratteri dello spazio. | |
Ora, possiamo noi ammettere che la forma disgiuntiva sia la forma giudicativa più completa e
quella meritevole veramente del nome di
sistematica per eccellenza? Noi crediamo che vada fatta una profonda
distinzione tra il giudizio effettivamente sistematico, il quale qualifica il
Reale per mezzo di una identità
sistematica organicamente articolata nelle sue varie parti e il giudizio
disgiuntivo vero e proprio, il quale
lungi dal presentare un sistema attuato,
presenta le forme o le manifestazioni possibili di un principio. Il
giudizio sistematico ci mette sotto gli occhi un tutto organicamente costituito e reale,
mentrechè il giudizio disgiuntivo ci mette sotto gli occhi le maniere in cui il tutto si può attuare. Ora da ciò
consegue che dal punto di vista ideale,
dal punto di vista dell’elaborazione mentale il giudizio disgiuntivo appare più
perfetto, perchè da una parte ci dice
che un dato sistema, se attuato, deve
essere determinato in una data guisa e dall’altra ci fa sapere tutte le maniere in cui può essere attuato e
determinato; dal punto di vista invece
della conoscenza come qualificazione di
ciò che è reale è il giudizio sistematico vero e proprio quello che appare più perfetto e completo; l’ultimo
invero ci mette davanti l'attuazione di
un tutto organico contenente in sè delle
differenze non escludentisi, ma implicantisi a vicenda. È desso che costituisce
la base di una parte importante di giudizi ipotetici, i quali enunciano la
connessione delle differenze contenute
entro un sistema e il rapporto
necessario degli attributi o parti di un tutto. Lo schema del giudizio sistematico è : S è cosîffatto
che a implica b; quello invece del
giudizio disgiuntivo è: S è cosiffatto che si può attuare 0 determinare in a o in b o in c. È
vidente che il giudizio sistematico e
quello disgiuntivo non vanno identificati tra loro; sono due processi
conoscitivi collaterali, i quali
adempiono ad uffici differenti ; il giudizio disgiuntivo allarga e completa idealmente la conoscenza,
in quanto esaurisce le possibilità della
realizzazione; quello sistematico invece pone in evidenza la struttura organica
e i rapporti interni di un sistema
reale. Con'ciò non si vuol. negare che
vi possano essere e vi siano anche molteplici
interferenze tra i detti due processi e che il giudizio sistematico
possa essere fondato o esser riferito a una disgiunzione resa possibile dalle
variazioni di una qualità essenziale, ma
quello che non va dimenticato si è che la disgiunzione non rappresenta qualcosa di reale, come la
struttura sistematica, che essa è un
processo perfettamente ideale e che il tutto o il sistema che fa da soggetto
nei giudizi disgiuntivi è un prodotto
dell’astrazione. Esso non esistendo per
sè, non avendo la sua ragione in sè stesso, non essendo qualcosa di sussistente e di completo, non
esce dal dominio del necessario e del
relativo; esso si riferisce necessariamente ad una delle determinazioni
enunciate nel predicato. Il contrario si
verifica nei giudizi prettamente sistematici
nei quali il soggetto è qualcosa di categorico, di completo e d’indipendente. | La verità di ciò che si è detto intorno al
giudizio disgiuntivo viene provata anche da questo, che esso è attivo in tutti quei processi dello spirito relativi
all'attuazione di ideali concepiti dalla
mente umana ; prima questa, per ragioni
su cui qui non importa insistere, forma un concetto e poi dello stesso vengono
rintracciate le determinazioni principali, basandosi sopra una sua nota
essenziale; il giudizio disgiuntivo in
tal guisa è attivo soltanto ogni volta
che si ha a che fare con costruzioni ideali, con costruzioni di possibilità
fatte da noi (di cui conosciamo le
qualità essenziali e le loro variazioni), mentrechè quello sistematico mette in luce la struttura
organica di un sistema reale per via della vicendevole dipendenza delle parti di esso. Tuttociò che è organicamente
costituito, tuttociò che, attuato, o
risponde effettivamente — perchè opera
dell’intelligenza e dell’attività umana — o sembra corrispondere (funziona come corrispondente)
ad un fine, può formare oggetto di un
giudizio sistematico vero e proprio, o
finale o generico che si voglia dire. Il giudizio disgiuntivo lungi dal rendere più perfetta la
nostra conoscenza della realtà — della quale noi conosciamo soltanto dei frammenti — non fa che rendere esplicito
ciò che era implicito — perchè nostra
fattura —, non fa che metterci
sott'occhio sotto altra forma ciò che già sapevamo. Avendo noi costruito il concetto soggetto non
possiamo non trovarvi dentro quello che noi stessi vi abbiamo posto. É soverchio aggiungere che il giudizio
disgiuntivo non può avere alcuna
applicazione seria nella conoscenza del reale, del dato, giacchè noi dei vari ordini di questo
non conosciamo il principio informatore
(la natura propria) in modo da poterne
indicare tutte le manifestazioni possibili.
B Noi finora abbiamo
classificato le leggi, tenendo conto
della forma e della natura dei giudizi con cui esse vengono enunciate; è evidente che possono ancora
essere classificate, tenendo conto della
loro varia origine, della maniera cioè
con cui vengono rintracciate. Esse invero assumono caratteri diversi
secondo che variano i processi logici messi
in opera per scovrirle. Da tal punto di vista le leggi possono essere
classificate in leggi costrattive, leggi analogiche, leggi induttive è leggi deduttive. Cominciamo dal
ricercare per quale via vengono messe in
luce le leggi matematiche, vediamo cioè qual'è il processo logico che le rende possibili e che quindi le
contradistingue. L'inferenza (1) di cui si fa uso in matematica, è una vera e propria inferenza sussuntiva? | Ogni calcolo aritmetico, e quindi ogni specie
di calcolo, può essere ridotto ad
enumerazione o ad enumerazione di
enumerazioni. Tutto il processo poggia sulla concezione del tutto quale somma delle sue parti, dell’
universale come risultante da
determinazioni e differenze eguali ed omogenee quantunque distinte e separabili
tra loro. È evidente che in tali casi
l’universale non si presenta come un sistema
concreto, per modo che le inferenze da esso emergenti non sì sa se siano da considerare come
correlative dei giudizi, Qui è bene intenderci sul concetto che ci dobbiamo
formare dell’inferenza dipendentemente
dal modo come venne interpretata la
natura del giudizio, L'inferenza, come il giudizio, mira a
qualificare la realtà, con questo di
proprio che la detta qualificazione non
è immediata, ma mediata nel senso che il contenuto ideale viene riferito
alla realtà in modo indiretto, coll’intermezzo di un altro contenuto
immediatamente qualificativo. Ora com'è mai possibile un tale processo ? Come è mai possibile il passaggio
da un contenuto ideale ad un altro? È
possibile, perchè entrambi questi sono differenzia» zioni di un fondo identico, momenti diversi
di un unico universale. E qui va notato
che quando sì parla di universale non bisogna correre con la mente
all'universale astratto, alla nota od alla proprietà comune e ripetentesi in un certo numero di
casi, la quale non significa nulla, ma
all’universale concreto, al carattere significativo che, implicando il modo con
cui è connesso con altri caratteri o momenti
sì presenta come fattore generatore della realtà concreta Un
esempio dell’universale concepito in
modo siffatto ci vien fornito da talune
proprietà delle figure geometriche; dato, per es. un arco di
cerchio, noi abbiamo il raggio, onde
possiamo descrivere tutta la circonferenza;
e perchè ciò? Perchè l’arco dato non è semplicemente ripetuto, ma è continuato secondo la natura propria
(universale concreto) della ovvero come delle inferenze esplicite. Così
l'equazione, poichè risulta da una
comparazione di relazioni numeriche
astrattamente considerate, pare che corrisponda al giudizio universale e più specialmente a quello
ipotetico : il che è già sufficiente a
porre in evidenza il carattere sintetico o inferenz ale di essa. Se non che
l'equazione non presuppone, non implica
nulla, ma distende, per così dire, in modo
completo gli elementi su cui verte l’attività giudicatrice. Mentre l’ordinario giudizio ipotetico omette
o presuppone l'esistenza di tutte quelle
condizioni che o sono ovvie addirittura, o implicite o completamente inattive,
l'equazione, il cui contenuto è omogeneo
appare ipotetica sulla base di detta
figura piana, natura propria che regola le parti e che, quantun que implicata
gia nell'arco dato, è nondimeno distinta da questo. La cosa riuscirà forse più chiara ancora se
invece di un cerchio noi consideriamo
un’ellissi, in cui il frammento della curva dato non può essere soltanto ripetuto senza mutamento
nel rimanente della costruzione: vuol
dire che nella curva data vi è qualcosa che può
dettare la modalità della continuazione e completamento di essa. Sicchè
noi possiamo definire il giudizio mediato, o inferenza, come il riferimento alla realtà (entro la sfera di un
dato universale) di determinazioni per l’intermezzo di altre determinazioni
direttamente riferite alla Realtà, ed esprimenti la natura propria
dell’universale; ovvero, come il
riferimento di alcune parti alla realtà per mezzo. di altre parti esprimenti la natura propria di
una totalità determinata. Perchè si
abbia l’inferenza è necessario adunque che l’universale si presenti come un sistema le cui parti
siano in necessaria connessione tra loro e che la semplice unità delle
differenze, quale si manifesta nel giudizio, sia sostituita da una maggiore o
minore complessità di determinazioni e da una congiunzione più o meno articolata
di attributi e di relazioni (nelle quali vanno comprese le relazioni di spazio
e di tempo). Cfr.
BosanQuET [citato da H. P. Grice, “Prejudices and prediletions, which become,
the life and opinions of H. P. Grice” --, Logic. un
processo intellettuale, o di una sintesi di differenze esplicite. Noi nel giudizio ipotetico
affermiamo la connessione necessaria esistente tra due termini senza mettere in
chiaro la maniera in cui tale connessione si stabilisca e si generi, senza cioè
rondero esplicito nel processo logico il
fondamento o la ragione della connessione: nella equazione invece o nella combinazione delle
equazioni i rapporti tra i varii
termini, le loro proprietà e la loro
derivazione vengono tutte messe sott'occhio per modo che appare evidente il fondamento del loro
legame. È per questo che l'equazione
presenta una connessione di ordine
inferenziale in modo molto più chiaro che non l’ordinario giudizio ipotetico. | La combinazione delle equazioni messa in
rapporto con una singola. equazione si
presenta poi come la combinazione dei giudizi messa in rapporto con un singolo
giudizio: in entrambi i casì è pressochè
impossibile tirare una linea netta tra
l’atto singolo e la combinazione degli atti.
Il ragionamento matematico, stando al Bosanquet, può assumere varie forme, delle quali le
principali sono: quella seriale (per cui
è possibile l’apprensione delle connessioni
spaziali e temporali), quella sostitutiva, quella costitutiva (equazioni costitutive) e quella
proporzionale. Tutte le dette forme
hanno questo di comune che non implicano un processo di vera e propria
sussunzione, vale a dire che la
conclusione, emergendo da una relazione quantitativa esistente tra le
premesse, ovvero dalle modalità della funzione costruttrice espressa nelle
stesse, non può essere considerata come
un caso particolare compreso nella premessa maggiore, o come un elemento di un’
individualità concreta, ovvero come una determinazione della natura generica espressa nella detta premessa
maggiore. Così nella cosidetta inferenza
per sostituzione Premessa maggiore M
—=a + br tcr8.... Premessa minore S
=sMon Conelusione S =8 (at be
+cer8....) noi abbiamo due connessioni
equazionali riferite ad un identico
tutto e quindi atte a dar origine ad un'ulteriore connessione. Ma M non è, nel caso sucitato,
generico, nè S è specifico, nè infine Ja
connessione di S con s (a +bx ecc.) è
nota in grazia della connessione o della subordinazione dello stesso S all’ individualità concreta M.
M, non v’ha dubbio, figura come il
centro delle relazioni, come una forma
dell’universale quantitativo che, per così dire, pervade tutta ‘l'equazione, ma
da ciò non consegue punto che .S sia un
caso di M piuttosto che M di $S. Insomma
la sostituzione è una conseguenza derivante dall’ identità del tutto con sè stesso nelle sue varie forme
(essendo obbietto del calcolo appunto il ritrovamento di detta identità), e non
un principio di relazione inferenziale. Da tal
punto di vista l’inferenza sostitutiva che merita propriamente il nome
di inferenza per identificazione equazionale,
costituisce il fondamento del computo aritmetico e algebrico. D'altra parte le inferenze esprimenti le
connessioni spaziali e temporali: A è a dritta di B, Bè a drittadi C.-. A è a dritta di C: o A è anteriore a B nel
tempo, B è anteriore a C.*. Aè
anteriorea C, sono agli antipodi della
vera sussunzione in quanto esse piuttostochè attribuire ad un fatto, al
reale un contenuto ideale per mezzo della
connessione di quest’ultimo con un altro contenuto ideale direttamente attribuito al reale, esprimono
la maniera in cui si stabiliscono le
relazioni spaziali e temporali, esprimono il modo di procedere della funzione
costrpttrice. È se si vuol per forza
fare in tal caso un’inferenza, si deve
commettere l’errore di prendere il principio attivo, l’elemento
generatore, o ciò che rende possibili tali inferenze, vale a dire la funzione mentale che ci dà l’
ordinamento costruttivo spaziale e
temporale e considerarlo come parte del
contenuto da cui è tratta la conclusione, nel
qual caso sarebbe da porre come premessa maggiore delle argomentazioni costruttive un principio suî
generis, un principio generale di
costruzione che può essere espresso nel
modo seguente: Ciò che è a dritta di una cosa qualsiasi B è a dritta di ciò, di
cui alla sua volta la stessa cosa B è a
dritta, e porre poi come premessa minore
tutto il contenuto nell’inferenza suddetta; giacchè lo costruzioni e le connessioni astratte si
riducono a relazioni sistematicamente necessarie, nelle quali si prescinde pressochè totalmente dalle qualità
caratteristiche dei punti di riferimento
assunti come perfettamente noti e
indifferenti (se A è a dritta, ecc. vuol dire che A è un punto o un corpo nello spazio, altrimenti
l’inferenza non avrebbe senso). Le stesse
costruzioni tramutate in inferenze non possono presentare premesse fornite di
prerogative speciali. | Come si vede,
in tali casi non vi ha processo d’inferenza,
perchè quella che dovrebbe essere premessa minore è la pura ripetizione, senza alcuna variazione, di
quella che è posta come premessa maggiore; a ciò si aggiunga che la stessa premessa minore racchiude tutto, per
modo che manca la conclusione. In
siffatta inferenza le modificazioni
reciproche delle relazioni sono costruite -nell’atto che si argomenta e non vengono presupposte nella
natura del soggetto reale, a cui si riferisce l’inferenza. In altri
termini l’argomentare non ha per scopo
già di rendere esplicito, di distendere
ciò che è già involuto nel soggetto esistente
per sè, ma nell'atto stesso che l’argomentare ha luogo, si costruisce o si forma il soggetto
dell’inferenza. I processi costruttivi
spaziali e temporali adunque non sono dei processi d'argomentazione sussuntiva,
ma esprimono in forma ideale il
riferimento reciproco dei vari punti dello spazio e del tempo, riferimento che è basato sulla
identità e continuità dello spazio e del tempo. I processi delle equazioni costitutive,
delle equazioni, cioè, enuncianti i
rapporti numerici esistenti tra le parti componenti determinate totalità
presentano due aspetti. Da una parte
figurano come sémplici calcoli o combinazioni di rapporti simili alle equazioni
mediate, o sistemi di equazioni numeriche, le quali non hanno alcun significato
all'infuori di un dato sistema numerico:
infatti quando si stabilisce una
proporzione tra due quantità variabili, dando a queste un valore determinato (coefficiente) per
vedere quali modificazioni ne risultino, è evidente che non vi è premessa maggiore, ma bensì descrizione generalizzata
di un identico tutto in due casi, i
quali devono essere attuati rispettivamente con determinati fattori e
l’inferenza consiste nel presentare la
costruzione di un tale tutto appunto rispettivamente sulla base di tali
fattori; dall’altra parte il calcolo, le combinazioni delle equazioni in taluni
casi sono ° fatte in base a certi
presupposti, e con regole determinate,
onde esse figurano come mezzi per raggiungere uno scopo definito, il quale poi sì può ridurre alla
determinazione delle proprietà di una
data figura nello spazio: così p. es. la forma
spaziale del tipo curvilineo (la curva poi può essere aperto o chiusa, simmetrica o asimmetrica ecc.) è come
il contenuto quasi generico, secondo il
linguaggio del Bosanquet, ovvero
l’idea-in base a cui la costruzione di una particolare figura curva avente proporzioni numeriche, assume
proprietà caratteristiche. L'unità
organica o sistematica presentata dalle figure
geometriche, per la quale esistono rapporti definiti tra i vari elementi che le compongono, è data
appunto dal fatto che le dette figure
non risultano da un semplice aggregato
di parti, ma dalla coordinazione numericamente
proporzionale di queste. E nell’atto stesso della costruzione di date
forme spaziali si possono venir scovrendo
le loro proprietà, ond’esse non figurano come qualcosa di dato, come un fatto, ma come qualcosa che
si vien facendo. In ogni case il
passaggio da una combinazione
equazionale numerica alla costruzione (proporzionalmente corrispondente nelle sue parti) di una data
figura fornita di date proprietà può
esser fatto solo in base ad un principio racchiuso nella natura caratteristica
della detta figura — quale emerge dalle
qualità fondamentali dello spazio
—. È chiaro che col fare entrare in
campo l'elemento del tempo e quindi col
rappresentare il movimento come una
lunghezza e col riguardare le nozioni astratte di forza e di massa come elementi determinanti in modo
correlativo il movimento, noi abbiamo
tutti gli organi del puro meccanismo e della scienza costruttiva astratta. Fu detto dal Lotze che l’inferenza
proporzionale costituisce l’ultimo limite della conoscenza e che presenta
un carattere perfettamente sussuntivo:
ora ciò non è esatto fin tanto che essa
non esce dal campo del calcolo puro e semplice
(2:4::3:%.0.x—=6), poggiando in tale caso sopra un rapporto inerente ad
un dato sistema numerico. Nè vale a provar.
niente al di fuori di questo. Quando per contrario si applica alla determinazione di un contenuto concreto,
di una individualità definita, allora essa non ha valore e significato per sè, ma l’acquista dal fine a cui serve o
dall’obbietto a cui si riferisce, o
infine dai presupposti su cui si eleva.
La proporzione non definisce, ma mette in maggior evidenza, determina, fissandoli quantitativamente,
misurandoli, i caratteri dell’individualità, le qualità del sistema o
della totalità concreta dopo che ne è
nota per altra via la loro natura,
ovvero accenna ad esse perchè la conoscenza ne sia completata con mezzi più appropriati. Noi
possiamo dire che la proporzione
acquista tutto il suo valore dall’eterogeneità dei suoi termini, in quanto
questa implica sempre l’esistenza di un
sistema speciale di relazioni e di connessioni.
La detta eterogeneità dei terminidella proporzione può essere di varie sorta, secondochè i due obbietti
comparati sono o no misurabili con
un’identica unità, ovvero uno dei due è
misurabile e l’altro no, ovvero infine nessuno dei due è misurabile; nel quale ultimo caso non è più a
parlare di proporzione, ma di analogia o
di sussunzione, mentrechè nei casi
antecedenti si hanno varie forme e combinazioni. di giudizi ipotetici, i quali
rappresentano i veri punti di passaggio
dalle forme astratte d’infevenza a quelle concrete (4). Le leggi costruttive hanno adunque questo di
proprio che sono leggi funzionali in
quanto esse non vengono estratte da ciò
che esiste, da ciò che è dato, ma indicano le maniere in cui la mente opera in date circostanze.
L'universale concreto in base a cui
avvengono i nessi tra gli attributi
espressi nelle leggi è attivo nella mente e viene attuato mentre si enunciano le dette leggi: non è
qualcosa che esiste per sè di rincontro
alla mente. Pertanto in esse vanno
comprese tutte le leggi riguardanti il pensiero, la emotività e la volontà umana in azione. Le
leggi logiche fondamentali, le leggi
etiche, estetiche ecc. non esprimono il
modo di comportarsi di cose esistenti al di fuori del soggetto, non sono ricavate da fatti, ma
esprimono le maniere in cui i fatti
vengono disposti, ordinati, appercepiti dal punto di vista logico, estetico ed etico. Siffatte
leggi non possono essere ricavate da
principii generali in cui siano come contenute,
perchè questi principii non potrebbero essere che le funzioni dello spirito umano, le quali,
messe in azione, determinano appunto le
leggi logiche, estetiche ed etiche. Le
dette funzioni dell'anima umana espresse o tradotte in termini intellettivi, separate dal fatto e
idealizzate (guardate nella loro
intelligibilità o possibilità, nel loro was) costituiscono appunto le leggi
logiche, estetiche ed etiche. Onde
consegue che questa prima classe di leggi — leggi funzionali o costruttive — da una parte non sono
induttive, in quanto (1) Cfr.
BosanQuET [citato da H. P. Grice, “Prejudices and predilections, which become
the life and opinions of H. P. Grice” -- non vengono ricavate da fatti e
dall’esperienza, e dall'altra non sono
deduttive i in quanto non vengono ricavate da principii generali o da
individualità, sistemi o totalità date. Ciò
sarà più evidente in seguito quando avremo parlato delle varie forme di sussunzione. Qui notiamo che
va fatta distinzione tra le leggi emergenti da un dato fatto estetico o da un dato sistema scientifico o da un complesso
di fatti psicologici occupanti un determinato punto deilo spazio e del tempo — le quali possono essere deduttive o
induttive secondo che sono state ottenute prendendo le mosse dall’universale,
ovvero dalle determinazioni particolari di questo — e le leggi che indicano per così dire la
via tenuta dalla | psiche nelle sue
principali funzioni. Queste leggi sono stabilite ed enunciate nell’ atto stesso
che vengono formati i principii da cui
dovrebbero essere ricavate, principii che
sono come l’espressione intellettuale delle PHAGIPLI funzioni dello
spirito umano. 2. Leggi
analogiche. Le leggi analogiche che si
potrebbero anche chiamare leggi
morfologiche o leggi classificative, sono quelle per mezzo di cui unoggetto o un caso particolare è reso
intelligibile, facendolo rientrare in
una data classe e quindi descrivendolo, caratterizzandolo. Descrivere e
classificare sono atti che. s’'implicano
e si completano a vicenda: io in tanto
classifico in quanto descrivo e viceversa in tanto descrivo in quanto classifico, in quanto faccio
rientrare il particolare nell’ universale, in quanto guardo il nuovo, l’
ignoto attraverso il noto. È vero che
d’ordinario si fa distinzione tra i
giudizi propriamente descrittivi (i quali, si dice, hanno per predicato un aggettivo esprimente una
proprietà, un attributo del soggetto) e
quelli esplicativi (i quali, si dice,
hanno per predicato un sostantivo più generale, nella cui estensione è comprese il soggetto), ma in
sostanza tale distinzione è soltanto
grammaticale, giacchè nel secondo caso
il predicato-sostantivo è adoperato in un certo senso aggettivamente come nel primo il predicato
aggettivo è adoperato in un certo senso
sostantivamente : in entrambi i casi,
infatti, il predicato ha l'ufficio di far appercepire, di rendere intelligibile il soggetto, in
entrambi i casi cioè il predicato è un
contenuto ideale atto a qualificare il
reale quale si presenta nel soggetto grammaticale. Del resto fu già notato da altri che tale
processo classificativo del pensiero può
presentare parecchi aspetti, pur conservandosi uno nel fondo: così esso può
avere una doppia direzione, cioè o va
dalla nuova (attuale e singolare) alla
vecchia rappresentazione (generica, o schematica o classe) — e in tal caso la seconda è
riconosciuta e affermata come un carattere della prima (giudizio
analitico); — oppure va dalla vecchia
alla nuova, e questa apparirà come una
particolarità novella della prima (giudizio sintetico). Che il giudizio
classificativo (assuma la forma propriamente classificativa o quella
descrittiva o quella storica), sia sempre uno nel fondo viene provato anche
da questo che le scienze così dette
classificative sono descrittive e storiche insieme: così la così detta
Storia naturale comprende la Zoologia,
la Botanica, la Mineralogia, le quali sono eminentemente classificative e
descrittive: non vogliamo con ciò affermare che tali scienze non siano anche esplicative, su che ebbe già a
richiamare l’attenzione il Wundt, ma
esse sono esplicative, perchè sono
insieme genetiche e morfologiche, perchè, cioè, classificano e descrivono gli obbietti naturali,
ricercandone la evoluzione. Le leggi analogiche adunque sono della più
grande importanza in quanto rendono
possibile l’apprensione ordinata delle cose, in quanto rendono intelligibili
gli obbietti, facendoli rientrare in
date classi e in quanto, ciò facendo,
mettono in evidenza l'affinità, lo svolgimento e la genesi dei vari ordini di realtà. Vanno considerate come una categoria a parte
di leggi in quanto uno è il processo di
loro formazione — processo logico detto
dell’analogia e della verosimiglianza, il quale
consiste nel conchiudere dacchè parecchi oggetti e fatti si somigliano in alcuni punti, che si somigliano
probabilmente anche in altri punti, L’analogia ha questo di proprio’ che la sua
conclusione non è fondata sul numero dei casi in cui i suoi termini (il
soggetto e il predicato) si presentano connessi, ma è fondata sull'esame, sull’analisi e
quindi sulla valutazione dei caratteri riscontrati connessi in un gran numero di casi; analisi e valutazione che è
fatta col ricercare ciò che i detti oggetti e fatti presentano di comune, col
ricercare le proprietà e gli attributi, i quali, qualificando entrambi, valgono a mettere in
evidenza la loro vera natura. Ora se tutti i giudizi potessero essere
considerati come reciproci l'analogia
diverrebbe ipso facto un’ inferenza da condizione a condizionato, come è
inferenza da condizionato a condizione: « due antecelenti che hanno ùn medesimo
conseguente devono essere intimamente connessi tra loro ecc. » è la formola esprimente
l'analogia qual'è realmente, mentrechè la formola « due antecedenti che
hanno un merlesimo conseguente devono
essere conseguenti di un medesimo
antecedente, per il che devono coincidere »,
rappresenta l'ideale a cui tende l’argomentazione, ma che essa per sè è impotente a raggiungere. Se il
fatto di riscontrarsi i medesimi caratteri in A e B non basta a provare che A sia specie e B genere o
viceversa, indica però sempre che tra
loro vi deve essere una correlazione e
una corrispondenza ; sicchè se non potremo attribuire a B il carattere M potremo attribuirgliene un
analogo M'; si ha così la proporzione: A:B=B:M
Il carattere M' figura come il prodotto di ciò per cui A coincide con B (appartenendo ad un medesimo
genere) e di ciò per cui ne differisce.
Ha ragione pertanto il Drobisch di considerare l’analogia come il mezzo con cui
vengono messe in evidenza le corrispondenze, le umologie e le analogie esistenti tra specie congeneri,
coordinate quindi tra loro e subordinate
ad un genere superiore comune, come îl
mezzo con cui viene posto in luce il differenziarsi di un'identità fondamentale sistematica,
l’unità morfologica di un dato sistema e l'ordinamento esistente nei vari ordini di reali, i cui ritmi di attività
mentre si corrispondono tra loro, sono d’altra parte contenuti in un ritmo superiore
generale. Così un naturalista che ha scoperto
in una specie animale o vegetale un dato carattere, p. es. un certo organo, non attribuisce ad un'altra
specie congenere alla prima l’identico carattere, ma piuttosto uno analogo 0, come si dice, omologo, cioè tale
che raccolga in sè la natura del genere
e risponda insieme alla particolare natura della specie. Il valore del ragionamento per analogia
dipende da due condizioni: 1° che tra i
caratteri simili e il carattere che si
tratta di attribuire ad una delle due cose comparate esista un rapporto naturale e non una
semplice coincidenza fortuita : 2° che
le due cose comparate non differiscano
per caratteri tali che ogni analogia riguardante il carattere che si
tratta di attribuire ad una di esse sia allontanata dal bel principio. Come si
vede, la validità dell’analogia poggia tutta sull’importanza attribuita ai vari
caratteri e sul rapporto esistente tra
le note comuni e quelle differenti, sempre in ordine ad importanza: pertanto il
nodo della questione sta tutto qui, sul
fondamento e sui limiti di applicabilità
del nostro giudizio apprezzativo circa l’importanza dei caratteri di dati
oggetti. Vi fu chi affermò che il
rapporto tra i caratteri simili e quelli differenti (base della validità dell’analogia) fosse
rapporto puramente numerico : in tal
caso l'analogia sarebbe stata più o meno
valida secondochè fosse preponderante la somma dei caratteri comuni,
ovvero quella dei caratteri differenti, tenuto conto della conoscenza totale
che noi abbiamo delle proprietà degli
oggetti in questione. Ma ognuno vede che
la validità dell’ analogia non può dipendere dal numero, bensì dalla qualità dei punti di somiglianza,
i quali derivano il loro significato dalla loro relazione col sistema totale di cui fanno parte. Ed il sistema non
può essere ridotto ad un aggregato di
parti indifferenti, giacchè queste, per l'opposto, hanno un valore
differentissimo dipendentemente dai reciproci rapporti in cui si trovano.
Chi è pratico dei processi analogici, i
quali rendono possibile la
classificazione morfologica degli obbietti naturali, sa benissimo che essi poggiano non sulla
enumerazione, ma sulla valutazione dei
caratteri: già non si avrebbe un’unità di misura per enumerare i caratteri, e
poi che cosa vorrebbe dire un punto di
identità o di somiglianza ? come si
farebbe a circoscrivere i limiti dell'identità e della somiglianza ? | L'analogia non è fondata proprio sulla
identità, ma sulla corrispondenza dei
caratteri, e sulla importanza ad essi
attribuita, corrispondenza ed importanza che possono essere scoverte,
basandosi sopra un insieme di considerazioni
di ordine diverso, le quali però mirano sempre a ricercare la connessione in cui si trovano i caratteri
in questione con tutto il sistema degli
organi che rendono possibile la vita
dell'individuo, mirano cioè a ricercare l’ ufficio a cui gli stessi caratteri adempiono e a
tracciarne la genesi e lo svolgimento.
Chi dice analogia dice comparazione dei
caratteri in owdine alla loro importanza ; e chi dice comparazione in
tal senso dice ricerca del significato che i
detti caratteri hanno per la vita dell'individuo. Dall'altra parte chi dice determinazione della
corrispondenza csistente tra i caratteri di due specie, dice esame del
molo di funzionare e di operare, esame
dell’ ufficio degli stessi caratteri e
insieme indagine della loro genesi e sviluppo. spaziale — possono essere
ridotti a sillogismi, il cui termine
medio (il fine da raggiungere) determina il rapporto degli estremi.
In ordine alle costruzioni meccaniche è stato notato che esse non acquistano la loro consistenza
dall'ufficio a cui servono, giacchè
questo è qualcosa di aggiunto, col che si
vuol dire in sostanza che una costruzione meccanica è qualcosa d' indipendente dalla sua funzione,
tanto è ciò vero che essa può e non può
compiere la detta funzione, la può
compiere più o meno bene, e può anche essere
incapace di compierla affatto: tuttavia la macchina è sempre un prodotto necessario delle forze o
leggi meccaniche che la rendono possibile ed esiste come tale in ogni caso. Da ciò conseguirebbe poi che i rapporti
dei vari elementi componenti la macchina
sarebbero qualcosa di necessario e di
fatale — ed andrebbero formulati per mezzo
di leggi costruttive, piuttostochè sussuntive. Ora noi osserviamo che
l'ufficio, la funzione della costruzione meccanica è tale elemento essenziale
alla sua struttura che non può in alcun
modo esser considerato come un epifenomeno : l’individualità, vale a dire la
ragione d'essere della macchina non è
riposta tutta nello scopo che essa deve
raggiungere? Le forze o leggi meccaniche per sò
prese sono un’astrazione, sono un prodotto dell'analisi scientifica;
nella realtà sono sempre combinate dall’intelligenza “umana in vista di un fine, il quale non solo
contribuisce ad accrescere la
consistenza del fatto meccanico puro e
semplice, ma gli dà realmente valore e significato. Del resto ognuno comprende che tra una macchina,
la quale risponde ad uno scopo — che
questo poi sia o no raggiunto in modo completo, poco importa — ed una
composizione qualsiasi di forze
meccaniche corre un divario essenziale
in quanto quella forma un tutto, un sistema che ha la sua ragione determinante nella funzione,
mentrechè la semplice composizione di
forze nei suoi rapporti necessari si
rivela completamente inorganica.
Possiamo d'altra parte affermare che tutte le leggi teleologiche vadano
confuse insieme, possiamo cioè dire che
il procedimento per cui vengono enumerati i rapporti esistenti tra i
termini di un sistema sia sempre uguale? Noi
crediamo che a tal proposito vada fatta distinzione tra gli scopi e le maniere di raggiungerli dettati
dall’ esperienza e dall’osservazione che
col Masci si potrebbe chiamare passiva,
e gli scopi e le maniere di raggiungerli dettati dalla osservazione attiva. Le
prime si potrebbero chiamere leggi
finali empiriche o a posteriori, perchè fondate su rapporti empirici; le altre si potrebbero chiamare
leggi finali a priori, perchè fondate su
determinazioni primitive della nostra
attività spirituale. Quelle non implicano nessun grado di assolutezza nel senso che ì relativi sistemi
sono fatti forniti solo dall'esperienza e quindi aventi un valore contingente:
le altre invece sono assolute, perchè si riferiscono a sistemi inerenti alla natura umana. Le
leggi finali empiriche sì riferiscono a sistemi che vengono costruiti da
noi con materiali forniti dell’
esperienza e in virtù di scopi suggeriti
del pari dalla pratica della vita: le leggi finali a priori si riferiscono per contrario a
sistemi ideali formati da noi per
rispondere ad esigenze interiori e profonde del
nostro essere, indipendentemente dalla convalidazione dell'esperienza
esterna. Tali leggi finali, anzi, lungi dall’ essere ricavate dall’ esperienza,
servono a regolarla. I rapporti morali,
logici, estetici e matematici sono inerenti a sistemi aventi il loro fondamento e la loro radice
nella costituzione, nella natura propria dello spirito umano e non nell’ esperienza esterna, ond’è che il fine
logico, morale, estetico e matematico
non può esser raggiunto che nella
maniera suggerita dalla stessa natura dello spirito, al di fuori della quale maniera non è più a parlare
di funzione conoscitiva, morale ecc. Le
suddette leggi teleologiche mostrano
pertanto la loro base categorica a preferenza di tutte le altre. E a tale proposito giova
notare che le costruzioni meccaniche in tanto appaiono in modo evidente sistematiche in quanto sono come a dire
incorporazioni di leggi matematiche. Le
leggi finali empiriche possono essere
ridotte alla formula seguente : Dato un sistema cosiffatto, vi deve essere questo rapporto determinato
tra i suoi elementi: ora in tal caso il
sistema presentato è un dato dell’
esperienza, che potrebbe anche non esseré o essere differente, perchè non risponde a nessuna
necessità intrinseca ; per contrario la formula delle leggi finali a priori è
: L'anima umana è cosiffatta che non può
non produrre il tale sistema (logico,
etico, estetico e così via) con questi rapporti
ecc.: è evidente che in questo caso non si ha a che fare con qualcosa che può e non può essere dato, e che
può essere dato indifferentemente in un
modo piuttosto che in un altro, ma si ha
a che fare con ciò che è inerente all’anima umana in generale, tolta la quale non rimane più
nulla. Conclusione: le leggi finali
empiriche sono contingenti, perchè fondate su
dati empirici, mentrechè le leggi finali a priori sono assolute, perchè fondate su funzioni del soggetto. Noi
dicemmo che le leggi deduttive o sussuntive sono quelle derivate dall'analisi di un sistema.
Ora è evidente che il cosìdetto
sillogismo disgiuntivo non può non figurare
come uno dei processi atti a darci le suddette leggi, secondo la formula: Aè o Bo C, Anon è B, .-. Aè C,
ovvero A è B.'. Anonè C. Recentemente
però il Bradley e il Bosanquet hanno osservato che mentre la disgiunzione è
l'espressione più completa e perfetta del grado di chiarezza e di determinatezza a cui può giungere la
conoscenza umana, in quanto essa
esaurisce il contenuto di un sistema, di una
totalità, mostrandone le varie parti e il modo in cui queste si articolano tra loro (e a tal proposito va
notato appunto che ogni congiunzione si
può ridurre a disgiunzione, giacchè una volta che vengono assegnate con
esattezza e precisione la condizioni sotto cui ciascuna determinazione è attribuibile al soggetto reale, rimane
esclusa ogni altra determinazione che non possa essere compresa nella
prima per la contradizione che nol
consente), dall'altra parte la
disgiunzione stessa è tutta racchiusa nella premessa maggiore del
sillogismo disgiuntivo quale viene ammesso dalla logica tradizionale: quando, infatti, la
detta premessa disgiuntiva è bene determinata nelle sue varie parti, e
nelle relazioni intercedenti tra gli
elementi, essa contiene tutto quello che
verrebbe detto nella premessa minore e nella
conclusione, le quali così sono ripetizioni superflue e quindi inutili. Il sillogismo disgiuntivo
della logica formale è valido soltanto
nelle disgiunzioni per ignorantiam o in
quelle relative ad un punto del tempo, nei quali casi la premessa minore vale a risolvere un dubbio
relativo ad un membro di un’alternativa
o ad affermare l’esistenza di questo in un dato momento: ma dette disgiunzioni
lungi dal significare l'organizzazione
vera di un sistema, hanno la loro
origine in una condizione accidentale riguardante l’attività conoscitiva di chi parla e ragiona
in un dato . periodo di tempo. In sostanza il concetto del Bosanquet è
questo : la conoscenza umana, specie la conoscenza scieatifica, non verte sui fatti, ma sui concetti dei fatti: ora che
cosa vuol dire ciò? Che l'ideale della
conoscenza è quello di apprendere le
possibilità di fatti, val quanto dire le condizioni in cui gli eventi reali possono aver luogo, tanto è
ciò vero che la legge, la quale enuncia
il modo di agireti una data sostanza non
afferma in alcun modo l’azione attuale della detta sostanza sopra un organismo ; e che cos'altro
fa la disgiunzione se non porre, sott'occhio tutte le possibilità, tutte le determinazioni (con le loro condizioni)
che può presentare un universale concreto? In vista di ciò appunto la disgiunzione rappresenta la forma più
perfetta e completa della
conoscenza. Ci sia lecito fare alcune
osservazioni : Anzitutto non vediamo perchè si debba destituire di ogni valore
il sillogismo disgiuntivo, secondo l’intende la logica tradizionale, il quale adempie ad uffici importanti nella
conoscenza umana. La cognizione
perfetta, la cognizione strettamente
disgiuntiva rappresenta un ideale a cui l'intelletto tende ad avvicinarsi senza poterlo mai raggiungere,
specie nelle conoscenze riflettenti la
realtà esterna, il dato dell’esperienza; e la vita della conoscenza reale ed
effettiva è riposta appunto in tale
processo di approssimazione indefinita, giacchè ammesso pure che possa l’uomo
giungere a racchiudere
tutto in una disgiunzione completa, con ciò
verrebbe a scomparire l’attività conoscitiva. Ma su ciò torneremo or ora: diciamo piuttosto che il
sillogismo disgiuntivo quale viene ammesso dalla logica tradizionale esprime un momento interessante del processo
conoscitivo, | giacchè oltre la
conoscenza per concetti vi è quella di
fatti (conoscenza storica), in cui la determinazione del tempo ha un'importanza speciale. Ma il
sillogismo disgiuntivo oltrechè esser valido a definire la realizzazione di
un contenuto ideale nel tempo, vale
anche a determinare quale di parecchie
anticipazioni fantastiche, di parecchie possibilità ipoteticamente enunciate
trovi il suo riscontro nella realtà. Che
il dominio del possibile sia più vasto del reale nessuno vorrà negare: onde la necessità di
limitare quello per mezzo di
quest’ultimo. Nè vale il dire che la disgiunzione per ignorantiam rappresenta
un fatto accidentale, ‘ transitorio,
perchè d'origine subbiettiva, giacchè, non esistendo l’onniscienza, la suddetta
disgiunzione per ignorantiam figura come un processo inerente essenzialmente
ed organicamente alla funzione
conoscitiva. Poi, il sillogismo
disgiuntivo quale viene ammesso dai
citati filosofi inglesi è ammissibile? Per rispondere a tale quesito occorre vedere quali siano ì
presupposti su cui esso sì fonda; esso
nientemeno presuppone che sia conosciuto il principio informatore con tutte le
sue possibili determinazioni di un dato
ordine di reali, presuppone la
conoscenza completa di tutte le differenziazioni possibili di una qualità, il cui contenuto deve essere
completamente esaurito. Ognuno vede che un tal genere di onniscienza — che è la
conditio sine qua non della disgiunzione — se è conseguibile nelle conoscenze
formali, nei processi razionali (logica,
calcolo ecc.) e in tutti quei fatti che
hanno la loro radice nella natura propria del
nostro spirito, in quei fatti che sono prodotti da noi, appare un sogno
nelle conoscenze riferentisi alla realtà
empirica. Inoltre le differenziazioni del dato appaiono come fatti, i quali non possono essere derivati
razionalmente l'uno dall’altro in forza
di uno stesso principio, non possono cioè essere riguardati come variazioni
necessarie di una stessa qualità: noi,
infatti, possiamo ben dire che di
triangoli non ve ne possono essere che di tre specie, equilateri,
isosceli, e scaleni, ma non possiamo dire che di colori non ve ne possono essere
necessariamente che sette, o cinque o
tre. Il fatto è che la disgiunzione in tanto è
applicabile alla conoscenza della realtà, in quanto è applicabile la
matematica. E come questa è valida a formulare i fatti nel modo più esatto,
senza dar la ragione di ciò che avviene,
così la disgiunzione enuncia, illustra i
fatti, ma non li spiega: e quand anche nel sillogismo disgiuntivo vengano espresse tutte le
condizioni determinanti i vari termini dell’alternativa, le stesse
condizioni non emergono mai dalla
disgiunzione, non emergono cioè mai
dalla necessità inerente al sistema di determinarsi assolutamente in una di quelle maniere
esclusive tra loro. Perchè ciò
avvenisse, bisognerebbe che noi fossimo al caso di dedurre in maniera razionalmente necessaria
da una data qualità empirica le sue
varie determinazioni, bisognerebbe non
soltanto che l'universo fosse qualcosa di eminentemente razionale, ma che noi fossimo come a dire nel
centro dell’universo da essere a parte del suo ritmo e processo evolutivo. Pertanto
la disgiunzione più completa non può servire
che a formnlare e ad illustrare in modo preciso ciò che noi per altra via già conosciamo. E che il
processo disgiuntivo per sè sia insufficiente a darci una definizione
reale o radicale, vien provato da questo
che quando esso è praticato mena a definizioni imaginarie (non riferentisi a obbietti
reali). Le divisioni stesse in tal caso o hanno il loro fondamento in preconcetti che già esistono
nella mente di chi fa la divisione,
ovvero appaiono puramente arbitrarie.
Riassumendo, in ordine al sillogismo disgiuutivo pos-. siamo dire che esso quale viene inteso dal
Bradley e dal Bosanquet, vale a dire
come contenuto tutto nella premessa maggiore del sillogismo disgiuntivo della
logica tradizionale, trova
un'applicazione giustificata solo in quei
casì in cui è il nostro spirito che dà origine a prodotti razionali compiuti, a costruzioni ideali,
delle quali poniamo noi i principii
informatori e noi stessi razionalmente (indipendentemente dall'esperienza)
deduciamo le variazioni di cui i detti
principii sono suscettibili. Bisogna tener fisso in mente che il giudizio-sillogismo disgiuntivo
può essere adoperato solo quando è completamente nota la natura propria di un essere, di una qualità, per modo che si
sa entro quali limiti la qualità, l'ente
deve necessariamente variare, varcati i quali limiti, non si ha più quell’
ente, quella qualità. E non basta; occorre che ciascuna determinazione sia tale che, spe ha luogo, non lasci posto
alle altre. Come si vede, siffatte
condizioni si possono verificare solo in
ciò che è opera nostra, in ciò che facciamo noi e di cui conosciamo, per così dire, l'intimo
meccanismo. Il mondo della conoscenza in
genere, ed un dato sistema di conoscenze circoscritto nello spazio e nel tempo,
il mondo etico e una data condotta
morale, il mondo estetico ed ‘una data
opera d’arte, il mondo religioso ed una data
religione, l'ordine politico sociale in genere e un dato ordinamento politico-sociale, ecco i campi in
cui può avere un uso fecondo il sillogismo-giudizio
disgiuntivo: e perchè? Perchè in base
alla conoscenza che abbiamo delle diverse
funzioni della coscienza umana possiamo determinare le diverse maniere in cui ciascuna di esse si
può, anzi sì deve estrinsecare e
possiamo anche precisare i modi in cui
ciascuna estrinsecazione può alla sua volta variare. Ma possiamo far ciò anche in modo completo?
Il sillogismo-giudizio disgiuntivo può avere un uso illimitato nel campo dello spirito? A tale domanda dobbiamo
subito rispondere negativamente, giacchè noi crediamo che la causalità psichica
non implicando equivalenza dei termini causa
ed effetto, sia regolata dalla legge generale detta dell’aumento
progressivamente indefinito dall'energia spirituale: onde consegue che è assolutamente impossibile
racchiudere nella formula disgiuntiva
tutte le possibili manifestazioni
dell'attività spirituale e tutte le possibili ulteriori determinazioni
di ciascuna di dette manifestazioni.
Perchè la coscienza umana potesse costruire intellettualmente il mondo
per mezzo di una disgiunzione, bisognerebbe che essa fosse, come diceva Lotze,
nel cuore della realtà, bisognerebbe che
il dato non fosse dato, vale a dire che
non fosse, o che fosse riducibile a pura forma,
ma questo è un sogno: già per poter applicare la formula disgiuntiva occorre bene che vi sia qualcosa,
che vi sia il reale a cui applicarla: e
questo reale, questo qualcosa» questo
dato non potendo essere ottenuto mediante la
disgiunzione da un sistema d’ ordine superiore, sfugge alla disgiunzione, per modo che quest’ultima viene
a figurare in ultima analisi come
qualcosa di formale che per sè altro non
può fare che illustrare, enunciare ciò che già
esiste: ma perchè ciò che esiste possa essere in tal guisa illustrato occorre che sia contenuto nella
sua totalità (anche virtualmente) nella
mente di chi pensa: ora la realtà, per
la mente umana almeno, non è riposta in
qualcosa di idealmente finito, di compiuto, ma in un processo in cui si notino solo dei punti di
arresto o di concentramento, dei nodi di
svolgimento che sono via via sempre
sorpassati. Che la struttura logica
dell’ universo non metta capo in ultima
analisi in un giudizio-sillogismo disgiuntivo vien provato anche da questo, che non ogni
concetto generale consta degli stessi
elementi dei concetti specifici più vicini
ai reali concreti e particolari (di attributi schematicamente rappresentati entro i limiti di loro
variabilità); per contrario le astrazioni più generali si mostrano a volte
sfornite completamente di note che
esistono nelle specie subordinate, nel qual caso le dette astrazioni generali
figurano piuttosto come un gruppo di
leggi o di condizioni riferentisi ai
fatti concreti, che come note inerenti ai sistemi od individualità d'ordine più esteso ed
elevato. Ciò che sopratutto non va
dimenticato è che va fatta distinzione
tra la possibilità o l’idealità estratta dall’esperienza e la possibilità che
si potrebbe chiamare capacità funzionale
: la prima presuppone sempre l’esperienza e non
è mai completa in modo da poter essere racchiusa in una formula disgiuntiva, mentre l’altra che
esprime il nostro potere, la nostra
facoltà, è indipendente dall'esperienza, è
completa potenzialmente nelle sue parti e può all'occorrenza essere espressa per mezzo di una
disgiunzione. La prima possibilità è
rappresentativa o passiva, l’altra è facoltativa o attiva: la prima mentre è fondata
sull'esperienza non è realmente attuale;
è puramente ideale, proviene dal di
stacco del was dal dass ed esiste nella intelligenza e per opera della stessa; l’altra che ha le sue
radici nella nostra vita interiore e
che implica l’ unione del was col dass, è
sentita come capacità, come forza interna che può tramutarsi in atto
dipendentemente dal nostro volere. Che concetto dobbiamo avere della conoscenza
in genere considerata nel suo insieme?
ecco il problema fondamentale a cuì sì
cercò di preparare una soluzione per” mezzo dello studio evolutivo nelle varie forme di
conoscenza. Il primitivo problema ne ha fatto subito sorgere degli altri e prima di tutto questo: È possibile una
morfologia della conoscenza, è possibile
cioè determinare l'affinità e lo sviluppo organico delle varie forme di
conoscenza per modo che queste figurino
come parti essenziali di un unico tutto,
come vari rami svolgentisi da un unico tronco?
L'espressione « vita del pensiero » ha soltanto un valore metaforico, o ne ha uno reale? E poi l’altro:
In che si differenzia la morfologia
della conoscenza o la unificazione organica delle sue varie forme dalla genesi
psicologica di queste ultime? Ora a quest’ultima domanda si può rispondere subito coll’osservare che la
genesi psicologica ha il suo fondamento nel corso dei fatti interni quale è determinato da contingenze subbiettive ed
accidentali e quindi variabili da
soggetto a soggetto, mentrechè la
morfologia della conoscenza ha la sua base nelle tappe che attraversa e nel ciclo che descrive il
pensiero in genere a contatto dei vari ordini di realtà, o, diremo meglio, ha la sua radice nelle diverse maniere in cui
la realtà viene determinata non da
questo o quel soggetto, ma da tutti i
soggetti ben pensanti, onde è resa possibile la comunicazione reciproca tra gli
uomini e la loro solidarietà
intellettuale. La genesi psicologica rappresenta il mezzo, l’istrumento, la via che tiene l’anima per
arrivare allo scopo finale, che è
appunto la qualificazione del reale nelle
sue varie modalità, quali vengono appuntodescritte dalla logica evolutiva o morfologia della
conoscenza. Circa la questione se sia
possibile la morfologia della conoscenza
osserviamo che se, tenendo presenti i vari
ordini di conoscenza, noi riusciamo a descrivere il passaggio evolutivo
dall'uno all’altro, senza che alcuna discontinuità appaia, e se nello stesso
tempo noi riusciamo a rintracciare un
unico principio evolutivo fondamentale che
figuri come il filo conduttore, o come il leitmotiv atto a guidarci attraverso le molteplici variazioni,
considerate in tal caso quali emergenze
di un fondo identico e permanente, allora non vi ha dubbio che noi siamo autorizzati
ad ammettere una vera e pr opria scienza logica evolutiva. Ora l'escursione,
comunque rapidamente fatta di sopra, attraverso i varii dominii della
conoscenza ci ha messo da una parte
nella condizione di osservare che le
forme logiche sono intimamente connesse tra loro, in guisa che a volte riesce sommamente
difficile delimitare in modo netto e preciso ciascuna di esse, e
dall'altra ci autorizza a riconoscere ed
a formulare il principio fondamentale che regola lo sviluppo della conoscenza.
Questo invero può essere enunciato come
la tendenza ad obbiettivare, ad esprimere in forme definite e insieme
significative (atte, cioè, ad agire in
modo identico ed a suscitare quindi una
medesima reazione in tutti i soggetti), ciò che dapprima è percepito in modo
vago ed indistinto, come il bisogno e l’esigenza adunque di qualificare, di
caratterizzare, di definire ciò che a
bella prima si rivela come qualcosa d’
indeterminato. La conoscenza adunque
non è un epifenomeno, non è qualcosa di
sopraggiunto o di secondario, ma un elemento
essenziale ed integrale della realtà. Già non si arriva quasi nemmeno a immaginare che cosa mai
diverrebbe la realtà sfornita della
conoscenza e quindi del potere obbiettivante e determinante proprio del
pensiero: il contenuto della vita non
venendo in alcun modo fissato in forma
stabile sarebbe come non esistente, perchè svanirebbe continuamente coll’attimo fuggente. Pertanto
la conoscenza quale mezzo di fissazione
del reale implica sempre universalizzazione e insieme determinazione, implica
sempre il ritrovamento dell’essenza,
ovvero della legge in genere, giacchè
questa fu appunto da noi altrove (1) definita come (1) V. il saggio La nozione di « legge »
nel 1° volume di questi Saggi. l'espressione di ciò che vi ha d' intelligibile
nell’universo. Dal che sì deduce che il
giudizio vero e proprio equivale alla «
legge » presa in senso generale e che l’evoluzione della conoscenza deve coincidere con
l’evoluzione della « legge ». Ed invero
qualsiasi giudizio, in quanto giudizio, è necessario ed universale: ogni
giudizio ha l'ufficio di comprendere il
particolare nell’universale e di interpretare quello con questo. Una volta
formulato un giudizio, esso è quello che
è, e permane identico attraverso tutti i
mutamenti del contenuto obbiettivo, del tempo ecc. È per mezzo della funzione giudicatrice che le cose
vengono considerate sub specie
ceternitatis. Il giudizio, è bene tenerlo
a mente, non rappresenta una copia e forse nemmeno una semplice trascrizione ‘della realtà in
termini ideali, ma un modo di fissare la
realtà o il modo di avere una particolare
visione di essa. Come si vede, la legge in genere non presenta
caratteristiche fondamentalmente differenti da quelle del giudizio; e le note differenziali d’
ordinario ammesse (come l’immutabilità
delle connessioni espresse dalla legge e
quindi la prevedibilità del corso degli eventi) non valgono a caratterizzare la
legge in genere, ma una specie di leggi,
quelle che sono state dette leggi naturali, riducibili per la più parte a
giudizi ipotetici. Ora è evidente che
non vi è alcuna ragione di limitare la denominazione di legge alla sola legge naturale; nè
d'altronde è possibile considerare, come
si vide a suo luogo, la legge espressa dal
giudizio ipotetico come qualcosa di completo in sè stesso e di per sè stante, giacchè essa trae sempre
seco necessariamente la significazione o almeno l’accenno al sistema rispetto a
cui i termini del giudizio ipotetico figurano come parti di un unico tutto e
quindi in necessaria dipendenza ira
loro. Non è lecito adunque staccare una forma della conoscenza dalle rimanenti, considerarla per
sè, prescindendo dalle intime connessioni che presenta colle altre e dare ad essa anche un valore ed un
significato caratteristicu o sui generis. In ogni caso se una differenza si
vuol mantenere tra legge e giudizio
occorre dire che la prima è il giudizio
divenuto complicato nel senso che l'ordine o la
sfera di realtà, avendo perduto la primitiva semplicità e indeterminatezza, può esser qualificata
soltanto con molteplici riserve, per modo che il tutto primitivo è
scomposto e analizzato nelle sue parti
di cui vengono messi in evidenza i
necessari rapporti. Non abbiamo bisogno
di spendere’ molte parole per dimostrare ora che l’evoluzione dei giudizi
coincide con quella della legge. Le
varie classi di leggi da noi studiate
possono essere aggruppate in tre categorie, leggi quantitative, leggi
causali, leggi normative o funzionali; ora a
tali tre categorie corrispondono appunto le forme di giudizii e
d’inferenze dette rispettivamente enumerativa,
ipotetica, concreta sistematica o disgiuntiva. Tutte le leggi in quanto sono la trascrizione in termini
intellettuali del corso degli eventi o
della natura e proprietà delle cose e
delle nostre tendenze, presentano una forma comune che è quella di un giudizio universale ipotetico;
per quanto diverso si presenti l’aspetto
esteriore e la connessione verbale nelle varie leggi, queste dal più al meno
son tutte riducibili a giudizi
ipotetici. universali; tanto è ciò vero
che non è mancato chi ha respinto qualsiasi differenza tra le così dette leggi esplicative o
dichiarative e quelle normative o precettive. Ora se tuttociò è realmente
giustificato dal fatto che la funzione intellettuale procede in modo uniforme nel suo esercizio e che non esiste
un abisso tra le cosidetta necessità
reale e quella finale (applicata al mondo
umano, beninteso), in quanto quest’ultima non si presenta che come il risultato della fusione di due
forme di necessità, di quella logica intercelente tra il pensiero del fine
c quello dei mezzi (chi vuole il fine
deve volere anche i mezzi, il volere un
dato scopo rende necessario il volere i mezzi
appropriati) e di quella causale intercedente tra i mezzi (causa) e il fin: (effetto), tuttociò non può
essere sufficiente a rendere valida
l'opinione di chi vorrebbe identificare tra
loro le varie specie di leggi. Queste, infatti, pure emergendo da un tronco comune, figurano come le
principali direzioni in cui la mente
umana si può muovere per costruire il
mondo dal punto di vista dell’intelligibilità. E le tre formo fondamentali di leggi sono determinate dai
tre principii che ci servono
essenzialmente di guida e di regola nell’ordinamento e nell’obbiettivazione dei
nostri stati psichici, il principio
d'identità, quello di condizionalità nelle due sue forme di ragione e di causalità e quello di
finalità o di organizzazione o di
sistematizzazione. Finchè noi qualifichiamo la realtà esclusivamente dal punto
di vista della quantità e quindi finchè
abbiamo di mira di stabilire dei
rapporti di eguaglianza, di equazione o anche di propor. zione, non
avremo che delle leggi quantitative, o numeriche, o di calcolo, o
proporzionali; quando invece tendiamo a
rintracciare i rapporti di condizionalità, di connessione reciproca tra gli elementi della realtà senza
occuparci gran fatto della comparazione
quantitativa o coll’occuparcene solo nei termini in cui essa ci può essere
d'aiuto a fissare la natura propria
delle cose ed a porre in evidenza il loro ritmo di attività, avremo le leggi
causali, o esplicative o dichiarative
che si vogliano dire; quando infine
abbiano di mira di esaurire in modo completo la
determinazione di un dato ordine di realtà, quando noi vogliamo porre in
chiaro il sistema entro cui sono contenuti
i rapporti sia di ordine quantitativo che causale, quando insomma noi oltrechè di descrivere, di
spiegare intendiamo di specificare il
valore ed il significato dei fatti, noi
avremo le cosidette leggi normative o categoriche, o, forse meglio, categorico-disgiuntive. Il
fatto che alcune di queste si
riferiscono alla volontà individuale (onde il nome di normative) è secondario rispetto a quello
che esse presentano un grado abbastanza pronunziato di assolutezza, di compiutezza e d’indipendenza in rapporto
alla loro natura sistematica. Di tal
fatta sono le leggi logiche, talune di
quelle matematiche, quelle estetiche e quelle morali, le quali poi tutte sono controdistinte da
forme di necessità affini tra loro. L’ordine morale p. es. come si
presenta in un uomo morale che occupa
debitamente il suo posto nella società,
la necessità razionale che connette insieme
le premesse e la conclusione di un raziocinio per cui l’ultima esiste per le prime come queste per
essa, la coerenza e razionalità del prodotto estetico, il quale quantunque non
analizzato dal punto di vista discorsivo (giacchè in quanto esteticamente attivo si rapporta
direttamente ad una forma di sentimento
spiritualizzato e non è costruito per
via di combinazione di relazioni astratte, come non è apprezzato per mezzo di una costruzione
intellettuale), implica sempre da entrambi i lati, dal lato dell’obbietto artistico
e dal lato di chi contempla un processo fondamentale razionale e finalmente la costruzione
sistematica di un tutto geometrico per
cui l’universale colla sua pervadente natura
determina le parti, hanno tutte la loro base nel particolare rapporto esistente tra gli elementi e la
totalità, rapporto che trae seco le note
dell’unità armonizzatrice, dell’individualità e quindi della correlazione
reciproca delle parti fornite di
funzioni ed uffici determinati per il raggiungimento di un risultato
unico. La conoscenza poi, come
qualunque fatto che presenti i caratteri
dell'organismo o le note della vita e del sistema, può formare oggetto di studio da due punti di
vista: 1° da un punto di vista puramente
analitico nel caso che, essendo mediante
l’ astrazione separatamente considerati i singoli fattori della totalità, gli stessi vengano
distinti come elementi concorrenti all'unità del complesso, o al raggiungimento
del risultato finale; 2° da un punto di vista genetico, fisiologico o, meglio, morfologico nel caso
che vengano distiptamente considerati gli elementi soltanto per ravvisarvi
la necessità obbiettiva della
concorrenza loro al risultato e insieme
per studiare le modalità della loro cooperazione al conseguimento dello scopo ultimo. Ora se lo
studio della conoscenza da noi fatto
altrove (1), fu compiuto dal primo punto
di vista, la ricerca in ordine alla morfologia della conoscenza ne è stato come il complemento
eseguito dal secondo punto di vista, col
rintracciare lo sviluppo organico della
legge nel suo insieme e nelle sue varie determinazioni. V. vol. 1° di questi Saggi: La nozione di «
legge ». Noi siamo tratti ad enunciare la conclusione finale che l'essenza della conoscenza piuttostochè
nell’applicazione di una data forma ad
un corrispondente contenuto va riposta
nell’obbiettivazione ed universilazzione dei fatti psichici; obbiettivazione che implica la fissazione in
date forme e questa alla sua volta la
connessione e la coerenza col sistema o colla totalità delle qualificazioni e
caratterizzazioni della realtà. Tale
sistema o totalità costituisce il mondo
com’ è da noi conosciuto, vale a dire, il mondo qual'è nella sua reàltà intelligibile per noi (41). E per formarsi poi un chiaro concetto
dell'origine, della natura e del significato del distacco della mente dal mondo
per cui questi vengono d’ordinario
consideratà come due mondi separati, posti
l’ uno di contro all’ altro (onde poi la considerazione meccanica
del processo della conoscenza) è bene
richiamare l’attenzione sul fatto che
bisogna arrivare alla filosofia stoica e epicurea per trovare le prime parole che accennino a tale distacco.
La più tipica di tali parole è xoitrptov: furono gli stoici che per prima
furono intenti a fissare il criterio della verità (1), segno che cominciava a
mettere radice la veduta formalistica
nella conoscenza. A misura che si andò innanzi
crebbe la terminologia concettualistica quale espressione della scissione
della mente dal mondo, e per mezzo degli scrittori latini essa passò nella nostra scienza mentale. Si tratta
di termini indicanti per lo più l'atto
di prendere, di afferrare l'oggetto e di penetrare in esso (mpodnt:s, ratdiniis, Evvota, Evvonua,
pavtarua, dravora. DioG. LAER.). E
mentre in antededenza si era adoperata la parola «forma » 0 « genere » (:dia,
std0:, Yivos) quale designazione dei fatti intesi nel loro ordine sistematico e nella loro essenza
(nella loro legge), in tale giro di
tempo cominciò la fioritura dei vocaboli esprimenti sempre più il (1) La detta parola s'incontra anche in
Platone (Repubd.), ma non per denotare la pietra di paragone della verità,
bensì per indicare la facoltà o le
facoltà con cui la verità è appresa.
contrasto tra pensiero e cosa: es. « impressione mentale », « la comparazione
della mente alla tabula rasa », ecc.; tutte espressioni atte a presentare la conoscenza come una relazione
meccanica. I termini latinizzati («
impulso proveniente dal di fuori », « assentire », « comprensibile », «
comprensione » « nozioni impresse nella mente » « dichiarazione » o « giudizio
dichiarativo » — declaratio, gr. tvacyeta),
che sono divenuti comuni nella scienza odierna, si trovano riuniti
la prima volta in quel passo di Cicerone
(Acad. Post. I. 2), in cui spiega la
teoria stoica della percezione sensoriale. |
Ora, se noi ci rappresentiamo le condizioni storiche in cui la scuola stoica e quella epicurea fiorirono, non
possiamo far a meno di notare che la
contrapposizione della mente al mondo coincide colla contrapposizione dell’
individuo alla società. Quando la solidarietà civica fu rotta, quando le nuove condizioni politiche e
sociali distrussero l’antica centralizzazione ateniese e quando in conseguenza
sparve ogni corrispondenza tra la
ragione interiore e quella esteriore, come tra
l’organizzazione sociale e il volere sociale, l'individuo fu tratto
a ripiegarsi su sè stesso e a farsi da
una parte centro dell’ universo e a
cercare dall’altra, in una sfera molto più vasta, nell'umanità, l’appagamento
de’ suoi bisogni morali e sociali. Da ciò che cosa conseguì ? Che l'individuo
cominciò a sentir vacillare la sua antica fede
nella ragione e quindi nel bene, e, mentre dapprima il problema morale
aveva avuto questa forma: Quale è il fine da raggiungere in un mondo che risponde alle esigenze del volere
ragionevole? nel tempo in cui si si
parla assunse l’altra forma: In che maniera può l’ individuo vivere in modo
conveniente o felice in un mondo indifferente o
anche ostile al volere individuale ? E del pari mentre il problema
della conoscenza dapprima volse sulle forme
di conoscenza (più perfetta o meno
perfetta, più completa o meno completa, ecc.), dipoi mirò a rintracciare il valore e il significato della
conoscenza individuale presa nella sua totalità di fronte alla realtà. Fu adunque il distacco dell'individuo dalla
collettività che rese possibile il
distacco della mente individuale dal mondo e l'accentuazione sempre maggiore
dell’antitesi trail mondo quale viene rappre
sentato nell'anima individuale e il mondo in sè; dal che poi provenne la
rice*ca degli elementi o dei fattori subbiettivi e di quelli obbiettivi, della forma e della materia di ogni
conoscenza: ricerca che mentre
rappresenta una necessità per la trattazione analitica, richiede il complemento di una trattazione morfologica in
quanto matoria e forma, fattori
subbiettivi ed obbiettivi sono du? lati di uno stesso processo. È la nostra facoltà d'astrarre che li separa
allo scopo di studiar ed ordinare meglio
i «dati; ma essi non esistono gli uni fuori degli altri. Il vederli isolati è effotto di prospettiva.
Allo stesso modo che l' indagine esplicativa isolata va completata colla
ricerca sistematica, così la
considerazione dell'elemento formale trae seco quella dell’elemento materiale
della conoscenza (Cfr. BosanQquET – citato da H. P. Grice, “Prejudices and
predilections, which become the life and opinions of H. P. Grice” -- , History
of .Esthetie, London, Swan Sonnenschein.
La Filosofia che ha per obbietto precipuo di trascrivere in termini intellettuali l'insieme dei fatti
della realtà e della coscienza umana,
non può trascurare l'indagine dei fatti
estetici, i quali costituiscono appunto dei tratti essenziali dell'anima umana.
Il Bello accanto al Bene ed al Vero coi
sentimenti e le idee che ad essi
corrispondono, figurano come i fari che illuminano
la vita umana mentre si trova immersa
nella realtà sensibile. Ed allo stesso modo
che la Logica e l’ Etica non vanno considerate come scienze pratiche, come guide al ben conoscere ed al
ben fare, ma bensì come le scienze dei
concetti a cui mette capo l’analisi dei fatti di conoscenza e di quelli
dell’attività umana, così l’Estetica non
ha per compito di fornire i precetti da
seguire perchè il sentimento estetico e la produzione artistica
divengano migliori, ma risponde al bisogno di conoscere la natura dei fatti estetici. Essa come le
altre due non è scienza pratica, ma
essenzialmente teoretica e speculativa:
è una branca della Filosofia atta a far intendere il processo estetico e ad illuminare dal punto di vista
intellettuale il mondo dell’ Arte. Da
ciò consegue che il filosofo, pur non essendo artista, può benissimo essere atto ad assegnare un
posto ai fatti estetici nel sistema
delle sue concezioni e conoscenze,
semprechè, s' intende, non sia assolutamente sfornito di qualsiasi forma di gusto estetico, nel qual
caso egli non avrà poi nemmeno’ alcun
interesse intellettuale per la
comprensione del bello. Non avviene lo stesso per chi si occupa di Logica e di Etica? E*forse
necessario che il primo sia uno
scienziato specialista, uno sperimentatore,
un conoscitore profondo di ogni ramo del sapere, e il secondo un santo,
un martire del dovere ecc. ? Le scienze teoretiche non fanno che illuminare
mediante la riflessione i fatti dello
spirito umano; e basta la sola presenza di
questi perchè l’ interesse speculativo sia svegliato, ancorchè s' ignori il processo genetico ed evolutivo
dei fatti stessi, o meglio, ancorchè i
fatti stessi non siano completamente
vissuti: altro è vivere, altro è trascrivere in termini intellettuali, in formule, in schemi il
vivere stesso, che può essere anche
contemplato negli altri. Ad ogni
scienza teoretica corrisponde poi una scienza
d’ordine pratico che si potrebbe chiamare scienza pedagogica o
metodologica in quanto ha per obbietto di rintracciare la via per cui possa
essere ottenuto un perfezionamento in tutte le produzioni ed attributi
dell'anima umana. E siffatte scienze
pedagogiche hanno la loro base da una
parte nelle conoscenze in ordine allo spirito umano (psicologia) e
dall'altra nella conoscenza di tutte quelle condizioni che favoriscono la
genesi e lo svolgimento dei fatti,
poniamo, etici, estetici e logici: conoscenza che allora soltanto può essere completa quando i fatti
in discorso non IL PROBLEMA ESTETICO
133 sono stati solamente contemplati e
considerati ab extra, ma sono stati per
così dire almeno parzialmente vissuti, e
quando si sia rettamente stabilito il concetto dell’ ideale estetico, etico, logico ecc., e si abbia
cognizione perfetta delle condizioni di
fatto esistenti in un «dato giro di tempo.
È chiaro d'altra parte che l’ Estetica non va confusa colla Critica, giacchè questa per avere
valore e significato deve essere anzitutto
una ricreazione, una riproduzione riflessa e cosciente del fatto estetico
dapprima compiutosi inconsciamente e
quasi diremmo, istintivamente, e poscia
deve assegnare al prodotto artistico il posto che gli compete nella coscienza estetica di un dato periodo
di cultura. Talchè la Critica lungi
dall'avere per obbietto l'applicazione delle regole o leggi estetiche ai casi
concreti, ha per compito di ricercare
sino a che punto e in che grado un-dato
prodotto estetico è espressione della coscienza
estetica di un dato periodo storico : l’Estetica per contrario determina
il posto che la coscienza estetica in genere
occupa nella coscienza umana e il fatto estetico nel sistema totale delle nostre concezioni e conoscenze.
Le due indagini sono assolutamente indipendenti, in quanto la Critica poggia sopra una triplice base, cultura
artistica, cultura psicologica e cultura
storica, mentrechè l’Estetica poggia
sopra una duplice base: da una parte sopra una data concezione filnsofica, una data intuizione
dell'universo e dall'altra sopra
l'elaborazione dei dati forniti dalla critica
intesa nel modo anzidetto, dati che vengono messi in rapporto con la
veduta generale intorno al mondo, vengono
messi, cioè, in connessione con un determinato sistema filosofico,
L’ Estetica adunque è una branca della Filosofia allo stesso titolo dell’Etica e della Logica: ma
vi ha dippiù: essa merita di occupare un
posto centrale tra le varie discipline
filosofiche: e se finora la più parte dei filosofi non hanno veduto ciò, è stato perchè essi non
hanno esaminato a fondo la natura
specifica del problema estetico. Questo,
infatti, ha la sua origine nel bisogno di spiegare come ciò che alla ragione, all'analisi compiuta
mediante i processi logici si rivela
fornito di dati caratteri (unità nella varietà, armonia, simmetria,
individualità, rapporti numerici
costanti, proporzione ecc.) all’emotività umana, all’apprensione
immediata e diretta si rivela come rappresentazione concreta sensibile, accompagnata da un
sentimento piacevole disinteressato, da ciò che si dice emozione estetica. Il problema estetico emerge da questo, che da
una parte non vi ha bellezza al di fuori
della percezione e dell’imaginazione, per modo che anche quando si distingue il
bello della natura da quello dell’arte
si viene ad implicare sempre l'esistenza
di chi contempla, percepisce e valuta il bello
stesso, la « natura » e « l’arte » in tal caso essendo entrambe nella
percezione ed imaginazione umana e differendo
tra loro solamente per grado — le cose non sono fornite della proprietà della bellezza
indipendentemente dalla percezione
umana, come son fornite della proprietà della
gravità, della solidità,e in generale delle forze, per cui agiscono reciprocamente tra loro —; e
dall’altra parte l'essenziale nel fatto estetico non è il processo percettivo per
sè considerato, ma ciò che la percezione o l’ imaginazione serve a richiamare
alla mente e per cui essa sta, di cui
essa è simbolo. Il bello insomma in tanto è percepito come tale in quanto
significa, esprime qualcosa, in quanto è
la manifestazione di tuttociò che la vita contiene: on:l’è che esso può essere definito come ciò
che ha un significato caratteristico per
la percezione o imaginazione umana,
dopochè il contenuto ideale da significare ha assunto quella forma che può
solamente essere espressiva attraverso
la percezione o imaginazione. È evidente adunque che il problema estetico
consiste nel ricercare come sia
possibile che ciò che si presenta direttamente alla percezione ed all’
imaginazione sotto condizioni determinate,
sia da considerare come espressione o manifestazione di ciò che si rivela in altro modo per altra via. 3 Ma non basta: il problema estetico verte non
solo sulla possibilità che un dato
contenuto percettivo sorpassi per così
dire l’attività percettiva el accenni a qualcos’ altro che non si manifesta per mezzo della
percezione, ma volge ancora sulla
possibilità e sulle condizioni che un dato
contenuto espresso per mezzo della percezione dia luogo ad un sentimento speciale di godimento,
dipendente, secondo alcuni, dal valore
espressivo e significativo del contenuto
della percezione. | | Finalmente
il problema estetico può volgere sulle condizioni e sulla natura della
produzione artistica per sè considerata
allo scopo di mettere poi in evidenza i rapporti che essa ha colle varie
formazioni di ordine naturale, siano o no queste capaci di suscitare
l’emozione estetica, Ora il problema
estetico sotto qualsiasi forma si presenti,
si connette intimamente coi problemi fondamentali della Filosofia generale: invero, se esso sorge
come ricerca intorno alla possibilità che ciò che all'analisi intellettiva
si rivela con dati caratteri appaia alla
percezione come bello, il problema
estetico assume l’aspetto di un problema gnoseologico. Se invece sorge come
indagine intorno ai caratteri propri dell’emozione estetica che è elemento
essenziale del fatto estetico, il
problema estetico figura come problema essenzialmente psicologico. E se infine
esso sorge come ricerca intorno al
processo genetico, intorno ai caratteri e alle proprietà e intorno al valore e
significato dell’obbietto estetico per
sè considerato, astrazione fatta dal
soggetto che lo contempla, il problema estetico si presenta come problema
essenzialmente metatisico ed ontologico.
È evidente adunque che il problema estetico può essere considerato come il problema centrale della
filosofia e che la soluzione di esso può
riflettersi sui vari campi della
filosofia stessa (1). | (1) E
qui occorre notare che i rapporti esistenti tra problema estetico e problemi
filosofici sono di un genere particolare, in quanto la storia dell’Estetica mostra che
l’interpretazione del fatto estetico non
è sempre in dipendenza semplice e diretta di una data concezione filosofica, ma viceversa la soluzione del
problema estetico ottenuta | con la
cooperazione di svariati fattori (fenomeni storici, scoverte archeologiche, filologiche, progressi nella
critica ecc.), se non deter- | mina
addirittura, contribuisce alla formazione di un dato sistema filosofico, o almeno vale a dare a questo un
colore ed un tono speciale. Un tal caso si verificò in Schiller, in Schelling e
quindi in Hegel. La storia dell'estetica
poi ci mostra chiaramente che il
problema estetico nelle varie età assunse differenti forme a seconda che fu considerato come problema
essenzialmente e prevalentemente, se non
esclusivamente, metafisico, come avvenne
presso i Greci, i quali videro nell'Arte un’imitazione della natura e nel bello
riconobbero il solo carattere formale
dell'unità nella varietà, ovvero fu considerato un problema essenzialmente gnoseologico, come
avvenne nella filosofia kantiana e
postkantiana, nella quale si nota molto
accentuata la tendenza a presentare il mondo estetico come espressione della Realtà coordinata alle
altre manifestazioni dell'ordine razionale, «di quello morale, ecc. ;
ovvero infine fu considerato un problema
essenzialmente psicologico, come è avvenuto presso gli estetici odierni da
Herbart a Stumpf, da Zimmermann a
Fechner, da Grant Allen a Sully, le cui
ricerche ebbero per iscopo di risalire dagli
effetti psicologici dei fatti estetici, e quindi dalla natura propria e dalle condizioni fisiologiche e
psichiche del piacere estetico alle
proprietà di tutto intero il processo estetico. E il difetto delle varie teorie estetiche
che si sono succedute attraverso i
secoli è appunto quello di non aver
tenuto esatto conto della complessità del problema generale. Ciascuna
delle forme sotto cui esso si può presentare
non esaurisce tutto il suo contenuto. La considerazione di una sua forma non esclude la
considerazione delle altre: e solo
allora si può dire di avere approfondita la natura del problema estetico quando ciascuno dei
suoi aspetti viene riguardato in relazione
cogli altri, vale a dire quando il
problema estetico viene ad essere trattato come un caso particolare del problema fondamentale di
tutta la filosofia. Consideriamo. ora in molo particolareggiato le varie forme sotto cui sì può presentare il problema
estetico per vedere sino a che punto sia
vera la nostra asserzione che quelle
corrispondono esattamente ai principali problemi della Filosofia generale, problema gnoseologico,
problema psicogico e problema metafisico. E cominciamo dal vedere come il problema gnoseologico sia implicato in uno
degli aspetti del problema
estetico. Per la scienza estetica greca
l'essenza del bello è riposta nell’armonia e nella regolarità: nè ciò deve
recare meraviglia se si pensa che la
scienza, la riflessione comincia sempre
con ciò che in modo più facile ed ovvio si presenta all'osservazione. Quantunque l’ arte greca
(decorazione scultura, poesia),
contenesse ben altri elementi che non la
semplice unità nella varietà, in modo da poter trovare in essa applicazione e convalidazione anche la
più complicata teoria moderna estetica,
tuttavia l’attenzione dei filosofi greci
si fermò sulle qualità espressive più generali ed astratte. Quando però nel mondo moderno ebbe
origine il senso della bellezza
romantica, quando cioè in tutta la natura si videro riflessi i sentimenti più
vivi e profondi dell'animo umano e insieme si sentì il bisogno
dell'espressione libera delle più forti
passioni, non fu più possibile consìderare il bello come una semplice
espressione regolare ed armonica o come
una semplice espressione dell'unità nella
varietà. A ciò si aggiunga che tanto il sublime quanto il brutto ed il deforme cominciarono ad essere
analizzati e messi in rapporti cogli altri elementi della coscienza estetica.
Per il che il bello fu definito cume ciò che è individualmente caratteristico,
come ciò che costituisce qualcosa
d’indipendente fornito di dati caratteri, attributi o qualità significative, capaci di essere apprese per
mezzo della percezione Ora è evidente che l'indagine estetica
giunta a questo punto doveva dare
origine al problema: Come è possibile che ciò che ha un significato e valore
ideale può essere appreso per mezzo
della percezione e del sentimento ? Come
la sensibilità può apprendere cio che è razionale e ideale? E chi non vede che un tale problema risponde
esattissimamente a quello gnosenlogico: Come ciò che è intelligibile o razionale può essere appreso per mezzo del
senso, può rivelarsi alla coscienza come fatto di sensibilità? Come si
possono conciliare tra loro il mondo
sentito e sensibile e quello ideale?
Come ciò che è razionale può agire sul senso e
come è possibile la conoscenza, la quale risulta appunto dalla cooperazione -dei due elementi della
intelligibilità e della sensibilità ?
| La soluzione del problema presentata
dall’ Estetica fu questa, che l'ideale
in tanto si può estrinsecare per mezzo
del sensibile in quanto ideale e reale non sono due mondi staccati, ma elementi di uno stesso processo.
Elemento intelligibile ed elemento
sensibile sono intimamente compenetrati tra loro, per modo che l’uno non esiste
senza dell'altro : è solamente mediante
l’astrazione che vengono considerati
separatamente. L'obbietto estetico essendo nient'altro che l'attuazione, la
concretizzazione, la particolarizzazione di un'idea, non può non svegliare
un’altra idea nel soggetto che lo percepisce. Se l’ideale esistesse da una parte e il reale dall'altra, s» la ragione e
il senso fossero due facoltà staccate,
non si arriverebbe a capire da una parte
come l’idea potesse arrivare a divenire qualcosa di sensibile e dall'altra come la percezione
potesse divenire significativa : ma il
fatto è che il Reale è uno, sostantivo e
insieme uggettivo, vita e insieme idealità, fatto e insieme idea, onde non è a meravigliarsi se l’ileale
possa essere significato per mezzo del sensibile.
L'unione intima del reale coll'ideale fu
facilmente constatata nel processo estetico,
giacchè quivi si coglie il tramutarsi dell’idea in fatto e quindi si coglie l'elemento intelligibile od
universale contenuto nel fatto stesso. Nel caso del processo estetico si assiste per così dire alla genesi del fatto
da una parte in chi produce e
all'idealizzazione del dato concreto in chi
percepisce. Il punto di partenza
della creazione artistica è un'idea,
vale a dire un universale che esiste soltanto nella mente dell'artista : poi quest’'universale si va
concretizzando col diventare centro di
numerosissime relazioni e col fissarsi e
determinarsi completamente, prendendo posto in un dato contesto. L'elemento universale (idea
artistica) divenuto qualcosa di concreto
e di particolarizzato, si estrinseca in
modo da generare nel soggetto che contempla un fatto di ordine speciale detto percezione estetica e
non può non essere operativo nella mente
dello stesso soggetto che percepisce l’obbietto estetico. Ed è appunto per
l’attività di tale universale che la
percezione e il sentimento divengno
espressivi e significativi. Se la percezione e il sentimento non contenessero il lievito dell’universale
non potrebbero mai avere alcun valore e significato. Comeil germe rende possibile l’individualità della pianta, così
l’universale (ciò che determina la
natura propria di una cosa, ciò che
determina la formazione di una totalità) rende possibile la costituzione del prodotto estetico come
qualcosa di compiuto, come un sistema le cui parti sono reciprocaniente coerenti e si svolgono in ordine necessario
in guisa da formare una totalità. Se
non che qui si potrebbero fare due domande: 1* In che propriamente si differenziano le
percezioni estetiche da quelle non
estetiche? 2* Quali sono le particolarità
dell'espressione estetica ? — In ordine alla prima domanda diremo che le percezioni estetiche (uditive e
visive) si differenziano dalle altre per
questo che presentano qualità nettamente determinate, che non sono attaccate al
fatto subbiettivo del sentire attuale.
Di tutte le sensazioni sono esse che
possono essere conservate nella memoria e che
insieme presentano delle determinazioni qualitative molteplici e
nettamente distinte. D'altra parte gli elementi delle percezioni visive ed uditive possono essere
ordinati e aggrup‘ pati variamente dall’ uomo, in modo che il potere intellettivo
che questi può esercitare su di essi è senza confronto superiore a quello che può esercitare sugli
elementi olfattivi e gustativi. Nella
più parte dei casi i godimenti del gusto,
dell’odorato e del tatto non escono fuori di sè stessi e quando sì accompagnano con idee e sentimenti, ciò
accade per mezzo del ricordo di
impressioni antecedenti di altra natura.
Per contrario le sensazioni della vista e dell'udito si collegano
direttamente e sponzaneamente con sentimenti e idee. Il carattere particolare degli organi
dell'udito e della vista ha fatto di essi per mezzo della parola e della
scrittura gli ausiliari indispensabili
dello svolgimenlo umano e i depositari dei suoi successivi acquisti. Oltre a
ciò vi è un certo «numero di sentimenti
e d'idee che appartengono esclusivamente ai così detti sensi estetici e che
perciò si potrebbero chiamare idee e sentimenti estetici. Le nozioni di ordine, di armonia, di proporzione, di
varietà, di unità, sono occasionate da
sensazioni visive ed uditive : e se più tardi
queste nozioni più o meno incoscienti si trasformano in idee capaci di regolare la produzione artistica,
ciò è dovuto al. lavoro d'analisi che
trova e distingue mediante l’astrazione
ì detti elementi dalla impressione primitiva complessa (1). Se tutte le percezioni poi hanno un
significato in quanto implicano
qualcos'altro oltre il fatto psichico attuale della loro esistenza — fatti esterni e contenuto
della coscienza con cui esse vengono
sempre messe in rapporto —, quelle
estetiche si riferiscono a ciò che ha maggior interesse per l’anima
umana e traducono rapporti esternì di natura
speciale. Si aggiunga che mentre noi abbiamo fino ad un certo segno coscienza della natura simbolica,
significativa delle percezioni d'ordine
estetico, non sappiamo nulla
naturalmente del simbolismo delle ordinarie percezioni. È solamente dalla riflessione naturale e
scientifica che impariamo a considerarle come segni, accenni a
qualcos'altro. Va notato infine che le
percezioni estetiche, oltre ad essere simboliche consciamente e liberamente,
sono espressioni, per così dire, a seconda potenza, implicando già esse il simbolismo incosciente delle
percezioni sensoriali’ (1) Cfr. VeRON,
Esthetique, Paris. pure e semplici ed allo stesso sovrapponendo il
sinbolismo estetico. In ordine alla seconda domanda diremo che la
percezione di natura estetica ha di
proprio che essa non è un semplice fatto o evento psichico esistente in un dato
momento, ma contiene qualche qualità od
attributo atto a universalizzarla, facendola assurgere al grado di segno o di
simbolo del Reale, ed è per tale qualità od attributo (che viene distaccato dall’esistenza psichica
attuale e che viene portata in un altro
contesto) che la percezione estetica
diviene suggestiva, espressiva ed atta a svegliare molteplici associazioni. | Conchiusione : l’opera d’arte si presenta
come una speciale fusione del reale e dell’ ideale: ora tale fusione in tanto può avere luogo in quanto reale ed
ideale sono elementi costitutivi di qualsiasi fatto. Ed il fatto estetico poi consiste in ciò che un dato elemento
intelligibile diviene qualificazione di un'esistenza psichica (percezione sensoriale) che non corrisponde esattamente
ad essa, donde il carattere di
trascendenza inerente alla percezione estetica. Se contenuto ideale ed
esistenza attuale fossero una stessa
cosa, 0 se ciascun was non fosse mai disgiungibile dal proprio dass, il fatto estetico non
avrebbe luogo. Ciò che è razionale e
ideale può divenire oggetto di percezione
e di sentimento estetico solamente perchè la mente umana è cosiffatta che può operare la separazione
di un dato. contenuto intelligibile
dalla sua propria esistenza e poscia
operare la congiunzione del medesimo contenuto con una altra esistenza. L’ ideale, il razionale, l'
intelligibile non può agire come tale
direttamente sulla sensibilità umana: perchè ciò avvenga è necessario che l’
intelligibile, l'ideale divenga
contenuto di qualcosa di sensibile.
Prima d’andare innanzi però è bene discutere i seguenti quesiti. Come è possibile la disgiunzione del
contenuto ideale dal dato reale? E che
cosa è propriamente il primo distaccato
dal secondo? Come è possibile d'altra parte
l’incorporazione di un elemento ideale in una data esistenza particolare? Ed infine come è possibile il
sentimento e la valutazione estetica
? Cominciamo dal primo. La disgiunzione
del was dal dass in tanto è possibile in
quanto vi è l'intelligenza, la quale ha
appunto l'ufficio di qualificare, di caratterizzare la realtà simboleggiandola, traducendola, per
così dire, in termini ideali. È evidente
che una tale traduzione in tanto sì può
fare in quanto la mente umana attraverso le differenze delle manifestazioni
estrinseche, attraverso le differenze dei fatti coglie l'identità del
contenuto. Per intendere bene il
processo si richiami alla mente ciò che
avviene quando noi traduciamo da una lingua in un’altra: noi allora tendiamo a stabilire l’ identità
di significato tra espressioni
differentissime. E come non è possibile tradurre da una lingua in un’altra se queste non sono
entrambe note, così non sarebbe
possibile qualificare la realtà in
termini pschici, se mondo e psiche non avessero radici in un’ unità fondamentale. La mente umana riesce
a simboleggiare il reale, perchè essa è capace di presentare sotto forma subbiettiva ciò che vi ha di
indiscernibilmente identico tra la realtà ed il soggetto. Sicché noi possiamo
conchiudere che la disgiunzione del contenuto ideale dal fatto avviene perchè vi è la mente, la quale, per
così dire, coglie nel reale ciò che è identico a sé stessa e, sottopostolo ad
una specie di elaborazione psicologica, lo presenta sotto forma di fatto
psichico 6 quindi di fatto subbiettivo riferentesi però sempro a qualcosa di
obbiettivo. Ma che cosa è tale «
contenuto ideale » o «significato » per
sè preso? Rispondere a questa domanda non è facile, giacchè l’idea separata dal fatto è
un’astrazione, è un. aggettivo, come
direbbe il Bradley, non un sostantivo, è un
universale astratto e non un individuale concreto : ond’ è che essa, non potendo stare da sé, è
costretta sempre ad appoggiarsi a
qualcos' altro e questo qualcos’ altro per lo
più è un'imagine o rappresentazione psichica particolare. Noi possiamo dire però che il carattere
precipuo per cui il contenuto ideale, il
significato, l'elemento puramente intelligibile
si distingue da tutto il rimanente della vita
dell'anima, è che esso ha la proprietà di essere ricordabile. Tuttociò che è ricordabile è intelligibile e
per converso ciò che è intelligibile è
ricordabile. È stato detto che gli
attributi o le relazioni in cui la realtà concreta è analizzabile sono
appunto elementi intelligibili: ora gli attributi e le relazioni non sono che la ricordabilità
stessa guardata da un altro punto di vista, guardata cioè dal punto di vista logico, 0 gnoseologico, o obbiettivo
(riferentesi alla” Realtà), mentrechè la
ricordabilità si può considerare come l’
insieme degli attributi e delle relazioni guardate dal punto di vista psicologico o subbiettivo. Che
cosa è ricordabile? Gli attributi e le relazioni : e che cosa sono gli attributi e le relazioni? Ciò che è
ricordabile; non vi è attributo o
relazione che non sia ricordabile: come non
vi è elemento ricordabile che non sia un attributo, ‘una proprietà o una
relazione. Ma onde siamo tratti a scomporre
la realtà in attributi e relazioni ? Dal bisogno di fissare, di determinare la realtà. Noi viviamo ed
operiamo nel reale, ma chi dice vita,
attività, dice flusso continuo di fatti, dice
continuo passare per il presente, senza che nessun punto stabile si possa precisare e senza che
nessuna costruzione. ideale (riferentesi
al passato o al futuro) si possa formare.
La vita, l’azione per sè prese sono qualcosa d’ incomunicabile e quindi
d'inesprimibile, sono un fatto, ecco tutto.
Appenachè la vita della realtà raggiunge un grado notevole di forza e di
complessità, il sentimento stesso della
vita e dell’esistenza si fa più complesso ed eterogeneo, per modo che sorge il bisogno di specificare, di
determinare, di fissare, di dare una
forma alla realtà quale è sentita e
rappresentata: bisogno che può essere soddisfatto solamente astraendo
dalla realtà ciò che in essa vi ha l'ideale,
e d’intelligibile, scomponendo quindi Ja realtà stessa in attributi e relazioni. Onde consegue che gli
attributi e le relazioni non esistono
come tali nella realtà (nella quale
esistono delle individualità e delle funzioni), ma sono costruite da noi
per simboleggiare, universalizzandola (considerandola dal punto di vista della
coscienza universale o della coscienza
in generale), la realtà quale viene percepita e rappresentata. Noi di sopra per
dare un concetto della disgiunzione del
ras dal dass siamo ricorsi al paragone della traduzione da una lingua in
un’altra : ora è giunto il momento di
osservare che quella non è e non può
essere più che una semplice metafora, in quanto tra i due fatti corre un profondo divario. La
traduzione da una lingua in un'altra
implica la cognizione refiessa, cosciente dell'identità di significato
esistente tra le espressioni appartenenti alle due lingue — e in tal caso la
cosa non può stare diversamente, tenuto
conto che è già avvenuto il distacco del
:cas dal duss per opera dell'attività intellettuale di molto progredita —, mentrechè la
disgiunzione dell’elemento intelligibile dal fatto attuale e la consecutiva
idealizzazione o significazione della realtà implicano bensì l'identità di natura e di elementi tra il
mondo e lo spirito, ‘ma non la chiara
appercezione della stessa identità, e
insieme implicano l’esistenza dell'identità attraverso le differenze, non l’identità delle differenze.
Così gli attributi e le relazioni non
esistono come tali nella realtà, ma sono
una differenza di quella stessa identità che nella realtà - avrà una differenza corrispondente. Il contenuto ideale oltre ad avere la
caratteristica della ricordabilità, ha
quella di essere comunicabile, obbiettivo (riferentesi alla Realtà) ed
esprimibile per mezzo del linguaggio (4).
Ora che vuol dir ciò? Vuol'dire che ciò che è intelligi- Giova notare
che quando si dice che solamente l’intelligibile è esprimibile per mezzo del linguaggio si vuole
intendere csprimibile per mezzo di
segni, i quali sono riconosciuti tali, riferentisi, cioè, ad una realtà obbiettiva. Anche i fatti di
volonta e di sentimento sono esprimibili
per mezzo del linguaggio, ma in tanto sono tali in quanto vengono intellettualizzati; non sono
propriamente i sentimenti, e gli atti
volitivi, sono le idee, le rappresentazioni di essi che vengono significato per
mezzo del linguaggio. Le espressioni emotive (interiezioni, espressioni mimiche
e fisiognomiche), i gesti e in generale i moti esterni sono qualcosa d'
istintivo, che se vengono intesi e
interpretati è perchè sono anch'essi intellettualizzati. Chi contempla i segni
espressivi li interpreta in virtù dell'esperienza propria e dei legami associativi. bile non è patrimonio
di questo o di quel soggetto, ma è
patrimonio di tutti gli esseri pensanti, vuol dire che la mente è universale, non individuale. L’uomo,
pensando, si universalizza, si accomuna
con tutti gli altri uomini. E la
solidarietà intellettuale umana è possibile, perchè in ordine al pensieru tutti gli uomini sono
identici, sono, cioè, una cosa sola,
sono come a dire, un solo essere. Ogni distinzione, ogni differenza è
cancellata : è l'identità degl’ indiscernibili. La comunione delle anime, anzi
l’unità, l’identità delle anime lungi
dall'essere qualcosa di incomprensibile
appare chiara : ciò che è oscuro piuttosto è l’anima individuale in
ordine al pensiero. Tuttociò che è ideale e
intelligibile adunque è identico in tutti gli uomini: o, a dirla altrimenti, tutti gli uomini sono una
cosa sola in un certo punto, mentre si
differenziano più o meno profondamente in tutto il rimanente. Il razionale,
l’intelligibile, la forma permane
identica sia che assuma differenti determinazioni (o che presenti
manifestazioni o estrinsecazioni
diverse), sia che appaia alle mente di singoli individui. È insomma l’unità del Reale, che rende
possibile l'identità di ciò che è
intelligibile e quindi la sua comunicabilità. Se tutta la realtà non formasse un tutto, un
sistema, un'identità variamente differenziantesi, da una parte la mente
non sarebbe universale e dall’altra
l'intelligibilità delle cose sarebbe
impossibile. Che cosa è invero l’ intelligibilità se non la forma distaccata dalla materia, la
coerenza, il nesso, la relazione per sè
presa? Ora la forma, la coerenza, il
rapporto implicano unità e identità nel fondo. Noi quasi diremmo che ciascuna mente non si appropria
che ciò che riconosce come inerente alla
mente in generale. Il dato, come dato, il fatto le è estraneo ; esso è reale, e
basta. Ciò che è intelligibile è uno,
identico e quindi comunicabile, e in quanto comunicabile obbiettivo. Ciò che è
subbiettivo (sentimento, azione) non è comunicabile (se non a patto di essere intellettualizzato), e per
ciò stesso non è intelligibile. i D'altra parte il carattere della
comunicabilità inerente a ciò che è
intelligibile ha il suo fondamento ultimo nel
fatto che la realtà non s’identifica e confonde con la vita subbiettiva. Il reale non è il soggettivo, ma
è distinto da esso. Se l'essere o la
realtà s’identificasse colla vita subbiettiva e individuale la cognizione si
ridurrebbe al sentire, nel qual caso il vero starebbe tutto nella
relazione col soggetto che sente: reale,
non reale, vero, falso sa.rebbe quello che a ciascun di noi parrebbe tale;
misura, giudice sarebbe ciascun di noi.
Nulla fuori di noi sarebbe, o almeno
nulla sarebbe senza di noì. Se non che la cognizione lungi dall'essere
riducibile a sensazione sta agli an
tipodi di questa in quanto, riferendosi a ciò che è obbiettivo, implica
giudizio, apprendimento di ciò che non siamo
noi, di ciò che non è la vita nostra, implica affermazione, mediante la qualificazione, di ciò che è. Dal
che consegue poi anche che mentre ciò
che è subbiettivo, ciò che vive, fluisce
sempre, muta sempre, si muove sempre, si altera
sempre, è fenomene mero, vario, continuo ; per contrario, ciò che è intelligibile e comunicabile, è
immutabile, inalterabile, fisso e determinato (elemento astratto). L'ideale o l’intelligibile è universale,
astratto, addiettivo; come può divenire fatto, vale a dire, come può divenire
qualcosa di concreto e di sostanziale? Particolarizzandosi,
individualizzandosi, vale a dire identificandosi con una dello sue differenze, o determinazioni, o
manifestazioni. Allo stesso modo che il
tipo si concretizza nel fatto singolo e che il significato si esprime per mezzo
di un simbolo particolare, così l'attributo o la relazione ideale divengono
fatto, incorporandosi in un’ imagine sensibile. La congiunzione di un was con un dass diverso
dal proprio è resa possibile dacchè
tanto il contenuto ideale e significativo quanto l'elemento della presenza
attuale tostochè sono separati tra loro
cercano di ricongiungersi n di trovare ciascuno il suo complemento in qualcosa
di corrispondente. L’imagine psichica attuale, il fatto psichico isolatamente preso è un prodotto
dell’astrazione : ciascun elemento
psichico acquista valore dai nessi in cui si trova e dall'azione che su di esso esercita
l’esperienza psichica antecedente. Non è
stato le mille volte ripetuto dai psìcologi moderni che il fatto psichico
riceve tutto il suo valore e la sua
efficacia dal contesto in cui si trova, che
la vita psichica non è posta nell’elemento singolo, ma nel corso, nel nesso, nella serie dei detti
elementi ? Noi not abbiamo bisogno di
richiamare l’attenzione sui processi di
fusione, di identificazione delle rappresentazioni, i quali rendono possibile qualsiasi forma elementare
di cognizione e di ricognizione (1),
perchè si tratta di fatti ormai comunemente noti. Risulta evidente che la
connessione di un was con con un dass
diverso dal proprio è un processo che si
verifica attraverso tutta la distesa della nostra esperienza conoscitiva : dietro ogni fatto psichico si
trova il signi (1) V. Wunpr, Vorlesunyen ib2r Menschen n. Thierscele. Leipzig. ficato
proveniente dal dispiegamento che l’attività psichica ha antecedentemente avuto: nel fatto estetico
il processo non è essenzialmente
differente, comunque appaia senza
confronto più complicato. Il was in tal caso è rappresentato dal concetto artistico che figura come un
tutto ideale coerente e il duss è dato dalla rappresentazione sensibile o simbolica del detto contenuto ideale.
L'espressione rappresentativa o per via d'imagini (per opera della fantasia)
di un contenuto idcale, ecco la migliore
definizione dell’opera d'arte. Una
costruzione razionale incorporata in imagini
ed una ricostruzione del pari razionale rifatta in seguito alle suggestioni ricevute dalla percezione
delle immagini, costruzione ce ricostruzione
accompagnate da una forma peculiare di
emotività, ecco il meccanismo di produzione
e di contemplazione estetica. L'opera d’arte in tanto è espressiva e suggestiva in quanto ha la sua
radice nella congiunzione di un ws più o
meno esteso, più o meno complesso con un duss estraneo, ma corrispondente, e
relativamente semplice — tenuto conto della capacità percettiva dell’an'ma
umana —, in quanto ha la sua radice,
possiamo anche dire, nell’ estrinsecazione di un sistema ideale per mezzo di dati sensibili. La
proprietà che controdlistingue siffatta congiunzione od espressione è
questa, che oltre al essere volontaria,
libera e selettiva, è eminentemente suggestiva, il che dipende dalla
concentrazione coerente degli elementi
ideali avvenuta dictro l'espressione
sensibile simbolica. © Possiamo
conchiwlere questa parte col dire che l’uomo
è capace di congiungere un was con un dess estraneo allo L
stesso modo che è CAPACE di parlare, vale a dire DI SIGNIFICARE E SIMBOLEGGIARE
LA REALTÀ. La lingua d’ITALIA è una
opera d'arte compiuta dalla COSCIENZA COLLETTIVA, mentrechè i capolavori estetici sono espressione dei
genii individuali. Non è senza ragione
che in origine lingua ed arte si trovano confuse tra loro. Passiamo ora a rispondere brevemente
all'ultimo quesito. La valutazione e il sentimento estetico dipendono
dalla funzione espressiva dell’arte.
Quanto più in un’opera si trova espresso
ciò che per noi come uomini, ha il maggiore interesse, quanto più in essa
troviamo l'eco di ciò che ha radici più
profonde nell'anima nostra, di ciò che
ci attrae come di ciò che cì ripugna, di ciò che ci appassiona come di
ciò che cì turba, quanto più vi troviamo.
l'eco di ciò che è veramente umano, tanto più la valutazione estetica
avrà luogo in senso positivo. L'arte espressiva che è l’arte veramente moderna,
è fondata in grandissima parte sulla simpatia, manifestando in forma
artistica l'interesse particolare che
l’uomo prende per l’uomo. Il fine a cui
si tende è l'uomo, quale microcosmo, è lo studio dei suoi sentimenti accidentali e permanenti,
delle sue virtù o dei suoi vizi. É
questo che distingue il teatro e il
romanzo moderno, riannodando questi due generi alla più alta branca dell’arte. L’opera d'arte
perchè sia debitamente apprezzata ed eserciti efficacia sugli animi
nostri, deve esser valida a portare il
nostro sguardo lontano, deve apparire
come punto di concentramento di molteplici
raggi suggestivi, deve essere come il riflesso di ciò che vi ha di più profondo nella realtà e nella
coscienza. L'opera d’arte veramente
grande deve raggiungere i più grandi
effetti coi minimi mezzi possibili, facendoci intravedere ciò cho
diversamente non vedlremmo. E l’intuito dell'artista sì rivela appunto
nell’attitudine a scegliere ed a porre
in evidenza quei tratti significativi che hanno la potenza di generare tutto un sistema
d'imagini. Saper mostrare l’universale
concreto, la legge, la natura propria, il
ritmo d'attività di un ordine di reali per via di tratti, o li segni, o di imagini che mentre per sè non
possono esaurire il contenuto dell’universale concreto, son tali da suggerirne
con facilità il complemento, ecco in che consiste il magistero della creazione artistica. Ed ora è tempo di considerare il problema
gnoscologico che risponde alla forma del
problema estetico esaminata e «discussa
fin qui. Il problema gnoscologico fondamentale
è ricercare come ciò che è pressochè esclusivamente intelligibile possa
diventare oggetto delle varie forme di
sensibilità : o tale problema, posto così, appare effettivamente
insolubile: ma esso è fondato sopra il falso presupposto che l'elemento
intelligibile preso per sè possa
esistere come un fatto attuale. II processo per cuì si è giunti a tale concetto è il seguente : una
volta bipartita la vita psichica
primitiva, la coscienza complessa e indefinita iniziale nelle due serie
rappresentative dell’io e del non io, è
stato notato che le rappresentazioni, prese come qualcosa d’obbiettivo e d’in.lipendente dal
soggetto, non solo non formavano un
tutto coerente e completo in sè stesso,
ma si rivelavano così piene di contradizioni da richiedere necessariamente un complemento, l’esistenza
di qualcosaltro che desse ragione di ciò che al soggetto appariva come sensazione
o come fatto psichico in genere. Di quì la necessità di andare in traccia dell’ universale, del
necessario e del permanente che
costituisse il punto di riferimeuto delle
nostre rappresentazioni subbiettive proiettate all’ esterno e che insieme fusse il mezzo di stabilire la
solidarietà intellettuale e la comunità
spirituale degli uomini, Si andò in
traccia così dell’essenza o dell’ elemento intelligibile delle nostre rappresentazioni, elemento che
fu fatto consistere in qualità e rapporti inerenti ad elementi ult.mi sottratti al dominio diretto dell'esperienza
sensibile, elementi ultimi che alla loro volta dovevano risultare di qualità e relazioni, procedendo così all’
infinito. Qui accadde che per evitarne una sula si ricadde in molteplici altre contradizioni, giacchè di questi
elementi ultimi (atomi) bisognava pur
dar ragione, determinandone la natura, bi‘ sognava, cioè, renderli
intelligibili. Ora, ciò facendo, era
necessario 0 dire che essi andavano ammessi come un fatto, come un dato ultimo — il che era impossibile,
perchè gli atomi sono concepiti dalla
scienza come qualcosa di non
percepibile, di non sperimentabile (e del resto se essi devono dar
ragione delle rappresentazioni s :nsibili in genere, non possono essere appresi mediante la
percezione) —, nè è a parlare di centri
di forza, perchè la forza per sè presa è
un bel nulla, è anch'essa un u«ggettiro ; ovvero bisognava ridurre essi stessi a qualità e relazioni: ma
le qualità e le relazioni (elementi
intelligibili e quindi anch'essi aggettivi) hanno bisogno di qualcosa a cui
inerire, onde la necessità di porre come
postulato l'esistenza di reali ultimi, sostanze spirituali, le quali poi
impiicano le medesime contradizioni degli atomi materiali. Atomi materiali
ed atomi spirituali sono prodotti della
nostra fantasia, ipostasi di concezioni mentali astratte. Gli atomi erano
stati creati per spiegare i rapporti
intelligibili determinanti i fenomeni
subbiettivi, i fenomeni sensoriali : ora essi, non potendo essere considerati come fatti (e
ancorchè potessero essere considerati come tali, si sarebbe daccapo, per chè
sarebbero anch'essi fatti percettivi, fatti cioè dell’istessa . categoria di quelli, per spiegare i quali
erano stati imaginati), è giuocoforza analizzarli in elementi d’ordine intelligibile
(qualità e rapporti), in elementi cioè, per fondamentare i quali essi stessi
sono stati proposti. È naturale che
giunti a questo punto doveva sorgere il problema riguardante la trasformazione dell’ elemento
intelligibile in elemento sensibile,
riguardante la possibilità che l’ ideale diventasse obbietto della sensibilità.
Ora è vero che l'elemento intelligibile
esiste per sè ? No, perchè esso, preso a
parte dal fatto, dall’ esistenza attuale, è un prodotto dell’astrazione.
L'universale, l’idea non esiste al di
fuori della mente. Sicchè noì vediamo qui che il problema gnoseologico è nato per un processo analogo a
quello che diede origine al problema
estetico, per un processo cioè di
disgiunzione dell'elemento intelligibile dall’ elemento fattuale dell’esistenza. La realtà vera, la
vita vera del reale è data dalla
congiunzione ‘dell’ elemento ideale col
reale, dall’incorporazione dell'ideale nel reale: ond’è che attribuire l’esistenza di fatto agli elementi
intelligibili è un processo del tutto
falso ed arbitrario. L’intelligibile o
l'universale è un puro aggettivo che ha bisogno del suo sostantivo. E come sostantivo dovrebbe
fungere l'immediatezza della percezione sensoriale, l’ immediatezza del
fatto psichico quale si svolge nel
soggetto umano, ma i due elementi, l’
universale e il fatto psichico individuale non
sì corrispondono, non fanno una cosa sola, non sono, diciamo così, l’uno per l’altro. Il fatto psichico
non è qualcosa di obbiettivo, d'ilentico
e di comunicabile, ma varia da soggetto a soggetto; esso non può esser tutta la
realtà. È stato a causa delle molteplici
contradizioni, delle insufficienze e manchevolezze rivelantisi nella vita
psichica e subbiettiva che si è ‘dovuto
costruire ipoteticamente un mondo
obbiettivo intelligibile di contro a quello subbiettivo. E poichè un tal ripiego, come si è veduto,
non approda a nulla, sorge la necessità
di trovare il complemento esistenziale dell'intelligibile in qualcosa che
trascende il contenuto della coscienza individuale. Tale complemento non
può esser trovato che nella vita del
Tutto (Io epistomologico e ontologico o
Bewusstseyn tiberhaupt di Kant) nella Coscienza
universale in cui non vi è separazione di intelligibile e di sensibile (la quale separazione è compiuta
dallo spirito individuale finito),
d’ideale e di reale, di contenuto e di
fatto, ma vi è fusione perfetta «di entrambi. La questione sta tutta qui: la percezione appare dato
concreto immediato e quindi reale, ma è
dato subbiettivo e quindi pieno di contradizioni: l'intelligibile è obbiettivo
nel senso che è inteso in un modo
identico da tutti gli uomini, ma è ipotetico,
astratto, non dato, ma posto «dall’intelligenza umana : ciò posto, siffatti due termini si possono
conciliare, si possono unire e formare
una cosa sola completa, la realtà viva e
vera ? Ciò non è possibile insino a tanto che non sì esce dalla coscienza individuale, perchè il reale
subbiettivo che non è completo in sè stesso, che è solo un frammento della totalità, non può avere per contenuto
adeguato l’universale, non può avere per essenza il Tutto. Come nel processo estetico avevamo: 1°
disgiunzione dell’intelligibile dal
fatto, e poi, 2°, ricongiunzione dell’elemento intelligibile con un fatto che
non gli corrisponde, e di qui la
trascendenza, il significato, l'espressività della percezione o imaginazione estetica, cosi nel
processo gnoseologico abbiamo la disgiunzione del was dal dass del fatto percettivo e l’ipostasi del was, la
considerazione di questo come un fatto,
come un dato. E poichè ciò si rivela impossibile e contradittorio, si tende a
congiungere di nuovo l'elemento
intelligibile universale (il quale per sè preso non è reale nel senso che non è concreto, non
esistente per sè, non immediatamente
appreso, bensì effetto di un’elaborazione psicologica e logica, una semplice
concezione dello spirito, un'ipotesi
formata in vista delle conseguenze che
da essa, dato che esista, necessariamente derivano) col dato percettivo della coscienza individuale, il
quale è reale, ma ha una realtà
subbiettiva, non obbiettiva, non comune a
tutti gli uomini. Se non che la detta coscienza non è capace di
contenere di fatto l’ universale, ma solo virtualmente, cioè come esigenza,
come aspirazione, come idea. Onde la
necessità di trascendere incessantemente il fatto psichico subbiettivo e l'esigenza di una
Realtà obbiettiva individuale e insieme
universale, cioè sistematica. Vi ha
però una differenza tra processo estetico e processo gnoseologico ed è, che la
disgiunzione e la ricongiunzione dell'elemento intelligibile col fatto nel
primo sono atti arbitrari, sono atti
sottoposti al volere individuale, mentrechè nel secondo sono una conseguenza,
diremo, necessaria delle contradizioni e delle insufficienze che si rivelano
nella percezione sensoriale dei vari individui e nei fenomeni della vita subbiettiva. Le ricerche
dell’Ottica e dell’Acustica fisiologica,
della Psicologia fisiologica furono
promosse dall'impossibilità di considerare le percezioni sensoriali come
fatti per sè esistenti all’esterno. Uno degli aspetti sotto cui il problema
estetico si può presentare è il
seguente: Qual'è la natura e le condizioni
dell’ emozione estetica? La soluzione di tale quesito ha formato e forma oggetto di tutta l’Estetica
esatta coltivata ai giorni nostri in
Germania ed in Inghilterra. Da tal punto
di vista è evidente che il problema estetico assume un aspetto prevalentemente psicologico: esso,
infatti, vale la domanda: Come e perchè
talune percezioni sensoriali producono sentimenti di natura speciale (emozione
estetica)? Il che alla sua volta vale
domandare: In che rapporto stanno le
varie forme dell'attività psichica? Ovvero: Tra
le varie manifestazioni della vita psichica vi è una correlazione intima
in modo da poter esse venire considerate
come vari lati di uno stesso processo fondamentale, ovvero sono delle funzioni giustaposte che possono
solo in date circostanze agire l’una
sull'altra? Vediamo ora quali sono i
risultati ultimi a cui l'indagine
estetica esatta è pervenuta. E qui, prima d'andare innanzi, ci sembra opportuno notare che il problema
estetico psico logicamente considerato è
della più alta importanza in quanto dipende dalla sua soluzione il determinare
per che via il «significato » può essere
congiunto col «dato attuale »,
(rappresentazione sensibile) con cui non è connaturato, per che via ciò che è universale ed astratto
(l'elemento intelligibile) può concretizzarsi în modo da divenire obbietto piacevole. I risultati delle ricerche
summenzionate furono di due sorta. Da
una parte il sentimento estetico fu intellettualizzato nel senso che fu fatto
dipendere dall’apprensione di determinati rapporti astratti: e invero,
comunque lo spirito, diciamo così,
dell'estetica psicologica e del formalismo vada riposto nella tendenza ad
andare in traccia della causa attuale
del piacere estetico, della causa inerente alla percezione sensoriale, tuttavia
nel fatto essa indaga la « ragione »
nella causa: una volta che siamo spinti
ad oltrepassare la percezione sensoriale, noi troviamo l'elemento intelligibile, la ragione. Del
resto se la percezione della bellezza presuppone l’esistenza di dati
rapporti, questi da una parte non
figurano che come « ragioni », e
dall'altra possono essere, se non sostituti, messi in connessioni con
proprietà meno astratte, più vicine alla realtà
che viviamo, e quindi più atte a suscitare il nostro interesse e la
nostra simpatia. La maniera di operare delle
relazioni è invero di natura così generale e così poco caratteristica, che non si vede come
l’effetto estetico possa essere
ottenuto, se un altro elemento non vi concorre (il significato cioè di tali relazioni astratte).
Vogliamo dire ‘ che i suddetti rapporti
formali non hanno per sè nulla di
caratteristico che possa spiegare il fatto estetico, tanto è ciò vero che si presentano anche dove
nessun effetto estetico si riscontra. D'altra
parte l'origine del sentimento estetico fu posta in una specie di affinità latente (che non ha
niente a che fare colla pura
stimolazione sensoriale) esistente tra la
semplice forma estetica e l’anima del soggetto percipiente (conformazione dello spirito individuale). Ed
il famoso principio fechneriano
dell’economia della forza quale fonte di
piacere (il quale principio poi fu considerato in rapporto al contenuto delle nostre rappresentazioni
come in rapporto al corso delle stesse)
non è che l’espressione astratta di ciò
che implica la detta armonia latente. L'economica distribuzione della forza considerata dal
punto di vista dell’obbietto trae seco
il principio dell’ unità organica e
l'assenza di qualsiasi elemento superfluo: assenza di superfluità che
equivale ad esigenza di significato e di valore, in quanto solo ciò che è insignificante è
veramente superfluo. L'applicazione del
principio dell'economia fatta all'attività
del soggetto percipiente implica concentramento non faticoso
dell'attenzione, in modo da riuscire agevole e quindi piacevole il fatto psichico stesso
dell’apprensione. Avviene così che
l’appercezione di un contenuto piacevole, — perchè organicamente costituito —, diviene essa
stessa fonte di piacere. Se si considera
che la rispondenza quanto più è
possibile esatta ed adeguata dell’attività appercettiva al contenuto appercepito non è una
accidentalità, ma costituisce un elemento essenziale della emozione estetica,
tanto è vero che tutto ciò che richiede
uno sforzo mentale è antiestetico, non
sì può non trovare naturale la connessione esistente tra le modalità della
nostra attenzione e le proprietà
dell'oggetto estetico. Quando uno sforzo speciale è richiesto per
l'appercezione di un contenuto estetico, vuol dire che l’espressione, la
rappresentazione (forma) e l'obbietto
significato, l’idea (materia) non sono in armonia, nel qual caso appunto non è più a parlare di
bellezza. È stato notato poi che il
principio dell'economia non è in
contradizione con quello dell’ esuberanza, del lussureggiamento ecc., che sono
inerenti ad ogni obbietto estetico e che contribuiscono a imprimergli la nota
del disinteresse presa'in senso largo, giacchè ciò che è superfluo considerato da un certo punto di vista e in
rapporto a dati scopi, a scopi di
utilità pratica p. es., non lo è più,
una volta che è riferito ad un dato sistema armonico o ad una data unità organica che ha valore per
sè come esprimente il contenuto della
vita nella sua complessità e la Realtà
nelle sue molteplici e svariate determinazioni. L'origine e il fondamento dell'emozione
estetica se non vanno posti adunque
nell'apprensione di rapporti formali ed
astratti (ma nel contenuto che gli stessi contribuiscono ad esprimere, nel loro significato), non vanno
posti neanche nel principio formale e
quindi vago ed indeterminato dell'economia della forza — sia questa considerata
obbiettivamente che subbiettivamente —, il quale riceve gran parte del suo valore dal fatto che esso depone per
l'esistenza di un'unità organica
nell’obbietto estetico: ciò che è con
parsimonia costituito e con facilità appercepito ha evidentemente i
caratteri del sistema, della totalità, dell’individualità organica. Da
qualunque punto si voglia considerare la
cosa è chiavo pertanto che l'emozione estetica deriva la sua caratteristica propria dal contenuto
(significato) espresso ed appercepito
dal soggetto. Quando lo spirito appercepisce
espresso in modo adeguato ciò che ha radici più profonde nell'intimo suo
essere, quando lo spirito arriva a trovarsì a
contatto con qualche cosa di completo, di individuale e di sistematico e quando arriva a riconoscere sé
stesso, le sue aspirazioni, le sue
esigenze, i suoi sentimenti, nella natura
o nell’arte, quando vede raccolti per opera dei Genti in un punto solo e quindi intensificati tutti i
raggi della sua attività, quando insomma
vede rispecchiato in un’opera tutto il
fondo della sua anima e quando si sente una cosa sola colla Realtà universale, non può non
provare una intensa emozione, che è
appunto l'emozione estetica. Dopo aver accennato alla soluzione del problema
estetico nella sua forma psicologica,
passiamo a trattare del problema
psicologico fondamentale quale si presenta nella filosofia generale. L’ indagine intorno alle proprietà
ed al rapporto esistente tra le varie
funzioni psichiche (funzione rappre»
sentativa, funzione emotiva, funzione volitiva) è della più grande importanza e «del più alto
significato, in quanto da essa dipende
il concetto che ci dobbiamo formare della vita
psichica in genere e della costituzione dell’anima. La funzione emotiva
in che rapporto sta con quella rappresentativa? il sentimento in che rapporto
sta con la rappresentazione? Che cosa è il piacere o il dolore che
accompagna qualsiasi elemento della
coscienza ? Ecco il problema generale, a cui gencricamente si può riferire il
problema speciale dell'origine e delle
condizioni dell’emozione estetica, salvo poi a determinare le caratteristiche
proprie del piacere estetico, tenuto
conto che non tutti i piaceri sono di
natura estetica. Ora noi vediamo che la Psicologia moderna tende a risolvere il
problema circa la natura del sentimento in conformità della soluzione data
dall’Estetica al problema corrispondente. Nessun psicologo crede più
all'esistenza delle cosidette facoltà
dell'anima: tutti concepiscono i fatti
psichici come manifestazioni diverse della vita ad attività psichica prosa nel suo insieme. Ora questa
attività spirituale si esplica in due forme principali irriducibili tra loro, in quella di modificarsi in modo
indistinto in totalità e in quella di
apprendere, di appercepire delle qualità
distinte, degli attributi determinati e delle relazioni. Nella sua prima forma essa si rivela essenzialmente
una, identica (senza che mostri alcuna «differenziazione in sè stessa) ed intimamente connessa con tutto il reale,
che essa per così dire, avverte
indistintamente nella sua totalità: nella
seconda forma invece essa appare variamente determinata in sè stessa e nelle maniere di apprendere la
realtà : nella pritma forma è vita
emotiva o sentimentale, nell’altra forma
è vita wappresentativa o intellettiva. È un errore pertanto voler
intellettualizzare il sentimento col farlo deri-. vare da un qualsiasi rapporto : noi possiamo,
sì, scomporre il sentimento e tradurlo
in rapporti, ma in tal caso noi avremo
trasformato il sentimento vero e proprio in un fatto. intellettuale. Il sentimento è un modo di
essere dell’attività psichica che si origina ogni qualvolta il contenuto della coscienza è cosiffatto che, non potendo
essere scomposto in qualità c relazioni determinate, figura come qualcosa d'’
indistinto. E qui giova notare che
anche quando il sentimento stossos viene
differenziato nelle sue principali determinazioni di piacere e dolore — nel
caso che queste vengano nettamente
distinte ed appercepite — cessa di essere puro sentimento per divenire un fatto d’oriline intellettivo.
Un sentimento qualificato,
caratterizzato e discriminato da tutto il complesso della vita psichica è la
chiara appercezione di una qualità
psichica, non un sentimento. L'appercezione di un piacere, di un dolore suppone l'atto della
mente con cui una qualità viene
separata, distinta dal rimanente, suppone quindi una funzione intellettiva sia
anche d’ ordine rudimentale e l'atto o
la funzione discriminatrice si confonde col suo prodotto per molo che ciò che
prima non era un fatto intellettivo
riesce ad essere, per così dire,
trascritto in termini intellettivi, e quindi viene ad essere snaturato. Piacere e dolore sono due qualità
sensoriali come il bianco e il nero,
come il liscio e lo scabro, come il
grave e l'acuto, come il caldo e il freddo.
Che essi siano determinati dalla « forma » dello stimolo piuttosto che da proprietà inerenti
(contenuto) allo stimolo come tale, che essi siano determinati dal modo
come lo stesso agisce, o dal modo in cui
la sua trasmissione avviene, o dalle
condizioni in cuì l'organismo fisico e
psichico si trova mentre ha luogo tale azione, poco o nulla importa : dal punto di vista psicologico il
piacere e il dolore sono qualità, e come tali, appartengono alla funzione rappresentativa dell'anima umana.
Sosgiungiamo che il piacere e il dolore,
come il suono alto e quello basso e come
il caldo e il freddo sono sensazioni relative e variabili linearmente in quanto
presentano. duo sole determinazioni opposte.
In altre parole : il sentimento per sua natura è indistinto, è stuto
psichico totale : non sì tosto in esso vengono delimitate differenze, non sì
tosto esso viene circoscritto e qualificato, non è più a parlare di sentimento
vero e proprio : ma di funzione
intellettiva e rappresentativa. Il sentimento
in tal caso viene come ad essere intellettualizzato, viene ad essere compenetvato dall'attività
discriminativa che è inerente all’
intellezione. Quando il sentimento — stato
psichico totale — vien» ad essere analizzato e scomposto in qualità diverse e quando queste vengono
appercepite, il sentimento non esiste
più, ma esistono le qualità sensoriali.
La vita psichica non si presenta più come sentimento, ma come apprensione di qualità, l’attributi e di
relazioni. Ma si può dire che il piacere
e il dolore siano qualità del
sentimento, come si dice p. es. che il suono alto e basso sono qualità del suono ? Noi crediamo di no,
perchè parlare di qualità del sentimento è un parlare contradittorio; è come se si dicesse qualità «di ciò che non
può avere qualità, ovvero determinazioni di ciò che è per sua natura indeterminato. Il piacere e il dolore sono
qualità che possono essere pro:lotte in parte dalla totalità della vita psichica, dallo stato in cui la stessa
totalità si può trovare, ma non sono
qualità della totalità La totalità è reale, ma
non ha qualità, caratteri distintivi, differenze, le quali implicando sempre relatività, riferimento,
possono essere differenziate entro la
totalità. Uno stato di piacere o di
dolore totale non significa nulla: un
piacere o dulore suppone la distinzione, la differenzia«zione. Il sentimento o
stato psichico totale può contribuire a
generare uno stato di piacere o di dolore, ma non può presentarsi come piacere o come dolore: già
un piacere o un dolore totale, assolutamente totale, non sarebbe nemmeno avvertito, perchè non potrebbe cs-ere
distinto: distinto da che, invero? E il
piacere e il dolore sono considerati d’ordinario come qualità del sentimento
appunto perchè esse sono determinate in
parte dalla totalità della vita psichica,
Sorge la questione: Perchè una tinta di piacere o di dolore accompagna qualsiasi fatto psichico?
Perchè ogni singolo fatto psichico è
messo in rapporto — si noti, è “messo in
rapporto — è appercepito quasi attraverso lo stato complessivo in cui l'organismo fisico e
psichico si trova in un dato momento: è
da questa appercezione — che è un fatto
d'ordine intellettivo — è dal suddetto rapporto del fatto singolo coll’insieme che vengono fuori
le due qualità di piacere e di dolore,
le quali vengono a sovrapporsi 0, meglio,
a fondersi cogli attributi propri dei singoli fatti psichici. Ed è avvertita la qualità di
piacere ovvero quella di dolore,
secondochè si ha l’appercezione di un rialzamento o di un abbassamento
dell'energia psichica e delle condizioni
da cui essa dipende. Come si vede, il
sentimento non va ilentificato con le
determinazioni qualitative del piacere e del dolore : il primo è uno stato totale dell’anima, le altre sono
prodotte dal. l’appercezione (fatto intellettivo) delle differenze
(qualità) osistenti nella detta
totalità. E noto che l’apprensione di un
dato contenuto psichico richiede il dispiegamento di una certa quantità di energia mentale
(attenzione), la quale pui non è
illimitata, ond’è che quando ha luogo un
consumo di energia psichica superiore a quello di cui sì può disporre sarà avvertita una sensazione
sgradevole, mentrechè quando lo stesso
consumo è proporzionato alle risorse si avrà una sensazione piacevole. È il
rapporto, la proporzione che deve
esistere tra attenzione e area della
coscienza che ci può dar la chiave per rendercì conto in gran parte delle determinazioni qualitative
del piacere e del dolore. si Abbiamo detto che il sentimento è la vita
psichica presa nella sua totalità : è
evidente che a seconda che la detta
totalità è più o meno ricca di contenuto, a seconda che è di ordine superiore o inferiore, che è
complessa, ovvero semplice e
rudimentale, si avrà o no un sentimento nobile
ed elevato. Ma, si può qui
domandare, se il sentimento è la stessa
vita psichica presa nella sua totalità, come mai potrà essere avvertito? L° avvertire implica distinzione e
questa riferimento e quindi esistenza di qualità diverse entro la totalità. A
ciò si risponde che il sentimento non è avvertito come qualità ; il suo ufficio è quello di
rendere reale, attuale, presente, immediato qualsiasi fatto psichico: esso rappresenta
il coefficiente dell’ esistenza psichica.
Il problema estetico nella sua forma psicologica e il problema psicologico fondamentale si:
corrispondono, in quanto là soluzione
data ad entrambi è questa, che il
sentimento ha la sua origine nella vita psichica indistinta, nella quale non soltanto vengono ad essere
fusi insieme i _ vari elementi
costitutivi di.essa, ma viene ad essere tolta
ogni contrapposizione del soggetto all’ oggetto. E qui sorge la necessità di andare in
traccia del carattere differenziale per cui il sentimento estetico sì distingue
da qualsiasi altro sentimento. Tale carattere si trova agevolmente, se si riflette agli attributi
dell’obbietto estetico, il quale non solo è un sistema di parti (unità
nella varietà) oltremodo complesso, ma
ha un significato deri vante dal
riflettersi in esso di tutte le aspirazioni ed esigenze più profonde dell'animo
umano, per modo che nella contemplazione
estctica il soggetto si trova come in rapporto
con la parte migliore di sè stesso. Si aggiunga che l’unione del soggetto con l'oggetto è molto più intima
nel caso dell'emozione estetica che nel caso di qualsiasi altro
sentimento. L'attività del Reale, la
Realtà come vita differenziantesi, spezzantesi e rivelantesi in modo immediato
nelle coscienze individuali, ecco la
radice comune delle varie sorta di
sentimenti. Come vi sono varie forme od apparenze di totalità, come vi sono varii ordini
d’incentramenti individuali così vi sono vari ordini di sentimenti più o
meno definiti (ogni definizione proviene
dall'elemento rappresentativo e relativo concomitante), più o meno complessi,
più o meno interessati, perchè più o
meno direttamente riferentisi all'attività pratica. Il carattere d'individualità che
controdistingue il sentimento proviene dal fatto che la totalità è, per così
dire, incentrata nella vita del
soggetto, in ciò che differenzia l’io
quale determinazione speciale del Reale, avente un posto proprio nello spazio, nel tempo e nella
serie causale. Non ci sembra
inopportuno, poichè servirà a-dilucidare
le idee suesposte, richiamare qui, prima di finire, l’attenzione sul
rapporto esistente tra sentimento e volontà, o
meglio, tra sentimento e attività; rapporto che è diverso da quello che ordinariamente è ammesso. Il
sentimento non produce l’azione allo
stesso modo che non è prodotto da essa e
che non ne è il riflesso subbiettivo. Un tale rapporto e A ii cir iii cdi ee n può esistere tra
l’attività e le qualità sensoriali del piacere
e del dolore, non gia tra l'attività e il sentimento, Questo — come
stato psichico totale — è tutta la vita psichica senza alcuna determinazione speciale, ond’è
che mentre da una parte esso contiene,
trasformati e fusi insieme tutti gli
elementi psichici, non è in rapporto particolare con nessuno di essi. Tutti però quando
divengono reali, quando appaiono distinti
sull'orizzonte psichico, emergono come
dal fondo della vita psichica, che dal punto di vista soggettivo è appunto il sentimento stesso.
Questo pertanto appare come il sostegno,
ceme ciò che dà attività, consistenza ai vari fatti psichici. Al di fuori del
presente, del momento attuale non vi ha
sentimento, ma bensì rappresentazione : e vi ha una rappresentazione
riferentesi al passato, come ve ne ha una riferentesi al futuro : ed è
chiaro che è possibile avere una
rappresentazione del sentimento, quando
questo, distaccato dalla matrice reale, viene idealmente costruito e proiettato
nel passato per mezzo della memoria e
nel futuro per mezzo della immaginazione. Il
sentimento però in tal caso viene snaturato, trasformandosi in un fatto d'ordine conoscitivo: un
sentimento rappresentato è una rappresentazione e non un sentimento, o
meglio, ò una nostra costruzione ideale
che non si riferisce a nulla di reale e
di attuale. La forma, diremo così,
metafisica del problema estetico è:
Qual'è la natura della proluzione artistica ? L'arte in che rapporto sta con la natura ? Si deve
ritenere con gli antichi Greci che l'Arte è una imitazione pura e semplice della natura in modo da dover essere essa
collocata al disotto di quest'ultima?
Come si vede, un tale quesito non poteva
ricevere un'adeguata risposta se non dopo che la coscienza estetica del genere umano cbbe
raggiunto un grado notevole di svolgimento,
dopo, cioè, che il gusto estetico si fu
di molto raffinato c che la valutazione estetica fu molto progredita. La
riflessione filosofica dovette giungere
al punto da sentire il profondo divario esistente tra il mondo empirico e quello ideale, tra le
esigenze del] intendimento e quelle della Ragione presa in senso stretto, vale a dire presa come la facoltà
del Categorico, dell'Unità e della
Totalità. E infatti il problema estetico
nella sua forma metafisica non fu risoluto in maniera adequata prima che
Emanuele Kant ponesse in evidenza l’antitesi esistente tra la relatività
inevitabile della ragione teoretica e la
assolutezza dell'imperativo morale implicante
l’esistenza della liberta. Il problema circa la natura della produzione artistica non s'impose fino a
tanto che gl’immensi progressi della Filologia classica, dell’Archeologia, della Critica non ebbero per effetto di
produrre il rinnovamento di tutta la coscienza estetica e quindi di tutte
le vedute anteriormente dominanti
inordine alla valutazione estetica. Fu
allora che non fu più possibile considerare
il prodotto estetico come una semplice imitazione della natura.
Vediamo ora come il problema estetico fu risoluto sotto tale forma metafisica per ricercare poscia le
caratteristiche del corrispondente problema attinente alla filosofia generale, il quale può essere così enunciato
: Che concetto dobbiamo formarci dell’ incessante produttività della natura?
ovvero: Che cosa stanno a rappresentare le infinite * forme in cui l’attività della natura si
esplica? La produzione artistica fu considerata come l’effetto del libero, ordinato ed armonico esercizio delle facoltà
umane: ma si può qui domandare: di tutte
le facoltà umane? No, bensì di quelle
facoltà soltanto che possono dare origine a prodotti che hanno una data forma,
intenlendo per quest’ ultima l'insieme delle proprietà per cui una data cosa è
valutata, non per il suo uso, non per lo scopo determinato a cuì l’ oggetto avente quella data « forma »
risponde, ma per ciò che la forma sta a
rappresentare, in quanto in essa si
riflette l’intendimento, il sentimento e la capacità in genere di chi
l'ha concepita ed eseguita. La « forma » implica adunque l’esistenza dell’ elemento razionale:
ed è lecito parlare di « forma » ogni
volta che nell'oggetto o nel fatto vien
messo in evidenza appunto l'elemento intelligibile. Ogni qualvolta nuvi ci troviamo di fronte ad
un obbietto .che mentre figura come un
prodotto dell’intelligenza «
dell'attività umana, dall'altra parte non pare serva ad uno scopo pratico, o a un uso determinato, — pur
non essendo scevro di significato — noi
siamo spinti a giudicare come estetico
il detto obbietto. Sicchè l'essenza della produzione artistica fu posta in ciò, che l’anima umana
è così fatta che sente il bisogno di
estrinsecarsi, di esprimersi in fatti, i
quali mentre portano l'impronta delle facoltà che loro diedero origine,
non hanno l’ufficio nè di appagare un desiderio, nè di far raggiungere un fine
estrinseco, nè di procurare un gudimento egoistico e interessato. La
creazione artistica ha in sè stessa il
suo scopo, che è quello di completare la realtà sensibile, dando l’esistenza ad
un mondo di forme atte ad appagare le
aspirazioni e le esigenze più profonde e
più elevate dell'anima umana. Il bisogno del
completo, del perfetto, dell’ individualità armonica, della totalità sistematica può solo esser
soddisfatto per mezzo dell'Arte, la quale
rende possibile la sovrapposizione di
tutto un mondo supra il mondo della esperienza ordinaria. Il vero artista è quegli che crea per creare,
è quegli che spinto dal bisogno di porre
in opera il soprappiù delle sue
esuberanti energie, produce spontaneamente e quasi istintivamente, senza
aver dinanzi alla mente uno scopo estrinseco od interessato da conseguire. Egli
crea per dar forma definita a ciò che
gli si agita nel fonito dell'anima. L’opera
d'arte è bella quando porta nettamente l'impronta della personalità dell'artista e quando esprime
l'impressione in lui prodotta dalla
vista dell'oggetto o del fatto che egli
traduce. La Natura è bella quando noi in essa riconosciamo nol stessi con ciò clie abbiamo di veramente
umano, come esseri felici e miseri ad un
tempo. Ognun vede che il bello non può
essere in alcun modo confuso nè col
piacevole, nè col bene ; il piacevole infatti,
risponde ad una esigenza subbiettiva ed interessata, implicando
l’appagamento di un bisogno egoistico, e il bene involge il concetto di attuazione di un fine
chiaro e cosciente, sia questo estrinseco all’obbietto come nel caso dell'utilità o immanente all’ oggetto stesso
come nel caso della perfezione.
L'espressione libera e spontanea in forme
concrete, di un contenuto.ideale e la realizzazione irreflessa di ciò
che vi ha di razionale nella nostra natura,
ecco che cosa è invece la produzione artistica ; un’espressione
necessaria el obbiettiva della vita umana nella sua complessità e dell'unità della natura, ecco
che cosa è invece l’arte. Onde consegue poi che non vi è ragione di limitare la cerchia delle sue manifestazioni,
le quali hanno tutte egual diritto alla
nostra consilerazione, a patto che
mettano in evidenza in modo completo un lato della vita umana con tutte le proprietà, siano pregi o
difetti ad essa inerenti. E " x
Il problema che in filosofia generale corrisponde a quello estetico or ora esaminato è il problema
teleologico. Che significato ha
l’inesauribile produttività della natura ? Che
valore va attribuito alle svariatissime forme naturali? Ora la risposta «lata dai filosofi — almeno da
taluni filosofi — coincide con quella
data dagli estetici in quanto viene
ammessa l’intima razionalità della natura, a cui accennano già le leggi naturali. Tale razionalità può
da una parte non esaurire il contenuto
della natura, giacchè questa oltre ad
essere compenetrata dalla ragione 'è qualcosaltro ancora, e dall’ altro non è
tale da far considerare i fatti e gli
obbietti naturali come prodotti da un’Intelligenza cosciente identica
all’umana. In altri termini, la natura è,
sì, espressione di qualcosa di razionale, ma non può essere considerata
come il prodotto di un'attività intelligente che si esplichi come quella dell’ uomo. La natura
esclude il dominio del caso e insieme una veduta antropomorfica qualsiasi. E poichè del rimanente la produttività della
natura presenta i caratteri propri della produzione artistica (libertà, spontaneità,
molteplicità di forme definite, unità organica
delle parti costitutive di ciascuna forma, esuberanza di energia, apparente assenza di utilità, ecc.),
è ragionevole pensare che il mondo
ideale dell’arte e quello reale della
natura siano prodotti da un'attività fondamentalmente identica: la quale
però nel secondo caso si esplica in modo
chiaramente incosciente e nel primo in modo, diremmo semicosciente o cosciente addirittura. In
entrambi i casi la ragione è in azione,
ma (ci sia lecito esprimerci così) senza
averne Vl aria: in entrambi i casì l’idea di fine non è costitutiva dei
fenomeni, ma puramente regolativa, giacchè come
il fatto estetico non è prodotto, nè sentito in vista del raggiuugimento di un dato fine, in vista di.
un vantaggio da ottenere, o di un
risultato pratico da conseguire, così il
fatto naturale non può essere interpretato o spiegato mediante il concetto di fine. Il fatto
estetico e quello naturale però implicano, ciascuno alla sua mauiera, l’esistenza
dell'elemento intelligibile e razionale atto a dar ragione della loro « forma » determinata:
tanto l’ uno quanto l’altro pongono
l’esigenza dell’unità sistematica atta a
dar ragione delle relazioni esistenti tra le varie parti od elementi componenti il tutto, unità
sistematica che include il concetto di
fine intrinseco ed organizzatore,
comunque incosciente. É evidente
poi che tra natura ed arte, tra bello natu:
rale e bello artistico non può esistere antitesi di sorta, ma soltanto differenza di grado, in quanto
l’arte non fa che presentare come
raccolti in un punto quei raggi che
nella natura vanno dispersi qua e la, in quanto cioè l’arte concentra e rende continuo ciò che nella
natura si presenta discontinuo, sconnesso e quindi pressochè sfornito di alto significato. Allo stesso modo che la
scienza coordina, correggendo,
modificando (sceverando l’ essenziale e il necessario dall’accidentale), i
fatti dell’osservazione percettiva
ordinaria e li presenta sotto nuova luce, così l’arte ha per intento di mettere in evidenza i tratti
caratteristici della natura e della
vita, ordinandoli, fissandoli e organizzandoli
in modo che salti agli occhi di tutti quel sigrificeto che diversamente
o non sarebbe avvertito addirittura, ovvero in
modo incompleto e confuso. L'opera del genio si esplica appunto nell’idealizzare la natura, vale a
dire nel rendere appariscente ciò che
senza di Lui all'occhio volgare sarebbe per sempre rimasto nascosto (1). ’ L’opera d'arte quale espressione di un
contenuto ideale, di un universale
concreto (natura propria di ciò che si
vuol rappresentare) ha la sua ragione in sè stessa: e il «suo valore sta tutto nell’ essere essa
parvenza perfettamente distinta dalla realtà. Essa invero è apprezzata per sè; è un sistema, un'individualità, qualcosa
di organico esprimente la Realtà sotto
un punto di vista determinato. Qualsiasi
altra cunsilerazione non riferentesi alla contemplazione di una
rappresentazione concreta, compiuta di
quella medesima Realtà, che alla Ragione appare come Vero ed al Volere come Bene, le è estranea. Onde conBOSANQUET [citato da H.
P. Grice, “Prejudices and predilections, which become the life and opinions of
H. P. Grice” --, Zistory of Esthetic. London, 1892, pag 3 e segg. « ....it is plain that « nature » in this
relation differs’ from « art »
principally in degree, both being in the medium of human perception or imagination, but the one consisting in the
transient and ordinary presentation or
idea of average ind, the other in the fixed and heigtened intuitions of the
genius which can record and interpret ».
segue che l'appercezione
estetica si riferisce al modo come è
rappresentato, come è espresso, non come è costituito, nè come agisce il Reale per sè. E evidente che
una medesima cosa è giudicata bella o brutta a seconda che è considerata o pure
no espressione completa di un dato ordine
di realtà: espressione che figurerà come completa o come incompleta secondo che un oggetto è guardato
nella sua possibilità e « in generale »
dall’uno o dall'altro punto di vista. «
Un esemplare di una specie di animali — nota uno scrittore recente —, sarà brutto p. es. se
considerato come espressione dell’
animale in generale, perchè in quel dato
esemplare (forma) la vita animale (contenuto) non si rispecchia nella
sua pienezza: potrà esser bello se considerato come espressione tipica di una
data specie di animale,. giacchè in tal
caso esso è considerato come espressione
o forma di un altro contenuto », dass di un altro was. Insomma un oggetto è bello o brutto secondo
la categoria con la quale lo
appercopiamo. Nell'arte tutta la realtà
naturale ed umana — che è bella o brutta secondo i punti di vista relativi — diventa bella, perchè è
appercepita come realtà in generale che
si vuol vedere espressa completamente. Tutti i personaggi, tutte le azioni,
tutti gli oggetti, entrando nel mondo
dell’arte perdono (artisticamente parlando) le qualificazioni che sogliono
avere per ragioni. diverse nella vita reale, e son giudicati sclo in quanto
l’arte li ritrae più o meno
perfettamente. Taluni dei Cesari sono
giudicati mostri guardati nella vita reale, ma non sono mostri come figure d’arte. PERGEA PSR i ie ina Pr fa L'uomo nella vita ordinaria accetta il
dato come immediatamente gli si presenta senza che faccia alcun tentativo per armonizzare tra loro gli elementi
discordanti. Possiamo aggiungere che la
discordanza non è neanco avvertita. In
tale stadio l’uomo non conosce per conoscere, ma conosce per operare, per soddisfare cioè nel modo più
appropriato i suoj/ istinti o le sue
tendenze; onde avviene che le cognizioni, le quali meglio rispondono alle
esigenze pratiche, appaiono complete,
perfette. Se non che un tale stato non è
duraturo; ben presto con lo svolgersi della cultura e della civiltà la funzione conoscitiva
acquista un certo grado d'indipendenza,
emancipanilosi dai bisogni pratici ed
acquistando valore e significato per sè. È in tale stadio che cominciano ad essere avvertite le
contradizioni esistenti tra i vari elementi dell’esperienza ordinaria,
dapprima considerati come essenzialmente
costitutivi della vera ed ultima Realtà.
È in tale stadio che si formano le scienze,
le quali per dar ragione dei vari fatti sperimentali e per eliminare le contradizioni dagli stessi
presentate ricorrono a concetti d'ordine particolare. In tal guisa questi
sono come il sostrato della realtà,
mentrechè i fenomeni empiricì stanno ad indicare le varie maniere in cui il
detto sostrato si può presentare al
soggetto, stanno ad indicare le varie
forme che esso può assumere. Ma siffatti concetti fondamentali delle scienze particolari sono
in realtà qual-. cosa di ultimo e
d’irriducibile e (ciò che sopratutto importa)
sono privi assolutamente di elementi contradittori, sono cioè perfettamente intelligibili? Questo problema
che sorpassa evidentemente i limiti di
ciascuna scienza speciale, forma il
punto di partenza del filosofare. Ora BRADLEY, il filosofo oxoniense, nel suo saggio di metafisica intitolato “Appearance
and Reality” – Appearance and reality: a metaphysical essay. London, Swan
Sonneschein. Tale opera di Bradley è accolta con molto favore nel mondo filosofico
inglese. Mackenzie non si perita di affermare
nella Rivista Mind che il saggio di metafisica di Bradley è una delle
migliori opere filosofiche. Bradley del resto è autore di parecchie altre opere
pregevolissime, quali i “Principles of
Logic” (London), “Ethical Studies” e svariatissimi articoli per la più parte
d’argomento psicologico pubblicati nella
“Mind.” -- muove appunto dal quesito: La realtà quale ci viene presentata dalle scienze singole è consistente, ovvero è
contradittoria e quindi non realtà vera,
ma apparenza? Le scienze per costruire
un mondo intelligibile sono ricorse a vari espe-. dienti o mezzi; che valore hanno questi?
Sottoposti alla critica, esaminati alla
luce del principio di contradizione
appaiono consistenti? Ognuno vede che per risolvere tale problema occorre anzitutto passare a rassegna
i materiali che compongono l’edifizio della scienza per potere di poi ricercare
fino a che punto ciascuno di essi sia coerente con sè stesso e coi rimanenti. Si fa presto ad
enumerare gli organi che renduno
possibile alla scienza la costruzione della
mechanica rerum; essi sono: divisione delle qualità sensoriali in primarie e secondarie, i concetti dì
sostrato o sostantivo, di qualità, di
relazione, di spazio, tempo, movimento, cangiamento, causalità, forza,
attività. Tutto il mondo per la scienza
è composto di « cose », di « qualità », di « relazioni » e, se si vuole, anche di « forze ». Le qualità possono
essere divise poi in primarie
(estensione, resistenza) e secondarie (colori,
suoni ecc.). Dalle varie combinazioni di qualità e di relazioni di differente ordine risultano lo spazio, il
tempo, il movimento, il cangiamento, la causazione. Possiamo dire che i concetti propriamente primitivi sì riducono a
quelli di sostanza, di qualità, di relazione e di azione, mentrechè tutti gli altri concetti di cui si fa largo uso
nella scienza, non sono che derivazioni
e combinazioni diverse di quelli primitivi.
Si domanda adunque: La Realtà è effettivamente costituita di sostanze,
di qualità, di relazioni? Il Bradley risponde
subito di no, perchè tutti questi elementi, implicando contradizioni,
sono apparenza e non realtà. La « sostanza »,
la « cosa » non è che l'insieme, l’unità di tutte le qualità che caratterizzano, 0 como altrimenti si
dice, ineriscono ad essa: ma che cosa è
mai questo rapporto d'inerenza? Da una
parte la cosa non s'identifica con nessuna delle qualità per sè prese (così lo zucchero non è
identico alla qualità del bianco, o a
quella del dolce per sè presa), e
dall'altra parte se si dice che la cosa rappresenta l’uni ficazione, l'aggruppamento delle varie
qualità non s'intende in che cosa possa consistere questa unificazione od
ordinamento che sia. Chi tiene unite le qualità? Perchè, come, dove queste si uniscono insieme? Qui sì tira
in ballo il concetto di relazione e si
dice che la sostanza, la cosa, è data da
particolari rapporti esistenti tra le varie qualità, ma ciò non serve affatto a chiarire la
questione, perchè che cosa mai vuol dire
che una cosa è uguale al rapporto di una
qualità: con un’altra qualità? Così se si dice « lo zucchero è eguale ad un dato rapporto del
bianco col dolce » non si dice nulla di
serio e di significante, non si sa che
cosa voglia dire una qualità in rapporto con un'altra: la prima qualità non è identica alla seconda,
e non è nemmeno identica alla « relazione con la seconda ». Come si vede, al problema concernente la sostanza, la
cosa, sì connette intimamente quello riguardante la natura della qualità e
della relazione, problema che esaminato a fondo, dice il Bradley, dà luogo ad un cumulo di
contradizioni. Ed invero qualità e
relazione anzitutto si presuppongono a
vicenda in quanto con ogni qualità si connette intimamente un processo di
distinzione, di differenziazione e
quindi un rapporto (ogni qualità in tanto esiste in quanto emerge, distaccandosene, da un dato fondo),
processo e rapporto che sono parti
essenziali della qualità come tale e non
qualcosa di sopraggiunto: chi dice qualità dice molteplicità e chi dice
molteplicità dice con ciò stesso rapporto; e in quanto ogni rapportu d'altra
parte implica la esistenza di termini e
quindi di qualità tra cui esso intercede ; poi non c'è verso di poter intendere
come qualità e relazione agiscano o si
comportino reciprocamente. Noi,
ricordiamolo bene, siamo a questo: la relazione è nulla senza la qualità
e viceversa la qualità è nulla senza la
relazione: da un canto sembra che la qualità consti di relazioni, e dall'altro che queste non siano
che forme di qualità. Si direbbe che in
ciascuna qualità siano da distinguere due elementi, uno che rende possibile una
qualsiasi relazione e l’altro che
risulta dalla relazione stessa, elementi che appartenendo ad una stessa cosa
(qualità), bisogna che siano in
relazione tra loro per modo che a’ proposito
di ciascuno di essi si renda necessario il medesimo processo di
distinzione dell'elemento che rende possibile la relazione da quello che ne risulta. Il che,
come è chiaro, I mena ad un processo ad
infinitum. Il fatto è che il Bradley non
vede come la relazione salti fuori dalla qualità, nè come la qualità possa saltar fuori dalla
relazione lasciata così sospesa per aria.
Da una parte la relazione pare che non
si distingua dalla qualità, e dall’altra la presuppone: e viceversa da una parte la qualità pare che
s'identifichi con la relazione, e
dall'altra ne derivi. | Come mai si può
affermare adunque che la realtà è fatta
di sostanze, di qualità e di relazioni, se tali tre elementi implicano contradizioni e sono affatto
incomprensibili? Presi separatamente o
in unione essi appaiono sempre impenetrabili all’intelligenza. La relazione non
può essere considerata un addiettivo, una proprietà della qualità, giacchè viceversa questa appare qualcosa di inerente
alla relazione. Oltrechè il rapporto di
inerenza è quanto di più oscuro si possa
immaginare, la relazione e la qualità non possono essere sostantivi ed addiettivi nello stesso
tempo. Se non s'intende come le qualità
possano unirsi per dare la « cosa », non
s'intende del pari come i rapporti siano proprietà, siano 182 IL PROBLEMA FILOSOFICO come a dire inerenti alle qualità. Si ode
dire che la tale cosa ha la proprietà di
essere in rapporto con la tale altra
cosa, ma una tale espressione implica una quantità di controsensi. Che
cosa è il rapporto per sè preso? Non sì può
identificare con la cosa e d’altra parte per sè è nulla. Il nodo della questione è tutto qui: la
relazione non essendo una cosa nè una
qualità, non sì arriva a comprendere che
cosa mai possa essere, giacchè essa infatti nell’ uso ordinario e
scientifico è adoperata ora come sostantivo a cui ineriscono le qualità vere o proprie ed ora
come addiettivo, come un derivato delle
qualità stesse. Se non c'è modo di
intendere l’unità delle qualità e degli attributi costituenti la « cosa » non c’è modo neanche d'intendere
l’unione delle relazioni con le qualità.
Da un canto il rapporto deve essere
qualcosa per sè, qualcosa di distinto dalla qualità e dall’altra fuori
la qualità esso appare nulla. Una volta
dichiarati iniutelligibili — perchè contradittori — i concetti di sostanza, di
qualità, di relazione, non potevano non
apparire del pari incomprensibili lo spazio, il tempo, il movimento,
l’attività, il cangiamento, la
causazione, ecc. Tutti questi concetti invero non risultano che di qualità e di relazioni variamente
combinate tra loro. In ciascuno di
questi casi riappare l'impossibilità di
considerare la relazione come qualcosa di esistente per sè in quanto essa presuppone delle qualità e
insieme l’impossibilità di considerare le qualità come cause produttrici delle relazioni, perché le qualità si
risolvono alla loro volta in relazioni.
Da un canto le qualità sembrano constare di
relazioni e queste di quelle e dall'altro non s'intende come in ogni caso le une possano emergere dalle
altre. Ognuno vede quale sia la conclusione a cui perviene la critica del Bradley : i concetti fondamentali
delle scienze particolari non sono che
mere apparenze. Ora è giusta una tale
affermazione, in base, s'intende, all'analisi da lui fatta delle qualità e relazioni in genere e poi del
mutamento dello spazio, del tempo, della
causazione, del cangiamento, ecc. ? In
sostanza il Bradley ragiona così: 1. Poichè la sostanza o la « cosa » da una
parte non può essere identica a ciascuna
o anche a tutte le qualità per sè prese e dall'altra non può essere considerata
come il sito d’unifica. zione, come l’ unità di tutti gli attributi, poichè in
altre parole è incomprensibile il
rapporto d'inerenza o il nesso del
sostantivo con l'aggettivo bisogna dire che questi ultimi concetti non
costituiscono la realtà. 2. Poichè è inconcepibile la natura della qualità e
della relazione come della loro unione,
bisogna affermare che anche siffatti concetti non sono che apparenze, errori di
prospettiva mentale, i quali vengono ad
essere eliminati in un’ esperienza più
elevata. Il filosofo inglese, come si vede, prende i concetti di sostanza, di qualità e di relazione come
se fossero qualcosa di esistente per sè, come se fossero degli elementi indipendenti, delle vere e proprie entità:
ora ciò è un errore. Non è lecito considerare la sostanza, la qualità e la relazione separatamente dal fattore della
coscienza in generale (Bewusstsein iiberhaupt, direbbe Kant) che ne è il
vero sostegno e fondamento. La sostanza,
la qualità e la relazione in tanto appaiono concetti contradittori in
quanto sono stati distaccati dalla loro
matrice, da ciò per cui sono e a cui
devono per conseguenza esser riferiti, la coscienza, il soggetto in genere.
Considerati come obbietti non reggono alla critica sicuramente, ma considerati
come fatti esistenti per un soggetto in
generale e non per questo o quel
soggetto particolare divengono comprensibilissimi. Ed invero l’ unificazione delle qualità
costituenti la cosa non è un atto
compiuto in un sito al di fuori del soggetto,
ma ha la sua radice nell'unità della coscienza. Non esistono delle qualità per sè prese che poi in un bel
momento si uniscano tra loro per formare
la « cosa », ma esistono degli elementi
astratti (che dal punto di vista obbiettivo sono funzioni), i quali si concretizzano,
completandosi a vicenda, per opera della
soggettività in genere. La « cosa », la
sostanza insomma è ciò che è per la coscienza in genere. La « cosa » la sostanza adunque è una
funzione del soggetto. Ricordiamo che una funzione è sempre una ancorchè gli
atti di cui essa si compone siano molteplici. La cosa o la sostanza non è la semplice unità
delle sue qualità, ma è questa unità più il soggetto : nè è a dire che la sostanza sia identica ad una sola qualità
(come parrebbe quando si dice, ad
esempio, che « lo zucchero è dolce ») o al
rapporto esistente tra le varie qualità : queste in tanto appaiono
costitutive della cosa, in tanto possono essere attribuite separatamente o
complessivamente alla cosa stessa in
quanto sono presenti ad una coscienza. Il rapporto d'inerenza in tal guisa
cessa di essere qualcosa d’impenetrabile
e di misterioso, riducendosi ad una funzione della coscienza o della soggettività in genere per cui le
varie modificazioni vengono ad essere riguardate come elementi di un unico processo. Parimenti la qualità e la relazione, come la
sostanza, non sono delle entità, ma
vivono, agiscono e si muovono nella e per la coscienza in generale: tolta la
quale, non s'intende sicuramente nè la
qualità, nè la relazione, nè la loro
unione. La qualità non esiste che come determinazione, differenziazione della coscienza o
soggettività in genere, e questa stessa
mentre è attiva dà luogo a relazioni di
vario ordine. Qualità e relazione adunque non sono due fatti distaccati, o meglio, l'uno di essi non
è qualcosa di aggiunto all’altro: la
relazione presa per sè, come la qualità presa per sè non esistono, ma vengono
per così dire, generate ad uno stesso
tempo dalla coscienza, la quale nell'atto che dà luogo alla qualità dà luogo
anche alla relazione, per modo che qualità e relazione da una parte si appoggiano a vicenda e dall'altra hanno
entrambe il loro fondamento ultimo
nell'unità e attività della soggettività; tanto è vero che ciò che da un punto
di vista figura come qualità, può
presentarsi da un altro punto di vista
come relazione e viceversa Se si fissa l’attenzione sull'atto o processo
con cui la coscienza genera e costìtuisce la qualità si ha la relazione: se
invece l'attenzione è fissata sulla
modificazione generata nella coscienza dall'atto si ha la qualità. La relazione
pertanto non è un addiettivo della
qualità come questa non è un prodotto della
relazione, ma sono due lati di uno stesso processo fondamentale compiuto
dalla soggettività in generale. E si comprende
‘agevolmente come la relazione distaccata dalla -sua matrice — che è la coscienza in generale — presa
quindi per sè, presupponga i termini o
le qualità e viceversa queste considerate per sè traggano seco l’altro lato del
processo, implichino cioè la relazione:
esprimendo la qualità e la relazione due
punti di vista differenti di uno stesso fatto, l'uno implica l’altro: ciascuno
è vicendevolmente risultato e
condizione, secondochè si muove per primo dall'atto della coscienza (relazione) con cui si produce una
modificazione di essa (qualità), ovvero
da questa modificazione. I concetti di
sostanza, di qualità e di relazione adunque
in tanto implicano un cumulo di contradizioni in quanto vengono considerati separatamente dal fattore
della coscienza, della soggettività in generale in cui hanno la loro
radice e ragione di essere. Una qualità
che non si riferisce ad un soggetto è
nulla come una relazione che non esprime
un’ azione di un soggetto è parimenti nulla. La scienza fa uso dei concetti di sostanza, di qualità, di
relazione senza andare in traccia di ciò
che siffatti concetti implicano: la
filosofia per contrario trova che essi si riferiscono alla coscienza in generale con le sue note di
unità, di attività e di modificabilità.
La sostanza, la qualità, la relazione sono
elementi costitutivi della realtà non nel senso che esistano per sè, ma nel senso che sono una produzione,
anzi, meglio diremo, sono elementi
costitutivi della coscienza o della soggettività in generale che è quanto di
più reale possa esistere. E la sostanza,
la qualità e la relazione in tanto s’implicano a vicenda in quanto come funzioni integrantisi
a vicenda formano la struttura organica
della coscienza. La sostanza non è
identica ad un complesso di qualità o di
rapporti tra qualità come la relazione non è un prodotto della qualità, come la qualità non risulta dalla
relazione, e come infine la relazione
non è un attributo della qualità e viceversa, ma sono tre differenti funzioni
della coscienza, tre vie che la
coscienza tiene nell'adempimento del suo ufficio che è quello di costruire l’esperienza intesa
in senso largo. Per Bradley giudicare equivale semplicemente ad identificare — stabilire un'identità formale
ed astratta — tra i termini del
giudizio, facendo astrazione dal fattore
della coscienza necessariamente supposto dall'atto giudicativo. Ora il
giudizio non è la pura identità di due teriini, ma è l'identità più l’azione
del soggetto che rende possibile e in
cui si compie il riferimento espresso nel
giudizio. Sicuramente l’un termine del giudizio non è identico sic et simpliciter all'altro, ma è
identico a questo più il fattore del
soggetto. Si è veduto come la
difficoltà d’intenlere la natura propria
delle qualità «e delle relazioni derivi dal considerarle come dati invece che
come funzioni della coscienza o del
soggetto in genere, ond’ è che esse non figurano come attributi della realtà, ma bensì come atti
della coscienza : qualità e relazioni
avendo la loro ragione di essere nella e
per la coscienza è chiaro che non sì tosto esse vengono distaccate da tale fonlo appaiono concetti
contradittori. Del resto lu realtà presa
nel suo insieme non è veramente tale che
per una coscienza : tolta questa, la realtà stessa scompare. Una realtà posta al di fuori di
qualsiasi forma di coscienza per noì è
inconcepibile n almeno è come se
LI non esistesse, è nulla. Ora
la realtà riferita ad una coscienza è costituita di vari ordini di qualità e di
relazioni, che rappresentano per così
dire i materiali .con cui il soggetto fa
o costituisce la realtà. Lungi dal poter essere
le stesse considerate come apparenze costituiscono la realtà vera.
Ciò posto, ognuno vede che le contradizioni riscontrate dal Bradley
nello spazio, nel tempo, nel movimento (1), nel cangiamento, nell'attività,
nella causazione che in fin dei conti
rappresentano delle differenti combinazioni di
qualità e di relazioni, scompaiono appenachè esse non vengono più
considerate come dati, ma funzioni della coscienza in generale. Le contradizioni esposte dal
Bradley poggiano per la più parte sulla
difficoltà o impossibilità di intendere
il continuo, il quale sotto differenti forme si presenta nello. spazio, nel tempo, nel movimento, nel
cangiamento, nella causazione ecc. Ora
il con/înuo effettivamente non è concepibile che armettendo una coscienza o
soggettività che in certo qual modo sia
come la forma permanente della Realtà,
rispetto alla quale cioè la realtà venga costituita e uni‘ficata. Il
continuo dello spazio, del tempo, del movimento, del cangiamento, è come a dire, il riflesso
della continuità, della permanenza, e
della identità dell'attività della coscienza, e, si badi, della continuità
della coscienza in generale e non di quella individuale. A tal proposito giova ricordare che la
conoscenza, la costruzione della realtà e l’esperienza in genere in tanto
sono possibili in quanto la funzione o
l’attività della coscienza individuale
s' identifica con la funzione della coscienza in genere. Ma si può domandare: Che concetto
dobbiamo e possiamo formarci di tale
coscienza in generale ? 0 meglio,. che
esperienza ne abbiamo noi? Siffatta coscienza in generale è quell'elemento
subbiettivo che viene sottinteso in ogni
esperienza e quindi in ogni realtà. L'esperienza divenga obbiettiva finchè si.
vuole, si attenui fin che si (1) A
proposito del movimento rimandiamo il lettore a ciò che ne dicemmo sulle tracce del Masci nel I°
volume di questi Saggi. vuole il fattore subbiettivo, non si riuscirà mai ad
annullare, come già si fece notare disopra, il riferimento ad una coscienza qualsiasi: tolto il quale
riferimento è annullata per ciò stesso l’esperienza e la realtà. Noi in tanto possiamo parlare di fatti obbiettivi in
quanto ad una determinata coscienza
individuale sostituiamo una forma
differente di coscienza senza riuscire mai a far senza di una qualsiasi: così si parla dei fatti di
movimento come di fatti essenzialmente
obbiettivi: ora i detti fatti di movimento non sono fenomeni riferentisi ad una
coscienza? L'uomo come essere pensante è
cosiffatto che non può in nessuna
maniera, semprechè non voglia annullare sè stesso, fare astrazione da una qualsiasi forma di
coscienza. Ed è in ciò posta appunto la
realtà dell’ io non già nel vario
contenuto della coscienza individuale, il quale è qualcosa di mutevole e di accidentale. Il Bradley per mostrare come anche l'io sia
apparenza e non realtà passò in rassegna
i vari significati in cui l’ io può
essere preso per dedurne che nessuno di tali significati è scevro di
contradizioni; nessuno ci dà la realtà:
ma egli non accenna al significato dell’ io quale condizione prima di ogni esperienza e quindi di ogni
realtà : ora è appunto in tal senso che
l'io è ciò che vi ha di veramente reale.
Non è l'io empirico, l’io individuale per sè preso che ci dà il reale, ma è quell’elemento dell’
io individuale per cui questo
identificandosi coll’io, e la coscienza in
genere si presenta come elemento costitutivo e quindi come condizione di ogni realtà ed esperienza. Aggiungiamo infine che una volta che lo
spazio, il tempo, il movimento, il
cangiamento ecc. non vengono presentati come dati, ma come funzioni della
coscienza in generale è chiaro che nelle
loro parti costitutive appaiono come
qualità o come relazioni a seconda che varia il punto di vista da cui vengono considerate: appaiono
relazioni guardate dal punto di vista dell'atto costruttivo, mentrechè appalono qualità dal punto di vista delle
modificazioni nell'atto stesso prodottesi sempre nella coscienza in
generale. L'analisi del Bradley mena
adunque a questo risultato, che i
concetti fondamentali delle scienze particolari, involgendo contradizioni, non
possono essere elementi costitutivi
della realtà, ond’è che essi vanno considerati quali mere apparenze. Come si vede, il criterio per
distinguere la realtà dall’apparenza è
il principio di contradizione. Regola
generale: ciò che si contradice non è reale, o, ciò che val lo stesso, la realtà ultima non può essere
contradittoria. Tale criterio è assoluto
e supremo, perchè tutti gli altri ne
dipendono e perchè anche negandolo o dubitandone, se ne ammette tacitamente la validità. Il principio di contradizione però non va
considerato come un criterio puramente
formale in quanto chi pone l’
inconsistenza tra gl’ indizii della non realtà viene ad affermare la
consistenza (1) quale segno del reale : se ciò che Stimiamo opportuno
riprodu-re, italianizzandole, le parole inglesi consistency e inconsistency per
donotare l’ identità e la contradizione, in quanto esse esprimono bene i
concetti della presenza 0 della
mancanza dell’appoggio reciproco delle varie parti di un tutto, si rivela
inconsistente e contraditturio non è reale, la
Realtà dev'essere per forza consistente (pag. 139). Ma, si può qui domandare, se i concetti fondamentali
di cui si fa uso nell’esperienza
racchiudono contradizioni e se ciò che è
contradittorio non è reale, tuttociò che ci circonda e noi stessi siamo come a dire al di fuori di ogni
realtà, siamo non enti? No, risponde il
Bradley, noì e tutto il resto siamo, e
come tali siamo apparenze, vale a dire che abbiamo un certo grado di realtà. Il carattere
fondamentale del reale è dato da ciò,
che esso possiede ogni specie di apparenza, ma in forma armonica. Sicchè la
Realtà è una nel senso che esclude
qualsiasi contradizione e comprende tutte
le svariate apparenze fino a tanto che non si contradicono. Per conseguenza il Reale non può essere che
individuale e tale da abbracciare tutte
le «differenze in un’ armonia secondo
che questo è o no reale. La « consistency » significa in modo chiaro il fatto che ciascun elemento esige la
presenza degli altri per modo che è
reale quel termine che si connette, che è in relazione con tutto il resto. Qui si può porre la
questione: Ma i principii d'identità e
di contradizione per sè considerati implicano la connessione reciproca delle
varie parti di un tutto? Dal fatto che due termini non sono in contradizione è possibile dedurre che
sono in relazione reciproca e che sì appoggiano a vicenda? L'assenza di
contradizione può essere indizio di una
connessione, di una relazione, ma perchè questa
sia ammessa effettivamente, si richiede qualcos’ altro ; sì richiede
una determinazicne positiva, la quale
non ci può essere fornita che dalla
esperienza. Ritorneremo su questo punto quando parleremo del rapporto esistente tra realtà e possibilità, tra
l’esistenza e l’intelligibilità. Quì
vogliamo solo notare che non va confusa la funzione dei principii supremi della ragione (identità ecc.) quali
criteri per giudicare della realta e
della verita col loro ufficio quali postulati, esigenze, norme della conoscenza. comprensiva d'ordine
superiore. È a questo Uno-Tutto, a
questo Sistema, a questa Unità che supera le differenze, che vien dato il nome di Assoluto. Prima di determinare la natura e i caratteri
positivi e le manifestazioni
dell’Assoluto è bene soffermarci un momento per indagare da quali ragioni sia
stato indotto il Bradley ad ammetterne
l’esistenza : ricerca della più alta
importanza codesta in quanto per tale via noi penetreremo nel cuore della filosofia del nostro autore.
Tuttociò che in qualche maniera
racchiude contradizione non è reale, è
apparenza che può divenire reale solo allontanando da sè l'elemento contradittorio, vale a dire
cessando di essere determinatu in un
dato modo e trasformandosi in qualcos'altro : onde consegue che la realtà
dev'essere caratterizzata dall'assenza di contradizioni, dalla consistenza con sè stessa, il che può avvenire solo nel
caso che essa sia unità individua e
sistematica. Tuttociò però non implica che la Realtà effettivamente esista, ma
soltanto che, se esiste, non può
esistere che in tale maniera, sotto
questa condizione, che sia una e consistente: condizione che determina la possibilità, non l'attualità.
Ciò che è possibile è forse reale? Una
possibilità asserita, risponde l’ Autore
(pag. 513, 514), ha sempre un significato e finchè non sia contradetta o non appaia contradittoria,
qualifica il Reale, presentandosi sempre
accompagnata con qualche idea attuale: quando voi non avete che un'idea e di
essa non potete razionalmente dubitare,
siete nell’obbligo di affermarla, giacchè, è bene tenerlo a mente, qualsiasi
cosa serve a qualificare il Reale e
finchè una idea non appare inconsistente seco stessa isolatamente considerata,
o presa colle altre cose, è da riguardare vera e reale. A ciò sì aggiunga che la possibilità è sempre relativa e
implica sempre un inizio di attualità,
giacchè la possibilità assoluta o incondizionale equivale all’inconcepibilità o
impossibilità. Essa è data appunto da
ciò che contradice alla conoscenza positiva piuttosto che da ciò che appare
insufficientemente connesso con la
Realtà. Come si vede, occorre
determinare bene il rapporto esistente
tra pensiero e realtà, e insieme fissar bene il concetto che bisogna formarsi
della realtà e verità in genere. Ora al
Bradley sembra assolutamente inconcepibile un pensiero, per così dire, sospeso
in aria, che non sia connesso con una
qualsiasi forma del Reale, con uno de suoi aspetti o con una delle sue sfere. Per quanto ciò possa
sembrare un paradosso (pag. 366 e
segg.), è inammissibile che la realtà
sia circoscritta a ciò che esiste nello spazio e nel tempo: questa non è che una delle tante forme, delle
tante manifestazioni od apparenze della realtà; tanto è vero che ciò che è reale da un dato punto di vista, non lo è da
un punto di vista differente. Vi sono
tanti mondi, tante realtà quante possono
essere le prospettive da cui può essere guardato il tutto, 0° meglio, ciascuno dei suoi frammenti. Così vi
è il mondo dell’arte, come vi è il mondo della religione, della moralità e
via di seguito, e tutti questi mondi
sono differenti tra loro per modo che
ciò che è vero e reale in uno di essi non lo è del pari in un altro ed ogni idea appartenente a
questi singoli mondi qualifica in
qualche modo il Reale preso nel suo insieme. Il fatto immaginario qualifica la
Realtà alla propria maniera. Ciascun elemento occupa un posto nel sistema
totale. L'importante è determinare il
vero posto che gli compete, L'oggetto del nostro desiderio certo non esiste
attualmente, ma è sempre però riferito alla realtà ed è anzi tale riferimento che rende l’impedimento al
soddisfacimento del desiderio
incresciosissimo: ciò che io desidero non esiste per me attualmente, ma io sento vagamente che
è in qualche parte, in una regione, per dir così, lontana, per il che il suo non attuarsi in un dato momento
produge una tensione oltremodo
spiacevole. Va notato però che se quilsiasi idea può essere riferita alla realtà, d'altra
parte perchè ciò avvenga, è necessario
che la stessa idea sia più o meno
alterata (1), della necessità, del grado delle quali operazioni noi siamo d’ ordinario completamente all’
oscuro. In conseguenza di ciò il
Bradley fu tratto a discutere della
validità della celebre prova ontologica. Se s’identifica la realtà coll’esistenza spaziale e temporale
è evidente che dal fatto che una cosa si
presenta, per così dire, solo « nella
nostra testa » non consegue che essa esista realmente; ma lo stesso non si può dire quando si
ammette che qualsiasi idea qualifica in qualche modo la realtà; in questo (1) Op. cit. pag. 369. — Every idea can be
made the true adjective of reality, but
on the other hand (as we have seen) every idea must be, altered. More or less they all require a
supplementation and rearrangement. But of this necessity and of the amount of
it we may be totally unaware. We
commonly use ideas with no clear notion as to
how far they are conditional, and are incapable of being predicated down right of reality. To the suppositions
implied in our statements we usually are
blind: or the precise extent of them is, at all events, not distinctly realised...... To think is
always in effect to judge: and all
judgements we have found to be more or less true, and in different degrees to
depart from, and to realise, the standard (Aarmo niousness selfconsistency, inclusivness and
harmony). caso anche ciò che si presenta soltanto nella « mia testa » deve avere qualche punto di contatto col
Reale. Giova ricordare a tal proposito che una pura idea
separata da tutto il mondo reale è un’
astrazione, anzi vi ha dippiù: un'idea
non riferita in qualche modo alla Realtà è una
contradizione. Si tratta di vedere adunque in che maniera l’idea dell’assoluto possa esser riferita
alla realtà. Perchè un° idea qualsiasi
figuri come qualificazione della Realtà
occorre che essa sia armonica, completa, organicamente connessa col sistema totale, per il che deve
essere priva di qualsiasi elemento
contradittorio. Ora l’idea dell’ assoluto che è l’idea dell’ unità, della
totalità, della coerenza del sistema, da
una parte è inerente alla natura propria
del pensiero, tanto che si può dire che ne costituisca l’essenza e dall’
altra è contradittoria solo nel caso che essa
si consideri come non avente niente a che fare con la realtà ; invero aver l’idea dell’ unità, del
sistema assoluto e non riferirla alla
Realtà quando si è detto che il grado di
realtà si misura dal grado di armonia, di comprensività ecc. è assolutamente contradittorio. Se chi
dice pensiero dice sistematizzazione, e
se d'altro canto il pensiero quale
elemento integrante la realtà, è tanto più vero e reale quanto più è sistematico, armonico, completo,
non si può non affermare che il pensiero
o l’idea del sistema totale (Assoluto) è
il più reale di tutti. In questo caso l’idea è
cosiffatta che essa è spinta, per così dire, a completarsi nella esistenza : in caso contrario si rivela
contradittoria. L'idea dell’ assoluto,
dell’ unità ecc. non è un prodotto
accidentale, arbitrario dello spirito subbiettivo, ma è qual. cosa di essenziale allo spirito come spirito,
per il che sempre che non si voglia annullare il pensiero (e quindi in ultima analisi la realtà stessa), non si può
non renderla consistente. In sostanza
negare l’esistenza all'idea dello
assoluto equivale a dire che il criterio per giudicare del grafo di verità e realtà — che è quello
appunto dell'armonia e della coerenza —
non è reale; o, in altre parole, negare
la realtà dell’ assoluto equivale a dire che
il pensiero non è reale, che esso brancola nel vuoto addirittura, non
riferendosi e non completandosi nella realtà.
Pensiero e realtà essendo parti di un tutto, si completano a vicenda per modo che partendo da un lata si
è costretti a muoversi per forza verso
il lato complementare, Da tal punta di
vista la prova ontologica va considerata come
l'inverso di quella cosmologica. Una volta che il Reale è per natura qualificato dal pensiero esso
deve per qualche via possedere ciò che
implica l'essenza propria del pensiero.
Il principio della prova ontologica allora si rivela erroneo quando si crede di poter con esso dimostrare
che a qualsiasi idea formantesi nello
spirito individuale debba corrispondere senz’ altro un contenuto reale
obbiettivo; nulla di più falso e
inesatto; qualsiasi idea caratterizza la realtà a patto che essa venga profondamente mo
lificata cou particolari processi (addition, qualification, rearrangement,
supplementation ecc.). L'idea dell’Assoluto che isolatamente considerata è inconsistente, è tratta a completarsi per
mezzo dell’ esistenza L'esistenza non è la realtà, conchiude il Bradley, comunque la realtà deve esistere ;
l’esistenza è una delle forme di
apparenza del reale. Raccogliendo le
fila, noi possiamo dire che per il Bradley
l'Assoluto in tanto è ammissibile in quanto è riconosciuto come
possibile (giacchè la possibilità implica inizio di attualità) e insieme come
pensabile. Ciò che è conforme alla
natura propria del pensiero (armonia, comprensività) è sempre in qualche modo reale. Sicchè il
criterio della realtà è in ultima
analisi posto nel pensiero. Nulla è assolutamente erroneo o falso, ma si
distinguono numerosi gradi di realtà e
verità in rapporto alla maggiore o minore armonia e comprensività del contenuto ubbiettivo.
Come si vede, la questione ora si riduce
alla ricerca del rapporto esistente tra
pensiero e realtà. Ogni pensiero, anzi ogni fatto psichico (imaginazione, desiderio ecc.) caratterizza
in qualche modo la realtà vera e
propria? Stando al Bradley stesso, il pensiero
ha la sua radice nella disgiunzione del what o contenuto intel» ligibile (predicato) dal that o esistenza,
reale immediatezza sensoriale
(soggetto), epperò nasce da un disperdimento dell’unità reale concreta, per
raggiungere la quale il pensiero deve
annullare sè stesso; dal che consegue che ogni predicato o contenu‘o intelligibile, ogni idealità,
ogni « what » implica sempre una realtà,
un « that » da cui è stato distaccato; e
l'errore, la falsità sta solo in questo, nel congiungere un what ed un that che non si corrispondono. Nel
Tutto, nell'Assoluto ogni what trovando il suo that cessa ogni possibilità di
errare e tutto appare giustificato perfettamente. Non vi è caso duuque che un pensiero per
quanto strano si riveli considerato da
un dato punto di vista o in rapporto ad una data regione del Reale, non abbia
un punto di contatto colla realtà una
volta che, dopo opportune modificazioni
e trasformazioni, è introdotto nel regno dell’ Assoluto. Solo ciò che è
contradittorio è falso, tutto il resto è
in qualche modo e in qualche grado reale. I cardini della concezione bradleyana
in ordine alla natura della realtà sono: 1° qualsiasi idea qualifica il
reale; 2° l’idea dell’assoluto quale
sistema armonico, quale indivi dualità è cosiffatta che deve completarsi
nell'esistenza. Ora tali affermazioni
sono state rese inoppugnabili dall'autore ?
Qualsiasi idea e quindi qualsiasi giudizio noi facciamo, nota l’autore, deve avere un punto di
riferimento nella realtà: e ciò perchè
un pensiero che non serva a caratterizzare in qualche modo il reale è una
contradizione; il pensiero in tanto è
pensiero in quanto si rapporta alla
realtà: dal che però non bisogna trarre la conseguenza che ogni singola idea si riferisca ad un
corrispondente obbietto; l'idea bisogna
che sia prima sottoposta a processi
d'ordine speciale atti a trasformarla in modo da essere essa armonica col sistema totale. Si può dire
pertanto che ogni idea contenga una
parte di verità e di realtà, parte di
verità e di realtà che sarà tanto maggiore quanto minore sarà la trasformazione a cui dovrà
essere sottoposta | perchè armonizzi
coll’insieme. Sorge spontanea pertanto qui
la domanda: Quali sono e in che propriamente consistono ì processi atti a dare un contenuto
obbiettivo a qualsiasi pensiero? Il
Bradley si contenta di enumerarli, denominandoli; sono processi di
rearrangement, di addition, di supplementation ecc.: il che certamente non
equivale a risolvere la questione concernente l’obbiettività del pensiero.
Ammesso che l’obbiettività non si possa
ridurre all'esperienza ordinaria e
immediata sorge la necessità di determinare entro quali limiti e fino a che punto possa essere
ascritta l’obbiettività ad un qualsiasi
contenuto psichico o ideale e tale necessità
non è davvero tolta via dalla formola del Bradley. Kant In tal guisa si
idealizza « l’esperienza » in modo da
congiungere in una sola realtà il presente e il
passato e da assegnare, per così esprimerci, alla detta esperienza un posto nell'ordine temporale
fisso. Una volta che l’anima non è
oggetto di esperienza, nè un dato (essendo costruita e consistendo nella
trascendenza di ciò che è attuale e
presente), ed una volta che il suo contenuto non è uno col suo essere, è
evidente che non può venire considerata
come qualcosa di reale, ma come una
specie di astrazione e quindi come una forma dì apparenza. In altri termini la posizione del Bradley
rispetto all'anima è la seguente. Egli muove dal principio che la Realtà vera e quindi l'Assoluto è controdistinto da
questo che in esso e solo in esso
l'ideale coincide coll’esistente, l’intelligibile col dato. Il mondo invece si
presenta come il risultato della
formazione di centri finiti di sentimento, per
mezzo dei quali è resa possibile la scissione e la contrapposizione
dell’ elemento intelligibile alla corrispondente esistenza, nel che propriamente consiste ogni
apparenza. Idea e fatto non possono
formare una cosa sola finchè non
scompare ogni finitezza ; chi dice finitezza infatti, dice dipendenza e
chi dice dipendenza dice possibilità che una
data coscienza venga turbata da qualcosa d'estraneo, vale a dire possibilità che ad una esistenza si
congiunga un contenuto diverso da essa.
Finchè si rimane quindi nel dominio del
relativo e del finito il processo di idealizzazione non può che crescere e
svolgersi. Esso però si completa con delle costruzioni, le quali lungi
dall’essere qual cosa di reale, figurano
come le maniere di disporre o di
aggruppare i fatti psichici o gli elementi ideali in cui propriamente
consiste la vita psichica. Non esiste adunque
l'anima o lo spirito, ma bensì fatti, anzi, meglio, fenomeni psichici i quali hanno la loro radice nel
processo di idealizzazione, di distacco dell’idea dal fatto, al che si
riduce tutto l'accadere nel tempo. I
«detti fatti psichici non sono la
realtà, ma la sua apparenza. Agli occhi del Bradley non è a parlare di una vita dell'anima, e ciò che
ordinariamente si battezza per tale è la legge di distinzione e di aggruppamento,
sotto il cui dominio stanno gli elementi ideali. La vita del Tutto si svolge attraverso le
apparenze, vale a dire attraverso la
disgiunzione dell'idea dal fatto operata
da quei centri finiti di esperienza psichica, i quali appunto in forza della loro «finitezza » sono spinti
a trascendere la loro esistenza attuale,
appropriandosi un contenuto estraneo.
Ora tale operazione non può durare indefinitamente, giacchè in tal caso sarebbe
sfornita di ogni valore e mancherebbe di
un punto di appoggio per la serie intera:
pertanto cosa succede? che lo svolgimento della serie dei contenuti intelligibili viene arrestato ad un
certo punto e con essi viene costruito
un qualcosa che è designato come la
causa da cui proviene tutta la serie. È evidente che tale costruzione è puramente ileale, tanto è
ciò vero che le proprietà di continuità
ed identità ad essa assegnate non soi0
che puramente prodotti del pensiero riflesso, idee quindi e non fatti. Delle due l'una; o
l’anima va considerata come un fatto ed
allora deve avere un posto nella serie del
tempo, deve essere un obbietto tra gli altri obbietti e poichè (sempre secondo il Bradley) il tempo e le
cose in esso svolgentisì non sono che apparenze, anche l’anima è un fenomeno;
ovvero l’anima è posta fuori della serie temporale ed allora si rivela sfornita di qualsiasi
contenuto e quindi si riduce al nulla,
Per formarsi poi un concetto per quanto
è possibile chiaro della detta costruzione ideale forse è bene rappresentare la cosa con un esempio: si
pensi un po’ a ciò che avviene nei
sogni: il punto di partenza, poniamo, è
un sentimento con tono piacevole o dispiacevole preponderante (a cui fa
riscontro nella questione presente il
sentimento fondamentale): è intorno a questo nucleo primìtivo che la
fantasia dispone una quantità di rappresentazioni che finiscono col costituire
una cosa o un evento atto a dar ragione
appunto del sentimento primitivo. Il
processo con cui viene costruito il corpo non differisce sostanzialmente da quello che ci dà l’anima:
la differenza sta tutta qui, che nel
primo caso la costruzione ideale è fatta
con elementi più astratti, nei quali si prescinde da qualsiasi interiorità e che sono posti l’uno
fuori dell'altro. Non bisogna
dimenticare che la connessione, la sintesi dei
fatti psichici in tanto è possibile in quanto è riconosciuta la loro identità interiore: essi cioè possono
essere collegati in modo da formare un
insieme, perchè sono identici, mentre la
congiunzione di ciò che è corporeo e materiale è resa possibile dall'intervento di un universale
estrinseco che sono le leggi naturali,
le quali però sì applicano ai casi identici e
simili. Anche qui adunque interviene il principio di identità, pur avendo un valore subordinato a quello
delle leggi. E di qui l'impossibilità di
penetrare l'essenza della natura. Anima
e corpo sono entrambi fenomeni, entrambi modì
di apparire della Realtà, colla differenza che la prima presenta un
grado maggiore di verità che non l’altro. Entrambi sono (ci si passi
l’espressione) eiezioni del foco
centrale del Reale; ma la prima è più significativa, perchè più vicina al Reale stesso. Al Bradley non poteva sfuggire l’obbiezione
che si può fare al suo modo di concepire
l’anima e il corpo: la prima, infatti, è
considerata come il risultato di una costruzione ideale; ma questa non presuppone alla sua volta
l’anima? Allo stesso modo il corpo è
considerato come un prodotto della natura,
ma questa viceversa non può avere consistenza senza la cooperazione del corpo. Ora il nostro
filosofo risponde che siffatti circoli
viziosi che si presentano ad ogni pie’ sospinto
alla mente del pensatore, sono appunto la miglior prova che siamo nel dominio delle apparenze e non
della realtà. Dicemmo disopra che la
vita del Reale si svolge attraverso le apparenze, le quali hanno in fondo la
loro radice nell'esistenza di molteplici
centri finiti di esperienza psichica: ora nulla di più legittimo che domandare
il come e il perchè dell'apparenza in
genere. A tali quesiti il Bradley
confessa di non saper rispondere. E allora si possono fare altre domande: 41°
se la Realtà è un sistema individuale
comprendente tutto in sè, che concetto dobbiamo - formarci del questo (this) e
del mio (mine)? 2° Da che cosa siamo
autorizzati a trascendere il proprio io, il
proprio centro di sentimento e ammettere quindi una realtà universale in cui il mio sia contenuto?
| 1° Il questo qui e il mio esprimono
il carattere immediato del sentimento
che sî sente e non di quello che si può
studiare idealizzandolo, separandolo, cioè, dalla sua esistenza attuale, e insieme esprimono il modo di
presentarsi della immediatezza in un centro finito. Ammesso che nella
realtà significato ed esistenza
coincidono, il questo, possedendo lo
stesso carattere, va considerato come un centro di realtà immediata. Senonchè qui va notato che
l'immediatezza della Realtà totale non
va identificata con quella del questo,
giacchè nel primo caso l'immediatezza comprende in sè ed è superiore alla mediazione, in quanto
sviluppa ed unifica le distinzioni e le
relazioni già formate, mentrechè nel
«questo » l'immediatezza nasce dacchè le distinzioni non sì sono ancora prodotte. Nel sentimento
fondamentale i vari elementi sono
congiunti, e non connessi, onde il suo
contenuto si presenta instabile e tendente essenzialmente alla scomposizione
(disruption), tendente quindi per
propria natura a trascendere l’esistenza attuale. Ogni singolo centro però mostra una parte
impenetrabile, un fondo individuale
incomunicabile e indecomponibile per cui
passando dal mondo ideale a quello del senso, si prova un non so che di vivo e di fresco. Il che prova
ancora una volta che la Realtà non è un
puro sistema intellettuale, un organismo
di idee, ma bensì una individualità concreta
Non è a credere che l’opposizione delle varie individualità, dei vari this e mine sia insuperabile,
giacchè niente vieta che vari sentimenti
possano fondersi in una cosa sola
nell’Assoluto. E se la Realtà ultima non può consistere solo in un aggregato di qualità (predicato),
d'altra parte è innegabile che Essa non
presenta alcun aspetto che non possa
essere in qualche modo distinto dal resto e
qualificato o idealizzato. 2°
Accanto al carattere di immediatezza si riscontra in ogni singolo centro di sentimento la tendenza
a trascendere 216 IL PROBLEMA
FILOSOFICO la propria esistenza, e ciò
perchè, essendo cesso finitu e
trovandosi in relazione con qualcosa di esterno, possiede contenuti che non sono consistenti col dato e
che pertanto si riferiscono, accennauo
ad altro. È la natura interiore del this
che lo spinge a sorpassare sè stesso, estendendosi verso ‘una totalità più elevata e
comprensiva. Il suo carattere di esclusività poi implica il riferimento a
qualcosa di estrinseco ed è una prova
del necessario assorbimento
nell’Assoluto. E appenachè cominciano a delinearsi delle distinzioni nel sentimento è evidente che la
sua assolutezza e immediatezza
scompare (1). La caratteristica vera
delle vedute del Bradley si riscontra indubbiamente nel valove da lui
attribuito al Vero, al Bello, al Buono.
La Realtà suprema è l'Assoluto, il quale vive,
opera e si muove nelle apparenze; queste che costituiscono l'Universo vero e proprio, hanno la loro
origine nella separazione dell'idea dal
fatto: separazione che si può seguire
attraverso le varic sfere e province del Reale. Ed è a seconda che l'unione dell’elemento
intelligibile col dato, a seconda che
l'assunzione dell'apparenza al dominio
della Realtà richiede una trasformazione maggiore o minore, perchè possa
dar luogo ad un sistema armonico e CITAZIONE
DA S. DI BRADLEY IN INGLESE: I DENY THAT THE FELT REALITY IS SHUT UP AND
CONFINED WITHIN MY FEELING. FOR THE LATTER MAY, BY ADDITION, BE EXTENDED BEYOND ITS OWN PROPER
LIMITS. IT MAY REMAIN POSITIVELY ITSELF AND YET BE ABSORBED IN WHAT IS LARGER. THE MINE – Harrsison, I, me, mine -- DOES NOT
EXCLUDE INCLUSION IN A FULLER TOTALITY. comprensivo insieme, che si è
autorizzati a parlare di un grado
maggiore o minore di realtà contenuta nelle apparenze. Son questi i canoni
fondamentali della concezione
bradleyana: è da aspettarsi che alla stregua di essi siano valutati il Vero, il Bello e il Buono. Che cosa è la verità? La verità è pura
apparenza, risponde il nostro Autor::
essa implicando la conoscenza, e questa la
funzione giudicatrice, e l’ultima alla sua volta necessariamente la
disgiunzione del what (predicato) dal that (soggetto), è chiaro che non può non essere apparenza:
tanto è ciò vero che raggiunta (col
riunire l'elemento intelligibile coll’esistenza) la vera e propria realtà,
raggiunta, per così dire, la vita del
Reale, è più lecito parlare di verità, ha più
senso tale espressione? L'inconsistenza essenziale della verità può
essere stabilita così: fin tanto che vi è differenza tra il dato e il significato o contenuto
ideale, la verità non è realizzata in
medo chiaro e completo: e tostochè la detta differenza scompare, la verità ha
per ciò stesso cessato di esistere. Ma
qui si può osservare: Si è riletto
innanzi a proposito della realtà dell’Assoluto che a tale affermazione si è per intima necessità
condotti dalla idea che noi abbiamo
dell’Assoluto stesso, dalla conoscenza
assoluta che in certo modo condiziona e rende possi. bile ogni altra forma di conoscenza e di
verità finita — quest'ultima sempre
ipotetica e condiziona‘a rispetto a
qualcosa di relativamente ignoto —, ora, come è possìbile accordare
insieme l'affermazione dell’esistenza della
conoscenza assoluta con l’altra che la verità e. quindi la conoscenza è apparenza, perchè essenzialmente
inconsistente e contradittoria? Il Bradley risponde che quando si parla di
conoscenza assoluta non bisogna correre col
pensiero ad una forma di conoscenza in cui si abbia la perfetta e completa compenetrazione del
reale, l’ identificazione della verità colla realtà, ma bensì ad una forma di conoscenza vaga, indeterminata, potenziale
o virtuale intorno al Tutto, che vale
come incitamento alla conoscenza
particolareggiata. Nella conoscenza del Reale preso nel suo insieme permane la differenza tra il
predicato (verità o conoscenza) e il soggetto
(Realtà), per modo che quello figura
sempre come condizionato da quel qualcosa di più, che è nel soggetto e non nel predicato, Il
tipo e l'essenza in altri termini non
possono giammai raggiungere ed esaurire la realtà, giacchè l'essenza realizzata
è troppo per essere semplice verità o
conoscenza e l'essenza non realizzata o astratta è troppo poco per essere
reale. Sicchò anche l’assoluta verità in
fin dei conti da un certo punto di vista
può essere considerata come erronea (pag. 544).
Va notato però qui che la verità assoluta intesa nel modo anzidetto non è intellettualmente
correggibile, giacchè essa può esser
corretta e svolta soltanto trascendendo l’intelletto, nessuna alterazione di
questo potendoci dare la realtà ultima.
Può essere modificata solo tenendo conto di tutti gli altri aspetti dell'esperienza, con che la
natura propria della verità viene a
scomparire. La verità finita per contrario è
sempre modificabile intellettualmente, potendo sempre essere estesa,
armonizzata e completata mediante l’attività
del pensiero; la verità finita insomma si può presentare come condizionata da un'altra verità d'ordine
superiore. Anche il Bello va considerato
a senso del Bradley come apparenza, in
quanto esso racchiude del pari contradizione e quindi separazione od
opposizione addirittura tra l’idea e
l’esistenza, tra il « what » e il « that ». Considerando il bello per sè indipendentemente dalla
relazione che esso necessariamente
implica con un soggetto che lo contempla”
noi troviamo che esso racchiude contradizione per questo, che mentre da una parte esige la piena
concordanza e l'unificazione del
contenuto col dato, dall’altra parte ciò
riesce impossibile, trattandosi di un oggetto finito in cui i due aspetti del criterio della realtà —
l’armonia e l’estensione o la comprensività — sempre divergono almeno parzialmente.
Invero nel bello o l’espressione è imperfetta e
inadequata, ovvero il contenuto espresso è troppo ristretto, troppo meschino; in entrambi i casi vi è
differenza di armonizzazione o di comprensività, vi è discrepanza
interiore e quindi un grado minore di
realtà. Il contenuto del bello — che già
in quanto determinato da ciò che è al di fuori,
non ha la sua ragione di essere in sè — da un canto tende a trascendere la sua estrinsicazione attuale
e dall’altro in questa stessa nel
maggior numero «dei casi non può non
rivelarsi di molto inferiore alla Realtà. | Ma il bello non può essere considerato
indipendentemente dal soggetto che lo
contempla, onde si può dire che è
determinato da una qualità subbiettiva e quindi estrinseca ad esso. Dovendo essere rappresentata e dovendo
insieme produrre un sentimento nel subbietto, la bellezza viene al essere caratterizzata internamente da ciò che è
posto al di fuori. Ciò posto, come non
parlare di apparenza quando la vita del
bello implica una relazione estrinseca ? Vero è che la relazione può
sparire col parziale o totale assorbimento dell’io senziente e percipiente, ma per codesta via
la bellezza come tale viene a
svanire. Passiamo al Buono — È anche
questo un'apparenza? Il Bradley non
esita a rispondere di sì; anch'esso, infatti,
come la verità, implica disgiunzione e quindi sforzo per unificare
l’esistenza con l’idea ; con questa differenza che nella verità noi partiamo dall’esistenza per
completarla idealmente, rendendola intelligibite, mentrechè nel buono noi cominciamo dall'avere un'idea di ciò che è
bene e dipoi ci sforziamo di attuarla o
di trovarle attuata nell'esistenza.
Pertanto il buono come il vero implicano separazione del « what » dal « that » e un processo nel
tempo. Le contradizioni presentate dal
buono in genere e dalla moralità in
ispecie sono numerose. Tra le altre meritano
di essere ricordate le seguenti: 1° l'essenza del buono è riposta nella disgiunzione dell'idea dal
fatto, disgiunzione che nel corso del
tempo non scompare che per riapparire di
nuovo; ed anzi giova notare che scomparendo essa definitivamente, non si avrebbe più il buono
nel vero senso della parola. — 2° Da una
parte il buono appare atto a qualificare
ciò che non è sè stesso, in quanto la bellezza,
la verità, il piacere, le sensazioni possono tutte essere considerate come cose buone, ma dall'altra
parte il buono non è tale da esaurire la
natura della totalità delle cose,
ciascuna delle. quali contiene qualcosa di proprio ; onde consegue che il buono non è nel Tutto e che
il Tutto come tale non è buono. — 3°
Inteso il buono come la realizzazione della perfezione, e riposta quest’ultima
nell’attuazione dell'armonia e insieme
della comprensività di un sistema, sì
presenta la questione se tra perfezionamento dell’individuo o affermazione
dell'io e perfezionamento della Collettività o sacrificio dell'individuo — che
rappresenta solo una parte del Tutto —
non vi sia mai contradizione, nel qual caso
è necessario determinare se il buono sia riposto nell’affermazione
dell'individuo o nel suo sacrificio. — 4° Tanto i fini puramente egoistici quanto quelli altruistici
suno inconseguibili ; giacchè l'individuo per sè non può divenire centro di un sistema armonico e l’attuazione
dell'ideale sociale non può avvenire in
modo completo fin tanto che persiste
l'affermazione del proprio io; e nel caso che l'individuo venga assorbito nel Tutto, non è lecito più
parlare di Buono. | La moralità stessa considerata come
l’identificazione del volere individuale
coll’idea formatasi dall’individuo della
propria pertezione implica contradizione; il volere individuale infatti
è sempre determinato da qualcosa di estrinseco,
è spesso relativo a contingenze naturali e dipendenti da fatti che non sono sotto il dominio dell'attività
conoscitiva individuale; dal che cousegue che la moralità stessa è spinta
a trascendere sè stessa in qualcos'altro
che non è più moralità; questo
qualcos'altro è la religione, per la quale tutto è espressione di una volontà suprema e per la
quale quindi tutte le cose sono
buone. Se non che dal punto di vista
religioso l’io finito deve
perfezionarsi, deve cioè conformare il volere individuale al Bene supremo; in caso contrario il male
permane ed è qui riposta la
contradizione della religione, ord’essa si rivela anche apparenza e non realtà. Il punto
centrale della religione infatti, è la fede non meramente teoretica, ma
pratica; per il che essa da una parte
implica il credere puro e semplice e
dall'altra l’operare come se non si credesse. La sua massima è: Esser certi della vittoria finale del Bene
e nondimeno operare come se tale certezza non esistesse. Tale discrepanza
interiore pervade tutto il campo della religione. Giacchè la religione è anche apparenza si può
sperare salvezza nella Filosofia ? Se la
religione fosse nient’ altro che una
forma di conoscenza, la risposta non potrebbe ese sere che affermativa e per quel tanto che la
religione contiene di conoscenza essa
passa e in certo modo si'completa, consumandosi, nella filosofia, ma l'essenza
delta religione non è riposta nella conoscenza come d’altra parte non è riposta nel puro sentimento, ma piuttosto
nel tentativo di esprimere la realtà del
Bene per mezzo deile varie forme del
nostro essere. Da tal punto di vista I religione è qualcosa di diverso e di più elevato della
filosofia. Del resto la filosofia avendo
per obbietto le verità ultime, e la
verità in qualsiasi forma essendo apparenza, essa non può non essere risguardata anche come
apparenza, La sua debolezza è posta in
ciò, che essendo un prodotto dell’attività intellettuale, non può non
presentarsi quale manifestazione unilaterale e quindi inconsistente
dell’Assoluto. La Realtà deve
necessariamente soddisfare tutto il nostro
essere; le nostre esigenze fondamentali in ordine alla conoscenza ed
alla vita, in ordine al bello ed al buono devono in essa trovare il loro completo appagamento.
Il che non può accadere che per via di
una esperienza immediata e concreta
nella quale tutti gli elementi dell'universo, sensazione, tono emozionale,
pensiero e volere siano fusi in un
sentimento comprensivo. E qui va notato che per
gli esseri finiti è certamente impossibile sperimentare l'Assoluto : in altri termini è impossibile
costruire la vita dell'’Assoluto nei
suoi particolari, avere un'esperienza specifica della sua costituzione: ciò non
esclude però che si possa avere una
certa idea astratta e incompleta della sua
natura. E le sorgenti di tale conoscenza sono: 1° Il sentimento in cui
noi sperimentiamo un tutto complessivo che
da una parte accenna a differenziamenti, mentrechè dall’altra non
presenta relazioni e qualità nettamente distinte. É questa esperienza primitiva che per quanto
imperfetta, è sempre valida a suggerirci
l'idea generale di un'esperienza. totale
e complessiva in cui pensiero, volere e sentimento siano fusi insieme da formare una cosa sola.
2. Le differenziazioni e le relazioni di qualunque specie siano, una volta sorte nella coscienza, mostrano la loro
tendenza accentuata ad essere assorbite
nell’Unità, nel Sistema. 3. Le idee del
buoro, del bello ecc., menano per vie differenti al medesimo risultato, in quanto più o meno chiaramente
implicano l’esperienza di un Tutto che trascenda le relazioni e le differenziazìioni.
Con questi mezzi noi possiamo formarci l’idea
cenerale di una intuizione assoluta în cui, eliminate le distinzioni
fenomenali, il tutto si presenta in molo immediato e cenerale. In conclusione, Ja conoscenza reale
e positiva dell’Assoluto è fondata tutta
sull'esperienza psichica, una volta che
questa venga estesa, armonizzata e completata. CITAZIONE DA SARLO IN INGLESE: “MY WAY OF
CONTACT WITH REALITY IS THROUGH A LIMITED APERTURE, FOR I CANNOT GET AT IT
DIRECTLY EXCEPT THROUGH THE FELT THIS, AND OUR IMMEDIATE INTERCHANGE AND
TRANFLUENCE TAKES PLACE THROUGH ONE SMALL OPENING. EVERYTHING BEYOND, THOUGH
NOT LESS REAL, IS AN EXPANSION OF THE COMMON ESSENCE WHICH WE FEEL BURNINGLY IN
THIS ONE FOCUS. AND SO, IN THE END, TO KNOW THE UNIVERSE, WE MUST FALL BACK UPON OUR PERSONA EXPERIENCE
AND SENSATION. – GRICE, -- BRADLEY, citato da Grice – Studies in the way of
words --. Tali sono le ilee
fondamentali emesse dal Bradley circa la
Realtà e l'Assoluto, idee che sono ben lontane dal formare un vero sistema. Nel
sottoporle ad un rapido esame critico
nvi non scenderemo ad. analisi minuto e partico-, lareggiate, ma mireremo a
determinare il valore e il significato dei punti salienti della dottrina,
volgendo uno sguardo sintetico
all'insieme, Cominciamo dal fissare quale
è il punto di vista e quale il procedimento del filosofare del Bradley. Il filosofo inglese non ha preso
le mosse nè dall'esperienza volgare, nè
da quella propriamente scientifica, non è partito, cioè, da alcun ordine di
fatti, ma sì è, per così dire, chiuso
nel suo pensiero ed alla stregua delle
leggi di questo ha giudicato delle idee fondamentali, ordinariamente ammesse dagli scienziati e dai
filosofi. Egli non fa che passare a
rassegna e sottoporre ad esame i punti
di arrivo e di fermata dei suoi predecessori e dovunque riscontra contradizione, pronuncia la
sentenza : Tuttociò è apparenza, non
realtà. Parrebbe che egli prima di tutto
dovesse approfondire la nozione di apparenza e quella di realtà, una volta che egli pone come base
del suo filosofare la distinzione appunto dell'apparenza dalla realtà. Che cosa è l'apparenza? Qual'è la sua
origine? Quali i suoi presupposti ? sono
questioni che non possono essere
trascurate da chi voglia filosofare sul serio. Dire semplicemente :
tuttociò che non ‘è consistente o non si mantiene identico con sè stesso,
tuttociò che si rivela contradittorio è apparenza, è dire pressochè nulla. Che
tuttociò che racchiude contradizione non sia reale, non v'è chi possa metterlo in dubbio: ma da dir ciò ad
affermare che il contradittorio implichi
apparenza molto vi corre. Egli, è vero,
ha affermato che l'apparenza è controdistinta
da questo carattere, che la contradizione in essa esistente può essere risoluta in un ordine superiore e
più elevato di esperienza, ma ognuno
comprende che finchè non sì aggiunge altro, non vi è ragione di dichiararsi
soddisfatti. Si può ad esempio
domandare: È lecito parlare di apparenza quando non si ammette un soggetto a
cui la Realtà appare e quando l’unica
via per cui la Realtà stessa appare — centro di sentimento, esperienza psichica
ecc. — è pur essa apparenza ? Il movimento, il cangiamento, lo spazio, il
tempo, l'attività, l'io, la cosa ecc.,
si dice sono apparenze: ma qual'è la
loro origine? Perchè ci appaiono con tali e tali altre proprietà ?
Ognuno intende che finchè non si sarà dato ragione di ciò, nulla di positivo e
di determinato è lecito affermare. E qui
è bene notare che la più parte delle contradizioni riscontrate dal Bradley
hanno la loro origine nel fatto che egli sostantiva i processi e le attività, nel fatto che
reputa una cosa fissa rigida, ciò che,
essendo continuo, incessante scorre. — Ora ciò che è continuo non può essere misurato completamente che
mediante il calcolo infinitesimale, e l'
infinitesimo non essendo una quantità finita, non è possibile cogliere l'istante in cui le
condizioni del presentarsi della
contradizione veramente si verifichino, in cui cioè la
dimostrazione per contradictionem sia
sul serio applicabile. Così il movimento tra
due punti dello spazio infinitamente prossimi avviene sempre nell’intervallo
tra due momenti infinitamente prossimi, cioè mai il mobile è in due luoghi nello stesso tempo, mai in due
tempi nello stesso Bradley presenta la Realtà come un sistema o inoltre pone come criterio per decidere del grado di
realtà l’armonia, la comprensività, la consistenza reciproca delle parti componenti un tutto. È evidente che chi
dice sistema, armonia, consistenza ecc. dice organismo e chi dice organismo dice relazione, interdipendenza
degli elementi; ora l'Autore avendo
affermato che la relazione è qualcosa
d'inintelligibile, come mai può porre la stessa relazione quale criterio della realtà e intelligibilità
e insieme presentare la realtà stessa come costituita da un insieme di relazioni ?
Le relazioni certamente implicano l’esistenza di un sistema: ma da ciò
non si può dedurre che esse in genere
siano qualcosa d’inintelligibilie. Il fatto è che il Bradley considerando a parte ed isolatamente ciascun
concetto fondamentale (qualità,
relazione ecc.), fa presto a riscontrarvi degli elementi contradittori. Tale
procedimento è erroneo; i vari concetti
vanno messi in connessione tra loro in
modo da integrarsi a vicenda. Che cosa
è la Realtà ? È l’esperienza, risponde il filosofo inglese. Di qui la necessità di domandare: E
che cosa é luogo, ma sempre la serie
dei punti e dei momenti si svolge con
perfetta corrisponlenza nella continuità del movimento (Cfr. Masci, Un Metafisica antievoluzionista. Napoli
1887). Lo stesso ragionamento può esser
valido a dimostrare la falsità dell’affermazione che la causazione non esiste
per questo che non è ammissibile nè un azione
causale continua nè una discontinua, data la divisibilità infinita
del tempo. E la difficoltà che l'Autore
prova ad ammettere il continuo dipende
dacchè non pone come punto di riferimento la coscienza in generale, Di ciò fu discusso disopra. l'esperienza
? Dall’insieme dell’opera del Bradley pare si
possa ricavare che per lui l’esperienza è data dal complesso, dalla totalità della nostra vita psichica,
prima che in questa sia sopravvenuta alcuna distinzione e
differenziazione. Noi sentiamo di
esistere, sentiamo di vivere; è in questo
sentimento primitivo che è riposta l’esperienza immediata, la quale poi è l’unica via per cui noi
possiamo penetrare nel Reale. Prima di
ricercare quale concetto dobbiamo
formarci di tale sentimento notiamo una contradizione in cui è caduto l’autore; mentre egli afferma
recisamente che la Realtà si riduce
all’esperienza psichica, alla « sentience »,
non meno recisamente e ripetutamente afferma che tutti i fatti psichici non sono che apparenze,
perchè tutti involgono separazione del « what » dal « that, » tutti
tendono a trascendere sè stessi. Non
dice egli che la Realtà si riduce all’unificazione e fusione dei vari fatti
psichici, unità e fusione che noi non
conosciamo e non possiamo neanche
imaginare, data la trasformazione che subiscono i vari elementi mediante l'unificazione? Ora, come
si può ad un tempo dire che la Realtà è
l’esperienza ? (1) Se l’io empirico —
che è poi Ja medesima cosa dell'esperienza psichica presa nel suo insieme — non
è reale, come mai si può affermare che la Realtà è l’esperienza psichica ?
Inoltre come sì può mettere d’accordo
l’asserzione che il contenuto della
Realtà è la sentient experience (sentimento) con l’altra che la Realtà risulti dalle attinenze, dalle
relazioni che una cosa ha con le altre
in modo che quanto maggiori son queste tanto
maggiore è il grado di realtà attribuibile alla cosa stessa, chè in
sostanza il criterio della realtà posto nell'armonia e nella comprensività (inclusivness, harmony), non
dice altro? Il sentimento poi inteso
come l’insieme della vita psichica in
cuì nessuna distinzione sia comparsa di io © non io, di soggetto ed
oggetto si presenta come qualcosa di così vago
ed indeterminato — di subbiettivo e di individuale —, che non si riesce a comprendere come possa valere
a fornirci una certa idea di ciò che sia
la Realtà ultima, la Realtà, diremmo,
ontologica. Esso già implica sempre il rapporto
del soggetto con qualcosaltro, rapporto che è condizione essenziale della sua origine, comunque
siffatto rapporto non sia avvertito come
tale e insieme implica l’ esistenza di
rappresentazioni, di imagini poste di rincontro o almeno distinte dal soggetto. Inteso quale
cenestesi, vale a dire qualche risultato
finale di una quantità di sensazioni organiche provenienti dai vari organi,
ovvero infine come il grado infimo di
psichicità, come sensazione e impulso iniziale ed elementare, non può mai
essere presentato quale oggetto di
esperienza atta ad esprimere la Realtà (1). A
volte si direbbe che il Bradley prenda il sentimento come quel qualcosa che rende attuale un
determinato contenuto psichico, ma, come
tale, essendo qualcosa di eminentemente
(1) Notiamo qui come per il nostro Rosmini il sentimento proviene dal rapporto del principio senziente (che può
essere considerato dal punto di vista
del Bradley una sostanzializzazione del « that »), col termine esteso che alla sua volta può essere
considerato una sostanzializzazione del « what ». Per il Rosmini, si noti bene,
il principio senziente e il termine
esteso per sè considerati, separati l'uno dall'altro, erano astrazioni non
altrimenti che il what e Îl that. Vedi.
DE SaRLO : Le basi della Piscoloyia secondo Rosmini, Roma. subbiettivo
ed individuale (individuum ineffabile) e avendo
un contenuto particolare non può essere considerato quale simbolo di quella unità totale in cui il «
what » coincide col « that » e in cui
consiste la Realtà ultima ed obbiettiva. Da tal punto di vista il sentimento
presenta tutte le contradizioni
dell’esperienza sensibile. Non vi è via
d'uscita: se si vuol considerare la Realtà
come null'altro che la sentience, occorre considerare come reale l'io empirico quale si rivela per via
del sentimento; occorre però sempre
determinare e precisare la natura del
sentimento. Notiamo qui che l’indeterminatezza del significato, la variabilità e
contradittorietà del valore attribuito all’ io dipese sempre da ciò che si
confuse l'io empirico fenomenico con la coscienza in generale (Io nonmenico, se
così piace), e dacchè si credette di poter riporre la natura dell'io nell’ una o nell'altra
funzione psichica, considerando le altre
come secondarie e derivate; ora nulla
di più erroneo e falso. * * x
Passiamo ora a discutere della natura della conoscenza a senso del Bradley. La conoscenza per lui
non ha altro obbietto che quello di
qualificare la Realtà (soggetto), il che
si può soltanto conseguire, idealizzando la Realtà stessa, disgiungendo il « what » (predicato) dal «
that ». L'ideale verso cui tende la
conoscenza è di far coincidere l' idea
col fatto: tale ideale però non viene mai attuato in modo completo : e se ciò avvenisse, non vi sarebbe
più ragione di parlare nè di conoscenza nè di verità: avvenuta l’unificazione
del « what » col « that » si avrebbe la vita vera e reale dell’Assoluto. La verità e la
conoscenza in conseguenza di ciò non può essere che apparenza come tutto quello che involge separazione dell’ idea
dall’ esistenza. E tutto lo svolgimento
della conoscenza e della vita psichica
sì compie partendo dall'unità imperfetta e incompleta del sentimento, procedendo per via delle
distinzioni e differenziazioni del contenuto psichico che implicano una
quantità di relazioni e tendendo infine
alla scomparsa e trasformazione di queste ultime in un sistema organico ed
armonico che tutto comprende in sè,
tendendo ad una forma di intuizione e di vita universale di cui noi a mala pena
possiamo formarci un'idea generale’ ed
astratta. Da tal punto di vista
gl’individui sono forme della vita universale che in essi si divide e insieme si concentra ner
modo che non solamente possono
apprendere a conoscere sè stessi, ma
anche l’Universale e il Tutto che in essi vive, opera è si muove. E la funzione conoscitiva e cogitativa
consiste nel qualificare, nel
caratterizzare, nell’ analizzare il detto universale che si presenta nei centri
del sentimento individuale. Ora,
anzitutto non si riesce a comprendere in che cosa possa consistere lo stadio finale della
conoscenza detto intuitivo, lo stadio in
cui la conoscenza vera e propria sì
annulla in qualcosa di superiore e di più elevato ; in ogni caso se ciò si verificasse, si avrebbe un
regresso e non un progresso: il pensare
discorsivo (il giudicare) lungi dal
rappresentare un’imperfezione rappresenta la via, l’unica via per cui la Realtà acquista valore,
consistenza e significato. L'unione del « what » col « that » non è che un prodotto della fantasia individuale. Oltre la
conoscenza vera e propria non è
possibile quindi ammettere uno stato
superiore e più clevato. Si dovrà forse ammettere una doppia vita nel Reale, la vita quale sì
esplica nei « centri di sentimento »
(vita del pensiero) ed un’altra vita d'ordine superiore? Ed una tale opinione
come si concilia con l’altra che il
Reale non è nulla al di fuori delle apparenze ? Poi, è assolutamente contrario
al vero affermare che il progresso e lo
svolgimento della conoscenza sia in rapporto diretto colla trasformazione del
processo discorsivo e successivo in
processo intuitivo ed - estratemporaneo.
L'intuizione stessa infatti allora solo acquista l’ evidenza necessaria quando interviene l’attività del
pensiero, per così dire, a scorrere
dall'uno all’altro elemento della rappresentazione totale per compararli,
misurandoli. L'essenza del pensiero e
della conoscenza è riposta nella proprietà
di stabilire rapporti tra le cose: tolti i rapporti non si avrà conoscenza, c nemmeno vita psichica,
giacchè la psiculogia moderna ha messo in sodo che la legge della
relatività è legge psichica
fondamentale. E l'intuizione è soltanto la
causa occasionale dell’ evidenza immediata, mentreché il vero fondamento di questa si trova nella
natura collegatrice e comparativa del pensiero. Si direbbe che per il Bradley la conoscenza
cominci coll’ analisi, collo scumporre
il dato che vive in ciascun centro di
esperienza individuale, ma è ammissibile ciò ?
L'esistenza di questo dato non deve essere considerata già come un primo stadio di conoscenza ? Se si
vuol rimanere sul terreno dei fatti che
ci vengono suggeriti dalle accurate analisi psicologiche e gnoseologiche non vi
ha dubbio alcuno che la conoscenza debba
essere considerata come una specie di
successiva sostituzione di una forma di
coscienza ad un’altra forma di coscienza, di un contenuto psichico ad un altro contenuto psichico, di
una forma di relazione tra soggetto ed
oggetto ad un’altra forma: sostituzione che ha lo scopo di porre in luogo del
subbiettivo, dell’individuale e del
contradittorio, l’obbiettivo, l’universale, il coerente. La conoscenza in tanto
è possibile in quanto il Reale assume
una particolare esistenza nel soggetto individuale e da tal punto di vista è
veramente lecito affermare che ogni
conoscenza implica la separazione di un dato contenuto dalla propria esistenza:
la sensazione, l’imagine, la
rappresentazione ed anche l’idea o il
concetto sono fatti psichici che non vanno identificati col fatto. D'altronle
tutta la conoscenza non va forse
riguardata come una costruzione fatta coi detti materiali o elementi psichici
(sensazione, rappresentazione, concetto)
? La realtà in quanto conosciuta è successivamente e sempre più perfettamente
sensazione, percezione, imagine,
concetto, o per dirla altrimenti, qualità sensibile, cosa, essenza. L'elemento della conoscenza
scientifica è il concetto : sapere
scientificamente vale sapere per concetti: ma il concetto obbiettivo, il
concetto reale e concreto è la verità della sensazione e percezione, e non
vi è senza di queste. E ciò che dal
nostro punto dì vista importa
massimamente di ricordare è che la funzione relativista o di riferimento che
compone i singoli elementi della serie
non è diversa da quella che li connette poi nelle formazioni e processi logici e finalmente nei
sistemi più vasti che sono le scienze: per modo che la conoscenza risulta omogenea nelle parti e nel tutto (41). Chiamare la conoscenza un'apparenza è per lo
meno assurdo : se tale espressione può avere un senso, questo è che la conoscenza falsifichi in qualche modo
la realtà; ma per poter affermare ciò
prima di tutto bisognerebbe aver potuto
apprendere per altra via la natura vera della realtà e di tale apprensione immediata non parlò mai
il Bradley, e poi conoscere l'apparenza
come apparenza equivale a conoscere la
verità; un'apparenza conosciuta come tale non
è più apparenza. E una conoscenza che apprende la realtà . può essere più chiamata ragionevolmente apparenza
? E come mai è concepibile una realtà
sfornita di quella relazione essenzialissima che è la conoscenza, che è poi il
riferimento ad una coscienza o ad un soggetto in genere ? Anzi come maisi può affermare una tale
realtà? Separare assolutamente il vivere
dal sapere di vivere è impossibile. La
vita, la realtà implica una forma qualsiasi di interiorità e questa alla sua
volta una forma di unificazione del
molteplice che è la caratteristica ultima della conoscenza (processo di analisi
e sintesi insieme). E che altro è questo
se non il primo germe dell’ indissolubile legame che tien uniti la realtà, l’attività,
l’interiorità e la conoscenza ? In
conclusione diremo che affermare che la conoscenza è semplice apparenza e che come tutte le
apparenze, è manchevole, imperfetta,
insufficiente, equivale a scindere Cfr.
a tale proposito Masci, Lezioni di Filosofia teoretica fatte nella R. Università di Napoli. arbitrariamente
la realtà in due parti ed a rendere incerta
la conoscenza stessa dell’apparenza.
Tutte le apparenze che formano come a dire la struttura dell’ universo, sono spiegate dal Bradley per
mezzo del processo di disgiunzione
dell'idea dal fatto, del « what » dal «
that » corrispondente. Una volta che l'Assoluto si è scisso in una quantità di centri finiti di
sentimento, il processo di disgiunzione si è andato sempre più estendendo
e complicando fino a dare le forme di
apparenze più svariate e notevoli, quali
il Buono, il Vero, e il Bello Prima di
vedere se il modo di concepire questi ultimi sia giusto, vediamo se il processo di disgiunzione del
contenuto intelligibile dall’esistenza possa essere ammesso quale processo diremmo quasi, cosmico, giacchè la scissione
stessa dello Assoluto nei detti centri
di sentimento deve essere considerata come espressione dell’ inconsistenza
iniziatasi in seno al Tutto. Il processo
di distinzione e di differenziazione
implica sempre questo, che il dato non coincide coll’idea. Se ciò non fosse, perchè la vita universale
dovrebbe spezzarsi in forme individuali ? Il Bradley veramente non dà alcuna dilucidazione in ordine a tale
questione, che pure è importantissima
dal suo punto di vista. Il processo di idealizzazione o di disgiunzione del «
what » dal « that » in tanto è
concepibile in quanto sì compie in un centro finito di sentimento; come mai può dunque esso venir
riguardato quale processo universale ed
obbiettivo? È vero che l'Autore ammette
un Pensiero, una Volontà, un Sentimento obbiet - tivo, elementi della Realtà
ultima da differenziare profondamente dalle corrispondenti funzioni spirituali
subbiettive quali appaiono nel tempo e
nella serie dei fatti psichici, ma noi non possiamo formarci alcun concetto
positivo di una Ragione vbbiettiva
assoluta per sè presa è posta di.
rincontro a noi; l’idea dello spirito obbiettivo e del suo svolgimento storico è giusta, ma ha valore
scientifico solo rel caso che è intesa
nel senso di esistenza e di processo
storico, di processo civè che si compia nel tempo e nello spazio per mezzo dello spirito subbiettivo e
individuale. Una delle contradizioni
del Bradley è questa, che egli mentre
considera la conoscenza come pura apparenza e
toglie ogni realtà al soggetto, risguarda i fatti più importanti
dell’esperienza psichica, quali è senso di spontaneità nelle sue varie forme, come qualcosa di derivato,
come un prodotto della nostra riflessione. La nozione di attività, secondo Bradley,
implica l’idea dell’ Io che riesce a produrre
un cingiamento, previa la rappresentazione del detto mutamento ; il che
poi non è possibile se non coll’ interpretare in modo largo molteplici
esperienze passate. Sicchè non si può
attribuire al senso d’energia maggior realtà che al senso del nutrimento nel caso in cui si
provi sollievo, mediante l'opportuno
cibo, dai dolori della fame (1). L’ori
(1) Notiamo qui che la realtà non compete al senso di nutrimento, ma al senso della fame, come la realta
primitiva o l'immediatezza non compete a
ciò che consegue all’espansività, che è poi in fondo nient'altro che un’espressione dell’attività,
ma al senso di espansività. In ogni caso
il senso di sollievo prodotto dal nutrimento figura come indice dell’appagamento di un bisogno, di una
tendenza, di una forma di attività che è quindi qualcosa di primitivo e di
fondamentale. gine, infatti, del senso dell'attività è posta dall’Autore
nel senso di espansione, di
allargamento, per così dire, dell’ Io,
il quale formato com'è di un gruppo di elementi intimamente connessi tra
loro, tende ad estendere i suoi legami
ad altri elementi. Non bisogna però credere che l’espansione sia
identica alla coscienza dell’attività, giacchè è solamente dopo che l’anima ha raggiunto un
grado notevole di sviluppo che si può avere tale coscienza, mentre l'espansione è primitiva. Quando dopo
ripetute esperienze | siamo venuti a
cognizione che a taluni modi del nostro
Io conseguono dei mutamenti, noi allora cominciamo ad acquistare Ja nozione dell'attività o del
volere. Insomma noi diciamo di essere attivi
ogni qual volta il Non-Io (consistente
in sensazioni esterne o interne, in percezioni
o idee) subisce dei mutamenti in seguito all'idea ed al desiderio formato dall’Io. Tale espansione
della nostra area, come dice il Bradley,
comincia dal darci un certo senso
interpretato come qualcosa che dall’ Io passi al NonIo; è ih questo qualcosa
che propriamente consiste l’energia, la forza, la volontà, ecc. Il Bradley prosegue ancora l’analisi dicendo
che quando il gruppo dell’ Io è come a
dire contratto dal Non-Io, mentre dall’altra parte un’ idea piacevole di
espansione è suggerita, si prova un senso di oppressione ; e quando ì
limiti di resistenza ordinaria son mossi
e l'espansione ideale, progredendo
sempre, è attuata solo in parte con varie
oscillazioni si prova quel senso speciale detto di tensione e di sforzo. È naturale che da tal punto di
vista l’attenzione nelle varie sue forme
non possa essere più considerata né come
una facoltà speciale, nè come funzione particolare della mente avente sede in
un dato organo cerebrale ; l’attenzione al pari della memoria e dell'intensità
viene ad essere riguardata come una
qualità generale appartenente in vario
grado a tutti gli elementi psichici: anzi si può dire che l’attenzione e l'intensità vengano
pressochè a formare una cosa sola. Date
certe condizioni che facilitino il
predominio di un fatto psichico nella coscienza (in ciò sta il carattere essenziale dell'attenzione),
deve avvenire che taluni elementi
sensorali o ideali divengano prominenti
ed emergenti rispetto al resto, e per ciò stesso appaia indebolita l’
intensità degli altri. Il Bradley poi non attribuisce un valore essenziale al fattore muscolare,
prima perchè in molti casi in cui ha
luogo l’attenzione quello è escluso, poi
perchè anche quando è chiamata in esercizio l’attività muscolare o direttamente sopra un organo
percipiente, ovvero indirettamente col movimento di tutto il corpo, la prima causa dell’azione muscolare va cercata
in un’ idea o in un sentimento
precedente. È l’idea, e più di tutto
l'idea dell’ interesse che si può avere per un dato fatto psichico, che
ci dà la chiave per intendere il meccanismo
dell'attenzione dalla forma più semplice alla più complicata. E la coscienza dell’energia interiore è
perfettamente riducibile al predominio nella coscienza dell'idea dell’ Io
che attendè ad una data cosa. Che giudizio si può portare su tale veduta
del Bradley? Certamente essa ha grande
valore in quanto prova a sufficienza che l’attività psichica non va intesa come
correlativo, per così dire, necessario dell’ attività motrice. Il Bain, il Miinsterberg ed altri avevano
asserito che senza le sensazioni
muscolari o almeno senza le sensazioni d’innervazione motrice lo spirito è
incapace di sentirsi in alcun modo
attivo ; per loro quindi la forza, l'energia psichica, base dell'individualità, non poteva avere che una
sola origine, il movimento; il fatto
interiore dell’attività era considerato
come un semplice reflesso di un fenomeno esterno, quale è la mozione. Ora da tal punto di vista
l’analisi psicologica del Bradley è
stata utile, perchè ha mostrato che tutti i
processi intellettuali sono per sè attivi, e, date certe condizioni,
tutti indistintamente sono in grado di svolgere
energia sotto le forme più differenti. Non soltanto nella forma in cui si rivela attivo alla coscienza, ma in
molteplici altre forme lo spirito è
causa agente. Cade così l’ ipotesi di un organo speciale dell’attenzione, o
dell'attività psichica in genere: allo
stesso modo che non vi è un organo particolare della vita, così non vi può
essere un organo particolare
dell'attività nelle varie sue modalità
(sforzo, attenzione, volontà ecc.).
L'attività psichica a dati stimoli e in determinate condizioni reagisce
in vari modi e secondo che la percezione
immediata di talo reazione si fonde con uno o coll’altro degli effetti che vengono prodotti
nell'organismo (sensazione muscolare, p. cs.), assumerà un colore
particolare. L'errore degli analizzatori
superficiali fu quello di credere che i
fatti organici, i quali servono in certo modo a fissare, a determinare e a dare
un nome alle formé dell’attività psichica, costituissero il fatto essenziale ed
ultimo. Il Bradley infatti mostrò che
l’attenzione può assumere varie forme,
da quella in cui si ha coscienza di un dispiegamento notevole di attività a
quella in cui non se. ne ha alcuna
coscienza; eppure l’attività psichica esiste sempre, ed è imprescindibile in
tutte le funzioni mentali. Se non che due sono, secondo noi, i difetti
dell’analisi del Bradley. Da una parte
egli parla di idee e di rappresentazioni che possono avere il predominio nella
coscienza, parla dell'interesse che si
può avere per un dato obbietto o per una
data operazione, parla della tendenza espansiva, ecc., senza porsi mai il problema se e fino a
che punto tutto ciò sia compatibile col
non ammettere la realtà del soggetto :
egli infatti parla dell’ Io come di un composto, di un aggregato di elementi psichici; ora un
tale concetto contradice necessariamente
al concetto dell’ espansività come
fondamento «del sentimento : giacchè in forza di che ed a quale scopo quel gruppo di elementi
psichici formanti l'Io tende ad
espandersi ? E l’attività delle idee e delle
rappresentazioni per cui esse emergono nella coscienza donde vien loro? E senza l’unità del soggetto
come è spiegabile l'interesse che pure forma il caposaldo della teoria del Bradley? E qual'è il fondamento del
legame esistente tra i vari fatti
psichici? Non suppone forse agni nesso ed
ogni rapporto un'unità ed identità fondamentale? Non basta ancora: egli ammette che si possa avere
l’idea di un'idea in quanto l’idea pura
e semplice di una cosa riguarda il suo
contenuto logico, mentre l’idea d'una idea
consiste in uno stato psichico che include un'altra esìstenza psichica
attuale. Ora come mai sarebbe possibile
un tal fenemeno senza la realtà ed attività od efficacia . del soggetto capace di riflettere sul!e
stesse sue operazioni e capace di
rimanere identico a sè stesso attraverso: }
cangiamenti Dall'altra parte il Bradley cade in errore quando tenta di ridurre l’origine del senso di attività ad
un fatto meramente derivativo prodotto per mezzo dell’ interpretazione di esperienze passate, presentando così il
senso di energia come un’appercezione
del tutto illusoria. Niente di più
falso. La percezione interna per cui noi giungiamo a cognizione di ciò
che accade dentro di noi può avere un
doppio senso, a seconda che noi vogliamo intendere con essa l’esperienza immediata, ovvero la
riflessione su ciò che è offerto da
quella. Dobbiamo distinguere per così dire il
vivere dal sapere di vivere. L'esperienza immediata è la vera sorgente di tutti i dati di fatto,
mentre la riflessione rappresenta il
mezzo di generalizzare, riconoscendole, le no
stre esperienze; e supponendo che nel corso dello sviluppo mentale siano state formate nozioni e parole
per i singoli stati interni, la
percezione interna intesa nel secondo modo, cioè come riflessione, consisterà nella
sussunzione di un determinato fatto psichico sotto la nozione ad esso
spettante; sussunzione che può
esplicarsi in un giudizio vero e proprio,
ma per lo più si riduce ad una semplice denominazione. La riflessione in ogni caso non può mutare il
dato di fatto dell’esistenza di un
fenomeno. Donde consegue che quando noi,
mediante la riflessione, diamo un nome od anche giudichiamo un fatto immediato
della coscienza, il quale offre dei
caratteri distintivi da non poter essere confuso con altre sensazioni o sentimenti, noi non
possiamo aggiungere nulla di nuovo. Il
riflettere insomma non può creare nulla
e quindi non può darci un sentimento quale fatto immediato della
coscienza, ma solo può dare un nome e mettere
in forma di proposizione ciò che già esisteva. nel co
Ed in ciò sta la differenza tra l’esperienza immediata d e l’analisi, giacchè la prima ci mette in
contatto con la realtà, mentre la
seconda verte sulla scomposizione del
fatto reale nei suoi vari elementi. Alla genesi del senso di i attività, concorrono, è vero, parecchi
elementi, ma questi sE producono un
qualcosa che si rivela alla coscienza in modo
I semplice, immediato ed irreducibile; e, ciò che più imi porta, non è
la ricognizione dei detti elementi quella che
Ì ci fa provare il senso di attività: la riflessione o ricogni» a zione è posteriore all’ insorgenza del
fatto immediato della coscienza. Del
resto si comprende agevolmente che tutte
le interpretazioni, tutti i ragionamenti e tutte le riflessioni fatte sopra i dati psichici non potrebbero
mai dare origine a nuovi dati. Pensare
sopra le modalità dell’attività presuppone già la percezione immediata
dell’attività stessa. Del resto il
Bradley stesso, pur servendosi di altri nomi,
non solo parla della coscienza e dell’io come di un'’attività, ma anche
di un'attività che si propone dei fini e sceglie i mezzi per giungervi, di
un'attività che può trovarsi in lotta
con altre forze psichiche e resistervi e farle anzi concorrere al proprio intento. Nè poteva
essere diversamente: la recettività e la reattività nella psiche non sono due fatti distinti, i quali possano
venire studiati l'uno in disparte
dall’altro, giacchè essi concorrono ad una sola
operazione, per modo che l'uno rende valido l'altro, il quale da sè sarebbe nullo. Non si può
concepire una forma qualsiasi di
Attività, e sia anche l’espansività bradleyana,
che non implichi un grado di coscienza: è parimenti la coscienza riesce impensabile separata
dall'attività. Va notato infine che la
percezione immediata si distingue dalla pura rappresentazione, da quella che
potrebbe esser chiamata percezione
mediata, derivata, reflessa per questo
che la prima è più che semplice rappresentazione, è sopratutto sentimento derivante dalla
cooperazione di tutto l'essere fisico e
psichico: ora chi può negare che la
percezione dell'attività lungi dal presentarsi coi caratteri di una semplice
ilea o rappresentazione, di un contenuto distaccato dalla matrice reale, è
invece in modo precipuo sentimento
? Dicemmo già disopra che il Vero, il
Buono ed il Bello per il Bradley non
sono che apparenze, le quali se accennano alla Realtà, non sono la Realtà. A noi sembra che tutto il ragionamento
dell'autore poggi su presupposti falsi.
Così egli muove dal principio che l'ideale
verso cui tende la conoscenza è l’identificazione e l’uniticazione del
pensiero con l'essere, ideale che, se raggiunto, mena dritto all'annientamento
della conoscenza e quindi della verità
stessa, giacchè in tal caso si avrà la Vita, il Reale, non più la scienza della Vita e del Reale, in
altri termini sì vivrà il Reale e
null'altro. In tal guisa la conoscenza è
essenzialmente contradittoria : da una parte essa non è possibile che sotto la condizione che vi sia
distinzione e differenziazione nella
realtà (pensiero ed' essere) e dall’altra parte il suo svolgimento e la sua
perfezione è riposta tutta nel togliere via qualsiasi distinzione e differenziazione,
è riposta, cioè, nel suo annientamento. Ora è
evidente che l’errore del Bradley è nell’aver creduto che la conoscenza
miri all’ identificazione ed all’ unificazione
completa del pensiero con l’ essere, mentre essa ha per intento di trasformare il contenuto
subbiettivo e individuale della coscienza in contenuto obbiettivo ed
universale; intento che può essere
ottenuto non già annullando il fat-.
tore della coscienza — come dovrebbe avvenire se, giusta le idee del Bradley, l’ideale ultimo della
conoscenza fosse l'identificazione e
l'unificazione completa del pensiero con:
l'essere —, ma sostituendo, anzi aggiungendo al semplice ed esclusivo punto di vista della coscienza
individuale il punto di vista della
coscienza in genere. In tal guisa il
fattore della coscienza persiste sempre, tanto è ciò vero che a misura che la conoscenza progredisce l’
individuo acquista coscienza della
propria cooperazione all'edificio della
verità. L'ideale verso cui tende la conoscenza adunque non è l'assorbimento di uno dei termini
nell'altro, ma, diremo così, la maggior
visione dell'uno per mezzo del predominio dell'altro. Il fatto è che io
acquisto più coscienza di me stesso come
essere finito, subbiettivo, individuale,
quanto più mi pongo a considerare le cose dal punto di vista obbiettivo ed universale. La coscienza
individuale quando guarda con l’occhio
della coscienza universale non cessa di
essere individuale, non si annulla nella coscienza universale. D'altronde la stessa coscienza
universale non è fuori la coscienza
individuale, ma concresce con questa non
altrimenti che la vita generale di un qualsiasi essere organico cresce col crescere delle singole
funzioni del medesimo essere. Il
processo della conoscenza, a noi sembra, si compie proprio in senso inverso a quello indicato DAL
FILOSOFO INGLESE – Grice: ‘inglese? I’d say, “dal filosofo oxoniense!” --: il
punto di partenza infatti è il contenuto rappresentativo o percettivo primitivo
in cui l’imagine psichica è identificata
con l'oggetto, anzi è presa per la sola realtà,
in cui insomma non vi ha distinzione fra oggetto e rappresentazione
subbiettiva e si procede ponendo sempre più
la realtà universale ed obbiettiva di fronte alla vita psichica
subbiettiva ed individuale: ed a misura che l’edificio della realtà vien
completato diviene più viva la coscienza
dell'attività individuale. Ed invero chi, se non l’intelligenza dei
singoli soggetti rende possibile la detta costruzione? È sempre l’individuo che
opera anche universalizzandosi. E la mente umana lungi dal tendere a
confondere insieme i due processi, il
subbiettivo l’obbiettivo, l' indi. viduale e l’universale, tiene a tenerli
distinti e distaccati: La conoscenza
certamente implica una parziale identità
del pensiero e dell'essere (del subbietto e dell’obbietto), ma insieme una parziale distinzione; nò ciò è
in alcun modo contradittorio, giacchè l’
identità e la differenza sono condizioni della possibilità della conoscenza;
non già condizioni contradittorie una
della possibilità, l’altra dell'impossibilità.
Se si bada che la conoscenza non s'intende per nulla se si prende come una mera rivelazione
estrinseca, come una relazione meccanica
(ed è questo l’errore principale, a noi
pare, della filosofia del Lotze, il quale subordinò la relazione della
conoscenza al rapporto causale) sì acquista la
convinzione che la rivelazione della realtà alla coscienza, per essere soggettiva ed interna, non è meno
oggettiva e vera. Dal fatto che la
conoscenza implica due termini non
deriva nient’affatto adunque che essa sia apparenza: tutt'altro:
piuttosto la Realtà una, identica, immutabile che, secondo l’autore, dovrebbe
assorbire tutte le apparenze,
trasformandole, si presenta quale creazione della fantasia senza alcuna consistenza. Lo svolgimento e il
progresso della conoscenza nun è
nient'affatto in rapporto diretto della
riduzione di uno dei fattori della conoscenza all’altro, essendo entrambi
indispensabili, irriducibili o aventi
uffici differenti. Nè si può imaginare o concepire cosa mai risulterebbe dall’ unificazione e identità
totale dei due termini della conoscenza:
il Bradley crede che ne risulterebbe la Realtà ultima: potrà essere: ma in tal
caso bisogna dire che questa non solo è
assolutamente inconoscibile, ma inconcepibile. Con che diritto adunque
parla egli dell’Assoluto? La Realtà
ultima si presenta come un grado
inferiore di realtà, come qualchecosa sfornita per sè di valore e significato che le può venire
solo da ciò che viceversa viene
considerato come apparenza. Passiamo al
Buono: anche questo, stando al Bradley, è
apparenza e per ragioni affini a quelle per cui sono tali la verità e la conoscenza. Il Buono da una
parte è condizionato dal distacco dell’ilea (che in tal caso riceve il nome d' ideale) dal reale, dal fatto, da ciò
che esiste, e dall’altra ha l'obbiettivo di attuare l'ideale, di tramutare l’idea in fatto, vale a dire di annientare sè
stesso. Ma oltre di questa il Buono
implica una quantità di altre
contradizioni dipendenti dalle sue varie determinazioni: così per quanti sforzi si facciano, il
perfezionamento individuale non può sempre coincidere col bene della collettività,
come d'altra parte il maggior perfezionamento
dell'ordinamento sociale trarrà sempre seco degli svantaggi per
l'individuo : la divisione del lavoro, per citarne uno, produce lo svolgimento
parziale ed unilaterale delle facoltà
umane: e via di seguito. Qui faremo due osservazioni : 1. Il Bradley è spinto a
considerare il Buono come apparenza dal
presupposto che la realtà sia solo da riporre
nell'attuazione completa dell'ideale, attuazione che figura come l'annullamento del buono : ora ciò è
falso, giacchè la realtà consiste iuvece
nel processo continuo che tende all'attuazione di un ideale, senza che questo
sia mai attuato completamente per la
ragione che esso non essendo qualcosa di fisso, di s'abile e di permanente,
assume sempre nuove forme, si eleva e si
complica sempre dippiù. A_misura che l’uomo s'avvicina ad un dato ideale,
questo, trasformandosi e perfezionandosi, s' allontana ancora. E la realtà lungi dall'essere posta
nell’attuazione completa dell'ideale che è irraggiungibile, risiede in tutto il
processo : in caso contrario
bisognerebbe confessare che la realtà è
come se non esistesse. La vita è nel movimento, nel processo e non
nell’equilibrio stabile che invece è la morte.
La religione e anche l’arte cercano di dare una forma e di personificare l’illeale, ma tuttociò non
entra nella considerazione del Buono dal punto di vista metafisico. Il Bradley considera il buuno preso per sè,
astraendo ‘dal fattore della coscienza
in cui e per cui esiste. E certamente il Buono risguardato come una « cosa »
invece che come un processo inerente
all'anima umana cume tale, non può non
apparire contradittorio. Non è il buono che tende . all'annullemento «li sè stesso, ma è lo
spirito umano che ha tra le altre
funzioni quella (che sostantivata costituisce il Buono) di proporsi
incessantemente dei fini alla cui
attuazione esso si adopera, è lo spirito umano che ha delle tendenze ed
esigenze al cui soddisfacimento si affatica. E
nessuno vorrà sostenere che nell’operare in tal guisa l’anima umana si contradica, ovvero tenda ad
annullare sè stessa. È naturale invece
che essa aspiri ad annullare, mediante
l’appagamento, i suoi bisogni, che sono indizio di imperfezione e di
manchevolezza. Se i detti bisogni rinascono sempresotto novelle forme, ciò
avviene perchè la realtà vera non è in
qualcosa di dato, ma nel farsi. 2. Per
quel che concerne l’ apparente contradizione e
l'impossibilità apparente di derivare il bene individuale dal bene sociale e questo da quello, noteremo che
tra le specie di cause c'è anche la
causa reciproca, la quale è ammissibile purchè sia ben definita. La detta causa
(che si riscontra in tuttociò che è organicamente costituito) non consiste in due cause di cui una produce
l’altra ad ogni istante, ma di cui
ciascuna ad ogni istante produce un effetto della specie della prima e così
via. Così un perfezionamento nel sistema circolatorio può produrne uno in quello della respirazione e viceversa. Tra
società e individuo esiste appunto un rapporto causale reciproco in quanto il perfezionamento individuale è
condizionato da . quello sociale e
viceversa: i due si limitano, sì determinano a vicenda senza che a nessuno di
essi possa essere attribuito un valore
non diciamo assoluto, ma neanche preponderante. E lo sbaglio del Bradley è
quello di aver pensato che potesse considerare un elemento facendo
astrazione dall’ altro, dal che conseguì
che egli trovò contradizioni
dappertutto. La moralità poi
presenta una natura contradittoria precipuamente per questo che essa è
condizionata da qualcosa che non può csistere : tale è appunto la
determinazione interna della volontà.
Questa separata da qualunque elemento estrinseco è una pura astrazione : di qui
la necessità nella moralità di
trascendere sè stessa, passando in qualcos'altro che non è più moralità: questo
qualcos'altro è per il Bradley la
Religione, ove domina la fede che tutto
sia ed accada come deve essere ed accadere. Ci asteniamo dal discutere se questi passaggi da una sfera di
apparenze in un'altra siano
comprensibili e se abbiano alcun significato,
essendo passaggi verbali anzichè reali. Il nostro filosofo vede un complemento della moralità vera e
propria nientemeno che nella rassegnazione fatalistica, la quale implica la separazione del volere dalla natura e
l'affermazione che il volere stesso non
può esercitare alcuna azione e produrre alcun effetto. Ognuno vede che in tal
guisa il volere umano viene ad essere
completamente snaturato, perchè viene ad
esser distaccato dall'ordinamento sistematico delle cose. Ora non abbiamo bisogno di spendere
molte parole per provare l'assurdità di
una tale opinione e per mostrare le
tristissime conseguenze che ne derivano: non solo non è lecito parlare in tal caso di progresso, di
sviluppo e di perfezionamento, ma la
storia stessa diviene un non senso.
Tutta l’esperienza contradice ad una tale veduta. Dal fatto che il liberum arbitrium indifferentie è
inammissibile non consegue l'annullamento dell’attività umana e di
quell’energia personale che è un potente
fattore di vita e di movimento nel mondo
umano. La contradizione che il Bradley
trova nell'intima natura della religione
si può eliminare con molta facilità ‘se si
pensa che l'aver fede nel trionfo del bene non trae seco come logica
conseguenza la paralisi della propria volontà,
di ogni iniziativa individuale, l’annientamento di quella spontaneità che è la radice della
personalità. Il trionfo finale del bene
non è una quantità definita, fissa che, una
volta ammessa, non è suscettibile di aumento, ma è invece una variabile che può sempre comportare
l’azione di un nuovo fattore. Il trionfo
del bene può essere assicurato per mezzo
della cooperazione degli altri uomini; ma ciò
forse trae seco l’inutilità della mia cooperazione? La coscienza della
mia dignità non mi spingerà a concorrere al
risultato finale? Perchè l'individuo dovrebbe forzare la volontà all’inazione e quindi
all’annientamento? Anche qui il difetto
appare nell’aver distaccato il volere dalla natura e nell’averlo riconosciuto incapace di
produrre effetti. Quanto al Bello va
notato che l'oggetto estetico considerato per sè indubbiamente è un'apparenza
in quanto la sua essenza è riposta nella
rappresentazione concreta e determinata
di un’idea, ma un’apparenza che è avvertita,
I, per ciò stesso l’apprensione
della realtà ? Considerato però l'oggetto bello sentita e riconosciuta come tale non inclu ed il soggetto senziente come parti di un
tutto, come elementi di un unico processo, il fatto estetico non è più un’ apparenza, ma qualcosa di reale e di
altamente reale. La realtà dell’arte e
della bellezza così considerata va riposta appunto nel processo suggestivo o
significativo che si voglia dire, per
cui una data percezione o rappresentazione
è il punto di partenza dello svolgimento di un corso di fatti psichici atti a riempire ed a rapire l'animo
di chi contempla. La sproporzione tra l’' espressione e il suo contenuto lungi dall’essere un difetto da cui il Bello
aspiri a liberarsi, forma la sua sostanza. Il Bello ha raggiunto il grado completo
e perfetto di realtà quando una data espressione (parvenza), suggerendo un
certo contenuto ideale, agisce in modo
particolare sull’animo umano: onde consegue che
non vi può essere tendenza a fare sparire o a trasformare in maniera più o meno completa quei rapporti
e quei termini che costituiscono l’essenza del bello considerato come un tutto 0 come un processo sottoposto a
parecchie condizioni variabili entro certi limiti di grado, ma non di natura o
di qualità. Come non esiste un Vero e
un Bene obbiettivo, così non è a parlare
di un Bello obbiettivo: ed anzi possiamo aggiungere che tali espressioni non
hanno nemmeno senso, L'errore del
Bra:lley sta tutto nell’aver creduto di poter
considerare per sè, sostantivandoli, il Vero, il Buono e il Bello separatamente dal soggetto: quale
meraviglia quindi se dopo aver ridotto
le astrazioni ad ipostasi, s'è accorto
che queste contengono numerose contradizioni? Sicuro; il Vero, il Buono, il Bello come sono
costruiti dal filosofo inglese sono
null'altro che apparenze, perchè sono astrazioni. Ed egli in fin dei conti non sa trarsi
d’impaccio se non dicendo che le dette
apparenze tendono a trascendere sè
stesse, trasformandosi, completandosi, perfezionandosi e passando in
qualcosaltro che è la Realtà ultima. Se non che
questa non soltanto è un prodotto della fantasia, è una chimera, ma è essenzialmente contradittoria :
infatti una. Realtà da cui viene esclusa
la conoscenza, la tendenza a. porsi
sempre dinanzi un ideale da raggiungere e la proprietà di sentirsi riempita
l’anima da una rappresentazione
concreta, atta a suggerire un processo ideale, una Realtà da cui è
escluso ogni moto ed ogni vita, ogni esigenza di qualcosaltro, una Realtà che è pura
immobilità e invariabilità, lungi dall’apparite allo spirito umano come la
più alta e quindi come la Realtà ultima,
si presenta come un grado infimo di
realtà, se per giudicare di questa occorre
fondarsi sul valore e sull’azione che è atta ad esercitare. Quello che ha valore è l’esistenza spirituale
e il mondo che essa crea. Un mondo senza
coscienza è come se non vi fosse
(Lotze). La Realtà caratterizzata da ciò che dal comune degli uomini è riguardato come meno
reale : ecco l’ultima espressione della
filosofia del Bradley, il cui obbiettivo doveva esser quello di rimuovere le
contradizioni di cui formicola il mondo
delle apparenze. La Filosofia
bradleyana in sostanza ha comune col naturalismo l’errore di considerare la
vita dello spirito subbiettivo quale si presenta nella storia e nell’
esperienza umana, come un fenomeno
secondario e passeggero. Così noi
vediamo che la filosofia del Bradley, il quale finisce la sua opera con le seguenti parole: Outside of
spirit there îs not, and there cannot
be, any reality, and, the more that anything îs
spiritual, so much the more is veritably real, portata alle sue ultime conseguenze e interpretata in modo
completo mena alla negazione del
soggetto e quindi dello spirito, dello spirito umano almeno che è quello chie
noi conosciamo e che possiamo
apprezzare. E la Realtà che doveva essere one
experience, selfperviding and superior to mere relations, si mostra come trascendente ogni esperienza e quindi
come una costruzione arbitraria e
puramente fantastica. Una Metafisica che come questa del Bradley presenta molteplici elementi fusi insieme pone
necessariamente l'e». sigenza della
ricerca delle fonti. Notiamo anzitutto che le
idee del filosofo inglese non si connettono con quelle della filosofia inglese tradizionale, la quale
nelle sue indagini psicologiche e gnoseologiche
segue un metodo prevalentemente empirico. La filosofia del Bradley è una
emanazione diretta della speculazione
tedesca svoltasi segnatamente nella
prima metà di questo secolo. Se noi volessimo fare un'analisi minuta e. particolareggiata delle
vedute bradleyane in rapporto alla loro origine potremmo agevolmente mostrare
come lo studio di ciascun filosofo tedesco
abbia lasciato delle tracce nella mente del nostro autore: così il suo concetto di riporre il fondamento
e la caratteristica delle apparenze nella disgiunzione del what dal that ricorda evidentemente il corrispondente
concetto dell’Hartmann per cui il distacco dell'idea dalla volontà segna l’ origine della fenomenologia dell’
Incosciente e insieme la condizione
dello svolgimento della Coscienza ; il modo
di considerare la realtà della natura ricorda evidentemente la
concezione del Lotze per cui la conoscenza o la
rappresentazione dell'universo non è un'aggiunta accessoria all'esistenza indipendente di esso, onde la
luce e il suono lungi dall'essere copie
delle ondulazioni e delle vibrazioni da
cui derivano o dall’ essere pure parvenze o inganni o qualcosa di secondario e di sopraggiunto sono
il fine che la natura si è proposta di
conseguire coi movimenti e che non può
conseguire da sola, ma mediante l’azione sua sopra esseri sensibili. Da tal
punto di vista la magnificenza e la
bellezza dei colori e dei suoni, la molteplicità e l’intensità delle emozioni
suscitate dalla natura nell’ anima di
chi la contempla sono il fine della sensibilità nel mondo. Racimolando qua e là potrei moltiplicare gli
esempi atti a provare che lo spirito del
Bradley si è, per così dire, modellato tutto sui grandi maestri della
Metafisica alemanna : ma il mio compito
è quello di ricercare piuttosto quali
siano le fonti primarie e dirette del sistema, se così vogliamo
chiamarlo, del nostro autore. Ora queste a me pare si riducano alle due correnti della filosofia
dell’identità e della filosofia
herbartiana : ho detto della filosofia dell’ identità e non dell'hegelismo, come a prima vista si
potrebbe esser tratti a credere, giacchè
egli pur avendo tratto molto del suo
nutrimento vitale dal sistema dell’Assoluto hegeliano, ha cercato di porre insieme, se non di
combinare e fondere in un tutto
armonico, le vedute di Fichte, di Schelling e
| di Hegel, in quanto la Realtà per lui non è solamente pensiero, ma l’ unità del pensiero e dell’
altro (the Olher) l'identità del
soggetto e dell'oggetto, del sapere e del volere (Fichte), della coscienza e dell’ inconscio,
dello spirito e della natura
(Schelling). Noi ci crediamo quindi
autcrizzati ad affermare che le idee del
Bradley sono state attinte dalla filosofia dell’identità in ordine ai seguenti
punti: 1° il passaggio o la trascendenza di un'idea in un'altra, di un grado di
realtà in un grado più elevato fino a
giungere alla Realtà assoluta, la cui
vita armonica e comprensiva è considerata come una specie di esperienza intuitiva, di cui a mala
pena possiamo formarci un'idea astratta
e indeterminata; 2° la credenza nella
più perfetta razionalità delle cose e quindi nell’ottimismo più completo per
cui tutte le contradizioni che si
presentano nel mondo delle apparenze quali 1’ esistenza del male, del brutto, dell'errore,
dell’accidente vengono considerati come
momenti transitori della Realtà, anzi, diremo meglio, come illusioni, le quali
in un grado più elevato di esperienza
scompaiono, perchè vengono radicalmente armonizzate col sistema totale ; 3° il
concetto che tutto, anche ciò che sembra
più falso ed erroneo, possa avere un certo
grado di realtà, che insomma tuttociò che è' possibile sia fino ad un certo punto reale; 4° la
concezione dello svolgimento della vita psichica come di una successiva posizione
di limiti da parte dell'io, di una successiva e inin. terrotta trasformazione
dell'io in non-io ; 5° il disperdimento
della vita universale in una quantità di centri di esperienza | psichica limitati spazialmente e
temporalmente per cui è resa possibile
l’esistenza psichica subbiettiva o cosciente.
Ma abbiamo detto che la filosofia del Bradley non è una derivazione pura e semplice della
filosofia dell’ identità, ma bensì della fusione di questa colla filosofia herbartiana.
Infatti se si pensa che il motivo del filosofare per l’Herbart è l'eliminazione delle
contradizioni presentate dal pensare comune e che per lui il compito della filosofia sta nel passare dall’apparire
all'essere e nell’intendere le ragioni ‘così della differenza come della
relazione che passa tra l'uno e l’altro,
nel ritrovar l'essere nello apparire e
nel vedere perchè apparisca in quel modo; se
si pensa che a senso del medesimo filosofo tedesco, la guida, la base e la norma essenziale per
poter filosofare con vantaggio è fornita
dal principio di contradizione, e che le
apparenze contradittorie, le quali più richiamarono l’attenzione dell’ Herbart furono appunto lo
spazio e il tempo, l'inerenza o la cosa e le sue proprietà, la causalità e il cangiamento, l'io e la relazione; se si
pensa che per lo stesso filosofo il
reale va risoluto in relazioni fisse, riducendosi l’accadere apparente ad
effetto di prospettiva, — non sì può non
convenire che il sistema herbartiano non meno
della filosofia dell'identità hanno determinato le concezioni metafisiche del filosofo inglese da noi
studiato. Questi prese dall’Herbart il
criterio per giudicare della realtà
(principio di contradizione) e il concetto dell’immutabilità e inalterabilità
dell’essere, mentre dall’'idealismo.
assoluto prese il concetto dell'unità armonica e comprensiva, il
concetto del sistema totale delle cose. Herbart, infatti, mirava a intendere ed a spiegare il
singolare, l’in- dividuo e di qui il suo
pluralismo delle sostanze, mentre
l’'idealismo assoluto aveva per intento sopratutto d' inten- dere l’unità, il sistema, la finalità. Ora si
domanda: 41° La fusione compiuta dal
Bradley in che modo propriamente
avvenne? 2° Perchè avvenne così e non diversamente ? 3° É una fusione razionale ? i 4° Egli, appropriatosi il metodo
dell’Herbart, non potè non giungere alla
conclusione che l’ essere doveva essere
inalterabile ed immutabile, ma d’ altra parte i concetti della « zufallige Ansicht », il metodo delle
relazioni, la ‘ perturbazione e la
conservazione degli enti, il loro essere
insieme, le loro mutevoli relazioni, il loro luogo nello spazio intelligibile rivelandoglisi idee oscure,
inintelligibili e spesso contradittorie,
lo spinsero verso l’ Universale. Una delle
analisi più accurate del Bradley fu infatti quella concer-. nente la qualità e la relazione per mostrare
che esse si implicano a vicenda,
ciascuna intendendosi soltanta per .
mezzo dell’ altra. Respinti così come mere apparenze il pluralismo delle
sostanze, le qualità semplici, il metodo delle
relazioni, ecc., pose la realtà in un sistema individuale, in una specie di unità che tutte le apparenze
comprende, ar- monizzandole e
coordinandole tra loro. Una volta che le
relazioni non sono delle essenze intermedie, nò vedute acci- dentali, riferimenti ausiliari che non
importino punto alla natura della cosa,
bisogna pensarle come stati delle cose
stesse ed ogni cangiamento di relazioni come cangiamento di stati interni, ma perchè ciò sia possibile
occorre che le cose siano concepite come
modi o parti di un’unica essenza, di una
sostanza ‘infinita; giacchè così ogni causalità non è causalità in altro, ma in sè stesso
(Lotze). 2° Il pensiero del Bradley
determinatosi per così dire in
contrapposizione al concetto dell'evoluzione ed alla ten- denza propria della scienza contemporanea a
voler tutto ridurre a divenire senza
fermare in alcun modo l’atten- zione su
ciò che diviene e perchè diviene, e modellatosi d'altra parte sulle obbiezioni volte dalla critica
herbartiana al concetto del mutamento e
all’ assoluto predominio della categoria
della causalità, non potè non considerare l'essere quale immutabile e inalterabile ed escludente
quindi qualsiasi forma di divenire. Ma
d’altra parte le obbiezioni rivolte da
quegli stessi che originariamente appartennero
alla scuola herbartiana (dal Lotze, p. es.) ai concetti fon- damentali del maestro, le analisi critiche
fatte dai filosofi contemporanei in
genere e segnatamente dai criticisti,
delle nozioni di sostanza, di rapporto, di qualità, non pote- rono non influire sul nostro filosofo in modo
da fargli respin- gere la pluralità
delle sostanze e quel carattere disgregativo
ed atomistico del realismo herbartiano per cui questo non riesce a dar ragione dell’unità e del
sistema. E la difficoltà sta tutta nella 'possibilità di porre insieme, non diciamo di fondere, la
concezione dell’immu- tabilità dell’
essere con quella dell’ unità armonica del
sistema totale che tutto comprende in sè, del sistema orga- nico che sì fa e non può non farsi, giacchè
il sistema, l’ unità armonica non è un
dato. Il germe non si può dire che sia
la pianta come non si può dire che sia la
pianta questa stessa presa in uno stadio determinato. La realtà della pianta è posta nell’uniîtà e
continuità del processo che la rende
possibile. Ora come si fa a conciliare l’unità
e la continuità del processo con l’immutabilità, l’immobi- lità e l’ inalterabilità dell’ essere ? È
evidente che questi sono concetti della
nostra mente. Perchè le apparenze che
come tali contengono già in sè un certo grado di realtà, possano assurgere al grado di realtà ultima,
bisogna che trascendendo sè stesse, si
trasformino in qualcosaltro: ora
tuttociò non implica processo, non implica una forma di divenire? Nè vale il dire che detta
trasformazione, detto processo è pura
apparenza, è processo per quel centro finito
di esperienza psichica che si trova in una data serie, ma non per l'insieme che è permanente,
immutabile, inalte- rabile. Se
l'Assoluto, come ripetutamente afferma il Bradley, non è fuori le apparenze, ma è le apparenze,
se l'Assoluto è l'esperienza psichica
interna, come mai può essere detto
immutabile, inalterabile? In seguito a ciò è lecito affermare che nell’Assoluto non si compie alcun
processo? Anzi pare che occorra dire che
se ne compiono molteplici, infiniti for-
s'anche. Che l’immutabilità riguardi le parti e non il tutto è un’altra questione; si varii, si muti pure
una particella sola, ciò basta perchè vi
sia processo e divenire vero, reale e
non semplicemente apparente o effetto di prospettiva. É soltanto a chi
contempla dal di fuori, a chi consi-
dera, a chi medita sul Tutto, che questo preso nel suo insieme e quindi coi compensi reciproci che
possono venire tra le varie parti, può
apparire come qualcosa di immu- tabile:
ma la realtà che vive, opera e si muove non può
dichiararsi estranea al processo. L’immutabilità, la per- manenza sono concetti astratti, formati dalla
mente, non fatti reali. L'uno e l'essere
immutabile in tanto possono stare
insieme in quanto sono considerati quali concetti logici astratti (a mo’ della scuola
eleatica), ma nel fatto concreto l’
Unità sistematica comprendendo le differenze,
non può non involgere processo, cangiamento e in conse- guenza moto e vita nelle parti. Delle due
l'una; osi ferma l’' attenzione sull’
individuale e si avrà l’immutabi- lità,
ma non si darà ragione del sistema e dell'unità totale, ovvero si ferma l’attenzione sull’ universale
ed allora per poter dar ragione della
differenziazione, dalla specificazione
bisogna ricorrere al mutamento, al divenire, al processo. Aggiugiamo qui poi anche che posta la
divisione della vita universale in
particolari centri di sentimento o di
esperienza, non è possibile non ammettere un modo qual- siasi in cui i «letti centri siano ordinati e
disposti: e non potrebbe consistere in
questo appunto il corrispettivo reale ed
obbiettivo della forma spaziale? Non s'impone così la esigenza dello spazio intelligibile? S Prima di finire, qualche osservazione ancora
intorno all'azione esercitata sul
pensiero del Bradley dai recenti .
progressi della psicologia esatta, intesa questa come descri- zione ed analisi dei fatti interni. Il
lettore che ha seguito con attenzione la
nostra esposizione critica si sarà accorto
che nei punti in cui si è allontanato dalla speculazione tedesca,
presentando delle vedute originali, sì è mostrato appunto psicologo sagace e sopra tutto scevro
di pregiu- dizi. Nelle pagine in cuì
egli discute la questione se si possa
ridurre la Realtà ultima e la sostanza dell’universo all'una od all'altra delle funzioni psichiche
quali l’ intel- letto, la volontà ecc.,
egli dimostra a meraviglia che dai
metafisici le dette funzioni psichiche vengono snaturate. Ed è in questa parte che si trova la sua
originalità. Ora tutto ciò — che è
verissimo — al nostro autore è stato
senza dubbio suggerito dalle analisi psicologiche accura- tamente fatte, ma possiamo noi dire che tali
concetti concordano coll’ insieme delle
dottrine da lui professate? Possiamo noi
dire che la Realtà quale viene intesa da
lui (Unità del pensiero, del volere, del sentimento estetico ecc., obbiettivamente considerati) concordi
coi risultati della psicologia esatta? E
la teoria della conoscenza fondata sui
dati della stessa Psicologia può andar congiunta con la Metafisica bradleyana? (4) (1) Forse non è inutile richiamare qui
l’attenzione sopra una forma di
Metafisica contemporanea che nacque anche come questa del Bradley in contrapposizione al movimento scientifico
contemporaneo, inten- diamo parlare
della Metafisica del Teichmiille», la quale se ha qualche punto di contatto con quella del Bradley, se
ne differenzia essenzial- mente per il
fatto che essa poggia sulla realtà del soggetto indivi- duale — Io — sostanza. Non dobbiamo
intrattenerci sulle ragioni di tale differenza
: diremo soltanto che tra queste possono essere al diversa cultura psicologica dei due autori e
l’azione che l'ambiente speculativo «del
proprio paese ha esercitato su ciascuno dei due metafisici. De Sarlo. Keywords:
implicatura, Bradley, citato da Sarlo e Grice. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Sarlo”.
Luigi Speranza -- Grice e Sarno: la ragione
conversazionale del sentire – scuola napoletana -- filosofia campanese – la
scuola di Napoli – filosofia naoletana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo
campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Interprete di BRUNO e CAMPANELLA.
Collabora al “Giornale critico della filosofia italiana” con saggi su BRUNO,
CAMPANELLA, e VICO. Medita sulla violenza. Si suicida con un colpo di rivoltella.
Si interessa a BRUNO e CAMPANELLA. Il suo punto di partenza è l’opposizione tra
un sentimento sempre identico a se stesso, essenzialmente interiore -- sensus
sui -- ed un sentire esteriore, che si tramuta nelle cose di cui ha esperienza,
che si presta e si dona tutt’intero alle cose, affinché esse vivano in lui. Atre
saggi: Pensiero e poesia (Laterza, Bari); Filosofia poetica (Laterza, Bari); Filosofia
del sentire (Pescara, Tracce); Sulla violenza (Bari, Laterza); M. Perniola, “L’enigma”
(Costa, Genova); A. Marroni, Filosofo
del farsi altro. Angelo, L'estetica italiana” (Laterza, Bari); Marroni, La passione
per il presente in “Filosofie dell'intensità. un maestro occulto della
filosofia italiana” (Mimesis, Milano); Marroni, "I carmina in foliis volitantia"
in Agalma, Giornale Critico di Filosofia Italiana. Antonio Sarno. Sarno.
Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Sarno” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Sarpi: la
ragione conversazionale della meta-fisica del fenice, o l’arte del bien
conversar – filosofia veneta – la scuola di Venezia – filosofia veneziana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo veneziano. Filosofo veneto. Filosofo italiano.
Venezia, Veneto. Very important Italian philosopher. Definito d’Acquapendente come oracolo, autore della
celebre Istoria del Concilio tridentino, subito messa all'indice. Fermo
oppositore del centralismo monarchico di Roma, difendendo le prerogative della repubblica
veneziana, colpita dall'interdetto emanato da Paolo V. Rifiuta di presentarsi
di fronte all'inquisizione romana che intende processarlo e sube un grave
attentato che si sospetta sta organizzato dalla curia romana, "agnosco
stilum Curiae romanae", che nega tuttavia ogni responsabilità. L'infanzia
e una ritiratezza in sé medesimo, un sembiante sempre penseroso, e più tosto
malinconico che serio, un silenzio quasi continuato anco co' coetanei, una
quiete totale, senza alcun di quei giuochi, a' quali pare che la natura stessa
ineschi i fanciulli, acciò che col moto corroborino la complessione: cosa
notabile che mai fosse veduto in alcuno. Poi, così serve in tutta la sua vita,
et all'occasioni dice non poter capir il gusto e trattenimento di chi giuoca,
se non fosse affetto d'avarizia. Un'alienazione da ogni gusto, nissuna avidità
de' cibi, de' quali si nutre così poco, che restava meraviglia come stasse vivo.
Nell'anno in cui proseguivano le sedute del Concilio di Trento, Carlo V e in
guerra con i prìncipi protestanti tedeschi e il Parlamento inglese adotta un
Libro di preghiere d'ispirazione luterana. Figlio di Francesco di Pietro S., di
famiglia di lontane origini friulane -- precisamente di San Vito al Tagliamento
-- e mercante a Venezia eppure, scrive Micanzio, per la sua indole violenta più
dedito all'armi ch'alla mercatura. La madre, veneziana, d'aspetto umile e mite
e Isabella Morelli. Rimasta vedova, fu accolta con il suo figlio e l'altra
figlia Elisabetta nella casa del fratello A. Morelli, prete della collegiata di
Sant'Ermagora. Con lo zio, uomo d'antica severità di costumi, molto
erudito nelle lettere d'umanità addottrinando nella grammatica e retorica molti
fanciulli della nobiltà, fa i primi studi, imparando presto e con facilità. A
dodici anni, nell’anno dell'istituzione, dopo la chiusura del Concilio,
dell'Indice dei libri proibititra i tanti, vi finirono il Talmud e il Corano,
il De Monarchia di Dante e le opere di Rabelais, Folengo, TELESIO, MACHIAVELLI,
ed Erasmo, passa alla scuola di Capella, dell'Ordine dei Servi di Maria,
seguace delle dottrine di Scoto. Capella gli insegna logica, filosofia e
teologia, finché il ragazzo fece così rapidi progressi che il maestro istesso
confessa non aver più che insegnargli. Con altri maestri veneziani apprese la
matematica, la lingua greca e l'ebraica. Con la familiarità e co' studii
entra Panco in desiderio di ricevere l'abito de' servi, o perché gli paresse
vita conforme alla sua inclinazione ritirata e contemplativa, o perché vi fosse
allettato dal suo maestro, malgrado l'opposizione della madre e dello zio che
lo voleva prete nella sua chiesa, entra nel monastero veneziano dei servi di
Maria. Continua ancora a studiare con il Capella, rimanendo alieno dalle
distrazioni proprie della sua età finché in occasione della riunione a Mantova
del capitolo generale dell'Ordine servita,
mandato in quella città «ad onorar il congresso e far vedere che
gl'ordini non sono oziosi, ma spendono il tempo in sante e lodevoli operazioni,
difendendo 318 delle più difficili proposizioni della filosofia naturale. Il
qual carico con che felicità lo sostenesse e con che giubilo e stupore di
quella venerabile corona, si può dall'evento argomentare. Essersi così distinto
agli valse la nomina a teologo da parte del duca di Mantova. Prencipe di
grandissimo ingegno, così profondamente erudito nello scienze, che
difficilmente si discerne qual fosse maggiore, o la prudenza di governare, o
l'erudizione di tutte le scienze et arti, sino nella musica, mentre il Boldrino
gli affida la cattedra. Stabilito nel convento di San Barnaba, perfeziona la
conoscenza della lingua ebraica e inizia, col puntiglio consueto, ad applicarsi
agli studi storici. E certo a motivo di quest'interesse che a Mantova
frequenta Olivo, già segretario di Gonzaga, cardinale e legato pontificio nelle
ultime sessioni del concilio di Trento, la cui caduta in disgrazia presso Pio
IV coinvolse anche l'Olivo che fu dagl’inquisitori molto travagliato, col
tenerlo longamente in carcere dopo la morte del cardinale suo signore, ma che
ora, dopo la morte del pontefice, vive privatamente in Mantova. Il gusto
principale che riceva in conversare con lui e perché lo trovava d'una
moderazione singolare, erudito, e che, per esser stato col cardinale a Trento, ha
gran maneggio in quelle azioni e sa tutte le particolarità de' negozii più
secreti, et ha anco molte memorie, nell'intendere le quali riceve molto piacere.
Sono gli anni in cui in Italia continua con vigore la repressione
inquisitoriale di Pio V. P. CARNESECCHI venne decapitato. Gl’ebrei sono espulsi
dallo stato pontificio tranne che da Roma e da Ancona, nei ghetti delle quali
vennero costretti a risiederee. E impiccato l'umanista A. Paleario. Il papa
scomunica Elisabetta d'Inghilterra, oorganizzò la Lega contro i turchi, ottenendo
la vittoria navale di Lepanto e a Parigi, a migliaia di ugonotti sono
massacrati. Fa la sua professione, entrando ufficialmente nell'Ordine servita.
Anche di lui l'Inquisizione si occupa seguito della denuncia di un confratello che
lo accusa di sostenere che dal primo capitolo del Genesi non si può ricavare
l'articolo di fede della trinità. Ma, poiché effettivamente di trinità divina
non vi è traccia nel vecchio testamento, l'inquisizione gli diede ragione,
archiviando il caso. Dopo aver ricevuto nel convento mantovano il titolo
di baccelliere, e invitato a Milano da Borromeo il quale, dopo aver ottenuto
dalle autorità contro la volontà del Senato, il riconoscimento del tribunale e
della polizia diocesana, avvia un processo di riforma del clero. Ottenne di
essere trasferito nel convento dell'Ordine servita di Venezia, dove e
incaricato dell'insegnamento della FILOSOFIA e continua i suoi studi
scientifici. Nella grande epidemia di peste, che imperversa a Venezia, facendo 50.000 vittime tra le quali Tiziano frimase
immune dal contagio. Dopo essersi addottorato a Padova, e nominato reggente del
convento di Venezia e priore della provincia veneta. Durante il Capitolo a
Parma, nel quale venne rieletto priore G. Tavanti, tenne una dissertazione di
fronte ai cardinali protettori dell'Ordine, Farnese e Santori. Uno dei tre
saggi, insieme con Franco e Giani, incaricati di preparare una riforma della
regola. Il carico suo speziale e d'accommodare quella parte che tocca i sacri
canoni, le riforme del concilio di Trento, allora nuove, e la forma de'
giudizii quella parte tutta ove si tratta de' giudizii accommodatamente allo
stato claustrale. Lascia in questo carico in Roma fama di gran sapere e di
molta prudenza, non solo nelle corti de' due cardinali suddetti, co' quali, per
ordine contenuto in un breve apostolico di Gregorio XIII, conviene conferire ogni
legge che si fa, ma anco e necessario molte volte trattar col pontefice
medesimo. Sbrigato da quale peso ritorna al suo governo. Si tenne a Bologna il
nuovo Capitolo dell'Ordine servita e viene eletto procuratore generale, la
suprema dignità di quell'ordine dopo il generale il carico porta seco di
difender in Roma tutte le liti e controversie che vengono promosse in tutta la
religione. Dove pertanto trasferirsi a Roma dove conobbe e prende strettissima
familiarità col padre Bellarmino poi cardinale, e dura l'amicizia sin al fine
della vita, grazie al quale forse puo prendere visione di diversa
documentazione relativa alle istruzioni date ai legati pontifici durante il
Concilio di Trento. Conosce anche il dottor Navarro, teologo difensore
dell'arcivescovo di Toledo, B. Carranza, accusato di eresia, il gesuita
Bobadilla e il cardinale Castagna, poi Urbano VII. Ha occasione di passare a
Napoli per presiedere Capitoli e conversare con quel famoso ingegno Porta, il
quale, anco nelle sue opere mandate in luce, fa onorata menzione del padre
Paolo come di non ordinario personaggio. Scaduto il periodo di carica a
procuratore generale dell'Ordine servita, ritorna a Venezia, frequentandovi i
circoli intellettuali che si riunivano nella bottega di Sechini e nella casa
del nobile veneziano A. Morosini, dove conobbe anche BRUNO. A Padova frequenta
la casa di Pinelli, il ricetto delle muse e l'academia di tutte le virtù in
quei tempi, dove iincontrare Galileo e Bruno, il quale s'intrattenne a Padova
più di tre mesi, poco prima di essere arrestato a Venezia. Si dove
scegliere il generale dell'Ordine servita, e fra i due principali candidati,
Baglioni e Dardano, si espresse a favore del primo. Il rancore spinse Dardano a
denunciarlo al Sant'Uffizio, accusandolo di negare efficacia allo Spirito
Santo, di avere rapporti sospetti con ebrei e allegando una lettera che fgli scrive
da Roma, nella quale sono contenute alcune parole in discredito della corte,
come che in quella si viene alle dignità con male arti, e di tenerne esso poco
conto, anzi abominarla. Senza nemmeno essere chiamato a Roma per discolparsi, e
subito prosciolto da ogni accusa. Ma il cardinale di Santa Severina, G.
Santori, protettore dell'Ordine e capo del S. Uffizio, mostrò però implacabile
indignazione autilizzando tutta la sua autorità per escludere gli amici dalli
gradi et onori con maniere così strane e fini così bassi, ch'io non ardisco
poner i casi che mi sono stati dati in nota, perché troppo gran scandalo
arrecherebbono al mondo. Continua i suoi studi mentre non cessano le rivalità
nell'Ordine servita, del quale venne eletto priore, Montorsoli, che morì tre anni dopo,
succedendogli così, Dardano, accanito avversario del S.. Questi, deciso a
uscire dall'Ordine per sottrarsi all'inimicizia dalla quale si sentiva circondato,
cerca di ottenere un vescovato, prima a Caorle e poi a Nona, in Dalmazia, che
però gli vengono rifiutati a causa delle negative informazioni che di lui il
Dardano e Gagliardi, preposito della casa veneziana dei gesuiti, diedero al
papa. Esse ssente mormorare alle volte che egli con alcuni facci una scoletta
piena d'errori. Non solo: nel Capitolo,
Dardano l’accusa di portare una berretta in capo contra una forma che
sino sotto Gregorio XIV disse esser proscritta; che portasse le pianelle
incavate alla francese, allegando falsamente esserci decreto contrario, con
privazioni divote; che nel fine della messa non recita lo Salve Regina. E assolto
anche da queste accuse. La Repubblica veneziana, stretta a nord
dall'Impero, in Italia dalla prevalenza spagnola e papale, in Oriente dalla
potenza turca, e ormai avviata a quel lungo declino politico ed economico che a
la sua sanzione. Alla prudente politica dei patrizi, rasseglla compromissione
con l'Impero e il papato, si sostituì quella degli innovatori, i cosiddetti
«Giovani», decisi a sottrarre la Serenissima all'invadenza ecclesiastica
nell'interno e a rilanciarne le fortune commerciali nell'Adriatico, compromesse
dal controllo dei porti esercitato dallo Stato pontificio e dalle azioni degli
Uscocchi, i pirati cristiani croati appoggiati dall'Impero. Iil Senato
veneziano proibì la fondazione di ospedali gestiti da ecclesiastici, di
monasteri, chiese e altri luoghi di culto senza autorizzazione preventiva della
Signoria. Un'altra legge proibiva l'alienazione di beni immobili dai laici agli
ecclesiastici, già proprietari, pur essendo solo un centesimo della
popolazione, di quasi la metà dei beni fondiari della Repubblica, e limita le
competenze del foro ecclesiastico, prevedendo il deferimento ai tribunali civili
degli ecclesiastici responsabili di reati di particolare gravità. Avvenne che
il canonico vicentino S. Saraceno, colpevole di molestie a una nobile parente,
e l'aristocratico abate di Nervesa, Brandolini, reo di omicidi e di stupri, sono
incarcerati. Paolo V emana due brevi richiedenti l'abrogazione delle due leggi
e la consegna al nunzio pontificio dei due ecclesiastici, affinché secondo il
diritto canonico fossero giudicati da un tribunale ecclesiastico. Il
nuovo doge Donà fece esaminare i due brevi da giuristi e teologi, fra i quali S.,
affinché trovassero modo di controbattere alle richieste della Santa Sede. Venne
nominato teologo canonista proprio S. e lo stesso giorno il suo scritto:
Consiglio in difesa di due ordinazioni della Serenissima Repubblica, venne
inviato al Papa. Difese le ragioni della Repubblica con numerosi saggi. Sono di
questi mesi la scrittura sopra la forza e validità delle scomuniche, il consiglio
sul giudicar le colpe di persone ecclesiastiche, la scrittura intorno
all'appellazione al concilio, la scrittura sull'alienazione dei beni laici agli
ecclesiastici e altri ancora, poi raccolti nella sua successiva “Istoria
dell'interdetto”. In quell saggio è contenuta anche un saggio sulla validità
della scomunica, attaccato da BELLARMINO, al quale rispose allora con
l'Apologia per le opposizioni do Bellarmino. Mentre Micanziosuo inizia a collaborare
dopo che Paolo V scomunica il consiglio veneziano e fulminato con l'interdetto
lo Ssato veneto, pubblica il protesto del monitorio del pontefice, nel quale il
breve papale Superioribus mensibus è definito nullo e di nessun valore, mentre
impede la pubblicazione della bolla pontificia. Obbedendo alle disposizioni
del papa, i gesuiti rifiutano di celebrare le messe a Venezia e la Repubblica
reage espellendoli insieme con cappuccini e teatini. Parteno la sera alle doi
di notte, ciascuno con un Cristo al collo, per mostrare che Cristo parte con
loro. Concorse moltitudine di populo e quando il preposto, che ultimo entra in
barca, dimanda la benedizione al vicario patriarcale si leva una voce in tutto
il populo, che in lingua veneziana grida loro dicendo "Andé in
malora!". A Roma si spera che l'interdetto provocasse una sollevazione
contro i governanti veneziani ma i gesuiti scacciati, li cappuccini e teatini
licenziati, nissun altro ordine parteno, li divini uffizi sono celebrati
secondo il consueto il senato e unitissimo nelle deliberazioni e le città e
populi si conservano quietissimi nell'obbedienza. Venezia era alleata, in
funzione anti-spagnola, con la Francia, ed era in buoni rapporti con
l'Inghilterra e con la Turchia. Fingendosi veneziani, soldati spagnoli, per
provocare la rottura delle relazioni turco-veneziane, sbarcano Durazzo,
saccheggiandola, ma la provocazione e facilmente scoperta e i turchi offreno a
Venezia l'appoggio della loro flotta contro il papa. L'Inquisizione l’intima di
presentarsi a Roma per giustificare le molte cose temerarie, calunniose,
scandalose, sediziose, scismatiche, erronee ed eretiche contenute nei suoi saggi
ma naturalmente si rifiuta. Invano il papa che scomunica Sarpi e Micanziosi
dichiara favorevole a portare guerra a Venezia. La sua unica alleata, la
Spagna, minacciata da Francia, Inghilterra e Turchia, non puo sostenerla in
quest'impresa e si giunse così alle trattative diplomatiche, favorite dalla
mediazione del cardinale Joyeuse. Venezia rilascia i due ecclesiastici
incarcerati e ritira il suo protesto al papa in cambio della revoca
dell'interdetto, mentre le leggi promulgate dal Senato veneziano restarono in
vigore e i gesuiti non possono rientrare nella Repubblica. Riceve Schoppe,
molto intimo dei segreti affari della curia romana, il quale gli confide che il
papa, come gran prencipe, ha longhe le mani, e che per tenersi da lui gravemente
offeso non puo succedergli se non male, e che se sino a quell'ora avesse voluto
farlo ammazzare, non gli mancavano mezzi. Ma che il pensiero del papa e averlo
vivo nelle mani e farlo levare sin a Venezia e condurlo a Roma, offerendosi
egli, quando volesse, di trattare la sua riconciliazione, e con qual onore
avesse saputo desiderare. Asserendo d'aver in carico anco molte trattazioni co'
prencipi alemanni protestanti e la loro conversione». Schoppe, ambiguo
provocatore, intende convincerlo a
mettersi nelle mani dell'inquisizione come miglior partito che puo prendere,
tanto parvero strane le due proposte di far ammazzare o prender vivo il padre.
I disegni omicidi sono reali. Circa le 23 ore, ritornando al suo convento di
San Marco a Santa Fosca, nel calare la parte del ponte verso le fondamenta, e assaltato
da V assassini, parte facendo scorta e parte l'essecuzione, e resta
l'innocente ferito di tre stilettate,
due nel collo et una nella faccia, ch'entrava all'orecchia destra et usciva per
apunto a quella vallicella ch'è tra il naso e la destra guancia, non avendo
potuto l'assassino cavar fuori lo stillo per aver passato l'osso, il quale
restò piantato e molto storto. I sicari, fuggendo, trovano rifugio nella casa
del nunzio pontificio e la sera s'imbarcano per Ravenna, da dove proseguirono
per Ancona e di qui raggiunsero Roma. Si conoscono i loro nomi: l'esecutore
materiale dell'attentato e Poma, già mercante veneziano, poi trasferitosi a
Napoli e di qui a Roma, dove divenne intimo del cardinale segretario di Stato S.
Caffarelli-Borghese e dello stesso Paolo V. E co-adiuvato da tre uomini d'arme,
tali A. Parrasio, Giovanni da Firenze e Bitonto, mentre «a spia, o guida e Viti,
solito offiziare in S. Trinità di Venezia, che non lascia dubitare quanti mesi
precedessero questo bel effetto prima che fosse mandato alla luce. Poi che Viti
la quadragesima antecedente, sotto specie d'aver gusto delle predicazioni del
padre maestro Fulgenzio, anda ogni mattina in convento de' servi alla porta del
pulpito, che risponde alla parte di dentro, e cortesemente tratta con lui,
ricercandolo anco di qualche dubbio di coscienza. E continua di poi sempre a
salutarlo et anco andar in convento a visitarlo, parlandogli sempre di cose
spettanti all'anima. Il pugnale non ha tuttavia leso organi vitali e riusce a
sopravvivere. Il chirurgo Acquapendente, che l'opera, dice di non aver mai
medicato una ferita più strana, rispondendo allora con la famosa espressione. Eppure
il mondo vuole che sia data stilo Romanae Curiae. Le conseguenze furono la
rottura della mascella e vistose cicatrici nel volto. Il Senato, dichiarandolo
persona di prestante dottrina, di gran valore e virtù gli concede una casa in
piazza San Marco ove possa risiedere con il Micanzio e altri frati, e una
sovvenzione affinché possa acquistare una barca e provvedere alla sua sicurezza
personale. Rifiuta la casa ma si servì da allora di una barca che gli evita si
pericolosi tragitti a piedi per le calli veneziane. Poco più di un anno
dopo, e sventato un secondo attentato, ordito, sembra su mandato di Margotti, d’Antonio
da Viterbo, i quali, fatta una copia della chiave della sua camera vuoleno secretamente
introdurre nel monasterio due o più sicarii e la notte trucidare l'innocente. Inizia
a corrispondere con personalità soprattutto di fede calvinista o gallicana. Fra
questi ultimi, Leschassier e Gillot, che pubblica gli Actes du concile de
Trente, dimostrando le pressioni papali sui vescovi riuniti a concilio, e fra
gli altri l'italiano Castrino, i
francesi Villiers, Casaubon, Thou, Mornay, i tedeschi Achatius e Dohna.
Attraverso il dialogo diretto con gli intellettuali acquiesce quella straordinaria ampiezza di
orizzonti e di interessi, quella solida conoscenza dei problemi dello stato che
gli permite di arricchire la sua cultura storica, giuridica e scientifica e lo
conduce a incidere sulla sua posizione filosofica, ad approfondirne la crisi,
risolvendola poi con l'accoglimento di nuove prospettive e di nuove idealità;
spalancandogli un mondo nuovo, che gli fac sentire più soffocante, più viziata,
la vita italiana. Incontra a Venezia Bedell, che rifere di lui e del Micanzio
come essi sono completamente dalla nostra parte nella sostanza della religione
e, Dohna inviato da Cristiano I di Anhalt-Bernburg, e Diodati, per valutare la
possibilità di introdurre a Venezia la Riforma. La traduzione in lingua
italiana del nuovo testamento, viene diffusa a Venezia proprio in questo
periodo. Altre polemiche suscitano, le prediche quaresimali di Micanzio
che vengono interpretate a Roma come un attacco alla fede cattolica. -- è anche
preoccupato per la tregua stipulata tra la Spagna e i Paesi Bassi, perché vede
in essa un indebolimento di questi ultimi che, o prima o dopo, resteranno
sopraffatti dalle arti spagnole, mentre gli spagnoli ne potrebbero trarre
beneficio anche in vista del loro dominio in Italia. Spera in un'alleanza
generale di Francia, Inghilterra, principi protestanti, Paesi Bassi, Savoia e
Venezia che portasse alla guerra contro l'Impero cattolico ispano-tedesco e
cancellasse il dominio papale e spagnolo in Italia. Se sarà guerra in Italia,
va bene per la religione; e questo Roma teme. L’inquisizione cessa e
l'Evangelio ha corso. E ha bene anche per le libertà civili di Venezia: qui,
anche se il giogo ecclesiastico è assai più mite che nel rimanente d'Italia, in
quella parte nondimeno che tocca la stampa è l'istesso appunto che negli altri
luoghi. Nessuna cosa si può stampare se non veduta e approvata
dall'Inquisizione. Dove si ragiona di alcun papa, non permettono che si dica
alcuna di disonore, se bene vera e notoria. Non permettono che alcuno separato
dalla Chiesa romana sia lodato di qualsivoglia virtù, né nominato se non con
vituperio. Secondo la versione ufficiale, sebbene sfinito, volle alzarsi per il
mattutino, come al solito, e celebrare la Messa. Fatto chiamare il priore del
convento, lo prega che lo raccomandasse alle preghiere dei confratelli e che
gli portasse il Viatico. Gli consegna tutte le cose concesse a suo uso. Si fa vestire,
si confessa e passò il resto del mattino facendosi leggere da fra Fulgenzio e
da Fra Marco i Salmi e la Passione di Cristo narrata dagli Evangelisti. Gli e quindi
amministrato dal priore, alla presenza della Comunità, il Viatico. E visitato
dal medico che gli dice che ha poche ore di vita. Sorridendo, rispose: Sia
benedetto Dio. A me piace ciò che a Lui piace. Col suo aiuto faremo bene anche
quest'ultima azione -- quella di morire. E udito ripetere più volte, con
soddisfazione: Orsù, andiamo dove Dio ci chiama. Secondo alcuni le sue ultime
parole sarebbero state. Esto perpetua, riferendosi a Venezia (v. Bianchi-Giovini,
Esistono tuttavia altre versioni della sua morte che lo fanno apparire più
vicino al culto protestante. Figura assai complessa di filosofo, occupa
indubbiamente un posto di primo piano nella storia della filosofia italiana. Fu
uno dei più grandi filosofi. La sua prosa è una delle più maschie ed efficaci
di tutta la filosofia nostra, che non conosce lenocini né fronzoli, che
scolpisce le figure con raro risalto, che ha un magnifico potere ri-evocatore
allorché descrive dispute e contrasti, ch'è impareggiabile nel sarcasmo, tutto
contenuto in un'unica espressione, tre o quattro parole. G. Papini, parlando
della Istoria del Concilio di Trento, la define un modello di lucidità narrative
e di prosa semplice, esatta e rapida. Lascia orme indelebili nella filosofia,
nella matematica, nell'ottica, nell'astronomia, nella medicina ecc. Galilei e
suo grande amico, e non disdegna di appellarlo: Mio Maestro. Dinanzi al primo
avvertimento a Galilei, lui, che non visse abbastanza a lungo per assistere
alla condanna scrive. Verrà il giorno, e ne sono quasi certo, che gl’uomini, da
studi resi migliori, deploreranno la disgrazia di Galileo e l'ingiustizia resa
a sì grande uomo. Scopre la dilatabilità della pupilla sotto l'azione della
luce e le valvole delle vene. I suoi biografi parlano anche di scoperte nel
campo dell'anatomia, dell'ottica, ecc. L'invenzione del telescopio dice
Bianchi-Giovini il Galilei la dovette per certo ai lumi somministratigli da lui,
se pure questi non ne fu il primo inventore, come pensano alcuni. Sopra la sua
sapienza matematica si cita l'autorevole giudizio di Galilei. Galilei non esita
a dire della ‘fenice’: del quale posso senza iperbole alcuna affermare che
niuno l'avanza in Italia in cognizione di queste scienze matematiche contro
alle calunnie ed imposture diCapra, in ediz. naz., Firenze, La teoria di GALILEI
delle maree, successivamente dimostratasi erronea, riprende le sue idee, esposte
nei Pensieri naturali, metafisici e matematici. Porta, dopo aver dichiarato di
avere appreso alcune cose da lui, lo proclama splendore ed ornamento non solo
della città di Venezia e dell'Italia, ma di tutto il mondo. (Magia naturalis). Passionei gli define dottissimo oltre ogni
espressione. In uno studio il cui intento era quello di misurare il Q.I. di 300
personaggi famosi. si posiziona al quinto posto, al pari del più noto
matematico Pascal. Alla grande intelligenza unì anchecome riconosciutagli da
tuttiun'esemplare integrità di vita.
Jemolo, dopo essersi rivolto varie domande intorno alla sua ortodossia,
da questa risposta. Gli elementi ci mancano per una risposta perentoria: noi
non possiamo dissipare l'alone di mistero che lo circonda. Questo non
c'impedisce di ammirare l'uomo e l'opera. Fondamentalmente lo scontro con la
Curia romana e legato ad un progetto politico volto a contenere il potere di
Roma in ambito esclusivamente spirituale e a pro-muovere un'alleanza tra
Venezia e la Francia in un'ottica anti-imperiale. Per questo intrattenne
contatti con i riformati. Inoltre la sua visione di Roma e un vago ritorno
verso la chiesa primitive. Egli quindi e indotto a condannare il potere
temporale, il processo di mondanizzazione del clero, la superiorità del papa sul
Concilio. Stringe amicizia con Dominis, arcivescovo di Spalato, che tende all'apostasia.
La sua Istoria del Concilio Tridentino costituisce il suo capolavoro storico ed
offre la prima imponente ricostruzione del Concilio di Trento. L’opera e ondannata
dalla Congregazione dell'Indice e quindi posta all'Indice dei libri proibiti. Sono
intercettate dal nunzio pontificio a Parigi Ubaldini compromettenti carteggi di
lui con l'ambasciatore veneziano Foscarini e con l'ugonotto Castrino; carteggi
ben presto inviati a Roma per essere messi a disposizione del Sant'Uffizio, ma
anche da utilizzare per far ammettere una buona volta al governo veneziano
quanto da tempo da Roma si viene denunciando, che lui che si proclamava più
cattolico del Papa e come tale difeso ufficialmente dai responsabili politici
veneziani. Altri non era che un protestante, al servizio delle forze ereticali
europee. Dunque infedele e ipocrita. Una taccia di ipocrisia che non da tregua
alla sua figura lungo i secoli, come stanno a provare innumerevoli esempi, da Aleandro,
che ricevuta da Peiresc la sua Istoria dell'Interdetto appena edita risponde
all'illustre erudito francese con fare perentorio che lui e nero ministro
del diavolo che si dice esser padre delle menzogna, se ben egli veramente non
credeva né nel diavolo né in Dio, al
prelato friulano G. Fontanini con la sua velenosa Storia arcana della sua vita a
Passionei, che crede di avere le carte per dimostrare che l'idea del furfante e
di introdurre il calvinismo in Venezia, come ancora ricorda A. Mercati. Un
parere analogo si trova anche nella recente Storia della Chiesa di Hertling e
Bulla, dove viene definite un ipocrita che fino all'ultimo fa la parte del
religioso, sebbene nel suo intimo si fosse da tempo allontanato dalla Chiesa. Saggi:
“Trattato dell'interdetto di Paolo V nel quale si dimostra che non è
legittimamente pubblicato”; “Apologia per le opposizioni fatte da Bellarmino ai
trattati et risolutioni di G. Gersone sopra la validità delle scomuniche; Considerationi
sopra le censure della santità di Paolo V contra la Serenissima Repubblica di Venezia,
Istoria del Concilio Tridentino, Il
trattato dell'immunità delle chiese (De iure asylorum), Discorso dell'origine,
forma, leggi ed uso dell'Uffizio dell'Inquisizione nella città e dominio di
Venezia, Trattato delle materie beneficiarie, Opinione di Servita, come debba
governarsi la Repubblica Veneziana per havere il perpetuo dominio, Venezia, La
storiografia recente attribuisce lo scritto al patriziato veneziano medesimo. Scritti
giurisdizionalistici, Istoria del Concilio Tridentino (Geneua, Aubert); Pagnoni
Editore, Milano, Gambarin, Scrittori d'Italia, Bari, Laterza, G. Gambarin, IScrittori
d'Italia, Bari, Laterza, Gambarin, Scrittori d'Italia Bari, Laterza, Istoria
del Concilio Tridentino, testo critico di Giovanni Gambarin, introduzione di Pecchioli,
Collana Biblioteca, Sansoni, Firenze, Lettere a Simone Contarini ambasciatore
veneto in Roma, pubblicate dagli autografi, Monumenti storici pubblicati dalla
R. Deputazione veneta di storia patria. Miscellanea, Venezia, Fratelli
Visentini, Pagine scelte, Arturo Carlo Jemolo, Vallecchi, Firenze, Lettere ai
protestanti, Scrittori d'Italia, 1, Bari, Laterza, Lettere ai protestanti, Scrittori d'Italia, Bari,
Laterza, Antologia degli scritti politici e storici. Roffarè, MILANI, Padova, “Istoria
dell'Interdetto e altri scritti editi e inedita” (Scrittori d'Italia Bari,
Laterza); Amerio, “Scritti filosofici e teologici” (Scrittori d'Italia, Bari,
Laterza); “Pensieri naturali, metafisici e matematici. anoscritto dell'iride e
del calore; Arte di ben pensare, Pensieri medico-morali, Pensieri sulla
religione, Fabula e Massime e altri scritti. Edizione integrale commentate, L.
Sosio, Ricciardi, Milano-Napoli, Scritti giurisdizionalistici” (Scrittori
d'Italia, Bari, Laterza); “Lettere ai Gallicani, B/ Ulianich, Wiesbaden, F.
Steiner, La Repubblica di Venezia la
casa d'Austria e gli Uscocchi, Bari, Laterza, Scritti scelti: Istoria
dell'Interdetto, Consulti, Lettere, Pozzo, Collezione di Classici Italiani, POMBA,
Torino); Storici, Politici, e Moralisti, G. Cozzi, Collana La Letteratura
Italiana. Storia e Testi, Milano-Napoli,
Ricciardi, Istoria del Concilio Tridentino seguita dalla Vita, Corrado Vivanti,
Collana NUE Einaudi, Torino, Collana Piccola Biblioteca. Einaudi, Torino, “Pensieri”
Gaetano e Cozzi, Collana Classici Ricciardi, Torino, “Considerazioni sopra le
censure di Paolo V contro la Repubblica di Venezia e altri scritti
sull'Interdetto”, G. Cozzi, Collana Classici Ricciardi, Einaudi, Torino, “Lettere
a Gallicani e Protestanti, Relazione dello Stato della Relazione, Trattato
delle Materie Beneficiarie. Cozzi, Collana Classici Ricciardi, Einaudi, Torino,
Gli ultimi consulti. G. Cozzi, Collana Classici Ricciardi, Einaudi, Torino, Dai
Consulti, il carteggio con l'ambasciatore inglese Carleston. Cozzi, Collana
Classici Ricciardi, Einaudi, Torino, Dal Trattato di pace et accomodamento e
altri scritti sulla pace d'Italia. Cozzi, Collana Classici Ricciardi, Einaudi,
Torino, Consulti, Corrado Pin, Pisa, Poligrafici, Letteratura e vita civile.
Collana I Classici del Pensiero Italiano; Della potestà de' prencipi; Collana I
Giorni, Marsilio, Venezia, Scritti filosofici inedita, tratti da un manoscritto
della Marciana”; Papini, Collana Cultura dell'anima, R. Carabba, Lanciano, Manoscritti
Consulti: in Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, Fondo manoscritti, Ceretti,
Cinque pugnali non bastano a troncare la sua parola, in Historia, Touring club
italiano, F. Micanzio, Vita, in «Istoria
del Concilio tridentino, Torino F. Micanzio. Scrive tra l'altro nella lettera. E
che volete ch'io speri in Roma, ove li soli ruffiani, cenedi et altri ministri
di piaceri o di guadagni hanno ventura? I cenedi sono gl’uomini che si prostituiscono.
Micanzio, cit. G, Cozzi, Sarpi, F. Micanzio, Istoria dell'interdetto e altri
scritti editi e inediti, F. Micanzio, dove stilo può significare sia stile che
stiletto Ivi Cozzi, Lettere a Groslot de l'Isle, in
«Lettere ai protestanti», Lettera a Francesco Castrino, Lettere ai protestanti,
Citato in C. Rizza, Peiresc e l'Italia, Torino, Giappichelli, Pin, Senza
maschera: l'avvio della lotta politica dopo l'Interdetto; L. Hertling e A.
Bulla, Storia della seconda Roma La penetrazione dello spazio umano ad opera
del cristianesimo” (Città Nuova, Borgna Romain, Lucien, Micanzio, Vita, dell'ordine de' Servi e theologo della
serenissima republ. di Venetia, Leida, in “Istoria del Concilio tridentino” (Torino,
Einaudi); Griselini, “Memorie anedote spettanti alla vita ed agli studj del
sommo filosofo e giureconsulto” (Losanna, Bousquet); Griselini, “Del suo genio
in ogni facolta scientifica e nelle dottrine ortodosse tendenti alla difesa
dell'originario diritto de' sovrani né loro rispettivi dominj ad intento che
colle leggi dell'ordine vi rifiorisca la pubblica prosperita” (Venezia,
Basaglia); Zerletti, “Storia arcana della vita servita da Fontanini in partibus e documenti relative (Venezia);
“Cassani, Le scienze matematiche naturali” (Venezia; Bianchi-Giovini, Basilea, Morghen,
Getto, Firenze, Olschki; Gliozzi Relazioni scientifiche con Porta, Cozzi, Tra
Venezia e l'Europa” (Collana Piccola Biblioteca, Torino, Einaudi); Frajese, “Scettico.
Stato e Chiesa a Venezia, Bologna, Il Mulino); Cacciavillani, I consulti sulla
Vangadizza, Padova, MILANI, Cacciavillani, Venezia, Fiore, Cacciavillani, S.. La guerre delle scritture de la nascita
della nuova Europa, Venezia, Fiore, Cacciavillani, S. giurista, Padova, Pin, Ri-pensando
S., Venezia, Ateneo veneto, Concilio di Trento, Micanzio. Dizionario di storia,
Dizionario biografico degl’italiani. OPERE VARIE DEL MOLTO REVERENDO S. DELL’ORDINE
DE’SERVI DI MARIA CONSULTORE DELLA SERENISSIMA REPUBBLICA DI VENEZIA. 1 HELMSTAT Per Jacopo' Mulleri. Trattato delle Materie
Benefiziarie cx)lle annotazioni del Signor D. Amelot, tradotte dalla lingua
Francefe. De jure Afylorum. Storia degli Ufcocchi, Allegazione del Frangipane. Dominio del Mare Adriatica della Sereniflima
Repubblica di Venezia. Dominio del Mare
Adiiaticp, e fue ragioni pel Jus
belli. Indice dei Libri proibiti
dell’anno ijpd. Il Concordato. TRATTATO
DELLE MATERIE BENEFICIARIE
nel quale fi narra, col fondamento delle Storie come fi difpenfajfero le limofme de' Fedeli
nella primitiva Chicfa. reddito il
fervor antico della caritk, che non folo moveva i Principi, e a donar alle Chiefe copiofamentc ricmporali,
ma ancora fnduceva i Mini(ìartici a difpenfarle faniamente in cam è-maraviglia,
fc al prefente pare mancati i fedeli
difpcnlatori, c fucluogo loro altri diligenti folo in ritcac almeno a
tollerabile moderazione. I difetti che ci
par di vedere al giorno d i oggi non fono entraci nell’ Ordine Chcricale
tutti infieme, nè cos^ eccellivi in un ifteflb tratto di tempo ; ma da una
fomma, anzi divina perfezione per gradi fono diIcefi air imperfezione che ora è
manifcfta a tutti y c confeflara dagli fteffi Ecclefiaffici, e da alcuni tenuta
per irremediabile. Con tutto ciò,
piacendo a Dio N. Signore di donar a’ Fedeli fuoi tanta grazia,, quanta donò a’noftri Maggiori, non
dobbiamo perdere lafperanza di vedetele medefime maraviglie anche ne’
noftrifecoli: è bennecef làrio che,
ficcomepergradifiamopcrvenutiaqucftaprolbnditkdimifcria, Tomo . A cos^ coc\
per gli ilefì ci «ndumo ahEando | prr ritornare ve^o quella ioiQ' mit^ di perfezione nella quale fu la Chiefa
Santa t- Il che non potendofi fare, fé non conofccndo qual folTe dapprincipio V
amminiftrazione delle cofc temporali ; e come fia mancato quel buon governo
; a parte a parte è neceffario, innanzi
ogni altra cola, dire come la Chiefa di
tempo in tempo ha acquiftate le ricchezze temporali ; e come in ciafeuna mutazione deputaHc i Minidri
per difpenfarle, o pofledcrie : il che
ci Icoprirh gl’ impedimenti che in quelli tempi attraverfano una buona
riformazione ; ^ moftrerli le maniere di lupefarli; c quello è il mio
proponimento nel prefciue dilcorf^ delia ma-»
teria Benefiziale tanto ampia. a
I» Tu il printipio de beni
Ecclelìallic! mentre ancora converfava in
quello Mondo N. Signore Gesù Grillo ; ed il fondo loro non era altro,
che le obblazioni delle perfone pie, c divote, le quali eranoconfervale da un
Minillro, e diflribuite in due opere lolamente : Una per le nccelHth di N. Signore, c degli
Appoftoii Predicatori del Vangelo; c l’altra per far limofina a poveri, Tutto
ciò fi vede chiaro in San Giovanni, dove
dice il Vangelilla, che Giuda era quello che
portava la tafea, o borfa, (rf) dove erano ripolli i danari
prclcntati al Signore; c che il
medelìnio andava fpendendo, c comprando le cofe nccelTarie a loro, ovvero
dillribucndo a’ poveri, (b) conforme a
quanto il Signore alla giornata comandava Confiderà S. AgoUinoche, avendo Grillo il miniflero degli Angeli che
lo fervivano, non era in nccelTith di
confcrvar danari; con tutto ciò volle aver borfa, per dar ( ^efa di q uello ch’ella doveva fare; e per
ciò Icmprc intefe la Cnicik fofle ìllituita la forma del danaro
Ecclefìallìco dovclTe cavare, c in che cofa fi dovclic fpendere. È fc nc^em^roAri
non veggiamo oflcrvato qucAo fanto iilituto, dobbiamo conlìdcrare che, per
noftro ammaeAramemo, c per noHra conioiazione',
racconta la Scrittura divina che all' ora anche Giuda era un ladro, (c) c ufurpava per sò i beni comuni al
Collegio ApfpAoUco; e venne a tanto colmo d’avarizia, che, non parendogli aÙai
quelle thè rubbava, per far maggior lomma di danari, pal^ li e elTcr comune
della Chiefa, e de’ poveri, pafTì cosf
innanzi, che venda anche, per far danari, le cole facre, c le
grazie fpirituali, non dovremo riferir
ciò a particolar mUeria dc’noAri,o d’
alcuni tempi y ma afcriverlo a pcrrailTione divina, per efcrcizio
de’ buoni Loculo hibent, a qu«
miuebintur por. ubit. cip.
>>• LÌkuIo lubcbtc )o«ias, qnoJ
auiflét ci jefus : Eme cu, opui &nt
nohts sJ aiem Icllum, U( c^cnii ui
tliqtiUi direi. (ip, ij. quM de egeo»
pertinebut ad cum, cip. II. ftT(hi tr
U funtìmi dtl fut m'mi Loculot > ti th fi tbismt Sftdsli il In0go -dovi (! rra«r dS d»’ (f> Fur erat. »p. u. ciuto. Digitized by GoogU MATER. BENEFIC. 3 buoni; ^nfìderando che il principio della
Chiefa nafccnte fu fogget10 alle mcdefime imperfezioni: ben dovr^ ciafcuna
fecondo il grado, e la vocazione Tua,
proccurar il rimedio chi non può
altrimenti, colle orazioni; e chi può
impedire il male, con ovviare, e opporfi
agli abuft ; confiderando che, febben Giuda non fu umanamente punito,
pcrchò erano complici dcTuoi delitti quelli che dovevano,galligarlo; modrò
nondimeno la divina Provvidenza qual pena meritalTe; c dil^le ch’egli ftelTo fofle Tefecutorc in
sèmedefimo, per documento di quello che dovcflcro fare quelli che la Macftìi
fua avrebbe netempi Icgucnti dati per tutori, c difenfori della fua Chiela. Dappoiché
Crifto N. Signore Cili al Ciclo, i Santi Apposoli Icguirono nella Chiefa di
Gerufalemme lo HelTo ìnituto, d'aver il daiuro Ecciefìaflico per Itdue effetti
fopraddetti, cioè, perii bifogno deMiniftri del Vangelo, c per le limoline de’
poveri.- e il fondo di quello danaro era
fìmilmente le obblazioni de’ Fedeli, i quali anche, mettendo ogni loro avere in
comune, vendevano le loro polTelfioni, per
far danari a quell’ effetto; ficchè non era dipinto il comune della Chiefa dai particolare di ciafeun fedele, {a)
come fi ulà ancora in alcune Religioni
che fervano i primi iHituci. Erano molto pronti i CriHiani in quei primi tempi a fpogliariì
de’beni temporali, per impiegarli in limoGne, perche afpettavano prolTimo il
fine del Mondo; avendoli Crillo N. Signor lafciati incerti.- e quantunque f(^c
per durare quanto fi volcflc, non 1 ’
avevano per confiderabilc più, chefe
fofle all’ora per finire; tenendo per fermo che la figura di quello mondo, cioè, lo fiato della vita prcfentc
trapalfa; (c) per lo che ancora le
obblazioni fempre più $’ aumentavano. Il cofiume però di non aver cofa alcuna di proprio, ma »l «utt©
ùi comune, fioche non vi folfe alcuno
povero, o ricco, ma tutti ugualmente vivefiero, non ufei fuori di Gerufalemme; anzi nelle altre
Chiefe che i Santi Appofioli edificarono non fu ifiituico; nè in Gerufalemme
durò molto lungamente: imperocché zò.
anni dopo la morte di Crillo fi legge
che il pubblico era didimo dal privato, conolcendo ciafeun il fuo,
ra elTendovi anche il danaro fondato
nelle obblazioni, le quali, polle in
comune, fcrvivapo per li foli Minifiri, e perii poveri; nè era lecito viver di quel della Cliiefa a chi aveva del
Tuo: laonde S. Paolo ordina che le vedove, le quali hanno parenti, fieno
fpefate da’ loro proprj, acciocché i
beni Ecclcfiafiici posano badar a quelle che fono veramente Vedove, c povere. ( ), III.
La cura di quelli beni che N. Signore, mentre fu in vita mortale, diede
a Giuda, dopo V Afeenfìone gli Apposoli per pochiiTimo tempo r ammtnìArarono eglino IfelTi; ma poi
vedendo che, per la diAribuzione,
nalccvano tra i fedeli mormorii, c fedizioni, ( ^ ) parendo ad alcuni di non
participare quanto avrebbono voluto del comune, e credendo che altri avelTero
più del dovere ; ficcome il male è comune in tutti i tempi nella diipenta de’
beni della Chiefa, conobbero gli Apposoli che non potevano attendere a quello
perfettamente, ed inficme alla predicazione delta parola di Dio ; c determinarono
di ritener ( c ) per se il minillero di predicare, e infegnare; ( ) ordinando per quelV uffizio di tener cura
delle cofe temporali un altra Torta di
Miniffri j ( ^ ) tutto al contrario di quello che veggiamo fare nc’ tempi noftri, quando al governo
delle cofe temporali attendono i principali Prelati della Chiela; e l’uffizio
del predicare, e infegnare la parola di pio, eia dottrina del Vangelo, è
lafciato a Frati, o. ad alcuni poveri
Preti iniimi nella Chiefa. Maque nuovi Miniffri
che i fanti Appoffoli iffituirono per governo delle cofe temporali,
fi chiamarono Diaconi; c cosi da tutto
il corpo de Fedeli fu fatta elezione di d. a quell’ effetto, i quali gli
Appoffoli ordinarono a tal minifferio; e dovunque effi fondarono Chiela,
ordinarono anche Diaconi nellifteffa maniera, come anche ordinavano i Vcicovi,
e Preti, e altri Miniffri Eccleliallici; cioè, precedendo digiuni, e orazioni,
fulfeguendo f elezione comune de’
Fedeli; () fcrvando inviolabilmente quell’ ordine, di non deputare m al wiiwi -carica-
Fxclcllallico perlAna, la quale prima non fofTe eletta dall’ univerlaie della
Chiela, cioè, da tutti i Fedeli infteme. Quell' ufo continuò nella Chida in tal
maniera circa zoo. anni, foftentandofi
co’ beni pubblici i Miniffri Ecclcfiaftici, ci poveri ancora; nè eflendovi
altro fondo, falvo che le ubbUztoni eh erano
fatte da’ Fedeli nella Chiela, le quali però erano abbondantiflìme, perchè
ciafeuno, per fervore di caritìi, offeriva tutto quello che poteva fecondo il proprio avere; ficchè, quando le
facoltìi de’ Fedeli d’ una Cittk erano
abbondanti per lupplire a bilogni della propria Chiela, fi facevano collette anche per 1’ altre
Chicle povere : per lo che anche S. Jacopo, S. Pietro, e S. Giovanni, quando
riconobbero per conforti e compagni nel Vangelo S. Paolo, e S. Barnaba,
raccomandarono loro quell’ opera, di raccogliere qualche limofìna per la
povera Cliiela di Gerufalemme, per la
quale (g) anche narra $. Paolo aver
fatte («) Per untm Sibòati, étt,
unuf^utrqa \cltruni apiui (e fepuaAl, n«np4enf quoi ci bene plottiem. i.Cor. cap. ultimo. ( i ) faAum rft umrmur ijrccutuin adverfui
Hehrjtoi, co cne s’ingannò quel Principe, credendo che i tefori folTero
ammalTati, c confcrvati ; perche quel
fanto Diacono, acconofi della rapacità del
Tiranno, e prevedpndo la perfccuzione imminente, difpensò il tutto
in ima volta, com’erano teliti di fare,
foprafiando fimili pericoli. e la maggior parte delle perfecuzioni fatte alla
Chiefa dopo la morte di C^ modo furono
per quefia caufa, cioè, perchè i Principi, o i Prefetti, ritrovandofi in
firettezza di danari, per quella via volevano impadronirfi di quelli della
Chiefa Crìfiiana Dappoiché le Chiefe furono fatte ricche, anche i Cherici
cominciarono a vivere con maggiori
comodità; e alcuni, non contentandofi di quel
vito comune della Chiefa quotidiano, vollero viver feparatamente
nella propria caia, e dalla Chiefa aver
la loro porzione feparatamente in danari
ogni giorno, 0 per un mefe continuo, c ancora per un lunpo tempo : cola, che, febben declinava dalla prima
perfezione, nondimeno era tollerata da’
Padri - Non fi fermò però in qucfto fiato il difordine;; ma incominciarono i Vefeovi a mancare delle
folite Jimofine a poveri, c a ritener per se quello che doveva clTcr
diftribuito,• e co’ beni della Chiefa comuni fatti ricchi, facendo anche delle
ul'ure, per accrefcerli; e lafciando la
cura dell’ infegnare la dottrina di Crifio,
tatti fi occupavàno nell’ avarizia le quali cofe S. Cipriano (à) piange che nel
fuo tempo folTero ufitate ; e conchiude che, per purgare la Tua
. («1 rrnhitrrunr MAceJonia. Se
Achij coll». iMMlcm sliqvtm licere in
puiperei S^ndorum, qttt fuM m Jerufilem
.... Cuoi confainnuvcrot Se iUtgiuvcm ei« fruótun hune, protit ikar in Roin. if.
(A) De o(iauoiùs quxiluoCc nundinu sBcapari de Lapfis. U fua Chielii da
qucfti errori, Dio permettefle quella gran pcrfccuzionc che fu fotto 1’ Imperio
di Decio, perchè fempre la Maclli divina ha riformata la fua Chiefa, o
foavemente col mezzo de' legittimi Magiftrati; o, quando gli eccefli fono
paflaci troppo oltre, collo ftrumento
delle pctfecuzioni. Ma febben la Chielà polTedeva tante ricchezze, non ebbe
però in quelli tempi beni (labili ; prima, perchè non fe nc curavano per la ragione luddetta,
che (limavano il fine prolCmo, e tutte
le cofe mondane efler tranfìtorie, e di grave pefo a chi tende al Ciclo : poi ancora perche a
neflun Collegio, o Comunità, (^) o corpo, fecondo le leggi Romane, poteva cfTcr
donato, o lafciato per tedamenro ; nè
quello per qualfìvoglia caufa poteva polfeder beni immobili, le non era
approvato dal Senato, o dal Principe : nc ciò ft può metter in dubbio, febben
vanno attorno alcune Pillole fotte nome di Papi vecchi, che rendono ragione
perche gli Appodoli vendelTcro le pofTellioni in Giudea, c ìCridiani leguenti
le conIcrvalTero, con dire che ciò fu, perchè prevedevano gli Appoftoli
che la Chiefa Cridiana non doveva
rimaner in Giudea, ma bensì fra le
Genti; quafi che nel Vangelo la caufa del vendere non Qa mollrata efprdl'amentc, quando Grido dide alla fua
Chiefa : Nom temete, 9 piccioU compagnia
: vendete quello che pojfedere, e fatte limojìna’^ (è) e quafichè, febben Gerufalemme fu diltructa,
alla fua riedificazione non avede una
quantità di Cridiani, e anche non fieno date didrutte delle Città dove le
Chicle fra Gentili avevano pofledìoni. Ma c
fuperfluo travagliarfi a modrarc queda falfìtà, elTendo cofa certa
che quelle Pidole iono fuppode ^ c date
formate circa 1’ Soo. da quelli che
aniepofcro, come fi fa anche al prefeme, le ricchezze, e le pompe alla moderazione Appodoiica, idiruita,
e comandata da Grido: ma nella
confiifionc che fu nell’ Imperio molto continuata dopo la prigionia di V ulw l
wu poc o in olTervanza le leggi > madimc in
Affrica, in Francia, c in Italia^ alcuni lafciarono, ovverodonarono
anche degli Stabili alle Chiefe, i quali
1’ anno 302. furono tutti confifeati da
Diocleziano, e MalTimiano; febbene in Francia, per la bontà di Codanzo Cloro Ccfarc che la governava, il
decreto degl’ Impcradori non fi efegui ma avendo quedi Principi rinunziato Y
Impcrb, Madenzio otto anni dopo reditul
tutte le ponfedioni alla Chiefa Romana ; e poco dopo CoiUmino, (r) e Licinio,
conceda la libertà di Religione a
Cridiani, e approvati i CoUegj Ecclefìadici, che con voce Greca chiamavano
Chicle, concelTe generalmente per tutto 1’ Imperio che potedero acquidare beni
(labili, cos'i per donazione, come per
tcdamenco, efentando ancora i Chcrici dalie fazioni' perfonali pubbliche, acciò
poteiTero attendere più comodamente al lervizio della Religione.
V. Cnl}e{iuni, fì nullo fpeciali pnviregio fiiboiKum (ìt, tùredirarciu capere non
pofle dubiuai non ed. Lt.C.dc hzretiib.
infiu leivlit. i bili r«, iu4, slh
Chitfìi m.t farMi fiuti miglithi omnino
nutneribuscxeurentur, ne iàerìle. tivtffe iiuutt mtnn ìmftrurhì ttglm» prt'r» Ro vigere efef, pr acmus boa non folum coritn Dco, feU etum corjm botninibuf. Ctr. i. c pnpillamm ilmuoi
non aileiat, feti publicif ezeemunentar
jadicm, ti coi i1>neemin. vel propinqui pirtimint deleren tot. Cenfèinu etùm
ur mraiorari nthil ii« e|ui maliem, cui fe privituo l’ub prxtexru reJiRÌonu aJjunxcrinc,
Uberxlince «ucuinque. vel cxircino judicio potlint adipiici leant aliquid vel donaiione, vel teAamento
percipere. t. io. C. Thtid. de Seti. C
4 ) Ifli dite ehi ihEctlefixfiiti del fiulrm
fi c«r«](Ì4t'4a a i ItUxmtrhi M«4Xir «i44« fattuali i a l'xtiéJI’axMna ìfia
M artfmtxriara V «n«4Jerint inJigere
prartìJio, erigunrur in fuperbinn i tn,
t» «» I dalle fma lettere. ( 4 ) Ipli
tanrum przdioratn riiaram redimi
ronrequantr de quibua féi-vandi, abalienandi, dnaandt. dillrahendi, relinquendi, vcl
quead fupereil. rei, cuin in ^ta
conce.Ìit, 0e libera ei voluntat eft,
inre^ Itt petelUt. Nihil de monilibuc,
òc fiip«llev)ili i nihil de auro, argento, czietifque dare dotoui infignibui
fab reJigiontt defciiHone contutrur (
fed anivtrra integra in libftòt, prazìnm, vel in quoteumque allo arbinii liii cziftiimrione mnfcrilMt. Ac
et quando diem objerii. nullam Eeddìam,
auU lun Cierkttm, nullum pauperem knbat
hzredea. l- a- Cad. Thtad, Àmm. ( f )
TvCTid. in vita Au^A. taf. aq.
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BENEFIC. 9 anche rifiuti delle ereditai
lafcìate alla Chiefa Aia, dicendo apertamente
che ’l miniAero Ecclcfiaflico non ifUva in diftribuire molto, ma in diilfibuire
bene. Anzi riprendeva un nuovo modo d acquiftare alle Chicle trovato in que tempi AelTi; e queAo fu
comperando (labili coll' avan 20 che fi faceva dell' entrate: il qual modo da
quel Santo fu fcmpre abborrito ; nè mai egli io volle permettere nella fua
Chiefa . anzi diceva nelle pubbliche prediche, eh' egli avrebbe piuttoflo
voluto vivere delle obblazioni, e
collette, come (i foleva lare ne’ primitempi della Chiefa, che aver cura di
poflèlfioni il che gli era grave, e gl’
impediva 1 attendere interamente al
carico principale del Vefeovo; cioè, delle cofe fpirituali; aggiungendo eh’ era
preurato a rinunziare le poircffioni, purché a’ Servi di Dìo, e a' Miniftii
folTe provveduto il vivere, come nel vecchio Teftamento, (a) per via di decime,
o di altre obblazioni, fenza che dovelTero e(Ter foggecii alla didrazione che
portava (eco 1' aver cura di cofe terrene.
Ma con tutti i freni podi da fanti Padri colle buone efortazioni, e da’Principi colle buone leggi, non fi potè
però fare che i beniEccledadici non crefccflero fopra il dovere redava pur il
modo del governarli, e difpenfarli antico, il quale durò fino al 420. fenza
notabile alterazione: ancora tutte le obblazioni, e altre entrate Ecclefiailiche
fi cavavano da' Diaconi ; e in ajuco loro da’ Suddiaconi, e aU tri Economi ; ed erano didhbuite per
mantenimento de' Minidri £cclefiadici, e de’ poveri: il Collegio de Preti, c il
Vclcovo principalmente erano fopraintendenci ; e fi faceva in fomma ulta
entrata, e una fpefa di tutto : ficchè
il Vefeovo difponeva d' ogni cofa, i Diaconi efeguivano, e tutti iCherici
vivevano di quel della Chiela, lebbene non tutti amminidravano. Fa menzione S.
Gian Grifodomo che la Chiefa d’
Antiochia in que’ tempi a fpefe pubbliche nodriva più di 3000. perfonc t £an rk' i dtir MHH ftke
fmt0’ mf$ n ititmtt ttmf» ^rim» éi hit.
(^Lxtuer lutrm, tun de rtiiitu, qium de
obtarione fideliom prout ruiuslibet Ercfelis ficoltiiei tdmotit, fin» diklBin
»tioAaUliter cA decretum, ronvrmr fieri ponienes > quarum fii u . I. Cd.TW.
d4 Mftt. ZuUJhsmm 9 Ué. Tarn SanfthuietB, quitn dudure in«r ruHle pcriiibetnim, et voa, et mancìpu
vcllra nallut novia cotratioi^bus
robiigavic, Ad Mrénone faiadebiài. pTJtiete neq«e horpitea pierii: de fialiqui de vobit alimoAÌc
cauià natidaein cM»et ««luot, tmauRiMate
pticiv tur. S. Ctrtlmme jrtd» ttntr»
ffivtìttf, Negodatorem Ctenewn, dite,
de ex innpe tflvi. tem, ex tgnobilt
glorinfum, quali qmmdunpc iUm fiige Cui nundinxr, fiìt plicent, de plarex, ac Medicorans ubeteix. a. d (• )Vidt
tre de’ Vcfcovi vicitii col confenfo di cflo, c degli altri alTenti :
e dappoiché molte Provincie, per miglior
forma di governo, furono po(le lotto un Primate, nell’ Ordinazione fu ricercato
anche ti conlcnfo di quello. I Preti poi, c i Diaconi, c gli altri Cherici
erano prclcntati dal popolo, e ordinati dal Velcovo ; ovvero nominati dal Vefeovo,
e col confenfo della plebe ordinati da lui. Un incognU to mai non era ricevuto ; nc il Vefeovo mai
ordinava chi non era approvato, e lodato,
anzi propoOo dal popolo : e tanto era
giudicato neceiTario il confenfo, c la prclcnz» ( »» ) del pispolo, che San Leone I., Pontefice, alla lunga
tratta, non poter effcr valida, nè legittima 1’ ordinazione d‘ «« Velcovo che
dal popolo non fofle richieflo, e approva il che anche dicono tutti i Santi di que’ tempi; e S. Gregorio riputò che
non potclTc clTcr confccrato Velcovo di Milano Collanzo eletto da’ Cherici, (e
non confentivano i Cittadini, i quali, fuggiti per le incurfioni, s’ erano ritirati
a Genova ; e operò che fi mandaffe prima ad intender la loro volontà : cola degna da elTer notata per li
tempi noftri, quando fi predica per
illcgitima, e nulla quella elezione dove
il popolo volelTc la parte fua : cosi le
cole fono mutate, che lono palTatc in
ufanza al tutto contraria , chiamandofi legittimo quello che all’
ora fi diceva empio; e iniquo quello che
allora era riputato lanto. Alcune volte il Vefeovo, fatto vecchio, fi nominava
egli il luccclfi>re : cosi S.
Agofiino nominò Eradio : ma quella nominazione non era approvata dal popolo : le quali cofe tutte è
neceiTario tener in memoria, per confrontarle co’ modi che,fi vedranno ulati nc
tempi fulTegucnti. vili.
Ora è neceirarlo lar tm pneo digjclTionc per una nuova caufa, la qual ha apportato aumento grandilfimo a’
beni Ecciefìaflici, e nacque in quelli
fieflì tempi circa il 500. e quella fu un’altra Torta di Collegi Religiofi,
chiamati Monalleri. 11 Monacato nacque inEgitto circa l'anno 300. fu formato
nella maniera che ancora continua in que’ paefi. Ma in Italia circa il 350. fu
portato a Roma da Atanafio, dove ebbe
poco feguito, e appiaulo in quella Citt^, c neTomo II. B 2 luo ( « ) Cnm de
Smnmi SeccrJwi» elezione treÀibimr, ille enmibut prxpnnitur quem Clerici, plcbildfle coafen&it roncoiditer
poilulene, tu ut, (1 in eliam forte perfonam ur. tium divifonnc, Metropolitani fodicio it
«iteti ptxforatur quim convenent, cui non licuent hati«re quem
voluit. Ifjf oachorum namine ceniérenmr, qui ficut a beaTX meoiorùt Evangclilla
Marco, quiprìmoa Ale nupdrìnx Urbi
Pontife» prxtuie, nontvm foltepere «ivcndi, Atc M. a. dt mfiitMt. Cai- ^
c«p. ). N« nu Etclelia Olle mter ii’l'
Fvenr.cUipnatipi! B. Marrum, B. Petti Apoiloli diinpulum. in omnibua ouque doftoris lui magitten» coivfontmem
KiUm fondatoretn, o-c. Lt MégAAt tf.
fT> f‘ 4- V- Mfiji- IO- d Viemn. fAf.
0. S. Anttni» « tl ftim eln fitt vivtrf i Uà»Ati in CcmnniiÀ s fnvs tht
In Ctimfimiti Htn difirmffj In
ftlituÀinei cmm t» di mcfitA d d' OffÀt A mn AiiAtt dt' Fé gliAAti, Vb
Ktl^itft, die' igli, (ht inttrvitnt a’
inAttntini, ti Agli Altri n^t-firdiAAti, td imfiigA il TimAiuntt dii gitrim ndlt findu, t in
Anslthr AltfA tmtfiA tttufAXi»A4, )
ftlUAtu «nxe. t'iftu Dtftrt» ì d
CéNvento. Ql A»t$tht, tkìAmAnd« d Cenwnre Cxnobium, t i luch'», hAnn» fAita tbiAtAimAft vtdrrt tht
m U fUMìs C«flMiii4rie. iz juoghi vicini fino al tempo ^1 500.
quando S. Equizio, e S. Be« nedeitó gli
diedero forma {labile, e lo diffufcro; {ebbene rillituzione di Sf Equizio poco fi flefe, e preflo mancò;
e quella di S. Bencdctto fi allargò per tutta T Italia ^ e pafsò anche oltra i
monti. 1 Monaci in que’ tempi, e per
lungo fpazio dopo, non erano Cherici, ma fecolari, t ne’ Monaileh (i) che avevano fuori della
Citili vivevano delle loro proprie
fatiche d’ agricoltura, c di altri ariifizj, e inficme di alcune obbiazioni fatte loro da’Fedeli; il che tutto
era governato dall’Abbate. ma nelle Citt^ vivevano delle loro opere; e oltra di
ciò, di quello che loro era coilituito a
fpefe pubbliche dalla Chicfa t Quelli
ritennero la difciplina antica molto più lungamente.' i Cherici,
dopo divifi i beni della Chiefa,
percUttcro afiài duella divozione del Popolo;
onde erano pochi che donalTero, o lafciafT«rd più beni a loro; 0 perciò
farebbe fiato il fine degli acquifii della Chiefa; ma i Monaci, continuando il
viver in comune, e le opere pie, furono caula che non fi efiinfe nel popolo la liberalità; ma,
lafciati i Cherici, fi voltò Verfo di
loro, i quali furono firumento grande di accrefcer le ricchezze Ecciefìafiiche
; e in progrelTo di tempo crebbero grandemente iri poflefiioni, e in entrate
donate loro, e lafciate per tefiamento;
effendo ben fpele all' ora da elfi in mantenimento di molto numero di Monaci, in ofpitalitH, in educazione, in
Icuole di giovani, c inalcre opere pie^
Fa conto T Abbate Tritemio che i
Monafteri de’ Monaci Benedettini erano
fino al numero di 15000. oltra le Frepofiture, c i Conventi minori. I Monaci ftefli fi eleggevano
1 ’ Abbate, che gli governava
fpiritualmente, e che reggeva anche i'beni, cosi gli offerti dalla carità de’
Fedeli, come anche quelli che fi guadagnavano
colle opere, e coeI anifiizj dc’Monaci; c in progreflTo quelli
ancora tho fi cavavano dagli
fiabili. Ma i Vefeovi ne tempi che
feguirono nel 500. clTendo fatti aflbluti difpcnfatori della quarta parte de
beni della Chiefa, cominciarono anche a
penlar un poco più alle cofe temporali, e a farli feguiio nelle Città; onde le elezioni fi trattavano non
piùjcon fine di fervizio divino, ma con pratiche; paflando bene fpefib dalle
pratiche alle violenze pubbliche :
perlochè i Principi ^ che fino a quell’ ora non avevano avuto molto penfiero intorno a chi folTe
eletto a quel Minifiero, incominciarono
a penfarvi; effendo avvertiti da’ fanti uomini di quei tempi che IDDIO aveva commefià alla
protezione loro la Chiefa, e però
etano (l> jtltni tffn
MtMsea, die» Mitra a^tra Cbtrua. Aiu
Monacbonim eft cm(ì» ilii CTcnfonim. Carrieàfana fMjtari, ad Jda»ri fatta la pteara. Ctencip«&unt
tivesi Ego paftor; rp. ad Hdiod. Ms «
vie» idttamJheM faft •fatta deferratt
dalia fiata SttUfiafika, alla ara fari mn grada fra faina al Claaruàta. Sk vìve, dir’igti ad «n Ùamaea,
ut Cleritaj effe ire>t i»vtv dl
frimnft, t‘ ffnffMmtmUMHalttterm di
Déig»^rt9Ti(itit» ntlU mtd$fimts vie» di
S. Drfidtn» tn enmiitii Juit» Civium
peiitimem nortran» quoiju« concor nomine perfimiiir, Se Pontificali benKiifiinne fublimstu,
peonobir, 8e
prouniveritsOr«linibusBccleGx Jebeat exorare,
ftaccepiabilesDeoholliM fiudeat otferre a. »d Brumule.Ui, f. tf. Il-, tom. I. Centi. GaU. ef. %r.
md llttederit. (J. Tbtedtitrt, lei. 7 '•
i>4 t« I, CAtil. CaII. ef. st. (« )
Siene iriiu me Pater, Se Ego mitco VOt.
JtAA. IO, r>:.,;i; >ùz) che ras
toccò loro niente, ma rutto iii divifo tra il Vefcovo, e i Cherici : anzi ancora dove la divifione fu
fatta con dehtta proporzione, reflando tuttavia in mano d^li EcclefiaSici 1'
ammioillrazione della fabbrica, e della parte de’ poveri, a poco a poco
quelle fi diminuivano, accrelcendofi le
altre due : e di quello ne lì fede il
vedere che in pochiflìmi luoghi la fabbrica ha proprie entrate; e per li poveri non rollano, fe non gli
Spedali; i quali però tutti fono di non antica illituzione. La parte de’
Cherici nel principio non fu tra loro
divifa; anzi il Vefeovo aveva cura di tratiare ciafeuno fecondo i meriti: ma poi i Cherici alTunfero
il carico di dividere, efclufo il
Vefeovo : e poichò ebbero la loco parte, dove nò il Vefeovo, nè altri aveva che
fare, cfli ancora fi divilèro fra loro, ficchè ogni particolare incominciò a
conofeer il fuo, e fi lafciò di vivere in comune. Ma febbene le rendite erano
cosi divile, rellavano però i fondi tutti in un corpo governati da’ Diaconi, e
Suddiaconi, e le rendite rifcolTe da quelli, e confegnate al Vefeovo, e a ciafeuno de’ Cherici fecondo la pteporzione
delie loro parti ; e in quelli tempi in
Italia le polfelTioni delle Chiefe erano chiamate patrimonj.' il che ho voluto
rammemorare qui, acciò nelTuno penG che
quefto nome GgniGchi qualche dominio lupremo, o qualche giuriIdizione
della Chiefa Romana, o del PonteGce. Le polfelTioni di qualunque famiglia, che
venivano da’ loro Maggiori ne’ tempi de’ quali parliamo, fi chiamavano il
patrimonio di quella ; e chiamavaG anche
patrimonio del Principe A fondo eh’ egli pofledeva in proprieA; e per
dillinguerlo da’ patrimonj de’ privati, G nominawa SarriM» Pturimoniiim, come in mtdte leggi del Itbro
u- del Codjc» fi .lqg' ge; fi diede poi
per le illefli ragioni il aeme di
lèffioni di ciafeuna Chiefa : Gveggono nelle pilMe di S- Gregorio nominati
noB foln i parrimcuii ChtcU n.uui.uia, ma anebe il patrimonio della Chiefa di
Rimini, il patrimonio della Chiefa >dir Milano, il patrimonio della Chiefa
di Ravenna. Alle Chiefe poGe in Citik di
abitatori di fortune mediocri non erano lalcute pgfléirtqpi fuori del loro diflreiio; ma a quelle delle
CitA Imperiali, ctmreRoma, Ravenna, Milano, dove abitavano Senatori, e altre
fetloM.jir lullri, erano lafciaie in
diverfe parti del Mondo. pa meniorc S.
Gregorio del patrimoni» della Chiela di Ravenna in Sicilia, n d’,HP aluo patrimonio ùi Sicilia della Chiela di
Milano.' la.jC|gì|fe:jf^|g%na avea patrimoni in più pani del^ando: fifa
menaione^ì 'patri, monio, di Francia, d’
Affrica, di Sicilia^ delle AlpiCozie, e dimoiti
altri luoghi : anzi in tempo dell' iftelTo S. Gregorip vi fu
littitialui, e il Velavo di Ravenna
perii patrimonj di amendqe le CMAèjiphe
C accomodò anche per tranlazione. Per far anche rifpettare le poffcGioni
della Chiefa maggiormente, folcvano dar loro il nome del Santo che quella Chiefa aveva in ifpcciale
venerazione : coiì UChicfa di Kàvenoa nominava le poITcGloni fue di
SantoApollinare; i^quella di Milano di Santo Ambrogio ; e la Romana diceva il
patrimònio di San Pietro in Abruzzo ; il
patrimonio di San Pietro di Sicilia, &c.
al modo che a Venezia le pubbliche entrate G chiamano di S. Marco. Ne' patrimoni del Principe ( quando non erano
alTcgnati a’ foldati) era pofto un Governatore (i) con giurifdizione nelle
caufe che a queU la profe{Tione
fpertavano. Alcuni Ecclefiailici della Chiefa Romana tentarono d’ nfurpare rimili ragioni ne’
patrimoni quella Chiefa, volendo far
ragione da sè ftefii, e non ricorrere al pubblico giudizio; la qual
introduzione S. Gregorio riprefe, e condannò, e proibì fotto pena di fcomunica che non fi faceife. Pagavano
le poirelTioni Ecclefiafliche tributi a!
Principe, come manifeltamente appare dal
Canone 5# tribnt$tm, (#)ch’è di S. Ambrogio; ed è chiaro che Coflanlino,
il barbuto, nel 6 %i. conceHè efenzione da' tributi che laChieia Romana pagava
wl patrimonio di Sicilia, e Calabria ; e Giuflinìano il giovane (a) nel ^87.
rimifc il tributo che pagavano i patrimonj di Abruzzo, e della Baniicata. Non
riceveva la ChiefaRomana tanto grandi entrate da’ patrimoni Tuoi quanto alcuno
crede ^ imperocché, narrando le Storie
che Leone Ifaurico nel 732. confifcò i patrimoni di Calabria, e di Sicilia,
fanno menzione che rendevano d’ entrata tra tutti tre talenti d’ argento, e
mezzo d' oro, che fanno in nollra
moneta, per non far m imito conto fopra la verith delle opinioni quanto
precifameme rifponda ad un talento,
fomma non maggiore di 1500. feudi; e il patrimonio di Sicilia molto
ampio non pagava più di 2100. feudi.
X Non è fuori del foggetto di
cut parliamo faper quefli particolari
che occorfero, mentre le poflefriont della Cht^a recarono tutte in un corpo, e fotto un governo fteflb, febbenc
le rendite erano divife .il che non potè durare lungamente, per le contefe che
nafeevanc tra quelli a’ quali appar
teneva i’amminiftrazione, c gK altri che ftavanoalla loro difcrezione UmiCj;
iì^duìon^., cìiftwi Minidro incominciò
a ritener per sè le obblazioni eh' erano fatte nei fuo Tempio, le quali gtk fi
folovano portar al Vefeovo, acciò le dividelTe; ma, per ricogniuone della fuperiortt^ Epifcopale,
ciafeuno dava la terza parte al Vefeovo, e qualcne cofa di più per onore, che
fu poi chiamato il Cattedratico (^), perchè era dato per riverenza della Cattedra
Epifcopale. Divifero anche i fondi, e alfegnarono a ciafeunò la fua porzione. Quelle mutazioni però non
furono fatte in tutti i luoghi infieme, nè con un pubblico decreto; ma, come
avviene a tutti gli ufi, che principiano
in qualche luogo, e fi comunicano fuccelTivamente agli altri, mafllmc i cattivi,
che hanno corfo più veloce, e meno
impedito. In que’ tempi, quando le cofe
Eedefiafiiche furono ridotte a que ^ fio
S tÌNtamMVM Cornei munì _MivÉnmm,
ptt dihmmrtU dal Cornei Sucri Pimcnonii.
Si fari di ammdmt A friwm Ut dt Ctditf.
«de! frimt att fitti JJ. (iti fttfd »i titoU |r («) Si iribotum pem
Impcritor, non ne(;imH., a^ri Eccktu( (olvant tributsmt $i egm« ilelìderit Imperator, poretUreoi hiMi Ten. t.
if. (O traGi^^lm^aH, t»d[lmU 4 C^aafiH il iariat. ) Cathedratirumeriimnon i«ipIioi, quim venAi mr>tit effi conAitcrit ^ ab loci Pteibytcro
norerit exigendum. Ctlafimi FaliaaMfiTtéf ama 4fii.Caa, i.f. Camfa lo.lUoJ
te voUimurmodiianiùUiicuiiadirc^e^i
EpiicofonitnSicilis de |»arochiis ad te pertinentibosno(Bìm Cathedratici
aoiplius, quam duoi folidotj prvfunant
accipere. aaa fto. Cam.i, Caafé I». Ud
flato, erano dilribuiti Ja’ Principi agli uomini militari i fondi pubblici, con
carico a chi di cuflodire i confini ; a chi di fcrvire il Principe ne’ governi
civili ; a chi di feguirlo «dia milizia ; a chi di cullodire le Ci cù, o Fortezze; e quelli, che con
vocabolo Franco, e Longobardo, fi chiamavano Feudi, nella lingua Latina, che
ancora non era totalmente eilinta, fi chiamavano Beneficia, come donati per
beneficenza dal Principe : ( 1 ) pel
qual rifpetto anco alle porzioni de' fondi Ecclefiaftici, ovvero al ]us di
poflèderli, fu dato il nome di benefizj > perchè erano donati dal Principe, come i Vefeovati;
o dal Vefeoro di fuo comenlo, e concefiione, come gli altri ; e anche perchè i
Cherici Ibno Soldati fpirituali,e fanno guardie, ed efcrciuno milizie facrc. Le
Badie di Ik da’ monti erano ormai fatte
molto ampi», e ricche ; per lo che i
Maefiri di Palazzo alTunfero in sè T autorità di fare l’Abbate; e ciò con ragione affai apparente; perchè i Monaci
all ora, come fi è detto, erano laici, lenza alcun ordine Ecclefiaflico Vero è che non Tempre lo davano elfi, ma anche
alle volte concedevano per grazia a' Monaci che le lo elegelTero. Ma in Italia,
non elTendovi Monafieri molto riguardevoii in ricchezze fino al fuddetto tempo
del 750. i Re Goti, poi gl’lmperadori,
ei Re Longobardi non ne fecero gran conto; onde la elezione refiò a Monaci
colla fola fopraintendenza del Vefeovo. Ma i Vefeovi alle volte, intenti ad
aggrandirfi, erano troppo molefii a Monafieri; perlochè gli Abbati, e i Monaci,
dcfideroli di libejarfi da quella foggezione, trovarono il modo, ricorrendo al
Pontefice Koiiiano, che li piglialTe
fotto la fua immediata protezione, e gliefentalTe dair autorità de’ Vefeovi. Fu
ciò lacilmente confemito da’ Papi ;
fervendo loro, e per avere nelle Cittk d’ altri perfone
immediatamente dipendenti da loro, e per
amplificare la podeili loro fopra i Vefeovi ;
importando molto che un membro cos^ notabile, come i Monaci, che in quei tempi quali foli attendevano alle
lettere, dipendefiè toulmence dalia Sede
Romana. XL Dato principio a quella efenzione, in
brevilfimo tempo tutti i Monaficri reilarono congiunti colla Sede Romana, e
feparati da’ loro Ve Icovi. ( 1 ) Timo IL
cirearam, vel undenim. «pie ad
prz#. ^rhfHtt Im f'ttnjtm di S. Pittri m
mmunrm .tkt Mu ifrr» fiù fi mlUSMMtm
Sidt. iit etm fii rwndMMM m vmutmffi» driU Certi di Ktmm, mtttf rie feeli rie •trrugtmi
frivileif tmnu imurtjfedidiffudert F
mmtirifm diihilitiu€idr. Ml il Pmf» mdff) Viirutieri mllm Urt fufflJtu, S-
Btrnmrd, dettjfmud uevitm, fttt «edere fmfm
Eufrm» HI. tb’ trm uu irmudeiiuu' Aibmti riemfmff d' ulhiim mi fmm Vtfavt, • Viftrvi mi fu» Mttrtfihtmn : rie tm Ciò m M«l^«iie devrvm rtiilmifi fui mmdilU
detU trtemfmmti, dm ma' Au^tl tua bm mmi
detti: Io C In Fran non voglio eflcrealdi ibeto deir Arcangelo. rè# mvreH mmi detti ifmifi trmm Smnt», fi
ftfft vijfmti in mltmu d Settli
fufijmtnii ì S. Birmmr. d», dice
mvvtjmmril Meumei, e Ztlmm ej^«e ftr tm fmntm Stde, trmdmmmmvm mltmunutt ^ufJF iftHtitmi i M^«rri> ifturmri %U
AUmti dmllm {lurifditient di' l^tftevi
rie tefm ir», duevm iflt, fi meli emmmmdmrUri Im rìMliauì £ mm erm mmm difermiti A mifiiHtfm mi i»rf
dilla Cbtifm r umirt mimdimtmimimti ««
CafitiU, t mmm Mmdim mllm fmmtm Sedi,
litm uil re^ «mm. m» l’MJiire mmdit mllm
ttfim f Beli i hntefftrvmrt difmjfm^i
ibi ^mijlm ifemùem ffiritmmU entri ftr
Im fertm dell' tfim.iini dm'dirttu ttmfirmlì eHti. dmtm Itr» dm' mtdtfmi Vefetvi. Titnc cibi
liciiuna cenlcat lùit Ecelefiat nmiilare
raembrit. confundeK ordinem, perturbare termmoi, quoa poAieninc Pacm niif Monftrum £icii, G, manui (ùbmovendigitum,
(uii pendere de cwite, fiiperiorem
naaai, bciduo coilaKralcm.Taleed» fiiaChri,8 In Francia ì Vcfcovi fatti
dal Re, c molto più i fatti da' Mac(Iri di Palazzo, iminuita ('autorità Regia,
fì diedero tutti ade cole temporali; il
che anche fecero gli Abbati, che coniributvAnu Suidati al Re, e andavano in
periona alla guerra, non come Religiofi,
per quivi far uHhzj di Minjllri di Grillo, ma armati, combattendo anche colle loro mani; perlochè(i) anche non
furono contenti deU la quarta pane de’
beni, ma li tirarono timi a loro; onde i poveri
Preti, che nelle Chicle amminiftravano a’Popoli la parola di Dio, e i Sacramenti, recavano lenza aver di che
vivere; perlochè i popoli per loro
divozione contribuivano loro parte dell’ aver proprio: il che facendoli in alcuni luoghi più largamente, in
altri più parcamente, ne nafeevano alle
volte querimonie; perlochè, irattandofì Ipeilo quanto folTc quello che fi
dovellc dare al fuo Piovano, palsò in comune
opinione, clTcr conveniente, ad efempio della legge divina nel vecchio
tefiamento, il dare la decima ; la qual efiendo comandata da Dio a quel popolo, fu facil cola
rappreientare (tf) come debita ancora folto il Vangelo di Grillo; febbene da
efib N. Signore, c da San Paolo altro
non è {b) detto, le non che al Mipifiro fi dee dal popolo il fofientamento (c)
necclTario; che il MiniUro, o operajo, e
degno della fua mercede; c chi ferve aU'Altare deve vivere deif Altare,
(d) fenza prcfcriverc la quantità
determinata; perchè in alcun calo la decima farebbe poco ; e in altro calo la
cemefima bafterebbe ma perchè quella è cola chiara, e di lotto avremo
bilogno di trattarla più diffufamente,
non dirò altro per ora, le non che in
quel tempo, e per qualche fecoio Icguentc, i Icrmoni che erano fatti
nella Chiefa, iaiciate le materie della fede, non verlavano in altro, che in
pruovc, cd elortazioni a pagare le decime: cola ch'erano sforzati i Gurati a
fare, c pel bilogno, c per T utilità; c nell’
amplificare oratoriamente, come occorre, fpelTo palTavano tanto innanzi,
che paicfa mtta.lu, perfezione nel paga re le decime (a); delle quali anche non
contenti, nè parendo aliai le prediali,
cominciarono a portare per necefiarie anche le pcrlonali, cioè, di quello che l’uomo guadagna colla lua
fatica, e indullria, della faccia, di
ogni artifizio, e anche dello lìipcndio militare. Di que C^l «luri delfrviuflt, cnm sicari
fxriuù pane .... DotTM'iii tainivit iù,
qui Evanj^rlium «onuncisnc, 4e Evsngelta
vime i. Ctrmih. y. Vedi V drtttete (») U» PrtdMétfre mi f.mfe di Ctrl»
fredù tst’St (bt mm fiUmmtt «r nueffMne
d$ f-i.ir le Drtim «’ ^rrfi, m» njjiadi
dt ftrtsr’.e ufft Un O». Nec e:ic
«ptasre k Clerici «111 decun» vobu
rtquusnt, leJ dtriti tbt prtdtcàiM ttif. siitfp, ttmtrs il fmlt Aln dentiiaruin elabori qu'S novetit tniina ApolUitrc
pietaus lade nucneiwit efl, donec trtiiat,
convalelcar, t roboretar ad Kceptionem
lUltdi cibi. (^iii im. ponemlum eli
fugum cervkibnt idiorrem, quod n«c|cie
noi, nei]uc fratrea Uullri lufre-rr {vnuelune ? £^iyf. i.éfud ìdAlilleif tim.
4. Ai torpore membra sliter torta,
cjutm ciirpoiuit fplc Sicuc Sc'tfhire,
0 c Cberubim, tc c^eri quiepe ufquead
Annloj, et A’rhtngctoordinanrur lub uoo capite Deoi lu hic quoque fob uno fummo Pont ibee prinìatei, rei
Parriirr hx, Arrhiepircopi, Epiicnpi,
prabyicri, velAiibaici, et re'iipii in bone modum Quod lì dicat tp Cupui.'NQloellélubArrhiepircopui tur
Abbtsi Nolo obedire Epifccqo, hoc de
Cxlo 000 eAj ailìcurone Angciorum
quempum dicenrem audiHi? Nell fui Artk»irt“ jf, ^. dt Ctnfid, hi. }.
iini lUtum taluberriffiii fiaerK. a mcisbrM Ecdeitz ooini tempore
(èpareior. Cnm. f. m fin». (o, (]), « fmrldT froftuurnnut, ajjnjara, tfdtftfHt, ) ttnfflMHldt». ilz veilrz falubrt debeamu dirpoGtionc
fÌKcitrme t de ideo leiundiire deSdenum vefirum, fratrem, 8c Coepitropiun oodnim euju! Eceleiìa eli ab noAiaui occupata,
Cardinelnn «eftrz Ecclcltz,
ficutperiftia, lonAituimui Sacerdorena» quitenua vot de propitio, At
ordinando, de vigilando (óllìeitc Audrai
gubcrnarc. cui dedimuiinmandatif, nemu{U3m ordinationet przfuinac Uticiua.
Uitr. Dinrnm Smmm. I^unif. tir. II. cp.
1 (c) Hzc vox, diti Ontpto Ptnifint mtUm fniattrprttdJtr dt' mnmu IrrltS^nfiti,
(vrquent ed in tegiliro D. Otrgoni, et Epiftoiis
PontiScum R'munoruin, et decrrtalUMU,
qutbutÌ! Cardinali! dicitUT Preibyter,
vel Oiaconua, qui certz aliciri Ecciti,
vel Diaeoeuz propria!, de adcMrtiaJicujau
tituli,Ave Eccieliz miniAeriunordinatu», inferiot, atuiexui, de, ut iplc loqaitur, meardtnatm cA.
Naia S. Gregorio idem eA Cardìnalcm
conAituere in allquorituio, vel ficclcAa, quod incardinare alleai Ec(Idìz, vel
io altqua Ecckita cardinare. Idem rriam
drEpilcopit dirà, quod de tua EecleAa ad alìani. ncccATratii caufa, tramUtni^ EpitcopeM
etoidem ficcieiàc fijz, iUius vero ad
quana uaatUùlìuiri zo tu, eh erano le
principali, più ricclie, e con più carichi, e rainifteri, ricorrendo per lo più
cjuelli eh’ erano fcacciati da’ propr) luoghi ;
e quelle Chiefe, come più ricche, e abbondati, ricevevano più di quefti foreftieri, e però avevano più
Cardinali: il che anche era ricevuto dalle fuddette Chide, perche con quella
via acquiUavano da ogni luogo i più
infigni uomini; ficcome al tempo preicnce fifa, e però poche volte ordinavano de’ loro, ma
[penilTimo incardinavano foreftieri’,
onde in quelle due Chicle rcllò che tutti fi chiamalfero Cardinali. In quella di Roma dura ancora il
nome , in quella di Ravenna durò fino al
1543. quando Paolo III. con una lua Bolla
annullò il nome de’ Cardinali nella Chiclà di Ravenna : cos'ì il nome di
Cardinali, che moflrava infermiti, mutata fignificazione, è fatto nome di maggior digniù, e viene detto
che fieno Cardinali, cioè, Cardines
Orbis tcrtaTum\ Ti) e quello che non fu nc grado, nè ordine della Chiefa, ma indotto per
accidente, è ialito alla grandezza, e dignità nella quale oggi fi trova. Ma chi
guarderà i Concili fatti in Roma, dove fono intervenuti Vclcovi Italiani, e
Preti Cardinali Romani, vedrù che Tempre
i Cardinali hanno fottoicritto dopo i
Vefeovi , nc alcun Vefeovo era fatto Prete Cardinale anche ne’ tempi polleriori. I primi Vefeovi fatti
Cardinali furono alcuni principali
fcacciati dalle loro Chicle, come Corrado Magontino, (cacciato per ribello da Federigo I.
Imperadore, fu abbracciato da
Aleflandro III., c fatto Cardinale Sabinenfe. Non avevano nemmeno i Cardinali
Romani alcun abito, o infegna dìfiinta fino ad Innocenzio IV., che nel 1244. la
Vigilia di Natale diede loro il Capello
( 2 ) rolTo, a cui Paolo 1 1. aggiunfe anche la Berretta rofla, (3) eccettuati i Regolari ma Gregorio XIV. nel noftro tempo la conche ancora loro. £’ fiata necefiaria
quefia poca narrazione, poiché verrà
Ji§nir\ che al prelcnic è primaria nella Chic fa, e alla quale pare non
trovarfi titoli fufricicntf. (4) Il Pontefice
prefente, Urbano Vili, ha per Bolla propria conceduta loro 1 ' Eminenza.
(3) XIII.
Suenlotes, Uve Pamificct Cardinal«y vac» t t»44. Iug^uni,.in Concitio
gm«ra!i la. Csr i«v‘ ) fin ft' incarJifure aliqocm S. dioslibui virii
ctcelIeneinÌRn^ cr n»ìi. Sft frtmv.du
pur lìium, li opu efliet, prò I-ccJeiuilira libertà. ifU, i CHTMti dt Rimi riiJvtffiri dt
freadiriit te tuenda, gladio ofiène deberej et prxfettint tinti di Cirdunii, fif I mm co rempore quo
Romana Etdctu a federilo H. tkt «ttfMi
d'iffm i fi" vHimi mtmijhi atfifi, Imperaeore vcheioenter oppugnabumr, « ÀI firtieifitt dtU Jm» iUimhiì tJtUitmm' fanvM. fifta i ijmali gita tattiilgl- ta d'efftn
agginan alii nijtn aaniritiiai, par
cnu ! due lagiait ly. ita Tapcr hot Sede Apo- grmmditi ni Un muta, fi
lUnarima dalia Un jloliea, touuf
Ecclefur oftium, quiciùl, Ac iiu. dipraienia.
ilencatur, (J) ^tjh "Itimi panie
feaa finn ageimn (a) Hic in vigilia
lutai» Domini anno aiP OtfiaaU Jialiaai, a da' Cifijh, • dagli Dal principio
fino poco innanzi il 500. come li è detto, ogni
Chierico era ordinato a qualche uffizio, c viveva a fpcfc comuni; dopo fatti i Benefizi, l'idefla cofa era
ordinarlo, e alTegnargli Tuffizio da efcrcitarc, e il benefìzio dove cavar il
vivere; nè lenza Benefizio fi ordinava alcuno ; ma in progrcflb di tempo,
comparendo qualche foggetto atto al
Chcricato, febbcnc non vi era luogo, c benefizio vacuo, per non perdere quella
pcrlòna, i Vefeovi T ordinavano fenza certo uffizio, 0 titolo; c però anche
fenza benefizio, per afpettare che
alcuno nc vacafle; « quelli ordinati fenza titolo aiutavano i Benefiziar), da
quali loro era dato trattenimento : ma in progrefTo di tempo crebbe a cosi
ecceffivo numero quella fona di Cherict ordinati lenza titolo, 0 benefizio, e
fi diminuì tanto la cariik ne’
Benefiziar) a dar loro foftentamento, che, naicendone infinite indecenze, e
Icandali, bilognò provvedervi con legge, c coftringere i Vefeovi, che ordinavano fenza titolo, a
fomminillrar il vitto agli Ordinandi ; ( V» ) c quelle provvifioni nel
principio che furono Itatuice fopirono
alquanto il difordine; il quale però non flette molto a riforgcrc ; e più volte
repreflb, è fempre ritornato : al che due cote
hanno data caufa infieme : Tuna, il defiJerio di molti di farli £cclefiaflici,
per goder Tefenzioni, e liberarfi dalla foggezione de’ Principi : T altra, T
ambizione de’ Prelati, di aver loggctti molti a’ quali poter comandare ; nè ancora è provveduto bene
a quello dilordine, ficchè per tal caufa non fuccedano in diverfi Regni molte
indecenze, che fono cagioni dì far perder al popolo il rilpetto della Religione. Nemmeno è fiato efentc da quello
inconveniente T Ordine Epifeopalc, ficchc non fieno fiati ordinati Vefeovi
chiamati titolari, 0 con voce deriforia
: Nulla tenenti : ( i ) non fono però così volgarmente trattati, come gli altri Cherici non
benefiziati; imperocché, febbene fi
ordinano Preti, Diaconi, e altri Minifiri inferiori fenza carico, nè in fatti, nc in nome, non fi è però collumato
fino al prelcntc d’ordinar i
fraintrtimfjlt h.t9H0 frtf» Hit' 0itatst.i9iit
fatta nrl maf^iat ftr maa tamtianaueat dttnjft; tatfatttthì F.e.ttU framtrt»
iHnaat.1 V tfaltauMl al di U^ ^«>1# Vili Epiifoput, fi alivnec { nifi lalit oraioamt de Tua paterna hzreditste, Val alta, boncitsMi caufa, fubruliutn polite
habete. CauMt i dtl C»ntiii lattraHtHjì
fm» AÌt^amdn III., t fi trava ntl taf. 4. tg. tra ir fréhtnda. (i> yJaVrft^' ntICmfilt dìTrta ta difia,
ehf ti Vtftavata rtetrra una Diattfi, a
tk ti Vifeava, a la Ckitfa fatta rarrtlattvt, tth wta il hiariia, a ta hlagiu ia maniera, tha f una Mb fu» fiat ftnta Faltra’. tbr dì
^ntfiaarà:nazJam man fi vedeva fata un vafiigia in tmitn F Antitiiktìk, in rati
i Vtftavi, tha aiiandanavama i lata nftavatt, a (he n'arana frnau, ntn arana fià témfiderati ftr (alt i in
fatila {aifa affante, thè Ma \Jemaa, al faale fia eeeana la JUtfir, fià ii tn viem rm fidarata »er
Uarira, Refltti nn Vtftava Italiana, thè
i Weftavi' titelari, avende félamtntt la fedtfia dtU'Ordine, uan era nettfiaTia che mvefitfa ana Chìtfa t ebe
fa una valta nen fi erdméva altun
Vefeapa, fanza afftinar{lirat nnai rA derivava, ferrhi ntm fi ardmavana ne' Preti, ne' Diatam fenta tuaia:
thè feftia era fiata rieantfuuta ^tr t^aumfati ante al fervitia di Itia, thè vi
fafitTa Preti fenta titeia, ed in
tenfremenza Vtftavi fiuta Dtattfi. Fra
Paaia hh.t. del CentUea di Trentat Ftdi FArtitala la. zx dinar Vefcovo fenza Dioccfi dalla quale
(ì denomini ; perlochè fé gli aflegna
una Ci[t^ poflcduta al nrdènte dagl' Infedeli, dalla quale prenda il nome; dove non cHcndo alcun
Criftiano, TOrdinato refta col folo
nome, fcnza popolo; e vive fervendo qualche Vclcovo grande, il quale non polla,
o reputi cofa inferior a sè, 1' efercitarc per
se Hcdò le funzioni Epifcopali. Di tali Vefeovi titolari ve n' era
gran numero innanzi il Concilio di
Trento ; ma al prclente è molto riflretto. Ma perche adeflb i Padri Gefuiti
propongono queffioni, fc il Papa poflfa
ordinar Vclcovi fenza titolo alcuno, nè vero, nè finto, Jìccome fi ordinano Preti, e Diaconi, e
decidono che pofia; piaccia a Dio che
quella potenza non fi riduca in atto, e fia perduta la riverenza anche a quell’
Ordine, la quale gi^ era grande vcrlb tutti
^li Ordini Ecclefiafiici, quando non era ordinato, Ì^e non chi era iniìeme
defiinato ad un’Uffizio, come lì è detto. per la qual cagione tutti riledevano al loro carico, perchè non
fi poteva latciar vacuo; c non vi era
chi potefle fupplirc, clTendo tutti occupati nel proprio, onde era incognito il difordine di non
rifedere . fimilmcmc era incognita la difiinzione di benefìzio che ricerca
rcfidenza, e che non la ricerca, e, o
ricco, o povero che fofle il benefizio; o di molto, o di legger carico, conveniva che il poirclTore
fcrvifle perfonalmente : ma dappoiché s’
.incominciò ad ordinare feoza titolo, avendo i Titolari chi mettere in luogo
loro, lalciavano il carico ad uno, che attendeva con qualche poca provvifione,
ed elfi attendevano ad altro. Così i
Vefeovi in Francia Icrvivano alla Corte % come pure i Parrochi, fofiituito
qualche povero Prete. S’incominciò a provveder al dilordine, non con legge, o con collituzioni,
ma con gafiighi di cenfure, e privazioni
in maniera, che ne’ tempi de’ quali parliamo,
cioè, ne’ prolfimi innanzi P 800. con quelli gallighi erano tenuti in freno: ma co^ >> a>MÌfìr>ge
dc’bcnefizj, come anche rordinazionc di
non titolari, e le provvifioni per la rclìdenza, non pafiavano fcnza qualche diverfit^ da un luogo all’ altro, c
anche nella ficlTa Chiela non paflavano
fcnza qualche variazione, caufata sì per li diverfi pcnfieri de’ Vefeovi che
lucccdcvano, come anche per lo divcrfe provvifioni fatte di tempo in tempo da’Principi, per
ovviare a dilòrdini cagionati dal troppo volere di qualche Ecclefiaflico, o
dall’ impazienza di qualche popolare,
che non fi poteva veder efclufo totalmente dalle cofe Ecclefialliehe, XV,
Molta variazione pafsò fino a Carlo Magno, il quale, ridotta fotte la
fua ubbidienza l’Italia, la Francia, e la Germania, riformò anche le cofe Ecclefialliche, riducendolc ad
uniformità, le quali in diverfi luoghi
erano divcrfamcntc illituite; rinnovando molti de’ vecchi Canoni Concitiarj
andati in difluctudine, facendo egli divcrfe leggi Ecclefialliche per la
dìRribuzionc de’ benefizj fecondo rdìgenze dt
quei tempi : reftituì in parte a’ Parrochi le poflclfioni che i Vefeovi,
come fi è detto, avevano tirate a sè, ordinando ad ogni Prete Curato ne fofle aflegnata una della quantità
che in quel tempo chiamava. x3 mavafi
Mcnfa. (i) Pafsò allora in Italia il coflume di dare la decima alla Ghiera
Parrocchiale, che gili molto innanzi era introdotto in Francia. Aggiunlc però Carlo di nuovo, che
il Vclcovo, come Sopraincendente, e
Pallore generale, potefle dare quell' ordine lopra la didribuzione delle decime, (a) che parefle
a lui; pcrlochè i Vcl'covi, dove erano molte, c graffe, ne dil^lero in diverte
maniere: ne attribuirono parte a sè
llcffi, parte a’Preti della loro Cattedrale;
c ne aOegnarono anche qualche parte a’Monafteri, con carico che
cfli mctteOcro un Vicario alla cura,
dandogli la porzione conveniente: c,
oltre airaffegnazione del Vefeovo, alle volte le Chiefe non Parrocchiali
fc ne appropriavano qualche parte, che in progreffo dì tempo poi difendevano colla preferizione. I
Princìpi ancora ne applicarono alle
Chicle verfo le quali avevano maggior divozione. Rcllitui Carlo la libertà a’
Popoli di eleggere i Velcovi, concedendo che il Clero, e il popolo doveffe
elegger uno della propria Diocefi, il quale
folte prefentato al Principe; e quando da quello foffe approvato, e invertito,
dandogli il Partorale> e TAncUo, doveffe efler conlccrato da’Vcfeovi vicini.
Kcrtitui anche a’ Monaci la facoltà di elegger l’Abbate del loro proprio Monartero : {if) rtaiuì
ancora che i Vefeovi doveffero ordinar
Preti quelli che foffero prefentati da’ Popoli delle Parrocchie, Stabili anche Carlo 1' elezione del Pontefice
Romano in fimil ma niera, ficcome era
anche irtituita, quando gl’ Imperadori Orientali dominavano Roma; cioè, che foffe il Papa
eletto dal Clero e dal Popolo, e il
decreto della elezione foffe mandato all’ Imperadore, il quale fe approvaflc (c) l’Eletto, foffe
conlccrato. Vero è che, motto Carlo, quando gl’ Imperadori della Tua porterità
fono ffati deboli di forze, o di
cervello, i Papi eletti dal popolo fi fono fatti confccrare fenza afpettar il
decreto dell' Imperadore : cosà fece Pafqualc
con Lodovico, figliuolo di Carlo; febbene manJà poi a Icufarfi con elfo lui, che non era ciò proceduto per Tua
volontà, ma per forza del popolo, che
cosà aveva voluto. Sono ben alcuni i quali dicono Lodovico aver rinunziata la facoltà di
confermar il Papa ; e perciò allegano il
C. Ego Ludovicui^ ( ) quale altri uomini
di molta 0) fwL ri) HUfffMrié
ftrvivtrt, t»mt ntr 5 .Cr^iav# nell»
vit» dt S.Ltfstié dArili. Ouncc omnn «l> iffo eflènt redempri co tTgento mo AaterriW ejui Conici Eccirlìa Menfa rcin^ucnt. HitU nMrrw ftmdaU mn c| firviMm» munr» dtll» farti» Urnf». ( .« ) Uc Derimz in pcreJkste Epiftopi Hnt, qiuiibét a PresEycerìi dilpcnientur. t»f.i4i.lti. 1. CsfirmUr.
(i; Monichorum (ìipiiiiein caufam,
Deo ojmuUiite, « pane liilporueninui. Ac cuomodo ex (é ipfu libi
eligendi Uccntiam deaeritcui, Ac qualiter cjuiete vivere, propolitunique indetefli cutVdire valerent ordinaxenmui,
in •lu libcdula diligenter idnotari
feamuit At ut Bpud Suceellorei nofkr»
ratum fbret, Ac invioUbiliter coniervarctur, conErmavimui. tf, ltiii. t-
CtfitmUr. (r) i U fimrmtiir» tir fm dal
Clrrt, « dad fafaU XMMa» frràata « il
traigli», •d a Lttaru fu» fi'UmtU 1’
»n»» «14. Proemno ego Uk per Deuni
t^nmipotenreir, Ac per iUa qusruor
Evangelia, Ac per bone Cnicem Domini aoliri Jrfu Chndi, Ac per corpus
BearilTìmi Petti, prinuj'ii ApoAolonim,
quoo ab hoc die in lidtlu ere Dorainis
nollr» Imperato dot tri ribus,
Hludovico,Ac Hloario, dicbui vitjrnie«,
}usr4 vim, Ac imelleòum meum, fine fi^ude, atqae malo ingemo. Ulva fide, quam
rrprninifi Domino Apo^iicoi Ac quod non
conlentiam ut alitcr in hsc Sede Romana
fisi elegie Pontili(is, nifi ciaonue, Se julle, fctundum virci, Se intclledum meum, Ac iile qui elechii fiierh, me conUatiente, conlécvirui Poimiex non
fiar, priurqu.''in tale
làrtan>er.tuni U^iar in prskmia milG
Doaùnici Smperaions, Ac populi rum paramento, quale Dominus Eagcoiui Papa Ip nte,
prò coniérvaiione «^nnitun, Uftutri bibet per
firiptum: nmai. CafiimUr. fag. «47 yid» Tb»gaa. ad aaaam tiy. ferduravit
hxc confiietudo, dir Onifri», ufque ad BenediAum II., cujui fanfìiraie petmorus
ConUmcmus Iniperator, Heradii pronepm,
et'.i&o tuo julTit ut deincepc, quem
ui, pnpululque Rotnanua Pontificcm
aekgiQent, », nulla ampliui Imperatom confitnucmrtc expéò-.ia, more
vcmiiifiimo, Aatim ab Epilirop»
orduuretur Aa»»t. ad mam frlaga Jf. l)
D Jtiaff. éj. Vidr Tltrmm dr rltHitnitMi
i» fm tfrram Agttardt. taf. 6, fag. i{t., rAi Balnuam. tdt ttiam Tbtran. ad
oao.liO., et 17. f
i I Z4 dottrina mf più ragioni meflrano fatfo, e
6nto : (i) nel che è fuper6uo aflaticarfì, perchè certo è che Lotario,
Figliuolo di Lodovico, c Lodovico iecondo, tuo Nipote, confermarono tutti i
Papi elctti nelle loro etli. In quelli
tempi, ne precedenti, e fulTeguenti, quando, per afpctlare la confermazione del
Principe affenre, alcune volte paOava qualche mele innanzi che l’Eletto foife
confermato, e poi coniccraio, egli
innanzi la conlecrazione non il portava da Papa, nè amminiilrava, lalvo che
qualche cofa particolare, a cui urgente necclTit^ collringefle di provvedere fui fatto; nè vi
fbflc altri che vi attcnddfe; come avvenne a San Gregorio; nè fi chiamava
Epifeopus, ma EltBus, Anzi nemmeno
teneva il primo luogo, ma lo teneva 1 Arciprete
; il quale anche fi dava quello titolo, cioè : Servaas locnm Seda Apojìol'tc^: ma dappoiché i Principi
furono elcliifi, come al fuo luogo fi dir^, pafiava Icmpre poco tempo dall’
elezione alla confecrazione, nè per
quello fi diceva che 1' elezione fola deffe
il Papato, ma la conlecrazione : perlochc, le alcun Eletto moriva innanzi d’effere conkerato, non era pollo nel
catalogo, e numero dePontefici, come avvenne ad un Stefano eletto dopo la morte
di Zaccheria nel 752. che non fu conlccrato; c però non fu pollo nel catalogo.
Papa Niccolò II., (nufei fTriru'-, Hi"C ob ri(creiu, quoi ab hti vi too^ui
rflet ^Aiifioutn irunitt nbì'e. Acirpu
bsc tàmfaéionf, Lalovicui ‘«'pò i.Ui Clero,
Irta)u;uRi ipiìini», St pitia M«v8ne drinrrp ouieftiTnR laelc eni : tu xitu fuf.bulit miti»- ^U4nt» gli Auttri fbt b^mm
ftriitt rbt Lut^i, il btn^u», uxtfit rmmuti dtrittt di rtufiruurt t t'ti»9t dt
fuftfiuii rr’trr tbt uufft ftrft dli' uxtf ttufuft (bt Hutiu» Ttftnftt util»
mtitfimu vii«| tbt il H bli0tHuru
Aatfiugi», itti, il CuuctHurt drHm feere Wr, rutttmt» tb taduvii» dttdt M fuifiMU
f tturr» fdtfià d' titfgm i |V fini, a
f •« Ptmifi-tm ft^ului fiatim eriafiit,
fNi tmia dir Ptaiiftatmi fm, dumrtt
dtmtjhcas diffcnttt uttifit, mtrb» àfifitxt» rrrrrfiut tnttrmt.. ^5 Papa riceva tutta V autorità : e perciò i
Scrittori mi fmt mi ntlU fmm Cnmìcm
Jt’PMfi. F ftiammn mtmxMm Ji ni in
itrmm. Ante qnein tioxn Siephtnut qui«U
fdf»^ fidi» Sttfdm Ili. f» V dltr» ftfu fidi»
fdfd iftttiv», I rietmfrtiu» t ìi rkt damjh» tln dUr» tfftr Elcàuf n»m trm ifiir
Epilcopui, « fdfivd drvtntdr F.pili« nel
fm Ltxitm, in Cenfitrohoiubiu
Imperatorits, enniverlétiam
pearitatiooem, colUuòaetii, de prcAeaooem fi !
i nefizj molto ricchi, fi
creavano Vclcovi i principali della Cone, c
della Cittì, a quali il Principe ancora commetteva molta parte del governo politico, prima llraordinariamente;
cpoi, vendcndofi che riuIciva bene, anche ordinariainenie; non perh in tutte le
Cittì a!!'iflef|b modo, ma lecondo le occorrenze del luogo, e il valore, o la
boctì del Vefeovo; e anche Iccondo la
poca attitudine del Conte alle volte, al
quale fi luppiiva col rimetter ai Velcovo. il che fu caufa che poi, degenerando la poflcritì di Carlo, che
bnalmente fi affogò nel prctondo dell’ignoranza, i Vefeovi penlarono cITer
meglio per loro non rl.‘him (redo bsc oppertunif(ce Htdriinum. tjuod CftTOius,
{quejh tr» C«rI it rnffirì Iinpcraeor, sb ImIU cum «nrcitu diicMtiu, in Noroujinot rebeliintn moverat. Stiu vftM d' AdrUn» U. dtl mrdtfimtt
PUi$ms fi 4 i R»mMÌ, ftr mtier »» P»nt>firMt9 ftmx,' sffttfri l (»nftrmst.iem dilT féiU, >r« etti i vttifimiU tb AdrUtu IH,
mìU i'tftUdtrt P ìmftrmd» r4 dtl P»f» (4) Vidi PVitKhmd fég. tt. mtam. to.
Omnia, dtrr ii d‘ Agmtfy»»», &unini
deben ror PantiKibiu, 8c non C'boi^ilcopir,
nula f»rt» Cbtltiahrta rmane Ckmi, quod lum failTc. cum )Un eo
devemJtent Ecriclialìici, «tuh> (ine
perratonis t^ualtlet dMtunùc.rc tem- ut, non cnadi. ut aniea, Icd ffKjnte, ^
laigi. pori de Erciedx rmuiBcraAonr
pofTederint cum nonibuarootifiiium nmnutobuent Rea (>ef '^aucioriuie
Klonotìtlimi Ptincipia nollti, in |ui finii «xempli, cum pndea ('ere (einper
ferrata bare propnctarium praeCciiptione
tempotit non vncen. conliictud» (il, ut a^priorum Pontifimin fe.p(en. tur, dummodo pateac Ercidix rem fuifTe; Nevi,
tea aut infrinf^erent, aut omnino inlleenr. R#. deaiuiu eiiam Eprfiupi admimaraitonu prtjlizx,
Manal.rra éStcfsMaVl. rii thi Sttfan vav«ut precatortaa, cuni «rdinici funi,
faceredcbotC fAtia a tarmafa. Steptuni PonitHch Jerreta, Ae le, aut diu lentit Ecclefie ficultaTei
prnpristati «tU ibtim tmprobat. abro^acque. dire iV R«rin« fux polle tr»nfuiderat buie «tati ut hotninum
indullru in rnitnonc inutilaiui turpuer, alupundia vitam Ju. quovU cenere vittutia (oafeodlertc, nuliii
calca zie, cum ob inhoitelia vulnera i frababilmeata libui aunibim, quibu» hmuinuiu ingeniaad lau'
ftr tfitr^ii fiata tafliata il nafa, a la erieibu ) dein eiuiirentur. piodire in puliblitum
mibcKcrct. Plaiina in (JStimphaDUtVI.dirr
il Flaiina malia fna vi. vita, ta, tanto
odio pcrfecuttis cd Formoli Homcn, ut anni Giovanni XL ch’era figliuolo (4) baluardo
d’ un altro Papa (h) morto 18. anni
prima’, e tanti inconvenienti nacquero in quelli anni, che gli Scrittori dicono
in qiie’ tempi non cflervi flati Pontefici,
ma Mollri. 11 Cardinal (c) Baronio, non fapendo Icufar alcuno di que’dilordini, dice che la Chiefa allora per
Io più (lette lenza Pontefice, non però lenza capo; rellando il fuo capo
Ipiricuale Grillo in Cielo, che non T abbandona: ed ò ben cola certa che Grillo
non ha mai ialciato, nè lalcierh mai la
Chiela Tua, ne può mancare alla Tua divina promelfa, eh’ egli lar^ con lei fino
al fine del Mondo: (d) e in quello ogni
Crilliano dee ientire, e credere quello che il Baronio dice, penfando anche che quello, che all’ora
avvenne, fia avvenuto altre volte; c
ficcorac in que’ tempi la fola alTiflenza di Grillo confervò la Chiefa, cosi l’ha confervata, e la conferverh
in tutti i fimili accidenti in quel medefimo modo, con tutto che non vi folTe
minillero di Papa, (i) Può ciafeuno da sè fleffo giudicare come
folTero trattate le altre Ghiefe d’Italia, confiderando qual’ è lo flato di
tutte le membra nelle gravi indilpofizioni del capo. («) Non flavano però
meglio fuori d' Italia, dove i Grandi
davano i Vefeovati a’ioro foldati, e ancora a’ fanciulli in età fanciullefca. Eriberto, Conte, Zio di
Ugo Capeto, fece il fuo Figliuolo di etk di anni 5. Arcivefeovo ( a ) di Rems ;
Papa Giovanni X. confermò quella
elezione. In que’ tempi nefTuno riccorreva a Roma per divozione; ma Tempre chi di&gnava
alcuna cofa contra i Canoni, e ufi
Ecclefiaflict, fe non trovava nel fuo paefe chi 1 ’ approvaife, ricorreva (m) ^ejl fini ) riftrif i» mtl lArè frutto mi t»p» i J. Onofrio ?mmvitto
itti tbt Ìfio Psfn moH n» di Pof Srrgto
IH. tomo mfierms PUtiM. (^) Di Sorgio III., c di Unroxj,
figìiuolA dtlis Mtrfttitt ToodorA, Ia
tfmAle profiimivA U f" ’. Joinnei
XI. dir pAmvimi. S^gii l'apx. Se
aIsickix notuUilimr inter Rmiunof fiéminx {tlU n vtdovA di 0»ido ÀtArrbfft d T^trtnA"^ filius, vutri, qux cune in
urbepoteouirima erat, uiàoriuc?, et ttudio rucceflìt.;.. poli Leuneni VI. 9c Steptunum VII. Pltuiti»
U tbìAms CiovMMMiXll. patria Romanui,
pane Sergio Ponriike &c. (r) Wi
fMin ifS tpAmt, «fìea PlacÌBa nelii vita
di BeneJetio IV. tAfrivir ttfit EìcUSa Dti,
vttfir tfM! cnitorAtu a ftutritAt d lAftivurm, ffprrit Atiu tAutA lirtHtiA fttcAAdi btportt»tA, A ATAiniitn, et UtguioAt, fAitOiJimA P^ $ri ftdti nrnfAtA tfi forimi. feffrffA. Bm~ voiu rbiAAtA imefii PAfi ftdu AfofioUt
mvAfnri, itom AfofiAitoi, frd Af^Atirot,
a 4 Aaitmm pot. Jta Pool (a muA
pmdttjoffiiimA imior Ito 0I dtftrditu dtll'ttrtnmi ai ami itmfo. Sitfpu, dx' gli
ìm kha dtlft fu Itttrrt, u h» irnAto
Arfomtnfo fori it provi tbt Ia fioTÌA
dtllÀ PofiffA CttVAAAA fA VTr«i tott iitmPHn bo ttovAto TàifioAi AblofiAntA
hmont tbt n mtfiuAo Ia fAÌfitÀi tilde, pr
pArUr fiaertAmtmtt, io fmdt a trmnlA ftr fAljA, pia non pi ftr firAVAtAntt i poirkh i» fMaa«i
X.)ulutptitiin, in execnplmn cito rtanfiic aliorum, ut cumplures hujus Ixculi
Princt. fibi tinguine con^nftm
adolclcencutos ia unaaC-aUicdraituravaim
^nvinovendos ad aem. paf. a Roma, dove fi davano difpenfe d'ogni cofa
e Fambìzione, o F avarizia fi copriva
con dilpenlazione Appdlolica. 1 Papi, eifcndo quali abbiamo detto di lopra, non
Facevano didinzione di quello che poteffero; iiimando aumento delia lorp
grandezza ogni cola che folTe ibftenuca da qualche potente : quelli, per loro
iinerefle, difendevano quello che impetravano. Il popolo, parte per la lua
lemplicitk, parte pel terrore de’
potenti, approvava quello che non poteva impedire; onde fi fiabill un’opinione, che di qualunque
cofa, lubito che aveflc la confermazione da Roma, ogni errore paflato folle
coperto. XX, Alcuno crederebbe che la poca cura che
aveva V ordine Ecclcfial^ico delle cofe
Ipirituali avclTe fatto rafl'reddar il fervore de’lecolari a donar alle Chiefe, ed avelTc pollo line agli
acquilU nuovi degli EcclefiaAici;
nondimeno non fu cos'i, imperocché, quanto era diminuita ne’
Prelati la cura Fpirituale, tanto più
erano intenti a confervare j beni temporali, e avevano convertite le armi
Ipirituali della Icomunica, che fi ufava
folo per la correzione de'peccarori, a difela delle poflelTioni temporali, e
per ricuperarle anche, Fe per calo la poca cura de’ PreccF(bri le avelfe
lalciate perdere. e nel popolo tanto era il terrore delle cenfure, che nefluna colà, metteva maggior
(pavento; e colà mirabile era, che i
foldati, e i Capitani, fenza alcun timor di Dio, che ufurpavano quello del
prolTimo Fenza alcun riguardo d’ offendere S. D.M., gutrdavano con gran rilpetio, per timor delle
cenfure, le cofe della Chiefa: da quello
molB molti di poco potere, dclìderofi d'afltcurar il filo dalle violenze, ne facevano donazione
alla Chtdà con condizione che ella
^lielo^ delTe in feudo con una leggiera ricognizione. Quello afHeurava i beni,
che da Potenti non erano toccati, come quelli, il dominio diretto de’ quali era della Chiela.
Mancando poi la luccefllone mafcolina de Feudarar)-, ctTmc- per iè Frequenti
guerre, e fedizioni popolari, i beni cadevano nella ChieU. Poiché (ino al prefente abbiamo detto in qual
maniera fieno fiati acqiiifiati i beni
Ecclcfiafiici fiabili, c la ragione di decimare quelli de’ Laici, quello luogo perfuadc che fi
tratti, c rifolva, prima chcpalfar innanzi, la quifiione trattata ne' nofiri
tempi, cioè, le i beni £cclefiafiici fieno pofleduti urc divino^ o humano'^
echi ne abbia il dominio. la comune opinione difiingue le poireifioni lafciatc
alle Chiefe per teftamento, o per
donazione dc'Fedeli, o in altra maniera da elTe acquifiate, dallc{ decime,
primizie, e alire obblazioni. £ quanto alle polFefiioni, tutti concordano che
fi debbano chiamare beni temporali, e
che fono polTcduti dalla Chiefa jura kumano : imperocché cena cofa è, come di Ibpra fi è narrato, che, elfendo
proibito a qualfivoglia Collegio r acquifiare ft.ibili, la Chiefa, prima con
permiflìonc degl’ Imperadori ebbe facoltà d’ acquiftarc, e apprefib vi c il
Canone : j«r^. d.S., do . 31 d. 8., dove fi afferma che col folo
Fondamento delle leggi umane fi dice:
quella poffeflìone èrnia: quello Fervo è mio: c che, levate Je leggi de’
Principi, nè la ChieFa,nè altri potrebbe dire che cola alcuna Foffe lua. ( 4 ) Neffuno può dubitare che la
divifione delle ponTcffioni non fia per
legge civile, e parimente i modi di trasferire i dominj dall'uno allaltro, la
donazione, il teflamento, e tutti i contratti, e tutte le diFpofizìonì non
fieno leggi umane. Sono flati nel mondo Repubbuche, e Regni, dove il tellamento era incognito. Jure
Romano al iolo Cittadino Romano era conccflb di far teflamento: non c pofiibile
che il modo di acquiflare fia per
ragione umana, e la continuazione dcU’acquiflo fia per divina.’ quando alcuna cofa è donata, o
legata alla Chiela, effendovi difficoltà, fc quei titolo fia valido, fi giudica
con leggi umane, c tenendo legittima
ragione, fi mette al poffeffo fecondo quelle. adunque anche in virtò di quelle,
e non altrimenti, continua nel dominio, e
nella poffeffione : ma poiché in quello ogn'uno concorda, non pafferò
piò innanzi: lolo aggiungerò, come per
corollario, che da quello fi rifolvc
chiaramente, e fenza difficoltà, fe T elenzioni, che hanno le poffeffioni
Ecclefiailiche, fono de jwc diviHo, ovvero bumano , poiché il poffedere, ed il modo di poffedere, vengono femprc
daU’ifleffa legge, e i Giureconfulti dicono che dall’ illeffa viene la fervitù,
o libertà de’ fondi, daquali anche viene il dominio. Sarebbe gran
contraddizione dire che la Chiefa aveffe
una poffeffione jure Veneto, la qual aveffe una libertà alio jure.
Ma quanto alle decime, fono due opinioni: una de Canonifli, 1altra de’
Teologi, e Canonifli, che flndiano infieme la facra Scrittura, e la legge. Dicono i Canoailli che le decime
fono miv divino, () perchè nel Teflamento vecchio Dio diede a’ Levili la
decima, come {b) la Scrittura divina
racconta. e non è maraviglia che dicano cos), perchè non fono vcrlati nelle
lezioni de’ Libri facri, non effendo la
loro profcillone d’intendere i nìifieri della Religione Crifliana,
cioè, che Dio per Mosè diede al popolo
Ebreo la legge, la quale, quanto alle oofe cerimoniali, t giudiziali, fofse
propria di quella nazione fino alla venuta di Criflo, il qual’ era per levarle
la virtù obbligatoria.- (r) ficchè la legge delle decime è ben legge divina
Mofaica, ma non legge divina naturale, nè Crifliana, ed obbligava quel popolo folo di allora, adeffo non obbliga
alcuno. Può bene chi regge una
Repubblica far leggi fimill a quelle , ma non obbligheranno come divine, nè fi dovranno chiamare uli, ma
bens'i leggi civili del Principe che le coflicuifce. Fu una legge divina
Mofaieache il beflemmiatore fofse uccifo. quella adeffo non ci obbliga; nè chi
non l’uccide pecca; e potrebbe il Principe imporre per la ^flemmia pena
capiule; e farebbe giuda, e fi dovrebbe
fervale; non però fi direbbe legge divina.
(«) Jure Kumano dkitar i h»c vilU mea cft: hcc dofnus mea - bit fervut renu eà. )ura au«m
hunana, jura Imperatoram (uDt. Tolte )ura
Imperatorum, 9t quii aud« dicere : mea eft ì0a Tiili, auc mnu eli itie fervui, aut dounii
h«c IRM cft} ) Ctv»rmvi» »a» J d» ftmimtnt». Vt il il it,
iti Itkn frtmt variarum refolutioeuin.
H ) Filiii Lavi dedi omnes devimas Kraelii in pofleftìoneTn t>ro ininlfteTio quo
ftrviunt mihi in tabamaculo nderis....
Decimarum nblatiem contenti, qiaas in
uiùi eonim, de nereftàna Tnnilato
Saoerdotio, necefle eft ut et le. il
rranilatio fiat. Reprobano fit prxcedentif manB(i proptet iofinnitaccm c;iti,
et inuniitatoui. Htèr.7. vina, febben Dio gi^ la dicale al popolo
Ebreo , (rf) ma legge del Principe politico. In quelle, c in molte altre
occorrenze, dove allegano quelli uomini
la Scrittura vecchia a loro interciTi, e loggiungono ch\ è de jure divino^ bilògna diflinguer loro
l’equivocazione, che quei eh è de jure
divini) naturale, o Cnltiano, d obliga; ma quello eh’ è de jure divino Molaico non ci obbliga; e fc chi
ha un governo fa uno flaiuto fìmile a
quello, egli è de jure bttmano. Non
poflb relìar di dire che non, per ignoranza, cosi trattano qucfla materia; mt per ingannare gl’incauti, c per
convalidare le cole loro col nome dinr
divma, e mctterfi in credito: ma fi potranno convincere qui, e far tacere. In quell’ iltefib tefio della
Scrittura Dio comanda eziandio che non pollano pofl’cder terreno, e fi
contentino delle decime.- (^) fé per
quello precetto il popolo è de jmre divino obbligato a dar loro le decime, efii laranno obbligati a non aver
polTclIioni. Ma apprelTo : Dio comandò
le decime foio de frutti della terra, (r) e le leggi canoniche dicono che fi paghino ancora della milizia,
della caccia, e di qualunque opera umana per la quale fi guadagni. Se Dio
comandò ai popolo Ebreo le loia decima prediale, lono sforzati a dire che la
pcrlonale non fia comandata, le non per
legge umana. 1 Teologi, de’ quali io non
nomino alcuno in particolare, perchè ndfuno è cldufo ; e molti Canonilli con loro dicono concordemente,
clTer precetto della legge divina naturale, che il minifiro della Religione
viva del fuo uffizio che prefia,
fervendo .al popolo nelle cofe divine; ed elTere Ipeaiai precetto di Grillo N. Sigli, nel Vangelo, che al
mìnillro, il qual lerve al popolo nella predicazione della parola di Dio, e nel
minillero Ecclefiatli-o, ila lomminillrato il vivere: in che quantità non è
determinato, perchè lecondo il numero
delle perlone, la condizione dc’luoghi» c dc'tempi quei eh era molto una volta farebbe poco un’airra;
ficch.' il far parte al Minutro dt Cri^0 è de Jure divino Che quella parte fia
una decima, o una ventèlima, o una
maggiore, o c_llatutiro per legge moana « o per confuctudinc; che vagliono rilttflb. E
quando fi legge in ai^unc Dep-ciah che Dio ha illituita la decima, o j^e U
decima è de jure divi^ no^ $' intende
(ff) la parte determinata per una indeterminata, intendendo decima, cioè,
quella pane che è debita, c neceflaria, ovvero che i)io ha iitituiu la decima nel Vecchio
Teftamemo, ca lua fimilitudine la Ugge
ha i^ituiio lo (leflb nel nuovo. Pcrlochc generalmente poffiamo dire che i beni
Ecclefullici, di qualunque Iona fieno, lono lotto il dominio di chi nè padrone, e poflèduti per
leggi umane. Nè alcuno muova dubbio fopra quella parte indeterminata che è
debita per legge divina naturale^ e
Vangelica; perchè, come ben narrano i Leg gittij (;) Ortinem meJutlani atei, viui, frame I I
iiln ileJi, '•fe Die d Ar$ tn uni>erÉi
hu^utn imrUf ()iih EK'' ^ Dunituo
deportintur, cedcni ii\ aAit iuta.
(dy (ilitt Levi, étti T)i, deiì aman drcimn f€o uiiolUerio quo femiuit milu m
uberoetulo IcJeri. Nnm. >1. («) Dominili ordiittvtt iù qui gfiofcliun tonuncumt
de Eviitgelw vivere, i. Or. i, elt^ lipoe
e^ritelii vettra iDerimu»? Uni beoe |n«iuoi VrotiyteTi duplici honore difini hsbeinnir,
m». jMice qui loborant in verbo. Ac d''i£iiiu
«U «periTMf mercede Tua- i-T-fUi.I. PI ler cuni |v>pu!ui univeut,
de iJ liliov Ifnel loqueru ; Hntu», qui
blalphemaiem D'imen !>>• mini, OMrte nii>riAtari UptUibui e^lprmiet
cuui mrme muliHud'', Zrwr. a,. Dixit O’unjnu. sd Aaron: in te rt eorum mhi! p>(T> c' itii, iKc habebuis piriem
inier co: fi sltnst r$ar dt Nihil «l'ud
pnili.!ebtini, dcrtouium ^!«none
(unteixi. A'ana.il. Nontubebuni Saeerd.ne», et Levirit psreem. de h«re ertem eem rrliqno Itraci, quia bcrifiria
D'xtunt, et oblatuinet eMi corpc-’^nr. V
uim! aliud aeri, pieat de pofldliooe
Irinumliiorum. Unii. ra. il. gilli,
altro i che una cofa Ca debita; altro i che fé ne abbia dominio : la cola di
cui li ha dominio C pud dimandare drittamente in giudizio, come fi dice, Mont
rei wneleesmnh ; ni fi foddisfa con dargli
r equivalente ; ma il creditore pud folo per azione perlonale
dimandar il debiiOt efièndo il debitore
obbligato a dargli tanto, ma non pid
quello, chequello. Da quella rifoluzione rella anche con faciliti
decito, le i benefizi lono ite m Rivinti,
e Je ere pofit 'mù ; imperocchi, elfendo i (labili, e le decime poflèduti ite ere
èemme, anche i benefizj fondati (opra
quelli avranno la forza deirilteiTa ragione: olirà che dalle cole iuddette fi
potrb pid agevolmente certificarfi di ciò; perchè, fe la Chiela è (lata tanti anni con beni
(labili goduti in comune, e non divili
in benefizj, come di fopn è fiato narrato, chiara cola è che i benefici tono (lati creati dagli uomini
in progrelTo; e perciò in quello tutti
concordano- Non mi ellenderd pid in lungo.- folo dirò che, Icbbcn quelle conlìderazioni pajono aliai
lottili, tono però neccOarie, come le
cole feguenti mofircranno. Dalla
rifoluzione della prima quifiione farebbe facile rifponder alla fr' conda, cbi abbia il dominio de' beni
Ecclefiaftici ; ( degli (labili fi parla,
poiché de'Irutti fati il fuo luogo nel quarto quefiio) (l) imperocché,
fe tono polTeduti per legge umana, non
iella le non vedere a chi la legge gli abbia conceSl. Alcuni dicono che quelli
beni fono di Dio; e lenza dubbio dicono
il vero; perché la Scrittura divina apertamente
dice che della Maellh fua divina é tutta laterta, («) e qualunque colà é
foilentata da quella: ma in quella maniera ogni cola é di Dio-, e non pid quelli beni, che tutti gli altri:
una fona di dominio univerlàle é il divino un' altro dominio ha ogni Principe
fupreno nel filo Stato, il quale,
fecondo Seneca, fi può chiamare dominio d'imperio, (é^ ovvero, fecondo 1
dottrina de'Gìureconfiilii, dominio dì protezione, e di giurìfdizione : (r)
Un'altro n'ha ciatcun privato, che é il
dominio di proprietà, dei quale parliamo, e del quale cerchiamo adeflb: né fi pud dire che Dio abbia l'unìverlàle
dominio di tutto, ma che abbia infieme
la proprietà di que'beni come il Re ha l'univcrlale in ratto il Regno, e nondimeno poQiede in
privato, e ha la proprietà di quella porzione che é di caufz fua. Imperciocché
al dominio univcriàle del Principe fi pud far aggiunu col partfoolare della
proprietà, per la quale crefoe, e fi
aumenta; ma il divino di Dio ha una univeriàlità cosi eccellente, e infinita,
cin non pud ricever aggiunta, e alb quale ripugna I’ «fière particolarizzat^
ficcome anche ripugna che £a comunicata
a qualfivoglia creatura; p^oà^ neffuno pud dire, efCendo Dio padrone di quem
beni, io, che ho J'iAalE> tribunale, T ifieffi) confifloto, e rifieflà Corte
con lui, fon io ancun fi^lrone. Egllé
non meno fervo di qualfivoglia Uomo minimo. Teme li. E Peid l«t mprkm. fMb r. Cbìm eli, ttm9, U ^aiA^oiaefl omflÌMif «un&nt ita t m
4- Domiu cft wm, picaitado oÀù
(cncnun, li unià-edi qui htbiwBC ta co.
ffttim, ( noi» iwMa funi f;ti». vi mini. poflc^Torii, i. %. 100. «rr. 1.
rrff, «U UiS.7‘ tr) rtpv rwo fed ciilV«nrater p«iun.« ■' pt doiiiinus, feiJi. fpeaCitwr, (èquitui quod de p!e ipiii ed dominai
quìa don^iortM a«ii «litnant. trvmfetur^
>»ra loft tu rapunf .aut Pr^.(v«n, fc.i i« Zccielìim Kctnananij ve 1
ialem. (tvj r ttitadio tttf «a 4 r 1 f sdraiti, t ftmnfrmt luu d far Ur Is
frnsrrtm Ncc pum, il, ^ojnetaa quod
IV Pi hibec plnuiudmcm pdtcftnl?
Ecctettimcx,Db bóc podlt de SottuZiLldis
dtipi^eic^ fMt pqoelk Érclelia;
quoiM.ini ‘pleniiudo p|itelUlii EiMletitltit mcciligttur in fptriuiahbos Onmnt.
a 4. y «rr. 4 J.. #
unsCtafrÀteraits in i’mtgJ», d\ tmtt ir
Cta^sitrait fi (iusmsm dra«l«.
\.i)L'A»trt dutdt'Frsn, tk'i li uem ft» (ai S (ìtuum» .olare, o universale, a favore di cui la donazione, o
il legato fu fatto. Perlochè dovrebbe anche ogni Rettore di Chiela veder con
diligenza le obbligazioni lafciaregli, per eleguirle; e fe altritnenti fi fa,
biiogna imputare all impertezione umana : nè può alcuno perluaderfì che, per
la lunghezza del tempo, pofla clTervi
prclcriziunc; imperocché quella lup-pone la buona fede, la quale non è mai m
alcuno; lapcndo ognuno in lua colcienza
che quei beni non lono Aati Jakiati, acciò li
faceta quello che fi fa. Ma chi
avrk il dominio di quei beni Ecclefiallici de' quali non fi fa rillituzionc? la legge naturale, c civile è,
che in qucfli a’quali è mancato totalmente li padrone privato lucccda la
Comunità: adunque di quelli rcllerìi
padrona la Chiela. In modo cKc in poche parole i Bc-' nefiztarj lono dii penlatori de beni dei
betttftzio, ma padrone ne è quello a
favore di cui è Hata fatta la donazione^ ovvero il tefiamento t
quando non fi lappia, relìa padrona la Ghiefa» Non olla a quello che vi fieno leggi de’
Principi, ed Ecclefiaftichc, che
proibilciino Valienazione; imperocché il pupillo è vero padrone del fuo, c pur non può alienare : il dominio è un
jus di fare della cola quello che fi
vuole, quando la legge permette; la qual legge obbliga alcune Ione di perlonc che baono bilogno di
governo alieno : tafè 1Univcrfitk, o Comuniii.
Non fi dovr^ maravigliare alcuno, fe tanti moderni Scrittori in fimili
quiltioni, come in quella, che fa il Pontefice padrone alToluto di Tomo IJ, £ 1 tutti i Btnefìzj, nini i beni
EcclcGaRìci, difendendo opinioni contrarie ali’ Antichiù, c a quelle ittkuzioni
che ebbero origine eia’ medcGmi Af>polioli, e uamku Appoltolici, perche,
come con gran fentimento n doleva S. Opriano, è una dette umane imperfezioni
che, dove i colHimi fi dovrebbono
conformare alle buone dourine, eleggi,
per lo contrario le dottrine degli uomini intereffati s' accomodano a’
cofiumi; e fi potrb offervare io tutto il corlo di tanti fecolt, non
eflcrfi introdotte novith, eziandio
concernenti alla Religione, che immediatamente non abbiano incontrati difcnlori,
Che maraviglia fark che ciò avvenga in
quelle noviù, e introduzioni che icrvono a ricchezze, comodi, e umani incerefiì a'quali molti
poiTano afpirare? La confufione che fu
ui Italia nelle cofe politiche, per tanti che
furono in quei tempi fatti Ré, c Imperadon, cagionò anche nelle
altre Cictà^ efiremo dilordme nelle cole
Eccicfiafiichc; elTendo i Vefeovi, egli
Abbati ora fatti da' Principi, ora imrufi dalla potenza propria; e gii
altri Miniliri Ecclefialtici fìmilmente
fatti, ora da quelli che dominavano
nelle Citù, e ora da'Veicovi; e alcune votte i benefizj anche occupati
da chi aveva- potenza, o favor popolare.
Nell' anno p&i- venne in Italia Ottone di Safibnia coll’ armi, ()
e fc ne impadronì ; e per dar forma al
governo, congregato un pio ck)l Concilio
di Veicovi, privò Papa Giovanni XII., febben della maggior Nobiiù Romana, e di gran icguito in
quella Citù, il quale, fatto Papa in ctk
minore di anni diecioito^ viveva nel Pontificato con eicrcicar adulteri, Ipergiuri, e altre
maniere poco rcligiofc : fi fece rimmatar Ottone: dal popolo, (a) e da Papa
Leone Vili, creato da lui in luogo di
Giovanni, ramonù di creare il Papa, (^)
e gli altri Wfeovii in Italia^; la quale ritenne efib, c il Figliuolo, e il
Nipote fuo, dello fiefib nonir, fino ai
looi. per gd. anni; c del numero di dodeù Papi che furono in quei rompo, due ne
furono creati dal Principe quietamente,
gH «W ùk.£edizioni periochè anche li primo. Ottone(i) TìC menò uno prigione in Germania; e Ottone
III. ne menò un’altro.' uno fu
lUangolato ( 2 ) da quello che volle effer fatto in luogo fuo; uno fuggì, (r) rubbaio il telerò degli
ornamenti della Chiefa; e un’altro fi rmiò a voionurio cliiia; (d) di modo che
anche in quefii an ni in StfnjH tr^Omnr,,
jSgUtuJv litiP ftpfrtMMmo i
ÙcctUmcrt. flmrin inlutf dì XÌI. XÒmMMit- AloWK» pai^u f^atì aufuiB occu^tti
ho» An« onsubus {tfoom, u turpnuOifM
conMiintuti «cfritionibus maj.f, C (rapo
' 19 a Itàndiniliw ruprt-iv noni a mUm»»
dtft i P tli^McutUuia lU. n ciritKfu.
Con .1 ina inJitit, fid Cjt^. I •. D mt J
mt» V. •ìfttt ft d in Mf ttm n H d»lU jùoat, d»l fMTMt»d» aOi^i««rXl( Cuiu li». peraor. du il fUun», haAc clcàioMin
omui. IWam prol’tKt. UoBtA'x compulit,
putto BrneJiixo, vel diiàum ipluni
duiit, qui oon iptilto poi) dolore animi
«pud HamUirgum rooricur, um (elcgitm e»t. rtdi ImitfrMndt II. (OJMVfiitrrrr. • fi» ttfit, ferendo Stntdffii y. f»i(bì fmtlU di »«mt, tkt
f» tfrtt» dulU jAtJmt di Cnvuniii Xtll.
rra A»:ijMf. p thttt Tivrodr Irm» Vili.
Itfittimémtne lìttté. UcMciiifhic Vi- diti il fUtin», a CiJinoltooiaoocive pra-pote(M «aptiH. in
Omfti iKon inctuditur, eoOaiuque in loco
noo niuUo polt Araneulacur. (f> oonffeiui vii- diri UyUtim»,
rcUnqueie «rbem coodut. pwiolìiCnu
qujcque e Balìlira Tetri (ubtrahent. ConAaRonopolitn ronfucic. ubi landw fubihm, quuad, diveoditu qu«
ucriteio abitulerae. imgnain viin
pecunùmim cooparallet. l'ontite Romanus
Ijcrorum Picer, 9cKcx, Ocra iplii hirto
abftuliti et qui vindicari Acrilegij deWerat, taiiu OtriUg)! fiOus eA
au>%or. liAui, dit» ilPìnùn ntU fm»
vite, Joaiinì Aiehipreihytero S. Vanim
ad po i^m Laimam, qui polle» Gregoriui VI- appeitaius eli, Ponuficium irnnai, ut quidam a.lìrmant, vendiditi
td nl(M »4 Tgt dtfn; Dunt »nnn «lecexn per
infciraU» Sedein l'etn occu^'allet, tandem moritur. Nec vataflé rum
fedet dici poteft, curoPootificafum vendiderit. (f) Vide Otbun Frifing. ad ann. 1040. lib.
6. C.3». (f) Hu ob rei, diet t Plmin ntU vitn di CriftritVl. Henrteo li. ni ranca difli
Attmnwmi i fama III. nitrimtntt dnt»
JitnVa il Nrrt, in lialtam tum magno
exercim vemei», habii# Synodo, eum bencdidum IX. Silvrfimtn IIJ. Gregorium Vi
tinquam tria ier«TÌin» monftra abd» Papa'
(a) c fece c^li tre Papi fuccefTivamcnte, tutti Tedefchi di nazianc ; i quali,
eletti, dall Impcradore afTunfero Tlnlegne, e l'abito Pontificale fenza altro : il terzo, che fu
Brunonc, Vdcovo di Tul, avendo afTumo per la deputazione deli Imperadore
l’abito in Frcefingen, (i) e fatto con
quello viaggio fino a Ctugn’l, Ildebrando Monaco, allievo della Chiefa di San
Pietro di Roma, uomo di fingolar accortezza, voile con arte reftituire
reiezione a’ Romani, c configli^ Brunonc, che, vefiito d’abito Pontificale, fi
chamava LconIX. a vcflirfi da
pellegrino, centrar in Roma (^) cosi, che farebbe fiato piu grato
al popolo Romano. Acconfenti Leone, cd entrò
in Roma vefiito da Pellegrino, c dal Popolo, a fuggefiione d'ildcbrando, fu
acclamato Pontefice Romano. ma quell’ arie non impedì che, morto Leone, Tlmpcrador
in Magonza non cleggelTe Geberardo Elchfiat, che immediatementc mife l’abito, e
fi chiamò Vettor II. (c) L’ Imperador allora non folo donava i benefizj, ma fece anche
Cofiituzioni contra quelli che gli
ottenevano perfimonia; perdonando gli errori commcflTi fino a quel tempo; ma imponendo pene per l’avvenire. XXIII.
Mori Enrico, il Nero, ( 2 ) lafciato P Imperio al figliuolo Enrico IV,, che gli fuccefle in ctb puerile; durando
la minoriiii del quale, febbene i Papi
erano creati col conIcJìfo de’ Tutori dell’ Imperadore, c i Vc rtre Se maglAiaiu Ascgliìtt,
SviJegenmi, Eim- >i»m fcfti, jifrfttafere ttt, Jtpolìro l^ontificsli orbr^«nrefi)
fpifcopum, a due. ùu luii, Puotificcm
trtat. rem Hcnnrum nuUatn (reandi pontifieu ootelU m amtrUVI. U ùtnt fntmf lem
• Deu habere, fei ad acnim. populuinque
Itfnitm, dktnd» thè wtH ft$
ilett», fe ut» ra4}iur. Al vero Ronuauì denat, futdenacHil. r« def» «wr fc»ttt»to Si'tf^reTn.. SiìmmW.
auuiidruu IkunneiH in Pcuuàhrem eligir,
itr» Tifitmn iiPuirefifMftx dite, probo- co hbenttua, «)us7 oinucfu
aunuritaceia eltgendo rutn hommeni precibuf, fteerdtiitrum fuvrum jw- rum l’i
;uiAevin ab lmpara(jte ad CicTUin traa.
rtcedcniibu^, aiaartui fiiAcébut cA Josnim Grecia- tUcliflec. flatiM i«
\>its. jiui, An.hipre»bjrccr
S.Joanni ami poiiam Lati- (r) Vjòor II. -iut Qmtfri» mila faa Crtmua barn, Grrgortut VI. \o ab Imp. Hentko IH.
tele- Calbeniii. Epifcop. EicAatculU. Henrici III. lai. cacai fiicrat, nioftuui eA. Amttti ad vir4«
Or». ucratom Confilianns pcop liiquu,
creami ab j(«rH Vi. t fi [futa amara ftm
rkiaramtatt mtla HemicoIII. Mogumlc, coronami Komx idib. fma Cramta dt'Pafì. Culti fponieabdicalTet,
dèe' Aprii, loid. ajb farlanda dt
BtmdttiaVlU. ehiaokUaìX. dal (») llPtatmadìet th'tta fiati
tletiePfèftradtrt tlafiea, in ejui Jocum
fa Vcccor 11 Ma Zana IV. m» fueieta
Cutà dtl J4rrjiio»jH» di 4- htirt m Trft i- avtva lafìsaid'ifiir tinti da
lidtiraada, ftrfmt114, ab Imp.Hcorcco 111. toogregjtn, abdicavit ttdtrt
alVlmftm, d ^»al ita aUtra rrrd«r4rà» :
anno 1046. et ad MoaaAeriuDi ClUDÌare»rc relè- Cxfam. diti tìtUafit m
rtft. fr» Imfent, t. 1 . gatui, ibidéoi
Mulo poli obiit, et lepulcus ciì. ulque sJ Heniitum V. legitinia fucteAluRe Im
jr É«, fruna di aemaart Citmrmt U. P
imferadtr E» jutiu Imperarorit id faccrv cogeremur. PUtiaaim na li. ftr dnaanta
Cinte di Bamitrta, Orco. vita Clrmmtu il. HI. fobrina», hxreditario fibi Jure
impenttm ( I ) Città di Baxitra fitti
l' Artiytftnate di deberi coatta Coloncenlèin lonwndeta. Lamfad. Saltabiars. Jltif. Rtmam. Ctrinaaua
p4rr.|.r.4. Z frr altri, (i) Cui Ronum
Pontificio habitu petenti, Ab- « attaccarifì anche ad una parte de’ Tutori, che
vennero, per loro, a diflerenza, e fecero fa«.
zioni . onde Niccolò 1 1. fece una Cofhtuzione intorno ali’
elezione del Papa, ordinando che
pairafTe prima per li Vefeovi Cardinali; in
fecondo luogo per i Cardinali Chcrici ; in terzo luogo pel Clero, c Popolo, c in quarto luogo fi ricercalTe il
confenfo dell’ Imperadorc : nel qual
modo (4) eflendo fiato eletto Aleflantlro II., fuo Siicceflbrc, ITmperadore non volle confermarlo, nè accertare
la feufa che i Cardinali mandarono a fare coirambafceria di uno di loro,
dicendo che ciò foffe fatto, per fuggire
un afpra diflenfionc civile , e il tutto con gran rifpctto deir Imperadorc, clTcndo TEletto fuo
amico, ed clefle ITmperadorc per Papali Vclcovo di Parma (i) ad ifianza di
Gerardo di (2) Parma, fuo Cancelliere.
Ma tre anni dopo, mutate le cofe nella Corte Imperiale, c depofio Gerardo
Cancelliere, fu infieme depofio il Vefeovo di Parma dal Papato, e accettato
Alefiandro, (j) il quale nel 1071.
eflendo fiata fatta in Germania congiura da’Bavari, e SalToni centra Tlmpcradore, fi congiunle con loro, e
entrò nella lega; e P anno fèguente citò
rimperadore a Roma, come imputato di nmonia,
(^) per aver conferiri Vefeovati per danari. Fu fazione Pontificia
molto maravigliola, non eflendo mai
alcun Pontefice paflato taiit’ oltre; ma prefio andò in filenzio, per la morte
del Papa, dopo il quale pervenne al
Pontificato Gregorio VII., Scnefe, Monaco, che fu Ildebrando (4) di fopra nominato dall’lmperadore.' ma nel
107^. eflendo fiato 3. anni nel
Pontificato, ritrovandofi f Imperadorc ancora giovine, e con molti moti in Germania, deliberò di voler
efcluderlo in tutto dalf elezioni
de’Vefcovi, e degli Abbati, e gli fece un monitorio, che non
dovefle per favvenire ingerìrfene. (5)
Fece gran refifienza l lRiperadore; onde il
Papa Io fcomunicò, aflblfc i Ridditi dal giuramento di fcdclù, (r)
c lo fo
Jmferédrt, aufioriticc J.ecariooif, rsmt diti U, fluii ti Pmft mrdtfimo
»viVé fédtfiài Muu rtlniaii él ff
tiifmdn JaUs timftrmjitUBI étir
In^eradirt J ( « ) Occeruioiut, arque
H^tuìnH» ur, obeuote blinda Rornaiu;
Bcclelìjr Poniificc, in f nmii Car.
dinalea J^itcopi .limul iIcclecuoaerraCuiHet, mox ChniÙ Clerìcn Carelì, crtcr.iqtae Roaoiillii uiagfli cincndaiusee purgaiMìt,
tiipcr qciibui Rotbc erat delstui.
Krama, bili. Sixon. pg. lod. Ac Abbai
Ur(a di Siaaa, fkeuia Citta di Tiftaaa
fHta ì' Aietvi(•tiatt.di Sitma. regta Comi.
uUu Pitiluiu. deSossK. Mon^chm tc prioreiua CluiuaccntU- la Chn-a.V»f. Rum. tc ) il ì'iatiaa Axt tht (irifarw gU pretvt
fai, menti di veaairt i i'iftivati, i i
itàffiu ftn fama della tmari kfiiijlajhilit, aiUa mila diliii gmi VII. (a) li Platina tifTftt la farmiAala fommnir» d'£mrifo IV..MI tjurjh marni. R«aie Petre, Apoiluloram
Priiuiq>'', «mIjiu, atam itiaa, tc
me lèrruni tuuiu callidi. n in te fde
odetunt. Se peiiccuti funt. fateer ego imbt graiu, Aoa mertiit mcii. populi
Cbriftuaicuram dnioodamn eCc.
«oflceBiinque ligandi. Ac blvendi pocdUteni. Hac itaque fiducu Imi», omnipotentu
Dei nomme. Pairii, l-iltit&Sptrttus
Sanai, Hcnrìcua Rc|cm, Henna quoùdam Inpeutorii lilium, qui atiiaUei
nimium et uinera Io rofpefe
dairamminHlrazione del Regno d’Italia, t di Germania: fcomimicò anche i Velcovi
Cuoi Mininh, fi coUegò co'fiioi ribeiU % concitò U Madre pcopria deirimperapre
centra il Figliuolo, e nel tempo in cui pafsò fino al 1085., quando il Papa
mori efuJe in Salerno, komunicò
Tlmperadoic 4. volte, e fece un decreto generale, clic, ie alcun Cherico riceverà Vefeovato, o Badia da
mano laica, non fia tenuto per ClierJco da alcuno, e fia privato dall'entrar in
Chicla, c il fimile a chi riceverà altri
bendìzj: alb qual pena foggiaccia anche T
Imperadorc, Re, Duca, Marchelc, c Conte, c ogni Podcft^i, o perfona
fccolare, che ardiri di dare invelliture di benefizj. (^) Solienne la fua catifa V Imperadore colf
armi centra i Collegati col Pontefice e
fu ff^uito dalla isaggior parte de’ Vefeovì; onde il Pontefice fu in grevifUmo
pericolo: ma egli, che gi^ aveva fcomunicati i
Normanni come ufurpatorì de’ Regni dì Sicilia, e Puglia, fi voltò allajuto
loro; lor confenti tutto quello per cui li perfeguìtava; e gli affoUe dalU
fiuimunica. e fe per quella caufa Roberto (i) Re di Napoli, e di Sicilia; che per innanzi era perlècutore
del Papa, non fi fofic voltato a Tua dtfeia, per far contrappelo aU Imperadore,
egli avrebbe iofientata la Tua caula con
intera vittoria. (a) ma per gli ajuti di Roberto, il Pontefice, febben efiile,
fi fomentò; e morto quello, porgli ajuti ifiellì. e di tre Rugìerì dell’
ifiefla famiglia, continuò l’ tficna contefa anche co’ due Succ^Ibri di
Gregorio, amendue Monaci deli’ ifieffo Ordine: f ultimo de’ quali, che fu
Urbano II., in premio de’ fervizj prdUti
da’ Normanni, diede ad un di loro la Bolla della Monarchia di Sicilia, (3)
concedendogli in iatco maggior maneggio nelle
cofe Ecclefiaftiche di quello che voleva levar alf Imperadore . perlochò,
olcf» le &omuniche che più volte replicò colf Imperadore, e le ribel
rie m EccIrGam eaun «nsiius igjecit, tmperàiorié Kegitwe manim|'«rio fi ì jm m jn iiii n a n
illi •VMiamu ftdeot vexii R^ibut
prsftarc confueverunt. AMm ritti nut, tb
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ttmautmlt ftmutrt it gm« dtii' imfirstUri, 4t’ fiuti tTAtn PsfftiUn t ti
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b»Hi eimtrirti mirriminié tilÌ4 lin ebufm, porr ibt i iri»(ipi xigiimmi mgtttrfi
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diffifi arimi, eeim frani Prifrittérii,
irifgnfmUanti la fuftma tir ffaH, reW» f
funmatt, ib^_mim ì riavmti, fi Mia rWi’iH^i^MNr dilli mam di tiliri ibi tenfaeraac iVtfrivi. C«eorroaMe, fbt
firiih imititi, I dtrfirii, fi l’imvejhtma dii fri»tifi naftrtfi P aaiiriià
ffimmale. ^0 X>«e Caifrhard, ttii,
l'ahiti, Cij MittbiivtUi all libri arrove drU faa Stmia di Ftrtmai diti rht dalli eiattfi di
guifii tmievadiri n'Pafiaaffairi U
fatiimi diCmtlp, • drCbibtUiaii i pròni
di’ f mah temrvami il Pierri' ti dii
Fifa, ifli altri faitU diU’ ìmf traditi. ijì ibi il dtrkiarava Ligati dell» Saura
Sedi, I nmt tali, U ttpitaiva Gimiin
dilli Ca^i Etilifiajlubi- Awigmaihi amtla nmet^imi fia afitrifa, t al riodrti'v
dieltxjimim dmìafitti JaU fa, il Rt di
Sfagma prH. f i Cali Jdàayf ri ia Sicitia mi» laftiami di primalirfimi tim
rmrti W rigiri, fimi a (iimamifan i Prati, i Frati, gli Abbiti, i Viftimi,td
taiaaàu i CardinaUtbi rifiadiai mi JUgmi, t ad attribmirfi il tifili di Samtifiim
Padri. Kiiramai USb. ilCùmtglii distati
di Sieilia, il fmalt frrmdi altrui ia fmahtà di Saffi Ciihgii, fabbliti mm libri imiitAati la
Me. fiatrhia, ftr aimritjtan fmifiafnraaìrÀ
^ritmale. Il Cardimat Sarimii vi ma firitti tmira mili’ mnduiimi lami de fan Ammali : ma rami i hmtam
tb'igli firn rimftiti «» ri) rbt frttimdema, tbt amrj i Vfit pi diKafili, i di Sieilia, i il
Omarmalm di ttifami prri^rma fari Filmimi, mm af tiliandi imai i limt^ti ibi il Càrdmali mi
fin eia Itti tre al Re d: Sft^am,
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MATER. BENEFIC. 41 ribellioni
che gli eccitò centra, gli fece anche ribellare il fiio Primogenito ,j(x) e col
mezzo di quello efclufe T Imperadore quali d Italia: ma morto quello, il
Pontefice che fuccelTe, (2) replicate le feomuniche concra l'imperadore, e
fufeitate molte ribelliont, fece anche
ribellare T altro Figliuolo , co! quale venuto il Padre a guerra,
una volta vinto, e l'altra victoriofo,
finalmente venne a condizioni d’accordo, nelle quali fu ingannato, e ridotto in
vita privata, lafciato V Imperio al
Figlio, che pur Enrico fi chiamava. (3)
Morto Enrico IV., Palquale, che così fi chiamava il Pontefice (4) quarto era quelli che, incominciando da
Gregorio VII., combatterono con
Icomnniche, c armi fpirituali, per levare T invefiiturc de Vefeovati, e delle
Badie all’ Imperadore •, fece Concilio in Guadalla, () e poi a Trojà di Francia, e rinnovò in ambiduc
i Concilj i decreti di Gregorio VII., e
di Urbano II., che neflun Laico fi potelTe ingerire nelle collazioni de benefìzj. (5) In Francia non fu
accertato il decreto dal Re; anzi egli
continuò fecondo il cofiume; e anche Tlmperador Enrico V. fi oppofe; il quale
finalmente nei ino. venne in Italia armato
per la Corona dell’ Imperio : al che elTcndofi il Papa oppofio per
le controverfie vertenti tra loro, convennero
che Enrico andalTe a Roma per la Corona,
meffa in filenzio la coniroverfia delle invefiiturc, delle quali nè l'una, nè Taltra parte dovelTe
prlare. Andò Enrico a Roma, dove il
Pontefice Palquale, parendogli elfer fuperiore di forze, non fiando fermo alle
condizioni, voleva che rinunziafie le invefiiturc; e Enrico, confidato nelle
forze Aie, ardi, in contraccambio, di proporre che il Papa rivocafie il decreto; dicendo di non
voler efiér inferiore a Carlo Magno,
Lodovico il pio, e ad altri Impcradori, che quietamente, e pacificamente
avevano date le invefiiturc: () onde, crelcendo le contefe, l’ Imperadore fece
prigione il Papa, e la maggior parte de’Cardinali; e con loro fi allontanò
dalla Citt^ : fi trattò l’accordo; e finalmente convenne al Papa incoronarlo,
lafciargli la collazione dc’bencfizj,
(tf) e non ifcomunìcarlo; c perciò fu giurata roflcrvazione dell’accordo
: Tomo 11. f il Pon ti) Ctffti. tht frtft il tU$lt di Rj d
ItMlim, t fi fttt €»Mp^r»rt indi ^ììa fyhi» Is d$ R«am titin Kpifcopii,
Caruvabo. Et do veram pscem Caiifto.
Cinftx Komaax £cclelìar. 0c ocnnibui (|ui in parte iptìuifiint, vet Eierunti
flcini^ibas banfta Romana Enletla aaiiliam
poftulavcrit tidclKer juiabo. Ur^ffnìi imCirM, «Jrna 1 1 ss. iium,
elcAU. maelKmtatn virgx, Se annali cwnterati pni) invellitionem vero, canonice
conferranonrm iccipianr ab Epifropo ad
quem pertmuerii. ifremi is CirMÌia ».
iiu. aifmt yrffrim~ fit f»im mmn». (a) ConErmaito parit inter ApoRotinim, et tmperarorem, dum in eelcbratiotie mittx iradem
ei Corpus de Sanguinem D. N. lefii ChriDi: Domine Impentor, hoc Corpus Domini
natum ex Maria Vitgine, paflum in truce,
damus tih) in cuiibrmacionens vere pacit
inter me Jx ce. Stgebertiu in Chron.anno cit. Vide Juret. in nodi si ep. %ì6. Yvonts Carnm. pag. ipf. ( ' ) §l""»i V limftrMÌTi fi
lamini dilla i#muinita fulminata ràdi i Cmalta: al iti larù» ltevarniican
thi^meila fumumitatra ma fattidtlla fiifa t'af^mali, pttrM Ta^vva tenfermatm
teìta tivaatitni dilli imfitnihi itati
fu ttndini ih gli 4r> Heiiritu», Dei grana dovrebbe tener per invalido i[
confenfo predato dall' Imperadore, per
timore di tante fcomuniche, e anatemi, di tante ribellioni, e macchinazioni.
Perchè caula è (bctopodo a redituzione quello eh’ è facto per timore di prigionia, e non quello eh’ è
fatto per timore d’anatemi, e per paura di veder tutto il (uo Suto, e popolo in
confufione, e guerra civile? Ufavano
alcuni in Concilio alla prdenza di Paf
lenendo il Re la fua autorità, e difendendo l’Arcivelcovo coU'(2 ) a;uto
del Papa la fua oppofizione. Credette il Re di poter perfuadere quello che
riputava giudo al Papa; e gli mandò perciò un’ Ambafeiadore, il qual ebbe dal Pontefice cosi dure riipode,
e minacce, che, per rintuzzarle, r AmbalcUdore fu necediiaco a «Urglì che il Re
non voleva cedere la fua autoriili, fe
avefle dovuto perdere il Regno .• al che arditamente replicò il Papa, che non
lo voleva permettere, fc dovefle perdere
il capo. (^) Stette il Re collante, e ad Anlèlmo convenne Tomo IL Fi.. 1 parti» Abbt, UrpergctiJit in Chron.
ftnioiii&. ( I ) Is ìtfft
JrvmmHMtmralt fi 0 tf f» Ìmm, ti immutmMt, t tttMitis eftmmtntt metffarit sii»
frrtti, jttsnis S. i irmsndsrmnti iìDit
MItgsm sfl»xsmtHtti il rirt ss» smMo i etmsnismttti itil» Chirfs, i, nem »rii»»it rffr
sffolutstmntt ttterff’sru sii» fàlttU,
fsffitm» s\tri ^nsltbt imfi. titimst»
tht difftsji islV ^trosrlt. () VHe
OolTnxl Vindocin. rrift. 1. et 4. 4}
Vide Ivoo. Ornot. ep. 60 \ Endcm anno (
oij. ^ Aaiétma Cintuayieofii Epirco,‘a- hibcre le rewuni opjKimmum, Epircopomm
libi min L^alaiu, tu PsUiio Regu.
prfluicnic Ar> relUtui invcAinirti, quw ib ejuCicm prcdecefloie chiipifirepo AuiÙmo, cui innuit Rei Hetukus»
Inip.Hciuico per qvuiìdoi libom RmiuiuEccU6t lUiuit u{ ab co (emport mtciiqnum
nunquam iU vnulicant. Exjpave&entibut Ratnanh Rcgii poper donationcBt
bànlipuAoralia, vclaAsali, quiC nnnani, munim k oppniùit Abbai fanflui. Auquam
de Epil'copMu, vel Abbaiia per Rcgem, dadei CQlm rclìiteni Regi, verbaoi
oulignum mivel qutmlibcf Ijicam manuBi inTefliretur in An. ra libertace
redarguii, min auftoruate cotnpercuii:
glia, concedente Archieptkopo ut nullui ad pr«. iitil fuA vù» é» Aìm»,
Vtfen» d' A m» lattonem eteCiiu, prò
nutntgiu «)ttad Regi lare- Ktrm, tMf.it.
rei, conkcratMne lukrpti huootu privaretur .Afa (c) Mtltdù, din Tacito,
ftr fuM rifmriirtt il Mtttfi» t il
fttfn»- Am. y m$9t n«M »rs, cbt dirr>wj;
im- (d) E0ij adbucvìfliaviresi ambiguta, fijelibera ftfteM làifrtlMMmMggié t
diftMdtÀMt- nati aerei, (ì delperifleiu; vidoriiiu conEliu, de Im ftrffMM mìU ^»mU k prroi msiU vii» di tf-
latione pcrEci. uìfi.i. iiffM AMt»ft». ()
Abbai Urlpergcniìt, anno usi. ( I ^ ri
auslt, ftt»d OM^rta, f» ftiMit ml (a) Zn 9itg»U» »»n dar» ftiamtat» fiaa
mlU jierna mtdifmiM i» i> f» rrana
lamoteMtJi IJ, tuauMmi iti Satctfftrt, m» fa ti'ifli »Sh» fri# ttam U fidi»
fiut »»•, a nava mtfi. J». fiali W ainrnaaana di ftitU» »l Xa, td mìAi» aeBMitmtM
f» ilitt» d» >r) colla privazione del
Re, e colla conceflione del Regno ad Alberto Imperadore, fe
l’avcfTe acquillato, fu pollo in gran
pericolo, (i) Nel principio, quando s’affenti da quelli a’quali tornò conto in
conceflione Appollolica di confervarfi quello ch’era proprio del Principe, non
fu ben penfato che i Pontefici pretendono poi di poter rivocare i privilegi
concefli da’ Predeceffori, anche fenza caufa •, febben mai non mancano pretelli,
Kr finger caule', e chiunque poflcde per
titolo proprio, e fi contenta di riconofcere per grazia altrui, è come chi,
lalciando il proprio fondo, va a làbbricare nell’alieno. Ma all’ incontro, quando alcun Principe,
rotta la pazienza, conferiva qualche benefizio principale; il che i Re
d'Inghilterra, e di Sicilia facevano
Ipefle fiate; i Papi, per non attaccare contefe, non dicevano altro al Principe : ma, per non lafciarfi
pregiudicare, colle pratiche per mezzo
de’ Monaci operavano che 1 ’ Eletto rinunzialfe in mano del Papa ; (i) promettendogli che farebbe dal Papa
invellito, e cosi avrebbe quietamente quello a cui, fe non fi fofle contentato,
il Papa fi farebbe oppollo, e gli avrebbe meflb tutto in difficoltìi. Di quella
pratica ufata all' ora frequentemente
da’ Pontefici ne fanno lunga menzione Florenzio
Wingerinenfe, e Ivone Camotenfe, Scrittori di que’tempi, () come di cofa ordinariamente fatta in Germania, e in
Francia con quella forma di parole, che
i Pontefici con una mano pigliavano, e coll'altra rendevano. Quello partito era
facilmente accettato, come quello che faceva ufeire di travaglio; e il medefimo
Re, fc lo veniva a rifapere dopo, lo
tollerava, come cofa ehe non faceva mutazione in effetto, fenza confiderare quello che importalfe per
l’avvenire: del qual modo fi vogliono
anche adeffo contro i Vefeovi Cattolici di Germania che non ubbidifeono alle loro rifervazioni, come
a fuo luogo fi dirh. (') In Spagna la
natura quieta, e prudente della Nazione infieme col buon governo di quei Re furono caufa che in
un moto cosi univerfitle efli («) Miflb io FnncilR Ar(bi 4 ixoAoNirbonen(ì,
Philippum «me ( Booibciui ) qaid Ha( Tatiooe, atque ordine PoniificatDs
Ca. (tiedruD feandere coadùa, qntdem,
flc emn otuiu hzfitatione confralic,
propter eontcntiostaa iUam qux «rae
inter Regnum, Se SacerJerìum ’»care,
Ebiqite vindicare plus zquo imebacur
Impetialit auMritas. Rur^t autcoi vciebatur, flon iìne Diriaicatii Doeu, jun terno (ibi
auteni Epiicopatum, «oinque, (i tertio
repudiarci, pofle in ipfem competere ilU
(cmentiam; Noluit bencdi&ooeni, Se elongabitur ab eo. (mcr hai igicQC aagultiis poiims, qued «iwm bluure
eiilUinabat, ad SaudjtSe Apo(iolic« fedU
auzilium eoit&ig«re decrevit. In
ipro igitur Artieulo, adhuc in Aula
Imperatoriieflet, wmm tmKmptvit DriRr#, mo. fuam ft im nifi tanfim. titntt, ^ ftflmlmnl Etdtfin f»n,
Faniiieh Uxi»imétni, {^ftnftffari, ^
invtjUturnm enft^mi wnTtrttmr. Ananym. io viuS. Ottoo» anoo 1 ioa.
(•> EpiRipo. ipt. Sca»}. t'»nni%'-\7- inno fìstmurn eli Rome i Dumino Papi, Ce
frnribu, CiTdinilibcs, qui vigittnter
flit letnp 'ralla prò. corant commoda,
9c emnluinen», slie.ia non ramei, ut
qatlibet. qui la Abhaiem exem['4UiQ ex
tUBc cligereiar, RgnuMmCurt'.in adirei coivSruundut, et bcneZiceudiu. in
HmritiiM. TA dirpofizionc Epifcopak. Rcflava tl Pontificato Romano, che, efdulo
il Principe, pareva doveffe ritornar alla libera eiezione del popolo: ma nel ii45> venuto Innocenzio li. a
dilferenza co' Romani, ed dTeDdo da loro tcacciato dalla Citili, egli, in
contraccambio, privò lorodella podeltk d'eleggere il Papa, (a) Nelle turbolenze
che lucceltero, per le caule fuddeiie,
molte Ciiik lollevate da'Velcovi confederati col Papa fi ribellarono
dairimperadore, e i Vefcovi le ne fecero capi, onde ottennero anche le pubbliche entrate, e le
ragioni Regie: e quando le differenze fi
compolero, (i) avevano prefo cosi fermo- poflefiTo, che fu necefiìcato il Principe a concedere loro in
feudo quello che di fatto avevano ulurpato, (z^ onde anche acquifiarono i
titoli di Duchi, Marchefi, Conti, come molti ne lono in Germania, che reltano
anche tali, e in nome, e in fatti, e in
Italia di nome I0I0. il che fece EcclefiaRici gran quantitli di ^nifecoiari; e
fu aumento molto notabile, non folo
nelle turbolenze delie quali abbiamo parlato, ma in quelle ancora che feguirono folto gflmperadori Svevi. XXVI.
I Monaci in queRo tempo s' erano imromefli grandemente a favorire rimprete de' Pontefici contra i Prìncipi; (3)
perlochè anche perderono affai della
riputazione di fantiù anzi fi perdette anche ia vehth molto della dilciplìna, e
ofiervanza regolare ne' Monafieri, poiché s’tntromifiero ne’negoz) di Stato, e
di guerra; onde anche celarono gliacquifii loro, le non in alcune picciole
Congregazioni ifiituiie nuovamenmcnte in Tolcana, le quali non s' intromilero
in quelli moti, e coiv fcrvarono la
dilciplina ; (4) e però, continuando la divozione del popolo verlo loro, furono
Itrumcnti per acquifiare nuovi beni, ma non
molti parò, eflendo eifi pochi.
XXVII. Ma un'altra occafione
pafsò, la quale fece fare grandi acquifii ne’ fecoli de'quali fi è parlato, e
fu la milizia di Terra lama. Fu allora
cosi intenfo il fervore d'andar, c contribuire a quell' acquillo, che
le pcrlo («) l»nMns.ì» tl.iUtOtufnt, quiptcfm, ^nìZì }
eh U Karnma^ v$ltv» UutttT ii (Uff
di’Prni, $ rifiékUiT$ f mu itvtrnt In
qutbui rant'ovcr. fin po^lat Ronunot,
quod pontifici rebelli tC (et,
aimheinaie nttrinit, tunc primuni a rnntifitm
comxiii onmjno ezclufineii, dca .1 (nIoaCarZiniles poaiilkn eleOio putlatim. Cleri etbm
primoribua ooinine eac’utu, revlaUs.
P’itrur porro, fine olio popoli inteircnru, Papa creanti eli. inutiuo Innoceniioll. Czlctlinui ( 1. A»n$t. aiwtém
l»e. Tn€it» dUt tk'ì 1 ftlt» d^it mf»TfstwTÌ t MH lmai§, td tnpufi» fir mm ritWe ùgutumi Regi! Apioni>t|trr mialcrani.
diiitjnic{ue luentia. Se mforia. ujli
jore. ft Jc«fao nitebancur. en. 14. Gre». I
'■«»« meu d ffrtfrutffi >»&» ir r» tht Ut ttr»» hn. A régUa dì futdi, melti Vtfervi, 0 AlfT"0>i»f, 0 FfSHfri, 07000 0t4hf0l
f 0 rt»rfi a» mUm 0 U 0 ft 0. --Ve) Utxjray di(0 tbì, in rtc«i«»iN'4 d'ftrvìgi nel tempa dtUt ceaeV d0ll» fdnt» StJf etgf lr»ftrsd0TÌ, 1 f»f> Mer4.fiM f^i
Akhati friniifaìi dtfb frnnmiali Efift 0
faU, (mÌ, dilln Uut». dIU ThuH»,
dignmnu, dt'SnndnUt 0 fH dt! f»fl 0 TmU
! nella nta Zi tiiippo Au.utló. (4) t-
fa0l0 Ud» tMiismné POrdint mt'Str~ vi, U
tni 0Ùit0 f0rrsvMi imffT0hqìulinrxli par
tuum (e-ixerat.Quod ia laudibui D.Vir^inn raatandU adìdue occuparentur. ..
. a vulgo tunc Stnd B. Mmti0 vocati,
onde ad ooa fuccclTorea domen. perfonc, non tenendo conto delle robe, delle
Mogli, e de Figliuoli, fi mettevano in
nen> coueiUin«i>, et domot. et ftmiliaa,
sti^ue orniti» bnn» enrunt 10 b. I^ri,
Oh Romaix firdclic (ìroMOtOBC. lìcu( Ormino noAro Pipi Urb«no tUtuiutn
hiit, tufitpimu. Ijuiiumque rrgo
ciaulrahcfei veiigterre, qjeitidiu in vu ili» mor.-.rinir, prae&mplc. nnc, eKooMitunKiuoni» uluone pieitannir. Ctir. Csìixi» tl. 't»i. cxf. n. yrJt 11 fitand C«ai«« dtl di ChisrsxMtttt, t
U 4$0iutsi.uMi del JjjMr di, ) 4 r (0,
Ivemt di Chtrtra. ntlU fi. 4 'y. xÌMfMm» Artivtft» ve dt Tir# ntl Ore pum» e»p.
«f (irnslulau di Sen^MfS nl IH.}.
Knitfr» Utvvtdr» aìU Urtn fArti
mill'Mnx» Oiiem di Fiijiagim di itfu
Ffiàtrtri fep.Jf. IU pi fi»U \97. d' ÌHHoteatM III- »tl lil >4 15. S»0, pmfsmd», tht i'Auivtfttv» di Tir» dirt ebt
mtlfi GtBliliiemuu fitte ftùmentt il
Mitigi di Tter» $4040, per effAtéra dml
ptfsre i Ite dtiii al th fi rifteifee U
leils IX. Si S t vero pioStitrtiuiuai
liluc, du' ^'VJVJR« 4 fna tipi d'smlMrfi
{ rirfmev4Bt il fiiprtm» » •fmtgU « i.iiiri wM dt'lM i t fi TtvdlX4. 44 I» tm» mule i Spatri di imiti iCrteimin
4»m fpjamtme ptrihi m'tfiirvAB»
uUiduntA, rm ptriht h premdrvmmt felte
Im lrt prtitKxhr fi»4 I Ur» eiier»:lt f»»ìi ttft era» ie»at Ittieri di Star, fbt jifptmdnan» pmalfifia tfumxttue
tivtle, 4 tnmnaU. Nell» tiu ..i I tiippo
Augulio. (^> TempUrionim tmlitbm
Ordo inftiiutus anM Mi. Jernlblnmt ab Hugne de Pagana, Ac Gaafredo de S. Aldeniaro : n>irunim>e
a.1 làlutein pe'cgtmoram contea Ucrnnufa et incurlàntiuni iRlidut prò
viribuicoiktervarciu. Cumautem n >eot
annit peli corum tniliiuitoneni in habiiu
fuiflcnt lèculan, ini oncilio Trccenli data (iuit eia regub, Ac habitut alTignicus albut,
vtdeliret, de mandato Hononi l'ipat. Ac
Stcphani jctorulùiiita' m PatruTchx:
poilmixiuin tetu fub Eugenio Pa. pa
crucci de panno rubeo, ut intct ccieroi eflent
noiabiliùrei, zlTuereccEperui't, tamEquiies, cjiunt eorum fiaim infcnotcì,,um militei, quacn
al(er:iii condiiionit, ut in ea, relinu
parcrtibut, Ac p-opriii patrimnfliii, regularicer tivereat .ncitavit, actraait.
Ac illene I i;uorum qui.iiia Holpiuloiii, (ìvc {ratrei battere contra i
Saraceni ; la qual cola, fcbbcn nuova ^ che folTero irtituite Religioni, per fpargcr fanguc, fu
però ricevuta con tanto fervore, che in brevUTimo tempo acquiftarono ricchezze
grandi : tutte quelle maniere portarono
grande aumento alle ricchezze EcdefiaAiche.
XXVIII. Fu anche un modo di dar
accrcfcimento affai notabile a’ beni Ecclefiaffici il riveder bene la materia
delle decime; c dove non erano pagate procedere con cenfure, che fi pagaffero
non folo le prediali de frutti della
terra, ma le mifte ancora, cioè, de’ frutti degli animali, e ancora le pcrfonali deirinduftria, c fatica
umana. Alle decime aggiuofero le primizie ancora, le quali furono primieramente
iftitnite da Aleffandro II.; iraiwndo in
ciò là legge Mofaka, nella quale furono
comandate a quel popolo. la quanriih di clic da Mosè non fu
Aabilita, ma lafciata in arbitro
deli’offerente: ì Rabbini pofeia, come S. Gerolamo teAifica, determinarono la quantità, che non
folsc minore della fcfsagefima, nc maggiore della quarantèiima; il che fu ben
imitato da'noilri nel piò profittevole modo, avendo Aatuito la quarantefima,
che ne’tcmpi noAri fi chiama il
quartefe. Determinò Alcllàndro III. circa
il 1170. che fi procedefse con Icomuniche, per far pagar
interamente le decime de’Mulini,
Pefchicrc, fieno, lana, (i) e delle api ; cchc(2) la decima foffe d'ogni cola pagata prima che
fofsero detratte le fpele fatte nel
raccogliere i fruttile (?) CclcAinoIII. nel 1275. Aatu'tchc fi proccilefse con
Icomuniche, per far pagar le decime non folo del Vino, dc’Grani, Frutti degli
Alberi, Pecore, Orti, e Mercanzie, ma ancora dello Aipendio de’ l'oldati, della
caccia, (4)6 ancora demulini a vento: (5) tutte
qucAe cofe fono elprclw nelle E)ecrctali de Pontefici Romani: ma i CanoniAi fono ben pafsati più oltre, dicendo
che il povero è obbligato a pagar decima di quello che trova per Umofìna,
mendicando alle Porte; e che la
meretrice è tenuta a pagar decima del guadagno meretricio; e altrettali cofe,
che il mondo non ha mai potuto ricever in ufo.
Le decime erano pagate a'Curati pel fervizio che preAavano al 'popolo
nell’ infegnare la parola di Dio, amminiArare i Sacramenti, e fare le altre
funzioni EcclefiaAicbe, onde per queAi miniAeh non fi paT om 9 IJ, G gava ItafpitAlU S.Ja3Anii ahi, frarrci nulitic
templi^ «In, fratte» HoIpiiahfSar^
IttjrixTeutonicotam IO lerufUem
nuntupoomr. Jm 0Ì dt Ktrist» tsf.
l'Ordmt d'TtfMt»r'i, i Uro hmi fmrono
doti ifU SptdsUtri : il tho ) ntritt diffitUmetni di CfUtUmolOTi Vrfftrjtnfii it. ( I ) Miniimus eaiitperte]JÌ. Volumut ergo, flcdiilrifte prxcipirnui.quatenu»
dccimatEcclelìii CUOI iiKegntate ddbita pctiblvatti. tini. t. ta.
(f ) Quia fidelii homo de ornnibui, quv Ikiie poieA ficquircre, dceimis erogare cenetur i
MaivdamuN. (Maeenm H miJitem ad tblutionem decimaium de hit. qux de inokndiiio
ad ventutn provemunt. (ine
diminurioDcaliqua. comptUatii.
UfJ.f.i. 5Q I ^ava cofa alcuna: qualche perfona pia, e ricca
donava, fe le piaceva^ per la lepulrura
de’luoi, o nei ricever i Sacramenti, qualche cofa, c palsò COSI innanr.i l’ulo, che la cortefia fu
convertita in debito, e simrodufTc anche in conluctudine il quanto fi doveffe
pagare, c fi venne alle controverfie, negando i S'ccolari di voler pagare cola
alcuna pel miniftero de’ Sagramenti,
pcr#hè per ciò pagavano le decime, c gli
EcdcfiafUci negando di voler far le funzioni, le non fì dava loro
qiieh 10 eh’ era in uiànza. Rimediò a
quello dilordinc Innocenzio III. circa
11 1200. proibendo veramente a' Chetici di pattuire cola alcuna pel imnidero; e di negarlo a chi non voleva
pagarli; c comandò che lenza altro
faceflero le funzioni ma dopo quelle -lòflero i Secolari con cenlure sforzati a
fcrvarc la lodevole conluctudine (così dice il Papa) di pagar quello eh era (olito; (i ) mettendo
molta ditierenza tra lo sforzare innanzi per patto, e sforzare dopo con
cenlure; approvando que« fto per cola
legimraap proibendo quello come fimoniaco. (2)
XXIX, Ifn altra novità ancora
fo introdotta centra 1 Canoni vecchi, la quale fece molto per 1 ’ acquido : era
proibito per i Canoni di ricever alcuna cofa per donazione, o per tedamemo, da
diverlc forte di pubblici peccatorf; da
fagrileghi ; da chi redava in diicordia col proprio Fratello; dalle meretrìci,
e altrettali perfone: (4) furono levati affatto quedi rilpetti, c ricevuto indifferentemente da
tutti. anzi appunto i maggiori, c piò
frequenti legati, c donativi fono di meretrici, c diperlone, (3) che, per difgudi co lor parenti, lafciano, o
donano alla Chtefà. Così i Pontefici
Romani ufavano gran diligenza, per ajurare gli acquifti, quanto anche per
confcrvarc la podeM di didribuire gf acquilli ;
la quale, come fi c detto, era con tanta opera, e tanto fanguc cavata di
mano de’Principi, c ridotta nel Clero. A ciò, per proprio intereffe, tutto r ordine Scctefìadìi» «Ma £olo
acconfentì, ma fi ajutò colle predica
fanftjin EtcleOun iDiroduàam niiumor idringere. Qut propter pr«vu
«uàionn 6en prohibeniuj, de pis« confuetudinn pweipimut obfervvi, enefiziarfì nel loro Regno, iiebbcn erano
beirignamehte ricevute, ed eleguite da’Vdcovi, i quali, attenti loio ad
clciiidcre i Principi f non penlavano
mai che altri, col privar clH, potelìe al
trronim, ft pIftNinqftediKmttMi, ac benefirù it. tabiluarc perionit cuniciuaiiir iMWcutit.ft
iran probdm, ia oifiicin b«ti«C(Jii uon
fedìent i ticque aultui ftbi roauiuili
nonaRooteuM. IjnRutm altquaod» a»»
iaicfliauetr qmn tiimw. taiatram cura
ncglcóa, \eiat mmaaarii»^ htxmiMiio
TcmpoMla locra. Praevu Prarinancr Saad.
p»g. $a. l’aaarm. av%»atk't tt altana,
fi ìatatatm altra\ di qatfPéktlft. Effer,
dù'aiti, vsidc boatHum, ft Intcauwrum, ut qoiT. qoc in Puria fua ben«fium me feci. Lon|;e-eft
iflud a te. Nam par iniqòitsran filionm
boAitDam, qaonuin ia t«c«npen tUa fu
taamilata dal fua PmIm Mjar a f
fLaimauéa di fmmaftrt, Oatutmtaaa, dd rfi b mitrati tkitm»t» 1 Caapilasiaa. di I vecchi Collettori dcCanoni, Graziano
parricolarmcncc, raccolfe tutto quello che (limò proprio alla grandezza
Pontifìcia^ eziandio non fenza
mutazioni, alterazioni, e anche falfifìcazioni de'luoghi onde cavava le
lentenze; (i) e credette d’aver innalzata qucirautoruh al fommo dove po tefTc afccndcre; e per quei tempi non
s’ingannò.- ma, mutate le cole, quella
compilazione non fu a propofito, ma al Tuo chiamato Decreto (2) (uccefle quella Decretale, che poi anche
non ha lodJisfatro : ma, fecondo che di
tempo in tempo i Pontefici fi lono andati avanzando in autorità, fono (late formate nuove regole;
onde nella materia benefiziale particolarmente non hanno più luogo, nè il
Decreto, nè la Decretale, nè il Sedo, (3) ma altre regole, come fi dirk. XXXII.
I! modo grande di beneficare della Corte Romana col donare tanti benefizi tirava Ih ogni lotta diChcrici;
quelli che non avevano benefizi, per acquillarnc; quelli che' ne avevano, per
afpirar a maggiori, o migliori; onde,
oltre alle caule vecchie, s’ag^iiinfc anche quella a fare che molti non rilcdelTcro. La Corre non potè
dilTimularlo, perchè ogni Diocefi fi
doleva che le Chiefe fodero fenza governo ; c del male ne dava la caufa a chi veramente l’aveva.
perlochè fu rifoluco di farvi qualche
provvifionc. Non parve però a’Pontcfici di quelli fecoli che fofle bene
procedere, come il dilordine era troppo comune; come anche perchè quello era un modo di mandare fuori di
Roma tutti : il che quando fodc dato
fatto, la Corte redava vota; c ogn’uno avrebbe atteib ad acquillare i benefizi
dal fuo Vefeovo predo al quale perlonalmente fode dato, più todo che mandare
ioidi, c medi a Roma, per acquidare
alpcitativc : fi trovò per tanto un temperamento, che fu, far leggi che comandadero la refìdenza a quella
lorta di Beneficiati che poco potevano
afpcttare dalla Corte, non parlando niente degli altri: (4) cosi Alcdandro III. nel 1 i7p. coman^lò
la rcrulenza a tutti i Benefiziati che avevano cura d’anime: () furono poi
aggiunti anche tutti quelli che avevano
dignith, amminidrazione, 0 Canonicato: d'altri Benefiziati inferiori non m mai
detto che non fodero obbligati a rcfidcnza;
non fu però nè meno comandato loro che riiededero; perlochè a poco a poco fi riputarono non obbligaci in modo,
che anche nacque una didinzione di benefìzi che ricercano refideiua, e d’altri
lemplici, che non obbli do. £’ thisimitM, Extra, m téfìtBt tk'tU l» i imi Dttrot tmnfilttù iaUrBttMB-, t leattcvtieaa, ftrrhi trntrrm4 Uiri tfrffi Am Aifiu$:Ti\idtx, Judiciarti, Cleriu,
Spon. en : Harc tik>i ddìgnant quid
quinqnc volumina li^nam. £llm md tffirt
in nfr Bt ixji. Grti»i 0 IX. trm nifut
d'InmmrwiiMUl. td nmtndmt deHm fmmijii»
d'Cmnti, arffdì «n-t dtUt ifMmttn fbt
ftrimn il nttlt di Uarooi Romani. ( I ) U» GìMTttmafnìtm Trmnttft diti (ht il
IVttttg, it OttrtimU fuftt compiUtiOACt,
ac larraginn tatn bunanini,, rum privarum r«'uni, incnitdite a‘trtt», tmmt
mffrrv» tUrtÙ it PUtmm Mrl medrfim
Imm^m liU > mn Mrm rari fhumfm, ftrfbi ftrva di fMffirmratt m’ nm^ut libri dtUt tìttritmii.
Fm pmbblKAtm dm BmnifmtMWill. layH. de i deamminmtc Codrx BonilMiinitt. (4) iiUnttm, diublii.e cumplcinnir. ài ftmp U di RriiHàiu, jfmttrt iti
itrtm» fm»U, mt! taf» mK.
ItirafrimpàttlM (»• rstttlt» C$re r»r dciU Vetrmt —f f_ diti tbt n»n fmrpn »réiM»te, fi m
kiU'akm loyi. Anno Di>mtni lopf.
Urhanut Pa|M,tn OalliK venieaa, Gregom
l^px d«crm rcnovat, ti confInnK. .. .
Claromoa'c, in Arveraia Con cilium
te^elnat, meofe Novembri hoc anno (écjaenu, in qno Ihmtum cil, ut Horx Beate
Mane c^yotiilic Jicantur, otfitiumque
eiut, diebui Sabbali fiat. Jm Ckrmui, taftt. tr. (ONt'^rinNeMipi, dieeF.Poolo, i ^radULnUfisfitti
»étt iTMH» dignità, «e’Mvri, timi futa d uniti fettfi, m» tstubt, t mntfhn, tbt
S. ì'nalt ehmtnn tftri, t fmntitai, i
tìifi Grifi» Oftrni. Opus fac
EvangelilUr. minillenuni tuuin imple. a.
Tinvx, 4. Si (|uit bmU auinopus
dtlìdctat. i. t. Wma quulem multa, operarli tuiem )«auei. Man- 9. et Luc.ie.>
im m^niertbt U»rM »piiv pTomorcntut. il
Parroco è impedito kgittimamente, egli può deputar un Vicario che lèrva per lui, dandogli conveniente mercede:
fi ritrovò che fipotefle, coll'autorità
del Papa però, crear un Vicario perpetuo, ( i ) alTegnatagU una porzione badante, e lafciando il
rimanente al Rettore; obbligando quel
Vicario alla refidenza, febben il Rettore tira la maggior parte deir entrate, redando libero; della porzione
del quale è fatto un. Benefizio, come femplice, e quella del Vicario feda per
la provvifionc del Curato. £ ficcome fu
incognito alla Chiefa antica che alcun Benefìzio fode dato, falvo che per luffìzio, e affinchè
ciafeuno fode obbligato a fervire nel
Tuo carico perfonalmcnte; cos^ non fu mai deputato uno a due carichi, non folo per efler impodìbile,
quando s’hanno da cfercitare in diverfi luoghi; ma anche perchè reputavano quei
fanti uomini che non folTe poco il fame
uno bene; e vi fono molti Canoni, dove fi
riferifeono le idiruzioni antiche, che uno non pofla clTcr ordinato a titoli,
nc fcrvirc in dueChiefe. (4)
XXXIII. In quedt tempi, quando
fi didtnfero i Benefìzj in quelli che hanno
annefla la refidenza, ed in quelli che non l’hanno,
confeguentemente fi pafsò a dire che di
quelli, dove non era neceflarìo in perfona propria fervire, fi poteva averne
ph't d’uno; () e nacque la didinzione
de' Benefìzi compatibili, e incompatibili: quelli che vogliono
refidenza fono tra loro incompatibili;
non potendo l’uomo dividerfì in due luoghi; ma quedi cogli altri, e clTi tra
loro, poiché non è neceflarìo fervire perfonalmcnte, fono compatibili. Nel principio però fu proceduto in queda
materia con gran rìfpctto, e non fi paCÀ piò oltre, che a dire folamente,
quando un Benefizio non fofle fufficicncq, per far vivere il Cherico, le ne
potefle aver un'altro compatibile; ma
non ardirono di paflàr al terzo mai; nè meno al fecondo, fc il primo foflc dato
badarne. Al Vclcovo non fu dela mai
rautoriù più oltre, ma al Papa fu aggiunto che avefle autorità di concederne anche più di due, quando i uuc
non badaflero per vivere; (2) e queda fufficienza per vivere da’ Canonidi è
tagliata molTom» . H to lar ( I ) Ttimp
n dtilji SttrUdì tt9 fjìrù, th Vmft di
tjmrJH nesristi etmMcii dir iKfbUnrré p
tfmnUht ttmfo frtmM dtl CtmedU
LétttMMmf» f»it» jiltffMKdr» III. Ptrni i trtfti-, Extra de Officio
Victrii, ft»o tmdiritiéti •'Vtfrnid'h^ftUttrrA. Vedi ritlwuadcip. I. bxira, de Odìcio Vicirii « Ttmméfi
VvAlfiit^ 17^. (4) in ilio titolo perfeTereat « d quem confetnii funt, ifìiut nulinm de altetiiu
tmxlo I>rabiteniin, aot Diaconatn,
&(ciperc przfliout. CotKil.
Csichuicoié. ann.7>7. cjp, «. Coor. Retuenle aon.li}. up. te. Conr. Mctenfe,
ann.sn. On.|. Cui. 1. peni;, t. difìiod.
10. ex Ceacilio Utbaiii li. (ubilo
riicentijc finw lopf. 8c C&n. 1.
CauE XI, qn. t. ex f, Syiiodo, cxp. if. ano.
fi7> Prtffi m'titMhli »ntfA i Pnti trMa ti mUm Tj!dn$tA. QuorJsiB exilix, dk
Srntt4 «juofdxm (xcerdotix uno loco
tcnetu. Oc irxnouiUiute vite. Virus eft libi quis, iitt ma Itr» Gamtilt, xd firraunennun tempii Nepnini
ruent ahigitos «fi;; £idui di
CKerdfosNeptuAÌ: opottc. bit enito
ipfiun infÓMnbiIen elTeCicerdoieni.'Ar.
ttmidor. Iib.f. de tomnionim evcatibui, Ibmnio t. Vide Ulpianom in 1^. x. if de in jus recxndoi
&tcg. pea.ir.de Vicit.dc excude. Muaer.
( ) Vide Caput, dudum. 54. exerx de eie.
Alone, Se ibi glolT. et Girciam de Benef. pene underinu tip. (. p«rag.x. et y (O L’Autore coù rarcontt Torigine delle piurtlità
de Benefizi nel libro fecondo delle fux
Storia del Concilio di Tremo. Sktatm, dir' egli, aatv» gli ttniithi Cexani, t»(i u Citrita VM fatava ^rt dmt titaii, »> im
ttafi[uant.» dtta Bttuft.)'. raminàmnda « iùeMiiMr-. fi la rtadiit, a ftr U firagi dtlU gmarra, a
ftr linandatkaiti, fi taaftrivm »» BamfixJa tjasltUt Cherka il amala ma fafftdtva già mma,
fmrtUì tifii atraadtrt ad amamdtta ; il
tUt fi fraaki faf(ia, ma» già im favara dal Stn^Uàaia, «4 da!U Ckiafa, m^mtb^,
ma» fattida fremdtrt m» iiimifira
farikalara, far mamtant.» d'm»a raadù ta
Jmffiaknta aumttmttla, alla m» laftuaffa
d‘ afera firait» : ma tal fraifia, tha w inafiztm to larga, () perchè nc’femplìci Preti dicono
«he comprenda il vivere non lolo del
Benefiziato, ma per la iua famiglia, de’ Parenti, e per tre Servitori, e un Cavallo, ed anche per ricever
fordlicri; (i) ma quando il benefiziato folTc nobile, o letterato, («) olcra
quello, tanto più, che fi uguaglialTe
alla lua nobiltà. Per un Vclcovo poi è maraviglia 3 ueIlo che dicono; (a) che de’ Cardinali ()
baili il detto comune ella Corte:
JEquiparantur Regibtts. (3) Ma tutto quello procedendo co’ termini ordinar), e per dilpenla, ogni
Canonilla tiene che il Papa polU
conceder ad uno di tener Benefizj fino a che numero gli piace ; e in fatti le difpenle della pluralità de'Bencfìzj
paflarono tanto oltre, che circa il
1310. le rivocò tutte, rillringendo le diipenlc a due ioli benefizj: {b) il che
elTcndo fatto con rilcrvare a sè la dilpofizione degli altri, (come, parlando delle rilcrvc, () fi
diri) non fu creduto allora che folle fatto, per levare l’abufo; ma pel
guadagno, mafiimamente perchè quel Pontefice fu lottil inventore de’ modi, per
accrelccr l’erario : e ne fece fede il
tempo; imperocché fi tornò non lòlo alla
pluraliti di prima, ma ancora a maggiore; e fino a’ tempi nofiri abbiamo
veduto, e veggiamo dilpenfe lenza mifura Concordano tutti i Canonilli, e Cafifii, che tali dilpcnle
debbano efier anche date per caulà
legittima; e che pecchi il Papa, fc lenza quella le conceda ma fe chi fi vale della dilpenla lenza legittima
caufa concefia fia feuiato, non fono
d'accordo: () altri dicono che quella lulfraghi innanzi agli uomini; altri, che ferva, per fuggire le pene
delle leggi Canoniche, e che in
cofeienza, e prefib a Dio non vaglia punto. Quello parere ^ feguito dalle perlone pie. (r) li primo è
più grato alla Corte, alla "
quale nt» ftr, th nìum^ {Mrftm li t»TU0, fi fftfi il fsrtitQ di
d^tnt nwti sd H» ftU, SMitrthì ti0 ara fnnta
MnfSdrié fti ftrvmm dtiU Cbt^u 0 « f0 fafiaaa tffe re malti fia tara, e tagli altri. ()Cloflà td On. Ctericat. l. CmC ii. qu. I.
(O i» tftimmavaaa in ^mefia rmada Ir taft, t»i fariHaaa al • d’mi fim freti, tbt Laùi ; td
i ^imafi 0 fartilaaa, fa maa $ Caudatari
dtfafi. Tatti ì Camaaifii frri Barn fiat dt qarjla fiwiimata. Vide Oomei de expe^t. num.
1&7. llioùn. I‘am de rdtgn. beneC lib.5. qu. 4. num. lj>. Asor. p. 1. Iil> 4. »p. le.
qu. I. {fc PvMenoch. de Arbitrar, iìb. ». cafu N^rarr. Mi kellen. 61. de Orif.
dt ClotH »d cap. 5. citi» de petulio
Clericonim. (a) Vide cap. de molta al.
ia fine, extra de prxbcadii. t a) fatila tha aaaQurmeatt farfrtndi ì il
vrdart il fata eaaaa rha la Carta di Kaaaa fa da't'ifeavi italiaai dalla Stata
Zalrfiajhtt, i ^ati nam falaaaaata
fiamma ia fiadi alla frafaata da' Cardiaaii, aia aatara aaa fiiaaaaa difaaara
il fatvirli a tavaUi (aait il Vaftava di
Ciafaa Cbiaa, Atrafimfiiadart dalT iaftradara al Ciatilia di Trtmta, la rirpfrantra al Vefiava di Mirti ia piana
Ca^r» faziaaa : fra Paolii, lib. tf.
della Tua Sicria del Contili». Oleta di
fki, i lata Viftavaii fama tairmnit taiuki dt ftnfiaai, tht fi npmtartbbaaafaliti^mì,
fa il Papa valafia raaetder tara il
rapar ‘ere, aha i Caatnifii afi^mana a'ampiuà Prati. () Vide Nicol, de Clemangit de comipteEc» cleux Uaiu cip.it. dt Pet. «ieAlliico de reliorni. tapiti», ieu ilatus I^palù, de lue Rooi.
Cutis, dt Cardioalium. ( } ) Damdr atnthimiana, dìc’ egli ibidem,
rbt aajfmaa ramdita i frappa grandi pir
tara, fa naa ì faprahhaadamta ptr gli
fit$ Rii 1 ptrtA il Papa ha tenetdata
lata il frivilapia d' axar aa apemm ad
omnia beneficiai dai, ìù pater gadtrt apti fatta di irnafiz), a fataUrt, a
rtgaUri. (^4) fai>,parhfia dalla
Diaetfe di Caari tnFriifl. tia.
figitaala d'ma pevere Ciahattina. ih)
Noi omnn, et lìngulu difpenlatiofld litper receptione, aut reteitnoAC plurium
digniutvui, aut beneficierum, dee. quinis cura animaruna Ut annexa ....
cuieuntpte perlóaz concellas, (Cardinaiibui ramen cxcepm J duiimuitahtcf
moderando, qood per nttMeraioefl .noiìruin
clinnatam nliuni beneficioruni nmltnudinem re. Irertemui. Siatuipiu itaque quod obuncntn piu
raliMtnn hujurmodi beneficiorum unum
tantum ex bencfliiii, quibui cura unmmcc animarucn, aim beneficio
Itnecura, quod haberenuhiennc, polTint licite rcttaere. Zxtrav- tit. da prahtndU, tap. Emarrahtlit, () Fedi r attirala 37. a ramattazieaa
terza. Vide OloQiun a.1 capii. pi' CÌoTanni
di Verdun 1 Bencdinino, Franccfe. dille
molto di?erÌBiDeiRe il (ùo parere. Ki leggi umnt, difiegli, fnt ft’Srtt U
dif^nf, rafien dtir ìmnirfttMi del Ltfitlntirt, il mmU nin fui frevidm tutti i tufi frtitlrt t£ dimundn»
mnìietn.ini ; m deve Oia 1 i7 Leiitlntin, tjlH ^ fent. eteiniimit ferrh tuffnnn
tfs hm ftui» Im nnftmdrrfì. Chi difnenf
n»m fu mi dtfUti(ri U firfin th'i eUligt,
uà UftUr »Uligt» »ll foalt i ingiuUmunt
l dtffenf : à un rrnr fefiinrt tl rrtdtri th il difftnfnr fi fnrt nn» gruu,
pàthi U iiffmf i un tt di pmjliti»
diJhUmtiv», ft tu n fu limmmeli feer thi nn U d IU ftrfini nlU quali ì dtvut. L» Cbi^u um ì un Jtrv, ni il Puf i il fmtPudran. Tet l Pf, ilqu‘ U nt» à, rii ri firvidtrt di thi th» frtfijl»
sii» Tumigli Crifiiun», U drt tiufthtdun l»
f» fr»fri mffur, eiii, quella th gh ì devut. Quem confliruirDoininiu
&per familiam fitam, ut det illia in
lempcte tritici mnifuram. Lnczia. L
àfffeufm M tigliezza umana, volendo dare
due Benefizj incompatibili ad una perlòna, unirne uno all’altro, durante la
vita di quella ( i ) in maniera, che,
dandole il principale, era dato in conleguenza anche Tunito; di modo che fi Ulva va benifiimo la legge di non
aver pjù, che un Benefizio in apparenza; ma in efifienza non era, fe non
oflcrvanza delle S arole con
iralgrcnione del fenio; la chiamano i Giureconfulti fraudo ella legge, (a) Quello fervi ancora per poter
dare un Benefizio Curato ad un fanciullo; o ad altra perlona fenza lettere, e
lenza obbligo di ricevere gli Ordini
facri : unendo il Benefizio Curato ad un lemplice, durante la vita; e coHlerendo il iemplice in
titolo, rellava il Benefiziario padrone anche di quello Curato; e le parole
della legge erano bcnilTimo olTcrvate.
Ma il poter unire Benenzj ad vitam non fu mai
concelTo a'Velcovi per caufa alcuna, anzi rilervaco ai folo Pontefice Romano.
Alcuni Leggilti la chiamano unione in nome, ma in fatti è rilalfazione della
legge; e l'hanno per dannabile: (3) perlochè anche in qualche Regno è Itata proibita. Fi;
lungamente utata dalla Corte Romana. adelìb non è più in ulo ; (4) come nè
anche molte altre cautele^ per non le chiamar fraudi, come quelle, che parlano
troppo le? galmemc, per le caule che fi
diranno, venendo a'noitri tempi. Anche la Commenda ebbe una buona ifiltuzione
antica ; imperocché, vacando un Benefizio elettivo, un Velcovato, una Badia,
ovvero un Benefizio che fofic
julpatronato, al quale l’Ordinario per qualche rifpctto non poiclTe provvedere
immediatcmente, la cura di quello era
raccomandara «M- nnal r.hg losectto degno, () fintantoché la provyifionc fi facefle, il quale peri non
ivéVa racoiift' dl valcrfi dell’
entrate, ma foto di governarle, c a quello fi pigliava perfona eccellente,
e perciò d'ordinario era un Benefiziato, al quale la Cura commendata era di
pelo, perchè |>ilognava che la prendefle per lolo lervizio delia Chiela.
Quelli non fi poteva dir avere il Benefizio commendatogli, le non molto
impropriamente; c perciò in realtà non aveva due benefizj: («) con tutto ciò,
per non far diificolt^ di parlare,
nacque una maflìma tra’Canonìlli, che uno poteva avere due Benefizj, uno
in titolo, l’altro in commenda ()• Non durava la Commen etra ptionltt defit
«noli. Yfl lUqaid deCt cq Ctrtt. Quid da aniooibaf bcflcficioniiii,4 tìcub t» fslioru. Immt.Wl. tf- fa. mk. a. unmi, tf,
nt, dilicct, obAct iDa bent» fttxunfrm.
fifiontm pleralitsa ad obnnenda lacompstìbilU d ftmf» dtfrmmdmt», fHthi ilCtmm9»dmtmti»
isvi. (cm CommcDdim, ut przmtmtur, ntc
(ifhinde tm n» trm diftrnut im vrrm» reati dmlTùmlmrt: cbrjBmt ultn femeAm temporit fpscium non da-
tijlimnié mt Jm fa^a fmmmU dlU Mit dtUm
rsrei lUtuenrct «juiccjaid iecui de Cotnmcadu Ec. Ctt mum dm i Curim
mofMAern. tc tegicnen, de deiìanim
{Mrceciilium adiun Aieht eiTe irrirum «dminillritìoDent libi m rpirtcualibus,
de retnpoip(b jar«. CaÌA Ctmatrmis. Ma i
fApt, fAttwiefi fuptrttri aUa U^ t,
pr$luaiATAt%t i tirmiu itllt CAAvuatit, •
AAmetdttrtr Mmtf it' frutti 0^1, ArnuumprAttrii ÌAÌi fAg Attua fini a
itnurt — i it ia vi4 ttm tutti It lari rtuitlt | étp di
tbt muturiut uUrtJÌ It Jlilt dtilt Un
MU, iumdf ti rvconuiiduaio «yuclU
Cbielà, uKachi tu poiTi (ulleanre ii tuo
iUio ) DtlU FauuiIia Fiifeki, it’ Cauti ii LaVàfnA, liuti ««Ì114J ikiAmAti il
pAifl uimifii. (i) Circe idein tempm milìc dommtu aovut Iepe quemdpRi nomm in Angliam pecunie eetorlotem.
Megittrum, videlieec. Meninuin aaten.
tkum pipale delìrteniem. de habentem poteiUtcìn eecommunicendi, fialpeBdeadi, de
multipliciter vu. lunati fii2 refiilenrn
punieadi. Idem. £' do ifferVAtfi, tké i Aoi priuàmua uum A grAuii autpriiA r«r «fbilrrrro
i» virtù à'uu uutua diruti fiuuAti JulU d«e4e.i4«e di Cifiumiiui, par ttd tutti l’«lr, par nutUt tkt pritiuiavAut,
uppurtiuavAui uliu Ckufu JUaioAo. Ad precei meu illoUn Regi Angloram Henneo II.
cooeellit, da dedite Haarianui)Hiberniun
fare bicrediterio poC (idendain. Nem
omne» infiilx, de jgrc anoipw, tx
dooecKine Confbnrini, qui eun bindevM • d(
dotavit, dicuntur ad Rotneaun EcclefUm pettinere. Joaaods Surobcticniii
|ib. 4. MetèlB|ici, ta del Re, cioè, doooo. marche. Propofe (i) il Re di ciò
querele nel Concilio di Lione,
lamentandofi de' fuddetti aggravj. al che rifpofe il Papa, che ij Concilio non era congregato per
ciò, e non era tempo di attendervi.
Nella flelTa Cirù di Lione, al tempo del Concilio, il Papa volle dar alcune prebende di quelle
Chiefe a’iuoi Parenti; di, che fu moto
grande nella Citt^, e fu il Papa avvertito che fareb^ro flati gettaci nel Rodano; (a) perlochè il
Pontefice li fece occultamente
partire. Non reftò per quello la
Corte dalle fuc imprefe; () anzi nel 1153riftefib Papa comandò a Roberto
Vefeovo Lincolienfe, uomo in quei tempi
celebre in dottrina, e bonù, che confcriflc certo Benefìzio ad un Genovefe contra i Canoni.' il che parendo
al Vefeovo inconveniente, c ingiuHo,
rifpofe al Papa, che onorava i comandamenti AppolloUci, conforme alla dottrina Appoftolica; ma che
quel abftam'tbu% era un diluvio d'
incollanza, un mancamento di fede, una perturbazione della tranquilliti del Crifiianefimo, ch’era grave
peccato defraudare le pecore del loro
pafcolo, che la Sede AppoHolica aveva ogni podelli in edificazione, nelTuna in
dillruzione. (^) Ricevuta quella rifpolla, il Papa fi fdegnò grandemente.- (c)
ma il Cardinal Egidio, Spagnuolo, uomo prudente, ten (i ) Il mdtfimt Sttrir» diti tfn Ì0 rtmdìtM
dt' aràqiftMi UmUmì fi»ktlitt in dm» fii di 70. imt» manh d'rgtntii t tht tv. »vn» fi» imfmrrita l» Ckitf» di Jh$, dt tht »vtv »4 jfattp tufri $ V»fi d»
S.fittn. Epifcoout Kobenus Liflcolnienl» ficit A io'u Clertcis ailigemer
cooipumi Alienoram pmeann in An^lù, Bc
invennim rft. Se vert caniibua qao£lam
alicfugenas ronfàoguineoa, vel affìnea
fiiM, inconEiho Capitulo, iocrudere, re.
fiitcrunt « in brie Canonici Lagdunenfès. coot' ffitaaiiTcì, Se eum juramentoobteltintei,
qood, iì tiki ipud LugduBucn apparerenr,
non pòilét eoi velArchiepilcopuf, vel
Canonici, pro(c|;^re, Mat.
Vvtfiaaaafiar. Oroflet «ft. (S) Mandatu ApoAolicit, du'aili valla fa» tifpafla
al Fapa, aSedioue filiali devou Se reveren.
ter oMio : hit qno^ qiaae nuodatia ApoAoìiria adrcrtiintur, paternum xclani honorem,
adverìor Scobftoi ad Drmmque enitn
teneorei dirtnomn. dato.,» Non «là
igitor Itterz renor Afoftolica fimAitati
cxmibniu, r«l abionua pluràmutn Se di»
icort. Priioo, luparbo animo aitr Quia eft ifte fenex delirua, furdua, St
ablurdua, qui fii^ mudar, imo tetnerariua judiear} Chi atai di ^aafii daa vaatfriav», il Papa,
akt walava i Caaaai, a Lineala, rlta li.
difandtvaì Cki di ^aafii daa tra fardat
tÀaaala, r« «■«». dava Jt iaat la vaca
dal Sigaara, a laaartatia aUa aam vaiava
aftaltar gatlla d'm» Variata Appa^aìtta, tkt rl'^agnava il far davart ì Per Petratti,
Se PauTuma yi. giarava par Saa Piatta, a
Saa Parla marre Listtain, tha gli fatava aliar» l» settdafim» eaTrtt.iaaa tha Sa» Patir avtva
fatta a Saa Pittra, quia repreniibilii erat, Se non fede itnbulabn ad \erttatem Evangeliii
Galat.x. la xsatt i' imitata le» PUtra,
il qaala prtfiul sii grufi» earrttàaati
nKì moveret noa innata ingenuitaa, iplàim in lanrain conliilìancm przcipitir«m,
ut coti munds bbula loret Se exemplum. Ihtdtm. t«, tentò di mitigarlo, moflrandoglt che il
procedere contri un uomo cosi riputato,
per fiuia tanto abborrita dal mondo, non poteva partorir buon effetto. (4) Ma
mentre il Papa penfava al modo di rilcmirn, s'ammalò Roberto; e in fine della
vita tenne gli ftefli ragionamene ti:
(^) Mori con opinione di fanritli, e fu fama che facelTe miracoli. Il Papa, udirà la morte, fece formar un
proceffo al Re, che il morto fodè difotterrato , ma la notte feguente ebbe il
Papa in vifione, o in fogno, Rcberto
veflito in Pontificale, che lo ripreie della pcrlecuzione alla memoria fiia, e
lo percolTe in un fianco col calcio dei pafiorale ; (c) fi dcflò il Papa con
ccccflivo dolore in quel luogo che lo colpi fino alla mone; la quale {d) fcgul
indi a pochi mefi nel 1^58. Alcffandro
IV. fuo fucceifore, () fcomunicò TArcivefcovo di Jorck per una caulà fimilc; il quale, perfcverando
nella fua deliberazione, fopportò la pcrlècuzionc con molta pazienza; () c
avvicinato alla morte, IcrifTc • al Pa tti) Nt^n ctpcdim, Donrin, ut altqaid daruin
contri i|>tum epifc(i«in ^'ini«rctna>{ utenim vera fateainur, vera Ciat cmx duit • noo
poC fnntui cum condemam. CaiholKUi eft,
nno Ik (mdiCriotiii, eol>U
religiufìor, nobù (indlior, eice{Ìenùor, de ecccHeRnorti ritz ita, ut non credatur inter oenno l'rckioj inajorem,
imo noe parem habert. NoTÌt bnc GiUicaiu,
Se Anglicana CUn Univerlìiaij noan nou przvalem
coniradiAio. Hojuftnodi epillslx vtritas, quzjam torte muUis innocuità muicoi centra no
poterit cominovere. Kzc difcrunt Dominut
iEgi-Uut • Hifpanut Cardinalif, dr atu.
coniUium diucei Div mino Pape, ut oninu
hzc conaivearibui oculit fub
dilTimulatton ttontire pcrmitieret, ne fuper
hoc tamuiiuf eiritamur. Ui^- ^t«
« ir mtdtjimt Psris, tra m» fran
ptrftaafs»' carCD. iu' t^U, coluntRa in
Curia Komartn veriutn Se iuftiar. et muneTum aTperaaiar, qux ngernii «quirarh
fleAere uL w r.T,! .. PrivilMia (kadonim pomibcuBi Romane. rum prxdKcIwum fuorum Pipa impudenter
in. nulisrc per hoc rrpagulum, m«
tSfiaatt, noo •rubefeit: qaod non b(
line corum przudKÌe, et incuria
rmniielia k cniru reprobat, et dirute quod unti) St tot (anAi xdificarunt. Nonne
di. cu Papa de fu» plerilque
PratJerclToribu, iìU, vai tUt fu
rttirdaritai PraJtttftr ntfitr, tc fzp«: adhartam fanUi ^Tadtttfftrn aaht
vtftuiis, Sei. (^are ergo, quz lecenint,
duuant iundamenta qui lequuniur Nonne pluiti, divina grata klirati, majotet
funt uno fi>lo adhuc perieli. tanK?
Uode ergo hre injuriok lemeritss,
prmlegia laiiquorum Sartftorum multcrrum in irrituni levonre ? Ciaè i il
Pafa aaa ta rtfftri di aafart, a
d’aaaaUar cmm Nonobtlance la Ce»atfiami, a {U atti dt'fmai fanti Aattctffari,
fiata tta^trar il sarta, a‘l difaaara
rlt'tfli fa alla lira mimaria. gaitaada a urta tutta tl lata tdtfetta fairianaU. jhj^amda ài Pafa farla nalla ftta
Balla d' aitami ddjiai Aatrttffar$, ma
dita il nolìro Aniccelotc N. di Dia memotia? volen do (egujr le TeftigM del
oofiro Ciaio AnteccTortf Pttik!dma^naaaiuart i faadamemti fat dagl' altri ì ideili Pafi, i gmah, ftr la Dia
gratta, fama arrivati ftUtamanta u»
Mrre, nam iuamamaggiar tradita, t^a ama fata, il gnal ì mmtara im ftrirala dt
far naafragiaì Damda maftt dmagaa tka
Jmaatantia vaala tan una uaaaritd ftifmaliufa raimavart i friviltgi
aamtadmti da tanti Saati Pamttfui Bamant t Paria nella BKdefima TÌri. (c) Hoc anno (ttf4-) D'tniinut Papa,
dum, imut fnpra modum, vellrt oQa
Epi£:ofH Lincotaicniis exua Ecclelìam mojkere..... Juint taleni litenm fcribi Domino Regi Angliz tranfinirrendam;
fcieni quod ipr# Rex libentcr dcCrvirei in
ipfucDtMiprracri&è, fir fatila tbiditi il aalra Starila fai, a futi
fagina immamti, ila^rre tra Do. mini
Papi, de Rzgii redargutor nuaifellui.)Seil
no^ léqucnii appiruit CI idem Epilcoput LtiiroU nieotU, pontiScaitbua redimiti» i ac voce
icrri. bili tpÉim Papam in ledo fìoe
quiete quiekecu rem aggredUur, Se
aAiiurt pungenv iplum in lateff iUu impetuofo cufpide bacuLi fi»
palloialit: Et «liait et: Simbnldo, Papa
miièrriiM, propoTui. iUoe oda mea extra
E. mneni, 8c molclUin. J^d. (e) Ftrfa il fina diU'anna iaj4> awdrjCew Matita Pari nfcrua tha lanatiatia, travaadafi
uà fama di marie, « vrdtada fugatri i
faai f èrtati g iar Jiffa t Quid
piangiti!, milen I Nonne voe otnnea
divitrv relinquol quid ampliiia exigitia t
id eli: faribf mai fiagaitt, a ftmfluiì ia vi taftia talli rtecbij tht
vaia a di fitti ( ) J^l‘ ara di Cafa Canti, tama Xatatiatia III-, Urigaria IX () Anno ix{p. aggravxvic manum
luam Dominus Papa in ArchicoikopQm Eboraccniètn, pif. fitqoc eum ijnoiriinioie nimii in tota Anglu
exronunurucari. Ipk lauwn Archiep. excmplo B.
TiMuz Durtim, nec non B. RoIkiu Epilc. Lin. colnienlis, fidelitata «rudkua, ^ lolatio
csdcaa mirtendo minime dclpeiDvit,
oennem ppalem ryrannideiB piuenier lullinendo: t atta fagut dtfai Remili genuaSeUere Baal, et indignis berbarii
opima beneficia Eccidìc lux, quafi margaritai por. eia, imo rpurcia^ diHribueie. IbuUn, iero dichiararfì affoluti Padroni in tutte
le collazioni de' benefìzj per tutto il mondo ; e levarG dal bifogno di trovar
Tempre modi, e arti, per tirare le
collazioni a Roma; e fece una Bolla la quale non conchiude altro, l'alvo che la
.rifcrvazionc de’ vacanti in Curia; dicendo
che le collazione di quelli per antica confuetudine è rìfervaca al Papa;
e però ch'egli approva quella confuetudìitc,
e vuole che Aa olTcrvata : ma, per
conchiudere folo quello, intanto fa un proemio ipotetico, dicendo: benché la
plenaria dilpoAzione di tutti i BeneAz) appartenga al PontcAce Romano, Acchè non folo può
conferirli quando vacano; ma anche può,
innanzi la vacanza, conceder ragione per acquillarli ; nondimeno lantica
confuetudine più fpezialmenie ha rifervati i vacanti in Curia: perlochè noi
approviamo tal confuetudine. (^) Se il Papa avelTe fatto un editto conchiudente che la difpoAzione di
tutti i BeneAzj toccava a lui, il mondo
A làrebbe melTo in moto; e, cosi gli Ecdenaflici, cornei Principi, e gli altri Patroni Laici avrebbero
detto le loro ragioni ma quella propoAzione meffa in una condizionale, fenza
conchiufìone, pafsò facilmente lenza che foflè avvertito quanto imporiaCTe. Anzi
due anni dopo, cioè nel iz6$, fenza aver
alcun rifpctto a quella Bolla, S.Lodovico. Re di Francia, vedendo che le
provvifioni fatte dalla Regina fua Madre
Reggente, mentre durò la fua minoriili, c TalTcnza in Terra (anta, non giovavano, per levar le confuAoni
introdotte nella materia bencAziale, fece la fua celebre prammaticha, () dove
comandò che ieChiefe CatteTomo Ih I dralt
tri, 0 tinijMt P0tÌ0 dtf0t N« «enfi» prartereon. dum qaod B. Hdmandus, Le^r in TheologuOXODiali,
t ^ Arrhrrfr»V0 i C»Mttrifty, et direre roofticeK i O Servale» fWjfd rr H rum
di Artrvtfttx^ di erlc, nuttr ab hoc
Ixotio tnnlinterabU| kao» vel làltem
gravibut, St inCàperabilibut in muodo tribnietionibiu impemits, He trucidami. ì^itm »d et tifi. (4) In anurt(sdi.e amiu« fctipùtl'apz,
esem. I loRobeni Liocolnientif Epiùopi
pntvo.uua» do!M ioconlbUixliter quott camraauifirmicertplum fttigarat, co quod iacxpcrioi de ltngu«
AaglKanx igxan» renate accepure» nane tulbentieoda, nane tb iiedetìa eliminando, nuoc Craeem aakrendn,
dee. U pnii't 0I ftu frtm> Umùfi’
ntttr dt f 0 rt 4 rgU ù Crtrt
po. teli de ^re mnrerre» Tcnim
eium juj in ipTrt tnbuere vacatami
colUrionem carnea Bccldia. tum»
dignittnim» de beneficiontni «pud Sedem
ApotlolKim vartunuin ^cialiin cxterii antiqua oon^uctudo Ronunii Poatititìbui rdervavu. itaque laudabilcm reputante hojuftnoii
cojkòetadiiieiii, de eam auclònuie apoUolica approbanrei» ac niltilominiu volentet ipkin innolabiter
obkr. vari, ead^ auAoritare ftaruimus ut
beneficia qux apod Sedem iptàm dcinccpi
vacare conrigrnt ali. quia» OTxter
Romanutn Pcimifi^m, coninre aliOli. icu afiquibai, non prefunut. Sarti
Owrar. m.j. tu. dt praitBdit. taf.
a, () Si dmku» tmité tbt ^utta
framxtatitx ffa di Sa» Ltd0vtt0, ma» m
farUmda im eamta vtfitMt gli Sfrittari
r«reiM#r«»n : altra di tha »t» fi vaia
tkt il Pafa, il ^xalt Tignava alt», ra,
aUia avuta altn» dtffartrt ea» fati Ut ; il
tbt fariUi ttrtaaaatt» attadmta, fa da la» fafa vernata una tal ardatatiaat. diBamr itìlUt
tht la rigHta «al ttxafa dt tadbanr# jdrali
aveflero reiezioni libere, e i Monaderi fìmilmente, e che gli altri Ber neiizj tutti folTcro dati lecondo la
dilpolizione della legge, c non potelTc
eflèr levata alcuna impofìzione dalla Corte Romana Topra i Benefìzi
fenr za confenfo fuo, e della Chiefa del
Tuo Regno, (a) L’andata del Tanto Re in
Affrica contea i Mori; la Tua morte, che TucceTTe nel iZ7o’, il biTogno che la
CaTa d’ Angiò ebbe del lavare Pontifìcio, per idabilire il Tuo Regno in Napoli, e ricuperare quello di
Sicilia, e la Tacoltb che il Papa
concelTe al Re d' impor decime Torto pretedo della guerra di Terra Tanta,
fecero che i Francefi facilmente lafciarono racquidare alla Corte 1 ' idefla autorità', onde nel 1398. Bonifazio
Vili. poTe la Codituzione di Clemente
nelle Decretali, e fece che quello ch’era ipotetico, e incidentemente detto,
folle il principale: e, per darle maggior autorità, la poTe fotta nome di Clemente, lafciando in
ambiguo. Te follé il quarto, o il terzo", onde adedb in alcuni cTemplari
fi legge in altri quario-, () perlochè
all’ora fu dato principio a creder queda prowjfizione, cioè, che la plenaria
diTpofizione di tutti i Benefizi Ecdefiadici ap
particne al Papa ", il che pretendefi intendere in TenTo non
affatto perverto, cioè, che il Papa abbia piena podedb, ma regolata perb dalle
leggi, p della ragione, (f) Clemente V.
indi a poco fece ceflàre ogni buona
intelligenza, con dire che 11 Papa abbia non fola piena podedb, ma
anche libera Topra tutti i benefizi S W
1 ^ liberà ì intende da’ Canonidi piente
da ogni legge e ragione: ficchè egli può, non odante la ragione, o l’interelfe di qual fi voglia ChieTa, o
particolar perlona, eziandio Padrone
Laico, farne tutto quello che gii piace. Queda propofizione con ogni occafione fi pone nelle Bolle", e
non è Canonida che non la palli per
cliiara, anzi per articolo di fede, dicendo che il Papa nella collazione di
qualfivoglia Benefìzio può concorrere coirOrdinario, e anche prevenirlo ", e, piacendagli cosi, dar
anche autoritli a chi gli piace di poter
fimilmente concorrere coll’Ordinario, e prevenirlo, ficcome hanno poi data queda facoltà a' Legati con
una Codituzione generale, NelTu te» »» Uhth iutìieUt» t Dc&n(brium
CoiKortlAtoruffi iiucr Seitm ApoflolKun, et R«^ni tnncùr Ludovicum XI, tht Àu»
th'^ di S. LnUviee, it ni psrli i»
ttrmÌMi t Quod BUtsm etdem afcrioinir
fecill« pragnurKAio, |«r qutiR quuiun
juAi&cafe nituatur PraKiTuttcim per Scicaifi. Principem Ctroiiua
Rc{[cni (VII.) donÌAi aoflri Lttduvici
genKorem «ditam, Ot per «(undcin dominum
naliruin Liidovkuin «• tboike aiiscr
•bro^tMoi, nlhìl prtxietit cis, tie« qui
prodenè fi tttendAnnir fingaU verbi
ejufdeni benfli iùb tenore bnjas aferipue libi Prtgpunea bcani, et uoicuique faa jurildidio lérvetur
.... Item prouMiioAca, MiUiionei,
proTÌfiono, jlcdifpofìtionea prxlaturaxujB, digaitatam, St alioruin ouoraowiUDque bencficiontoi « et OtlUiorum
fec(Wiaftk.aTuu Regni ootlri, (écutidum ddpofitiooetn, orduucioneis, Oc
determinadtiacm juria (ooifuUAu,
Sactorum Conci lionim ficclelùe Dei,
ttqae infittutonia anitquorum Sarklnnitn rarruot, fieri ToJuatui, et ordinanu». Iretn
eu^onct,& onera gravillìnu pccumarum
per Cunam Roauoam Ecdefiat regni noflri impollta, tei impofirato quibu eiitcrabiltcer regnutn ooltrum
depauperarum enitk; lìveeuam un^toneiub», vel inipocven. da, ievtfi. ast rolligi iwIIìucrui votiimut,
nifi dumtucac prò rationabili, pia,
&ura[e.’uiflìma cau li, il quale è
con proibire ogni torta d’alienazione, cole per diame« tro contraria a quello che la primitiva
Chiela olfervava. Imperocché, febben le
Chiefe, quando fu lecito per le leggi de’Principi lacquiilare (labili, ritenevano quelli eh’ erano donati,
o lalciati, era però in liber del Velcovo non lolo di valerfì dell’ entrate, ma
di vendere anche i fondi fle(H, per fare
le fpele necclTarie nel mantenere i Minillri,
e i poveri, () c anche di donare, (ccondo l'efìgenza , e T
autoritli di difpenfatore concelTa al
Velcovo non fi llendcva lolo (opra i frutai, come adelTo, ma anche (opra i
fondi llcin, e altri capitoli.' il che
da principio era amminillrato con fìncertt^, lìcchè però non ne nafeevano inconvenienti, e durò anche
lungamente nelle Chiefe povere, dove, per elTervi pochi beni, e i Vdcovt di non
grande autoiritV ) non yi era materia di traigrellione : ma nelle Chicle ricche,
e grandi, dove la riputazione dava
ardire a Velcovi di tentare quello che
ad ogn’uno non larebbe (lato permeflb; e l’abbondanza dava materia di poter
vaicrfi di qualche parte ad arbitrio, i Velcovi cominciarono ad eccedere i
termini della modedia, dal difpcnlarc pafTando
al didìpare; onde fu neceffario provvedervi; nè la provviGonc venne dagli Écclefìadici, ma da’ Secolari, in
pregiudizio de’ quali era : imperocché, diminuenJoG i beni pubblici della
Chiela, non pativano t Cherìci, eh'
erano i primi a cavare il loro vitto, ma i poveri, che fella vano nell’ ultimo luogo. () Nelle principalilTimc Chiefe, ch’erano Roma,
e CoflantinopoU, la provviGonc fu anche
primieramente ncceGaria; perloc he Leone Imperadore con una fua legge del 470.
(i) proibì ogni-aliehazione alla Chiela di
Codantinopoli e nel 4S31. PrAfetto Pretorio del Re Odoa ere in Ronta,
(2) vacante la Sede di Simplicio, con un Decreto fatto nella Chiefa ordinò che non poteffero elTcr
alienati i beni della Chiela llomana; il
che da tre PonteGci Icguenti non fu trovato Urano: (3) nel 502. Simmaco Papa, effendo gili morto
Odoacre, e Gnita ogni fua potenza,
congregò (4) un Concilio di tutta Italia, dove propolc, come per grande ilravaganza, che un Laico
avelTc fatte Colticuzioni nella Chiefa;
e con affento del Concilio le dichiarò nulle: ma, per non parer che ciò facelTe per vbler feguire nel
dilordine, fu nel Concilio fatto
decreto, che il Ponte Gce Romano, e gli altri MiniGrì di quella Chiefa non
potelTero alienare; (5) Ipccifi cando che il decreto non obbligalTe altra Chiefa, che la Romana
lolamenre. 1 tempi feguenti moGrarono
che vi era bifogno della GcHa legge in
^utee le Chiefe; perlochè AtutGagio Gele la legge di Leone a tutte
le Chiefe (•) ViJe C»n- 1 }. ac I®. C4jt »• () Vidi Ititi r. $ 9. IO Sl»tfi i U Ufi 14. Co 4 Sact«CiD{^. £(Ueil»> tk'ì di Lttf, • di (») dio; iJ MuchÙTcHi. tmfmdrtnifé fi dtll'
hmffTM, dtft mtmr mmm»tXJU0 Ortfi, t
imff» in j"i» AngmJhU, fm, Ufti» il pH i'Jmftrsdtrt, fi fnt tbimpur JU di Ktau, Urna tamtiafft tù^, tMH Hb ». dtlU fnm
Sttfi di Timtt. ( } ) F flirt IL ftrtndp altri III. Qtlafit I. « Jlnafiélit IL (4} ^ Jtivrm. O) Qmtdt CiiHtmt > riftritt dMGriMBCsMf. t ». f w. ». Cm. ut» M. Chiefe foggette al Patriarca
Coilantinopolitano, (i) alle quali tutte
proibì il poter alienare. Ma Giuftiniano Imperadore nel 535. fece
una Coftituzione generale a tutte le Chicle
di Oriente, di Occidente, c di Affrica,
c anche a rutti ì luoghi pii, con proibizione che non pote(Tero alienare ;
eccettuato Colo per nutrir poveri in cafo di fame RraordU naria, e di rifeattar (2) prigioni, gli
concelfe ralienazione, confórme air
antico coRume del quale S.Ambrogio fa menzione, che non lolo le polTenioni, ma anche i vaA fi vendevano per
quelle caufe. (4) La legge di GiuRiniano fu olfervata ne tempi feguenti
nell’Occidente, (3) lino che Roma rellò fotto l'Imperio Orientale; e vi fono
molte pillole dì S. Gregorio che fanno
menzione de' beni alienati per rifeatto degli
Schiavi, Anzi da’tempi di Pdagio II. fino ad Adriano I. (4) per an
^ ni 200. fu incredibile la fpefa che
faceva la Chiefa Romana, per
ricomperarfi da’ longobardi, così acciò levalTero gli alfedj, come
acciò non molefiafTero il Contado : e S.
Gregorio ne rende buon tefiimonio del
fuo tempo. Non aveva credito all’ora la dottrina che corre al prefente, che
da’birogni comuni (5) fieno efenii ì beni Ecdefiafiici ; anzi tutto il
contrario, quelli erano ì primi ad elTere fpefi, innanzi che fi venifle a porre contribuzioni fopra le
cofe private. Nè meno farebbe venuto in penfiero di porre in controverfia
lautorìt^ de’Principi nel fare le leggi,
perchè, oltra la perpetua olfervanza, vi era il lodo fondamento, che quelli
erano beni delle Chiefe, cioè, del comune, e della congregazione de' Fedeli;
(d) onde toccava al Principe procurarne la
confervazione • Dappoiché fu
fiabilito l’ Imperio in Carlo Magno, reflando le leggi Romane fenza autorità, tornò l’abufo; onde
furono fatte diverfe proibizioni da diverfi Concilj, (7) in Francia malfime,
dove la dilfipazione era maggiore. (8) dappoiché ì Pontehei Romani aflunfcro
piò parte nel governo dell’ altre
Chiefe, vedendo che la proibizione untveriale faceva poco efiètto, non mancando
preteRi a’ Prelati, per eccettuare 17.
Cod. de Sacro&oftù Ecclcfiu. (t) la Unitila 7 .eaf.l. tir. l. telLi, Pro redemptione Capeirumui. Jut S.Ttat’ maft, Se aliis n«ceirir«cibus ptuperam, vaTa
cuU nii divino dieau duinhunrai', it
AinWoiìu» dieie >• l. itf. mrr.7. m rtff. a 4 J. Vtde Tur. itet iìGatiami
JMn», r « Ramat CardriMU Rcgibut zquipirantuT ) duiimu taliter modenndit, qood
per cnodenmen noftmm eftrcnatain riUum
beseiictoniia muintudmem refreneoMis,
ipdque impeiramet tru^ dif^nrationutnhuiulinodi toulittr non AuArentur.
btatuiv.uu itaqueqaod obtinencet nunc ei
di^nUtione leginma plurali tatem huiul'inodi beaeheionim unum tantum ex bencEcna, quibui cara imininet antnurum, culli dinirite, vei beacEcìo line cura, quod
hbere nuluerint. poflìac licite rvtiurre: t mna
(i«a dtf. Qac omnia ScEngula beneEcia vacamra. rei diiruUi, noArc, 3t
Sedi Apoft. dirpofinom reCervaimu: inhibenen ne quia, prcrer Ram. l>ontifieem, de hu^finodi benefciii
difponere, vel circa illa per viam
permiiutionit. vel alias. innovare
quoquomodo praduoiat. ZjcrraMg. tit. dt
frtk. tf. ZxtttMhHt, (t'i a fHsU
immidiMtsmmtf gli fnettff]) Speculiter fiurdcgaleniem Erclefuni. 8c Moniilrrm— Cni.i> Buidegalentìi,
C>di. eie UnCìi Henedidi Et
generaliur Patria^ ctulea. Archi^'^.tcopalei
Epilcopale^ Ecclefias. MonaAeria,
Priurttui nec non Cinonicicat, Przbendai. EcrIetUs nia cura, velgna cura. Se
aUa quziibet beoetìcia BcrleSalìica, qu«
apud Sedea ApoAolicim vacare a itoiaiur
ad prz^cu. et que toto aoliri potniEranu
tempore vacare conticerK in Eirurum,
pravitiofii, collationi, li difpofitio.
ni nollrR, 8c Sedia c)urjem, lue vice aucioriate Apollolica relèrviimui. Extrsvtg. CummiB. 3.
rùdf f^éttmdit, mp 3 C 4 ) Adeo rcboi oorìi fluduit. ditt U ?Uth M tuli» fu» wtm, ut Se timpticea Epitcnpami
bi« iàruin diTitèric, ac dtvìfoi in unum
rcdcgcrti. et Abbaiiw in Epikowruv, 8t
Epifeopami inAbbaciai vinflim mnihilenc. Novat quoque digoitatet, nova collegii
in Eededìt cooiluuit, &c. tgU dìvtf
gmtlU d$ T»Uf» i» rnifiw. rrgtmjUU M
Artivtferauté, t duuJpgli ftr l§ ^»ttr$
Cirri eh’tgU fmtmh»v» dll» fu» ’>w»U»9f»mSu», L»vu»r, fUtug, Ltmii». Gli uSrgiù aai-tadie Eumett.. tkt BmifuMà»
Vili. uvtv» mtft f»tt» NArhtnu, di
euìAUt, «S fwird$-Tt">itrt divtmutr» fuffAtunù et» mw "utvu ttezitut. Stmmifi Cuftrtt i»l nfetvtt»
d'AUi^ S»i»tf»»r d»lU Cbir nrts U
^rnspiitm dtlU ms, uuutftkt rht
ptrtUtmtltilpàttfsisrt il v— ufism dtlls
mdfint n) nrts ts msmitrs, ftrtki ■M
dttrrtUt fi mtm mtl fmt itlV enne. K
Paole nel iib.t. del uo CoocUio di Trcnte. na; e tanto più per grave, quanto quella
opera è congiunta con fpeic di Bolle, difpenl'c, c prefenti precedenti; che
tutte levano il danaro, eh’ è il nervo delle forze, il quale non torna mai,
come fa per via dell’altre
mercanzie. Quando quella novicù fu
introdotta dal Pontefice, le perfone ordinarie non feppero vedere che
differenza fofle tra quello pagamento, e
quello che fu cosi biafimato ne’ tempi in cui i Principi davano i BeHzj.
Ma gli uomini letterati in que’ primi renapi univerlalmente la dannavano come cofa fimoniaca. ( o ) In
progreflb di tempo alcuni iludiarono
modi di giuili6carla in maniera, che lì divifero ; altri riprendendola come
cofa illegittima, fimoniaca, e proibita dalle leggi divine, e umane ; altri
lodandola come cofa lecita, anzi necclTaria, e debiu al PontcBce Romano;
pollando quelli innanzi lino al difendere che il Papa, non fulo polla dimandar
un’annata, ma anche più, come quegli che
c aflbluto padrone eziandio di tutti 1
frutti, Bon che d’ una parte . e dicono che per qualunque contratto che
il Papa faccia nella collazione de Benenzj, non può commettere limonia ; e
certamente, (^) fe egli folTe padrone, come dicono, la confeguenza rollerebbe
chiara ; perchè ogni perfona può contrattar il filo in quella maniera che più
le piace, fenza far torto ad alcuno : ma
nè Dio, nò il mondo pare che vi acconfentano. Quello Pontefice fU cosi intento a cavar danari
(fogni cofa, che in 20. anni di Pontiiicato congregò incredibile teforo . certo
è che nello fpendcrc, c donare non fu più riftretto, che i fuoi PrcdecelTori ;
e pule lafciò alla Tua morte 25. milioni. Racconta Giovanni Villano che ad un fuo Fratello dal Collegio de’Cardinali
dopo la morte del Papa fu dato carico
d’inventariar il danaro, e che trovò iS. milioni in monca coniata, e 7. milioni in vali, e verghe
da lui pefati. (1^ L'annata nella fua
illituzione da Papa Giovanni XXII. non fi Refe, falvo che a’ Benefìzi che fì
conferivano, e pagavalt nella fpedizione (ielle Bolle : cofa, che continuò Ano
a quel tempo ; ma pòfeia fu anche impoRo obbliga di pagar 1 annata ogni quindici Tomo Ut IC a pnj C«} Separ qiurlltum eft, diti md frs» tiufulté, ui iure poffit eirip, Ac l»c Icre
Tiiralogarum eft opiiuo, Junlque lQncilicM Coatilca. THm, Roimnum Poniiticcin irge (imonitet bitiu, ut c«(erm Epiliopof, tencr^ fi prò
Sicrit mimàeriis {KCriaum accipiat. Not.
la »p. 1. de Simon. Nam, pnrter ònon«t. tbf
U frimrifmU i iAtm fm mri. tpmt mfitna t
Tmmtff MtU'Mrunl» iht ha diati. A jMrftm
riftfimi ma MfimfMiri Mrrro m» Mitra, U ^umI i, tht l» Chitfa CslUtMMM mam ì miai fiata firn MfnMvatM, «> fiù ifif mi""”
dtritri tire» la iU’kintfit.1, fmanta
da'fafi Traati^ fii t nt famta
tifiimmiMin.a h talli di CltMunte IV.
Ciemtnra V. a Giavanni XXII. rifirita dallAmtara, a eit iitvarajf dui dì
Cltmnta VII. ?«• fa d’AvknMM. Sm
paffaaa, dk'cgH nella vita di Carle Vi.
ratimtarfi fnta fdifaa tutta t rfati«'
ni, a la vMimia tht fi tamattuavana [afra ilctara, J trantafn CardinaU
d’Aìainmt nana tanti TirMiuat • Sfalla
avtvana fer tutta Vraumratati eam natia
ii abitativa, tha raffmxaaa tutti i
hm^tU fi Claufirali, la Caumniide; ri ftuavana i mifliari far ù mtdtfimi,
a vndavana gh altri, 0 gli mfatmvana.
Cltmmta firfa, altre tha %'imfadranìva
daile f^lu di tutu i V^eavi, a di tutti
gli Attuti età luanvana, e fttndn.M iim'
annata dalla nudità da' tanafit) ad agni wu.
tMtjaui di Titalare, a futftdife ftr varauta, far nfegna, a far ftrmuta, .malmnava la
Chiifa CalUtama tan Urna guantità iufmua
d' tfinfiani, a di tanfi (traariinaria. t«) l'rofiTcrea quod bcaeficia Onira
Iiujufnmdi «itipliue vacare noi»
fpenretur, 6c eainde CauKra, et Oscilla Sedit Apoil. «lenuneAfum non modicum MieteiKur. () Vam il taf, 4. « $. de Aonam in de(rcrtl. (I ) Virfa 1470. (a) Jata^ fmaia, Mmata deirOrdima dfirrtienfa,
uatiiia dalla iÙatifi àt Pamirt, in Linamadata. tUtta utU’anna 1334. addì la
Ditemfn. (i) Genmiu in n'illrit
dendenh, ut tlebni'us, ejand per QQl\ra
diligentix iludium ad cjui un>iide klpnadenoTuin r^innna. alu beneficia eccleiuàira viri sllumantur
ubmei. AoruiD, d( thclàurcriorum. .. .
nane vacauiia, et in antea vacanira,
nbicumquediSoiLcptot, vclNuo. riot, leu
leclom, aui cheiàurariae, antec^uten ad
Rncn.CuHam redierint« leu venenoc, rebus eiimi contipr’'i( ab hamanu. Nec non ouoriialibet
prò quibuiiuincpic negorìit aJ Rom.
Curiim veuientiom, léa cTiam rcteJentìun ab cadcm.fi in locii a dida Curia
ultra d»as durus legulei non
di&antibui, cio^ in InagUi tha uam fitaa piiir diina tuanagmaatalantam da Rane. jam |ir>i&n
obierint. vel eu in antea tramite
icuitigcrtr de hac lu.c ... Nec non enim Bituzione, che incomincia . Paftoralis ^
la quale al prefente non fi trova, ma di
elTa fanno menzione motti celebri Canonici : e l’iBelTo è avvenuto di unte
altre, per le quali farebbono palefi gli abuiì, e le ufurpazioni, come anche
dalle etolfe fu levato nulo CIÒ che non favoriva la Corte : ma peggio rooftrano
gl Indici fpurgatori ( 3 ) fatti daDotcorì, per accomowU agrimereOt di Roma,
prima ai lafctarli iilcire alla Campa. Tom» II.
acionua coliuorum, a toBfamdomm inp»
Acram, Mine « flc in aneti vteamra,
àiffofnom, provilìosi noftrs, dnaec aiiferatinan dtvìMt dcatntia noe
nnimiali Eeckfic TtgMÙni prsAatre
emeeSatir, nfinvanus, acc. émnt$ >
irf mtfi di CesMje dtlFMUt (0) Qes
fnvh, atijae tneoleranda, féd imccC Cui
arrooniin eicu&ca, criam in pace nuBiere,
étti T»eit« fitf. a. ria! : Vifttim «rane ftmfmtt Mm»
tiffima; e i benefiz; {b) fi vendevano alla libera, e A levavano di mano
degli Ordinar; quanto A poteva. Sino a
queAo tempo non A era fcopcrta la Corte Romana apertamente, che non fi miralfe
ad altro, che al foldo : di tutte le cole che
A facevano A rendeva la canfa eoa qualche apparenza, o di provvedere
alle Chiefe meglio che gli'-Ordinar; non facevano; ovvero di provveder di
Benefizio qualche perlona meritevole, (e) Ma Urbano VI. A dichiarò, perchè s’ incromcctcflc nc'
benefìzj, ordinando che non valeife r impetrazione, le non era fatta menzione
del valore del benefi lào . £ i 4
coTTÌgendum occurrit, pagi donati,, au(
addili), cmendari poHc \ideaiur, fd Corredueei tancndum curent> lilii
Biinut, oninina deIciciir. Df ttrriài» Mtvfmm, fr mrt nrt Mi «Mttinua egli,
ftutttt, ft ffh it jiÀ ftt AMiM fiUmt»,
t p», e da 70. ««nirj» fit«t Jt Sertttri
Mn fi trivt r tuaM^ Jaitrum f»vrn»l Mmtafitm
rsU, rèi l’b» Icvmt i (t fi trtvrtb jia vart>U >rr TfLtthfi^itA,
rkrt' 0 n t 0 Tf^fis$ td i» f$mm»
papmma ijir ttrH di «m fvtr itira sUwté
fimttfa. M Mi dam «. ti k pnftfftS' f tmirlinwltfWTyèma^ mmauà, 0 U iimifd$tjm0 ; 0 elf fi AratnSUfà ;«# tkt «•;ar »4 f 0 Ìttt
tirsMte», fi 0 lfi 4 mmt 0 thtrmmtM itiiualnu Rnrtfn di SUU0. Expurgiod (iiat propoiltiones quxUnc,
deluntur. Sm %»0fi0 {0idMmimt0 miti 0
triMcifi wM tiraami, imfi'arcLì, ftr T 0 ~
hgiéfi ibf firma, tmrri bm a 4 |(éa« «1 r 4 fai rou
dH> 0 at di Stait ««» vi fmrtb Ì0 fnr MB0 rht f0t0fi0 mamtamarfi i' fimat Ì0iitin dittiti. Onda F. fa0Ì0 ka
tutta la raii0U0 di dira ut ma Imait dtl
libra ftfia dii [ma Cmtiiia dt Tftnta,
ibi U Carta di Ramm niu uàwmaimm ftinta ftr imiafiardirt, a futt ti,Ì0 ftr far
Jivntmr brfitt ilt \J animi, tamtt amila di »fiV 4 rii dilla (ffBittama tba
lata imifiaria ftr dtjtadtrfi dalia fut
mfmrfa t Mm, Cbt fmtiadarÀ dmn^me, fa i
mafin kUnfirati tt^muana a (affriri tha fu ZccìaJUfim fraibJtttfU i bmami
Mrit il Drttata, ibi £a mafia U imi dii
CameiUa di Trama da F- FaaU mal Catubga
rde'Zi^ri perdi Mtl ibif, Ì 4 fira svmta
«a li^ x««i ma i ri mvwdmti dii tk^ma di
frMttié hamaa detta ebeit fma tala maa
ara fitamda la frmata } t tba m» BibliatHétta davrtbbt mamlta tatandarfi i»
matana di flint a malli amaaraduanaebt,
frrfianda mm iman farvigia alla Cyte
di Hama, ma ha fnfiéta «■ faffima a rjmtlla a»
C) PViif Nauticr. in Cfiroiricn, voi. %, gener. 46,61
Albert. Knukta. in Hin^.Suon. Ub-iu. cap.
4. et ia Hill. Viiidal. lib. p.
caf.6.& Gigum. li». f. capti, ilt
CamUVl. (4> riverì ia Romano
Pootifirani alter. cit|o mali»
itKotiimefs Ap>!t!ic« debtri Komini
cnniendunt. Ctaium. fed.g. eaf.i- la Caratavi- Vide Nie- de C^uMngis de comipto
bcclclìe flnu, ctunÌ3n otTereniìbu. «la.
tentur. ^k^uc|er. ia Cliron. voLu gener.4p.anu. IjSp.
{t) Elli, diti Ctaaeata V. in temporaliiun di. Ifolitionc bonorupi hsbcaJa fit diIrreiicHi»
cauteu, precipue ut ea digne, 5 c iuuiabiliter dirponantuti in btclclUftivli
tunen rebus BiuUofornu» iovigthre
iiotìra debet intamio, ut peHboirum conditionei de Aami, ad (ìm dequibes his fiisntpro>ifum, T«J
coAcefliim, aut minittucn providerì,
vct«s anaaitt valor» per mare» argenn, aut iter» lingonini, vel libra taroncniìam parvocuin,
(m flonnoa «urf, ant ducara» vcl anicat
aan, leu iliam monetam, fimindum
communem arlbmad^ oem exprinacor, nifi
porfoos przdidc beneficia, qiuB luoc
obtinueriat i aut in tjaibur» vel adquc
fui eii compeiit» juita ip&rum ohligarioiiei, aur tbaa diniitrere teneanrur : atioqmn entir
prs4itìjt film ullz. Jtfrfflt d UrS«»a > di mm» CanttlUris, tdi !» dtU l» nifi» itUa Ca'ttl{nta fadUttutt d Imnoteniit V- Vulc RebuL ail Rubric. de Aonatii
in ‘ConcsrJam, Se feitn. ad caper Ad amnt S. no. 4. barn de Refiriptii. (t) Ci) fifa tanpMiUi fer aiilìgar tbt 'MW rhanna fmdtrt dtUt frtvvi^ firn» firn tan dtilt ffènm, frr apeararfi ad
ttméfiM tatfttrat». Ch dirM diMfw ag^i jutlSaikt» Vtfnv» di Tamr 'aai, il
tfaaìa, tbitdtad» ad u» fa» amin dtl
danat», ftt taaiftrart dtl fmatia, a$a
di tafrir la fa» Qkitfa, ali fcrivrva is amajft uraUa I Rogamuf, Se peiimus, ui
alit^id de bcaevoiU, ac benefica
liberaliate vellra Dgbsinnc tiiU, quo
plumbuin euumur, nonRomanutn» litd
AdcUcuiii i quoniani Anglico pluu^ teguntur Ecclefìz, mJimur Romano. Ztrjkan. Twmattafit ad Valdtmxfam, ( )
le tatti i frnuipi Crifiiaai avtjfrra fatta
U fitffa, ftata iadart a dumjlrart fartialitm far ama dilli farti, ^mifta frifam, tha dm^ ria^attatamai,
nan avfMa a»aj fatata darart tiaaaaata
frttitaaa ; im f mik tU fw fafi mtm tfartÙaaa afiiaati a Wrr £t\wiadm favata »> atiU, lù aaan. Ciàfrhtdaaa pt u kttfn tfett» tht kaan» fradatta la
liittfa di fttfPkU^ tht il Ri di ka
faHluatt t mnt HuMCCBtiiu Papa Legarnm fiiamEnCcopum CalnitfMn prò (ùoGdio
Camerz.» Scaedir CI poiellacMi^tMMoCmdi cam ClerìcU ad beneficia ninti, vai
Bnerura, ad dignitiiet, aot elTtcM» qux
tniRut tanonicehaberenc» aur fuifliant
aJq^i, cum fructibua inde perrept». Enne ibi ciitm Saltarne, et Bm'izDu ci, vocavjtque
Io. pertror Icgatum, Se au Adde
Paralipdincna rentoi nemoè^ liuffl
CtatoBìi Mylii an. ti7f. Se Chxoaictui Gmv
( naiu Mtttu ao. 1 3S0. gualche parte alla Camera : ma dovendo per tal
caufa ufeire molto danaro di Germania,
Carlo IV. Imperadore H oppole, e proibì letiraF
zione, dicendo che bilo^nava riformare i coflnmi del Clero, non le borie. Tutte queièe confufìoni crebbero
maggiormente quando fi aggiunte il terzo Papa nel I407. al quale tebbene ì Trancefì aderiTono, e
rendettero ubbidienza, nondimeno tennero fermo un editto del Re (t) fatto Tre anni innanzi, () con cui
proibivano le rìfervazioni, e altre dazioni della Corte, Hnchò da un Concilio
Generale legittimo foITe provveduto. Non
era il Re molto capace del governo, ma Lodovico Uuca d’ Orleans, che lo
governava, era autore di tutti gli
editti : perlochè, occiio quello, (3) fu facile a Papa Giovanni XXIII.
racquiflar l’autoritìi di conferire i Benebzj in Francia, dando nominazione al Re, e alla Regina, e al
Delfino, (4) e alla Cala di Borgogna per
tutti i loro Servitori ; valendoli poi egli del
rimanente. il che U Corte conlervò fino alla mone dì quel Re; imperocché
Carlo VII. Tuo Figliuolo, che gli fuccedecte, rinnovò gli editti, (j)
In Italia ancora furono fatte varie provvifioni da diverfi Stati diverlamcme,
le quali tutte tendevano a levare gii abufi. Teftifica BaU do, che fino i fiolognefi fecero provvifioni
benefiziali ; e in particolare ordinarono che non folTcro conferite, lalvo che
a’ nativi di quella Città, e fuo
Contado; nè i Papi erano molto Rimati all' ora; anzi, clfcndo Giovanni XXIlI. in Firenze colla iua
Corte, nacque certo uilordine nella collazione di un Benefizio, perlochè quella
Repubblica lo privò della podellk di
conferir Benefizj nello Stato per cinque an»
ni. (i) In quelli tempi s'
inventarono claufule ineflricabili da metter nelle Bolle, come mettendo difTerenja tra le
fupplichc lottukiriiie per cmcejfnm, e
quelle che fono lottofcritte ptr fita; ( 5 ) tra le (pCf (lite con cla^fot. Mmh proprio « e le altre
con cLnilula tmrtftrri, ( 6 ) Ù 1 1 ^ V. tUnt 4» C 0 rÌi»Mfi, Cru tmrt
dtp'éUri dmtt (• «ir» JtlU ftttrmuw tht
U CrMrt>» di hi» irdim mÌ ffrmfit di
tr» fi»t» fmttM I» TrMmti». lt> ÌlQ»rdm»t dtTmr), JkeM«nrtreI«, a«v re roAtemporine i, S Ètrri a 4
enfili», rUnivttfitk, rt»
ftrmttttfftf» Jllrjf»»dr 0, d4 fftrr frt
m»ff !$rt tf»j»»i f»il» Ckirf» TtéiKiff,
I U fmpflK» »« lU f» ftrtii dtir VbìvìtÌi»
éili'tPfMtrr# fT tmtt» l» dittsClHtl», •Utr»ttT0 M»' Mut» in » iti fierue d«'i}. Afd» 14- ». ed i ryVft# nella CeafeTmta delie ardtaatetmi lei. I. tu.
f. pert. ». fataf.i. (il rtorc.inni, proDter uairiun akifitm • Ps ft loatmillBin in ronwrerkio unirp Abb:nun
&• um iB eoninr ditione, privavcrunt
loannem ZXIIL Wpun, in «orun civitaie
tuoi dn;Mtati. pur«. fiate rAn^erervdi
beiveficia io enrom dnioM fit» ulque ad
oumquennium. fdeUaeui i» aatii adSét
maiat teaf»ltmm r«fa mette fiat ut peiimr, ì, eàt fatila teatrdam fempre fualdet fratta, e feae feetefttitte dt
marna prep'ta del Papa cella prima
Uttera dtl fa» aaata di iatttfim» fra la
fauhca, e le tlamfale i taddeve l'aitre ma» fame fettefeture, tkt dal metaiha dtl Coocefiufi r«« fatfia fermata • CooceiTun
ue petitur in pecientia Damini noRri
nap« taUa prima lettera dei fae aame, e del fna eefmeema fra la fapplua, e le Àmafale ^ e CuAuffitn a late
della tlaafmU talir dae lettere raatiali
ile' fmat aam • Vedi la rtfeia }- di
CeaeilUria, 16 ) ratte furfie rndrjri#
rNW»ri«r#w fette II Pentifitatr de Rea
tfatte IX. Rapa di Amm, e fetta faellt
di Stmtdut XtU. Pa*» d' Avìfmaat. Pe«c che (i migliore la condizione; dalle
quali invènzioni nafceva ch^ più Bolle
erano impetrate fopra T ìflefTo Benefìzio, e oltre alle maggiori annate pagate, nalccvano anche liti, che
bifognava poi trattare a Roma con benefìzio della Corte. Si aggiunfe il
cofHtuir un’altro licigantC) fe uno moriva, acciò col Tuo 6ne non foffe il fine
della lite; ma dalla morte di quello fi
cavava un'altra annata, e la continuazione
della lite, la qual anche moltiplicando, furono trovate le claufuIe:S'fiiteri
: Si neutri : Si nulli ; per le quali fi dava anche il Benefìzio ad un terzo, durante pure la lite tra i due
primi : il che coftrinfe i Principi, per levare le confufìoni, il difordine, e
le liti tra i loro fudditi, a ripigliare nel foro fecolare la cognizione del
poflcflorio de* Benefizi.- cola, che, (ebbene legittima, era fiata per
connivenza de’Principi levata
da'Magifirati Secolari, e alTunta dal Foro Ecclefiafiico. (i) Dalle provvifioni eh’ erano fatte da qualche
Principe, per ritener il corfo delle
introduzioni nuove nella materia benefiziale ne’ loro Stati, pigliava la Corte occafione di trovarne
dell'aftre, xosi per fare gli fief(i eliciti lotto altri preiefii, come per
moltiplicare modi dove potevano; e con quelli lupplire a quanto non fi poteva
lare, dove era gilt provveduto. XL.
« In qucfti tempi fi trovarono
le rifegnaziont, non le buone, e lodevoli, che quefte fono antichiflìme; ma
cene altre, delle quali il Mondo al prefente non fi loda. Non fu mai lecito a
chi era pofio in U14 carico
Ecclefiafiico di lafciarlo di propria autorith; ed era ben conveniente che chi
s’era dedicato ad un lervizio, e ne aveva ricevuta la mercede, ch’era il Benefizio, pcrlevcrafic
fervendo: nondimeno, (2) perche qualche
legittima caufa poteva occorrere, per la quale foffe ncceffàrio, o almeno
utiliih pubblica, o privata, che alcuno fe ne fpogliaflc, fu introdotto per
cofiume, che fi pocchc con autorith del Superiore, (3) per qualche caufa
legittima, rinunziare.* e le caufe cheli
praticavano erano, fe per infermirh di mente, o di corpo, o vecchiezza,
foffe fatto inabile; (4) fe, per inimicizia d’uomini potenti nel luogo, non poteflè fenza pericolo fare la
refidenza. Quando la rinunzia era ricevuu dal Vefeovo, il Benefizio era tenuto
per vacante. XIII. ditt Csrlt M Htlim
ntUt fui «»»»• fmU'HUtl» fmtn l’émm» 1
40*. r»ntrm zmm* MIm fil.a. Se
(1 ) I f0rlMmt»t» difmrigi, tr»infari
tt di Ctnfigliart Gnriei, malto
mlU dimutmxjom* drlf aHtortti Àt'Qiuàui £rrfr^Jfjrt. Icem Junldidio
tecnporali» per rpirimalem non debet
impediti 1 &, u contralìat, Curiaprcìtni coDfuevit compellrre fpirìtaslem
ad reatovendum impedinicnn talia per captionem Ttue temporaliram. Ita dinnm luit per Arteilum
Co« ri« in l’irlantento anni i|tf.
contra Epifcopuoi Khemenlnii prò
Capiralo di^EccleCs. Cup.apw pMuitl.
filli Cane farlsm. ( a ) Cari, fì nui
vero ■ (l'an. li quii preibfter. Se Cau. E^ihrt>pani f. an. 1, Ctn.
Cleticut ai.qo.i.Can.Sannonun^o. dift.
Et YvoUe. «or. ep. i I. (}) Vide rap. 4. estri de renannsrione. ( 4 ) Vide cap. io. extra de rcauntutioac. So «€, (é) c 4 Collatore a cui apparteneva, Io
conferiva cogli ftcIG modi, come fc fofle vacato per morte, S'imrodufTc in
quefti tempi il riounziare, non per alcuna caufa urgente, ma folo ad effetto
che il Benefìzio fofle ccnferico ad uno nominato dal Rinunziante: (ò) e come
a cofa nuova convenne anche dar nome
nuovo, e chiamarla : Rejignatio ad
favorente imperocché è fatta fòlo per favorir il Rifegnatario, acciocché abbia
il Benefizio : c bcns'i in liberà del Superiore ricever, 0 no, la rinunzia ma non la può ricevere, fc non
dando il Benefizio al nominato. Quello,‘
febben fu un modo d’introdur fucceflìone ereditaria ne’Bcncfizj, c perciò
dannolo alfOrdine Ecclefiallico, riufci utile alla Corte, in quanto più frequentemente fi conferiva il
Benefizio, e ella ne riceveva maggiori annate. L’avarizia, e gli altri affetti
mondani infegnarono anche a molti d'impetrare, e ricevere Benefiz;, non con
animo di perfeverar in quelli, ma con
penfiero di goderli finché nc orrcneffero di
migliori, ovvero finche mettcflcro a fegno qualche dilegno di matrimonio,
o d'altro genere di vita: o pur finché qualche fanciullo pcrvenilfe all'etk, al
quale ppi potcfTcro rinunziare :coia, che dagli uomini pii non fu mai Icuiata; e fi tiene per comune
opinione, che chiunque riceve un Benefizio con diiegno di rinunziarlo, non
pofla con buona cofeienza ricevere i frutti : il che alcuni di più larga
cofeienza non vogliono dire cos^ ecneralmenie di tutt^, ma di quelli foli che
lo fanno con diiegno d'abbandonare
l'Ordine Chericate. Per le rinunzie ad fawrem riulccndonc emolumenti a chi le
riceve, la Corte, acciò il frutto fofle tutto Igo, proibì a’Vefeovi di ricevere
tali rinunzie, e riferfiò che il lolp Pontefice BLpmano le poieffe fare (l). £
perché molti Benefiziarii, quando fi
fentivano vicini a morte, per tal via rifacevano un lucceflore, fu ordinato per
regola di Cancellerìa, che non vaiefle la rinunzia fatta dal Beneficiato
infermo a favore d’uno, le il ripunziante non fopraviveva venti giorni dopo
preflato il conlenlo. (r) XLI, In quelli tempi pareva feemato il fonte
delle obblazioni de’ Fedeli : pa mentre
durò U guerra in Terra Santa, e durò per qualche anno, mentre
Zignooi, «cl quu> ie indignua rehttamio judjcsVII, conatur altendcre,
hoc fraterniraa nir re^udeo, quia jullum eXl ui in judicio, quod de K judietvit, permaneat, 0c fpoaUm quam rrpudiavit,
rivcnie iratre qui ei leeitime ipcardittaiia
eli, adultemc nonprztumu. YvoCarnot.ep.iri. .Vide cap. ). ettr. de renuntiat. (t) Bmlftmotu fulCamtmt jb, Apf*Mi, diti thf
avtnd» W*« «»• Vtftrvt amu* nftfnart il fmt l'rfttvat» ad ma fmt amira, V di’ Vtftavi »am valli aamuiiri la ma rifiraa, ^7 pafft nadiifi i» latim», U^maU(itama jUtafim diri iffm di malia tanfidrratiami. Tu
autem dìcquod, etiamfi non ad Uun (i«oatum Eptfeopuj Epitcopanlm traormilèrii,
iéd ad aiteuum, idcmCTÌT • F.piicopM
enitnaSyRodii fiendecreium eft. Et ideo
ctiom vita fun^i lile urhia Phihppi Me.
iropoUtanui itujiùtuu ^ lìiz Metropoli iiib bar cop diiiotic renoRtians, fi cju Occenoainin
nrtniPkilippi Metropolitaouin prò ie ipio iiiafta SyaodM comthiuerct, non edeiaudinui Mtiadiiiquod,
fi rciquai polì cleàMnrin ea Ecelefi*
«edinbiM acqeàrtt, non potrAdare, vel ed quo» volt tnnlinutere, inulto
m^uEpilVopanun. VideCan. ja.
Cotte. Caribag.Se aj. Antioih.di Can.
i,. Cwt.y.qn.) ( I ) ìteamda é Camamih, am ifitadavi aditi, ehi il Vafa, tha fifa efimtari dalla fimimia
■ Ve' di la Ulàfa ai taf. 4. racra de
pa^i, verbo iUt 8c poAea inlra vinnti
din, a die per iptun reUfnamcm {n^vdandi
(onknlut cocnpoiandoa, de tptii infima
laie dcceflcTji, ac ipium beneficrain coolìrrarur per relìgoertoneiB fic fadam, coILmio hapifinodi
nulla fil, iplumque brnrficiuni per
obiiujn vacare ceofirrtur. Vidi
Malia, ad hmnt tei. aa.h^ mentre vi fu fperanza, per quella caufa mole' oro
perveniva all’Ordine Ecclefiaftico; ma, perduta ogni fperanza, fi fermarono le
obblazioni ■' fu nondimeno prclo efempio da quell’ opera, e fu introdotto
il dar rindulgcnze, remilHoni, e
conceflioni a chi porgelTe, e conrribuillè
per qualche opera pia; c cotidianamente s’ idituivano nuove opere per ciafeuna Citch, per le quali era data
Indulgenza da Roma; partorendo quello molto frutto all’Ordine Chericale, e alla
Corte, che ne partecipava ; e ciò tanto innanzi pafsò, che nel 1517- nacque in
Germania la novith che ciafeuno fa. ( 1 ) Papa Pio V. all’etli noflra provvide
con una codituzione, con cui annullò tutte l’ Indulgenze concede colla claufula delle mani adjutrici, (a)
cioè, con obbligo d’ofierir danari ; cola che non ha ancora fermato il corfo di
queda raccolu- Imperocché, febbene le Indulgenze ora fi danno fenaa quella
condizione, indimene nelle Chiefe fono
mefie fuori le cadette, e il popolo crede
di non ottener il perdono, fe non offerifee. XLII.
Ma tornando a quedi anni della feifma, per quanto tocca all’acquiftar di
nuovo entrate, e beni dabili alle Chiefe, pareva che fède affatto perduta la
fperanza. Giò i Monaci non avevano più credito di fantith ; il fervore della milizia facra era
non folo intiepidito, ma edinto; i Frati mendicanti, che tutti furono idituiti
dopo il 1200. perciò avevano credito,
perche s’erano Ipogliati adatto della podeflò d’;acquidar dabili, e avevano
fatto voto di vivere di fole oblazioni, e limofine ; onde pareva che qui
dovcilc icrmarfi l’aumento de’ bòli dabili : Iti però trovata una buona via, la
quale fu il concedere per privilegio della Sede Appodolica a' Frati mendicanti
il poter acquidare dabili; il che per
voto, e idituzione loto era proibito. Molte perfone loro devote erano
prontidime ad arricchirli; nè redava fe non il
modo ; quello trovato, lubiio i Conventi de’ Mendicanti furono in Italia, in Spagna, e in altri Regni, fatti in
breve tempo affai comodi di dabili :
lolo i Francefi s’oppolero alla novità, dicendo che Cccome erano entrati nel Regno con quelle idituzioni
di povertà, conveniva che con quelle
perfeveralfero : nè mai lino al prelénte hanno voluto permettere che at^uidino;
( 3 ) dove in alcuni altri luoghi gli
acquilli loro fono dati affai notabili, madime ne’ tempi dello Icifma;
quando tutto il rimandate dell’ Ordine Chericale era in poco credito.
Tomt II. L Fu le iì") Li
frifmd ZMtm. (») Omne* fc Tinnlai
induT^ntiu, «tiamrer ftniM qu>HranufM Ko«um« Pootibc noAm, *c «um mm,
fiib cHBMde tenoribui, tc Satmis, ac
cum cUuiuIii, tt decrtfU, ac ex ^mbaTm
mia or. {cnnOimia canfii, ctiaiR caufa
radoi^ionis capti, xerem, 0c alùa
qimnoiiolibct coaceflaai prò qui. bai
coofaqutadit laac purrigendu sdfmtri.
ttt. Oc quu quftuadi facatrarem qunmode libet coatiftcm.... auAarktit apoAoIka, teoert
pr». fauiium, ptrpcao rwocaimu, eairooos,
irUTsinas, 6c aanulbuRM, ae vtribaa
facaàRHH. VII. Dtrtrif. tf. C|)
fsrummtt di Parigi, Ì 4 ÌU fma St0ri*
dei Ctntilié dì Tmu », um previTM il
dterH0 eh* jtrmttit MgCOrdini mnUh.
tmati di f*S*dwr h*m fmhtU, diend* eh *, tftmdpmi futi il netymti 1»
Trsnei* t*m mm'ikime» etmrmtit, wu trm etfm gimfl* iln** ^trU »l*rim*»t*i * td«
^mlU trm mnmntfitii U Ctrl» di Btmm, per tirmrt m li i hni dt’fm» Urti im pi r t e ehì fmtilm Ctrtt Imftim
primtrmmiemtt mt^Mìfimr trtdu» «'frati
raa fura vtit f**^t di ftvrrtà, ^ li fà
tnfdtrmr* emme ftrftni ebt Ma hm»m»
«iru* ÌMttrtS», fmMmt tmit» per rudi t
fri, fa wd * fi ftwt ftmhiUii n etmtttt,
tUm li mifimfm imi Itrt vttt, per dtr Urt U mt~ dt d'mrrieet^fi. Vedi U Cmifernim deil*
trdtnit^ Miti W. t. tif.j. pmrt.t.
pmrmg.f. 8xFu levato lo fcifma nel
Coacilio di Coflanza, avendo uno de* Papi
rinunziato, (i) ed eifendo (lati gli altri due (a) privati; e nel 1417fu
eletto in Concilio Martino V. (j) Speravano tutti che dal Concilio, e dal Papa
fofle polla regola a tanti difordini della materia benehziale ; e di fatto il
Concilio propofe al Papa gli articoli da riformar le riferve, annate, grazie,
afpetrative, commende, e collazioni : ma
ddìderando il nuovo Papa, e la Corte (4) di tornar a cala; ed eifendo anche rutti i Padri del Concilio Aanchi,
per la lungha a 0 enza dalle cafe loro, fu facilmente rimelTo il trattar
materia cosi ardua, e che ricercava
tanto tempo, al futuro Concilio, ch’era intimato per celebrarfi in Pavia cinque anni dopo : il che
molfe i Francefi a non voler alpettare
nuovo Concilio; onde fu per arredo del Parlamento ordinato che non fi predaife
ubbidienza al Papa, fe prima non fofle intimato, e accettato da lui Teditto
regio, (5) che Jevava le riicrvazioni, e ledrazioni de* danari perlochc, avendo Martino mandato Nunzio, per
dar conto al Re della lua elezione, rilpole il Re che l’avrebbe accettato con
condizione che i Beneflzj elettivi fofsero conferiti per elezione, e le riferve, e afpertative levate.
Il Papa fi contentò per all’ora; ma nel
1422», acquidati alcuni deirUniverfitlt a fuo favore, tentò di far ricevere le rilervazioni con
tutto ciò non potè ottener rintcnto;
anzi fu proceduto contra i luoi fautori con prigione, (d) 11 Pontehee mite l’ interdetto in LionC, e il
Parlamento ordinò che noti folse
Icrvato; (7) e durò la contela fino al 1424- quando il Re fi compofe col Papa, che Sua Samii^ avelTe
per legittime le collazioni fatte fino all'ora, e per l’avvenire foflfero
accettati tutti i iuoi comandamenti: ma il Proccuratore, e Avvocato Generale
con molti Signori fi oppofero airefecuzione; e rapprelentato al Re il danno
dei Regno, fecero andar in fumo
l’accordo fatto col Re In quedo mentre
fi fece il Concilio di Pavia, (8) il quale, appena principiato, fu trasferito a Siena, (p) e
fpedito con gran celerità ; (10) non
eifendo data in elfo trattata cofa di momento, ma iolo data jperanza che nel
Concilio da celebrarfi indi a fette anni in Bafilea lì farebbe riformato il
tutto : nel line de'quali lette anni mori
Martino, e lègul nel Pontificato Eugenio IV. (11) lotto il quale nel Concilio ^filenfe J431. fu (12) fatta la
provvifìone tanto neceflaria, e tanto defìderau a* difordini della materia
benefiziale : furono CittMUiì XXIII. Jgf* tjfrr fili*, $ def* ijfrtii fi*t» ftttmiuta
fjT (») Crum* Xll> •
Btntd*tt*^f^h l}) 0r«M CéUmm^ ert*t*
éUS.M**’ tm*i • tntii fftf* fm*l a«mi (
4 ) t'I * l» f"* CM* tfit é lm n t* t*tk» M Ctluilt* f' m awif t 0 ft, m*m Itiftgrtii im* dimuHAia»» U. Il fm tkimf*
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wr àmtM* irt sm* * miM.9*. O) D*l ttrmà
d*Uj. Wfdi UC*m ftnkt* étti* OrdiMSM**mi j
(« ) JUrtr* dtU’ V»rvrrJj4t, 4)1.
rono proibite le rifervazioni, eccetto de' vacanti in Curia*, furono anche
proibite iafpettaiive, le annate, e tutte l'altre efaziont della Corte. 11
Pontefice, vedendo che gli fi riUringevano la podell^, e le ricchezze, non potè
fopportarc; fi oppoiè al Concilio. Tentò prima di trasferirlo altrove, in luogo
dove potefTc maneggiare i Prelati: (i) il
che, ripugnando e(Ti, non gli potò riufeire, e palTarono molte
contefe tra il Papa, c il Concilio; alle
quali alla giornata gli uomini pii, inrerponendofi, trovarono temperamento:
finalmente cITcndo il O)ncilio rilòluto
di provvedere airellcrfioni de’ danari, e il Papa di confervarc Tautoriik, e comoditi fua, vennero a rottura
irreconciliabile. Il Papa ( 2 ) annullò il Concilio; e il Concilio privò il
Papa, e n* elelTe un’altro*, (3) onde
nacque feifma nella Chiefa. Fu accettato quel
Concilio in Francia, e in Germania*, e nel 143^. fu pubblicata in Francia la prammatica tanto famofa, (4) per
cui fi refiituirono reiezioni a’ Capitoli, e le collazioni agli Ordinar) *, e
fi proibirono le rifervaziont come nel Concilio Baftlienfe. XLIV,
In Italia quel Concilio non fu ricevuto, e tutti aderirono al
Papa., onde le rifervazioni prefero
piede : anzi ciafeun Pontefice le rinnova
lenza difficoltk, e introduce ancora nuovi aggravj nella collazione benefiziale*,
nefiun de’ quali mai fi modera, fe non quando fi trova modo di fare lo (le 0 b effetto per via piò
facile. IntrodulTero Giulio II., e Leon X. le rifervazioni mentali, che cos\ le
chiamavano, e con un altro nome,
rifervazioni in pecore *, ( 5 ) le quali non
fi pubblicavano come le altre., nè fi facevano : fe non che, vacando un
Benefizio, fe T Ordinario lo conferiva, o alcuno andava per impetrarlo, rifpondeva il Datario che il Papa
l’aveva in fua mente rtfervato : modo, che { 6 ) durò qualche anno, ma poi fi
difusò, (7) perchè tornava incomodo anche alla medefima Corre di Roma. ( 8 J Gli altri modi pa(Tar«no tutti in
eccenb *, imperocché circa le
rilegnaziont in favorem gik introdotte, e praticate, s* aggiunfe il rifegnare
folo il titolo del Benefìzio, rifervando a sé tuctTomo li. La i frutti Ut» vi fu m»i, dice MeiCrjy, tM ftrfttf fr» imi, ! i fmdu di putita SmntAjtmèUMi
imftrmtrki, ft d*i Un tmmtt i fmdti
ftttr$ ftmferr» tét vltvsm» f*r frtm* stU fmmmtmtà, fthntmd$ hrnmtMtt
pttirémtttm Is, tht 1 C*mciUt e ti {
tfU ^rimtmtt Ritmai*, ftr farfi Frtmua, td abbamdn^ fmtt il fm»
trema, ftr tffer f»f* • f" aitila
mill'aan» 1 43^ « ruamaftimra dalia framtia, dall' Aitmaarma a dalia jiMQwr farle deli'Oftidemii fi»» aita
maiitd’£mSiate ( dafa la ifmale efemdeS nvaiti i friatìfi dalla farle di SuiaU
V., fm aUligat» fané tea frirkiere, fané
tan mimane ad attaafemiiri mila rtmmtaae
della Cbiefa, tiamaajaad» al Pamtifiiaief
li tht feti nel 1447. nel Centiii» tb' ili tf^tjfameaie iratferita da BaSlaa alamfama
aag'i Svttjari, IXifa da ibe i Padri
lanfermaraa» l'eiaAtMf di HiteaU fatta dma anni utaamii a Rea» da'Cardtaali dal fartit* iT Smseait Amedea,
eh» aveva fref» il marne di Feiin
V. f4) Mexerty U cbiaau tl rifar» dalla
Cbiefa Gallitama. (O Ciri ternate i* futa. (tf) Giavaaai Smarei., Veftava di Cambra
ha fartiallt, fartamd» mel Camelli» di
Tremi» mtaraa alla rifirve mentali, U
tbiamb fmrn \ a dift tba fattUe fiata
mnlta lafnart al Fafa U eaJlatiana di
tatti i btaifiti, ì» vaeedi faffartart eb'ishdiffe fatta ad mm ftmfirr» mtm
rammairala, maa faiHirai», a fatava fimfiaamte eredarfi aaa ejfrr veanta al Taf
a, fa aa» defa la fmetefa vmeaata. faaU
fiar. dtl Carne, iti. t. tri La riferva
fkrtat frtibit» dal CtaeiUt di Trtat».
Caf.t^ Itila Rifatma. feff'.%4, . {t) La
faale davava faffartart egmttlara» eaairarietà, U effafiaitm dalla farle
ae’CalUtari erdiaai ). ì frutti d’efTo;
il che in eHIicnza non era altro, fé non reflar padrone del Benefizio appunto come prima che folTe
rinunziato, ma colìituen' dofi loio un
lucceiFore, il quale folTe ben in nome di titolare innanzi la morte del riminziante, ma in fatti non
avdfe ragione alcun^.- c ao ciò il nuovo
liiolare, volendo raccoglier egli i frutti, e aflfegnarli al Kinunziantc, non fi potdfe far padrone di
qualche colà, fu aggiunto anche che a!
Rinunziante non iole foTero niervati tutti i frutti, ma ancora egli porelTc efìgerli con propria
autorità. Non reOava al Rilegnante altro che lo facelTe diHcrcnte dal total
padrone, le non che, le il Titolare
folTc morto prima di lui, egli beni! relbva con tutti i frutti del Benefizio, ma non poteva più
crearli un fuccclTorc; c il titolo poteva elTer dal Collatore dato a chi
piaceva a lui che dopo la morte del
Rinunziante folfc liicceduto. Non mancò alla Corte ottimo rimedio anche per quello, il quale fu il
regreflb. (i) XLV» Ne’ tempi primi della Chiefa era un fanto,
e lodevol ufo, che chi era ordinato ad
una Chicla, mai in lua vita non iat eiava il carico, per aver Benefizio di maggior rendita, o di
maggior {a) onore : pareva a cialcuno aOai fare T uffizio fuo al meglio .* per
ncccfUt^ alle volte il Superiore, che
non aveva periona atta a qualche gran carico,
ne pigliava una occupata in altro minore, (*) e per ubbidienza U trasferiva
al maggiore: cola che poi fu per maggior comodo, ovvero utile, ricercata da
alcuni; onde la traslazione (a) inufitata fi fece ufitatijfima: e tanta era la
follecitudine di ciaicuno di crelcer in grado,
che IpefTe volte, lafciato il pofleduto, e impetratone un altro, riufccn
.. do r impetrazione viziola, rdlava privato d'ambidue ; il che cflèndo in
conveniente, l’ufo ottenne che, fc rimpctrazioue del fecondo luogo non poteva aver ritornafl'c lenza altro al
primo; (») c quello fi chiamava
regrefio. À TTriUTitudlnc d1ci6tu inventato di
conceder al Rifegname una facoltà, che qualunque volta il Riiegnatario
morilTe, o rinunziaflè il titolo, egli poieffe lenza altro riiornar al benefizio rilegnato, e con propria automi
prender di nuovo la pofTcffione, e farlo luo, come le mai favcirc rinunziato :
e quando anche non avefic ricevuta la
pofTcffione priiiia deda rinunzia, (nei qual calo il regrcHo non può aver luogo ) potefle per
accclTo, c ingrelTo ( 3 ) prender la
poflcllionc fimilmeiuc di propria autorità, lenza altro mini llero H) Intclkitmut, C.Caaonioo retereiK*,
ouoj tuoi tpiè L n (MilTeDt Eccldùiltta bcncEcù pernuj» r, ut taoieo lii»p>icniti ve.tu tnbiunif,
mandanuii a uaiciiu) coaUueiu prxiavium
O. uUier ‘uilfe eicf^unit amotu a
prtebeiula Tua crtnLingUineo ipliua L.
vei qoijlibet alto illicito deientore, e-in
ledicui &CUU1 eiticin. Cip. >. ulta de tctiun perimit.
(j) Cit^, eiur allei a. IcJ oicbie et propria^ ut ncc iJp-ò che, quando
fi faceffe che il Coadiutore anche fuccedeffc, ne nalccrebbc maggior bene:
prima egli farebbe più diligente, maneggiando cola che doveva cfTcr fua; gli
altri ramerebbero, e riputerebbero più come proprio, che come alieno; onde fi
fece il Coadiutore con futura fucceffione : cofa eh’ ebbe difenfori, c
oppugnatori. Si oppugnava con dire che
ogni fuccelfione nel Benefìzio Écclefiallico è
dannabile; porge occafione di proccurar, o defìderar la morte
altrui. Si difendeva col celebre efempio
di S. Agoflino, che da Valerio, fuo
antecefsore, fu fatto Coadiutore con futura fucceffione: il qual
efempio non ferve troppo bene, perchè S.
Agoliino flefso poi lo biafimò, e non
volle imitarlo; e non fi vergognò di dire che da lui, e
dall’Antecefsorc ciò fu fatto per
ignoranza. (^) Ma i tempi, de’ quali parliamo, non folo davano i Coadiutori con futura
fucceffione a’ Prelati, z altri che
tengono amminiflrazionc; ma ancora ne’ Benefizi fempHci, dove non vi
è a chi ajutarfi, in maniera che il
Coadiutore reila col puro nome, e non vi
e di reale, fe non la futura fucceffione; ch'è la cola cosi abborrira da’ Canoni. ( Dsl Cémntit, C*uf.T- U > H rjfw Vtf{» r fi tirdt tki CÀtdiMttfi m*M *r*i*«, ft ptrfém*
fiiftndiMtt, ttucr Ac Coc(4fro||'ut
Joinnei. ab hoc, nt oectflkrù cumpeccaii
«lirponeiuc IÌKÌinJuufuut ..... vien«iue
prclenti vobtt juiTioflc prsi ipimut Uf,
lervsn priuxi in loco KpttVopo mcBiutato revoren», quieti w» convenit
inculpibilucr cobi, bere, prbext»
obcJientum ConlLtufo coDipccentnn, in nullo dif)«fitionti)ui ejua rpiritu conninuci
rrfulianteii immo commenti vq;ihtiti« veihr (luJio c(uie prò EcclclMllifa
utilitste gerencU Conflitumt- otonueric
adimplenin i ut, hit iia dirprrntia, At
etmttttm vt^ìJ JfiftudÌA minifirtnimr.
Ac qujtcuinque in pixfaccfectdùe patruuonio, vel Si ufa de rebus ad cani perrinenrtbut
repeten.:» tunc necelTari* conipleaniur. i fermtifiMJM quMleht vtllq s' Vtfltvt. di dlflt»»ri
fHtfli C*»tmiér* ftt Ut» fqutfftriì t. ntlPHlMìtt flA ^tAXiA n* AfutTA TértfitmA, Vidi tl \T. O.Ce».?. I. S.Vé»Un» dkt Ut ttrmini ftrptaVt, firn fon» di C*Ad)mt»ris rr» aSat
firandinat»* i Noa auiein, da t»!i,
ranmiu line icribitnm gratdbndvm, quod Epircnpatiim Augudinut acceper», (èJ
qiod Kanc Dei turato uirruerìt AfricaiiT rrcleuc, ut verbe teleilu AiguRjni
ore perciperenc, qui ad wiJortQi
Ocunìniei muiient gramin ntvt mtrt
pro«ftu*, ita ronfecracos eJ>, uc non
futeedem in Cacbeiri Ei'ilc'ipo^ léd actéderrc. Nam incolumi Valerio Hipponedit
Ecrtefìr Coepitcoput Auguìhnus cA.ep.s7. num. a. Ae Cin. t so. r. Si tifava in quelli tempi da
qualunque Benefiziano, che voleva farfi
un fuccelTore indifferentemente, fecondo il divcrfo gullo, o fare
un Coadiutore con futura (ucccifione, o
rilegnar in favore di quello, rifervandoli i frutti, e con regreffo : ma peri
quello era rifervato al foto Pontefice, e per neffuna maniera conceffo ad altri
Collatori. In Germania il Concilio di
Bafilea fu da alcun ricevuto, e da altri
no; e per ciò diverfamente erano intefe le caule benefiziali. Per provvedere
alle diverlitk, e diffenfioni, nel 1448. fu concordato tra Niccolò V. e
Federigo Imperadore in quella guila : (i) che i benefizj vacanti in Curia
foffero rilervati al Papa, e nel rimanente degli elettivi fi procedeffe per
elezione quanto a gli altri i vacanti, in lei mefi foffero del Papa, negli
altri lei foffero dillribuiti dagli ordinar] Collatori; aggiunto anche, che, fe
il Papa non aveffe in termine di tre
inefi conferiti gli fpettanti a sè, ne cadeffe(z) la collazione negli Ordinar].
Non fu per tutta Germania ricevuto il concordato; e alcune Diocefi fino dal 1518. fervano il Concilio
Balìlienfe, che annulla tutte le riferve. Ma in prc^reffo di tempo anche chi
ricevette il concordato nel principio, reltò poi d'offervarlo, e G difendeva,
dicendo che il concordato non fu
ricevuto generalmente, ed ha perduto il vigore
per la diffuetudine in maniera, che (non trattiamo di quelle Citth dove
i Velcovi, e i Capitoli fi fono divifi dalla Chiefa Romana) anche nelle Chicle, che rellano l'otto
l’ubbidienza, poco, o niente era olTervato. Clemente VII. nel 1534- fece una
leverà Bolla,- ma ebbe poco effetto :
un’altra ne fece Gregorio Vili, nel fenza miglior fuc ceffo. E»m»
y»,ffj afart, farai d» gt.'efi* tr»r, fiver» jta aaert,,n iaefki d,fi*au feiameif' dm puaate
àt tammiae, e\i f^ij?dtti»i»lala re mette f at» f.^e ti huge delia tén
étdì^^^ tauame f t fartmm* tatii i
Seiufiai firmari, • gelati, thè
ufedatfamte^temf» delia Irte f rum ae
ifmelii ebt tem ftema^ alte dignità ta I narrali, Artiefìfti^U, ed £fiftofali
et» varan fi, > tilt vae^rénat per i*
4 Vtr»*er«. Utile ciiefe ìdetr^alitaat,
e CattrdraU, aia feetette èm me diat umn
it alla Sede Appidthea, i Mftdeaahri ebt
vi f»»a imnt.haiameate fe^tut, i'
eUtitai fi faranae Uitrameste, e fai feraitanpet' tate alla dell» sede, eUe Uiea^iemer», fe
fataant i»itaicit. £ et' àù^jteri tif,ie»
fine lev»» diatameaie faggettì, ed altri
Benifia.] ngrUri, ftt h guai* nam fi
fati! ruarrtre alla faataSede, gli Utili
aa» branma aUligati avtmra a Raau perita
lrra.tamftrmat.iana, a prev9tfiame\ aUrp ditpigiiii' fii lentjin ma» laderanni futa tafptuatne,
nè» hinfit.f dilla Uanaebe mam efeati
fati* l» difpafium ma éa» Umfm « Qgaata arti ahrilantfit.) feealari,
arnatarinaa eamprefi niile uftrve
effriffi di fefra, ma* imptdirtau eh* hitramemii aaa nt fi» Caliatati ardinarl, fmaada vailùraiiHa
ae'mtfi a» febbrai», ^rile, Gimgae,
Agafia, Qet^rt, at>ttimbri, t m*(i di Gaamapa, Mara.», idaeei», Lm» gtu, btiitmbii, e Nnembre, faraana rifttbaii
al fapa ; ma fe fmteedarà tba i aim^ai,
eba vatbm raaa» f» ^mefii mefi, man
fiea» fiati tamfenti dal Vapa mi‘i**m*fi,
eamiaeiaada dal giama della va^ r«u«
fepma atl larga del itaefitua, U CallaKÌaai niaraarà, a ad igni altra al fma le
fprttird la difpt'fieiomt. Ma awd»
gaefia ahima lameifìaitt aperta Fadna a malte Ini tbe aafervama di giara» im
gura» fra fatili elee UVapa avena ueirntdiuiimaaaet tl termnae ffirata di tre
mefi, e ameilitbeav»’ vaa» alienata la
tallagdaae dagUOrdiaarf, ipimU teaftrivaaa i bi»rjfz.t dal gura» im tm fpiravaaa
1 tre uefi, per ^r«vritir« leprattvifieaitìeeelP*' pa pattfie aver fatte verfa 1 fiat del termaan Or^ garie X(ll. fiee ama fiali» m data del prema
di Ha vtm br* ij6. tea tm iuftiarì eie
ìd Camtefieme di Papa Pftttal» V. aaa dava altmm Imàgf Oreiear), «> agli altri Cellatari di
difparrt forati i tre mefi de' beaefiat
ama vetta teweprep fette fmefià brttifa
teneijiami ( m» attriti thè fn V
awtnaire gutUì, tbe il Papa avrà prevnednti
di tfnrfit benefi».}, faranm» ttnmti a a fifaifitatelm lira impetranene a'CelLiteri atti» fpazia di
tre mefi, fimianaada dal riama
dtllav*eamKa fepnt» nr! h"« dtl
lr-'f%ìT, o n p^nil.ttrln im fuiiffi cefib. Nella Dieta di Ratisbona de! 1 ^ 94.
il Cardinal Madruedo, fi) Legato di Papa
Clemente Vili, fece gran querimonie per nome del Papa fopra di quello; nè apparve frutto. Al
prefentc rella ridcfsa varietà 9 e confuftone. La Corte Romana non ba^ le non
due rimedj .uno per mezzo delie ConfelTioni de’Gefuiti, i quali operano per termine
di cofeienza che i Benefiziar) provveduti da gli Ordinar) lì contentino di
pigliare le Bolle da Roma; e alcuni lo fanno: l'altro rimedio ufato dalla;
Corte, ma ne’Benefiz) importanti, e con perfone in parte dipendenti da loro, è, che, fatta una
eiezione, o collazione centra il concordato, la Corte l’ annulla, ma conferifee
poi elìà il Benefizio alla llcfia perfona : rimedio in altre occalioni ancora
gi^ molto ulato; non perchè giovi
neiriHelTo tempo; ma perchè, fervando quelle Scritture, le ne vagliene poi
a’tempi feguenti, per mollrare che
avelTcro ubbidienza, come tante altre Decretali, che non ebbero effetto:
lono però ne’ Libri Decfetali per lo ftelTo difegno. XLVII.
In Francia la prammatica > ebbe rigidi combatrimgpti da Pio IL,
(2) acquali s’oppolero collantemente il
Clero Francele, c rUnivcrfii^ di Parigi ; perlochè il Papa fi voltò al Re Luigi
XI,, e gli mollrò comò era dildicevole a
lui che nel Tuo Regno fi lervalfero i Decreti del Concilio Bafilienie, contra
il quale egli, eflendo primogenito regio, (*) c
partito dal Padre per dilgulli, andò con arme, ricevuti danari da Papa
Eugenio IV. per dillurbar il Concilio: alle quali ragioni il Re Luigi nel 14Ò1.
cefie, e rivocò la prammatica: (3) ma feguendo oppofizioni deinjniverfitk, e
rimollranze del Parlamento, le quali ancora fi
ritrovano, nelle quali rapprclcntavano al Re gli aggravj del Regno, c deir Ordine Ecclellallico con conto fatto
minutamente, che in tre anni erano
andati (4) per caule benefiziali a Roma 4. milioni dopo
tre anni la prammatica fu daU’illcilo Re rellituita. Se le oppofc
poi Siilo IV- c fece un concordato per
diftruggcrla, il quale fi ritrova ancora; ma quello non fu ricevuto, e la
prammatica reftò. Innoccnzio Vili.
Aicflindro VI., c. Giulio II. fecero ogni sforzo, per levarlafg) nè mai poterono ottenerlo,. fi» nt mtdfm Imfé di i di ihin*ndo mmlU, t
di nimns frZM, t VMÌ*rt tuttt t* àifftjiùeni, • frvvifiiti fsit
dn'fnddetii CfUdttn dif» t»l fmUlitntjdnt
; t fej^ndtndn U t«U*t»nt di tmtu i,
ed mjftf s ftuii iCeildferi rht
Mrdirdnned’infrsngere t* fi»* duki*rdti»ni fin (he ne Minae thitfie ftrdene *11* f*at* Sede, ^tufi* téli* di GrtftrU XIII. iimtjh* tbt
$ taf* ertJenó femfrt di fétte annutUre
j Ceneerd*U, e [li Mitéimdamenti (he fanne te' trintifi. fer non f**mdé le frtttmfitni dell» Carte
di Atm*, (he fer fre^tSene, e ftt mm
rertt temfe, fin (he féff*»* ferviefi
del lare diritta ta» intia it rym. (t > Zadewa, Nifete di Crifitfera
Madrnfria, C*rìn*lt yiftava di Trtnta, a
fma fnettfiera tm Viftevata. (!) Etti [Tidmv* gmirr*, gntrr*, iil({ue ad
«• filloa. xLvm.
(*) toQuif**-’ 9 p«rtl(o dal Psdn per di%s. fti; it tha né* f* niente mt frefefite. L'nmma 1461. »« [matta narft dat fma iUima. (4> ?a»Ulì. U [H*U fmtttfit *Ha, mandi
al ta Gìavanmi Gwfftdi ^ CmràirnaU,
V^eave dAldi, fer fatili vtr^ara la
riveeauamt dilla prmnmatka. Ha faffatm [mefia ri^aaitna nelCaklUtta, [nefia
CardiaaU travi nel Parlamenta Giàvanni di S.Rammna, frattutatar lemaraU, thè
vi fece e^fitàaae-, e ntermata a tafa,
PVmnerfità,tha pi nnifiti U fna affaUmmiana al futura oÌM, t fai mudi m farla regihari
maiCafitUeum Vtdi t'aediMag,tme di
Ladevka XI. dtl parmii^itf Srtttmdre
>464. mtUa Cemfemza dilla OadpeanJnmi bh.i. tit.f.far.i.farng.i. (S*) Imfiratfhi avevmma mm pamdigllmi
limmei (belli altri Prtarifi Criiiami,
ad delia Stantia, mm femfafftra m far
fttm ali,' amteritd Pafata tam fimli
frammatuht. Viir. Fiiulmente Leon X fece un concordato col Re
Francefco I. per cui fu annullata la
prammatica, e fu lUtuito che a’ Capitoli delle Chiefe Cattedrali, e Conventuali fofle affatto levau
la podeflk d'elegger il Vefcovo, e l’Abbate; ma, vacando ì Vefcovati, e le
Badie, il Re nominalTe perfona idonea, alla quale fofle dal Papa conferito il
Benefizio. Che il Pontefice Romano non
potefle dar alpettative, nè far riferve
generali, o fpeziali ; ma che i Bcnefizj vacanti in quattro meli deU’anno
foflero conferiti dagli Ordinar] a' Graduaci delle Univerfirìi; e i vacami
negli altri otto mefi foflero da efli Ordinar] conferiti liberamente ; che
folamence ogni Papa nella Tua vita potefle aggravar qualunque Collatore de’Benefiz], fe ne avefle a
conferire tra io. e 50. a conferirne uno fecondo la dirpofizione di fua S^tith
e fe ne avefle 50. o più, a conferirne
due : ( i ) e febbene neU'accettare il concordato vi furono molte diffìcolth, e
TUniverfith appellò al futuro Concilio legittimo, vinfc nondimeno Tautorità, e
utiliih del Re Francefco; e il concordato fu pubblicato in Francia, e pollo in
efecuzione. (a) In maniera che, dappoiché canti Pontefici dal 107^. fino al
1150. combatterono con fcomuniche d'infinite perfone, morte d’ innuraerabili,
(3) per levar a’ Principi il conferire i
Vefcovati, e dare reiezione a’ Capitoli ; per lo contrario Pio IL, e cinque
de'fuoi Succeflbri (4) hanno combattuto,
per levar a’CapitoU di Francia l'elezione, e darla al Re; e finalmente Leon X. l'ha ottenuto: cosi la
mutazione degrinterefll porta feco
mutazione, e contrarietà di dottrina. Hanno llimato gli Specolativi la ragione
di ciò eflere, perchè l'efempio che il Vefeovo, e'I Clero conferilca, tiene viva la pratica, e
dottrina univerfaliflìma della Chiefa,
contraria alla moderna : altri perchè fia più facile levarla ancora d^e niMii
d’ua Re, che fofle o di fpirito debole, 0 in bifogno del Pontefice, che da’Vefeovi, e dal
Ocro. Il Re Francefco fece molte leggi
ancora, per regolare il poflèlTorio de
Benefiz]; e il concordato fu fervato da lui: ma dal Figliuolo Enrico IL quando
fu in guerra con Papa Giulio III. per caufa di Parma, fu interrotta
l’cfecuzionc per qualche anno; (5) imperocché nel i55 etere di Freéné, dice il medrlìmo ia un «Uro lu(^, le Umverfiie, i Pérlememet,
e tétte ie ptreme dsHtee vi fi tfpefi'e
tem iémté tif rèm^ééte, pretifietiemi,
éffellét.'eéi el futmte Ceétilie. Tmttévié i« téfe e ime eent fm éK^érèe di tedtre siFéMerìti mfeimte, e di telifitéte
4 tenteedàte mel Fertééiemre. 1)1 Dm
armerie VII. fime mi IheeeeniJe I V.
ttei, rnelie fimeee di deigmte mméi feme flèti fette tmfermderi
feemmmùmti, tiei, FétueW.Eérke V.
Fedente I. FUiffe 1. Otteme IV. Fedetifell. e
Cerrmde f, (4) P4«I*II. SiJhlV.
léMettMàJe Vili. AJ^mmdreVl. e Gmliell,
il Dme* di Fmréem ere ftifimee fette U frettfeeme deUm Ftétteim, fer
fetet itfknierfi temtrm Fhmptrmdere, fme
fmettre, 4 fémlt Vetevm imfédremttfi di fwi Dmtete, teme mvev* fette il Viettéà», Il fepm eite 4 Dmei e Reme, e fei
l» dukimri riFnle, per mem tftrvifi
prtfenimte. Lléepermdert, U f»«« 4vrtr« nfveelìet» le fé, prife i» lè le fmmfm rPii4, e'I EediTtméfirn
fmèllé del Dite tentrm 4 Pepe, e F Impptpdere. 1550. il Re proibì che fi
riccvcffe alcuna provvifione de’ Benefizi
pjpa; e comandò che tutti folTero conferiti dagli Ordinar},• ma,
fatta la pace, il tutto lì compofe, e tornò Tofiervanza del concordato. Ma nel 14Ò0. furono tenuti gli Stati in
Orleans nella minoriti di Carlo IX. dove furono regolate le collazioni de'
Benefizi, e levate molte delle cofe
contenute nel Concordato. (2) Succeffero le gran confufiom, e guerre nel Regno; e fu mandato il Cardinal
di Ferrara (3) Legato in Francia, il
quale ottenne che fi foprafedefie nelle Ordinazioni d’Orlc.ins, ( 4 ) con
promeffa, che il Papa avrebbe provveduto efib a gli abufi, per li quali le ordinazioni erano
fatte : del che poi non fi fece altro;
onde al prefente il concordato refla : cosi fono paiTate le cofe in Germania, ed m Francia. XLIX.
Ma lo fiato d’Italia, che ultimamente abbiamo deferitto, fi è mutato in
gran parte, per la celebrazione del Concilio di Trento, il quale fece molti decreti in quefia materia, per
provvedere a gli abufi fopraddetti che dominavano e febbene dal Tuo principio,
che fu nel 1547. incominciò ad attendere a quelle correzioni, e fece molti
decreti, non furono però polli in
efecuzione, falvo che dopo il fine, che fu nel 15^3. perloche fi può dire che tutte le provvifioni
fi riferifeano a quello tempo. Fu
intenzione di quel Concilio rimediare a tre cofe : prima alla pluralità de'Benefizj; Iccondo alla
liicceflìone ereditaria; terzo all’
aflenza de’Benefiziati : c, per proibire ogni pluralità, ordinò che uno, eziandio che fofle Cardinale, non potelTe
aver piò d'un Benefizio: e fe quello
fofsc cosi tenue, che non ballafse per le Ipefe del Benefiziato, potefse averne anche un altro, che folsc però
fenza cura d' anime.* (5) proibì le
commende de'Benefizj di Curati advifam^ per efser un.i coperta di farne aver due : (rf) ordinò ancora che i
Monafieri per l’avvenire non Tomo li. M
folsc (i> dirns »*i fm$ eéifr»,
tktM*» fi» thr l* ftmminiftrrnfft dmnmr»
si ftr fsrmt l» gmtTTM m'frtsetfi; eh»
enfrf,Mt». t* fruhivM sjftlMtsme»» di
f»rr»r »r», m* srM R»im», 9 m saslfifi» altr» lu»g« eh» fifi» fini» l'mdhiduatm d*l P.tfs, ftf
dtfpenf», • altre grai.it, fette pna di
t»mif{ai.ttni^ agL £ ) « ^aefit Stati il deputate del Cl»r» dìfie, eh' era fiat» èfitmat», eh» ' Eeefia di
Lmter» era mata meli» fitf» ann» dii
Ceuterdat». ig) tpfelii» fEfit della
tafa de' Daehi di Ferrara, Ntpeet di Papa ^trfandreVl, (4) una delle guati prtthva di pagare le Aanate,
e di mandare danare altane a Rema per
htnefiny, e per difptnf». (f)
Quoouin muUi «,r-chiilct ( rr eii.ts obtiitenc, tog:^n(ur ott-oinu, quibuftuitique
frimnibut, c t>uin Icx u^nlium aimitrcre,
A( line o.ltnlenuitic», ac in t)«iibu|ue iterfjnja, ct^oi C d'àiKai-tu^ Inm-i'e rulKentiuu>. Invitm
h.leit ^ ]n 04 Ì)«.‘«>^iilqaoque eum
futura,i‘W^ 14 *. rd frimi thè
ritmmriareH» m r^veghart gii feriti la
yreffitt fureae tÌMi D«mrr.iV4«i
ifaruitali, BarulemmeeCaraKia, e
Drmnue Sete, i ijttali frexarema feritmcai» eia
l'all.' g» dt rtf diit è ór jure d vino. Ofi>iieHe tha il C.rediaal(jaetane, fariunate DemmUaHe, aravi
ftfirnuia aleam mani frinai la ^nalt fi dna
eh' egh mHie ^uande fi Vifteve, aeagieat thè a*» fi fa>t» atai a! fue f'.fravate. Nel teli" li'tro della (iia Storia del
Con. tilni egli dite (he i L>‘ati
Jeif'e lig-rre in mas lieagregatieee
eea.rAle uà» fritte, aea fui i !*•dri tran» fregali a riCfeudtre teli* fila
f*fela ptirtt, q phter, fi fi
éerfirarafe la rf^ldtmjt,a de jiite ditiiia4 e fh'iffiade Jtarr raeedte U rati, 6(. f arena di pia ex, de aea phtct.
ij. di plj«jii' ii».
llro, c >7, di non pia et, iw.t p .us ccAt-ito SD.N. j' g.''n >7
dif’cr.ie-redt!. iT.ftr ^hA It ibe Ji’unr, ^avJH I* ai'L.i-atue'tt ce jjre devntef
laJde-.t le i-, uja la l'.rvjw >a turte,
me w Hirettiari^-tai, ft il T,ifa fi ei-'teiiuva, £ ex-vfg-iaial ‘jae.e d:!hax>eai •atrè
afin metafifi'hr, le 1,t e le >j.nea lafiiava»* di ferieggiar egii.ilrmeate bear il Pafa. (6) l'soto Giov.c», diceoto il (uo pi-ere
nel C««ipcFjff, »•»•« velia u, evale,
teli « tVrew rr*e.’-J :'«• vrei-'eae
nJ-ferata teme mae ffmd- temtra il fafa, quandi eie avrffe tinti a fti>vta,
ftr rei,att leale delle lera atieai, e
della Ì»re D.tiriaa, emme aveva fatta ma Arrivefiev* dii plana eeatra l'aele HI. th'tgh temeva aeelie thè aitaat
Vefeard aea xe'.iffiit tei favere del
)U» Divinuni fetttarfi dall' mhbtdientA
del l'afa, da teu daiadevm Viemiaat della Chtefa, ma thè velevm aeae dir
lare (he ^mefie fartiit ma tfamf'V thè
dareidiina 4*C*rat!, fer fitmelrre ilgieg* l^iftefait 4 feribl, ejftade ì'ajlpri uamtdiatì, freUmdertLlmaa, thè U
late greggia fftUafie fih ad rfì, ehi al
lere Veftevei endt fai la Oer4ri.« atila
i.htfa ira^nmerelrhe ta Aaattkia. Stcìia
«.et ConciUo tmbe le parti foflenuta lopinione con grande ardire. Lacofapafsò
alle pratiche; onde dopa 14. mefi fi comandò bensì la refidcnza, ma non fi dichiarò però quo jure il Curato folTc
obbligato : folo furono aggiunte pene a* non refidenti; (i) nel rimanente
furono le cote lafciate nello flato di
prima. Quelli però che fi trovarono nel Concilio, e hanno lafciate opere fpezialmence di Teologia,
hanno foficntata la refidcnza de jure
Divlno^y pafiando tant’olrre, che raffermar il contrario l'hanno Rimato un deludere la facra
Scrittura, e la ragione Refia naturale, (a) c tutta r Antichitk.’ ma, per non
irritarli la Corte centra, hanno ritrovate delle eccezioni, per le quali il
Papa polTa farvi delle difpenfe. Delle rifervazioni, punto principaliffimo,
le quali erano crefeiu te fopra modo, il Concilio non parlò, perchè toccavano
la pnmria perfona del Papa; perlochè
anche rcRarono, anzi furono poi accrefeiure. (*) L.
Pareva che con aver levate le unioni, e commende etdvìtamy ì regrefiì, e
le Coadjutorie, folfe in gran parte provveduto, fe non al tutto, almeno a gran
parte. 'Fu però trovato dubito un rimedio, che non folo fece lo RelTo, anzi ne fece un maggiore
de’ quattro fuddetti ; e queRo fu la
penfione. E’olTervazione delle perfone pie, che in queRi tempi mai la Corte non fi lalciafie indurre
che venifie annullato, e corretto un
abufo lucrolo, che non ne aveflc preparato un maggiore, e più utile ; ma in queRo è ben certo effere
cosi : è però da fapere che non è cola
folo di queRi noRri tempi il metter penfione fopra i Benefiz); folo è nuovo il modo, e la
frequenza c propria de'noRri tempi. Quando i Beni EcclefiaRici erano in comune,
il nome fu inaudito; dopo fatti in Benefizj,- la Regola, o il Canone praticato
da tutti era, che i Benefizj fofTero
interamente, e fenza diminuzione conferiti.
Dappoiché i Chetici diedero principio a litigare, quando U caufa
era dubbiofa, cedendo una parte fe
ragioni (ue, le le concedeva una parte
deir entrate con nome di penfione: ( *) ancora di due Benefizj quando l’entrace non erano uguali, fi rifarciva
quello che lafciava il più ricco con una penfione* (T) Apprefib ancora, quando
alcuno hlegnava IJ* M 2 con rut a (KroCinàx Sywlt meoee ahmo* trahancur.
.. . Jalarat làcTolanàa SynoJua aannei
Patrurchatibni, PrinwiaUbua, Meirofoliunii. ac Catheinlibua Bcdcfì» che lenza caufa alcuna il Papa può dare
pendone lopra qualfivoglia benefizio a
qualunque perfona che gli pare*, e colui che riceve eziandio fenza caufa
veruna, ma !per fola volontà del Papa, in cofeienza è ficuro. Una volta fi teneva due benefìz)
Curati*, uno in titolo, l’altro in
Commenda*, ovvero fi univano ad vitam*, e il Benefiziato era co(fretto a
ftipendiare chi ferviva in uno d' elh : al prefente il Benefiziato fa dare a
quello il titolo, e a sè la pendone ch'egli ne cava*, la qual cofa è di maggior fuo vantaggiò*, perchè una
volta era (oggetto a dar conto degli
errori che il fuo Softituto faceva, e aveva pur qualche ncceftìtb di penfarci
*, clic cosi niente ripofa fopra lui, e l'utilith è fifteffa. Similrnente chi
faceva un Coadiutore, 0 rinunziava con regrelTo, doveva aver qualche penderò del bcncdzio di
cui aveva parte*, e poteva tornare tutto fuo*, ma rinunziando, rifervaiafi una
pendone, refta libero d’ogni cura, d'ogni penderò*, e fe il Rjfegnatario muore,
o cede, a lui non importa, U quale la
fua pendone Ubera, c lenza
faftidio. Ancora è molto piu
utile aver pendone, che benefizio. Prima molti Benefizi ricercano TOrdinc
(acro, e l'ctb di poterlo ricevere; per
la pendone bafta la prima tonlura, e Teth di fette anni. Anzi le pendoni
fi danno a’ Laici* come per Tordìnario a’ Cavalieri di S. Pietro, iftituiti da Leone X. c a quelli di
S. Paolo iftìtuiti da Paolo in.
a’CavaUeri Pii, iftituiti da Pio IV. e a quelli di Loreto, iftituiti da Sifto V., i quali podono avere, chi 150.,
chi zoo. feudi di penfione; e a tutti quelli a’quaU vuoi darle il Pontefice.
De’ Benefizi, anche ne’ tempi che fe ne teneva più d’uno, vi era fempre che
dire : era necelTaria la difpenfa, che
pur faceva fpcndere : con tutto ciò i
Dottori mettevano in dubbio, ;le chi 1 * aveva ottenuta era ficuro
in cofeienza. Delle pcnfioni fc ne
poflbno avere fenza fcrupolo in ogni
numero; e non vi è penfione incompatibile. Si può dare la pendone con autorità di trasferirla in un’altro a
proprio beneplacito; cofa che non fi può
fare ne’ Benefizi fenza paftare per li termini, e per le cerimonie delle rinunzie; c le rinunzie non
vagliono, fc non fopravvive il Rifegnatario zo. giorni: la pendone fi può
trasferire anche in punto di morte. Quello
(•) vide C«p. ex parte it. ex»*, de ofCcio )udkit ileSeg. et ibi FcJio. oiim. i.Felin.
ad Cip. »d audiemiam. num. i. extra de
refenpe». (^) Vide RcbuC traó. de
paciticu oudi. mo. DuareD. de Bene&c.
Itb. 6. top. 4. Coni (acerd. paraph.
i. cap.,. num. la. et Joau. Davean de
penltooib. beuefic. psg. SI.
Cap. per tu»i, «irra, de doiuitonibux.
(* ) Cap. ce multa, in fine. extra, de prsbeodu. DÙveun de renfiunib.
p.l^. Digitized by Google MATER. BENEFIC. 93 Quello che
foprattuto importa è, che la penlione fi può ellingucre ; il che in Italiano vuol dire farne pecunia
numerata; e ogni contratto fatto nel
Benefizio fi reputa fimoniaco. Eftinguere la penfione non vuol dir altro, che ricever una quantità di
danari, per lilxrar il Benefiziarlo dal pagarla; la qual quantità fi tafla per
accordo, fecondo la maggiore, o minor età del Penfionario. Non vi era gfa
innanzi 1 * età nolira modo di fare d’ un Benefizio danari con un ti ; ciò
farebbe fiato con affefa infinita di
Dio, e degli uomini: adelTo fi fa lecitamente, lo ho un Benefizia di aoo. feudi; lo rinunzio ad
Antonio, rilervandomi una penfione di
loo. la quale, immediate ricevuu, con 700. feudi io efiinguo', ciò è la
rinunzia', e così ho del mio Benefizio fatti doo. feudi contanti lenza peccato.
Sono alcuni poco penetranti, a' quali pare che quefto circuito non fia
rifieflb, come fe vendefli il mio Benefizio per 700. feudi ma mofirano ben d’
avere groHb giudizio. Malte altre cole fono nelle quali i molto piò comoda la
penfione, come fi ulà adefib nelle
unioni. Commende, Coadjutorie, e regreflì. Alcuni, magnificando la comodità di
far danari che il Papa ha per li bifogni della Sede Appofiolica, dicano che, fe
aprifle i regreflì, caverebbe quanto voleflc; e mofirano di non intendere la
materia benefiziale. Non avrebbe per quefto quattrino.- i molto piò utile, e comoda la penfione perciò
fu facile efeguir il Concilio, perchi tornò
anche comodo ; ma il levare le Commende da'Monafierj, (2) che parimente
il Concilio comandò, non è fiato pollo in efecuzione fino al prelente ', (3) anzi molti, che erano in
titolo, fono fiati di nuovo commendati',
non elTendofi trovato modo di farlo con comodo. La penfione non può efser impofta da alcuno,
falvo che dal Papa ; cofa di grande
emolumento alla Corte Romana. Quella
mutazione ha fatto in Italia il Concilia di Trento-, il quale, non avendo trattato delle nfeivazioni, ed
eflendo quelle anche crefeiute', e ogni giorno crefeendo, reftano bene cinque
felli de’ Benefizj d’ Italia alla
dilpofizione del Papa, con buona fperanza che il fedo che rimane fia per compire l’intero. Per le regole di Cancelleria fono rifervati
al Papa tutti i Benefizj che fi
rifervarono (*) Giovanni XXII. e Benedetto XII.; e in appreflò fono rifervati tutti gli ottenuti da qualunque
perfona, efsendo Minifiro di Corte,
febben dopo folte ulcito dell' Uffizio. Sono ancora rifervati tutti i
Patriarchati, Arcivelcovati, Vefeovati, e Monafieri di uomini, eh’ eccedono il valore di dugento fiorini d’oro-,
(») e ancora tutti i Benefizi che fpettano alla collazione di chi fi fia, e
vacano per la ceflione, privazione, o
morte del Collatore, finché il Succeflore avrà pigliato pacifico poflelTo .- ancora le dignità
maggiori dopo le Pontificali nelle
Chiefe Canedrali -, e le dignità principali nelle Chiefe Collegiate-,
(ò) i Prio (I ) In^trtffliì gufili, i
jmì gli «frrrri^Mw, rt i» C*mmmd», fétrwuu tffrrxi BM t >t* fDtrtiitmt ftTMÌrt, M Imfttsti.
Or» i* pi» à» ttnt' »m»i i dt'ytftivt,
t dt’ i ftpTMttmttt im «vrvM* mtfi ì»tii j BtmtjUf iw i dm it FstUmiMt di t»rigi h* ftw^é C»mmtad»,
tth im tln «m impidit§ di ricrvrrti,
»veff*rt «vari lid dmt, « tf» CtmmmdjttMr) i td (t) Ntt r»p.tt. d*lU rifttm* dt'Rr*»ÌMfÌ
d*lU i» tpuft^unt* fi trmtv» €b'tr»»»
XXV. fitétt »tlU MMttMfdnu dtU'srtuti* fritti »d tfftrt ta Ctamiad ». aattitdtiitt. (’*) Vidi l» R^ri» di,C»a€tUtria
d’IaimtwaJà ( 3 ) Jmftréttti la Ciati
di Rama, fiacri f*ltù Riitla i. le i»
difiiaùaaì, di dhi^hinfa ibi fa ro; o
perchè fieno partiti; o perchè il Cardinale fia morto: ancora tutti i BeneBzj de’ Collettori, e
Sottocollettori; tutti i Benefìzj de’ Cortigiani Romani che muojono in viaggio,
quando la Corte cammina; lutti i
Benefizi dc’Camerieri, Curfori .* (a) olirà tatti quelli Benefìzj, che comprendono tutti i principali, e una
gran parte degli altri, It riferva il
Pontefice tutti i Benefìzj di qualunque lotta che vacano in otto meli (h) dclfanno, lafciandone a gli
altri quattro raefi folamente; e ciò quanto a gli altri Benefìzj non nominati
di fopra * Oltre a quelli ancora lòno
rilérvati per Collituzione di Papa Pio V. tutti i Benefizi vacanti per caufa
d’erefia (i), o per confidenza ; (2) c tutti
quelli che non faranno conferiti fecondo il decreto del Concilio di
(3) Trento. Chi metterà infieme tutte quelle
rifervazioni, [ritroverà che almeno
cinque felli fono del Papa, e un fello di tutti gli altri Collalori
inlìeme. Per render le lodi a chi fono
debite, non è da tralafciarc la diligenza ufata da’ Pontefici Romani, per non
lafciare che i Vefeovi, e altri
Collatori de’fienefìzj, delfero luogo ad alcun abufo. Mai non hanno permeflò
loro il poter unire Benefìzj aà vham\ nè parimente il commendarne ad vitam : non hanno permelTo che
potefièro difpenfare fopra la pluralità
degl’incompatibili; nè concedere regrelli, o Coadjutoric con futura luccelfìone
: e ufando l’ ideffa diligenza adelTo, non
concedono che pollano imporre penfione, eziandio minima, fopra il Benefìzio
: medefimamente non ammettono che poflano ricevere le ril'egnazioni ad favorem
: anzi ancho nel ricevere le rifegnazioni aflblute, che (ono date antichildmamence nella Chiefa
ufate. Papa Pio V. nel 1508. (a) Rigti» ••‘t».. (*) 9.
(t)Omma Se iln^U beneiUia Eecl«(uftici.
rum (Ora, et due tura, recularit, te qunnimvit Or(Ìmum, ctiam S. J niiraln ma)ore$, rulia, prioratus, pi», potininr, prcpofiunti, dignitites, euam ronvennMJo,
vef oiHcia eciam ciaullralia. ac hafpttaha,
le pr jcceptorLc, ordiiuuioni ScdilpeaiàuoQiAOllrjr, At lèdU Apoftui. bac perpetuo
valicari(on0ituttone. audontaie apojtolica. tennre prarientium, reierramut s
Dcclsranrei emnet Ac quafeamque impeCTitior.et de beneikiii, quomodocumque
quabiic&m, in iumrutn iàcieudas Ac obnneiidat, beneli(ia buiufinodi,
propier iurreiltn vacaniia, At in fufurtim vatitura. non eomprcheodere, niiì
fpeeiaii. ter vacuionu mndui propter
crmxn hsrelìt exprciTui fueric. Oteretul. iet,?. rir.ii. )U Ctfittut**»* ) dii mtft di (a> Ad siires noftru perventt ut
nonnuliiaon vereanrur. .. . beneficia
CècuUria, Ac regularia in cMijUrnMD». qaam
liinonuciin pravitaccm fapere ignorant.
accepure. Ac retinere. Nm ne • burnì,,vel
potila deiiAum tupiftnodt ukenui pr ny
Jiawi, ceUrì mneJio pfoviJere ro!eafrt $
ptooinunnn omnium cognkioi>nn oubiii Ai SueccfToribu» nnAra Rom.
Pontificibut refervaDtef, omnn Ac iijiguJa r««>tdrfirijr«M
bafulKiodìcauùs. per no» (ùmmarie.
limplkiter. Ac de plano ad«tiendat. toguofcendis, decidendai. Ac totaiiter eaequendas, ad noi avocamuii decifìoniqucAc
termifutinni per boi ftipcr illts fiactendx lUndum, accjutei'cendum, Ac odidÌdo porenduen et obedientium
tbre. lUtuiinui, Ac otaiinamii. DKfit.7-tit.
IO. cap.io. rj) Noe, ad quorum
nonriara pervenir, noonnJlof ex venrr. Irarribui aoilrii, ArchiepiCcopis. Al F-pircoptt. oceurrenre racatione
paroebialUuta Ectletianim. «s ouljo, aut
djiaui rite (ervato. cxtmine, prcl'eniui
lUÓ qood per coacurfoin fieri debet, CI
OmciJio Trideitrifto. veUuam riceter^
veto, neribnii ininui dicnii. camilititis. aut ahum liuirunx palTìonif a^*'tuni. non
rationiiiu. deciunt fequente»,
cuniitUAct volcntei bujurmodi^ flc rtiam
iunuii periculU octurrere. auOoritate apofiolita, tenore orgifcniium. emnet Ac
fingulai collaxtonct, proviuonct,
inlliiunonei. Ac quafva dirpofitioneti
parochieliam Ecclefiaram ab eirdem
Epifcupii, Ac Archtcptlcopis, acquibufirìseliKCoU iuurilma, prarter, Àc contra iurnum ab
eodem Concilio Tndemino ptjrkriptsm,
iaOai, aat infiiturum fiictcnilaa, Bullai. irnrM, ac nulliua robori» {ore. Ac
ei)«, dcternimut. Se detUramui. ealqiie
crRines fix cecantn nortri;, Se Sedia Apc^
flohee dilpo^inni rctcrvaiuua. ì^idm re.a 15^8. proibì fotto gnviflìme
pene a tutti gli Ordinar;, che, ricevuta
la rilegua d*uu Benefizio, non potefTero conferirlo ad alcun confanguineo,
alfine, o familiare del Rilegnanre* avvertendo che nè con parole, nè con cenni,
o altri fegni folle loro dimoArata altra perfona a cui il Rifcgname defideralTe che foffe fatta
la collazione del Benefìzio. (l)
LI. Si afferma coftantementc da
tutti i Canon irti, c Cafifli, che ogni
patto in materia benefiziaic è firooniaco, rjuando fu fatto fenza participazione
del Papa; ma con Tuo conlenfo ogni cola lìa legittima; avendo per coffame
quella univcrlale propufizione, cioè: il Papa in materia benefiziale non può
commettere fimonia*, la quale non ai troppo
buona edificazione al mondo*, Icbbene i più modelli Canonìffi la limitano,
diffinguendo effere alcuna Iona di Emonia proibirà per legge divina, c altra
per legge umana*, aggiungendo che il Pontefice è elente folo dal commettere la fimonia proibita per
legge umana ( 2 ) ma con tutto ciò
inciampano nelle medcfime difficoltà*, perchè quello che non è male di lua natura, nè proibito da Dio, non
merita quello nome*, ed è fuperduo far
una legge umana, per non offervarU*, e chi mirerà Tinterno, c non fi farà
prcielio colle parole, vedrà che tutto è
proibito da Dio.* c certamente non fi può dire che in quella parte, di tenere gli altri Vefeovi in Uffizio, il
Pontefice abbia mancato*, cd è (lata
grazia divina molto grande fatta a'Pontefici, che abbiano potuto tener fincero
da fimonia il rimanente UeiU Chiela ^ Icbhcnc nofv hanno potuto Rendere quello bene a sè
meciefimi, nè alU loro Corte: c le un
giorno, come vi è Ipcranza, ( 3) entrerà penfiero in alcun buon Pontefice di riformare la Corte, larà cola
facilillima il farlo, col Iole ricevere anche per sè quelle leggi che fono date
agli altri Velicovi*, c potremmo
afpettare in breve una coA utile nformazionc, quando f adii, azione non la tencP'e lontana, col
metter innanzi a’PonccDci, che, effeado
eglino in pofleffo, almeno in lulia, c in altri pochi luoghi, di non dar loggetti a regola alcuna, non è bene
che le ne privino, (4) e facciano quello
pregiudìzio alla Sede AppoRolica; eh* è il contrario appun
(O Cav«»nr tpire>'{ii, ìtecmjue o«tin« tffSam, PrxreiiMìgrci. Oc
Ì*jirr CKiin.t, ne ip!ì bpfcoi'i, aut
aUiCollatoce», de bcscfiuis, Se o;1iui«
te^fnanJiv, sut fui», aurjdmtnentium enpUn^ineu, eilìmbat, vel fiUDÌlianbu»,
etùm per lillà. em riminum inuliiphrata»
rum in eztrsneof cullatifìnum, auCcnt providete ...... .i(iijne, camdiu.fiili'cnfi
remaiteant, dvMX *e*tii(liofle:n K(Hn.roDtittrit»U ì tn'dMim dii 4' itfriUlfòt, ( ») ) Is dtìUCUf» ptlrMfi rum p-idem 4. vetb», llltcns, e*»ni de
pacrt, U i figiit* d.t tulli gi$ orr4XfM««i.Kt
d$ F«ia.3(l eap.ea patte t». lum. 1. extra, de oC fino jaditi» dckg'ti. mini mn, td n fami marra ni Stimdi t Mibi Mufkiu» CruLilìzu» cA, MjiiJo, Gm Ut.
m't. 14) tmfrriffht Im Carli di Kimm kt
0JÌiHt» ptr faad.imrmtmU, iln il mm i
il hdriu, na fjUmtmie il Drffitmiii
dt'.l'uHlirih tÀ Pnt-,ftm’i, ! lU im
tinfi;"t’>t.i mam fmì, •Ittiimminti, me vilidmmmte ttdirmi ftr
^mmlf^ TUgiimt virmm diruti. àppunto d^Ia dottrina profdTata dagli
antichi Santi Pontefici, e Dottori. Ma dalie cofe di lopra dette è molto ben
chiaro, fé il Pontefice Romano abbia
pieniflima autorìtk fopra i beni, e fìeneifizj EcclefiaUici^ ficchè non fu (oggetto ad alcuna regola nel
maneggiarli; imperocché, procedendo con
ragione, fe la Chiefa di ciafcun luogo è padrona debeni che poiTede, perchè il
dominio è fiato trasferito in lei da chi nera padrone, prima colla permifllone
del Principe, il quale colla legge le ha
concedo T acquifiare; refia che i beni medefimt debbano edere nel governo, e nella aiuminifirazione di
quelli che lono deputati a tal carico,
prima fecondo la difpofìzione della legge; poi lecondo le condizioni che hanno
preferitto il Donatore, e Tefiatore, anteriore padrone; e finalmente lecondo
che la Chiela, latta padrona, ha concedo;
non però contrariando alla difpofìzione di quelli da* quali ella ha cauia
.* e quefio è tanto chiaro, ed evidente, che non può edere medb in dubbio, fe non da chi o non ha lenlo comune;
ovvero nel trattare, e parlare, non
fegua quello che interiormente fente. I Cherici fono fatti amminifiraiori di
quefii beni per leggi che hanno concedo a'CoHegj Criftiani il poter acquifiare fiabili; e per
lì tefiamenri, e per le donazioni di quelli che hanno lafciati i beni loro ; e
per 1’ autorità che la Chiefa ha data ad
efli Cherici ne* Canoni: adunque cfli fono .obbligati a governare, e dilpenlare que*beni fecondo le
leggi, dilpofìzioni, donazioni, e dìlpofìzioni tefiamentarie, e fecondo i
Canoni; e quello, che in contrario fofle
fatto, non fi può chiamare, le non ingiufiizia, ingiuria, e ufurpazione. Dicono i Canonifit, che il Papa fopra i
beni, e Benefizi Ecclefiafiici ha pienifiima autorità, ficchè può congiungerli,
fminuirli, iltituime de' nuovi, darli ad
ttutum^ conferirli innanzi che vachino, impor loro « fervitù, gravezza, e penfioni; (i) e
univerfalmente che nelle cofe be nefiziati la volontà del Papa è in luogo di
ragione. Non balla quefio, ma*
aggiungono che il Papa può permutare in altre opere Ì ( 2 ) legati ài pitts
Càufes ’ e *pnC) *kcorBr« le dtfpofizioni de' Tc datori, applicando ad altro
quello eh’ elfi avranno ordinato ad un o(>era pia : e non (i può negare cW quefia fia la pratica che ha
mutato tutto il governo, c tutti
grifiituti vecchi: ma refia lempre in dubbio chi faccia male, e (e errino gli Antichi, o i Moderni, le pure
vi cade dubbio. Martino Navarro con
alcuni de'Canonifii piò moderati limita quefia
propofizione, che il Papa po0*a commutare T ultime volontà, rifirìngen
dolo, «•« tìft, $ 4»l t ft mtr*»t Jitt
iW « Tfli iti* tht il Tuf* «»■ i, tk*
il {fi* natmraU ) ibi dà ttt» \»Urt. fi ri»
fruKtfU tifftitfélirf, 1 rè* U tiMiim ì mmm r*m th* ftr uffmm» fU
vi diu»»* MfféimtAMnn rutmfiM *t
difftifsrtrt ^ bc- ÌMa»* AVtf$ mt»» d' f«tikìn*» cletuliK''rum bonoruoì, dit'nli, fjrÌMnd» dr
y*- vt b», fe »»» U \ emaft il rni, fr*
i ^mslt ttmfmdt tl \mfm mtdefmt, dm ifutfiA Itfgt, ^tund» e%h aUia mwolw dt
f*r» iuQt dir['cnÌs(Oiei. tei prof
unrores.. .. aJ té. O^a, ftttnd» S Pé»l«, i Xliaifiri di (Jtii Cr S» fatnreni autem rcuuifkur bona iù'e,.. .. «m
hsmM aUia AmmnAifiTAx»«i*4, f* mtm ^mAl ite. ATt 7 Or4 lA Umiià, f ad DUtuni. *««
Qfitfruru, Àit» tà ftf. qu In Ec clcfinnun mm. 44. Eim de ConiUcuctnmb. nipecht
benc6cioriuii (U poteftu Pipar, mn
reljpeftu bonoram ip6ruin ficdefiinun tecni.
Unire non PO smttrs fìi èà$$, 4*
€Ui k* uittt im, fhi mm nvr«M« «A tuaA
tmnt tu mìl* lei», « fr'mn. u, ft Rj fU
ftgtu tmfrriti r DitUtmrmmimé ì'h» U#*»
tk* mmi ni dtlU t^im* tk(f.z ni Ji fmitim tkt hm mUmmémmrm, fff d*Bt»t,Ìx.ii * fht f'» fh mkn m$
uff. dt U4t ds Im si CtUsnu m mm ^cu»
dt fkfktff». i,t ( 4 % l.Csmn^, mm
ttmttmti di dmrt e pmfm •t*s ftfr» tutti
fUUmmm, t'ìmn ^ M* sfU Amitit. Vtdi Ftitmt u
quell’ autorith, qual’è la cagione per cui i fuoi Antcccflori di mille,
e piò anni, non l'hanno mai efcrcitata;
nè alcun antico Dottore, nè Concilio, nè Storico, nè Padre, nè Canone, ne ha
pur fàtta menzione? Non fi può attribuir
ciò all’ elfervi più bifogno adelTo, che in quei tempi, imperocché ne’fecoli che pacarono
dall’Soo- fino al Iioo. per 30a anni i
difordini furono cosi grandi per tutta Europa, che, in comparazione di quelli,
i prcfenti Ibno tollerabili; e pure neffun Pontefice dintromife m^am daU’altre Chiefe, eli quali
avevano tanto bifogno d’ rifere
governati. E ancora dappoicHt i n cuml i icim ii w i Papi ad intrometterfi in
qualche parte, ncfluno prcfe mai, fino a Clemente IV., cosi ampia,' e alToluta
podefili anzi lo fielTo Clemente non ha direttamente pubblicata tanta podefiì;
ma trattando altro, e quaC incidentemente.- (*) modo, che non fuole far intera
pruova, poiché le cofe incidentemente dette in un modo, diretumente
confiderate, ed efaminate, bene ipelTo fono in altra maniera efpreffe. Nè meno
fi può dire che ^uefi’ autoritk ferva a
bene; imperocché per quello pare che fieno
fiati introdotti quali mtti gli abul!. Di qua fono venute le Commende,
le penfioni, i regrelfi, le unioni, le rifegnazioni, le afpettative, le riferya
I* tb* bmmtt9 imfitmt tutti iS*MÌ. Ma^eftì dù‘ tflt, ittàQritw Hfipa. (]utfn S*nA»nun. ftr vuétn (•fru fin «fmtd*t» Im
prttmfitintht iu.it fufut éiijiltt
UPudmt» ài tuttu • terr»,
l*fiir*UC«mm$ittMrmà'Ìm u ef m *M IV. ftfrm il Cuf t. kitn de voto, devoti rodempt.iM
umtjl» ftttnfimt i ii mfi tm fmfmtmt» du
Ftfmuuiu K»« futi libai. Cdotromf.
iUHA.ctp.hi. « àuGfttJ» tut }. d$i fu»
Mire iibcrum. («) Tibi date, dira
O'aii- Cnjfc a S, Fittr», tUves regni
csloruni i Et quodcunvjtie ligaveni
tHper cctnsi, ern liganiai et in c«lu. Maer.ié. ($•1*. Quorum rcmlfentu peccata «
ramituiiiar all et quonitn minuerina,
menta lóm. Jaamd ao. ^tr U citavi dtt
Eejor dt'CitIfa imtiadtrt a $ ^trrrr, eia mn gh dà fl mammut pmnfduàam ffiritmala, attafa ria il fa* Wagaa
i C amamtt ffirttmak. Regnum memn non
«A d« Mniido. Juan. 1 1. ti tata luipta
MWi è MtitpCH ralc. C*) ArtiraUta. gmaft.ì. (*) Vedi Partitala jf. r taDHratata di tt malta ammatautai. lifervazioni, le annate, i quindennj, e altri
modi, che nelTuno difende, fe non
il'cufàndolì colla corruttela generale de’ tempi. Reità ancora una terza dubitazione non meno
confìderabile in quC' ita materia, ed è,
che di quella autorità cosi aifoluca, dappoiché i Pontefici hanno principiato a valcrfene, i
Regni CriHiani Tempre ft Tono doluti, e loro hanno fatta qualche oppofizione,
come nella Storia di Topra fì è narrato;
ficchè i Pontefici lono (lati necelTitati a moderarli. £ la moderazione non è
fiata condeTcendendo elll a laTciare d’eTcrcitare l'autorità prctelà, ma per
modo di tranlazione, ufaro nelle raVioni non chiare; concordando co’ Regni, e
per forma di contratto rk ìolvendo fino
a che termine la podeflli loro fi flendeire : cola che non s aVrebbe potuta fare in pregiudizio
de’Succeflbri, quando foflfe nel Pontificato oueU’aurorit^ cosi lil^ra. Papa
Leone X., per levare la prammatica,» il concordato*, e cos'l egli fleiro Io
chiama nella Bolla. Non concorda chi (i)
ha una pienilTima autorità, ma tratta co’Sudditi come Superiore, e per modo di
conceflìone. Non To forza fulla voce, ma
Topra tutta la cola ftelTa. Non Iblo Leone la dimanda Concordia y
(a) ma dice ancora ; Iliant veri
contraHuSy Ù" obligaeìonis inter Nos, et Seder» Apojiolicam pradidant ex
unoy Ò" prefatam Regem ex altera partibus legirime initi- Dimanderà alcuno
che ciò fia dichiarato; Eflendo il Pontificato Romano in differenza col Regno
di Francia, pretendendo il Pontefice
d’avere affoluta autorità Topra i Benefizj, per rifcrvarfcgli &c., e pretendendo il Regno, che l'autorità ila
de’ loro Prelati, foraiano due parti
litiganti; e per impor fine alla controverfia, fanno un contratto legittimo di
obbligazione, con cui dichiarano qual debba efTere 1’ autorità dell' una, e quale dell’ altra: come
potrà dir alcuno che la pretenfione del Pontefice fia legittima, e chiara? Non
pofTo dire di Taper riipondere ad alcuna
di quelle difficoltà; e rimetto al giudizio de’Savj, fe vi fia qualche riljpofia: dirò bens^ che,
lervando quello che per più di mille
anni è flato lervato, che i beni Ecclefiallici fieno amminiflrati in ciateuna
Diocefi da’Mintflri proprj, fi fugge ogni difficoltà; e Te gli elempj ci debbono iflruire, laranno
meglio, e più fruttuoTamentc diTpenlaci,
che ora non Tono. Nelle tre QuiTlioni (*) prime fi è trattato de' fondi, e beni
ftabili Ecclcfiaftici : ora rcfla la
quarta, dove fegue il trattare de’ frutti, o
delle rendite, ed entrate di quelli. 1 Santi Padri, che hanno
Icritto innanzi la divifione de’ beni in
quattro parti, tutti concordemente hanno detto, ì beni Ecclcfiaftici efler beni
de’ poveri; c il Miniftro Ecclefiaftico non aver altro potere in quelli, falvo
che di governarli, c diTpenlarli fecondo i biiogni di quelli; dichiarando non
Tolo per ladri, ma anche per lagrileghi
quei Miniftri che fc ne vaìeirero per altri ufi, fuori della loro iilituzione.
Non maneggiavano tutti gli Ecclefiallici i beT omo II- N z ni ; c (t> > ftfft M guita la divifione, S. Gregorio, che fu poco
piu di 100. anni dopo, e S. Bernardo,
che fu quali mille anni dopo, efclamano gravilTimamente centra quelli che fpcndono in mali ufi
l’entrate de’ Benefìzi, come con. tra
perfone ufurpatrict de'beni comuni, e uccifori de'poveri,i quali dovrebbero
eflcr follcntati da quelli, {a) Cosi fcriflero tutti i Dottori fino al 1250.,
quando s'incominciarono a trattare le cofe piò fotcilmente: e tenendo per cofa
ferma, come da tutti i Vecchi era fiato detto,
ch’era peccato IpendcTC malamente quello che fopra vanza al
moderato bifogno del Chcrico, fu
ricercato fe i Benefiziaci, non fpendendo negli ufi debiti quello che fopra il
bifogno loro avanza, pecchino folapiente come chi fpcnde male il fuo, o pure fe
anche, oltra il peccato, fieno obbligati alla refiituzione, come chi malamente
confuma quel d’altri: le efii fono
padroni de'frutti de’Benefìzj, o, come le leggi dicono, ulufruttuarj,
quantunque pecchino mal amminifirando, però non
fanno ingiufiizia contra alcuno, nè fono tenuti a rifarcirc alcuno, poiché
non hanno mal governato quel d’altri, ma il loro propria ma fe
elfi fono dilpeufatori con fola podefik di ricevere i loro bìiogni, che
la legge chiama ufuarj, (^) quando non
«U^mioao.rettamente, refiano con '
obbli. ( I ) ijfraia U Ctitf* iivntut»
riee» ìm CafitsUi ut fffradB i t i Vtfttvi dijtraiti ialU r«r4 dtlSt ttft f» •rimato dal CaBùlia Caittdantnft, ih* i Vtfttvi
ifiitmjtr» a2t*nam», faniò tura dtllt rndiit dtUt laro Ckieft. Quomiin, diet in noBouli» Bccleiiii Eplfcopi abfque
Occonora» tnéUfiT rn EtddladKU, pltcuit
ooinctn Ecc(«Jìitn Epiftopum habeotem «x propjio CJero Of. conomum qut!eo ret cius liilfipemur. Se ptubruin, ac dedetuf
Cucrdotio iniiramr: fi ameni hoc non fecerit, eom diviob niam Cononibua
fiibiict. VideCan.ii*CnnctU Nit^ni u GU £ù traat thiamati VicediMnini, tono* fi
vtdf dat Caaoiù Volonuii a. et Diaconum
J. difi. *9. i ^uali ftnt tavati da $.
Grtftria. KircdxMMi dt'nftovi, duo la V*rromiama, fi thiamavaaa tmt
Stgmari è ituali tra»» Vftar) it'Vtfttvt ntUa ttmftraluà àPlara V^tavan, M Sknari dtll» ttrra. l*; Vide Nooiocan. rhotti, tit. la cap. i.
8t ibi fialzamon. (a) 0» thiama^afi il CWijò if'Prrti, r
do' Dlatami. Tatti iFafari p fartavaao
a f» C*f>' Uri», affiuilt} fU
ijAmmaHf, t fei m jaeifit la [ma
Ttlavtnt allaÌ,»afTr^aiMa* giatraU, tUì, a
tutta la dt'Ftdtli. ( 4 ) Cuoi
BOSf diti S.Gr»i»ri» A4, j. dtUa faa
fafi. amm. aa. neced'arU indif^niib”'intnillraiMut, luailUireddiimu, jui'(jirqucp«iiitdd>itum,
quatu miièriciRdÙE opta, implemot. Cm^
94-:.^* mai dtaaté il ntdrimtnt» afmri,
nei rrmdiam.* Ura tà dt Uro, i facriama
fia tifi» ma' tptra di pmfiitia, fhr ma
aftra di «i^r«riÌ4 ■ Perciò dietro
Cantore dice rbc i Stmefiuau a*» [anma
lata Uatefima, frfiamda lor» afifimta, arttfótbi rii ehi donamo »«a > di Itr», ma di Gita
Crifi», il rmi fstrimamta aoamiffian» im 9 « 4
netur Epifcopui duan nuanai ad miniu diftrìbaere ia pau[ unomembro.
fciijcer, Clero, a uli coaununiq^, quia
jaai tubet propnas pr» bendat loro fux
poninnii, reminem bona epifio« palla
cooimunta reliquia trtbua tu, quod p;itiperitma remaneat debita quaru portio,
de Eecldùeitbricc fimiliier lua quatta pórttn. Camamat. a. a. }«. ilf. art, 7. ia raff. ad qaafitanam l. Sì
aurem, aU'tgii mila ttf^a alla fttanda
faifi. redirua Epifeopi untureti, ut rationabilitcr
amareat quod non quali prebenda fibi
refpondetr, led quia pater di paupenim, iRÌnit ranta bona lux funi fi. dei romnimt, ut diflribuenda ..... ita quod
£pi« (icopui taiU male dirpenfaiu, de
illi od quot hxe perveniunt, teivei^tur
ad reilituuonem orni urnil. In^m f)ti«
puuicnbut, vcl Ectlefij* dcbemur.R*.
tiotubiie lUtem videtur quud, fi abuitdanter redi, tut ex eccl«nafiici( dRÌm», aut
poflcfitonibuiroR. ftant, «ommilla line
Erilcopii, ut pitribut pauperum.... PofleSìoaei aurem lepre, aatdonatx Ec. clcfix caibedfìtU in ranu abundanria,
proculoubio tTcdendum eli quoti ut patri
piupermn Epifcopo treditx fiiDcideo enim
Epilcop» datx funr, quia occutara fide
perlpjciebiiiif eoi effit pitres uupe.
(*) Neepum, dit’tfli, propterea quod Papa ha. bet picnitudincm oorellatit Ecclefiaftir*,
^boe poflit de bonia Ecclefix dirpqnerej
quoniam plenitudo potcHatit Ecciefiailica; intelliKìmr in ^frinii, libi» uiitum .... Unde ita tcnentur ad
reniiutio. nem qui a Papa bona Ectlefix
fra lihita fafa ha. buerunt, ut
ditcotur, exaltennir, de magnifircn. cur,
Cià tarea fUramaatt il Iftfatifmta, ataadaama
faraaalaatata la Dattriaa dt'Qaaanifii, i ^mati dira» uà eha il Fafa fai dart i Bemfit) ad nurum,
« a. fu. a. dUa tba papa p«c. rat monaliter, fi vult rei Eeclefialticas
confiimere in turpe* ufiu, vel dare
Contàniuineii, ut eoa dìvttes prz aliit
vel ut ipfi con&nuoc p Io erodo che lenza una Cottile difputazione fi
poITano risolvere tutti I dubbj
occorrenti in quclU materia: e primieramente, per parlar a parte di quell’ entrate che per li teflamenti,
o altre loro originarie iHituzioni lòno dedicate, e ordinate a qualche opera
pia, io credo che fieno cosi obbligate a
quella, che lo appropriarle a sè, o ad altri ufi mondani, po0a efier chiamato liberamente
ufurpazione di quel di altri : e Ce alcuno de'Bcncfiziati Ecclefiallici refia
di efeguire le ifiituzioni delle quali ha cura, applicando a sè, o ad altri
quell’entrare, non credo che pofTa Cotto
pretelle " t,• di non elTcr in
pari grado ad a se quello eh’ è laCciato
dal il quale non ingannerà sè Ilei altro canto il debito vuole, che chi è
Cervito paghi la mercede all’opcraio, il quale polla fame quello che a lui
piace : nè può efler dubbio, che il Cantore, l' Organica, e altri uli che
fervono la Chiefa» non fieno padroni
della mercede che perciò hanno. Non è incovenientc dire che anche i Preti, c
altri Chcrici, per li fcrvizj che preflano
alla ChieCa, debbano avere la loro mercede, della quale fieno
padroni: e quando un Benefizio e
ifiiruito con un particolar obbligo di lervirc
in determinata coCa alla ChieCa, come fono molti Canonicati, manfionarie,
( 4 ) Prebende Teologali, e altri tali Benefiz;, non è inconveniente dire che
fia mercede di quell’ opera. Sono cos^
antichi i Benefiz), ch’è perduta la memoria della loro ifiituzione; e però non
fi fa, Ce aveitero obbligo alcuno, ovvero no: ma anche l’uomo di coCcienza Car^ ben
certificato, quando confiderei^ la
quantità dell’ entrate, e il fcrvizio ch’egli prefta alla ChieCa;
perchè, le quelli due fi bilanciano, può
credere che il Benefizio fia un luo faJ.irio; ma Ce l’entrate avanzano di
molto, non potrà mai in sè ftcITo
fingerfi cosi lemplice, che creda tante entrate cllergli fiate Ufc late
per fame quello che vuole; c non Cappia
clCer nccclfario che riftituzione
portalfe Veco qoftlche obbligo; non elTcndo veriCimile che per lui
lolo tanto folTe aflcgnaio. (è) La
conirovcrfla tra ì Donori; ch’è difficile,
dilputando in univerfale, da riColvcrc; è faciliflìma, e Cenza
difficoltà, dilcendendo a particolari; c
la coCcienza, a chi non l’ha per propria malizia foffogata, (i) fui panicolare rilolvc
facilmente tutte le difficoltà ; (e) imperocché Dio non ha lafciato incertezza
ad alcuno che voglia camminare fecondo i
luoÌ conundamcnci. (d) ì di
quaiiivogua icuia, o colia, ictiiam ogni
elecutore di tefiamento che applica
Tefiatore ad altri : e reputo che ogn uno, [fo. avrà per collante quella verità. Dall LUI.
(f ) Minfjonjnu», Ourfrit HtlU fus imttr}t*t*u*m* it'nmn titiffimpin,
difilli tft orti». * (onterraior acdium
EccUfiiftkanim, te»pl^ inni, «c
»lf«riuin. l«»n. et domeftì tu» • mtnfinne. Hodi* in nmltii Etflcnis Mwnt. curitnquf pÉilmodi*, fi «luriuBi hsbene OmJil r»fi*m$[liM m»ii» *1. ) Iniqua, iùt il cHn In decima nm in novo
TdUuicRto, fi ultra hooorabilc fiipcndiiun MiniArorum Dei, fuica lenun
aEAaeflón uni depueirerur cam ditnno
rotiiu populi. aifiae patri poupcnim CMMwu.a.a. «mr. M uff. »d ». (* ) Ck' > (!• tkt S. rirtmfft l vrnra nrrtMjmjfiun,
ventoiem Dei in injulUiin detinent. X*».
i (e) Intcllcfiai ben» ocnnibui fi^ientibui eum. Pu.tio.
(d> Deui «nim iUit nuniieiUTÌc IUin.i. LUI. Quanto a gli acquifti nuovi, ogni perfona
prudente avrebbe penfa. io che foflero
al fine, ovvero almeno che poco più, e aflai lentamente fi potelic acquiftare.
I Cherici, i Monaci, e le Milizie non hanno
più petfona che porti loro divozione: i Mendicanti, che gii hanno avuta
facoltli di acquiftare, non poflbno fperare d'efeguirla dove non 1 ’ hanno potato fare fin ora; e dove hanno
acquiftato, fe infieme non hanno perduta
la divozione, poflbno fMrar ancora qualche aumento, ma molto leggiero : quegli altri, che fi fono
fatti deludere dal privilegio che il Concilio di Trento ha conceffo a tutti,
dell’acquiftare, come 1 Cappuccini, coniérvano la buona opinione per caufa
della loro povertà: laonde, fubito che
mutaflèro in minima parte il loro iftituto,
non acquifterebbeto ftabili, e perderebbero le limole. Adunque pare ebe non redi modo d’andar più innanzi. Chi
vorrà iftimir Ordine con facoìtb di
acquiftare, non avri credito: chi lo fari con vera mendicità, non può fperar acquifto, durante quella; nè
'credito, fe la muterà. Ma con tutto ciò
non è mancato anche modo proprio, e fingolare al noftro fecolo, c non inferiore
a tutti i paflàti; e quefto è fiato l'Iftitutp
de’ Gefuiti, il quale, profeflando una miftura di poverrà, e di abbondanza,
colla poverrà acquUla il credito, e la divozione ; .,e ha 1 altra mano capace
di pofledere, la quale riceve quello che la Compagnia acquifta. Hanno iftituite
le Cafe Profefle (l) con proibizione di poter poffedere ftabili; ma i Collegi
con facoltà di acquiftare, e pofledere. (z)
Dicono, e bene, che neflun governo femplice nel mondo è perfetto, ma che la miftura è utile ad ogni cofa: che
lo flato di poverrà Evangelica pigliato da' Mendicanti ha quello mancamento,
che npn fi pof-. fimo reggere con quello,
fe non i giù incamminati il numero ' de
quali non può effer grande : ma effi ne’ Collegi ricevono, e iftruiicono
la Gioventù, e la rendono atta, dopo 1’ acquifto delle virtù, a vivere
nella poverrà Vangelica ; pcrlochè U poverrà è bene lo (copo, e il fine loro effenziale, ma accidentalmente
ricevono le pofleflloni : con tutto ciò
è meglio fermare la credulitì fopra quello che Q ve. de in effetto, che iopra quanto lì predica in
parole. Sino al prefente fcrivono elfi d’ aver Cafe Profefle zi. c Collegi zpj.
dalla proporzione del qual numero ogn'
uno potrb conchiudere, quello che ila
loro effenziale, e accidentale. Certo è che gli acquifti fatti da loro fono
grandilfimi, e che camminano ancora verfb l'aumento. Siccome il temporale tutto’, che la Chiefa
poflede, viene da limofiae, e obblazioni de’ Fedeli, cosi parimente la fàbbrica
dell’antico San• tuaiìo ( I ) NtlU
fmali U Cm» JUmit. ttm éiktv* uG*mtrMlL*ì»*t.
(s) Ifmdt fim$i ÌmàM% f«t «MMfwr* wutti
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MttUtmtélmtntt, tStt. tJuU ùdiév» mkt» i Gtfmùi, * e*mt imt» Vtmftrmtk'i un
ftn» «Mi jf«ri »m*ti Vmnxi»t $ (tm ft (In il Urt IHttut,, fi» autmfmtkiìt etti MUMM. t f» MM itìU
firn ftrti r»timù ìIh »U*ii il Ehi* 0 #M«
mI C*ritM»l Jì Git)^0j il yiMr
fMteitsv» il Ur» r 'utrm» um «M ttetfiv»
frtmmrs mtir»m»* 1607. « (à eh* U b*
fti ffirit*, « dtfitfni. mtMt di tkt fi
\»»U I» mm G«v#pm, vt tute* fs tmief!,
*d etti imftrt» per etrt» editai di
Stmto, eii* i Ireti, i twtuif i ftfUi tuario nel vecchio Tellainento fu fatta di
UmoGne, e di obblazioni. All'ora quando
fu offerto dal popolo quanto ballava, e tuttavia le obblazioni continuavano, i
Ibpraflanti alla fabbrica ebbero ricorfo a
Mosè, dicendo : il popolo porta troppo per raperà che il Signore ha comandato.- e Mosd fece un bando, che neffuno
faccffe pià offerta al Santuario, perchè
era flato offerta quanto ballava, e di piùtonde (d) fi vede che Iddio non vuole il fuperduo nel
fuo Tempio; e fe nel Tellamenco vecchio,
ch'era mondano, non volle tutto per li fuoi Minillri, meno lo vuole nel nuovo.
Ma dove hanno da terminare quelli
acquilli’ Quando s'ha da dire tra noi; il popolo ha offerto più di quello
che balla è Alf ora che i Minillri del Tempio erano la 13. pane del popolo avevano la decima, e non era
lecito di paffare 1 (r) adefe lo, che
non fono la centefima, hanno forfè più della quarta pane. Non è conveniente che Taumento de' beni
Eccfefiallici fia inlìiiito, e lìa
ridotto tutto il Mopdo ad effere afiìttuaie. Le leggi umane tra'Crillia. ni non hanno determinata la quantità de'beni
ad alcuna, perchè chi oggi acquilla,
dimani aliena : £' molto Cngolare uno flato perpetuo di perfone che fempre polfono acquillare fenza
mai poter alienare. ( i ) A'Leviti nel
Vecchio Tellamento erano date le decime, perchè erano l'eredità di Dio; (d) e per ciò era proibito
loro aver altra parte; (e) cofa, che
conviene a chi vuol valerli de' privilegi loto, pigliandoli tutti, e non quel
fo|o che conviene al proprio profitto, (a)
LIV. I E' flato abbondantemente detto come fieno
flati aoquillati i beni Ecclefiallici a chi foffe commeffa là loro cura; e come
foffero difpenfati. Non fi è parlato niente di quello che £ faceffe, quando
alla morte del Benefiziano fi ritrovano alcuni de' frutti non ancora difpoili,
fe egli per tellamenco ne difponeva, 0
fe «è inttfttn pafiàvano in altre -.
petto. $ 4vvitif(tn» vhs lUtntiét, t
BiW f rsmtM. (») Obt^tfnint meme prnffip*tffnu «qtte devota
firimitÌA» Domino, ad facie^idum ofui ial>er. fàacuh ««ftimaiiit t ^ntcquel «id raltom
neteditttim «rat «tri cun nialieribiif pr»buctrMa M mifmrs eh* il Ckr* fm\ KtddCsni fui Traicaco della Politica di
Trao» eia. id) Ariff, dir* Di* ad Arem, da hù
tfuar ànttiàuumir, ét oblau iunt Dotruno
.... Ooioia obiniio, et ehi, dk'e^li, m mtdtjumt f*mt U trntft r utm,
• U tmm nZlirÀ. It>l. emmf.tm. fw.i. con fiJcnuQ, lènza che vi folTe alcun ordine,
o legge che ci& concedcfTe ; ma fempic con qualche mormorio, cosi degli
eredi del Prete morto, come anche delle altre perfone, per le lèvere
eftorTioni che ^cevano i Collettori, e
$otiocollettori, i quali mettevano in
conio di fpo^tie eziandio gli ornamenti delle Cbiefe, c davano
molta molellia a gli eredi, anche fopra
i beni acquillati con induftria, ocavati dal patrimonio; tentando di farli
apparire come cavati da’ Bene6 zj; e io dubbio di qual qualità foflcro,
fentenziando che apparteneffero alla Camera; e travagliando chi loro fi o^oneva
con Icomuniche, e cenfure. In Francia
l’ulb aveva introdotto che le fpoglie de’Vefcovi, e degli Abbati lì
applicalTero al Papa : ma nell’ anno 1385. (*) Carlo VI. Iq proibì, ordinando che gli eredi
fuccedcflèro, cosi in eflè, come ne’ beni patrimoniali > ( i J In molte
Regioni fa l’ ufo introdotto, e continuato lino a quello lècolo ; quando per 1
’ eUorfìoni de’ Collettori crebbe cosi la querimonia di molti, che alcuni
ebbero ardire di opporfi apertamente, e
negate che le fpoglie de’ Chetici morti toccaflèro alla Camera del Papa :
Perlochi nel 1341. Paolo III. fu il
^rìmo che fopra quella maceria fece qpa Bolla, dicendo che alcum curìoli, ( a )
per ufurparfi 1 ; ragioni della Camera Appollolica, e defraudarla, mettevano in dubbio fe i beni
de’ Prelati, e di alme perfone Ecclelìadiche, chiamati, Sfoglie, appartengano
alla Camera, per non eRèrvi alcuna Coflituzione Appollolica che glieli applichi
: febben dall’ aver mandati Collettori in diverli luoghi apparifee chiaramente
cOcro fiata mente della Sede Appollolica di rìfervarli, e appropriarli alla fua
Camera : per tanto dichiara, e ordina, e
collituilce, che alla Camera Pontincia ( 3 ^ appartengano le 1 ^ glie
é. Otltitt.. Ó.) OrJùisuétu >
riftriis »IU iifiaf fart. ). luI.farlun'.TH. ar. tdm fittifm tlU t «»• fkMms, ft't ih^riu fmtln «• Jl éU4 Jtll* iJltrSni, $ d*lf4 tfif^fertsàUì
rW TMifutmtt. ^od iptcwnabik, et irrauopabilc
exiftit, Ikci deiure.ufa, Accoofuetu.dine, Ac rommunt obrervantia notorie
obferritii. £piln>pÌ5 re^i noftri
teftari iicest, Ae in IbU reftamentu ft^utore» ordinarv i qnt prediAi ex*cutorv*>
kìtrm ipforuen EpidujB (afiu ereniunt, per iudicei i Ac ntEriarioi noilroe cocBpelluBiur, A(
cocnpelli conl^aeruat. Et cam ita Est, zdiÉc», le poJTclKonea didonim
adiEcieoim Epiftopaliiun in Qain non
dcloniu pennanebuat onni ruins carvnen.
Anatm. bboc> ^un Bpifeopum in recno noltro ab lufc migrare contingir, Cotleaaroi,
sut ^bet^ledoret uumni Pontiiina tn
provinciù, quibui iub&Qt hujnfiaodi Epiiropt, ipuiu fiimmt Ponriiitie
auAonute, bona moWia, tnmobtlit, «x
^ceiTu talium ^iftoponun relìAa, ctiain illaoiij«r fuiot induQrum
quaiìeraK • que aoipliiu ipfbnim EpiEopo
un ncquecanfeanir, iéd ad (boa bereder,
aiu comcn «aecutota rpcàaói, capiunt.
.... Notum i|itur kcimut, Acc. (
a ) Km i ^rfi titt» emrùfitm, *mmuU fi Lt
« fart fM frntnpmi trttfivaf
Carta di Sjms à* prattft tamta taft, rie fimsimtnta ì fimta tmtfisna
dma»darU U rrrU. X# imtrapTifa da* «pi
kmmffaffa ftfimui trimaipi « pmdar
Taratj, r %U UanNor datti m fmndat la
ptaaa, far liufiifitart l'armi. Cuoi a aonnuUir nimìum curìofìs, qui |u*•-
OmiiiM Apafiilw uiiarpara, ac Caineium pr«fiuam illta detraudare vdleni, in
dubiom reniga, tur, an rei. Ac bona,
nur-ntpata. Prelatorum, catcraronqoe perióoarum Erclefiadica’ucu, iècuIariiLm, Ac rcgularìum, Mmpore obhua
iptò-, rum rananentia, ex to quod Rom.
Pontifici, Ac Camere prsteu rciervaii
fore, aliqoa gencraJi i^ftolica
cooftituriooc fbrfin non caveatur, a4
Camcnin predi Aam jure Iwititno tMftare Aeperlinerc debétne. Noi, età wu
evidcatcr conibrc Ac appareat,
prsdetsBonun noftronim Romao, ponnneum,
Ac nollram indubiaro intentionem Ac
voljtuatem faaper fuifle, ut haidaKiiti aa diebun Camerarn CpeAnreocAc ^rrinereiK,
Acquod prò eadem Camera eiigcrcntur, Ac
mqperaikm cur, mai Pnrrdeeenbm pnciiii
divcrCa difiortim fpolioruu, ut ad
Csmerapt rpcAanrìum Ac pertincimuin, Coltedom, Ac Exa&orci in variu pròvincili
Ac loctt depataverint Ac rooiiituerinc, Ae
noe depatavertmut Ac conlbnierinuis t ac (ftnper de tlUs diài PrndeceiTotei per picrai'que
liter», lantnam de rebua adCanMram
pemneoribut, dc^ naoM, vel
craoilgendodifMAieriu, Ac noe di^ofaerioiga..,. dubrua huiolinodi enucleare, ac
ia pt«
que qatlitat», de ejaamitam exiftentu, aciaqnibufrii regionibui, de
regnii, ae doenìniù, uni citta, quain
oltra montei, de maria coadQeotia^ per
quotTÙ Clericet, tam (ècatarei, qoatn tega,
larei, dee. ex negonaiioae tlticita, aut aliai contra (icrot caooaei
quomodoiibetacquifìta, ad eamdem CaiDcram, de non aliot, etom 10 quiboC vis CathedraJibiu, etiam Metropolicanif, de
Collegiitit, ac aliii EetleGit, Monaftcriii, holpitaliboi, itvìIkì», dee.
racceflbret fpeAare, ac fób no. mine
rpeliorum veaire, ii!sqae oti ff^s ad Cameram pertinentia, perpetuo eolligi
potuiffè, poC (tf oc debarc. tft vtm. 1560.
iM. taf. mltim. o8 do, e pagato
quanto fi h convenuto, ogguno dice che del rimanente fia aflbluto, e lo poflà lecitamente tener
come fuo, perchè il Papa è, come fi è
detto, o padrone, o amminiflratore univeifale e quello
chiamano compo^ colla Camera Appoilolica : il che viene anche llefo
molto ampiamente, ficchè quelli che o fanno in cofcienza, o dubittno almeno di
avere cofa che loro non appartenga, onon fanno a chi reftituirb, fanno la compofizione i DE JURE ASYLORUM LIBER SINGULARIS RETRI SARPI
J. c. AUGERIUS
FRIKELBURGIUS I- G. GERARDO MALDECHEMIO S. D.
I NcidIt tiuper iti manus neas Itali cnjufiam traSatus De Jure Ajylorum, quo cuuSa qua hoc de re in
memem wnirt pojfum non perpenduntur, «Ir examinantur nodo ; fed et definiuntur ex legum prefcripto clara
profe3o -, doSaque^ (y perfacili methodo.
Oper^ me pretium faSurum exijlimavi, fi,
utcunque pojfem, Latine facercm qua nagnus vir Italice confivipfit, tum
ut ekgontijjimum opus ab iis etiom, qui Italico nefciunt, legi, dr intelligi pojjit ; tum etiam ut tu
ipfi, mi Gerarde, tuique fimiles, pietate aliquanto plus quam aMSit cogmfiere
pi^ tis quid Itali-, nationum omnium
religiofijfim -, hoc de re fentiant-,
dum Ecclefiarum quidem immunitatem non filum tuentur., atque fartam teSam conjervant; fed au&am,
&• ampl'ficatam quam maxime volunt. JuJUtian vero qua delilla pleSuntur,
ó" publica quies-, eb*
tranquillitas maxime fufinetur-, tantum abeft ut opprimani, ut etiam ubique
adniniftrari, atque exerceri decernant. Quo
egregio umperamento non Ecclefia minus, quam Forum, dy Tribunalia, fitum
jus retinere ptffint. Vale. INSTITUTUM OPERIS
ET SUMMA. Criptorum in Jurifprudentia gregcs, atque adeo rem quamlibet facilem 8c cxpcdìtam
obruunu et abfcondunt, ut per mihi mirum
videri non poU iìt, fi EcdeGanim, quam
vocanc, immunius,tot Poniificum
dccrctis* ftatuiifquc legibus clara, Dodorum adverfis opinionibus acqua
fcntcntils mirum quantum di(ba£la, ac
dilaniata, vix fpeciem reterai fui; fitque fxpius in esula, ut intcr
Eccle^ fiaUicos, dcLaicos Magiftratus,
muli* et mago*, immo vero inexplicabiles
coatcntìoncs oriamur. Quam ob rem frequenter in mcntem venit quam re£le, et ex
ufu publico faccret is qui rem tanti
ponderis ac momenti, dilputationibus qu« vcritatem bue Uluc trahcrc lolcnc omiflìs, fine fpe,
Scambitionc, gravitcr, et accurate traftarct. Sed quo niagis id optabam- fieri,
eo quoque impenfius a fcriptione
abhorrebac animus. Modo vero, cum mas accepi licteras, Prsful fan{lUIime,
quibus me diu repugnantem, et inviium ad fcribendum hac de re lumma qua poUes au^orliate compellis
potius, quam invitas, et aU lids; tuo
quidem imperio, prout maxime dccet, obtempcrarc decrevi; fcd brevi, ccrtaque methodo, ut 1. Quid leges Principum, Quid EcclcfislHo» iuca. Aatuant primo
videamus: 3. Rationes deinde, e quibus
tot Scriptorum opiniones incer fe repugnames originem traxerunt, afieramus in
medium ; ut deroum 3. Quid in judiciis,
5 c praxi oiimìno Hatuendum fic a
quolibet cognofei polTic; nec valeant in pofterum nonnulli e dupondio
Turifconfulti, aut verius, numeris omnibus abloluti aHentatores, tam preclare imponere, et fucum facere
judicantibus» CAP. r. De Princl^ ìegìbas^ EcdeJiaJÌkif(jue
eonJlU iutìonihus, T Otis quingentis annis poti Chriilum Jefum
natum, nujlus cft Ecclefialticus Canon qui de hac iromunitate decemat.
Imperatorumi tantummodo legibus
Gatuitur; quarum fex a JulUniano in Juris Civilis corpus rciat* mnt. Harum primam Arcadius et Honorius,
Augufti, anno poli Chriftum natura
CCGXCVII. ftatucninc, qui reatu de Ut, qui ad Eccitf. . Ili no» diqm), vel ieihù fotigéti, fimdant fe
CImJHau legi vtHt nojMgi, M, ai Ecclefua (mfiàgientn, evitate fojftnt crimma
^vel paniera iebitanm, aneti debire; nec ante fafcipi, quam ieiita varuttfa
reiiiieritit^ vel fnerint, innecentia
iemoaftrata, purgati. Poli hanc iMem
idem Honorius cum Theodofio anno CDXIV. generatiin fanxiCy Netnini licere ai
facrefaaSas Ecciejias confugientas abin.
cere, ea condjtìone ^ ut ^ Ji quifquam cantra barn legem venire
tentajfet ^ fchet fe Majtjiatis ctirnine
effe retinenium. At anno CDXXXII.
Tbeodofius ipfe una cum Vaientiniano leg«m
tuUt, ut ( A ) fermi, fi in Ecclefiatn, altariave armatut trruarit,
exinia prMinns abfirabatur, vel caniinuo
Damine iniicetur, eUtmque max abflraien.
ài capia nan negetnr ; imrao vero, fi armerunt fiducia refifienii
anhuum canceperit, abripienJi, extraeniique
quibut ii parafi efficert viribut, atqua
pugnanda impune accidendi, Eadem lege Domino fàcultatem facic. Marlianus
vero Imperator anno COLI, edita tege, {c) feditianet amnes, canctamarianei, tumultum, et impetum in
facrafanSii Ecclefiit, et aliisvenerabitibus lacis, in quibut vara campetit
celebrati, omnino vetuii ; ultmù
fupplicii poena propoliu. Et
anno CDLXVI. Leo Imperator (d) lege decrevit per amnia laca valitura, excepta urbe Regia, in qua degem
ipfe, quatiet ufiu exigeret, preUntanea
eanftituta prafiaret ; nullas penitut de facrafandis Ecclefiit expelli, aut
trabi, vel,panabi canfigat, nec pra bis Epifcapas exigi qua ab ipfis debeantur- iis, qui bec maìiri at^s
juerint, capitali, et ultimi fupplicii animadverjtane pleStendis : fed, ipju
Jervata lacis reverentia, vadati paffint^ r^uga, (5* Judicum, quibut fuojacent,
feneentiit maneri, atque earum arbitria,
fiate per fe, five infiruRa felemniter pracuratare, in ejus judicis, cujus pulfatur fententiit, examine refpandere
■. Multis conftitutis tuiflionibus, ut credilores folvi pofTint a debitoribus
ad Ecclefiam confugicncibus : Servar autem, 0* Calanas, ftmiliaret, five
libertas, 0* alias amtefiicat perfanes, vel canditiani fubditas, fi ad
faerafanSa fe laca contulerint, uhi
remijfiane, venia, et ftcramenti interventiane fecuri fine, ad lacum fiatumque
praprium reverri aebere. ^ Juftinianus
deniijue ipfe anno DXXXVI. vcluti non minus jullam et reélam, quam ufu receptam, fanaionem refert,
et conftituit; (e) Nequa, bamicidis, ncque adulteris, ncque Virginum raptaribus
delmquentibui terminaram caueelam
cufiadiendam; imma extrabandas, et fupplicium tis in. ferendumt Cum templarum cautela, nan
nacentibus, fed detur 4 lege'. ir nata
fa pajfibile, utrumque neri cautela facrmum lacarum et 1^tem, et lafum. Fiuta
fune notabilia, qua: ex hifee legibus manifefte
conlUnt.' L Ecclefiallicos
Prsefules iis tempo^fana ne cogitaffe quidem ad ofiicium iuum pertinere ut
leges, aut conllitutioaes conderent de Eccle.
Carum immunitate; immo vero, cum certo Isiceot Principis eflè id (latore,
ab eo leges accepilTe. Huc accedit quod aiuto CCX^XCIX. Concilium, ut vocant,
generate Africanum mifit &ugonium, i(. Viocen^m, Epifeopos, ad Honoriust
Csdàsem, qui i^^liciter petetent ut m
qui ad Ecclelias AIricanas confiigecent, licer deli^ pcrpettaOént ab iis non extraberentur. IL De
( a ) Sai. I. rUclH. { b ) Ead. t. Si fcrvut. (c) Eoi. I. Dauaàamai. (.a) Ead. LVrt^l. ( e ) .autx Ite nuui frinc.
tal,, De hac Ecclefìarum immunitatc ne
vcrbum quidem faflum fuiffC) non modo dum Romani Imperatorcs Idolorum culrores
fuerunt; fed ctiam centum annos poflquam
fibi Chriftianam religionem ìnduerunc,
nuUam omnino ejufdem immunitatis mentionem effe fa6lam; cum nulla hac de
re lex repcriatur ConlUntini, aut alionim Imperatorum, ufque ad Arcadmm. Hujus autem rei ccrtilTima
caufTa haud longe quzrenda eli. Etcnim, fi Chrifli fideles ea temperare, prouc
omnibus confpicuum ed) nulla ratione in Ecclefiis admictebant eos qui cujulvis
generis deli ab Ecclejie 'Atriit, vel
Pomo Epifcopi reos abfirahcre omnmo non liceat; JeUna alteri coalgnare, nifi,
ad Evangelia datis facramentis, de morte, p- tlcvilitate, O- Omni panaram
genere fint fecari: ita tamcn »f ri, coi «* f"niinlfttS fiterit, da
fatitfaHione conveniat : Servas etiim qai ad Ecriejiam confugerit prò qualibet culpa, fi a B m im.
odtnifia colpa facramentim
Mcepertt,fiatim ad fervitiam Domini fai rcdirt cogatae. ' Hifce in Conftituiionibus mulu funt
animadverCone dignillima." Primo
non effe in iuris Canonici corpus redaflas, temporis habita ratinw VTearum primam effe llerdcnfis
Concil.i, Anno DVII. ouam Hifpaniz a
Romano Imperio le fubtraxerant : qw faaum eft ut Episcopi il, qui certo fciebant quantum lua
fe extenderet auilorius, EccleCallicis
tantum viris imperarent; citeris non iiem; ut ex iploitiet Canone clariflimum, et cuique obvium eft. (g)
Sed cenwm annis ut Laicos etiam includerent, Reges rogarunt, ut ad EcclefiM confuEientes,
ob lacrt loci revercntiam. Regi* lolum
committerentur : tandemque anno DCLXXM. in ea Conftitutione qu« decima eff ex iis qu* fupta adduil* fuetunt,
omnibus commune dwretum fanxemnt; fcd Regis coiffenlu ^hibito : qu^ in tpt
Conulu libris particularitet expreffum eft hu ipfit verbtsr Confenttcnie
glortofijfi. no Domino Nofiro Eringio
Rege, hoc fanaam Ceuciliam defintwt ;^ce(
(1.) yr.Eod. Co mctuentei. ( b ) ^. Eoi C- ifxar. ( c ) WA C. miUui. (d) JX. £-iit,C.fi
(e^X.Sod.CoiÌefir.m]to ({) Xo'o £od. Co
ccrfiitmmuf o (g) meeo6.caf.tio in corporc Concilionim fcriptum fit folummodo,
DcJfjiww C»»«e ut, fcilicet, reo avulfo
ab Ecclefia, fit Ulico qui eum dirà
devotus, et Chrirti-fidclium commumone privatus. Sed lunt OMnes. ut vocant,
ferendo e«eW; ut, poftquam reus exiraaus fiieAt (ùbeat Prxlatus monete; et nifi
fuerit reftitutus, aut,ufta det.nendi caufa aliata, lune demum polfit ad
cnemnmnicatmm fententiam le rendam accedere. .,,. i Quatto confiderandum eft,
Epiftolam Auguftmi nomine aUatam, ep.ldero cene non effe; ficut etiam 15. alix
qux Sanai Ulius nomine feruntnr ad Bonifacium Comitem conlctiptx, «c Bonifacii
ad Auguftmum, eujulvis potius, quam
eorum, effe poflunt. Id vero cum ipfa
rauo latis fuperque demonfttat; tum multo magis verbo illa, SpeH.»fil et
Magnifici, honoris caufa Corniti tributa, abepis tempeftatis confuetudine ionge
remota, n« ab ipfomet Auguftmo uni^uam adhibita iis in literis quas ad eumdem Comitem ipfe
Mrfctipfit ; m quibus etum quammaxima
Divus ille vir agit cum modeftia, non autem fuperbe, et arroganter, atque imperiofe, prout Sycophanta,
quifquis ille, fcribere voluti. Quod
vero multo magis earura falfitatem yel coeco demonftrat, Bonifacius Comes
nunquam Hipponam incoiali Divi Augiiftini
V«*>» Ji- ^ (a)lii.i.tjifl.S.
civitaiem; ut fieri omnino nor luti
fucfiiJi;, tìullibct eorum, prout fibi, atquc fcgionibiis fuis conduccrc vìtuin
Canones confijtuit. Cum iiaquc varias rcgion« diverfas ctiaui Icgcs itquirercot, prout homìncs plus,
minufve ad dclffla propenfì crant,^ uftufquifque proprias leger ad regionis lux
nores adaptavit. Hi vero Canones omnesante annum a Crìilo nato MCC>
promuU. gati funf;^ deinceps vero
Romanorum Pontificuin Decretales, quas vocant, rc. uregorim autem, ejufdem
norninis {b) Nonus, Pontifex, declaravìt
Ecclejia y in qua divina myjìeria celebrantuTy licet adéuc non extiterit
con^ ftcraMy nullo jure priviiegium
immxnhatis adhnii ' Idcmque addiditf
cum nonnulliy tmpunitatem fuerum exceffman per deEccleU obtinerè f perente^ y
bomtcidiay tT mutilationet menu Trm-m
fpjU Etcfejih y vai amum atme^eriìs. coipmiteere non veremtm f quey njji fer Ecclcjìamy ad quam refugfunty
crederent fe defendi y^ nutìtu tenui
fuerent commiffufy rales non debere gaudere privilegio quo faehuie fe indfgnos» ^ \ Hifce' Joannes, 'ejus norninis XXII.,
Pontifex Romanus, adjunxit etiam, (d)
Hereticos fefe Ecclejiis tueri non poffe,. Nec alic in medium afierri poflunc ieges
quibus Ecclefiarum kÉmunitas inniratur. Hz vero omnes adco clarz lunt, adcoque
faciles, ut., fi in judiciis, aique
Eraxi fincere, et prout verba exprimunt, adhibe ^enfur,^^' nihii oranino
difficulratis fupereircr. At cum Jurikonfultorum òpinionU)US, et interpretationibus ad diverfa
protrahantur, de his etiam, capOrque
unde tot Scriptonim fententiz originem duxere, fingillatiiii diccndum eli. CAP.
hnmmìtatm. Exnavag.De variis Scripeertm epiniomika órca Eniefimm • * mmunitafem^ Ó" tanm caujk, .Tanta
profeto eft fententiamm vxrietas intet Jurìrperitos qui de Ecclefìarum immunitate hai^cnus fcriprenuit,
iildemque Ugìbus innituntur, ut line
dubio lAirmarì poHlt nullam omnino hac de re
quz(tk>ncm proponi, aut Cafum accidere, in quibus in utramque partem
res terminari non valeat, atque adeo Doélorem aliquem tefiem, et aufìorem laudare. Ex iis tamen non pauci
funt qui non modo fxcufationem promereri, fed commiferationera etiam tommovere
debent librifque vulgatis, non
Auftoribus, nota quzlibct inurcnda. Etenim ficuti 'in rebus aHis quz
Ecdefiafticam, aut fccuiarcm juriididionem attingunt, fic etiam in hac ipla,
nov^ims imprefliones cum antiquis non
convenHint* led quscnnque Principum jus, et audoriutera {M'onxv verent, ablata fuerunt; et fzpius negativa
particula, ut Grammatici lo^ qnuntur,
addita, ve! delcta, mifcellos libros, vd invitos, et centra Seriptoris mentetn,
prò ConTflem arbitrio loqui cocgcrunt. Id vero non modo ex librorum ipforum variis
impreflxonibus invicem collarìs manifcfto deprehenditur; fed Wcifair folummodo
£x>argarorw infpedis, quibus facile fingala quz immutau funt uno afpedu
v:deri po^funt. Qiiate, ut in re tam dubia rc£lam, tutamque viam amplefli
iiceac, Ilatuendum eft ante omnia, quafnam rcjicere dcbeamus,,quarve icqui Dodorum
interpretationes, Id vero fàcillime cognoTci poteri^, li vcratn illam, 3c germaham caufam, ex qua opinionucn
varietas exona c(^, animadvcrtcrimos. Hac vero eft, quia noluerunt Doélorcs
intra iegum ipfarum, 3t canonum verba
luas opiniones, et dida contincre; immo
vero amplifìcationibus, 8n exceptianibus, quas fslkHtiat dicunt, eas adaptarunr,
prom aquitati convenire exiftimaverunt. Qua de caufa in nuU lam debent reppehenlioném incurrere.* omnes
enim nihil anciquius habuerunt, qu.im ut communem iUam, aique difpatatìonibus
cundis neceftariam, Reguiam jurk fervatene, qua ftatuitur.* fi juris ipfm
difpofitio bene finum alferius^ prsmiumve refpiaat, fififue favorMis^ l^um
verba y lì. cet prejfa, atque Jìr 't^a,
ampl'tjìejntda, atqut entcndenda ejje } fi vero ptznaruTrty atque rìaerU
rationem babet y fitque invidio fa y quam odioam appef hm y voces eafdcm quanhìis latmty Ò"
uberius loquanfuty prejfe ta mtn y firi^imquey quatet^us jus patituty
expiicattdas effe». • Qj 2 certe regala
nanira maxime conlona. coovenienfque apparet.Et
enim, ficut rerum hitmanarum fapientes coofìderant,, adiones omnes flint fìngulares; nec ulla ratione fieri
poteft ut due qualibet ex parte fine
inter fe fimilcs, atque omnino pares.* quo fit ut fingufis propria indiecant regola: lex vero, quz mi segula
quxdam univerfalis omoino conftituenda
eft, necelario ob id ipfutn, quod untverialis eft» manca quodainmodo fint, et imperfeda, aut
comprehendens quas excipere, auc
CTcipiens quz comprehendere deberec. Qnamobrem neceflàrìa omnino videcur benigna quzdam interpreutb, quz
legem.dirigat, et ad zqui. tatem
reducar. Hinc vero prolìcifciiv ut, fi zquius amplior. videtur, quam legis verba, hzc debeanc amplificari
quamum «quicas ipTa po ftulat. Digitizad by Google Ii8 D E y>U R E Enlat. Ae fi lex eadem verbis extra «quluris
fines, 8c limites egredia» tur, aequunt
maxime eA ut interprecationibus intra eos coerceatur: Ut n lege lata pana impofita fueric iis qui Dei
optimi maxiroi nomea yanfiiflìmum
maledif^is, probrifque prolcindant, cum res ìpfa de qua decernitur, pietas, fcilicec, in Deum, maxime
favorabilis exìAat; juAa intcrpretatione
a nomen etiam facratiiTima! Virginis, epis matris, at« que SanBorum omnium extendicur» Quod fi lex
altera excipiat, qui motu quodam animi
violento percitus, atque ira prsceps furens, verba promleric igoominiolà in^eum
ipfum; hoc invidiolum eA, nec de quavis
ira intelligendum fed juAa interprctafione ad eam tantummodo rcdigendura qua celeri, atque inevitabili
impetu fenur, mentifque et ratiunis uium
ita impcdit, ut quid homo Abi velit, quidve dicat» aut fadat, omnino nefcire poRit« Quod vero IpeBat ad EccleAarum immunitatem,
NonnulIi,cum animadverterent eam non alia ratione conAitutam effe, quam ob
revereiv riam in locum Deo facrum, et ex
co ad ipfius Dei maximi honorem, et cultum
pertinere; bu)us przcipue rationem babueruni; idque veluii zquitatis regulam lìatuentes, cui legum verba
adaptari debeani, estera cunBa fulque, deque daxerunt. Cumque nullus omnino
reperiri poffic honor quo multo major Deo tribui non debcai, interpretati
lunt eamdem pariter rcvcrentiam
tribuendam efle non folum Deo l'acris lock,*fed omnibus etiam qus iis
adhsreant; iifque cunBif habendam efte quantam maximam animus capere poieA, vel
jultiùa ipla Aias fibi res habete juAa;
atque, ut ajimt, quibulcumque pravorum hominum
oppreflionibas tokraiis, ut iramunitatts honos iis omnibus tocis religiole
concedatur qus Ecclefiarum fpecicm aliquam quomodolibet referre poHìnc. Hifce vero, quafi fundamemis,
pofìtis, leges, et Canones omnes de
Ecclefiis decememes, ad ea cunBa protulemnt qus Coemccefia, MonaAeria,
Oratoria, Sacella, Holpitalia vocam, feu quovis alio nomine cenfeamur, ea in quibus pictatis opus gliquod
peragi videatur« Ubi vero leges i|^x, le Canones Ecclefiis immuniiatcm
concdTerunc iis tantum in rebus qus vel comimfenMìoaem movere, ve! ^Aa defendi
exculatione poAint; idque honeAis, ac tolerabilibus conditionibus ; Urdem amplìAcarc, atque dilatare rem totam ita
voluerunt, ut cnormia quae. que, et graviffima
facinora comprehenderent quod A, ragione
coaBi, aliquid exccperini, jnlHiis
tamen, atque judicibus ipAs eas impoluerunc
condiriones, ut, iis obiervatis, Aeri nuaquam omnino poAìc ut debifum
juAitia Anem obtinere, vixque nomen Atum, aut ne vix quidem rctincre poAit : quodque caput eA, non modo
perpetrata facinora, atque 4Bi^, EeeltAaruffl immunitate inulta, impunitaque
remanerenr ; Icd novis etiam, iifdemque
enormibus criminibus aditus tuiìAimus ape»
ritur; ut qui jam oommiAlTcnt, fecuri in utramvis aurem dormire £a» Cile podent; 3t qui admitterc vellent,
facilitate aìleBi, et lecurirace in»
vitati, nihil prorlus tutum, aut a crimine vacuum relinquerent, Id
enini imcr estera DoBores aflìrmarc auA
funt, Principes ncque fententia da»
fonare, ncque habere ^tisAionem poAecontra eos qui ad EcclcAam con» fugeruAt, ncque dum tnibi pcrmaneanc, nec
poAquam ab ca difeefle» hot quodque rifum nagis, 8c Aomachum moveat,
flatoerunt Ecclc» fiam i^m teneri ad
alimenta feeleAis homimbus prcAanda, dum ad
eam cònfagientes ibi reAdent. Alii Do£lores contri ei^inurunt iuflitum,
atque deIi£lonitn pcelum, publicarque tnnquulitatis confcrvationem magis cITc
Dea maxima graiam, quam EccIcGarum immunitatem : idque velati zquitatis fundamentum inrpicientes, legum verbis, ut
iplà rem quamquc nount, aeceptù, non
petmittunt ut leges, et canone: ad alia loca pcrtrahantur przter ea quorum
rigillatim mentio fa^ fuerity EcclePus, fcilicet, ipfas, quz reapfe, non autem nomine tantum,
Ecclefiz funt. His enim temporibus tanta
eli ubique locorum frequentia quz piotati
alicui mancipata vìdentur, ut, C omnia comprehenderentur, jam quzcumque incolimus Ecclefiallicz immuniutis
privilegio donau eflent. Et quoniam
gravium deli£lorum exceptio, in quibus nulb conceditur imminitas, fpectare jullitiam videtur quam
zquitatis regulam llatuenint, exceptiones illas aut ufdcm rationibus, aut etiam
firmioribus, k validioribus ad alia
facinorum genera extenderunt quz a legibus, Se
canonibus minime nominantur: idque tam ampie, ut nihil immunitas meri polGt, nifi ea quz mifcricordiam
merentur, prout etiam antiquorum fuilTe videtur fitntentia. FaSlum eli etiam ut
Doflores aliqui, cum, velati juris. Se
zquitatis regulam, modo hanc, modo illam ex
iis quz diximus fumpfilTent, varie loquuti fint, atque a femetipfis
non femel del'civerint; alii vero,
nelcientes cuinam precipue ex iiliem regiilis adhzreicere debeant, adeo
confule. Se obicure pcrfcrlprcrini, ut
nihil omnino ex eorum fcriptis elici poflit ; alii vero do^rinam fibimet
repugnanicm habere viC fuerint, ex eo quod ii qui eorum libros, prout ipfis conducere vifum eli,
interpolarunr, non mutaverint omnia :
quamobrem alibi Cncerz, atque germanz Scriptorum opùiionis vcftigia permanent ; alibi vero eorum verba, Se
fenientiz dumtaxat apparent qui Auflomm
mentem detorquere prave voluerunt ; ut Dollores fzpius fibimetipfis contrarii.
Se inconflantes, atqde volubilcs aliorum culpa exillimentur. Igitur qui velie ex Do£lorum leflione
fruSlum colligere, facileque ftatuere
quid ipfe judicare debeat, atque adeo in praxi executioni mandare, nccefie eli ut ante omnia certo
fcìat quznam ex iis duabus regulis norma
effe debeat, qua opinione: examinare, Se afliones inllimere, ac dirigere
valeat. Id vero cum tanti ponderi:, atque momenti exillat, quanti unulijuifque
facillime cognolcere pote|l, operz prcr
tium eli ut exafle de ipfo trailemus.
C A P. III. ^asnam tqmtatis
norma in juJicìù, tf prJxi equendn
J!t, XTOmines cunflos ad honorem. Se
gloriam Dei Optimi Maximi non orane:
modo, fed etiam languinem, Se vium profundere debere, adeo notum, naturzquc
legibus in omnium animi: infcriptum eli,
ut nihil magis; nobis autem Chrillifidelibus ipb quoque fide, ac Religione certiflìmum; ficuti paritcr clarum
eli nobii, ac minime anibigmim, duo effe honorum genera quz Deo tribuuntur :
Alterum eadem ipfii ratione aibuitur
quam Deus ipfe nobis conllituit, quam qu« a
Digitized by Google I^o DE J U
R E que a nobis fé cxìgere dedaravit :
Airerum ^vero ea forma qua nos Ipfi
honorem habendum exiftimamus. Scatuit igitur facrofanéla Ecclefìa linumquemque utrifque teneri ; fed primis,
Àvinis, fcUicec, praxeptis, multo magis : quod fi aliquando evenirec, prout
rerum humanarum conditi© fcrt, ut non poflemus utraque fimul integre praeftare,
iis exa6le parere dcbemus quae Deus
manda vit, omiiTis iis quz pendent a
nofira voiuntate, fi impedimento fint quominus divina prxcepta exequi
poflìmus. Cum enim divinura przceptum foret Mofaica lege fìrmatum, Parentibus
opem ferendam; cumque ex hominum pietate fponte induAum fuiflet, Tempio maxima
dona elargiri y Chrifius jefus y Deus
nofler, reprehcndit acerrime Fharifxos qui tempio munera olferre, quam
Genitoribus auxilium ferre, atque fubvenire, impenfius laudabant : eamque
divino ilio, atque fanétilTimo ore caufam adduxit, quod, fcilicet, hoc divinum, illud vero
humanum przceptum elTet ; luofque docuit
fideles nulla efic ratione laudanda munera quz tempio tribuuntur, fi impedimento fint quominus
Parentibus auxiliari pofiìmus, prout Deus ipfe przcepit. Id vero ad ea quz nunc agimus mirum in modum conducere, atque accommodari
pofle manifefio confiat. Exploratum fiquidem efi jufiitiam diferte, atque
exprefie a Deo przcipi, eaque Deum
fummum honorem fibi haberi declarafle: quz
fi jufiitia defit, Principibus ipfis, ob id, atque Regibus regna, et imperia auferenda, atque in alios transferenda
docce : cujus doflrinz innumeros polTem
facrarum litterarum locos tefies laudare. Cercum pariter efi Ecclefiarum
immunitatem ob innocentium fecuritatem, et eorum qui jufiam aliquam erroris
excufationem afierre poflent, infiìtutam fuiiTe Principum legibus, et Ecclefiafiicis
confiitutionibus fancitam, ob reverentiam qua profequi decet locum illum Deo
lacnim ', non ut Ecclefiz ex orarionis
domihusy fcclerum omnium rcceptacula, et
Utronum fpclunca fierent. Ex his omnibus confequens efi neceflario ut jufiitiz
habenda ratio, eaque veluti norma, et regula fpeflanda fit, qua legum omnium de
Écclefiafiica immunitate fententiz, et verba tanquam tratii»» ponderanda fint;
legefque omnes, et conftitutiones ita interpretentur, ut nulla ratìone Jufiitiz
obdTc, aut impedimento quomodolibec effe pofiint. Quoniam jufiitia, ut diximus,
honor efi in Deum, ab ipfo Deo nobis przcepius, et procul dubio femper optimus
; Ecclefiarum vero immunitas honor efi quem homines Iponte, ac fine ulla divina przeeptione, Deo
tribuunt ; quique, nifi, prout maxime
decet adhibeacur, Ecclefiam ipfam non honore, (ed ignominia quam maxima afficit, la$ronumfuc
fpcìuncam reddit, et feeleftorum homimim infiune Alylum. Hzc vero cun£U clarius
oftendit quod ait jeremias Propheta, dum populura reprehcndit, qui externis
hifee revcrentiz fignificatìonibus erga Dei templum plus zqu« fidebat ; eumque monet, ne hac fiducia
niteretur, fed in Deo fpem poneret, qui
in genus hominum quodlibec jufiitiam exercc•rct. Quam ob rem rationi maxime confentaneum,
tutum, atque optimis innixum fundamentis
efi eorum confilium, atque fentenria, qui lacrorum Jocorum immunitatem tuentur
quidem, fed intra ccrtos limites, ne jufiitia pereat, adeo necefiaria ad
publicam tranquillitatem confervandam, tolleifdafque injurìas, et dethmenu quz
prìvatis infih ntntur. M. i«« ninnr. X( in quotilxt -«vtiini jiMcrk fanc
««i» fivi,* &ChrttùuHM j» dex, fr
ccntrarias jaiit-^nfaliorani a^ioiM* 'àri^crit, M la frót iacMadnm ftaiiien quod Eccldlanim
ihioMninwlavnt, n tanna ntione, B« jaftiiiam ap[irimn. • • J Quilitiet auKcn, t]u( aenm actem inwpdeK t ^
la arit, dare cogndcet hanc éfle
rationem qua cunda tolii poICnt oftenfiones, 8c mala qtn riginem craxeruM aa ipia vilrittaia aon
opniònant’ laaxn, gnem privatarum rationum. ut qaivis bcitios po8w ' palpicene
y aiTeram quid hac in Te
Jtirta..€oiaài(i ftatubadan cenloerinc, qaodqua kì opiiniz juTta, atque
neceflanlB titilioncm ‘atiqaan »hrte pofiìa* Ubi^veia ciitiÀi in eamden opiaionem non cdavemcac,
AuAarum noauaav qoi lentcntiam ^uioMni’
paobaverìnt « adfcnbam ; 'ta i am qae tantaamuàia rocncìanem. t'aciam qui jhxioria, Bc
cclebriarir fait aMoina, fc exiAV
marionù : Seplua ' SpH'capuan Covaiùviaai M(le«a kiidaba, nim quia Pnrfbl Hil'pahua eft, qui ThdencàtatCaacilio
i an a ^ ; tuia eAam- quia dodrina,
probiure, 8i pietaK minime datus ab omnibua, fi ctadpicuut habctur : Sapinc
Prolpemm Faaaaciiaai, qili diu Rena *nit, Advoeatus prima, max Audiioris .untai
m aaiw, ft'Fifoi deniquc PatnHit», etiam
iiib hoc ipfo Patito V. Pontifiet. Ad atam-wero cairanaiB Itbri, Bt Doh Viri
Traufetlpini tnlciìt, loca ad n a t a hr i, ur, fiqaia oGÓnliliariis tuis, 6c
Jurii-CatiUiltis inWe^A^are cupiat, Àcilidi cuaVa &i». venire, Se imdtigere pqffit. -Otania autem
hac dilqailìtio facilliiaa ad cria
capita ledigi potorie : m,. Primum ;
Qnzmun fiat ea (acni lata qua ad fr aonfugiema Meatitur. . • j Seenndum': Qinenaai pcf(ó«aMai toaditia, tt
qaodnaoi deliéKi gcnus loco facro pr»tegi,^aut ma paoxegi pOSit. ', .1 Teraium ; Quanaan ratioae a (acria locis
eatrahi dafaeaat ii qui eiliiA tagi
idvctios jullitiam non poflìiat,..,'u. ^.i t .r
.. Ul . • .1 I - .1
{ ftet* Ik 4 td'fi amfiipmm ntmuwr. ’ -comprehendi; Ecclcfiamj-
fcilieótiQmdEcdefix adhkrent, leu folum
fuarit adificiia omnibus vacuum, Mi domibus tedhtm; ^ Xlwpafiiium Ipatibm, fi
Ecdeha MetropoliiaBa fiicrit ; XXX. vero, fi co tinllo iiifignita Mn fit; Et Epifeopi domum. Nfee
alind eli de quo raen-tio iis in
legibut, A Canonibtts ftfia fit. Ecclefix nomine Haiuunt unanimea Dodores omnes
Oranriu non coraprehendi ^ quanv^m in où aliquando rct (aera fiat ; aut ea qnc
in privatomm doatibos, et in GoU^iìs
hicorum, quas vulgo confntcniitates vocant, zdilicantur, quafque domini
diruere, atque mutare prò votnntatii
arÙtrio fàcile pofTunt. Ncque omini debet, immo attenta cura animadverti, quod EpiTcopus Covaruvias
hac de re diflerit, (a) Hifce,
videlicet, temporibus occurrendum maxime effe eorum temcriuti qui, Ecdefiarum immunitate confili,
quodeunqua ddiflum perpetrare Tom» il. Q
audent. fovaiwiar . i. var. r. io. '
i I1LA .D ;r joU' H ?E WI(Ì 4 M« coin «M! wwtowi» M W f w i h B i
itnaiftmum Buciwriaia itcrMMacMi
lubcnt. Ubi umen Prxiutcs hac juiU modowioM "ooii Ec ci«(ì«r«M iMfnin* «Mtemir ^«uKuii^e ùim
«erto, ac pxe|x:f«w divino «litui
dÌMMC-A nen lintiv n. uiPt dM sui
«dbatet Eukfia Xt> (tu XXXi pi£>un fp*tio« ajuUnn àmaanitatrm Ecairrisàii 91M1. (dnt Mua
Ctviiaiia, vd^Catorun-moeOlia., iwuil convwirai^actifiiciaa Has enin 4
c.ie-.Ca«on ex frede-ftamia, D a ft a r ar oanianitcMH nec .atla pottft ho mi èaUaatio;
iauMi aero noa daiuiu i)ui id oiaat cuoi Urboi oouiim Mteoi» CIMI
diaMK.eàtl«Mdi^jus ni sudtiiani ulu obtiiuUfe, ^ dine amlucBidinv, ik^u» fuac, danagaiuiD dk.
Cauta me, cur neiMiiaierconclitdaM'dnMM ipMMn iUiid niiUana. pradua habere
immiuiMiam^ilicH al>rMaM«aM iaafoa- aautem,
cum «lio Canone Muntimi il qui
tacMÀ hao paecat, eum laatj’-cujaajibeci laca immufocaia dafopfore ie J«nd
pafla,-ridM|. et XI^ fadaun tpatuM focnin
afot, ifov-iàciatn aliqnad in co ^mpetrarant, éideai ouliifei, ab EcclaEarna».
{requantiaoi, Jcl» imaH«MaiaMcn pi^r. Sad ^ ea «unqiie fuerit canfa, parvi
rrfert, cune illud cxpfomuini omniao fic in
Cdfoan'ihaif et Calw buUmh anpina hujniceMÉdi. ffatiii immuoitaKin concedi,
i-Htac- etiaai cafoUftiur, qwid Manfoi)iiiir aadde», An.-fohcat liflorej
polTmt cura qui ad Ba:OViPtm, dura de Ecclefiarara traaiiiniuie apiau-,
foe àia ^c||À« tfoinm tvmo cft qux extra
Civicirà, et Caltronn* m#. ma poCuit
inHOUilitatcìii _adj^ pafUmm ipatium portiguiit^ . Quod qfro atcinet.ad.E^ra^i im>m, non
canveniust iatfrtiDodfoe«s{ rasici pamqqt. ex aaroni uimmo animadvcrcuni alia
Caaont Un^iu»>aflà.fo Bpfoopm doraaira hum .£c«lefic ( e > proeimatn, de
adhxremem hibcat. Quare neceforio intra XC pafitwai t)uiium efltt k .jfto
certo «ondiiuuoi Kpdcafo ’domnra, fi loogius ab E«laAi dtjcc, rauiiam qsiniuq iqimumtiiteni obtiaeM. Cura
ncro EL. [foruum fo càviiaubua, et qaftria qqn babeat kicura, conlaqindls ed ut
Jfifdcapi domila raiUóra panici Munamcaiera babera potEm. --, . -c - iV* ... -V De eie-, '.ìu*' - •••'• ‘
tajAx. fi) (pr»f ia.
a,*.™’ ^Ux*rat\,ilr. f*. TW a i«. . ria K to.' iy# •- *>. ihyCmhmHr.ir.ttem de ìmm- a^e. (c) 0 i.r 4
rf.«*|C yy. Clnf.e. CUnf. jo. DC(Uk.
lìb, 6. e.zy. 5. 14- Farfn. .jS. fetw.
yauUue,ioit:»s» De coemeteriis vero,
Hofpiulibus, 8c ConcUvibut, ubi Fiatres doimiun[,-ae verbum quidem lex ulla
fedi. Canoniitz taniummodo, qu«
ignoramia f»pe, aut ambitio tranfverlbs rapir, Ecclefiarum nomcn amplificare,
acque ad hJK eiiam pcrtrahcre voluerunt; plurimis tan-.en condiiionibus, iifdemque adeo variis, ac
itucr fe repagnaniibus, ut vix duo
conventant. Ex corum auiem lenccntiis confuetudo diverfa induda eft, prone iUi plus, minufve audoritatis
habuerunt, et hujuicemodi locorum,iaal etiam deliftorum numerus exigere
videbatur. Quo fit ut, ficuti ddiit
locis nihil omnmo legibus làncitum eft, led conliietudine tanium, atque interpretationc eorum immunitas
inirodufla, ita ubi contraria eft confuetudo, eadem a quocumque judice fervati
debeat, citta uUam ertandi formidinem. Perfbnarum condì fio ^ et quodnam deìi9i genus loco jnero frotegi, mt non • pniregi po£it. E st omnium certilCma fententia, qui in loco
facro deliquerit, («) licei leve
delidum, nec atrox fadnus fuerit, eum tamen facro eodem loco non defendi; iitimo vero et ibidem,
et quocumque alio fatto loco fifti a lifloribus, k in carcerem trudi polfe Cum
aquum nullo modo fit ut Ecclefia eos tueatur qui, in ea peccames, injurias eidem
intnlcrant; (i) nec Ecclefia: ca:tera! defendant ejufmodi teum, cum omnes unum, ideraque fint, ob earum in
Chrilluro. Jefum conjunflionem. Quod ita clarum, atque certum eft, ut
fupetvacaneum omnino iiierit pluribus
confirmare. Hinc etiam illud
confequitur, ut eadem Ecclefiarum immunitas nullo modo protegat eum qui verità
legibus arma in Ecclefiam detulerit,ea naroque deferre peccatum eft quique ca
in Ecclefiam defert, in Ecclefia peccar:
quo fit ut in ea a lifloribus vinciti poflit, 8c in quolibet alio facro loco. Quod ob publicam tranquiilitatem
judicarunt Doaores fingillatim monendum, et animadvertendum effe. Fnres etiam, qui aut in Ecclefia furtum
fecerint, aut cum re ablata in ipfam confugerint, ex eo quod in Ecclefia
peccant, ab eadem divelli queunt. . Poffunt. itidem ii a facris locis abftrahi
qui in Ecclefia crimina traaare audent, quz fponfionum vocant, aut quodvis
aliud negotii genus legibus prohibitum,
ex eo quod in ipfa delinquunt. De fponfionibus
vero przeipue adeft etiam Xyfti V. Pont. Max. dcclaracio, buie rationi,
veluti fundamento, innixa. Nec differt an deliflum totum
in Ecclefia perpetratum fit, an quod
extra Ecclefiam initium babuerit, in ipfa finem, vel etiam contra. Pariter
namque Ecclefia nec eum tegit qui, Hans in acro loco, aut extra cum, bominem in Ecclefia exiftentem
interficit.- nec eum qui. Tomo II. Q. *
CUOI (a) C.imnuaUotem. De trnmmiìtate. (b)
Olìltnf.c.fm. de Inm. Eecì. .Aldus ìbitU TeUf.
dec.^is. Faróueap.iS. Jitait. 66. Cler. ept.jo.Coceriev. Fsr.Ub. i.
cap.io. p. iS. Iunior. Deciso, i. 6. e.
x6. 0.1. HÒflieo.infum. Jo- de Fìf ct.de m.p.6s. Coofer. Con.io.FoUer. prioe.e.mUe iut.jO.
feuuc.e.iS. ««. 154. Cox’ar. Fsr.l.tA.io.f.tS.1X4 D E J U R E nim Ct ipfe in EccIcRa, auc bellico tomenta,
aut fagitta, aut miflilìbus aliis alienim inceriicic qui extra lacrum locum
fuerit. Hac igitur certa, atque
clariflim^t enunciaiione, abllrahendi a qua vis Ecclciia, et iacro loco cu|u(vis generis reos, quamplurimse
dubitaciones e medio ablacx videmur.
Etenim qui diligentìus attendere voluerit, cogoofeet &• carios omnes, qui ad Ecclefias confugiunc,
arma fecum ferre, atque hahere, legibus
etiam vetita, ut adverl'us juOitiam iplàm, fi ras ita ferat, fefe tucri podìnt. Quare ii omnes
EccIeCarum immuniute uà nequeunt, et in
quolibet facro loco prachendi pofTunt, lieet alia ratioAes non concurrercnt in
id ipfutn. Statutum etiam exprellìs verbis Canonis ed, eot
immunitatis privilegio protegi minime pofle (a) qui delizia commiferint ca fpe,
atque confilio, ut facro le loco
tueantur. Siquidem Ecclcliarum auxilio uri
debemus, ut peccatorum veniam confequamur qua jam admifimus; non ut nova facinora perpetrare turo valeamus:
quod etiam nullam habet omnino
difficultatem. Verum enim vero, cum
hominum mentes, atque co nfilia fint ab oculis omnium remota, atque penitus
abdiu, non polTumus, nifi conieéharis decernere, an reus deliflum admiferit (i)
fpe excitatus ad Ecclefiam confugiendi. Doflores vero dicunt, qui, llatim ut
làcinus perpetravit, ad Ècclefiam fugit, eumdem eo confilio perpetrallé, ut co
confugeret, datuendum elle. Et certe qui jam datutum, atque decretum habet ut facinus committat, necelfario
ftatuendum videtur, eumdem etiam
cogitalfe, non folum quanam ratione ìllud polfit admittere; fed multo magis, quonam fugete debeat, ut lefe
tueatur : Skut etiam qui de improvifo in
errorem incidii, ficut nunquam antea de fàcinore cogitavit, ita quoque
alfirmandum ed ne de refugio quidem cogitalfe. Quare, quotiefciimque confilium, atque
deliberatio deliSum preverterit, et reus
ad Ecclelìam confugerit, id coniulto iàdlum; ideoque loci lacri immuniate defendi non pulfe certiflimi juris
ed. At quoniam de conjedluris agitur, uirum impeto quodxm, fc perrarbaiiiMie;
an potiusconfulto, et cogiato perpetratum delidium fuerit, Judicem ipfum pnidenter,
atque ex animi fententia cognofccre oportebit.
Hac autem immuniatis exceptio, qua reum cxcludit, cogitato, et confulto ad Ecclelìas et facra loca
confugientem, quodeumque delidit genus
ampledlitur gencratim. Quod vero
dngillatim ad homicidia pertinet, frequ entius deliAi geBUS, eum non tegi ab
Ecclelìa qui alfadinium, ut vocant, commifit,
ceniflimi juris ed; nec Scriptor ed qui didèntiat. Etenim juda Canonis
leveriate in (r) Lugduncnfi generali Concilio idiplum fuit diferte decretum. Veritas tamen eli ance CCCLXXVI.
circiter annos, cura Canon ille latus
fuit, aflaflìnos extitilfe quoldam Mahomecana perluaIkmis populos qui fìcarios
le ptolicebantur; atque eorum caufa Canoa
datutus fuit. Podca vero, cum Dodlorum omnium interpretatioBe, tura etiam ufu, atque adeo communi omnium
locorum praxi, AlfafGnorum nomine delignaacuT hodie quicunque, padlo pretio et mercede, (a > C. ÌMminiifate. lìe ìmm. EctUf. (b) .rlWar.prrff. B. i6. Meno. pra. IO.. iC.
jliictf‘Ponf.Ocf.;4.Cltr.4H.io.far.c.r8.f.ti.C>' t. Far, f.io. J. i.j.(c)0*j'.f'inr.s4. l.i.CjJfM.
TrrcI'Salde Jrclì.c.f. de inju$ y
ìgncv.$ TiÀoj. Bc«Mlii.'fgHardb>>J«« dclicluia-inpiiàa elfet, aquuBl viikn «•« pottA W £celeCa cat
lanMuf qui toM, iSc batta)
>Raipuhlic»f cum nulla omniMLilea OivUib, mila •Canonica, Ucaaniin im>ima
MBaluaiuM itafcaiH ^uui-^iom laatoKia
cUmnavii; led eiK 'iamuBHiraio 9U«ii%julli«a iata|intaur| antc^ttn- Icntemum
fwci Eaal :)« jam.ilaaMaoB «A, Jn-.d«ÌMa opeta, a«]ue nulki4c'i>i>) v*uiae
éuesringradùiKainaMa, praaar ìAcuìib catffa «aiI» mnlftatm eli, gr i mH cóam
ddifliia hunnari vero ad uiraaMi, C.- dh p wn tt.mqBcanapaaber pdeAacum iamnnicatt defendi, atque ledcam ad. .paaMmpianna ab e« qua.
diaiOMa, «aaatfaai 4 >bhmu lb(riat;riS«abru vera non damnans qiudem,
•Acd.aoi aaatummodc^ii^ «MliMa itàtem»
laiiidum damnati faB, «aecàipofliH «ci«B>A||iwldlmMHà' ad,iaanAra
pape («dilicia.-làraiacdMbdMutilPadcgibuci, aiyi'tcìinnBibus (id'aiui ad Ecclcfiam confugicnies non polTunc Domini
imperiiim excuier«;.Al.di>tuna-' ibMnanKateni a lu piaa a aijuttaa, vitate ladùic.'ad
iocviiio,. fau ci admodom bac de ae-BuflorcK^-diribuot, cmi id cara,. de «te
eiifi nantiiai) in Civitatibuc, qua
L&uinicai amiare tgteK, 'accidat.-;«a vara (Muadfime liint. m al i tewiua
Gramaui naa ialam’ m ca tioni conteain in mediura attect; (mL Miim ali ufii
caed^tuai y dbdege^in Luiitania làacitiim, qood.aaaoi prafaat Vinccaduc f'Multa
cctub qiua lìngillatiin baqtMnicr. ialeai accidere, utaB -Juga. neratim colligi pottii laacoraa fa facorura
r~r~iif) cardcfàBdte osa putte qui
quzvìt alia gravia tc enonaia deliba comai^mf drente, aut iildem, aut mcfarfaiis oiiam dtv eaulis,
quu liipra leeenfainiu», quodeunque
alind gnve.delttea cotapfafbaitur. Hac autam coaclidip in univerlite prolataraaura, (cilieaf,
cupifais atroeis facinacic, A èd facra
loca oonfugerit, ULproicgi haud potte| ima» a fattitia liaeMBipli violatione
extrahi fas «dày probatia a Jacate Ravamts-^ Cyte Piftonenic, Petra Bellapeitica, ) n am «
Igneo, Antonio a Buariai,.|facro
Ancarano, Alphonlb Aivarea, Petta.Cetgorio Tofatano, Tibatefi^tcit' ■»
...lu *■-. néy Ab ( b ) Cam, dcf.^6, Fratr. ctefai jo. OUra, (c) ytw..i.r.* O^.' « mr.c.U ver* Dt Imm. f.
iS. yintàr. codem. ^Izdre^ I» thef, t.i j. «. jo. Syittaj. l. j j, c.\ x. DerÌ4E.. nut mOud omnino EcoMiam Rofliz hu ai»
imouinma;* ied .pudica ip4n tÌMuiora
rat» a ^iW»« Ecclefi» vi «Mtiahi ) nh cw p ywd a iW tiic«>Manmo perantaenr, ae jalMiia’
priauniwr iJ>«snim diòtac ncUTamiai jndicaluf. fa^-Quacc Pnip«r
Faritiacnifran« ulìaa ftcBia recepcuai,
afirmat Bcoiofearim ipa uma ii in oai, cun ftaiufa inen» ab ddiSs qua' aalto
coa61ào,,fcd impaa» quodim fiant. Siti
rdugam» milòranim, non dcbei» KccleCas latnauw tpolaaca& c^cK, et «ornai ricapnculaa qui aooaia facàtera
pcrpsir«\ c>iac ; aieaqnO talk,’
tap^rqua efloy iì Judkies miinoria >bibl«llii, qui Itvidia 4elii^ juilkant eam ' obloroeiu led OM^roi jndicni
in aarooocibai ;ba non lencri; prave oiiam Veneti 1 k» logr contUtueiam ilL
Noa.> Aprili» Md>CX. Mii. . '•io»l. .W.Ì Qnanam vero dtliAa aeibcianm luxnÌM
otnfeaanr, peatar ùlqaeil ipfum delifli
gcnui prafefert, k ic^bn». impafita fack «dtipi poteA; dnbet JtiMck tiomemia oagnoKly baiiiu
aaiioBe flatus, comlkioniique, BM «jus qui inpriam iirfiae, lam «jua ctiam qui
cam paflia fuity aVaMniBi ^i^ oanla,
ccrapork, qua, fciUctt, de caufa, «by et quando, onaamifluaa fueric delkluni ; roran
etiam qua ob id evenarunt, perflirbaeionisi, kfleniionisy tt aliafwn, qas ém
majos angeni pctpeinoim làciau», iacmnique ut mugn, inagil^t in odio kabeaur
ab oauMbnt. •« ’uU leu i ribus de eaufis,
qa« iingni* fluir pon eflent, in enormu atqueatrocia facHioca evadunt. Cun» ver» iannnlaaabiies
rmt.aalas qui flepius accidoIV |Mnva»
vas aliquot opiniones habeant, baptiffiiatis tamen chara^ere infigniti, Chrifium Jclum aliqua faltem ratione
venerantur, quem infideics averfantur, atque execrantur. Teme .
R CAP. STORIA DEGL’USCOCCHI SCRITTA DA MINUCIO MINUCCI, ARCIVESCOVO DI ZAKA, Co' progreJi di qoelU gty»o, rnirìiauta fino
alt anno MDcxri. DA P. M. DE’SERVI»
della Serenijpma Rept$bbiica
Vènn^a, JON mi pongo a fcriverc
la Stona degli Ufcocchi per far celebre
il nome di gente tale preiTo a quelli ebe la leggeranno; nemmeno per foddisfar
l'emplicemcnce alla curiofìt^ di chi fi perfuaderli forfè di aver a vedere in quelli fcritti varj
accidenti feguiti in molti anni nelle
fcorreric di terra, edi mare, colle
quali quella razza di ladroni ha fpo'
gliati ì mercanti innocenti, e dilettate le Provincie, turbato il
commercio, e cimentati in pericolofe guerre i maggiori -Principi dei Mondo con
dubbio di maggior turbolenza nella Cridianitk, fe raltrui prudenza, e autoritlt
non avelTe fempre attefo a divertirle. Non è quello il mio fine, nè per quello
vorrei io perdere il tempo, che polfo, e fono obbligato a fpendere in pili giovevoli eferciz) fecondo lo dato, e la
condizione nella qual verfo, con obbligo
piuttodo di operare, che di fcrìvere.* ma penfo che fta fervizio di Sua Divina Maed^, e utile a’ Principi
Cridiani, che fi fappia onde fieno derivate le ragioni, *che in fettanta anni
non fi fia mai, potuto rimediare alle rubberie degli Ufcocehi; e come fi fia
ritrovato il modo di farlo in quedi
ultimi tempi, quando Tinfolenza loro era arrivata a tale, che non erapih
pofiibile il folferìrla; ma dinecelTitk fi aveva a reprimerla, o ad adpettare
un'aperta guerra fuor di tempo, colla Cafa dAudria, e la Repubblica di
Venezia. Il difeoprimemo di quede
faccende cred* io che tanto pofia fervìre
a* buoni Principi, per tener T occhio alla mano, e agrinterefii de* maTomo
II, S li Mi ; li
Mipiflri in qaefta, o in altre limili occorrenze^ biffine di non UfciarG
ingannare in pregiudizio della fama, e dello llato proprio, quan fogliano tener
celau la verità altrui, preferendo
ringiufliOìnio guadagno alla riputazione, e al buon fervizio de’ loro Padroni; ficcome anche una tal
notizia far^ atta a far conofcere al Mphdo (he, quan^p i Principi dicqno,' e
fennò daddovero, e fi fervono di
flrumChto fecale, c valoròG), non pnffono. aver tempo i ladroni che inquietano,
e danneggiano i vicini; e fono fpeiTo cagione di pericolofìflìme guerre. Quefli lono adunque
tutti gli (limoli che mi han tevano agli
fpetracoli luUe Forche, cominciarono per vendetta, o per rapacità, ad ammazzare, depredare, e
ipogliare anche i Valcelli, le Ville, c le Terre, e i fudditi Veneti; onde
Gnalmente fu coflfetta la Repubblica anche di perfeguitarli non folo lui mare,
come aveva fatto per innanzi, ma anche
nelle Terre, Caflella, c Città ove fi ricoveravano, fenza mirare a’ padroni de'
quali erano; e lenza altro riipecto, che
di levar dal mondo gli affailini, che ogni giorno diventavano più fieri, più barbari, c più ianguinarj : il che
minacciava una manifeila guerra
tra’Principi Cnfliani, le Papa Clemente Vili,, vedendo il pericolo, non vi
aveffe a tempo incerpolla la lua autorità con graviflìmi configli, acciò, mentre fi guerreggiava in
Unghcru contra il Turco con tante difficoltà, quelli nuovi femi di comefe non
rocrceGero i Crifliani in maggior
rilchio .* onde ne feguà in fine il defidcrato accomodamento, che farà anche il
termine al quale ha da arrivare con
l’ajuio di Dio quefla delchzione per l’ordine divifaio. GLI USCOCCHI
SONO GENTE Diltnatinà, dallo Stato di iln Principe, o. per delitti commeni, o per impazienza del
giogo tirannico, fuggiti ai Dominj di
Principe vicino; e ciò fi dimoftra dall' ilielTa voce fioco, che in latino fi direbbe transfuga. Quello
nome, lenza titolo però d’infamia,
cominciò ad acquillar grido, non fono ancora cento anni, in quel tempo in cui l’arme Turchelche,
eflendofi dillefe per 1 ’ Ungheria, e per la Grecia, nella Bulghcria, nella
Servia, e nella Rafcia, travagliavano i
confini della Croazia, e delta Dalmazia; perchè all' ora molti Uomini valorofi,
non potendo viver fotto la tirannide Turchefea, ricordandoli di elTer nati
nella vera Fede dei Vangelo, partendo dal paefe gib foggiogato da’ nemici, fi
ritiravano a qualche luogo forte de’
Criiliani ; e di Ib, flimolati dal dolore delle
cofe perdute, e della patria foggiogau, con molta ferocia ajuuta dalla notizia de i palli, e dalle legrete
intelligenze de’ parenti, e degli amici, corfeggiavano ogni gbmo, e portavano
a’ Turchi molti danni. La prima, e piò faraofa piazza che fi
cl^gelTero gli Ufcocclii, come piò opportuna a quelli loro furtivi alulti, fu
quella di Clilfa, Fortezza polla fopra
Spalatro, poco difcolla dalle antiche rovine di
Salona, in fito fortillimo, ove fi apre un fenticro flretto, e pel quale
foto fi cala dalle vicine montagne della Morlacca verfo il mare ; ove portandoli diverfe mercanzie, chi è
padrone del luogo ne cava anche dazio
importante. Era all’ora Signor di Clilfa Pietro Crofichio, come feudatario della Corona di Ungheria, il
quale, fidandoli nella qualitb del fito,
che pareva inefpugnabile, dava volentieri nccrto agli Ufcocchi, giudicando incautamente di poter
colf opra loro render piò ficure le cole
proprie, e forfè dilatare i confini, e arricchire di fpoglie. Ma gli fucccCfe
tutto il contrario; perchè, prov9cati i Turchi
da’ continui danni, voltarono il penfiero alla efpugnazione di
Clilfa nell’anno 1537. al che forfè non
avrebbero afpirato mai per la difficoltb dell’ imprefa, fe il Crofichio fi
folfe contentato di mantenere le cofe
fue lenza fluzzicare il verpajo, come fi dice : il efie può fervire di
avvenimento ad altri piccloU Signori, di non provocar l’ira del maggiore, confidandofi, 0 in forze, o in
appt^gio ^ altri Potentati; per^è Umili
fperanze rìelbono per ordinario fallui. Vedendo adunque il Crofichio la rovina che gli veniva
addoflb, fu af tempo d’invocare, c
ricevere gli ajuti di Papa Paolo 111. e di Ferdinando Imperadore, co’ quali elfendofi pollo a dillruggere due
forti che fi fabbricavano da’nemici, a fine di llrignere Clilfa con alfedio
lungo, fu con improvrifo affalto rotto da’Turchi, e uccifo; onde, mollrando la
fua tella a’Clilfani, mifero unto Ipavcnto, che tollo rilolfero di arrenderfi,
diffidandoli di poterli piò
mantenere. Nell’ alfedio di Clilfa, che
durò piò di un anno, occorfe un fatto memorabile, del quale non cifendo (lata
fatta menzione da altri, non mi è paruto
fuor di propofito il riferirlo in quello luogo : pafiò egli dunque in quella
maniera. Nel campo di fuori fi trovava un Turco nominato Bagora, di natura
grande, e di forze tremende, il quale, come un nuovo Golia, sfidava ogni giorno
quei di dentro a fingolar batuglia, rimproverando loro la viltb, e la chiufura
della muraglia : arroflivano i CrilliaTomo !!• S z ni di 140 ’ STORIA fii di vergogna; nu ritenuti forfè dalla
prudenza del Capitano, e for« fé anche
da ragionevol timore, non ulcivano da* ripari : quando un giovinetto, nominato
Miloflb, il quale ferviva al Crofìchio di paggio, (t fece innanzi al padrone, diman^ndo il
combattimento contra Bagora : ma riprefo
come troppo audace, e dilugaule à tanto nemico, f^giunle ch’egli confidava in
Dio di doverlo vincere.- c (c pur rimancfle perditore, farebbe poco danno, c
poco dilonore de’Criftiani, che un Turco di tanto creato foire recato fupcriore
ad un garzone : in fomma queOo era (laro
detto da Dio, come un nuovo David contra Golia,
a- domare la luperbU orgogliola di Bagora. Ufei egli adunque accompagnato
da divote orazioni dc’Fedeti CrifUani, c con un colpo di feimitarra, che fu
forlc il primo, tagliò netta una gamba al nemico; il quale, f^ermatofi nondimeno falla colcia
manca, tutto rabbiofo fi andava girando con tanta furia, che l’ardito giovane,
febben gli laltellava intorno, per
venire a fine della vittoria, non poteva però avvidnarfegli per far alcun
colpo; ma aveva che fare alTai a fchifar quelli dellinfuriato nimico, il quale
nemmeno con tanto empito, che, Icaniando 10 il CrilUano coll’ agilità della
perfona, non potè il Turco reggerfx luila gamba tronca, o lulla lana, ma cadde
boccone, c nel medeGmo tempo gli cadde
di mano la feimitarra; febben altri riferifeono che U gittò via fpontaneameme, con dire a MilolTo,
che lo feriva di lontano con-fain, che non lo volciTè uccider come cane, ma
come Uomo di guerra; o ooù colf arma propria gli fu troncata la tefla, la quale fu portata con allegre grida dentro a
ClifTa; ma eirendoll ei 11 poco dappoi perdura*, non potè eifer lunga
Taltegrczza di cosi nobil fatto. Venuta* Cliilà> ia mano de' Turchi, rellò
loro libero il pafTo, per fare feorrerk
in tutta la Dalmazia, e Croazia, lenza impedimento; e lì ajirirono il primo
adito nel Contado di Zara, dfendofi loro io quei medefìmi gioni renduto anclic
per tradimento Nadino, Camello importanre, poAo nel bellico del medefimo
territorio di Zara: ma gli Ufcocchi
a^'anzati alla infelice battaglia lì ricovenron» tu Segna, Citch polla
in un'intimo rcccflb del icno Flanonico,
oggi detto corrotumente QuarnaTo, o Carnaro, da’ monti di Gamia che
l’inquietano con tempere continue, di rincontro allTlola di Veglia;
giudicandola opportuna a’ difegni loro,
per; la fortezza del fìto naturale, ajutaio anche aìTai con'arteiperchè per la
via di terra, rilpetto a’bolchi, c monti, non vi fi poteva accoftarc cfcrcito, ne condurvi la
cavalleria, non che le vettovaglie, o i
arriglieria; e per mare non vi era porto capace, nè anche di poca Armata; c il tenerfi fu quel canale era
perìcolofo eziandio in mezzo alla State, pel vento di ^rea che vi lòffia
fpelliflìmo, c che, per comune opinione, (febben par favola il dirlo) li può
concitare a voglia Perciò gli
Ufcocchi tanto piò volentieri fi
ridulTcro in quel ricetto, condotti anche con onorati liipendj militari
dalfimperadore, perchè, eflendo ellt uomini feroci, e ufi non folo a camminare,
ma anche a correre con piedi faldi per bofehi, e per balze, pensò, mediante
l’opera loro, di tener lontani t Turchi da tutti quei confini, c far difabicare
la Lica, e la Corbavia, dalle quali Provincie foprallavano 1 piu vicini
pericoli. Nè gli riufe^ all'ora male il
difegno, mentre gli Ulcocchì attefero con gagliadi ftratageromi, e con
repentine lòrtite a battere il nimico: ma tolto
cominciarono a convertire le onorare imprefe militari in latrocini,
e rubbamenti de'Criltiani, onde fi
rendettero odiofi a tutti i vicini. Li
medefìmo MilolTo, che fottoClilTa nell' ammazzamento di Bagora aveva
acquifiato tanto onore, corrotto in Segna col mal’ ufo delle ingiufle
depredazioni, dappoiché era diventato Uomo di maravigliofa fortezza di corpo,
contaminò la lua fama, e fìnt poi la vita in Zara con un capefiro. Gli altri, valcndofi della
comoditi del Mare, e de'recefll fallaci,
ne’ quali difficilmente potevano elTer feguiri, avevano introdotto rcfercizio di alcune Barche vclociffime,
colle quali coiteggiavano le marine, e
afficuravano le prede che facevano in terra da qualunque improvvifa furia de’Turchi; coftumando di
nafconderlc ne’cefpugli, c anche di
fommergerlc fotto l’acqua, per cavarle poi negli urgenti bifogni. Colle
medefime barche affairavano anche! Vaiceli! de’Mercanti, o dentro i poni, o in altri luoghi opportuni
con infidie notturne ; profelfando però
dapprincipio di non voler toccare nè le robe, nè le pcrlonc dc’Crilliani, ma Iblo de’ Giudei, e
de’Turchi; Icbben fpeflb trattavano
tutti ugualmente. Onde la navigazione veniva impedita, e il commercio interrotto; c in Coftantinopoli
fi facevano lamentazioni, c minacce
contra i Veneziani, come quelli, a’quali, per le condizioni^ della pace, toccava di tenere netto il golfo
Adriatico, e libera la navigazione per i Mercanti, e Sudditi Turchefehi,* onde
Solimano fi la-' feiava intendere
liberamente di voler mandar l’Armata propria alla eftirpazione degli Ufcocchi,
e afficurazione del Golfo; cfib nei capellri, e nelle catene. In quelli tempi l’Ilole di Veglia, d’Arbc,
di Pago, cogli Scogli di ^ara patirono
tanti danni, che ne fegui poco meno che la defolazione : molte Ville fi abbandonarono, i greggi, c gli
armenti, che erano numerofi, fi dilpcricro; c le genri, per difperazione,
ftavano per abbandonar il paeie : quelli che erano atti alle arme, e alle
fatiche, corfero tanto più prontamente ad alcrivcrfi fu le barche lunghe, che
fino al numero di trenta s'andavano
armando dalia Repubblica, come piò atte d’ogni altro Valceilo a Icguitar i
ladroni per li ftretti canali, e per le
Ipiaggie di poco fondo, colle quali ft veniva anche a metter gli Ufcocchi in
maggior, dilperazione, a’ quali in Segna non fi pagavano gli ilipend) dalla Corte Cefarca; anzi di Ib
proccuravaoo di addolTar qualche carico all’ Arciduca di Grata, per eflTcr
Segna Frontiera particolare de’ fuoi
Stati, lébben apparteneza del Regno d’Ungheria : e dall’ altro canto il pacle non dava comodità alcuna di
agricoltura, o di altra induftria; le Icorrcrie di terra rilucivano di molto
pericolo, c di poco frutto; c quelle di
ntare, per le caule accennate, conducevano ben fpeffo alla forca, e non fempre
alla preda: onde di pura rabbia gli Ulcocchi, non potendo faziar la fame col
cibo, la sfogavano col languc, e colle
uccifionì piene di crudeltà. J)a tutte
quelle infolenze degli Ufcocchi, oltra il danno che ricevev.ano i fudditi della
ScrcnilTima Repubblica, e le continue lamentazioni che portavano a Venezia
elli, e 1 Mercanti che fpcflb erano fvaligiati, venivano ad irriiarfi
maggiormente (come fi è giU detto) i Turchi- onde il gran Signore, c i Batà ne
facevano in Collantinopoli continui rifentimcnii con protellazioni che, non
provvedendovi la Repubblica, «fiì vi. provvederebbono da sè llcfli. I Veneziani
all’ incontro, procèdendo colla iblita
loro propria ^denza, olt^ la iòllecitudine che
ufavano fempre maggiore di pcricguitar i ladri, e gafiigarli,
facevano anche continui uffizj colf
Imperadore', che non tolleraffe né' fuoi Stati
una uni tana ingiufiizia; nè permctteOè contri quello che apparteneva alla
dignità fui, e alla perpetua fama dell’ integrità della Cafa d'Auftria, che ne
gli Stati fuoi fi deOe ricetto ad Uomini fcelleratilfimi, e a pubblici corfari
congiungevano gli ufhzj a quello medefimo
fine i Papi, moOi parte dal pubblico fcrvizio della Crifiianità, e
dal peticolo di qualche guerra tra’
Principi fedeli ; vedendofi bene che a
lungo andare non avrebbono potuta i Veneziani dar faldi a tanta ingiuria ;
parte anche fpintì da' proprii intetelC loro, perchè nè anche fi portava rifpetto a' Mercanti d’
Ancona, e di altre Città della Marca, e
della Romagna ; e veniva ad impedirli il commerzio, e il traffico con danno
delle gabelle, e con rovina de’ Sudditi, Le quali tagioni movevano anche i Re
di Spagna a concorrere nel medeCmo defiderio, e nelle medefime illanze per
quello che pativano gli abiranti del
Regno di Napoli, foliti a portar vini, grani, mandole, e altre preziofe merci a
Venezia ; le quali medefimamente erano
mal licure dalla rapacità di quella canaglia :
oltra che il Re Rimava fua vergogna grande, che il mondo vedeffe elTer
ricettati, e alTicurati nelli Suti di Cafa d'Audria i pubblj^ ci ladroni, oramai infami per le loro
infolenze in tuta Europa, ? luori d’
Europa. Ma un’altro detrimento
confiderabile moveva il Papa, come il Re
Cattolico, a defiderare che foflc melTo freno a tante rubberie,* perchè,
impiegandoli le Galee Veneziane nella perfecuzione di quelli ribaldi, non potevano elle a'tempi debiti (
come erano folite) feorrere U marine Pontificie, e Regie, per aflicurarle
da’Cotfari, i quali, fatti perciò più arditi, volavano ciafeun anno di Barbaria,
e di Grecia nella llagione delle Fiere,
e ne riportavano fempre ricchiffime prede con numera grande di Schiavi, quafi a
mano falva, non potcndofi tener netti
quei mari con altri Vafcclli, parte per non
elTere frequentati i porti ; parte anche per antico Dominio fempre lafciato libero a’ Veneziani di tutto il
Golfo ; fotto il qual nome fi comptende
quello fpazio di mare che fi rinchiude tra Otranto, e la Vallona, feorrendo verfo Ponente fino a
Venezia. Tutte (quelle conliderazioni,
e inierelli rapprefentati a Cefare con
anta autorità della Sede AppoRolica, e della Corona di Spagna, non facevano altro effetto, che di Ipeziofe
promeffe, e apparente indignazione,
dichiarandofi di volervi provvedere in ogni modo; ma nel fegreto li vedeva che a’ Minillri
corrotti piaceva il diflurbo che fi dava
a’ Veneziani ; e forfè più la parte che loro perveniva -• delle prede. Si mandarono però alcune volte a
quello effetto Comnicffarj a Segna con ordine di regolare quella milizia, o
mafnada di ladroni ; fe n’ impiccò ul
vola qualch’ uno, forfè de’ meno colpevoli ; fi reflituirono alcuni Vafcelli, e
alcune merci di minor prezzo ; fi
diedero ordini divulgati al Capitano di Segna, di non lafciar ufeire gli Ufeocchi per mare, e di
non ricettarli dopo le lubberie : dopo i
quali rimedj fi procedeva per alcuni mefi con
qualche maggior modellia.- ma indi a poco, come ave llerò a rifarC del
tempo perduto, fi faceva peggio, che prima. E febben, arrivando i malandoni con
qualche groffii preda, il Capitano, per mofirarfi efecutore degli ordini, tal
volta usò di chiuder loro le porte in facTomo II, T eia, e eia, e di fparar anche loro ianiglieria
contra, (ma fenza danno per&)
molìrando di non ammetterli, acciocché di tal Tua rifoluzione natidafle
ravvilo all’ Ifole Venete, e da quelle poi all’ armata, e a Venezia ; nondimeno
di notte s' [introducevano gl' Uomini, e le prede la maggior parte delle quali era del Capitano
> c i predatori ne riportavano lode,
e ciò che badava a trionfare colie loro famiglie per alcuni pochi giorni ; dopo i quali
conveniva trionfare alla buIca, o morire di fame ; perché tanto contribuivano i
mefehini in faziare l’ ingordigia del
loro Capitano, e di qualche altro che co»
mandava al Capitano ; c in mantcnerfi i favori d' alcuni Miniftri nella Corte Celarca, c dell’ Arciduca di
Gratz, (che dovevano effer di quelli i quali, per mancamento di fede, fi
curavano poco delta Bolla in Cccna
Domini, o d’ altre cenfure ) che picciola parte
ne rimaneva loro, come fi può argomentar facilmente dalia povertà, e
milcria colla quale fono fempre vifTuti ; né mai fi è intcTo che alcuno fia divenuto ricco. anzi fi è
fentito dir di un Ulcocco vecchio,
fìorpiato, che, dando lèmpre a giacere in Ietto dedituto ^ ogni ajuto, confedava di efrerft ritrovato
ne* fuoi d'i a tante preac, che le porzioni toccate a lui per certi conti
tenuti cos'i di grof*. fo pafiavano
ottanta mila ducaci; nondimeno era miferabilc, e mendico, cosi permettendo la
divina eiudizia. £ fu detto piu volte,
che alcuni mercanti fvaligiati, efifendo ricorfi alle Corti Audriache, per
lamcncarfi, c per ottenere qualche reintegrazione de’ loro danni, avevano
riconolciute intorno alle mogli de’
principali Minidri i giojelli, c altre cole prcziolé tolte loro. Cosi i
Principi ottimi, e d’ imegriii, e giudizia incomparabile, vengono fpelTo
ingannaci da’ mali configli, abulando della bontk, c clemenza loro, con
denigrazione della* fama • c nel mondo fi celebra per gran gloria della Cafa d’ AudrU, che,
dominando gìH 300. c più anni, cost
lungo Impero, c cosi potenti Regni, abbia però rariffime volte, o non mai
gadigato per qualunque fallo minidro alcuno, o nella vita, o nella roba mal
acquidata : ma forfè meritano maggior nome di prudenza quelli che, ficcome fono
liberali nel premialo i meritevoli, cosi
gadigano .con feverii^ i mancatori : nè
farò alcuno che polTa biafimar Rodolfo Imperadore della ientenza
che fece contra Giorgio Popel, per
nobiliò, c ricchezza tra' principali
Cavalieri di Boemia, fc furono vere le colpe fiie, privandolo della libertò, e della facoltò : piò todo fi poteva
dedderare che al mcdefimo rigore arrivane la giudizia contra altri due minidri
che ultimamente fi fcacciarono di Corte, i quali forfè predo alla Maedù Cefarea furono autori di piu dannofi
configli.' non fi è però anco ra
pubblicato, fe edì fieno veramente dati anche fomentatori derubbimcnti degli
Ulcocchi.* ma fc un giorno fi pubblicheranno i
procedi che s* intende eder fiati fatti da’ Generali Veneti,
cavando da diverfi cofiituti di rei
condannati a morte t nomi de’ loro particolari fautori ; e con quali, e con
quanti prclenti le li lenedcro amici ;
forfè fi feopriranBo cofe che daranno cagione di arroflire a molli ; e apriranno maggior lume a’ Principi
di conolcere le fraudi colle quali è fiata per tanti anni tradita. la fama, e
il fervizio loro. Con qncfti mezzi fi foftenevino adunque gli Ufcocchi ; e
reftando fruftatori tutti gl’ufliz; che fi facevano, per reprimere le loro
infolenze, foddisfacendofi folo agl’
intereflati in parte con certe apparenti dimoftrazioni nel redo fi adducevano
per ilcole l’ordinaria natura de’ confini,
che produce lempre uomini di mal’ affare; e che in quello di Segna, tanto importante, che difendeva lunghe
frontiere contra il Turco, non fi
potevano cos'l vedere tutte le cole per minuto, nè gaftigar con rigor di
giuftizia ogni misfatto, per non diftruggere gli Uommi forti, Lceffari a quella difefa: fi allegava
l’efempio de’Cofachi, i quali, abitando alcune ifole forti, e inacceflibili del
Borillene; effendo effi collegati de’Pollachi, e Mofcoviti, e de’ Tartari,
danneggiano per mare, e ìtr terra
fpezialmente le Citt'a, e i Vafcelli de Turchi; ne bafta dili«nza alcuna ad
eftirparli: e lebben efft dipendono particolarmente da Pollachi, e da quel Re fono loliti di
ricevere il Capitano al quale ubbidifcono, nondimeno, quando da Coftantinopoli,
o dalla T«taria Precopenfe vengono querele delle depredazioni, e degli
incendjloro, che fanno affai fpeffo
verfo Moncaftro, e l’altre marittime terre della Moldavia che fi tengono con
prefidj dal gran Signore, e fono mercati celebri’ il Re di Pollonia luole
Tempre Icufarfi, che non è in lua mano
di raffrenarli, dando nel rello buone fperanze, e parole. I Colachi, per aggiungere quello, (poiché
fiamo venuti in propcnto delle condizioni loro) abitano, come abbiamo detto di
fopra, I itole del Boriitene, che, febben’è fiume ncchiffimo d acqua, non fi
naviga però per effer rapidifiimo, e pieno di Icogli, e di falfi eminenti; ma i Cofachi lo paffano parte con picciole
barchette, o d’un fol legno durilfimo
Icavato, o di cuojo cotto, acciò, urtando impetuolamente negli fcogli, non fi
Ipezzino; pane s’ajutano co ’l nuoto; neaqueUi, che non fono ben pratici, è ficuro accollarfi
alle loro tane, dove provvilli che fono
di vettovaglie, non temono furia, o potenza di qualunque nemico- neirilole cullodilcono le mogli, e i
figliuoli in mal compolle capanne- e
quando elfi efeono, lafciano lempre alla guardia qualche pane della milizia. Sogliono effere intorno a
5000. combattenti in eredito di tanta virtù militare, e di tanta giullizia
nella dillribuzione delle prede che alcuni nobili Pollacchi hanno quella per
buona Icuola, ove n’allevino i figliuoli
loro nelle arti della militar difciplina. quelli daMi Scrittori Pollacchi fono chiamati
Niforj; perchè il Borillene, che
da’vicini popoli è chiamato Nieper, da efli è detto Nis ; e Niforj fi nominano, come abitatori del Borirtene,
effendo il nome de’ Cofachi m Pollonia
più generale, col quale intendono la cavalleria leggiera. Ora i Cofachi o Nilotj, in tempo di guerra
crelcono maravigliolamente di numero,
'perchè molti s’accollano volentieri alle b^e loro, o per la fama del loro valore militare, o per la
fperanza della preda; onde fi unifeono
anche de’medefimi Sudditi Turchelchi, non lolo Moldavi, e Vallachi, ma anche Tartari; delU qual nazione
lono in gran parte gli abitatori delle
circonvicine riviere del mar maggiore, fpezialmente di Orzunia, e di Balograd.. Ma tornando al
nollro propofito, Cccome gl Impenah moftravano
coll’efempio de’ Cofachi che ne’ luoghi de’ confini era neceflario
tollerare anche le genti rapaci, e predatrici ; e che efli coll opera
degli Ufcocchi difendevano queUe
importantilfime frontiere, arte qu^, per
Tom. II. T a lafprez-, lUfprezza
de’ monti, niun’ altra Torta di gente farebbe ftau egualmente jitta ; così promettevano nondimeno di azi
ordine tale al Capitano di &gna, che
ptpibifle, e gaftigaflc quelli che danneggiaflTero > confini Veneti, o in
alerà modo deflero molelHa a’ Cridiani .* ma U Capitano (ì fculava poi di non poterlo fare, per la
tardanza, e pel mancamento de gli
fUpendj, fenza i quali era impolfibile trattener quei prefìdj, nequali
ordinariamente fi fpendevano venti mila Ducati all'anno; e niuno rilblfe di
metter qualche fermo aflegnamento per quella poca fomma, onde cenfalfero le
querele, e le feufe: anzi quando l'Arciduca Carlo rìfiedeva in Gratz, e poi
l’Arciduca Ferdinando, Tuo figliuolo, moffi, o dagli interein de'loro Sudditi,
o dall'onor della cafa d'Aullria, o
dalla propria cofeienza, (come fono itati quei Principi dotati dì
una ingoiar virtù, e zelo) facevano iflaoza
alla Corte Cefarea che non fi
tplieraflero i latrocin) infami, e che fi mandafiero a tempo le
paghe, per levar quella feufa a'
ladroni, e per metter loro il freno; fi nlpondeva che elfi, come più vicini,
pìglUfTero la cura di pagar detti ihpendj, e poi regolalTero le cofe a modo
loro.* ma gli Arciduchi fi Iculavano, che Seg-na non era dello Stato loro, ma
appartenenza del Regno d'Ungheria; e che a quella Corona toccava la cura,* die
elTi però non potevano addofiarfi quella fpefa di più, avendo da guardar tante
altre Piazze centra il comun nemico. Con quelli trattaci, e con quelli fviamenii s’andava prolungando il
rimedio, che con onore non fi poteva
negare; ma, per altri rirpétti, non li penfava di applicare. Sopportavano nondimeno i Veneziani con una
prudente pazienza tanti aggravi, e tanti pregiudizi, rifoluti di tentare ogni
cola primacchè venire ad una manilefla
guerra, la quale abborrivano per tre cagioni.prima perchè vedevano che la
rovina cafchercbbc Ibpra grinnoccnti Sudditi degli Arciduchi, alla maggior
parte de’quali lapevano fermamente
difpiacerc le fcelleraggini degli Ulcocchi, ormai abl^miuaii da tutto
il mondo ; nè fi poteva andar contra
Segna, che ì primi a fentire le miferie della guerra non folTcro i vicini
Fiumani, quelli di Lovrana, e di Novi, e
altri non principali nella colpa. La lècoada caul'a, e più importante, era,
che, movendofì i Veneziani per mare contra di Segna, i Turchi fi offerivano di movcrfi liibito per
terra; nè clTi volevano in quel modo
aprire la porta a’ Turchi da penetrare nelle viteere d'Italia, per non effer rei dinanzi a Dio, e nel
colpetto degli Uomini, di aver voluto
vendicare le private ingiurie con damo uiiiverfale di tutta la Crillianitk. Moveva gli Uomini prudentilTimi
una terza ragione piti profonda, fondata
nel loro panicolar lervizio; perchè, elTendo loro rimafie in Dalmazia, dopo
l’ultima guerra de’ Turchi, le fole Citta marittime colle gengive di pochilfimi
territori, dubitavano che i Turchi, gih
invaghiti della bellezza e fertilità del paele, non s’ annidalTcro con villaggi, e palazzi fin fugU occhi delle lor
Cittì»; con che i Sudditi farebbono fiati elclufì da tutto l’efercizio dell’
agricoltura, e le Cittù (àrebbono fiate fogeettc a continue infidie della gente
di quella regione barbara, prelTo alfa
quale non viene fiimata ragione alcuna di pace, di patti, o di leggi. Quefie furono adunque le
confiderazioni, c le ragioni, per le quali s’andò portando innanzi il negozio,
e proccurando il rimedio con pazienza,
fenza prorompere in una aperta guerra; perchè
in fomroa fi defiderava di vedere moderate le feorrerie degli Ulcocchi, ma
non di vedere t buoni eftinti ; e fì aveva riguardo di non facilitare la firada
alle maggiori rovine d’ Italia, e della Criflianit^ ; nè It veniva volentieri a partito di far patir a
gl’ innocenti la pena de’ falli altrui
.* onde da’ Sommi Pontefici, che Capevano U fegreto, fu grandemente lodata la
pieù, e la prudenza del Senato Veneto, colla quale veniva anche moderato
l’ardir di quelli che avevano Tarme in mano, e
reggevano Tarmata; i qu^li', fecondo la loro natura militare, i più impazienti
non potevano lòpportar tanti oltraggi. Ma era necelTario che tanti peccati di gente
ribalda, tanti faccheggiamenti, e ammazzamenti di poveri, tante lagrime di
miferi affUcd movelTero Tira delT eterno
Dio, acciò, fé in terra andavano impuniti si
gran delitti, ne moflrafTe vendetta il Cielo.* onde venne in
penfieroad AfOm Bafsh della Bellina,
regno che confina colla Dalmazia, di npprefentare alla Porta le molefiie, i
danni, e le rovine continue che pativano i Sudditi del Gran Signore da quello
poco numero di ladroni; e che con
grandifilma indegnità d’un si grande Imperio, e di una tal potenza era il
tollerarlo : che egli, fé gli foflfe data autorità, colle forze del fuo governo avrebbe non folo dillrutti
gli Ufcocchi, ma allargati i confini per
le reliquie del r^no diCrovazia, e de’ vicini Stati Aullrìaci fino a Segna, e piò innanzi folto i felici
aufpicj Ottomani. Era Affan per vigore di corpo, e prudenza d’animo affai
inclinato alTarte della guerra; nè contento degli onori, a’ quali da debole
principio cosi olirà il corfo di mondana profperic^ era arrivato, che afpirava
di farli flrada celle fatiche militari a
primi gradi di quel barbaro Imperio: però difcorlè del negozio in maniera, che
eli fu facile il periuaderlo alla Porta, ove fi defiderava grandemente di
galligare la temerità degli Ufcocchi, ed
erano inalpriti gli animi dalle continue lamentazioni de' Sudditi, i quali deferivevano in modo la
crudeltà dc’iadroni, ei flrazj che
pativano i fchiavi i quali capitavano in mano loro, che ormai fino in
Cbllantinopoli, e nelle vicine provincie Europee, quando fi voleva pregare ad
alcuno che non cadeffe in cllrema mileria, fe gli diceva cosi.* Dìo ti guardi
dalle mani de’Segnani. Però furono volentieri afcoltaci dai gran Signore, e da
i Bafsh i configli, e le proferte di
Afian; onde gli fu data commilfione, che rómpelTe la guerra, la
quale per tal caufa cominciofii Tanno 15572.
e durò fino a quello del 1602, con
variati luccelTi, ne’quali hanno avute continue occafioni i Crifiiani di riconofeere la particolare protezione
dell’onnipotente Dìo, il quale, febben
mollrò dapprincipio di volerli gallìgare, non ha però permeiTo che fin ora fieno affatto caipcflaii da’
nemici del fuo tanto Nome. £ quantunque
ad Affan vcniiì'cro profperi i principj della guerra, poiché lenza molta
difiicoltH s’impadronì di Sifacn, eBichiach, quefio fui fiume Una, e l'altro sò la Cupa, come oggidì
lo nominano i paeiani; ambi luoghi
opportuni a’fuoi difegni, a’ quali fi credea poterli dilficilmenre far
conveniente refiflcnza colle forze dell’Ungheria, che s’ erano debilitate, per eflerfi colla fperanza della
lunga guerra che avevano avuta i Turchi
in Perfia diimelTo nel regno Tufo dell' arme ; ed erano annichilati i prelidj di cavalleria, e di
Isteria, che per djfela delle frontiere
fi folevano ne’ confini mamene;*e nuracrofiinmì colle contribuzioni dclT
Imperio; le quali, parendo che gih ceiralfero ì pericoli, fi coovertivano in
alui ufi. Ma quando cominciò la guerra,
fi accofTcro tutti quanto farebbe Ilato utUe l’aver in tal occafione alla mano
un corpo di milizia tale, ve^ terana, ed
cfercitata; c fi vedeva che lalpctcar foccorfo da’Principi dellImperio, o da
altri Potentati più lontani, era colà lontana, e incerta; ORoc fi temeva ragionevolmente che non
andafie la Crovazia, e TUnghcrìa tutta in poter del nimico t però fi
maledicevano UÌcocchi,e fi (kfiinavano
loro gli ultimi lupplizj, come ad Uomini icelleraiiffimi, c autori di tutte le rovine. Ma ne’ maggiori
mancamenti di forze, c di configli,
volle la divina miiericordia loccorere i Crifiiani in modo, che tutti conofeefiero efler ugualmente
facile a lei il vincer con pochi, o con
molti: perchè, circndofi l'anno leguente condotto Afian collcfcrcito
vittoriofo, c invigorito da i profperi luccefiì, vcrioSifach, c paffata la Cupa
con dilegno di calate poi verfo il fiume,^e per quella via farli la lirada alia prcla di Segna, c
all’ertirpazione degli Ulcoccht, e ad
altri più valli progrefii, fu Icopcrto da alcune compagnie di cavaili, che*^ fi
erano meflc infiemc de’ vicini prefidj Audriaci, con fine d’offervare gli
andamenti del nemico, c di fargli alcun contrado in qualche anguilia dc’paffi,
o d' impedirgli le vettovaglie, più tofto che di far teda, e di combattere a bandiere fpiegate
in tanta dtiugiiaglianza di numero,
efiendo i Turchi più dÌ40ooo., e iCrilliani intorno 4000. ma edendo quelli tnafpettatamciue avvicinati
alla Cupa, e avuto l’avvilo che il nemico giù cominciava a paiTare, fi
leniirono infiammare da un’inlolito
ardore, che fi vide poi cnere miracolofo dono del Cielo; perchè, ove alla prima nuova della vicinanza
deli’cfcrcito Turchefeo, tutti gli animi
fi vedevano volti alla fuga con dubbio che nè anche quella fervide allo Icampo; ad una loia
parola pronunziata dal Capitano, che meglio era combattere con quella parte che
era giù pacata il ponte, e che le ne poteva Ipcrare qualche gloriofa vittoria,
il gridar di tutti, che fi vciiilfe alla
battaglia, e il marciare in dretea ordinanza arditamente contra il nemico. Tu
tutto uno; ove T affalto improvvilo miie a’ Turchi tanto tpavenco, che, lenza
far un colpo di lancia, o d’archibufo, fi mifero m una dilperata fuga : c
perchè giù erano padati quali tutti per un pome non molto largo, (edendo il
fiume crclciuto d'acque, che non fi
lalciava gu^zare ) pei medelimo ponte
conveniva ritomariene; il qual non era capace dì più di due cavalli
al paro; e perniile Dio, per maggior
dragc de’ nemici del Tuo l'auto Nome,
che nel mezzo del ponte cadellè un cavallo ferito, che chiule il padb a gli altri; nè riirovandofi in tanta fretta
chi fi pigliad'e cura di farlo rilevare,
o di farlo cader nel fiume, fu cagione della morte di molti.perchè inanimiti
dalla jnalpetraia fdicitù, attendevano co archibufi, e colle Ipade a farne
drage; onde i Turchi fi i>ittavano
prccipirofamente nel fiume. Le rive erano alte; l’acqua groda; il tumulto
grande; la mano di Dio Idegnata; onde di tanto numero pochidlmi fi lalvarono;
poohì morirono di ferite rìlpctto a quelli che fi annegarono; fi penderono ìt
bagaglio tutte, e i cavalli; rimale morto, tra
gli altri, Adùn con un fuo Iraicllo; c i Cridiani, allegri d* una si memorabile
vittoria fcAza pur una minima perdita, carichi di preda, ricuperarono indi a
poco Silach, c cominciarono fperar meglio di tutta la guerra, la quale ha portato in quedo fpazio
di dieci anni varj avvenimenti certo, mù nondimeno uli, che ciafeuno è tenuto
di confelftre, edeili «iTer(I
manifeftamente fcoperti fegni evidenti della protezione deironoipolente Dio
verfo i Crìdiani, perchè fono date efpugnatc le Cità xeaii, rotti gli efercìti formati, meifo in fuga il
proprio gran Signore : nò fi può che
nella prelà di Cliffa confifleffe la diffruzione de’Turchi; nè credevano altro,
fé non che il Papa foffe per pigliarla
per sè, e per quella via mandar efercitt
Crifliant nella Boffina, e far follevare tutte le Provincie con fperanza
di liberti: ma i difegni del Papa erano quelli che fono llaii accenn.ui di
fopra; nè fi giudicava conveniente
fcoprìrli per fola Cliffa; nè meno il manìfeflare a gente mal cauta la caufa della tardanza
.però s’andavano trattenendo, con
induUria afcoltando in tanto le pretenfioni eforbicanti colle quali
ogni giorno fi facevano innanzi e
l'Arcidiacono di Spalatro, fratello di Giovanni Alberti, diceva che la nazione
Schiavona non voleva mettere mano in
quella faccenda, fe non fi faceva un Cardinale della lua lingua ; e
penfava che doveffe toccar a lui, o ad
un Aio fratello Dottore. Era anche venuto
per quello effetto Gaudenzio Canonico; ma più importuno de gli altri
era il Cavalier Bertucci, uomo
arrogante, e di pochiffima levatura, il quale
dimandava il governo perpetuo di Cliffa con groffi Hìpendj; e già fi faceva
padrone lolo del negozio; parendogli di meritar molto, (ebbene ne aveva pochiflima parte, perchè nè a lui, nè a
gli altri fi rivelava il fegretò; ma le generalità del trattato erano in bocca,
per la poca avvertenza di coloro, di
tutti i Dalmatini che fi trovavano in Roma; onde pareva impQfiìbile che non ne
arrivaffe il fentore a'Turchi; e che non faceffero le debite provvifioni per
afllcurar la Piazza. Tutta quella gente
negoziava col Segretario Minuzio; il quale, mentre afpetrava la maturità degli
altri più importanti difegni, loffriva quelle impertinenze al meglio che
poteva.* ma infallidito dalie contìnue moIcllie del Cavalier Bertucci, come
egli era tenuto per natura, per la
moltitudine delle occupazioni, e per la poca laniià, collerico, e impaziente,
fe lo levò dinanzi, accufandolo di prefuniuofo, e dicendogli che forte il governo di Cliffa fi darebbe ad uomo
di più merito di uii ., c che non
conveniva innanzi tempo pattuire della pelle deU’Orfo non ancor prefo. Il
Bertucci, il cui camino s’empiva di fumo con poco fuoco, fi voltò fubito verfo
il Barone diNorad, all’ora Ambafciadorc dellImperadore in Roma, e gli efpofe
tutto l’ordine della trattazione, motirando che ella era già matura; ma che il
Minuzio, come fuddito della Repubblica di Venezia, la impediva co’fuoi
configli. L'Ambafciadore fenz altro predò fede a quello gli fi diceva ; matfime
che, per altre cagioni, era fofpetta a gli Imperiali la perfona del Minuzio,
cosà per effer egli nato fuddito de’
Veneziani, come per effer dipendente da'
Duchi ai Baviera, tra i quali, e la Cafa d'Auflria correvano all' ora alcuni difpareri ; onde egli abbracciò il
negozio, e fubito fupplicò il Papa, che fi conccntaffe di lafciar andar il
Bertucci alla Corte Cefarea, e che 1' imprelà di ClUIà fi tentaffe a nome di
fua Tome if. V Maeflà:, .* il che non fii diflidle da ottenere,
eifendo ormai infìilìidict fua,
Beatitudine della prefunzione del Bertucci, e delle impertinenze di altri partecipi di quel maneggio., Il
Segretario Minuzio, quando vide dalla pazzia d un'Uomo impedirfi U pubblico
fervizio, e i concerti ben ordinati, cercò di divertire il mal configiio; e trattandone con Tua Santità^
fi sforzò di perfuadere che fi defie il
Bertucci al Commendator Pucci, Generale delle galee Pontificie, il quale
all'ora fi trovava in Roma, acciò lo cufiodifie lopra la ^alea, ove non potefie metter lòtto fopra
materia di tanta importanza : tutto fu indarno, perchè, follecitando
TÀmbafciadore da una banda, e il Bertucci daH’altra, egli fu Tpediio
fegretanaence in fretu verfo la Corte ; nè
fi perde tempo, che indi a poco fu forprela Clifia in nome di Cefare,
fenza aver prima penfato al modo di provvederla di vecovaglie, e di munirla
contrale forze Turchefche. Vi entrò dentro Giovanni Alberti, fecon Qiiello
fucceflb di Clifia elaccrbò gli animi de gli Aullriaci, e de’lo ro Miniliri
contra j Veneziani, verlò i qualli non parevano nè anche ben difpolli, parte per grinierclfi de’ confini,
e per lunghi contraili frù dt loro;
parte ancora per la mala inclinazione naturale che, portano i
Principi alle Repubbliche ; ora pareva
loro che i Veneziani avrebbono potuto
provvedere CUllà di vettovaglie, o chiuder gli occhi, mentre i ludditi loro, affezionati alla cauta, le
provvedevano; ma chi fi trovava fuor
d'interelfe, ben vedeva, fc era pofiibile farlo: oltracchè, la
vicinanza degli Ufcocchi farebbe fiata
loro incomparibilmcme più molefia, e pià
travagliofa di quella de’Turchi, co quali in tempo di pace fi vivequietamente
con libero commerzio. Nel medefimo
tempo, per la ifteffa cauta, crebbe anche la rabbia*, e il numero degli Ulcocchi : la rabbia, per
la tagliata ricevuta folto ClifTa, e per
non eficre fiati favoriti, come forte pareva loro di meritare, da’ Veneziani :
il numero, perchè i fudditi Turchetchi che avevano avuto mano nel trattato,
alcuni de’ quali erano propriamente di
Clifla, altri di Polizza, temendo di gaftigo, fc ne fuggirono a
Segna: il che fecero ancora non pochi
fudditi della Repubblica, che imprudentemente fi erano ingeriti in quel negozio,
e dubitavano però de’ cafi loro. Le quali faccende la Veneta prudenza non
giudicò però doverfi andar più Ibttilmentc inveftigando, per non moltiplicar
diffidenza, e difpcrazioni, e non aumentar di vantaggio il feguito agli
Ufcocchi, i quali, dopo quefii avvenimenti, parte per isfogar Tedio conceputo,
parte per certa opinione di far cofa
grata a’ loro Superiori, da’ quali forfè anche venivano infiigati, fenza alcun
riguardo fi diedero a danneggiare i
fudditi Veneziani, Ivaligiando i Vafcelli de’proprj Dalmatinì, ove
non poteva effer pretefto dei Turchi, o
dei Giudei; levando dall’ Itole gli
ammali, i vini, e ciò che vi era, e ammazzando anche gli uomini per qualunque minima refifienza, per caprìccio:
onde fi vedeva che avrebiMno in breve dilolata la Dalmazia rutta, fe fi
differivano le neceffaric provvitioni, la cura delle quali fu comn^effa in
Venezia ad Ermolao Ticpolo con titolo di
provveditor Generale, e con libera podefi^.
Il Tiepolo fino da fanciullo sera efercitato fui mare, e aveva in diverfi
carichi fatte cote maravigtìote contra Cortari, ed era grandemente temuto dagli
Ufcocchi, perche era folito di fame irremiffibilmente impiccare quanti gli nc capitavano in mano;
onde fi giudicava che fofle ora per far molto peggio. Si tapeva in oltre che
era di parere che fi dovelfcro aflalire
con aperta guerra i nidi de’ malandrini, e difiruggerli con ferro, e fuoco, c
ne aveva dato principio, battendo Scriffa,
terriccivola che gli Auftrfaci chiamavano Carlo Iwgo, porta fui
canale della Morlaca, dirimpetto all’
Itola di Pago, la quale poiché ebbe prefa a furia di artiglieria, fece lubito
impiccare quanti nè trovò dentro,
cominciando dal Capitano, e Luogotenente con venti altri di quella ftirpe; e moftrava di dover feguitar nell’
ifteffa maniera in tutti i ricetti de’mafnadieri, fe dalla Repubblica non
folfcro fiate temperate le ritoluzloni
fue troppo ardenti, la qual era moda, dalle ragioni toccate di fopra a non correre ancora, tirata dalla
neceffitli, in una manifejla guerra: ma ora aveva una confiderazione di più,
che, effendo gi^ acccla la guerra tt\ T
Imperadorc, e il Turco, non pareva convc^
nire alla pietk, e prudenza della Repubblica, fe aveffe nel
medefimo tempo moffe le armi contra la
cafa d’Aufiria; la quale fe in tanto foffe
fiata afirecta da altri rifpetti, come grandemente fi temeva, di conchiuder
la pace co’Turchi, eziandio con patti difavvantaggiofì, la colpa ne farebbe fiata rovefeiata tutta fopra i
Veneziani ; onde efll prudentifiimamente fi aftenevano dalTapcrta guerra,
febbene le fpcte, e le forze erano tali,
che avrebbono potuto bafiare a farla, mentre i più prudenti volevano Tonu , V 2 pur por vedere fe la dilìruzione
dt Scrifla pofefta ballare a metter pende'
fo kd altri d’ovviare a maggiori pericoli; al che adoperava Papa Clemente
tutta T autorità de' Tuoi configli; c vi s'impiegava anche il Rè Cattolico per zelo di giulhzia, e per
riputazione della Tua cafa. Ma mentre che i Minillri di Tua Samitk cosi prafifo
a Celare > come prelTo agli Arciduchi
accufavano le rapine, ed i misfatti degli Ufccochi, efTì, per difcotparfi in qualche parte, avevano mandato
a Roma il Padre Cipriano Guidi, Lucchefe, deU'Ordine di S. Domenico, uomo di
qualche dottrina, ma di più audacia, di molle ciancie, e di gran vaniti, il quale
e in voce, e con lunghe fcritture pretendeva di giudificar nel Mondo le azioni
degli Ulcocchi, efaltandoli come tanti Maccabei, e actrì.buendo loro la falute
d'Italia, è la difefa di quei conhni .* diceva che le depredazioni dc’Vafcelli di Levante erano
idituite per zelo della fede, Up meme in
«iw.fan»di ladaa fawodo upuione, efapata»
vano aaiaanafi l'im falò», ni aliai potevano avanzare alcim di
b>M. qnelb ara la fada na’p n bW ir i
maneggi, c Belle aaminillcaaiaat del pafa
biKO danaro.- ad ok» owlbaRino tempre ebe pili ia^rafie laro
l’uiil» dei^ Patria, che le paiefte
comodià; e tàiltir vera la doiniaa di IVh
cidide, efie era magli» efiàr poveao Cictadiae in rioca Repubblica,
eh» rioco Ctnadino i» paàeca
Rcpubblica^Médema» gnelli mediocri làaa)tb, baftami però a fafiamaM onoramaeme
le Ifato cndkario da gU Antca»ei e cen «jnelle vivevano modaniamete, fanza
aadar con ^ aafiatb ocrcaad» quegli avanzamenti di factuaa che ia qaeftì u lt i
mi Ma» pi hanno rnarinnitn pah n
dafiderarfi in Venezia, per eflére erdeàna
pib il lafln', e la pampa aaaoa i lodevolil&iiii coftarai de gli Antiche. Oia non patendo, per altre ocanaaaiatil,
sbrigaifi à «aA» li da Vnnezia,-ad
cftD^ d ai m a n di Bembo dalte-fae iadi%ofaiaai a totaarvi fubiaa, fa per
deetea» .dal 9bnaa» eommAà ia ttam tuo* 1»
cute dèi nagazio ad Anma i o Gii iftin iaaa, Cavaliere, Capita a o dalMfo,
che, dopo eflèrC pebaatfo di iepa anni eootiau» eletcicaia oaaa». lamcat» in diverfi «pNcfci maaMmi falle
Galea, fa aa taraava allBP»tra eoa gialia Iptt ml aa di maggiati aneti. U
^ftiaiajro era gbviaa^ e nvMNio vaduie
fn dbaa le pih canuta talk fona agella faerigMìCaao nagaaio degli Ufooaahà, pcoo atl av a .eaa
aaolm ai r aalp ea ioae, ma aon ima
inifafa- ddigenaa» latpmlagli letvt pai coahere fapta l' Itoli di
Ikav» niM*,'pregtnlifa«atc dd bada,, iaeiaat al numero di t^, pofia ia hmgo
pabhiioa, diadan gmm daime iMtiaceU a
gli oocbi. di gidlli ebe taaaivana ogai giafaoir t*a vidi delle nefande opemzieai di qalblU mala
gente nd iè ri 1 11 É mm tTavarna vedute
in thrt tempi mma in una \ml(»r‘ onde ibtmata ‘dal Ghifiiniano veniva ia Venenia alnaw fa|>ta
le IbcHe; e parmra abdfa Ibn Wioiib
poteflè pnrmr anche gunkbe iMg^ bene, pafcbb‘b>ga4 gfarni a' era aperta la (bada a% nranaaiooe
d’aaaomodanmmo di tuoa il negotio. Perebi, avendo i’Aicivtfoovo di Zara ptapofti
ab Papa dhreti! modi di Ttrminaelov ^
Santnb.gli c o m m dt chce’abaceaflà oel VdcBvadbSa. gna ' che faa loro vedifaio dt i nri ma pn
are H mgnaioa qnalcha via di«oiSellane, per poterla praporte a gTfamc eff aii
aa« nRipn fandaaiadco. n Vcleovo di
Segaa àMitai» daU'Areivetehvo pw n Zatay 1 fii fora fi maaciD dirwle coafarnuc per plbigforni, la
gadfLdI maao in maao fi eomumeavano al
fopeaddetto Gin fii aiana. Per nadir la facili* della fa» faba y- M fiaa 4 delibati eba II IMòafa
anddfc afa Ora di 4fcua, «‘ dì'dPtaga,
per panar di fa gaalahe «onuneCaM famm iella rtffai xieac di'partiti, fafamma de’-gadi tra» che
ipMHa amltitadiat # aaafan rapaai non fi dfafadfe tataa-mMa in fiagna, aia fa
maggia»-]*». « fi omiddaefie a
gaaidia.fa mrnf e -^aal».pacevaaa afiàe pifi alili *1. U fifiefa de’ coafiai, a amna atfa afle eabbama
fi an fama da emgofa XbtI. par bene
de’tlbagulei, i oaif il gnale ricusH 4’andarvi, # fg privato deibilttpcudio:
per kicbe lùarrtò a Segua, ove viveva
luetavb, «a meidiiinos e carico di. iigliualà, fcnia credito, e mezzo fcenip.
di ccVvella, Ma tornando ah ptopofiio
noAio, à Vaibovo di Sogna, arrivato aGratz,
tiDvò in quella Com agni cofa beo ddpoAa, e unedbecra incUnazione
all' acoooodamenro,' perchè il Priocipe,
ottinio, t gioMfimo, era modo aon lob
dalla -diminnzioac delb proprie gabelb, a dal pctimemo de'ludditi, w gl'interrotti con f erai, e per rimpedna
vettovagUa; ma moim più palla prapiia
caicicnta, e dall' intcìelb datb ripotaziasie della Cala d'Au. liru, che,
onorata nel mondo per «ami imperadori, e tanti Re, veni va ora htad'xtia di
fi>mentare nc'&ioi Stati pubblici Itdroat, crudalUiaw, miai imbranati di
langtie Criiinno : ma perghi aon dipendeva raccomodamento daU' AicidiKa, il
Vebovo 111 canfigliaio da lui di trasferirli olla Corte Celareai c lìi
aecoorpagna» a quaU'sBciio con lettere a
' peopolito. Ma in Praga la dtfiicolih ota'era all'ora di veder la bccia
delllmporadofc, eoo che di negoziare Icco, c il mal animo d'alcuni principali
Minifiri, i quali godevano di vedere cos'l travagliala la Repubblica di
Venezia, o' perchè avevano altra canb di
bvorir le rapine degli Ulcocchi, fece
perdere il tempo al Vcliavo, chi noe ne e^rh, le non buone parale, c dilcoifi di rmieiici tutta lo biKenda. oli'
Arcidnea. In tanto era nllr‘"T'‘‘
Venezia il Genezal Uooato, e datb una occhiala al pacb y coniidefamfa i ptlTi
per. h quali gli Ulcocchi potevano ufeire
dal-Caneb di Segnlbforrerc pop I» IMmatia, riloile con
pruden;ifli«no «anfiglÌÉ di cisiuderne
con Foni oppartnni, e muniii dt geme, e di oriiglierin, l'tmqnell'Udla «NVeglb
el canafeiefelb MorUgea, ove è I
«panguAa hoese,.per la quale erano tolih-gli Ufeooahi di patfaroìèrequcMe benu.
Qnelli Rccoam erano t più coowdi pofli a chi voleva ulcira, ed eaiatie.&nmmcnce,-«aai
erano piu Acili a temi* per l'anguOia del fieove fehhene rimanevano o'hdrooi alcune altre
pocboutcMc kherc, nopdimtno, quandafi davo fero b caccio nei ritomoy grantliflinio
rifchio : però fi vide daircffetco che quel pmdentiflimo con. figlio mife i ribaldi in efirema
difpcrazionc, malTimc che col primo forte
di S. Marco s’impedì a’Segnani il commerzio di Fiume, donde erano
fo. liti cavare le vettovaglie, e
provvederfi de gli altri bifogni : con che fi
può dire che fi toglicirero loro gli alimenti; però fi riduflero tofio
all’e. flrcma necediih di tut^c le
cote.* e come un'impecuofo torrente, a cui fia
pollo innanzi un gagliardo riparo, è forza che sbocchi colla fua
furia in altra parte; così cofioro,
(limolati dalla fame, ne potendo più ufeire
per mare fenza manifeilo jsericolo; vedendo che quanti di loro venivano
alle mani a' Veneziani ( c ne venivano molti ) tutti s’ impiccavano verfo i confini de' Turchi; (dfendo giìt,
come fi è detto, dilettata la Licca, e
Ja Corbavia) non rcllando loro ipcranza, fc non di mii'eric, e diffìciiilTime prede, fi voltarono
temerariamente, e rabbiofillìmameme (non
mirando quanto importava tirar una nuova guerra addoflb alla Caia d’Auilria,
come ?rano fiati foli autori deli’ altra co’Turchi ) fopra rifiria, e con terrore dì manifefia guerra,
non che di rubberic, e laccomani, entrarono ne'iuoghi murati, e anifièro
fiendardi imperiali; iaccheggiarono le terre, c le Caftclla, c fecero fino de’
prigioni ; onde fu ammirata la
difcrczione, c fapien za Veneta, di iaper divorar oltraggi tali, e non venire,
per le cagioni narrate di fopra, a manifefia rottura., Provvide ella bensì con fubtti foccorfi alla
ficurezza de'fuoi fuddici, inviando quel numero di cavalli, e fanti che pareva
necclTario al bifogno.il governo della qual gente, e di tutto il maneggio
deli'imprefa fu dato a Francefeo
Cornare, Gentiluomo giovine, ma che nel carico di Provveditor della Cavalleria
di Dalmazia aveva dati legni chiari di maturo giudizio, e di una incorrotta
fede nel negozio de' danari pubblici*, le quali
virtù l’avevano fenduto maravigliofamcnce grato al General Donato,
il quale lo predicava con continue lodi,
ovunque occorreva : c inficmc colia
commelfionc di provvedere alla ficurezza delie terre dell’ Ififia, e di
quei, popoli, gli fu dato il comando di
non afialtar però i luoghi dcU’Arciduca iu
s^uei confine, ma di gafitgar i malfattori, di vendicar ringiiirie, c di
rifarcire i danni, 0 pubblici, o privati a mifura colma: Il che egli andò efeguendo con tanta vigilanza, c con sì
accorta maniera, che, feJgU Ulcocchi
trionfavano di qualche preda, tofio ne piangevano i fudditi Arciducali, c
maledicevano chi n’era caufa*, accorgendofi dì dover in breve (fe non fi accelerava il rimedio) rimaner
tutti diftrutti; perchè non indovinavano che Tarmi Venete s'aveflcro fempre ad
adoperare con quella rilcrva, e quella dilcrczione la quale negli fieUì
lagrimofi danni veniva lodata, c ammirata da chi non s’internava neli’iiìternc
caule d’im tal procedere. Quelle
faccende fi maneggiavano in Ifiria col configlioj e coir autoriih del Capitano di Ralpo, ch’era
^rnardo Contarini, Sonator gravifilroo
d’anni, e di prudenza, folendofi dar quel carico, benché di luogo piccolo, ad uomini tali, e
benemeriti della Repubblica, alfine di rilàrcirli delle fpefe fatte in fervizto
della Patria coll' utile importante che
fe ne cava*, onde s’ era trovato nei medefimo
Magiftraro il Ticpolo, quando egli fu creato Generale contra gli Ufcocchi:
ma il Contarmi, alla fomma degli affari,^ e delle fatiche mon potendo refificre Perù fua, che palTava giù
80. anni, chiamò Giulio, luo figliuolo,
che ne lo follevalfe in qualche parte; il quale, elTcndo d’ ottimo giudizio, e molto rifoluto ne gl’
importantidìmi negozj, Tpjw* il X a c
con i 64 storia f congiunrifTiino in amore col Cornaro, ebbe
la mira Tempre a portar (juella nuova, e
infolita forma di guerra a quei fini che lono flati deIcritti con maniera molto
accorra, e lodata. Ora mentre che in
Iflria cos^ s'andavano bilanciando le cofe, c fì temeva che non riufcilTcro finalmente in una
manifcfla guerra, il Donato aveva gili fatto Taccheggiar da' Tuoi l'oldati la
Terriciuola di Lourana, non lontana da Fiume, con maniera tale, che ben fi
vedeva effer lua intenzione, piuttollo di pizzicare, che di ferire, a finche
altri fi rilvcgliaflcro al rimedio, c
dopo aver con diligenza finiti i due forti
fuddetti, e dopo averli provveduti cos^ di milizia, come d’ogni
altra cofa necelTaria, e vedendo andar a
lungo raccomodamento, il quale tuttavia fi trattava, aveva in animo di palTar ^
qualche maggiore progreffo. Nondimeno il
Papa, il quale aveva per quello accomodamento già molti mefi 'contuinui in
Corte CeTarca Flaminio Delfino, che non cavava
rifoluzione alcuna, bens'i Tempre fperanze buone, e promefTe, fui fondamento di quelle continuava a pregare i
Veneziani a procedere co’ foliii
riguardi, lenza venire a guerra aperta, con rutto che parelTe loro grave la
fpda, c ormai foflcro infafliditi dalle lunghe, c vane fpcranze; poiché efTì
confumavano teforo tale, che avrebbe potuto ballare per una giufta guerra, ove
almeno avrebbono potuto pretendere non
folo di render danno per danno, ma di ridorarfi con qualche acquido dc’gravi patimenti. Ma elTendofi in qiieda
congiuntura accampato l’cfercito Ottomano guidato da Abram Bals^, Cognato del
gran Signore, fotto CanilTa, Piazza non
lontana dalle Frontiere della Crovazia, e dellIdria, parve piucchè mai
necelTaria la pazienza, acciocché, fuccedendo
qualche finidro accidente, il Mondo non nc dede la colpa alla Repubblica,
che avede in tempo d’un tanto bifogno tenute occupate altrove le forze Aullriache; onde non farebbe mancato
chi 1' avede calunniata d’hueiligenza
co’ Turchi. Per quedo il Donato attefe a regolar le milizie, ordinandole in
modo, che un numero minore potedè predar il
medefimo fervizio, e cosi fi diminuiffero Icfpcfc. Erano neH'armata diftribuite
parte lopra le Galee, parte fopra le barche lunghe quattro divcrle nazioni,
unte valorole, c acccfc di una onorata emulazione di virtù, Italiani, Cord, Dalmatini, e Albancfi,
co’quali era opinione dì molti Capitani
pratici, che s’avrebbe potuto tentare, c condurre a fine ogni ardua imprcià;
madimc comandando loro il Donato, che era
mirabilmente ubbidito da tutti, perchè, oltracchè li pagava a’tempi debiti
di moneta con vantaggio, ufava di trattenere i Capitani di tutte le dette nazioni, coridlemente ammettendoli
di continuo alla fua tavola, nella quale, febbene non voleva il ludo, biafimato
in quelle d’altri, fi vedeva però un’ordinaria fplendidczza; c Tcbbene nel
volto, e nelle parole lue fi feorgeva
natura inclinata anzi a fcvcric^, che a piacevolcza, nondimeno fapeva
temperarla in modo, che riufeiva grato z
tutti.* ma principalmente i popoli di Dalmazia lo benedivano, per l’incorotta
fua giulìitia; c i Magillraii inferiori lo temevano, per Topinione d'
inviolabile integriti. Dilpoflc adunque
le cofe nel modo che fi è detto di fopra, il Donato con buona licenza del
Senato fe ne tornò alla Patria, edendofi in
fuo luogo (con un giudizio univcrìale, non di Venezia loia, che lo elede, ma deU’armata inficme, c di tutte le
Cittì» marittime, che molto pri ro prima
Io prcdifTcro) commclTa la fafHdiofa cura degli Ufcocchi a Filippo Pafqualigp,
ch'era all'ora Provveditore dell’ armata, ed era palTato, fi può dire, per
tutti i carichi che comandano fui mare, nel quale aveva menata la maggior parte
della Tua vita fìno dal tempo in cui
dall' armata CriOiana fu rotta la Turchefca a Curzolari ; ed era
flato riputato Capitano valorofo,
vigilante, e rifoluto, mafTÌBie contra i Corfari, de' quali fi faceva conto,
cha avea prefo fìno a quell’ ora gran numero di Vafcelli armati; onde tutti
andavano indovinando che per mano lua dovefTero anche reflare domati finalmente
gli Ufcocchi, contrai quali egli,
conforme all' ordine ricevuto, fe n'andò colla Tua Galea vecchia, e veloce: ove
fi vide toflo ch’era per camminar dietro a gli antichi configli, col
perfeguitar i ladri, e impiccarli ovunque gli avefse colti; e con rifarfì de’ danni de’fuddìti
fopra chi gli inferivano, fofscro chi fì voleffero: nella qual imprefa entrò,
oltra gli ordini pubblici, con gagliarda
rifoluzione propria, con si fatto fpa vento de’ malfattori, e con tanta
fperanza dc’popoli afflitti, che la Dalmazia, e Tlflria cominciò fubito a credere che fofTero toflo
per finire i loro lunghi travagli. Tenne egli bene cufloditi ì luoghi
fortificati dal Donato, e ordinò le guardie a gli altri paffì di mc^o, che ogni
ufeita fo(Te agli UIcocchi pericolofa; e perchè il porto di S. Pietro di Nembo
neH’llola dOflcro era ordinario ricetto di molti vafcelli, t quali o dalle
oppofle rive d’Italia paffavano in
Dalmazia, o di Dalmazia navigando verfo
quelle parti, o verfo Venezia, quivi fì fermavano, per afpettare tempo opportuno al loro paflaggio, onde gli
Ufcocchi erano ficuri di trovarvi lempre
occafìone di preda, quando potevano tirarfi fin 1^; Ì1 che facevano tal volta
cacciati dalla fame, e dalla difperazione ne’ tempi piò fortunevoli di borea, quando nè le galee, nè
le barche armate potevano reggerfi alla furia del ventosi! Pafqualigo, per
toglier a’Iadri quella comoditi, e per
aflìcurare a naviganti quella danza, fì fervi prima d’ una Chiefa vecchia, e derelitta, per
collocarvi dentro a quello fine un
prefidio di foldati; c poi vi fabbricò un forte in fito opportuno,
con comoditi anche d’alloggio per
qualche pafTcggiero che vi capitafle ; c
ridorò la Chidà, provedendola delle cole necelTarie, con ordine che vi rifiedenc fempre un Cappellano, acciò a quei
foldati nè anche mancaffero le confolazioni fpirituali : il che tutto
l’efpericnza fin qui modra clTerfi latto
con prudcntifllmo configlio. Con quede diligenze redò, (i può dir, aflicurata tutta la Dalmazia; e i
ladri, fuor di qualche ben repentina
fortita fopra Tllola di Arbè, e di Pago, ove depredavano qualche animale, poco ardivano di folcare piò
i canali di Dalmazia; e per ogni poco
danno che facevano a' fudditi Veneti, ne pagavano U ho, o cfli, o altri fudditi Arciducali con
ufura; perchè il Pafqualigo faccheggiò
primieramente Ledenici, poi Mofehenizze, c Terzato, c Belai, tutte Cadella del
Contado di àgna : fpogliò altri vicini luoghi di animali, e di abitatori di maniera, che ogni
cofa era piena di pianto, e di fpavento,
nè alcuno fi teneva ficuro, fe non ben lontano dalle marine, 0 in fortiflìmi
ricetti: gfinnocenti maledicevano i malfattori, che erano cagione della rovina loro; e i
colpevoli reflavano confufì, confiderando a quanto incendio avelTero elfi data
occafione In quello mentre co’medefimi
paffi camminavano le cofe d’iflria, ove
i ladroni, vedendofi ormai chiufe le firade in Dalmazia, cercavano di rimediare
alle loro neceflitìi : ma il Cornar© vigilamiffimo, ficcome roetteva cura di non clTer il primo all’
ingiurie, e a i danni, cosi non era
pigro di vendicare ogni minima ini'olenza; e gi^ aveva empiute \ timo quelle frontiere* di terrore, c
arricchiti i loldati colle prede, colle quali s' erano anche rUiorati molti
danni de’ poveri ludditi, e quelli di
Marc'Anionio Canale, che, mandando le lue bagaglie a Zara, ove era desinato Conte, ne era Oato ipogliato da’
maledetti Uicocchi nel cammino: Onde i
ludditi Arciducali di quei contorni, afflitti da si fatti danni, e temendo
lempre di peggio, dopo il primo ricorfo che fecero all’Arciduca Ferdinando, che
gli liberafle da tante oppreflioni, c
provvedelTe che gli Uicocchi nqn fon'cro cauia delta dillruzionc di tutto
il paefe; nel qual tempo era flato loro rilpoflo con termini generali, che non
fi prometteva fc nop tardo rimedio, c incerto; ma fi confortava alla pazienza ;
rinnovarono poi Tinflanza con concetti piti veementi, moflrando che non era
pu'i pofllbilc fofferir tante rovine per
colpa di pochi Matpadìeri; e che elfi làrebbpno sforzati a metter
alle cofe loro altro compenfo, fc fi differiva
la provvifione: c pareva veramente che, andando le faccende più in lungo, fc ne
potefle temere qualche rivolta; però,
eflendofi già per le molnpiiqate iflanze del Papa, c per le replicate propofte
dell' Ambafciadorc, deliberato in Corre
Celarea di commettere con un'affoluta autorità tutto il negozio all'Arciduca,
fpediti furono finalmente i difpacci, dappoiché Celare s'aveva levati d’ attorno quelli che erano creduti
^iflu^hatori di buon configlio.
L’Arciduca, fenza perdervi più tempo, avendo fempre dcfidcrato di liberar la lua Cala da un tanto obbrobrio,
volle fra tutti i Miniflri fnoi Giufeppe
Kabatta fuo Configliere, e Vicedomino nel Ducato di Camicia, di cui fi fece menzione di Ibpra; c
centra l'iflituto della Cafa d’Auftria, lo deputò folo, c unico Commeflario,
con libera podeflH all’ accomodamento
degl’ invecchiati contraili « ai gafligo degli aflaflìnì; con ordine di dar ioddisfazione tale alla
Repubblica di Venezia, che z' ormai fi
ccflafl'c da’danni, cos\ nciriflria, come nella Dalmazia; fi le ' vaffero gli
affedj delle Citt'a marittime, e fi rcfliiuiflc il commerzio a’ fudditi con fìciira navigazione. S* induflc
f Arciduca a preferir quello foggetto a
gli altri, conofccndolo Cavaliere d’ottima fede verlo Dio, e verlò il Principe, come l’aveva
efpcrimcntato nell’ eflirpazione dell’
erefie per la C.arniola; nel qual negozio aveva Ipcffo moltrato di
flimar poco i pericoli della vita,
putehe adempifle compitamente i’iiflìzio fùo:
cos'i fi ipcrava ch'egli folle per far anche in quello, il quale importava
alla buona fama de’ Principi, alla lalure de* ludditi, e alla gloria di Dio, in cui ditonore facevano uomini
Icclteraiiffimi patir tanti poveri
innocenti, e perir tante povere anime. Il Kabatta era di languc Italiano,
e i progenitori lùoi con carichi di guerra erano di Tofeana veruni al lervizio
dell Imperador Carlo V-, lotto il quale colla virtù acquiflarono onori, e
ricchezze.* nè egli degenerava punto dal valore de ’luoi Maggiori: però, volendo corritpondere
all'opinione dell’Arciduca, c al
giudizio che fi faceva della pcrtona lua, fi mife con tutto lo fpirito
al maneggio impoflogli; e prima dogai
altra cola deliberò dì abboccarfl col
Cornar©; c per allicurar di poter anche levar da quei confini alcuni foldaii, c
che in tanto non fi avclfc a proceder in quella parte con termi icrmùù d'oAilitì, ove il Coriuro
mollrò che, purché non iolTm cUnneggiati i luddiii della Repubblica, egli Aon
fi moverebbe di ui pelio, eflèlido tali gli ordini fiioi, e avendo caiqoiioWb
fin eli’ ore -con qiiella diicmione che
i Minifiri Auftriaci dovevano lodare: poiohi, Éebbenc aveva forze confiderabili
foliemue con molu ^la, colle queU
avrebbe potuto far infiniti mali in pacié poco (am, e poco
prowifto, nundlnneno non s'era mofirato
nemico; k neo ^ade l’infialeBxn degli
Ulcocchi, e la difela, o follevameiuo de’propr) fàddiii l’ avevano indotta!
perb provvedeflc pur U Rabatia ^e dal canto fuo non fi rinnovaifero l'ingiurie,
che egli, tenendo le vecchie per ben veadican, a'alicrrebbe v^eniien da ogni
altra oStfa. Il Rabana redi conteonfiinKi
della riletta deldCniMio; e fi aaarayi|li& di vedeee un giovine
coti valorolo peli' armi, ooai pendente
ae’ configli, e caci accorto nelle rifpo{le; nè dubitò che potowc elTergli
maBcato da ijaeila parte, vedendo che fi
ptycedeva finceraoMOte : potò, avendo abbaftanaa prawifto che con nuove rubberie non fodero provocate
quell' acme, levò ficuramente la gente di quella perù «he parve neccllària a'
Cuoi fini, e coadfii, e con altra
raccolta' in altre pani, fé ne venne verib Segna armato in modo di jntet ilbrzar afi'ubbidieoza quelli
che voloncariamence non vi c'
inehinailero. Giunto adunque il Commeirano nella tetta di Fiume con ul apparecchio; e fapaado che, per le molte
pnwve, i Veneziani. hvrebbono potalo afpetiare poco ^ttO| della fua commedieoe
; poiché tutti glà.altri venuti in altri
tcn^d cbn .fimil calicò avevano avuto poco penfiero di medicale il male della
radice, ma s' erano oonteneati di dame
un'apparente loddbfazione, non accomodamanio ; non coaando che poco dopo la partenza loro le facceuda
risadpITaaa :oef^adoCau dilbrdioi; elferiio nwluta 4 é-drizar la paaunn.alU.via
d’un reale, e fodoaecomodamento, il quale conycoiva alMl. dignità db' fiioi
Principi, e alla ficurezza de'fuddfti,
pensò eder necedàrid di levar primieramenM fot»bw, e i fofpetti, che potedeio
aver, contrarii, e poco iinceri dilegni i
Veneziani ; onde procciwò con lenere coufidenia predo at Generale PaIqualigo;
che, per piti facilitare la trattazione, fi era trasferito con paiv re dcH'aamaia lopn Pifida di Veglia,, ove db
da -Calici- Mufebào mira con p04n anicrvallo le .-vicine riviere de gli
Auflriacia i Qpivi dunque fi portò il
Vèicnvfli di Segna per oediae del CommUfario al Generale, per alficuraria-che
fi faceva da davero; e par precario a cornfjpoodere dal canto fuo olla buona
vnloacb degli Autteqtci,dove il Vclcovo riferi che i punti dé^ corameflione
erano veramciur di galligare i ladroni
fecondo i merici;>(a non tutti, almaio i capi ; difcacciar di Segna, e da tacco quel
cragta> IduUjpi Veu^i sbandici,
fuggitivi, e fallili, dalle Galee con perpetua peoihnMa di ano ricettarli
per r avvenire; e, quplU che piò importa, dà levar gli ilfigocchà da Segna, e da' vicini luoghi marittimi,
tralporunduli mdi.ulcuni .CallvUi fn
terra, non raeim oppornini ajla difela de' confiìfi^ -eha .-dtaie àcsunudati
alle rapine del mare;, e in fine. di proibire a quelli che nmt.nefiÌHo in o in
altri luoghi mnrireimi, -ogni ule di bauahat-aa onare (VàevaMo l'autofitli
anche aà Capitnnla.di Segna di far limili Ipediniiaàp imi • voiwo rirolvu-e; * f>rii bene, poiché
fiams vewKi ia pnipofld), che qui li
ne difeorra bravcoienlc la caràne.
’MoAcaThno i MùùAri Imperiali d'aver gran geloCa delia &ctena
di Segna, • KrI'uadcvano i Principi,
che, levando gli Ulcocchi da quel
pnlidio, (quafi che altri non olièra atti alla difcla) o i Turchi l’occuperebbene,
q t Veneziani, che gik podèdevano tutte l'liòle, e le parti marittime della
Daloizain, fi iatebbono tetto padroni anche di quel pone, e che alla digiiitè della Cala
d'Auttria, c della Corona d' Ungheria, impoKaea rnelto conlcrvaz quelle
picciole reliquie di dominio marittimo,
si per dipender da quelle la conlcrvazione d'altri Suti, come mobe percÀè mi
giomo avrehbono potuto eflèr oppoRimc alla ricupe-nuimte deU'altre coe preiqfè;
poicÙ cop eA Ièlle fi imaeerrebbe l ' mo
della navigaziom per (didnatiao .. Qwttì, erano gli argementi apparenti
co'quali fi andava divenmdo ogni innmmiione ne gli affitti di Segna, c per coniegnenza lotteuendo’ l’
io^natih da’ delitti i^li Ulcocchi: imehè in iàtio non latebbe mancata altra
nazione molto pih atta aUa dileià di
quella Piazza, la quale in mano- de' ladroni era anzi maUfiimo ficum, 'panc
.per la loro inlèdelih, e per elTere la maggior par. te amefii a'iiimiti de'Tnrebi, e qmlla
cittadinanza lenza alcun riguardo; cade facilmeatt avrebbono potuto entrarvi
de' traditori ; pane per. che fpeSe
volte FaaKir della prùda, e delle rapine aceva iaiciac vota attimo la Piazza, ulcendo tutti, or per terra,
or par mare, alla bnicaf Bai qual calò rìmaneTa la Eiaaaa cpotta a i repeatini
allkiti, e all'ii^die de'aemici.' eitre
a che, le mbberic continue degli Ufcocchi
anzi acctclcevano i pqticoli, irrimado caci i Turchi, come i Venaai»ni a
tcacaiarli filari .di qaa^ iofimii nidi.- onde più volte avevano i Turchi ièna iftaaea a'VeBeziani, O'cke etti
•’ impadioiiilièro di Segna, e
permeitclièio kno di venir coU’ armata per mate, e pon> eli mii i di «cin aU'cfiirpiuioBc de gli allèilHii, comuni
Bo a n ci. Ma i Ycaevaot, coafideianrio
^ pmiòadamcBte t’ùàaarfaBaa'di tal neg eai b ^ avevaao (emprc aolla toro pradona dtvartM iHilt
B*ni|^, taiaa pammiifi, bob fido alta
Cafa d’Aufirià, ma n taro itieiiefimi,.c a tutta Italia ‘liifiema; aè per sè
ttcttb potrebbe crcdeie alcun iwmo bivio eh’ alpirattèn mai i Veneziani al daininio di Sopra, jxrchè
con etto t'addottèrebboaa una grotta
Ipeta, -c ua centhuiO rame di contraili enza guadagno, o utile otauao, o cantbdiih Verona di roomeato
per tempi di guerra, o di pace t nè è
venfimilc che Minittri Aullnaci non fofe» affiti bea note tutte la rag ioni a ma con quei fimi
lòlpatii coprivano altre loco imerac
pattanr, le qnali in alcuni pochi derivavano da un vii intgrefi le detta pamnpaatataa delle prede; e in miti
da ua comune mal-MHa vcrlo il Baine
VÒSiano, geneedio dalie amiche guerre, nelle qiuuoaàcrano in oumo dc'Vcaeziani
molte colè che pfi altri pracemkaaiio ttièr di loro ragiaae ; d ita Mei
naturali ttimuli che rcndoiw fenipre adiidè le fteanbUiclatini^ £aó tetti da un
iolo, e loipcRi i Principi Manarebi a'
fa^Fcaai-dr tnplùtudiaè ; fé pure di quelle avverta inclinoaiou non vàgleBaro ^
ta alla divetfitb deUe naaioai, eba,
doennfMiaaafiMM èowana, lotto ioliaa a aoo miraifi con basm ocebéa, ara m». lan fcmpae i còKibbì
dillihna^d'qgttb. mipànoatovnimno piglia baabta. o« lag ta naw tai, «prtMÉtéMaU
cfitatrtalim^ aiaii, ed attiaaa la
voimnb; M che fivpofièbboao adthace tabetai efempj, cos'i dc’noftri, come di
altri tempi.* ma non facendo più che
tanto apropofìto, li tralafcieremo. Il Kabatta a quelle ragioni ne aggiungeva
un'altra piena di malvagità, e di fellonia, la quale nondimeno egli teneva per
la più reale, dicendo che i Miniftri eretici, Ipezialmente di Grata, impedivano
lo accomodamento cogli Ulcocchi, pcnlandò che per quella via avefle il Principe
loro ad intrigarfì in guerra anche co’
Veneziani; e che, immerfo in tante occupazioni, avclTc finalmente a defUIere
dalla riforina della religione, nella quale con vero zelo di Principe
Crìiliano, e Cattolico egli procedeva, non olUnte i pericoli della guerra Turchefea. Veggafi di
qua quanto importi valerfi di Miniilri di mala fede verfo Dio, i quali fono
anche per ordinario infedeli verfo i loro Principi. Ma torniamo ormai alla Storia nodra, per
dire come finalmente i Princip i,
adretti dalle accennate ncccHitH, e follecitati da’continui uffizj del Papa, c inficme del Re Cattolico, non
oiando i Configlieri cattivi
contrapporfi alle neceffarie riloliizioni, deliberarono di rimediare
leveramente alla malvagità degl' Ulcocchi, e di dar ordine il Commilfario
Rabatta, che dopo il gadtgo de' capi riformane gli altri alle Cadclla fraterra,
nè UrcialTe alle marine, fé non quelli da'qujli p')ceire promeiterf» più moderate azioni j c a’
mcdefimi impedifle ogni elcrcizio di corto, acciò tutto il dellderio, che
avdfcro di preda, andadè asfogarfi fopra 1 Turchi. Col ledimonio di quede
commedioni avendo il Commeffario data fperanza al Generai Veneto che le cofe
centra la prima credenza fodero per
palfar felicemente, e che egli per la pane fua
rincamminerebbe con t^ni finceriih, ottenne all'incontro ficurezza,
che in tanto nè in Idria, nè in Dalmazia
l’arme Venete ofiènderebbero i fudditi
Audriaci, e che a lui, alle genti fue, e alle munizioni, e vettovaglie, che d condiiceflcro in Segna,
farebbero liberi i partì lenza alcuna
molcdia: e con queda Ambalciata ritornò il Vefeovo di Segna a Fiume, dove tiittavra lì tratteneva il
Commeflàrio, actenJijndo anecertarl apparecchi, e a prender quelle nccelfarie
informazioni elio pòlevano ertcrgli di bitogno nel progrelTo del negozio;
follecitamio iopra tutto copia di
vettovaglie, delle quali fapeva dfer in Segna grandifftma penuria; la qitale fi
farebbe accrclciura colla gente d'arnie che fi
doveva introdurvi, c-di gi^ aveva cominciato ad entrarvi: c con quefto
mezzo fece anche fegretamente trattato 'con fua Eccellenza, che volefi fc con qualche deliro uffizio provvedere che
gli Ulcocchi, che fuggiffero dagli Stati Arciducali per timor de’ iupplizj, non
avclTero ricetto prelTo a'I'urchi;
parendo che così convcnifse, non tolo acciò non fiiggilsero il meritato galtigo, ma anche acciò i
medefimi rifuggili in quella occafione non fcrvificro poi colla pratica de’
fui, c colla notizia tic’ parti a’ medefimi Turchi nella guerra contra i
Cridiani.* il qual uffizio confermò maggior opinione che il Commiflario forte
per camminare di buon parto. Del qual
animo fi videro indi a pochi giorni fegni più certi; perchè non folo a richicrta del Generale fece
rertituir un grippo di Licfina che,
carico di lardelle, era fiato prefo poco prima da’ ladri, e condotto a
Terlato; ma avendo il medcftmo Generale fatta ifianza che fc gli dcfl'ero
in mano alcuni luddui Veneti, fuggiti'
per misfatti, c annidati in Segna; egli,
vedendo efler nuovo rclempio, c inlolito tra’Principi, e die a tanto non arrivavano forfè le fuecommirtioni, prefe
parcitodi fcrivcrc al General di Tomo
il. Y Crovazia, mo(\rando che fcnza cjueflo farebbe come imponìbile Taccomoiiamcnto
; c che perciò egli andava penlando di dar a’ Veneziani una tale foddisfazionC) poiché in ogni modo
pareva miglior condglio il darla
coTudditi loro, riiparmiando quanto piu potelfe t proprj. Di queAa lettera
mandò anche copia alla Corte di Gratz con penfiero che il filenzio gli icrvilTe
per licenza, per cosi elèguire; lapendo bene che, chiedendola, mai non
l'avrebbe ottenuta; e fu partito di accortilTimo minillro : e quando mafìàme s’ha da far con Principe di
carda riioluzione perchè cosi dalla
tacitumitk fi prefuppone conlènfo, nè fi mette in difputa quello che
maggiormente importa alla conchiufione depili iunportanci negozj. Dopo quelle preparazioni, il Commeflario
rilolle di trasferirli in Segna, dove aveva già fatto intimare che tutti gli
uomini della Città, c delle milizie
dovclTcro ritrovarfi prclcnti alla fua venuta fotto gravi pene; i quali, ricordandoli che gli altri
Commillarj ancora avevano dato principio
a* loro uliìzj con certa apparenza di terrore, e con molta vetnicnza; credendo
che quefta volta dovclTe fucccdcre il mcJcfimo, e fidandofi de’buoni amici che
avevano nelle Corti, non cominciavano ancora a dubitare de* cafi proprj ; e
pare che peniafTero che fi avelie ad
impiccarne alcuno in («^disfazione degli altri.* onde i meno fccllerati fi
confòlavano colla fperanza, che fi dovelTe cominciare da’ più ribaldi: e
quelli, avendo coi più grofll bottini avuta comodità di farfi maggiori amici, e di acquiUare più credito,
credevano pur di poter fuggire in
qualche modo il laccio, almeno colla fedirione, c col tumulto: pcrlochc
ordivano trame di lìar tutti uniti alla comune difefa, e di tenerfi in piedi colle minacce, o
d’abbandonar i conhni, o di tradirli: colè che in fimili cafi aveva loro altre
volte giovato a feanfar pene capitali:
con tutto ciò fcntcndofi avvicinare il tempo della venuta del CommclTario, e
rilèrcndo quelli che avevano trattato feco in
Fiume, c altrove, ch’egli era Cavaliere molto rtloluto, c fevcro, alcuni
Himavano miglior partito TeiTcr uccelli di bolco, che di gabbia, e fi aflentarono fino a do. fpcrando di
potere, palTate le prime furie, feufar
poi in qualche modo la dilubbidienza.* fu creduto che Daniello Barbo, Capitano di Segna, fautor degli
Ulcocchi, e poco affezionato al Rabatta,
li configliaire ad «feire; almeno è chiara cofa, che, avendo potuto, e dovuto
proibir la loro partenza, non Io fece: onde fi cavò certo argomento, come poi
fc n’ebbero de’ più chiari, della ina
mala volontà.- lebben in quello egli venne a facilitar i difegni
del Commiffario. Quelli, elfcndo indi a poco entrato in Segna
con 1500, archibuficri, trovò che la
partenza di pochi aveva impauriti gli altri, che non erano più di 300.; i quali
maggiormente fi sbigottirono, quando videro
perduta ogni fperanza di fuggire dalla Città, per la cudodia llrcttiflima
delle porte; e udirono i rigorofi bandi che commettevano, lutto pena della vita, che ciafeuno deponefie
Tarmi, nè fi laicialTc trovar con eflé
nè di giorno, né di notte: che quando alcuno folfe chiamato al Caflello, dovdfc pretcntarfi fubito: che in
termine di due giorni doveflero tutti unirfì a darfi in nota dinanzi al
Commiffario, fc volevano fedelmente, e
modeflamente fcrvjre alla Cafa d’Auflria: e che quelli, che fi ritrovavano confape voli di gravi
delitti, veniifero fpoouncameme a chiedere pentono de’loro falli, per
efperimentar la clemenza, la quale non
fi IhKbbc negata a chi con opdre valorofe avefle prima prellaco, o foflo dHpollo di predare nell’ avvenire
ntil» fervizio alla Patria: ma chiunque
arj^aAé che la giuftizia gli metteflè la mino, indarno griderebbe poi mifericotdia, perchè fi
procederebbe concia tutti coneilremo
rigore. Quefte cosi gagliarde determinazioni attcrirono gK animi
affatto; nè cofa alcuna pareva più
«rana, che il depor l’arme, non effendofi
quello mai più veduto in Segna.
M f-'*pùano della Cictù, che di gih fccmrfva più chiaramente idifegni del Commifiiario, cominciò a'
diflUaderlo dall'imprefa con apparenza di gravi pericoli, e di mille fpaventi dicendo
che rederebbono abbandonati i confini ; e che quella gente ardita, e pratica
del paefe fi potrebbe unir co’Turchi, e apportar a’ Principi qualche nocabH
danno: onde egli non foto biafimava il
configlio, ma protedava di non volerne
parte in modo aienno. II Commillìirio, come quello chd conofeeva 1’ umore interno, non fi mode però punto dal luo
propofito; anzi veduto un’Ufcocco in Chiefa con nna accetta in mano, gli fece
una gran paura di tagliarlo fubiio -in
pezzi, fé non foli: dato il rifpetto del luogo' facro, onde tutti rimafero
sbigottiti, e facevano idanza, che fi liominìdrero i delinquenti dedinati al
gadigo, acciò gli altri poteflcro ufeir
di tema, e viver ficuri. ' Ma
dfcndofi quel me^imo giorno cominciato a fiir la deferizione, e dar in nota quelli che fi 4trivano di viver
modedamence, e di fervir fedelmente alla Cafa d’Audria; pel qual effetto
comparivano in Cadello difarnlati, e
umili; il Commiffario fece ritener prigioni Martino Conce di Poflidaria, che sera' latto capo de gli
afiàffini, per l’aviditi delle prede,
centra quello che richiedeva la nobiltk dei fuo lingue, e la virtù de'fuoi Maggiori; e iniìeme Marco
Marchetich, che era Vaivo. da, o
Capitano di Ledenizze, Cadello delle appartenenze di Segna: aveva dUegnato d'imprigionare nel medelimo
tempo anche Giorgio Maliarda, Ragufeo,
più Icellerato, e facinorofo de gli altri: ma egli nel delcriverfi era pallàto con nome fuppodo;
nÒ il Commdfario lo riconofeeva di
faccia: ma quando feppe la ftaude, mandò a chiamarlo, effondo gik intorno a due
ore dt notte, oèe egli, che fi l'entiva
reo di mille inauditi misfatti ; fpezialmente d' avere dopo lo iValigiamento
della fregata colle fuppellettili delCanale, Conte diZara, confinati i macinai lotto le coperte, e alzando la
vela, fpinta la barca in mare lenza
governo, e, fenza cudodia, a difcrezione dell’onde, e deVenti» latto veramente barbaro, e orribile a
raccontare; s'apparecchiava colla
feimitarra alla refidenza: ma fu prevenuto da Odoardo Locatello, Capitano
delle' milizie di Gorizia, ohe gli cacciò uno docco ne’ fianchi col quale lo pafsò da banda' a banda,
lafciando poi che i fuoi foldatt lo
faceffero in pezzi. Era il Maslarda fra i capi de’ladroni uno de’più Rimati e di maggior fegnito: nè la fua mone
farebbe per avventura dala lenza qualche tumulto del popolo, fe gii non fi
foffero trùvau gli animi ingombrati da
draordinario fpavento. ° Il che
intendendo prudentemente il Commiffario, per acerefeer terrore fopra terrore, fece la medefima notte
appiccar alle mura del Odello il
Puffidaria, e il Marchetich; il qual fpetiacolo la mattina fini
d’atterrire la Citti retta; nè alcuno fi
teneva più ficuro della vita, herebè ninno era
Twio . Y a che 17 ?- ‘S ’T O
.^R I A I che in propri*, cofùcozz non.
Q conotccIT^ reo di loone ; k porte Aavano
chiufe, k (Inde goard 4 te d* miìi»k ibrelUcre, oy* niuno aveva ardire
d( ufcii di cau, ni di dormir ia notte netta propria ftaqea r però il CommilTario, per lakiar ad alcuni quaUlK
fpecanza di, vita., fece loro intendere
cbq, quando gli fòdero dati in mano alcuni capi, e reRituito tutto il bottino
che s en ultimamente fatto in alcuni va6cUi
dello Stato Eccleftajlico; di che il Papa faceva grandURmo romoit,'
atta fi farebbe a tutti chiufa la ftrada
del perdono. Con tal artifiaio ebbe in
mano il Moretto, (araolò*(iapo di ladri, con un fuo compagne,- che furono con inganno prefi' da gl» altri, «
prefenuii con certa l'peranza che 1(
tcRe loco poteficro Xalyar -da vita a atolli.' nondimeno co' medefimi che fi^o
f impala fu tifato con tqolu (evecià, lafciaadoH piò toRo t'n dubbio della morte, che ficari della
viu; con tanto rigpre fi procedeva al
uRigo,. de’ ribaldi, Aveva il
Commìflàrio al Rio piiaio arrivo a S^na ricercato il Cenerai Veneto a mandar
qualche perfonaggki che rifiedefle preflò iR .iui, conte teRlmonio-, e Ipfttaiore di cjò $he fi
faceva fincerameme, e rilbluiamente, per. àcconodamento RablWv-q reale del,
negozio ; .e acciò proppnede ancora ili
mano in mano quello che gli par efle opportuno a tal fine. II. Generale deputi a quello
.carico Veitor Barbaro, fno Segretario, come ben pratico di tali afiàiri, è
cosi pet natura, come per elperienza
prudente, e atrifiìmo a fimili maneggi.' ma fu in ^i giorni, come Ipcflb
interveniva in quei canali, dS S^an furia di Becca, che il Segrcurio non. potò accoRarfi cosi
predo, come defiderava: onde arrivò
quando appunto i era dato cosi notabil principio alla faccenda, e nel medefimo tempo in co», fi conducevano
-alU forca il.'Mnrettq, e Niccolò. ivo
compagno;.! quali furano gratillimo fpeuacolo a gli Albonefi, che- avevano
condotta, colle loro Mtche armare il SegRtario; nò poterono contcnerfi, c)^ verio la fera non
troncalTero k loro tede ; parte per
faziar l'odio particolare della nazione; parte anche per portarle con dio loro,
affine di JcndCr ad altri tedimonio reale di tal effetto. U Barbato s'abboccò
la prima volta col CommilTario alla prefenza del -Vcrcovo di Segna, che aveva
in quei giorni appunto pigliata il
poflefTo della fuz Chielà, e col cui configlio s'indirizzavana tutte k
co, fa, per efler Furiato ebe nelle
Scuok -de' Padri della Compagnia di G*.
sò aveva acquidaic feienze profónde, che, accompagnate còli' rio
delk cefe del mondo, T avevano reoduio
grato a' -Principi Audriaci, e al
medefimo Rabatut; ficcome,, per elTer della Fam^ia de Oominis, nobile
d'Arbò; ma piò p» euerfi modrato bene affetto al negozio, ed cfférC per ben pubblico, e della patria fua
molta affaticato intorno; e per cOer
anche confidente dc'Vcoeziaoi, In quel primo colloquio il Erbato, paflati i
Coliti termini di cortefia, feuiau In la fortuna del mare la tarda venuta, rapprefentò la fpcranza che
^ en conceputa dai Generai Pafqualigo, c da. altri, di veder ormai gadigate k
fceltcratezze degli VHcoccha, poiebf s'
en dato cosi buon principio; e, oomiticiando
a dire gli afTaffinamenii, k trucidazioni d* uomini innocenri, le crudeltà
di fiir. drazio de'corpi morti, « rii fiere il liuigue, di icorricarli,
per far dringhe deUe,priH, li dnpri,. k
rapine di .donzelle, e k infinite
rubberk colle. quadi.t' era turfiata la quiete del mare, e della terra, modrò con malta eloquenza^ ed efficacia, eh'
era -bidono di rimedia • celere. cckfe, e gagliarcki; e eonchiufe, che
Tperava di vederlo appiicito oppertQnameate da mano cosi perita, e valorola. Il Commiflarìo andh nella rilnlb' fcufando in
parte gli eccedi aecennati t come aggranditi dalia paffione de gli uontini, o
c^ionati dall armata Veneta, che, quando anche non fi ofièndevano I fini
fiid£ti, ara foiia di cercar gb Uicoahi
a morte, e di tiior loro le prede finte nella giiifta guerra conira i Turchi; «
finalmente commelB da altri, e
poiqutribuiii a gb Ulcocchi; à quali confiifaiva però degni di graviamo gal^,
coma turbatori dalia pubblica pace; e che peiciò egli ne aveva 'gib- tolti di via cinque de'
principali, che aveva potuto aver nelle
nani; lenderido in tanto le rea a gli altri, che ('erano polti alle Iclwi, 0
davano nafcodi nella Citth : nel che aveva fatto chiaramenK-conoKerc la fua
diligenza. £ qmndi, come Cavaliere'di natura libera', e apena, incominciò ad
aprir 'il foglio delle Commiffioni; e de'
difegai fnoi; dicendo che teneva ordine primieramente di edertninar aflàtto i .capi de'ladri, e i priocipaU
mafitadieri avvezzi a corfeggiar nel
mare ; foeondariamente difcacciar di Segna tutti t Dalmatini o
altri fiiddiii della Repubblica,
chiudendo loro per fempre le fperanze di ricovrarfi in quel alido : poi 'di
lafciar Iblo in Segha cento di queib nazione de' pih quieti, condiicendo tutti
gli ahji piò addentro fra terra in altre
Piazze di frontieia per difela de' confini; e uliiiqamentc di ridringer r nlb
delie barche armate, che non poflàno ufeire lènza clpredà licenza del General di Crdvazia-. Il precario, al quale erano piaciuti gli altri
pttnti, còme quelb da i quaU veramente
dipendeva ogni Ccurezza del defidemo componimento, ripigliando pih di propofiio
l'ultimo delle barche armate, difse che
iperava che l’uto loro firirebbe dato proibito affatto, poiché la Repubblica
non era por confentim in modo alcuno che con l^nza del Generale di.Crovazia, né
feaaa, tranriafsero limili valcelli ndte appartenenze della bre incera, e
invaiata giurifdizione. Il CommilTario replicò
che quedo 'era incerelse non folo del Regno d'Ungheria, e di Crovazia,
ma anche della Sede Appofiolica, e del Re di Spagna; però che a lui fob non- toccava di decidere
controrcrfia cosi imponame, né di za
pubblici larrocin;, e abboipinevoli aflà0ÌMamenti, era hfoluco dì continiiare
dctenninatameare il rimedio, i-.. ..
Per quello il Barbaro, quaniQ più vcdci^ infervorato il CommiflTario, unto più Io ifqportuqava, nè ^ mai moflrava
di conrenurft di quello che fi faccvai
aè di vederlo liooiikorcere come fatto in eompiacimento della. Repubblica, ma come a lervizio di
necelfaria giuiUzia, e gallico 4e‘
privati delitti; dicendo ^e il Moslarda era fiato facto morire, per opwfto coll'arme a .chi.lp chiamava; il
Pofiidaria per concetti fedixiofi iparfi
da lui, quando fi ricercava T opera della milita, per ritrovare i colpevoli nalcofii frale cafe^ e
il Marchetick perchè aveva abbandonato
Ledcmzze, dove egli era Capitano, c aveva data oecafiooe che il luogo foflfè laccheggiato dal General
Pafqualigo: ficcome ellèndogli fiati confcgnaii nove Iùdditi Veneti, di molti,
e molti che erano dimandati, parte
nominatamente, c pane con termini Onerali di mrti i Iùdditi, fi doleva che fe gli defiero
Iblapienre poveri artigiani, e che a'
maUatcori fi laicialse Ipazio di fuggire: febea in vero il Commcirario alava
ogni diligenza per poterli avere tutti in mano; ma elfi ic PC Ila vano alla montagna, provviftì
fcgrctamcnte da’ parenti, amici, e da
quei medefimi, che fi mandavano a pcrfeguiiarli, delle cole
ncceiTarie; nè era poffibile a rimediare
a quello difordine, le non fi voleva difirug-«
fiere tutta quella milizia: il che certo farebbe fiato cantra il
pubblico lervizio della Cafa d' Auftria,
anzi di juiia la Crifiianiti. Dolevafi però il Commefiario di non poter
loJdisfare con tutta la fua lollccitudine;
e fi rararharicava principalmente che erano fuggiti dalla^ Citik
cinque Dalmatini, de più crifti, c de’
più defiderati dal Generale; onde teneva che refiafle forpetta la fua
fioceriib; c fu per far appiccar due Capitani, alla neglkenza, e edeienza da’
quali s' imputava quella foga: nè avreb^ lafciato aefiguirjo, fc i parenti non
gii aveflcro promcITo di portargli ovivo, o morto 9 kuno di quelli che fiavano
alla montagna; come fobiio fo facto:
perchè un fratello d’ uno di quei Capitani, ufeito con altri alla caccia, prefe up famòib de’
richiefii dal PafqtMligo, e lo condulTe in Segna ferito d' archjbugiata nel
capo,d 9 vefu fobico impiccato lemivivo,
egli fu data la teila; come indi a poco gli forqno conlègnati vivi quattro altri, acciò vedefle pure che fi
faceva, daddovero. In Venezia quelle
operazioni erano intelé con. grandilTmio gufio; e molti Senatori, nc paalavaqo con dolcezza col
Rofii Segretario refidepte in queli^
Cictb ^pcr la Maefi^ Cefarea, dando lodi al Commefiario, e grazie a’Prmciu, che
finalmente avevano leriamente rilolto di gafiigar i ladroni., II Commefiario avvifato dì ciò dal
Rofl» lo riferì al Barbaro, Umenìandofi
che tutti gli altri mofiraflero d’ efler contemì ideile operazioni fue, fuor
che egli folo; pregandolo a confidcrare la importanza delU difelà di quei confiti anche per
particoiar intcrefie deila Repubblica di Venezia; onde non conveniva
annichilare «mua quella milizia, la
quale, ridotta orp^i a difperazione, avrebbe potuto prendere qualche danoofo
configlio^ Giudicando i medefimi>Segiij|iii che per gli ufiìzj del Segretar
io crefccfie il rigore dèi Rabatta,, A' almeno aìmpedìfie il miiigamento fpcrato, riTolfcro di placarlo
con uafcamune ambalcerìa, facendo capo
il Vcfcovo medefimOf il quale accomp^nato da* più vecchi entrò nelle fìanze di cHo Segretario, recando
gii altri lu la piazza; e quivi con
molta umiltà, e lolpiri lo pregarono a contenrarH del fangue fparib, e di tanti condotti alle
galee, e d’intercedere per un pcidono
generale, riduceodogli alia memoria i Icrvizj che nelle paHatc guerre avevano i medefimi Ulcocchi latti alla
Repubblica, e offerendo in altre
occafioni di fpendere per T ifleffa cauta le vite che ora fì confcrvaflcro
loro: in fine del qual ragionamento gli offerirono in dono due tappeti fini, non teffuii gi^ in Segna,
nè comperati. 11 Segretario con brevi
parole mofirò che egli, come lemplice minifiro, non poteva preterire i termini della fua commellione :
nondimeno che averebbe giovato loro in
quello che aveffe potuto: fiimò che foife mezzo afironto r obblazione de'
tappeti ; nè al Velcovo fu di lode T efiere fiato ilfromento; febbene Icusò l'ufo del paefe,
che non tollera acceffo dell’ inferiore
al fupcriore fenza prelènte: cofiuine appunto da barbari, e che fra’ Turchi rare volte A tralalcia, ma
che agli Ufcocchi era forfè fiato
inlcgnato altrove. IDopo ciò il
Segretario rifolfe però di procedere con qualche più di foaviti, anche perchè in quei tempi fu
avvertito da Venezia di dover COSI fare:
onde piacevano molto gli andamenti del Commiffario; e fi giudicava che non mettelTe conto tanto
aflbitigliamento, per non metcerfi a rifehio di romperla; e che egli anzi,
procedendo cos^ chetamente, meritaffe
corrifpondenza di uguale finccrìtli: dall’ altro canto tornavano gli Ulcocchi a liipplicare il Rabatta che li
levatfe di fpavento, e fi dichiarane, fc
altri di loro erano defiinati alla morte; o lo in fine avevano da rimaner tutti
efiinci; perchè il vivere con tale angolcia era
peggio, che la morte fieffa. Quelli uffizj, e i continui pianti
delle donne, molTero a compafiione il
CommilTario ; onde rallencandofi dall'alero canto, per le caufe accennare,
l'ardore del Segretario Veneto, ne fece
proclamar venti de’ più colpevoli, lafciando cos'i fperanza di perdono
a gli altri, e afiègnando a quelli un
'breve termine; dopo il quale cadeffero in bando capitale con taglia, e con
grazia di poterli aiutare l’uno colla
tefia dell’ altro. Poi, per venire al
rimedio più fodo, più ficuro, e più atto ad impedire i corfeggtamenti, e i
lacrocinj di mare, deliberò il CommilTarìo,
di tutta quella milizia non lafciare in Segna più di cento
fiipendiati, e con loro cento
molchettieri Alemanni, e di trasferire il rimanente ad altre Piazze più fra terra, volendo a quefio
fine che ufeiflero non foJo gli
fiipendiati, ma anche dei proprj Cittadini tutti quelli che foffero conofeiuti aderenti nelle prede, e
volonterofi di continuarle: pel Icro
oafcere ma che avrebbe ben egli colla Tua autorità dato ordine che n iaiciaifero pafTarc liberamente tutte
le barche non armate, fen21 pih rìconolcerle, o cercar dove andalTero, nè
d’onde vcniflero, 0 cib che portaikro: e
ciò doveva ballare alia lil^nU della navigazione, e del commerzto amichevole tra 1 luddici dell'
una, c dell' altra parte; tra' quali, e
ara'Principi raedefimi pareva che doveffe Correre ndiawenire migliore
intelligenza, perchè V accomodamento epa piaciuto unto ^ a’ Veneziani, quanto agli Arciduchi : di
che può addurli quello cerco argomento,
che, dopo ravvilo che n'ebbero i Principi AuHriaci; quantunque lìa trerifimile
che il Barbo avefle rapprcfencaiò gli avvenimenti lecondo la Tua propria
palTtone; nondimeno fu al CommiiTario rinnovata laucoriik.; ^giungendoli
alTolucanientc il Capicaniaro di Segna, del quale era gih fpogliato il Barbo,
acciò tanto piò comodamente egli potefte perfezionare il negozio, e levar
affatto l' infamia di cosh nefandi latrocinj dadi Stati della Olla d'AuHria.
Onde fu chiaro l’error di quelli che ardivaho d-impucar a Principi così
religiofi, gialli, e benigni, il
confeqtimtnto di sì fatte iceileracezze, le quali li dovevano piucuillo
atfribuire a gli inganni de’ mali roinilln Eretici, che nò temevano Dio,
nè miravano aU’ooor de’padroni, o
all'onor prozio; i quali co’loro artiBzj davano ad ìmendere che foflè
ùnpolhbile rimediare a quef diJbrdìni ; e li dipingevano dinanzi a’Prìncipi
come trafgrefioniordinarie, e neccBarìcde’conbni. Ma ficcome quelli tali rimafero cqpfufi
nella loro malizia, e privi degl’
ingiulli emolumenti che ne folevano cavare i così arfero
maggiormente di Idegno^ « invidia contra
la virtù del Rabatu, vedendolo in difpregio
loro colmo di gloria, e di premj da ogni parte: perchè anche i Veneziani,
conforme all’ordinario loro collume di corteCa, io avevano facto regalare d una
grolla catena dì cinque, o fei miladucìiti; i quali egli però non volle accettare fenza dame prima conto a’
Padroni, con offerta d’ impiegarla in pubblico fervizio, come aveva fatto di
fonitna maggiore de’ fuot proprj danari
nella tardanza delle prowifìoni, feufabile, per le più gravi urgenze delia guerra Turchelca: oltra di ciò
li fabbricava in Venezia una barca di
piacere, e da viaggio, per donarla al medefimo Rabatu, fornica di dtverfe comoditi, che a lui nel governo di
Segna farebbe Hata di molto (èrvizio
nell’andare innanzi, e indietro per quei canali, e per le vicine IfoIc. Tutte
quelle cortefio, benché Ic^icrc, c difuguah a’ meriti di sì buon. Cavaliere, tervivano di materia a gU emoli
ftx>i, per lacerarlo, c aecterlo in dtlgrazia de’ Principi: perchè li Bvtp,
irovando nella Corte dìGratz accefi i
cuori di molti Miniltri, fpexialmcnk Eretici, illrumenii reali del Demonio, c Rimici della pubblica quiete,
cominciò ad acculare l'opero del
Eabatta, affermando che egli, corrotto da’Veaeaani, non aveva avuto altro fine, che di lóddisfàrU in pregiudizio
di Ctfkte, della Corona d' Ungheria, e
della Cala d'Auflria; onde a fola riebiefta loro avevai^'fttio a iccare uomini valorofi, c benemeriti,
dandone altri contra ogni onotJtu ime
de' Principi in mano loro; e raettendoU in neceffith di volaaifi a fervile- negli «ferciti Turchefehi, con
manifello pericnio che, perla notizia che elh avevano paele, e delle Piazze,
av^ a cader ratto quel confine in mano
de' nemici. k n Di i,ueft II- Z intcn Digìtized by Google 173 s. ’tT or n': T A. ’ intenzione, vero imitatore della vinti di
Carlo fuo Padre, c Ferdioando Impcradorc ììk) Avo, crede del nome; ma, per
Tei^, non ancora cipaxto deile fraudi
cortigiaoelche, c degl' intcrefìì de’ mali Miniftri, febbeo per Datura, e per
religione, nemicillìmo de gJi Eretici. Movevafi
ffdunqur con tali artifìzj inganneroli Tanitno del Principe, ma più
queU io dfif ArciduchelTa Tua madre, la
quale più veniva combattuta da quelli che lapevano come elTa poco prima era
rimafla difguflaia, per aver egli
cercato d’ impedire il maritaggio dell' Arciduca colla Figliuola del Duca, di baviera, la quale era nipote delia
medeOma ArciducheOa; pel quale
.iinpcdimcnto fì dice che il Rabatta divulgalTc m Venezia che la luddetia Spola fofle macchiata di lebbra; il
che lì trovò poi falfo, c Icguirono le
nozze; nè al Rabatta fu facile a purgarfi dell’ imputazione; c gli convenne
adoprarvi molti intcrce0bri; lopra la qual cicatrice' ieppefo beo dimenar 1*
unghie i luci cnuilt : ónde gli accefero contra i'aniiTib della Madre, e del,
Figliuolo in male maniere^ appoggiando tutte le loro macchine alle maligne
relazioni del Barbo. Fu il Commtflario avviìato da gli amici di rezze fi raccordafìfero delle lamentazioni,
e de' gemiti dc'Ioro poveri ludditi deinUria, e della Libnrvia; i quali, per le
colpe di pochi ladroni, venivano Taccheggiati, e rovinati, ed erano (lati a
termine, per pura difperazione, di
vacillar nella Fede, perchè i Veneziani avevano
gik prefa una riloluta forma intorno a quelle feorrerie, ch’era, di
non rompere in mamfella guerra, per non
iirarfi addolTo la malà fama nel Mondo
d’aver molli) le armi centra i Principi CriJUani, mentre gucrreggiavano contra
i Turchi; ma rifarfi d’ogni oltraggio, o danno che rlccvelTero i loro fudditi fopra i ludditi
della Cala d’ Aulirla a buona mìfura :
onde il fomentar le rapine de' ribaldi non era altro, che dillruggcr, c
dìfabitarc le proprie terre delle loro Altezze, e neccflltar i Varialli a pigliar altri partiti : che cosi
s’ intefe il negozio, quando a lui ne fu
data commiflionc; c ch’egli, nell’ averla fapiita efegutre in quella maniera, pretendeva anzi merito, e
mercede: che non bilognava dar orecchie a gli Eretici, i quali, vedendo
procederfi contra con si gagliarde, c
pie rifoluzioni, c che i bilo^ni della guerra Turchefea non badavano ad impedir Panimo zelante del
Principe per rellcrminazioiic loro, volevano anche vederlo intrigato di più in
nuova guerra colla Repubblica di Venezia,
acciò folTe necelTìtato ad abbandonare V
imprcla contra di loro; c ch'era ormai conolciuta per tutta ‘Alcmagna, e
per tutta Europa la malizia fcellerata de’fettarj, i quali, per mantenerli nelle falfe opinioni, non fi
guardavano di tradire i proprj Principi,
e la Patria; e che di qua era forfè derivata la perdita di Giavarino, c poi di Canilfa .* che le loro
Altezze foiTero certe, o che bìTognava
reprimere la rapacità degli Ufcocchi per la via cominciata, ovvero didruggere,
e dcrolare tutti i luoghi di marina, e gli altri de’ confini; perchè egli aveva
affai bene penetrato che i Veneziani erano rifoluti di vendicar in quel modo le
ingiurie degli Ufcocchi ; ovvero, fc in
fine bifognaffe, pigliar con effo lóro un aperta guerra: \ la qual cofa in niun tempo poteva metter
conto alle cofe delle loro Altezze; ma
ora meno che mai, per li travagli maggiori ne’ quali (ì trovavano col Turco.* che a quedo fine i
Veneziani avevano giudificata la caula preffo al Papa, e predò agli altri
Principi Crilllani, aquali tutti pareva drano che fi voleffero fomentare
nc'proprj Stati pub- blici, c infami
Corfari a danno de’ vicini.* che in cau> tale non s'a- vrebbe da far fondamento negli ajuti del Re
di Spagna, il quale, ol- irà i’effcr
occupato in tante altre parti, e altre molte difficolà di pò- ter mandar armata in quelle bande, dimerebbe
fua vergogna, per la pict^, e giudizi!
fua, il favorire caufa tale .'il che fi poteva anche ar- gomentare dairefiio deir uffìzio che a
fuggedione del mcdefimo Rabat- ta fece
in Venezia Don Inico di Mendozza, Ambafeiador Cattolico, mi- nacciando le arme del Tuo Re, fe non fi
liberava dallo drccto affedio Tricde, c
Fiume.- di che fi dimò affrontato il Re; e per fame chia- ra la Repubblica, e il Mondo, levò todo il
Mendozza da quell’ Am- bafecria .* che
quanto a t pericoli che gli Eretici malignamente met- levano innanzi di perderfi Segna, foffero
certe le loro Altezze che Temo II. Z % meglio
era afiìcurata quella con poche genti quiete, e fedeli, che col numero maggiore di ladri; i quali,
olrra il continuo irraiamenIO de’ncmki, erano loHii rpcffiHimo di abbandonar la
Cicih, per atten- der alle rubbcric;
onde non vi rimanevano per molti giorni, fé non le donne, e le genti inutili; co’ quali
mancamenti s’ èrano a’ Veneziani aperte
mille occafioni di lorprcndcrla, le v’ alpiraflcro : ma cfler cofa iroppo notoria tri gli uomini prudenti, che i
Veneziani Jafeieranno Icmpre volentieri
a fpefe, e carico di altri la difefa di quelle frontiere, eh' en medeìmi, confinando con loro
paciBcamente, ajuterebbono Tempre, pel
proprio intcrelTe, almeno fotte mano a difenderle. Onde non potendo i Turchi per terra avvicinarli a
Segna, ne condurre artiglie ria; nè clTendo mai i Veneziani per conl'cntire
ch’ivi s’ accodino per mare, fi poteva
tener fenz' altro la Piazza per ficura, purché gli U- fcocchi colle loro rapine non ncccfiiraTcro i
Veneziani ad accorJarfi per la
dillruzione di quel nido co’ Turchi, che oe avevano più volte promoisa la pnitica; o elfi llcffi non la
tradiTcro in mano de’ Turchi, de' quali
lòno per la maggior parte fudditi,e molti hanno fotto di loro i padri, le madri, i fratelli, le foreile, e
altri parenti: che in quefto confillcva
il pericolo di qualche gran perdita, non nelle vane inven- zioni de gli Eretici. Aggiunte il Kabatia,
che, per maggiormente affi- curare quei
confini, e per la ipcranza di poterli allargare a danno de' Turchi, larcbbe lato utilifTimo il
compartimento latto da lui di quelle
milizie a i luoghi (oprannominaii di Otiolfaz, Brigne, Profor, e Bortog, mediante i quali fi metterebbero in
ficuro fpazio di terreni fruttiferi,
onde la gente potrebbe con giufie fatiche iofientar la vita lenza illecite rapine; conchiudendo, ch'egli
avrebbe poi mofirato il mo- do di
ridurre ì detti quattro luoghi in lìcura difcla lenza che fé n'ag- gravaflTero le Oincrc di Sua Maefi^ Cefarea,
o delle loro Altezze. Furono alcoltate
quelle ragioni, portate con molta eloquenza, e
grand’efficacia, attcntiffimameme; e tolo fi accoriero i Principi
che fuor d’ ogni Tuo merito veniva loro
mefso in diicredito un tanto Mini- erò,
pieno di prudenza, e di fede; onde lo reintegrarono collo nella prilina grazia: e per darne fegno in faccia
di quelli emuli fuoi, eief- ièro luì
medefimo con amplilfinia autoritli che andalse a ricevere a'con- fini Gian Francefeo Aldobrandinì, Nipote di
Papa Clemente, che in quei giorni doveva
sbarcare alle marine di Tricitc, e di Fiume con
dicci mila fanti Italiani pagati da fua Santitli, e D. Gian de’ Medici, che ne conduceva due mila, pagati dal Gran
Duca, iuo fratello, in fervizio della
guerra contra il Turco; la qual gente della marina doveva guidarli a Zagabria,
defiinara per Piazza della mofira, donde
poi per acqua aveva a trasferirfi, come fece felicemente, airafscdio
di Onilsa. Amminiflrò quel carico il Rabatta
con intera loddisfazione, e de’
Principi, e de' Capi della gente Italiana; e sbrigatofi di III, non vide l’ora di tornar a Segna, per dar
compimento a quelle faccende; nelle
quali non pareva che rimanelse più difikoltìi alcuna ; poiché daPrincipi
Aullriaci erano fiate approvate tutte le fue azioni, e tutti i partiti prefi per rimedio del male; e pareva
che f autorità Tolse accrcIciuta tanto, ch’egli dovcfsc lofio elscr elaltato a
più lublimi carichi, defiinandotegU gib il Generalato di Crovazia. Ma dopo la lua partenza, la malizia
diabolica de gli Eretici s' afsor ligliò figliò ranto più a* Janni di Ini, e fi
sfoderarono nuove calunnie, le quali, fe
pure non erano afcohate da* Principi, almeno non erano ribuitate con quella
fermezza che pareva convenirfi a’ meriti di un tal Cavaliere. Le cole
arrivarono ad un tale lUco, che giù fi mormorava per le Corti che fi formerebbero procefli contro
di lui, fpezialmente per dimandargli
conto della morte del Conte di Poflidaria nella quale
$* interefiiavano forte con poco onor loro alcuni principali,
mofirandofi parziali d' un pubblico
alsalUno, indegno d' elsere ufeito di quella nobile famiglia. Sentivano quelle voci, e quelli
grandi roraori gli Ulcocchi, che per
cauta loro veriavano nelle Corti; ne mancava chi loro feminalfe nell' orecchie che il Rabatta era in
difgrazia de'Priiicipi, a* quali non era
piaciuto il fangue di tanti foldatt valorofi ipario da lui
furiolamente a compiacenza di altri. Qitdli
ragionamenti fi rapportavano poi in
Segna, c fervivano a dimmuir l’ ubbidenza al Commifsario; il quale, rrovandofi fearfo di danari, era anche llato
sforzato a fpogliarfi di quei prefidj
che I* avevano fino all’ ora renduto tremendo in Segna. Accadde in quei giorni che da’ Principi ebbe
il comando di mandar al campo fotto
Oinitsa quel maggior numero di gente che potefse ; colla qual occafionc pensò
anche di Icvarfi dinanzi il retlo de* più inquieti, e più ingordi, per lalciar poi gli afl’ari di
Segna meglio regolati rac llrema cura le
Galee, e le barche armate, lenza impedir però il corto delle vettovaglie a Segna, per non metter la
geme in maggior difperazionc ma vedendo per alcuni mefi che niuno fi moveva, c
che fi olTervavano i patti, e che piU in
Segna fi rendeva agli Aufiriaci la folita ubbidienza, e che i Principi erano
rifoluti di mantenere gli accordi, e d’impedir l' ingioile rapine, ottenuu la
licenza dal Principe, fe, ne ritornò a Venezist, gloriofo, per aver mcllk T
ultima mano a così collol'o travaglio
coll’ autorità, e colla prudenza fua; e tutto il Mondo s’avvide che in mano de’Principi Aufiriaci
flava il raffrenar quei la- droni, con
tutto che i mali MiniUri gli aveffero per tanti anni dato a credere altrimenti: onde non pareva
verifimile che doveflero acconicntire mai più ad una tale infamia ; malTime
avendo anche imparato i Veneziani il
modo di far ad altri celiar caro il danno che fi dii alloro fudditi. Cqn tutto ciò molti uomini pratici
dubitavano che, llando gli UfcocqIiì in quel luogo fenza altro follentamento,
folTe quali impofiìbtle che fi
follentalTero fenza danno de’vicini; malTimc cficodo gli llipendj leggieri, e
difiicilmcnte pagati; nè participando di elTi tutta la gente. Per li quali rifpetti fu prudentemente
confidcrato che T unico rimedio confilleirc nella traslazione di quella gente
a’ luoghi dilcofii dalle naarine, come
Ibno i foprannominati, opportuni alle tcorreric comra i Turchi, e capaci di qualche agricoltura; ne' quali
ancora fi dice elTcre alcune veo# di
ferro, nelle quali potrebbono efcrcitarfi, e nodrire le loro famiglie con utile
induima quelli che eleggedero di preferire un'onello, e legittimo modo di vivere alle maledette, e
Icomunicate rapite, calle forche, nelle quali, o prefio, o tardi, inciampavano
poi tutti. Ma perchè di fopra fi fece
menzione d’ un partito propello dal Rabatta all''Arciduca, fU fortificare
alcuni luoghi di Frontiera fenza dìfpendio delle camera Ai'Ctducali ; e perchè
nel punto della traslazione delle
milizie Segnine a’Cafielli fra terra, e in quello che fi accenna, gli uomini vertati nel negozio hanno creduto
(cnipre che coniìfietTe la certa
fperanza di reprimere i latrocin; degli Uicocchi, e ovviare a’ pericoli che ^
l^tteUi venivano minacciati, (àrX bene, prima di metter fine a quefU. anche quella materia fi
dichiari qui co iiioi o^amentf. .j. ^ •1*" ^ da fapere che il Vefeovo ^
Segna, Prelato ornato di pro« 'dotjrma,
pratico del paele, e pmidenre, propofe che fi facefle unappalto co’ Veneziani
d’alcuni bokhi vicini a Segna, abbondami tanto
di per arbori, e antenne di qualunque genere di VafcelU, quanto anebe di faggi, del qual folo legno
fi fanno i remi per le galee; e cbn
proccuraflc di avere da loro un’anticipato sborlb di 50000. ducati, i quali
fervirebbono abbafianza al difegno di fortificar i luoghi dc^ confini nominati di fopra. Il configlio
era molto opportuno, perche i boTchi
veramente abbondano di materia attifllma a’ bilogni luddctii,e fono cos'i
vicini al mare, che con poca fatica, o fpefa, per fenticri declivi, ufati anche in altri tempi, fi
poflbno condurre all’ imbarco; la qual
copia, e comoditi efagerandofi un giorno in Segna dal Commiflàrio col
Segretario Barbaro, e dicendo egli che quello era veramente un teforo, l’altro rifpole cos\ eOcr in
effetto; ma teloro di metallo, o di
moneu tale, che non avrebbe mai fpaccio altrove, che in Venezia; la qual prudente rifpofta fe foffe Hata ben
confiderata da gli Auftriaci, non fi
farebbono frappoffe nella conchiufione di un utililfimo partito tante
difficoltà; ma mentre l’Arciduca fu collretto di darne parte alllmperadore,
primieramente fi dubitò che quel taglio poteffe agevolar la (Irada a’ Turchi d’
infeffare i confini: ma chiamato alla Corte Cefàrea, per queffo effetto, il Vefeovo di Segna, con
ordine di portar feco ddegni reali di
tutto il paefe, egli colla Ina prefeaza, e con vive ragioni levò quel dubbio; onde gl'imperiali cominciarono
poi a pretendere piò grofla fomma, e dimandavano sborfo anticipato di joo. mila
feum, lenza penfiero forfè di fpendeme
parte alcuna in fortiheaziune di quel conGne; non ponderando effi che i
Veneziani, febbene poffono ricever qualche comoditìt da que’ legnami, non hanno
però piò che tanta neceffitò, perchi non
mancano loro felve che fomminiflrano materia fufficiente per le loro ordinarie, e flraordinarie
armate. £’ vero che la condotta de'
remi, che ft ugliano principalmente ne’bofchi d’Alpago, e di Cancerio, fi fa
con dil^ndio, e con gravezza de’fudditi, a' quali li aifparmierebbe volentieri
quel travaglio; nel retto la materia i inefaufla, tanto per remi, quanto per ogni altro bifogno
di piò numerofe armate: è però verifimile che anche per folo rilpetio della
fortificazione de’ luoghi tante volte
nominati i Veneziani farebbono condefcefi allo sborfo di qualche mediocre lumma a coojp di detti
legnami, per interefle proprio di veder
ordinato in que'jconfini piò mimeroft, e gagliardi ritegni contea i Barbari che
penlaffitro mai per quella Brada d’infettar 1’
Italia, come hanno fatto in altri tempi. \Ma il maggiore, e piò certo lérvizip, che
fi farebbe cavato da quell’ accordo,
conullcva nell’ occupare la gente di quel paefe nei taglio, e nella condotta ; che cosò ella fi lardffie
avvezzata a vivere delle lue fatiche, nè avrebbe avuta feufa, ohe la fame, e la
neceffitò fpingelfe in torlo • perchè
que'bolèbi avrebbono data póftetua materia, non folo di foltentarfi, ma anche
di arricchirli; perchè, oltra i legnami opportuni per le armate, fe ne
làidlbBno tagliati infiniti per ogni altro
bifogno di fàbbriche; la comoditti portar le travi, e le tavole per mare verfo Venezia, o agli oppolti lidi della
Romagna, e della Marca, ove fono cariffirae, avrebbe iltituito un traffico di
molta ricchezza; ove ora i bofehi Hanno inutili, e la gente oziolà ; elfendofi,
perle caule accennate, dilmeffa già la pratica; ed effendo infieme, come
fi diffe di Copra, ritornati gli
Ufcocchi alla vecchia tana di Segna. In
quelli due punti gli uomini prudenti, e pratici giudicavano c& confilleffe
la llabilità de gli accordi, e del ripofo.
Però è molto da temere che in breve tempo non fi rinnovino le miferie
(febben farà Tempre in p oter de’ Principi il rimediarvi) a 'maggior danno
della Criflianità ; perchè febben anche gli Ufcocchi s’ alleneffero per Tempre
di non toccare le terre, i Vafcelli, o i fudditi de’ Veneziani, nondimeno le continue fortite che
fanno verfo Obruazzo, Teme II, Aa ove •V pvt
tcrmin* il canale della Morlapa, far^ fina lmente aprir gli occhi a’ Turchi, ^rr provvedere a’ fatti loro con un
cpnfiglio non diflkile da cfeguire, che
ritornerà in notabii {iregiudizio, e della Cafa d'Aullria, e d’altri; il quale non infegnerò gih io in
quella parte, ma egli era ben intcfo dal
Rabatta ; che pereti fi mollrava rifoluto di proibite che quel canale con barche armate non fi navigale
pib oltre, che da Se^a a Scrillà, accib l’ingordigia di picciola preda di pochi
animali, o pochi fchiavi, non Tenifié
una vola a pagarli con amare lagrime, e
colla perdita d’ infinite anime Crifiiane ; il che piaccia a Dio che
non fegua, e che i Principi CtiUiani
cohofeano a tempo, e attendano a
divertite i pericoli, acci^ ad altri non relli campo di fcriveie pih dolorofe,
e lagrimevoli Storie; dove qnella finifee con un’ incera fperanaa di non ^
fondaa quicw; la quale piaccia a Sua Divina Maeltk di rendere (labile colla Aia lana grazia, p terpreuzionc a cola che li polTa ricever per
buona; e fon licuro che, -leggendo
quelli fncceffi, ogn'uno fi c#tificheri che nei diiordini civili, noQ aliripemi che nei morbi naturali, i
rimqdj lenitivi, lcb|iÀ pare che di
pRfen^ giovino, ènafpidlcono nondimepo il male, e lo' rendano a 1 remp feguetlti più fiero, è atroce; e
che, quando coH'nfeldc'iwidi e
appropriati rimedj, il male è guarito, conviene per lungo tempo aver loipttto di recidiva, e governare il cor^,
non meno il civile, che il naturale f
non colle regole de’lani, ma con quelle degl'infermi; e Ibprattuito appa^rù
chiaro, che' il buon'ordine in maceria fluttuante non può elTcr incedono, le avA ì£ cura di proaurarlo
thi dal dilofdinc cava profitto, E per bene incamAinare la narrazione, mi i
neccirarioriferiFe tutti infieme
gl'ntaieoli (iabilici tra il Rabat», -e il Palqnaligo, che'dall’Arcivclcoto
furono commemorati Iporlamcncc, acciò fi vegga in che, e guanto Intono oRervaii, o inìmrediti; d'onde ebbero
origine le qaeAte feguite. Conteneva
quell' accori»to lei capitoli, »• Che
gli Ufcocchi non poteflcro' navigare, fe non nel canale dell» Morlaca, tra Segna, e Serdfa, con altro nome
detta Carlobago. Che non poteflono
accoftatfi all' Ifole della Repubblica, nè sbarcar fopra i territori di
quella, Che a gl’ altri luddiii
Aollriaci folTe Ubera la navigazione con VafelU
difarmati, e il commerzio per tutto aperto, come per l’innanzi. Che non foficro riconofciuii, paflàndo
innanzi il Forte di San Marer cuardia, col fcguitarli, 'ioapodivano loro f
efecoaióné de'dilegni, avevano però trovato un
lociit modo di fatvar sé fteflì, e le barche .proprie, ion aver
far&> nel fbruio-'di ÉÌaicu^ un
forame, il quale 'renevanotucato eoa una grap
fpina; e,vedth leo le pcffiÉie,
indi, po0ato il pericolo, ricuperavano le barche» Il Denaro, che im quei tempi fu rimandato in
Dalmazia Generale per diveric prowifioni, vedendo ripullulare i troncati
inconvenienti, fece tracrar col Capitano di Segna, e fargli apertamente
intendere che, ficcoerte concedeva molto cortefemente il libero t&mfito
alle barche per vtage mercanzie, cos\ non era per confemire che gli Ulcocchi
[tranfiralfcro armari, come pareva che s’aveflcro arrogala facoltà dì fare nc*cgh
emergenti che nacquero da quefte occorrenze, e come ebbero fine, non fa hilogno dirne di più; non avendo altra
conncflTione colle cofe degli Ulcocchi,
fc non che efiì allora, come Cavalli lenza freno, corlcro come per gradì et maggiori
latrocini, eofi'cfb; fi diedero prima a fvaligiare le Caravane de’Morlachi, che
conducevano vettovaglie, t mercanzie alle Città della Repubblica. Per miglior
Comodo, fi ridncevano colle barche ne i porti delia Repubblica, opportuni per
Icvarfi di là, e andar al bditino ip
Narerfta, Obroazzo, c altri luoghi de’ Turchi : irw troduflero di corleft'iar anche nel Canale di
Cattare; cofa da loro non più tenrara,
fervendoli* altresì per forza dcllè barche de’ luddici Veneri per caricar ^l’animali, -e gli khkvi predati
nel parie de’Tuixhi fi fermavano nelle Ilole Venete a partir le prede, c a dar
rifeatto a’ prigioni con tanta libertà, e ardire, come le le operazioni loro
foflcro di Icrvizio alla Repubblica, c di benefizio a’iuddiii di lei, c ne
ntcritaflero commendazione. Aggianfero a
'ciò il levar le mercanzie, c t dinari
agli Ebrei, e à’Turchi naviganti per Venezia, e far prigioni anche
le j«crlunc; nè fedivano d’inferir
qualche danno ancora lopra le Ilole di Pago, c d' Arbi.’ c acciò non rìmanelTc
alcuno de capitoli accordati al quale
non contravvcnillero, ricettarono nel loro conlorzio i banditi Dalmatini, e i fuggitivi di Galea ; onde il
numero degli Ufcoccht crebbe grandemente; e i nuovi aggiunti, o per dcGderio di
vendetta, a per modrarfi non meno
fcellerati, lervivano a gl' altri d'incitamento
a moltiplicar le olTele. Non racconterò in particolare le rapine, e violenze
in quefto tempo occorfe, cosi per effer troppo in eran numero, come per non infallidire chi leggeri colla
fimilitudine degl’ accidenti ; il che
oflerverò anche all' avvenire, fc non quand o qualche fingolare qualità mi collringerh a farne particolar
menzione ; e febben io fo thè le leggi
della Storia ricercherebbono che folTero tralafciati molti de i particolari che fono per narrare, e che
i narrati anche folTero più
fuccintamente riferiti, per non caufare fazieth, e tedio; con tutto ciò fcrivendo io non per la poderitù, ma
principalmente per notizia di quei che
al prefente defiderano minuta cognizione ancora per altri riIpetti, che pel
frutto che fi cava dalla lezione ;delle Storie, ho giudicato di dover trapanare
i termini dello Storico, e più rodo allargarmi
a far T uffizio di chi informa in controverfia giudiziale, affinchè ila
pronunziata lineerà, e giuda fentenza.
Le tante temerità, e cos'i ingiuriofe, codrinfero Andrea Gabrielli, all'ora Provveditor Generale in Dalmazia, a
rimandare fuificiente cudodia in quelle acque, per levar a'malandrini il comodo
di corfeggiarc, con feguitarli dovunque
s’ incamminavano, e impedire T alfaltar barche
in Mare, e lo sbarcar in qual fi voglia luogo in terra: cofa che
all’ ora a i ladri non fu difeara,
valendolene per pretedo di prevenire predo
l' loro Principi, figurando loro di non effer dati i primi ad’ offendere
; e qiierelandofi che folTero a corco
perfeguicati, e mal trattati, mentre
andavano per li fatti loro fenza far danno ad' altri, che a’ Turchi;
e alcrivendo a necelTaria difefa, ovvero
a giuda vendetta gli fpogli, e le altre
tngiurie inferite a i naviganti, e fudditi della Repubblica in mare, e in terra. E per le confeffioni d'
alcuni di loro, che pofeia capitarono in
mano de' Veneziani; fi ebbe per cofa ceru, che defidetavano, e proccuravano di
edere non folo impediti, e feguitaii, ma ancora provocati con qualche afsalto,
per poter con più gindificato colore impetrarne da i loro Principi licenza, e
darli liberamente a faziare le
ingordifiime voglie in qualunque modo. Nè è da tralafciar di dire che alcuni Pugliefi colla iiberth del
tranlito incrcdulsero di andar a Segna
per comperare la cole predace, c a quedi vendevano i Morlachi, e le Morlache Cridiane, predati nel paefe
de'Turchi, accertandoli che non erano
battezzatti, de' quali era facu pubblica mercanzia, come fe fofsero dati infedeli. Al principio di quede
predazioni non è certo che il Capitana
predafse conlenfo efprefso; ma bensù, dappoiché Giovanni Vularco, famofo capo degli Ulcocchi,
ritornato da una gro^ preda infieme con
Pietro Rofantich, gli donarono 1500. Tolleri, e un Cavallo di prezzo, fornito,
fi moltiò aperto protettore del corfo. Mandò
in qualunque ufeita generale un fuo famigliare infieme con loro
alla preda, al ritorno participando la
fua porzione del bottino: e pafsò tanto innanzi, che fi mife egli defso capo
nella compagnia loto: la qual cofa anche
un giorno gli ebbe a fucceder male; perchè, avendo congregati non folo gli
Ulcocchi di Segna, ma tutti quelli del Vinadoli, e aven
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A e avendoli fatti fcorrete nella
I.icca, non foto reflò defraudato del difegno, ma gli convenne anche fuggire
con qualche pericolo,- perchè i Turchi, avvifati, lo perfeguitarono; altri
coriero ad alTaltar Segna, la(ciata lenza guardia fuflìcienre, che con
difficolih fi difefe. Di tante
ingiurie, e inlolenze a’ tempi opportuni furono dall’ AmbaIciadore della
Repubblica fatti lamenti alla Cone Imperiale, e furono riportale fempre gran dimollrazioni dall'
Imperadore, e da quei MiniUri, di léntirne difpiacere, e promelse di rimedj.-
ma efsendo occorfa nel idoj. la prefa di
una Fregata della Brezza nel Porto Cigalz, fopra la quale erano diverfi
Mercanti con alcuni groppi di Zecchini, e
altra buona quantità nelle borie, e flati Ivaligiati tutti con mal
trattamen- gralirt fmontati alfaltarono Scardona, Città de' Turchi, c riulci loro lenza alcuna
difficoltli I’ imprefa, avendovi trovata
quella gente lenza nefiuna guardia; e uccifi quelli che, eccitati, fi oppolero,
depredarono la terra, fecero grolTo bottino di merci, e robe, e prefero 300. Ichiavi, e accelo il
fuoco nelle cafe da piò parti, partirono, e all'aurora predo arrivarono al
Canale,- e quello jiatTaro colle barche proprie, e con quelle dc’Sebcnzani, (
le quali poi adoperate forarono, e milero a fondo) inviati per terra quelli che
non capivano nelle barche molto caricate, gli altri per mare fe ne ritornarono
colla preda. I Turchi imputarono i
Sebenzatii per complici, e fecero querele a
Collantinopoli; perlochè fu anche mandato un CiTiaus, e con molte difficoltà
la cola fi pofe in negozio; c con maggior opera, e fatica, e fon lunghezza di tempo fu fatto conolcere che
gli b'cardonefi, per la loro negligenza
in guardarfi, furono principaliOima caufa del danno; « che i Sel^Dzani non ebbero alcuna parte. Gl'Ufcocchi, e i Minidri Audriaci difendono
queda forte di azioni con dire che i
Turchi fono nemici della religione Cridiana, e de’ loro Principi, e giudamente polTono offenderli, nè
con ragione da altri poffono effere impediti; e fi lamentano che fieno impediti
da' Veneziani. Ma elfi dall’altra parte
rifpondono, che non appartiene in alcun conto
loro attendere, o doleifi, le i Turchi fono danneggiati da' nemici
loro: e ficcome non attendono a quello
che facciano i Perfiani, ovvero gli
Ungheri centra i Turchi, cos'i non attenderebbono a quello che gli Ufcocchi
tentaffero dove co' Turchi confinano : ma quello che loro tocca, e che loro importa, è il tranfito pff^li loro
territori, o pct le loro acque; non
tanto perchè cos'i vieiM jioiata la giurildizione, quanto perchè i Turchi
pretendono di elfer rifatti, come queda volta ; ovvero pij;liano di fatto il
rifacimento fopra i Ridditi Veneti, come in altri tempi è avvenuto; imputando
loro che tengano mano, 0 fieno complici,
o almeno che fieno tenuti ad ovviare, e nonlo facciano. Se vi e tanto
zelo di religione, c di perfeguitar i nemici della fede, vadano per li loro confini, che fono larghi, e fpazioC,
e là efercitino il loro zelo, e va ore.
Che, per offendere i nemici della fede, entrar violentemente in cala
dell'amico, violarla, e metter le cole di quello in pericolo, e in danno, non è uffizio, ma pretcflo di religione,
contrario g i fanti precetti di queda.
Il Ba Digitized by Google di Pifino per li» lìcdrciaii, promife con
lue lettere al Genera! iRTo che avtehbe
ifancenuca la fua roldaéelca in difciplifia, fìcdKc ncfIbno avrebbe occafibne
di querelarli. Diedè -principifi ili’ informazlonè per mandar alla CArce, e delle cofe predate
ricijperb tre mila 'zecchini dc'gropii, perchè quelli erano capitali in ftunò
de' priocipali' ^r qdellh 'dhe Tbccava
la robe',* ficcoma per li tempi palTati 11' mandaf per informazione ilon pdrrorl Inai ahrd
efrecn>,~fe non tfllazione', accioccU
il rubbaro poteffe eflTer trafugato con comoAj; e TIldfi, per non fSV
la rHRtiizione, ne facelTero parte a chi
poteflé'prdl^crli; cds’i nelTocc*finne preftnte refe la ricoperzzSsne
impoflibile. Imped'i il Baronè agli
Ufebethi Pufeir allS peda; e ^1 tempó'di fei raefi, che dimorò in Segòa,
le cofe panarono afiài Quiete Parti all’ improwflb pr Spagna, per la ’lffórte di un fuo -fratello, e lalc^ le
trfè in cdhMone; e de 1 tre mila
‘zecchini de’groppì Hcòperari non li lepp mai che cofa ivvenilTe. Von Mterono i pdroni'Vitrame parte alcuna,
quantunque, ajutati dagli nmaj de’Minilirr della RepaWiea, JafèlRro continuate
iHanze in Se^af e aXìratt pef rtlHtuzfShe jdeW Ih line, ftanchi, non tornardfr
piò loro il cifnlò di profeguire, ihbandonarom 1è loro ragioni. Fu un’ arcano ufato in tutti i tefpi da chi
comanda agli Ufcoccnl^ di deibdere gli
uffizj de" Minillri * della Repubblica, e If private iltanze', llancaido gf in tereffati colle diUèfimi, e
nhtrehdo 1 pubblici MiniDri di fpranze
d*^tera rèWruzIonc dei tolto, e galligo de’ifelinquenti, fili tanl tq che, fitccedehdo uh altro rubbamento, e
dopo Quello un’altro, il parlare de’liiècelli frefcfii faccia porre prima in
lilenzto, e poi in obblivione i primi. e fi può ftire generalmente che fempre
hanno pollo in fiknzio, e coperto ogni 'fiìblnmenro con un'altro nuovo. Per la partenza del Barone, gli Ufcocchi,
reflati liberi, fi avanzarono nelle iniblenze con dtqni di ‘tutti i generi di
fopi^ raccontati ; e intraprefero -di più tih tentativo chO ne'feguenti tempi
ogn’anno tentarono di metter ih effciro. E’ pollo in ufo che da "Venezia
parte una Ga. le,!, che chiamano della
mercanzia, per Dalmazia, donde leva le merci che fono portate aquella fotta.’
Gii Ufixcbhi penfanno che, venendo loro iicto di poterla una volta fpoglldfe,
foiebbe (lato un' grofiìlfimo boKìno per loro, c gran fervizio a’Ioto
Governatori, fe quel commerziO' foffe ftatn'- imcirotto ; però ile’ tempi
dell'andata, e del 'iitomq maraviglia è
quante. infidie*s'ingegnarono''di porle; ma non hanno mai potuto colòrir il difegnb, perche h Galea,
per fila ficureiza, fempre i fiata da
Galee, o barche armate accompagnata ; ma quantunque la mi andaflè fallace, ^on
rdlavano di (jdiptrè in altro, Icbben non di tanto fratto, perdiè,- mentre fi
attendeva alla cullòdia ’ della Calcai, conveniva in qualche luogo rallentare
l^'guardie; e reftava qualche parte del
mare non cullodita, e loto aperto il luogo datwtcr far de'mali pari a i
loprannominati.- A queili Igginnferu apprefliptn nuovo, e lirano ufo di
violenza dove era ^nalche figliuola da marito di buon parentado neU’Ifole, 0
Terre marittime (tf -Dalmazia; andati improwifamente,‘o di notte, o in ^Itfi
tempi più opportuni, con inforzar lecafe,Ia
rapivano in matrimonio di alcuno di loro; e poi co’congiuuti .(che
al male palfato non potevano rimediar^’)
iratiando {bee, e feofando il fatloj pròecuravano d’ indurli a ficonoftérli
per. parenti, e favorire le cofe Tomo
li. Bb z loto loro eoa intelligenze, zvyifi, e zltri zjaii- Pochi ne poteyzno
periiiadcrc, |>er le gran pene cb'cleguiva la giullizia contri chi era
trovato aver parte con lofi; ma citi
contra qoclli che liculàvano oftilmentc
procedendo, valendoli di preteOo della dote della moglie, tenevano
in continua venazione le perlbne, c gli
averi loro fin tanto che lioflcco
eoodotii a mileria efttcma. Alle
violenze, arrapine ovviava,Giam • Battifia Conntii^, Generale Veneto, guanto «jr’foflibile a chi non voleva
ulare i mezzi proprj di alidar a i nidi
dp’iadroni, per non difpiacer a' Principi confinanti; ma Iblo* difendere le cole proprie: il che
riufeiva difficile, avendo a guaruna Riviera di joo. miglia con unte Itole, e
fcogli, cooira gente ardita, veloce, e
temeraria, che, fingendo andare in un luogo, paflàva ad nn altro, e con ellrema preftezza fi
Ipcdiva da quello, c ririravaC in
licuro. Occorfe nel (idod. che, ritrovandoli .nel porto di Veftria, rreCò a Rovigno in Ifiria, una Fregata
Catearina, la quale portava Icttere del
Principe, c. lei mila ducati di danari pubblici, e altra fomma ge' privati di
circa quatira mila, con mercanzie, e robe di valore, te barche di quelli fccilcraii raffidtarono,
e In lQ|p>gÌiorona di tutte le robe,
e de' danari j, e, quello che peggio di luitoifu, afponate k pubhliche Iettare,
e partendo di li, con maggior crudeltà
Ihccheggiarano altri navilj ritrovati in
altri porti della Rcpubhbca, levando a' ^danti,,o a' Marinai ic camicie, e le
fearpe; e 1 capi, dopo aver prefo per sd
(Icifi una grofià porzione della preda, il rimanente del botiino divife, IO in i$o., che tanto era il numero. 11
Coniarini, che fin allora fi era
contentato di ftar loia alla difela, ed impedire ilenuiivi,
cqnofcendo che per tal via era
impolfibile conseguirne il fine, vedendo giornalmen. te crefccrc gl’ inconvenienti, coofidcniado
il danno per la preti della Fregata, e,
quc|ia che più filmava, il pubblico altronio per le lettere interceite, giudicò neceifario lerrar i palli
a Fiume, Bttcari, e Segna, e impedire
rufdca, e andata di ogni t>ru di valceUb a quei luoghi, acciò quegli abitanti folfero cofiretti a
defiftere dal ricettare, e fitvoriK i
predoni, ovvero trovar modo di conrenerli m uffizio. la fola perle, dizione de'ladroni nel mzre non può aver
rimerò cilctto di reprimerli; imperocché, riduceqtlofi elfi, per dividere le
prede, fono là monta, gna della Morlaca,
fito fortifiimo, e molto comodo, per la moUipUciib dclté valli, e. de' porci, e
per la proffimiib dcircmiiunae, d'onde colle ^ardie fcuoprono da lontano,
ktuvano la maggior parte de' pericolì. Per tanto i Veneziani, ammaeftrati dall'
efpcrìenza, hanno fiabilica una mafiima,
che fia di poco frutto, cosi il pcrfeguitarli, come impedir loro l'ufcua; ma
folo giovi l' impedire il ricetto che hanno |nellc terre, fon gafligarle, levando loro il
commerzio. I^r quella caiÀ il Generale
pybhlicò un leverò bandAv ohe nefiqno de j fumiti poteffic avere commerzio con
quelle terre; e neffun Vafcello di qualunque luogo vi fi potelTe aaA^are; e per
aggiunger la forza a' precetti, accreboc il numero delle bapchp frmaie ;
a&ldaia molta gente Albancfe, chiamò
altre Galee, e fece cosi potente annata, ^che fuor della fua inlenzione diede
gelofia agli Arciducali di aver animo di efpugnar le Fortezze, Per quello timore Gian Jacopo de Leo,
Vice-capitano (che il Capù rane Francol
era allèntc) per, nome proprio, e della Citth, fi purgò con lettere predò al
Ceotarini, mollrando dirpiacere di quello che alcuni pochi ribaldi centra il
voler fuo, e della Ciiih, avevano operato;
o&rendo foddisfazinne.- e il Baron di Khisii, Gcncnl di Crovazia, calò
a Segna in diligenza, per rimedinte : fubito fece imprigionar quattro, i ^
calpevoli, e con léveri bandi et diede a ricuperar quanto poteva del bottino,
fiteendo intendere al Contarini di aver ricuperata gran parte de' danari, e delle robe; e che
attenderebbe alla ricuperazione del
rimanente ; che darebbe il gaftigo a' colpevoli ; reftituireìdie i
danari pubblici a ehi folTe mandato per
riceverli; e i privati a' padroni che
andalTcro con iuficienii giultificaziooi : léce ìmjMCcare un Albanefe,
e uno di Segna, i due più colpevoli de'
quattro prigioni. Al Segretario del
General Veneto, che a tal efictto fu mandato a Segna, rellitu'i 7500. ducati, e la porzione di robe allora
ricuperate, oiTerendoli di ricuperare il rimanente; che quanto a' danari non
arrivava a 3000. ducati; rellando però ancora buona quantità di roba ; il che
per eSèttuare', fece intendete a 150. che s' erano ritirati, che perdonerebbe
loro, tellicuendo cufcuoo compitainente
la parte toccata toro ; avvertendoli che
lenza quello non av^bbono trovato perdono ’, e f ece pubblicar un fevero bando da tutti gli Sud di S. M., e di
S. A. in pena della vita, e con taglia
contea lèi aifentad de' molto colpevoli, ordtnando cheli differilTe a procedere
contea gl’ altri, fe però refiituHTero,
Ciò fatto, il Baron ricercò per corrifpondenza la rilaflàzione
delle barche trattenute, la livoeazionc
de’bAidi pubblicati, e la liberazione
del commerzio. Il Contarini, quantunque teneflè per impoflibile, più tolto
che diAcile, che dopo 1' aOédio levato lì dovcBe parlar più di ricuperar il
rimanente, reputò nondimeno di dover contenmrfi della promeflà; foggiuogendo
che ferebbe reltato laddisbcto, quando gli foBno coiifesnati i due prigioni intervennti nel
mitfatto, che orano ludditi Ve. neti
banditi; e folientava la fua dimanda, per efler loro flato dato ri. certo contea i Capimli eoncordad col Rabatta.
II Baron non-poteva fentir a parlare di quello. Diceva che il ferlo era cola da
sbirro ; ohe pretendeva r accordo in quella parte nullo ; riprendeva il Rabatta,
che in ciò non fi foflè portato da
Cfavalicie : e replicando le iflanze il Contarmi, ed egli le teufe, i
Cittadini, anfiofi per aver il commerzio Kliero, fecero iflanze cflìcaciflime,
acciocchò per due fcellerati canti aferi noti
patilTero ; e quei di Bucati, e di Fiume, intendendo la difficoltà, mandarono
i principali de’ loro ad unire le preghiere cogl’ altri. Il Barone, prclQ un partito, di fare la giufliaia, e
infieme di loddistàre sè fleflò, clevar
il modo al Contarini di far maggiori iflanze, una 'mattina, nella quale fi afpeitava il Segretario
Veneto, innanzi la fua venuta fece atuccar amendne ad una forca. Non piacque al
Contarini rdfer defraudato della fila iflanza, la quale repuuva giufta, e
neccITaria, -per contener i fuoi in
uffizio; tuttavia, non eflendo alcun rimedio a colà làia, mollrò di contentarli. Fu dì nuovo
confermalo da ambe le parti che farebbono fermati i Capitoli concordati dol
Rabatta ; c promife il Barone che
innanzi la fua panenza avrebbe lafciaii ali comandamenti, e ordini dì procedere
col rigor della giuAizia, che più non fi
feniirebhono inconvenienti. Quello fuocefib lUede maggior Iperanza
di vederi nerpetuau la quipte, che
l’opOTto dal Rabatta; perchè, edendo queffli flato uccdiP, pareva che gli
oiduti da lui polli reflaflero fenza protettore, e che quell' el'empio dovclTa
ipaventar ognuno mandato per p{ov
vedere. Ma rcflando m vita, e nel carioo
lòtto la. fede ad abboccarli eoa loro, conduccndo leco i prigioni;
dove, avendo loro dato rilcaiio per
quello che poterono avere, fiabilirono una
fer«ni0ima amicizia co* Torchi, avendo mangiato, e bevuto con loro,
e fatte aliegreize, e fefle lolcnniUime
per la riconciliazipneé-il Il Radich
alla Corte Cclarea avendo inoltrato, elfcr’ impoffibtle che gli Uioocc|ii^reflairero in Segna lenza le prede,
quando loro non' folTc dato ahro.modo di
vivere, e mameneiTi; e avendo ritrovato ncllTinpcradore, non maniunientodi volontà^ ma di forza per
poter far aflcgnamenio pervie paghe,
fu|^licò che gli folTero cence^Ko k eonthbuuoni che da molti Yiikiggi de MorUchi di quel pack tnaù rifeo^
dal Gecerale 41 Crovam; modrando non eire(e neod&ria la fopraimqntkRza di
querGéoem fcv. le, che con quegli alfcgnamenti li faceva ricchiHìnio fenza
predar alcun lervizio a Sua Maefth ; ma
che quelle con )wca cofa apprcITo làrcbbono
badate per pagare la Guarnigione dì Segna, e per mantener un Capitano
(opra tutto il paefe : al che fu predato orecchio dal Configlio Cefareo, e trovato buono di alTegnare le
contribuzioni al pagamento della milizia
: dì che il Radich fu molto contento, fperando di cavare dagli affegnamenti tanto utile, che fi
potelTe fodentar il prefidio. E oiienute
diverfe efenzioni per tutto quello che portadèro fuori, o dentro della regione,
parti molto foddisfatto, con deliberazione di far ogni sforza, per racquidare la grazia della
Repubblica; avendolo per cofa facile, quando fode adìcurata di non fentire
moledìc da quella gente; difegnando, tralafciato il corfo, e accomodate le
didcrenze, far ben i fatti Tuoi con mercanzie di legnami, Quedo era certamente un ottimo, e perfetto
penderò per benefizia di tutti quegli abitanti, molto più riufctbìle, che l'
introdurre negozio di quella mercanzia
tra’ Principi ; al quale, per li rifpetti, e fofpetti, è impedibile trovare forma che non abbia
infiniti contrarj; che tra privati l'introdurlo non averebbe difficolti alcuna;
s’incamminerebbe a poco a poco ; e da sè dedb per le vie che gl’ accidenti
giornalmente fomniinidralfero ; non vi
farebbe bifogno di Ipedizione di CommilTarj,
n^ di altre lunghezze, e fpefe fuperdue ma il mal codume di tjuegli abitanti, e la maggior dolcezza che porta il
viver di quello d’ altri più todo, che
delle fatiche proprie, non lafciava loro metter in efecuzione un canto buon
penderò. Partito codui dalla Corte, e
rifaputafi la deliberazione Imperiale a
Gratz, dal Generale di Crovazia fu podo impedimento all’ eiccuzione del deliberato, perchè veniva levato un
grand’ emolumento al carico di quel
Generalato, che fi dava per rimeritare un l'erviiorc di Sua Altezza; nè gli
Ufeocchi di ciò fecero rifentimento, attefo che, dfendo interrotta la trattazione delle tregue
co’Turchi, per aver clli dato titolo Regio a Valentino Umonaj in Ungheria; e
per confeguenza cedata la cauli della proibizione
di predare, gli Uicocchi (tanto può la mala
inclinazione aggiunta ad una coniuetudìne pcrverfa ) ebbero più cara
la liberti de i foliti ladronecci, che
1’ alTegnamcnto delle paghe; onde ritornati all’ infame corfo, e ad infedar la
navigazione, e le Ilble, codrinfero i Veneziani a prefeguitarli in mare, e a
metter impedimenti all’ufcita loro.
Dalle quali provvifioni febben era prevenuta gran parte del male che lenza que’ rimedj (irebbe
fucceduta, non erano però luffi.' cienci
di fare che i ladroni non pizzicalTero le Ifole, e che qualche Vafcello non capitaffe loro in mano. Il
Generale Veneto, per ovviare interamente
al male, fi voltò a inidi, dove fi falvavano colla preda, e proibì il commerzio a tutte le terre
Audriache dove fi ricoveravano ; onde,
riufeendo maggiore il danno de gl’altri abitanti, che de i medefimi Uicocchi,
concorrevano perciò continuamente in Gratz le querele, e le efclamazioni de’ Citadini contro di
loro, eleidanze, che finalmente una volta folle daddovero rimediato in modo,
che non patilfcro ogn’ anno un’ affedio
: e mentre a quella Corte moltipicarono i lamenti dei fudditi, quei Minidri opportunamente
ebbero indizio, che i principali Ùfcocchì, 0 difgudati per la proibizione di
non ufeir alla preda, ovvero intimoriti che non folfe rinnovata, rifpetto al
trattata di tregua, eh’ erg LOO ch’era rimenb in negozio; o per loro
maligna, t inquieta natura, avevano contratta qualche i'egreca intelligenza coi
Turchi, e iemintvano pernizion, e
fcdizioG concetti negli Ufcocchi minuti: per le quali cau« le unite inficmc fu deliberato in quel
Configlio di mandare CommUTarj di tutta la Crovazia Lodovico Baron Diatriliain,
e Giorgio Andrea Khazian; i quali, fatta
inquifizione de’ colpevoli, c ritrovato vero più Jore di quattro mila ducati, fi ritirarono
in Campagna prelTo a Segna, dove
divifero la preda; e le loro donne, ufeite di Segna, come per an» «Ur a veder i mariti, e parenti, la portarono
in quella Città. Quei di Segna, per
timore che il commerzio non folte loro levato, mandarono a far lamenti di quello fatto con Gian*
Jacopo Zane, Generale, che poco innanzi era
luccelTo al Contarini, e a mofirar d' cirer in quello lenza colpa; poic^^ t malfattori erano
banditi, e ribelli. Dallaltra par» te
Rimavano i Veneziani quelli tutti artifici; anzi avevano qualche dubbio che i
bamii tufferò finti; poiché permettevano che le donne abitaflero io Segna, e i
Fuorukiti praiicaficro vicino alla Città, ^ forte anche dciiiro occultamente; e
fe non davano ricetto a’ Predatori, lo davano nondimeno alle prede : però
giudicò il Generale che l’aver ricevuto le donne colla preda folse cai^
fuBìciente per rilentirfi centra di
loro. Foie l’armata in guardia alle bocche di Segna, che dava loro grand'incomodità; dal che nafeendo mancamento
di vettovaglie, gridarono centra gl’ Ulcocchi, e vennero anche alle mani i
Cittadini co' glUtcocchi; e tra' SegnaniJ, e Fiumani nacquero grandiilime
difeorde, perché que(K pativano effi ancora, e dicevaao «iiifr de’ Segnani. Il bilbgno fece ulcir furiivamenit in una
barca ad. Ufcocchi, i t^uali temen£>
il Capitano di Segna che col far nuovi danni foITcro caufa di far rillringere maggiamente la Cittb ; e
avendo avute comandamento di guardare
che non fofféro fatti danni a i Turchi, acciò non foHe dato impedimenm alla tregua, eh’ era tornata
in trattazione ; fece Caper alle barche de’ Veneziani che fi guardafleco ; onde
gl’Ulcocchi furono perfeguitati, e combattuti, e ne refiarono i(. morti,
prigio-' ni, e 3. falvati. Di ciò gli
Ufcocchi entrarono in gran contefa col
Capitano, il quale fi feusò con dire di aveva avuto ordine dalla Corte
di coc\ fare ; e che qualunque volta ufeiranno lenza Ina licenza, lo farh intendere o con avvilì, o con tiro
d'aniglieria, ficchè non faranno ficuri. Il che fe fofle fiato olTervato, era
una via di fnidare i malvagi, 0
contenerli nei debiti termini.- non feguì più efempio tale, o perchè i comandamenti foflero mandati per
apparenza; o perchè a i Minifiri
bafiaife mofirare di dar loro efecuzione con ofiervarÙ una volta, 0 quanto meno
folTe poffibilc ; ' I Segnani, per
liberarfi totalmente dagl’ incomodi che fofienet-ario per l’impedito commeizio, vennero in
riloluzione di congregar quello che
poterono avere del bottino, e far andar a Segna Girolamo Barbo, Cittadino di Fola, per convenire con lui
della rellituzione. Il General Veneto
fece rifolnzione di fiat a vedere fe quelle dimoftrazioni erano reali, o pur de’foliti artifizj, per
addormentare; e l’evento dimolirò che
tali erano; perchè al Barbo non fu renduta fe non una poca pane di quello ch’era fiato tolto di fua ragione;
quanto al rimanente ricercavano tante ginftificazioni, che fi vedeva chiaro che
non volevano far- altro .- il che fece anche dubitare fe aveflero qualche
intelligenza con GiurilTa, fe ben
bandito, la 1 1 1. ' Ma fe'i bandi
fodero veri, o finti, non fi può affermare.- certo è bene, che innanzi il fine di fei mefi dalla
pubblicazione d’eflì, Giuriffa', e Vulatee con tutta la compagnia furono
ricevuti in grazia dal GetKrale di Crovazia, e rimefli le colpe, ritornarono in
Segna ; e Giilrilla fu anche nel medefimo grado di comando. Ma non fi venne
gih ad alcun’effetto della
rellituzione.- anzi a quei di Fola, alcuno delqoali andò per ricuperar il fuo, rifpondevano di
voler relhtuire a perfona pubblica ; fe
il Generale diceva di mandare per ricevere, rifpondevano effere neccITarie le giufiificazioni de’
privati; anrochè i poveri Polani,
fianchi, celfarono dalle ifianze. . -u
Stettero quieti gl’ Ufcocchi alcuni pochi mefi, edendo conchiufe le tregue co’ Turchi, c pubblicate in Segna
infierire con una proibizione in r na
della vita, che nedu'no andade a’ioro danni, nè ufeide per qual voglia caufa in corfo per Mare, con
ammonizione di contentarfi delle paghe; e a chi non paredero badanti, o non
bafiade l’animo di vivere fenza predare, fode libertk di portirfi. Non fu
alcuno di loro che reftade contento ;
perchè, aOiiefetti a vivere con abbondanza di bottini, fi conofeevano inabili a
poterli foAenure, malfime non feorrendj le
paghe; ma, attefa la liberth conceda di partire, utM parte di loto diede
orecchie a perfona capitau a Segna, che trattava di condurli al fcrvizio del Gran Duca di Tofeana. Un’altra
parte, ch’era de’ foldati vecchi, a i
qbali non piaceva mutar paefe, e ufeire di D.ilmazia, Temo . Cc tratta ^o^
tniMrono di condurfi ^ liprvizÌ9 delU Repubblic*. Mandi rano per
ciì Viaccnzo Sp^derich o trattarne per
nome loro col Generale, oiièrendolì di fervile o nelle barche, 0 nell? tene, o
tutti tenuti, odiviC, come (’ Principi lòde piaciitto ; ed cflcndo ftau oppolU
loro la profeffione del corfo tanto odiato dalla Repubblica, ritpofero
cbiaraiDcnte |ch' erano andati in corfo
(piando chi loro comandava voleva che così £icedèro; e ch'emendo in fervizio
d’altro Signote che loro comandaliè il
vivere quieto, e ftare ne’ loro termini, ubbidirebbeno puntualmente.
Si offerivano che, quando ben abitaflèro
divilì, avrebbono fatta licurtb 1’ uno
per l'altro, e tutti per cialcuno di qualunque male follé flato commeffot I-e
parole certo erano molto belle, e meriuvano che foffero loro aperte le
orecchie,- ma le operazioni di chi le urtava le chiudevano aJffatto ; e farebbe
flato moltq femplicc chi avelfe creduto che uomini, vifTuti Tempre fcellerati,
in un momento potefleio farfi buoni,- però il Generale non diede loro fperanza
alcuna nò meno li lafciò in difperazione, che non poteffero ai'pettare colla
mutazione delle operazioni qualche
grazia, La condotta dal gran Duca fu maneggiata quali un’anno, della quale qual
foffe la conchiufione al fuo luogo fi diÀ afflìtti i fudditi della Repubblica
per U frequenza de’danni, c intimoriti per rafpcttazione de’ peggiori,
indufTero Marc’ Antonio Veniero,
Generale Veneto, ch’era lucceflo al Zane, a farne querimonia col Capitano, che contra le promefTc tante
volte replicate, agii Ulcocchi foflc permeiTo il dannificarc i vicini ; c che i
proprj Governatori delle terre, in luogo
di mortificare l’ardire loro, lo fomentaiTero con permetter loro di fabbricar barche contra la
promelTa, c l'ordinazione dì Sua Macfl^.
Qiìefli lamenti non riufeendo di alcun giovamento, perchè il Capitano foddisfaceva Tempre colla
medefima rilpolla, che non iifcivano con
lua laputa, ma contra gl’ ordini di Tua Altezza.* ehegli non aveva forze per
far loro impedimento, ma bensì che a(ipetriva 500. Alemanni per regolare quella
milizia, la quale confcUava ch'era
trafcorla troppo, e pih che mai che per lo paflaco. 11 Generale, certificato
che tutte erano parole, c lufinghc, ricorfe al folito rimedio dì otturare le
bocche di Segna, e di altri luoghi Audriaci.
Un calo avvenne, che codrinlc gl’ Arciducali a porgere rimedio; perchè
VuUteo, ufeito di Segna con grofia mano d’ Ulcocchi, alTaltò un Galeoncino partito d’Ancona, per pafTar a
Raglili, carico di panni di feta, e
lana, di valore dì 15. mila feudi; la maggior parte roba di Crtdiani; la qual
tutta depredarono, fatti prigioni quattro Turchi, e quattro Ebrei che erano
(opra il Valcetlo; al rittiedio della qual cofa, pel f rave lamento del Nunzio di Gracz, da
quella Corte furono fpediti raimo
Dìatridain, e Feliciano Rogato Commiffar;; i quali, giunti, prefero informazione delle qualiù di cialcuno
de capi, e delle male operazioni commenb da alcuni anni fino allora, e
ritolfcro di tornar a Graiz, per dar
conto del tutto, e trasferirii di nusvo a Segna con forzc, per poter clcguire
quello che giudicavano neccllàrio; avendo ordinato al Capitano che fino al loro
ritorno non latciafTe ufeir alcun Ufcoccho di Segna. Fecero anche ridurre
inficme tutte le barche da corfo, per mandarle a Fiume; affinchè foffero in
quella terra abbruciate. E’ fama, che
all’ arrivo di quedi Signori in Segna foHc loro prclcntato in dono una porzione della preda, c che da
effi foiìc riculata con mormorio dc’ladri, che l’alcrivcvano al voler
coftringerli, quando ritornati fofTcro, a farne loro parte maggiore;
aggiimgcndo effer co%\ avvenuto ne tempi pafTati ; e qualche volta aver
convenuto donare tutto il bottino. Non cosi predo furono i Commiflarj partiti,
che gli Ufcocchi, eccitata fedizione, contra la voiontk dei Capitano ( che dopo
l’ aver tenuto le porte tre giorni
ferrate, fu codretto, temendo della Tua vita,
o fingendo di temere, ad aprirle) ulcirono di Segna, e andati a Fiume,
levate violentemente le barche ch’erano ridotte in terra, per c0cr abbruciate, c occupatene molte altre
dc’Dalmatinì, che fi trovarono in quel
porto, fi pofero in mare ; c lenza alcuna didinzione de luoghi depredarono
nell’ldria il Territorio di Barbana ; c poi rivolti veiv lo le Ifole, e fatti molti danni, in Bue
diedero anche fupra il paefe dc’Turchi :
non riufeirono però loro profpcramcntc tutti i tentativi, ficchc poceflcro gloriarli d’ aver piò
avanzato, che perduto. Incontrarono a cafo tre delle loro barche ben armate il
Capitano di Golfo, dal quale lèguiti, furono codretti a combattere, e morti
buon numero di loro^ gl’ altri, dati in
terra, fi ùtvarono, abbandonare le
barche turche, che furono abbnitiate; e liberati quindici Vafcelli, che
da loro erano flati arredati nelle acque di Premoniore: un'altra bacca fu incontrata
dagli Albanefì, c combattuta, dalla quale fu rkuperan buona preda fatta fopra una Fregata
de'Padrovicchi, Il ritorno de'
Commiffar; fi differì quafi un' anno ; durante l' affenza de'quali, erano frequenti le ufeite degli
Ufcocchi alla preda, e in groffo numero, fino di 400. Con molte barche faceva
dimodrazionc il Capitano, quando era nella Ciitb, 0 il Tuo Vicecapitano, quando
egli era fuori, di refidcre : ma non i
cola facile da perluadcre che refidclfcro
daddovcro all'ufcita di quelli che al ritorno ammettevano nella Cittb fcnxa difficolth alcuna : che le avedéro
avuti per contumaci quelli che lontra il
loro volere ufeivano, con facilicb avrebbono potuto tenerli fuori al ritorno; o
almeno punirli nelle cafe, e nelle robe che lafciavano nella Citib; ovvero far avvUare le guardie
Veneziane, e in quella maniera vendicare gli fprezzatori dell'ordine del
Principe, e dell' autoritli loro. In
molte ulcitc di quel tempo non fecero prede di gran momento, per gl'
impedimenti che l'armata della Repubblica loro attraveriàva,' nè occorfero cafi
memorandi, falvo che uno ridicolofo, e due elemplari. Il primo fu, phe, avendo
prefb un valccUo da Lanciano carica per
Venezia, penfando d'aver fatto graa bottino, fi ritirarono predo 4 Segna, per dividerlo; e trovarono il carica
tutto di mele con molto numero di Icattole di manna, della quale, parte per
fdegno di eifer ingannati dalla Iperanza, e parte per appetito, credendo che
folfe confezione, ne dtvurarunu quantitli grande : il che inte fo dal loro
Medico in Segna, ebbe opinione di
doverli avete tutti ammalati di fluflo : redò nondimeno l'arte dclufa, e ncOun
di loto ebbe pur minimo moto di ventre.
Ma degli accidenti confiderabiii uno fu, che, avendo prefa una Fregata, ed effeudo dati lopraggiunti da tre
Galee Veneziane, fi diedero alla fuga, e li ritirarono verlo Buccari, terra del
Conte di Sdrino, dove dalla Fortezza fn tirato un pezzo di ficurczza alle
Galee; di che quelle fidandofi,
fmoniati, e gli Ufcocchi fuggendo, le Galee ancora pofero foldati in terra; e
non mefcolandofi m conto alcuno quei
'della fortezza, redando folamente alla guardia delle fue mura,
furono combattuli, e uccifi parte
de'ladri; il redo fi falvb con difordinata fuga ne'bolchi; c dalle Galeefu
condotta via la Fregata, e la barca de'
ladri col bottino, che però non eccedeva il valore di 400. ducati,
e fu venduto a' padroni. Se dalia Cittb
di Segna, e dalle altre terre dove gli Ufcocchi fono dati ricevuti, e lai vati,
foffe dato ulaio quello jnedcfimo
debito, per edirjMakine de' ladronecci, che fu quella volta uiato da quei (li
Buccari, u male non avrebbe fatto pragreflb, ma farebbe da^ rimedialo nella fu»
origine. L'altro accidente fu, che,
fatta un' ufciia generale, avendo penetrato nella Licca, per rubbare, furono
adaiiti da'Turchi, c Morlachi in gran
numero; e rimanendo uccifi molti di loro de' pih principali, e pili arditi, e numera maggiere feriti, rellarono
gl'aliri aldini molto, e con gran
penfiero di vendicarfi wr la morte de' compagni. Sarebbono lueceffi molti mali
edetti, fc u ritorno de'Commilfarj non avelie coftretti i Malandrini di peulare ad altro : i quali
Commeflàrj, giunti in Segna, avendo fan» impiccare ad un merlo del Caltello
Purilfa, uno de’ Capi molto infolonte,
pofero tanto leriore, che molti fi ritirarono fuori colle bmiglie, pane nelle
altre terre del Vinadol, c i più colpevoli
alla monugna> Alcuni di cffi entrarono nel Callell o di Malvicino,
non guardato, con penfiero di fortificarn
dentro, e tenerfi finché paflallé 1'
impeto della giullizia; né lo poterono elèguire, perchè in quell'
illeflo tempo pallando di Ci la Galea
Morofina, gli alEtltò colla miliaia polla
in terra; e da mare eoa l'aniglicria, e li cofirioTe a ritirarfi alla
montagna, efiendo rellati morti alcuni di loro. Mandarono i Conamifiari oidinii, e bandi per tutte le terre, che ao.
nominaci da loto foliero prefi vivi, o
morti. Quelli principi diedero fperanza di qualche buona provvifione : ma durò poco, e non ebbe
efietti dillimili dagli occoifi altre
volte. Imperocché i Commelsarj, lalciaci feverì ordini, e proibiaùni del
coriéggiare, e predare, e latta una compofizione per l e paghe decorfe, con promefsa che in breve làrebbono
fiati mandaci i danari, e che per l'
avvenire le paghe làrebbono fiate a' loro tempi sborùte, partirono.
Ma lenza riTpecto di quelle provvifioni, indi a poco tutti gli Urcoechi
tornarono in Segna, e a vivere lecondo rufato; c di paghe decorfe, o correnti
non fi parlò più ; ma al coriéggiare fi actefe, coma fe mai non fofse fiata ratta proibizione; non
Colo non vietandolo- il Capitano di Segna, ma dando anche molti légni che vi
acconfentifse : anzi la terra di Fiume col Capitano Tuo non prefiava loro
minori favo, ri, che Segna, ricettando
le prede, e fmaitendole di là per diverfi luoghi ; e pareva appunto che la
provvifione foibe lana momentanea di
concerto; poiché, paniti i Commifsar;, le cofe peggiorarono con danni maggiori del folicq a' naviganti, e
agli abitatori delle Ifole. MoU
tiplicando le ingiurie, non falò 1' armata Veneta accrebbe [la diligenza,
per impedir quanto fi poteva i ladri, c perfeguitarli, quando funivameme ulcivano ', ma il Veniero ancora
ebbe in confidenzio. oc che, conforme a
quanto da’fiioi Ancecebori era fiato più volte fatto in fimili occafioni, era
necefsario levare il vivere a t luoghi dove fi ritrovavano, e che li
fomentavano : per lo che pubblicò nn bando,
che neiruno de’ fudditi avellé ardire di portar robe, vettovaglie, o merci,
né di avere commerzio, trafiìco, o pratica colle terre Arciducali, dw fono da Fianoaa nell' Ifliia fino incontro
allo filetto di Gliuba fafa il Canale della Moriaca; e ordinò che faflé
ritenuto ogni Vafcello che partilTe da
quelle rive, o che cranfitaffe da luogo a luogo, ovvero d' alcrondc folTe inviato a quelle terre. Per
quelle prowifiom reilavano impediti i
ladroni dal fare tutto il male che in animo avevano; ma non era che alcuno de i tentativi non riulcillé
loro; imperocché il Maro è come un
Bofeo, impofilbile ad elTer cufiodito rotto, mafiime in quella tenone abbondate
di ante Ifole,. e feogU; né le bocche fono coti
angufie, come I difegni le Ggumno. L’ ofcuriià della notte ancora, e
i tempi cattivi, c bnrrafcofi, prefiano
comodo di fcanlàre le guardie, aaaflime
a chi Ila attenta, come gUUfizicchi, ad afpettarli con pazioaza: nu bei) al
certo ne fegui che a molti nuli fu ovviato; c quei, che non fi poterono impedire, furono
vendicati, quanto le occafioni
comporurono: e chi leggerò, che tante volte fieno fiati i ladri peifeguiuti,
e fia fiata loro impedita l'ufcita, e il commerzio alle terre proibite, e infieme vedrà narrato che, con
tutto ciò, fàcefléro grandi, c freqoroti
danni, pòn dovrò credere che fia eoa lepagnaiiza nda nar mio zoS SI T O R I A razk>ne, ma che la condizione di quei
tempi, e luoghi pm-taflc che queflir
rimcdj baftaflero per fminuire, non per oftirpare gi’ inoovenienti. Fra gl' incontri in quefto tempo avvenuti
uno dee efler narrato, per aver data
caula a molti inconvenienti feguiti poi, che al loro tempo faranno narrati. Le barche Albaneh
raggtunfero due degli Ufcocchi, e fi
azzufTarono infieme; nè potendo gli Ufcocchi Ibflenere il valore, e maggior numero degli Albanefi, di^ero io
terra, e abbandonarono le barche, e
reftò in queffa zuffa prigione Giorgio Miianficich, Capicanio del Caffeilo di Brigne, uomo fagace, e di
teguito; uno de i pih vecehi, e meglio apparentati Ufcocchi di Segna; il quale,
febtm, per gli innumerabili misfatti
commeOì nel corJo, e per le molte ingiurie
inferite, era meritevole di mille morti, nondimeno per molti degni rifpetti
fu rifervato in vita, e lotto cullodia. Da quello uomo fopratcucto dcfiderolò di liberti, e comoditi, ch'era
confapevole di tutte le cofe più
fcgrcte, s’ebbero informazioni molto importanti per dilucidazione de’ dilegni e palTati, e futuri; e la
prigionia lùa fu a glt Ufcocchi ora
freno, ora ipronc al far male; imperocché, quando fperavano di poter con trattazione ricuperarla perfbna fua, in
buona parte lì contenet^no in uffìzio, e
sì allenevano dalle ingiurie; e quando la fperanza fi feemava, facevano alla
peggio, acceft allo (degno, e alla vendeKa. Ne* quattro anni precedenti non fu
parlato degli Ufcocchi alla Corte
Cclarea, per caufa delle diffìcoitb che fi maneggiavano tra i
Principi della Cala di Aulirla, che non
lafciavano dilccrnere con chi convenille
trattare; delle quali non è ncceflario al prelente propofito far relazione,
poiché non evvt perfona che tanto poco ne fappia, alla quale non fìa notiflìmo che T importanza di quelle non
permetteva che colla Maeltà Imperiale, o
con alcuno de gl' Arciduchi fi pronaovefle altro negozio : nè merto entrato
l’anno del idii. fi aprì congiuntura* di farlo:
anzi’ che al contrario, elTendo nel principio d’eflb hiccefib il
tranfito a miglior vita deirimperador Rodolfo,
per caufa del qoale quei priacipi reliaioao molto più occupari nelle occoivcnao
che quella Corce^porfh in cOnleguenza ;
vi era poca probabilità che per* più mefi avofiero potuto prcliar orecchie ad
altro negozio : perciò i Veneziani, non el^dovi Ipcranza di rimedio per via di
trattazione, tanto prik giudicarono
Dcceisaria quella dell' operazione.
£ per la ilelsa caufa prelero anche animo ^KUfcocchi di far H peggio,
non temendo che potofsero, lecondo il lolito, andar Gommefrar) ad impedir loro le ulcitc, ovvero ad alportar
loro, come aitrt volte era luccelso,' la
maggior parte della preda : e per ordinarfi a far imprefa, e fuperare gl'
impedimenti oppolli da’ Veneziani, follecitmnente preparavano materia in Fiume per la firuttura
di molte barche; e diedero principio alla fabbrica di una di grandezza
inufitata, divulgando che Sua Altezza
era fiata concci» licenza di fabbricarne fei, (btm ^hrt pretefii afsai lontani dalla
verifimilitudine. Comunicato il oohfiglio
infieme da quelli dr€egna ad altri di Novi, Ledenizxe, e Brì^e, e prefi in compagnia alcuni fiKlditi Turchi,
chiamati Garpoti, ovolo Carpochéani, che, nuovamente partiti colle famiglie dal
loro paefe, invican dalla dolcécfea del
vivere di latrocinj, Crino pafsatt ad abimr
in quella ^>Marinf; iiomhù allevati dalla fanciuUetza duramente, atti
a i fopportare ogni diiagio ; facili ad
efporfi a qualiìvoglia manifeiìo pericolo, e gran Iprezzatori della vita;
fecero divcrfe uicìte. Nè le provvilìoni del Generale Veneziano furono badami
ad impedir loro in tutto» perchè,
eflendo molti ì pa(& da guardare, e t tempi molto contrarj al pocervifi fermar in guardia, e elTi in coù
groITo numero, che potevano tentar in un
tempo AelTo diverfi palTt, e con riioluzione, maflìme deGarpoci, di efporfi ad
ogni 'pericolo; quello che un giorno loro non
riufeiva, fuccedeva T altro; e T impedimento che rifeontravano in
im luogo, non lo trovavano nell' altro.
Si riducevano ora in uno, ora in
un'altro de i porci Veneti, che trovavano non eulloditi, come in quelle
Ifole ve ne fono molti (dlirarj; di Ik partendofi a far li bottini, paf-fando
ora per lo drettodi Novegradi, ora per li territori della Dalmazia cos'i all*
im|>rovviro, che non potevano eflère prevenuti: inferirono molti danni a -1 Turchi, e fudditi loro
CriOiani, con rapir loro gli animali; e, aiceli 1’ odinaztone che li conduceva,
avrebbono fatte gran cole, fe le nevi,
che furono quell'anno altiflime, e gl’ impetuofìfnmi» e continui venti boreali non avelTero
combattuto centra di loro. Certa cofa è,
che nella feconda ufcica, quantunque fieno corpi atti, e afluefacti al patire.
Tei di loro redarono morti per li dilagi; e nel ritorno quaranta furono condotti cosi dal freddo
maltratuti, che poca fperanza avevano di ric^perarfi. Il maggior bottino fu
nell* apertura de* tem« pi, quando,
fmomati in terra nella giuhldizione di Selenico, od internatili in quella de'
Turchi, depredarono la terra di Gracevaz, uccid
dieci Turchi, fktti molti prigioni, e carichi di robe, conducendo ancora
400. animali grolTi, e aooo. minuti, parte per terra, e parte pel Canale della Morlaca, ritomarono a
Segna» Alle rapine aggìunfero in quedo
tempo un* altra offefa, che per tutti i luoghi dello Stato Veneto, dove
tranhtarono, c dovunque in quei de*
Turchi fecero preda, lafciarono infieme fama d* aver intelligenza co* Minidri Veneziani a* danni de* Turchi;
facendo correr voce che con loro
confenfo, anzi convenzione contratta, erano ufeiti a predare: e fomentando, e confermando la voce, modravano
patenti falle col nome loro con fìnti fìgillt, 0 fotiofcrizioni. Il che da*
Turchi fu facilmente creduto, cavandone argomento, per edere alcuni mefì
prima, come fuol’ avvenire tra’
confinanti, luccefle divcrfe prede, c rifacimenti fra le parti a quei confini, per li quali
anche s’ inlanguinarono gl* uni contra
graltri, fenza però che i pubblici Minidri de i Principi ne aveffero dato
conlènfo; i quali, febb^n fecero ogni sforzo, per reprimere ciafeuno de' fudditi loro, e riconciliarli;
non rinlcl però fenza diflicoltk, e col
rimanere gl’ animi alterati, e pronti ad eccitarfì per ogni minimo foljpetto. £ non tanto t Turchi, quanto anche
il numero maggiore degl’ Ulcocchi lo
credeva, ingannati da t capi, i quali, congregati nella pubblica Piazza di
Segna in numero di circa mille, affermando loro di avere parola da* Veneziani
di andar liberamente a* danni de* Turchi per
Mare, cforundoli a corrifpondere verfo loro in corcefia; e portato
in quel luogo un Crocifìflb, fecero loro
predar un folenne giuramento, di non
offender in parte alcuna i luoghi, e i fudditi Veneziani; nè meno in Mare i Turchi, e gli Ebrei che fopra
vafcellì Veneti tranfitaffero con
mercanzie ; e di perfeguitar i contrafìacicori, quantunque foffem congiunti di parentado, e con ogni altro
vincolo. £ ^ tutto ciò fecero A Dd
iludio Z IO liudioramcntc andar la nuova per la Licca, e
per le altre regioni vici ne in modo, che anche il Baisi di quei confini ne
prefe Ibfpetto, e ne fece acerbe querele
col Generale Veneto con elprcffionc di concetti molto rifentiti; e ne diede
conto alla Porta in Collantinopoli. Per
le congiunture di quei tempi, quando era incerto dove fofiero per voltarfi quell'anno le arme de'Turchi, a
i Veneziani pareva di dover tenere grandilTimo conto di quelli tentativi ;
(limando la fama diffeminata, le falle patenti, e il finto giuramento, elfer
inviati tutti ad un medefimo fine di
provocare farmi dei Turchi contra la Repubblica; e fi perfuadevano che gli
Ufcocchi, nè foli, nè principali follerò
autori di quei configli, perchè il giuramento pubblico in Piazza, la fabbrica
delle barche a Fiume, patrimonio di Sua Altezza, facevano palefe che il primo
moto proveniva da chi aveva il governo in mano ; maflime per la fama fparfa, che tra gl'
arcani de’ configli de' Miiiillri
Aullriaci una maflima folle (labilità, di far ogni cofa, per
inviluppare la Repubblica in guerra
co’Turchi, per quei fini che ad ogn’ uno poflono clser molto ben noti. Ma gli Ufcocchi, fidatili che quelle
apparenze ingannafsero i' Dalmaiini, e che da loro non dovefsero aver alcun
impedimento, anzi diverlì favori, fecero come una ferma dazione ne i contorni
d' Almilfa, di l!i frequentemente
palfando a’ danni dei Turchi. Quelli avendo mandato prima a protcllarc a gli
Almilfani vendetta, e danni fopra le vigne, terreni, cale, e anime loro, non
tralafciando la prima occafione che fi
porfe loro innanzi, prefero per ragione di rapprelàglia nella terra loro di
Macarfea do. fudditi Veneti, andati fa per negozj della Brazza, Lefina,
Almilfa, e Pago; laonde in fine avvenne .quello che più volte anche era accaduto nei palTati tempi,
che il danno lellò, non a gf infedeli
inferito, ma (òpra i Cridiani caduto. Partorì nondimeno quello di buono, che,
giunti i comandamenti venuti da Codantinopoli, fi compofero interamente le differenze tra'
confinanti : e gli Ufcocchi, Vedendo di non poter più peniate che i fudditi
Veneti li unilfero con loro, nè fi rompelfe la guerra tra la Repubblica, e i
Turchi, depofero la jnafchera; e, non
odante il folenne giuramento, corfeggiando intorno all' nòie, Ipogliarono una barca che da
Venezia conduceva mercanzia per la fiera
di Cherfo, e un Grippo Ragufeo carico per Venezia di merci di ragione d' alcuni Armeni Cridiani ;
a parte de^quali tagliarono la teda, e
fecero altri prigioni; e ridotiifi con 14. barche all'Ifola di Onia, prima che Agodino Canale, luccelfo
Generale in luogo del Veniero, avvifato, potelTe mandare per ifcacciarli,
fpogliarono tutte le barche de’ viandanti, eziandio quelle dove non era da fare
preda, fef non di vedimemi, e drumenti
da navigare, non perdonando a'pefcatori, e
Uomini dell'Ifole, che per loro affari tranfitavano. Scacciati di lù,
e ora in uno, ora in un’altro luogo
ritirati, non celfavano dalle moledie', le quali lungo, c tediolb larebbe
raccontare: ficcomc, per la deffa caufa, è bene tralafciar di dire come,
feguiti, più volte furoiv) codretli ad abbandonar la preda, e le barche, e
falvarfi ne’ bofehi con difficoltli', e
altri ribaldi ancora fono nome loro non mancavano di comjnetter ogni fona di
fcelleraggine. Un certo Giovanni Uibich, nativo di Gliuba, commife in quei giorni in territorio
della Repubblica un’importante, e violentinijna latrocinio con diverfe male
qualità*,: peclocbè il I&OVVC Provveditor Generale giudici neccBario di
averlo in mano; e intendendo ch'era nelia viila di Artina, appartenente a
Gliuba, mandi a quella il Govemator Paolo Gbini con loo. Aibanefi per
prenderlo, come gli fuccefle. Ma mentre perfeguitava quello, vedendo un
altro fuggire, giudicando qualche male di lui, lo fece feguire, e fermare.
Quelli notifici al Governatore d' eflcre
Uicocco, e che con lui erano nella terra llefsa
cinque altri Ufcocchi. Il Governatore, avendoli per complici,
deliberi di pigliarli; ma elTi,
ritiratifi in certe cafe, in iito avvantaggiofo, lì prepararono a combattere. Il Governatore, che
poteva o col fuoco farli ufeire, o alTaltandoli con numero unto maggiore,
eollringerli, perdonando ailc abitazioni, e al fangue loro, o per qual fi
voglia altra cauta, gli accetti con
quella condizione, che non riceverehbono offelà; e fe il Provveditore non avefse approvata la
fua promefsa, gli avrebbe ritornati nel
luogo ficfso, e nello llefso flato, per combatterli. Il Provveditore fece
efeguir quello ch’era di giullizia contra il Libieh. Quanto a i cinque
Ulcocchi, nè approvi, ni riprovi la promefsa del Governatore, ma diifer'i la
Tifpolla'^ e ordinò che frattanto fufsero cu-,
floditi. Per quello ac'id.itiv
.citarono quel tU multo efacerbati e feb
ben da loro erano fiati ufati per lo innanzi tutti gli artilizj, c fatte promefse, per liberar il Milanficich, e
riporuta tempre o poca fperanza, o la negativa; aggiungendo quello alla prefe
de’ cinque, mandarono a far ifianza per la rilalsazione di tutti fei,* e mifero
in opera il Vicecapitano di Leo, e i
Giudici della Cittb per Intercefsori, a’qtiali non fu nè data, nè levata la f^ranza ; fu folo uu
intenzione di dovervi far
confiderazione, e gratificare dove fofse fiato conveniente. Ma gli Ufcocchi,
non definendo per tanto dalle rapine, e da i latrocinj, fe erano impediti loro i grolTi bottini, non
s'allenevano da i leggieri, e dal moltiplicare Pofiefe, che, non porundo loro
militi confidcrabile, caufava. no
fofpctti di difegni piò dd folico pemiziofi. Quelli movevano il Canale a
continuare con piò diligenza ne’rimedj, conducendo numero maggiore di foldati,
e accrefeendo l’ armata de' Vafcelii con rinforzo di gente ; onde le terre,
elsendo ferrate gii piò raefi, fenza commerzio, e con ftrettezza di vivere, allora maggiormente
riftrerte, refiarono quali private
totalmente. Mandarono perciò aH’Arciduca a rapprefentare i loro patimenti, a
far cl'clamazioni, amplificandoli piò del vero, e richie. dendo protezione, e follevamento. Era in quello tempo felicemente fucceduta la
nuova elezione di Re de' Romani; onde
l’Arciduca, follevato da quel grave penlìero, porfe orecchie ai lamenti de’fuoi piò volte
replicati. Pensò prima dimandarcome altre volte, Commifsarj a Segna, che
facefsero qualche dimofirazione, e ponefsero qualche freno, tenendo che,
ficcomc per lo pafsato, allora fimilmente da’Veneziani gli farebbe corrifpofio.
Ma da’ fuoì fu fconfigliato, acciò non
parefse che, cofiretto, per timor delle forze
loro, facefse la provvifione ; laonde prefe partito di mandar a Venezia Stefano della Rovere, Capitano di Fiume; il
quale fpedito, mentre faceva il fuo viaggio, quantunque fofse di mezza fiate,
una tempellofa, e grave fortuna apri
l’adito agli Ufcocchi di ufeire con i6, barche, e con rifoluzione di cfporfi ad ogni pericolo,
non folo per bottinare tanTima li. Dd I to, che ila
tP, che fi rifaccfsero del perduto per grirapedimenti pafsati; ma
anco, ra per prendere qualche perfona
infigne, col rifeatto della quale pocef.
fero aver alcuno de’ prigioni. Loro fu dato in ifpia che Girolamo
Mo. lino in una Fregata ritornava da
Cataro, dove era fiato Rettore di quella
Citth. Furono allegri lòprammodo, cosi per l’occafione del bottino delle robe,
come per la perfona, penfaudo di dovere certamente riavere il Milanficicb, e tutti gl’ altri uol
cambio di un Magifirato Veneto, Volarono per la via dove furono indrizzati;
rifeontrarono la Fregata, e l’afialirono, Non vi trovarono altro, che le robe,
elfendo il Provveditore per buona
fortuna prima fraonuto in terra, NelTuna cofa
affligge più l’animo, che il vederfi defraudata d’una fperanza tenuta
per certa, Quei ribaldi tanto certamente
credevano di dover far prigione quel
perfonaggio, che, non avendola travato, pareva loro che piit torto folTe lor fuggito, che non dato loro in
mano, E tanto fu l’aidore d’ aver nelle mani un pubblica Minifiro Veneziano,
che eccitatili l’un l’altro come a
furore, immediate voltati, palTarono verfo Rovigno ;iell’Iftria, per far prigione il Podefth di
quella terra; il quale non po. tendo
avere, perchè fi falvè, alTalirono i Valcelli che nel porto fiavano afptitando
vento per Venezia, e li fpogliarono, uccifi i Mercanti, C i Marina] che Inm .wOa, rifpetto ad alcu
no, nè a grandi, nè a piccoli.- e più infervorati, perchè anche il fecondo
tentativo f©nè loro riulcìto vano, ritornati con celerità, palTarono fopra
l’Ilola di Veglia, dove ritrovandofi Girolamo Marcello, Prov. veditore ^ell’lfola iq vifita di Befca, terra
deU’Ilola medefima, lo fecero prigione infieme co’fuoi miniftri, e l'ervidoti,
e lo conduflcro eoa vilipendio, e
indigniti grande in certe grotte vicino a Segna, tramutandolo fpelTo da una
all’ altra, Nè è da tralafciar quella particolare, che la barca, colla qual fu condotto prigione
il Provveditore, fu quella fabbricata in Fiume, della quale è fiata fatta
menzione, Infieme coll’awifo di quello
misfatto il Capitano di Fiume arrivi wì
Venezia. Non poteva giunger in peggioe congiuntura, attefo che le
ot. fole degli incocchi mai non furono
cosi frequenti, come in quell’ an. no-,
né meno cosi rilevanti, e malTime l’ultima-, la qual, intefa dal Capitano, poi giunto, lo fece reftare molto
prerpleffo, fe doveva dar immediate
principio alla negoziazione, ovvero alpettare fe da Grata, pel nuovo accidente, gli foflero mutate le
iftruzioni; e fe doveva fama menzione
eflb, o tralafciare di parlarne. In line, prefa rifoluzione, diede principio
coll’afliftenza dell’ Àmbafciadorc della Maefià Cattolica al fuQ negoziato, incominciando dalla buona
mente del Sercnillimo Arciduca, dall’ottima difpofizionc fua verlò i Principi
confinanti, e la Repubblica malfime ; loggiungendo che perciò 1’ aveva mandata
con ampliflima autorità, per pigliare fpedientp di foddisfazione di ciafeuno,
e tranquillità de’ludditi; e aggiunta
un’ affettuofa condoglienza del fucceffo di Veglia, con afiicurare che nè
l’Arciduca, nè alcuno de'luoi Mipiftri, nè maggiori, nè inferiori, vi avelTero
conlenfo, e participazione ; ma forte fiato motivo di quei di Segna
difubbidienti a Sua Altezza,- dilcefe al fuo negozio, e per nome dell’Arciduca
fi dolfe di tre particolari ; Che certi
Mercanti, andati alla fiera in Albona fotto la
pubblica fede, fortero fiati fpogliati delle merci da loro portate.-
Che pofeia fatto in Segna da tutti gli
Ufcocchi un giuramento tanto folennf di non offender I* cofe della Repubblica,
cinque di loro, fudditidiSui Aueaza,
fodero (lati preG, e tenuti prigioni contra la fede loro data : Che un Frate foffe flato porto prigione, e
gli foflè flato tolto l’abito per
pagamento delle fpefe; c con lunghe ampliflcazioni aeeravati quefli tre
accidenti, ne richiefe foddisfazione.
Quella forma di trattare da alcuni fu tenuta prudente perchi, quantunque
dall’atra parte vi folTero da contrapporre non tre querele, ma trecento, nelTuno però è in obbligo di dire,
falvo che le ragioni proprie. Ad altri pareva che quello non avefle luogo, fe
non quando le ragioni di ambe le parti
folTero del pari ma in quella occorrenza pareva, attefe le molte male
operazioni degli Ufeocebi, che lo flato delle cofe - comportalTe più d’ufare
feufa per lo paffato, e promelTa di rimedio per 1 avvenire, paflando poi a
richieda di corrifpondenza ne’parncolari deliderati, Ma lafciando di ciò il
giudizio a gli uomini lavi, per intera
cognizione di quella che fi trattava, è necelurio narrare i particolari di
Albona, e del Frate, che non fono flati raccontati a’ loro tem- pi, come non
appartenenti agli Ufcocchi, e in foftanza leggieri. 11 latto in Albona pa6ò in quello modo.
Dovendofi fare la fiera in quella terra
il penultimo di Giugno, fecondo il confueto, i Mercanti di j I o j ni'’ P'"'“tvi le loro mercanzie
licore, ottennero patenn dal Podelti del luogo,- portate le merci in fiera, i
Dazieri preiefero contrabbando, non per
ragione deUe perfone de i Meicanti, ma peri»
qua ta delle merci, e vi pofero mano fopra. Il Segretario Celareo
in ' ®’'Vifato, ne fece querimonia,
dimandando la reftimzioiic ; ed ebbe
rdpolla, che s avrebl^ fcritto p«, e fatto quello, ncercafle il giullo. Cosi fu efeguito
immediate, con aver dato ordino di più,
che le mercanzie li confervaflero tutte interamente; e di tanta, Segretario per
all'ora, afpettando giullizia, venuu cho
foffe r informazione ; nè aluimenti fi doveva procedere in negozio
cho non fu tentativo di oflèfa, ma
pretenlìone d’ordine dì mercanzìa e folito tra’ confinanti avvenire
giornalmente fenza turbazione della 'buona
intelligenza; effendo frequentiljime, e cotidiane le differenze fra’
Dazieri, e mercanti non folo foggetti a diverfi Principi, ma ancora quando ambe le parti fono del medefimo Suto, c anche
delU medelima Cicti. Il Segretario avrebbe voluto che, prima di replicare
alcuna cofaia quello negozio, fi aveffe
afpettato che ferviffe il tempo di venire lari,
fpolla.- nondimeno al Capitano, o perchè avelie quello particolare
in commiflione, o per proporre maggior
numero di querele, o per altra caufa,
parve di non afpettare. L’evento mofltò buono il parer del Segretario, perchè
al fuo tempo la informazione tichiefla venne, e il ne, gozio ebbe fine con intera rertituzione delle
mercanzie. Il cafo del Frate fu in
quella maniera. Fra Antonio da Fiume, dellOrdine de i Minori Offervanti, fi
pofe fopra una barca d i làrina caricata in quella terra per Segna.: quella fq
feoperta dal Forte chiamato di San
Marco, c arredata, in efecuzione de i bandi del Generale di fopra racomaii. Il Frate diffe la farina
effer fua, e portarla al Convento di Ipitir Ordine in Segna ma i Barcaruoli
parlarono dlveriàmente • nominarono il
Mercante di cui la farina era, e che il Frate era imbarcato per paffar in paefe
de’ Turchi. In quel tempo s’era feoperta certa macchinazione di quelle alle
quali viene preflato orecchie folto pretcfto di pieiV, (he terminano in fine
calla morte dc’poveri Criftiani che fi
lafciano follevare : perlochè il Frate, non rendendo buon conto del iuo viaggio, trovato in varie contraddizioni,
fu filmato fpia, e trattenuto in quel Caftello, dove mentre dimorò, leggendo
con quei foldati ne i libri fciolti che
elfi fono foliti a fiudiare, vi lafciò qualche danaro, ed alcune robiccivole
che aveva. Non fi trovarono fermi rifeontri
per convincerlo, o per la fua fagaciii, o perchè non fofle fpia: fu rifafeiato,
e condotto da una Fregata in Venezia, yeftito da frate; e cocomparve innanzi al
Principe, richiedendo refiituzione del perduto
nella Fortezza; allegando che. come Religiofo, non fe gli poteva guadagnate.
Fu rimefib ad attender alla fua profelfione, e altro non fuccene in quello
cafo, ». . La querimonia de i prigioni
fu ftudiofamente dagli Aufiriact pubblicata per tutto, e la foflentavano con
quelle ragioni : Che quelli erano
fudditi di Sua Altezza, e fotto la protezione fua; ebe non poteva
con fua riputazione abbandonare la loro
dlfefa: eh’ erano fiati ritenuti contra la fede, fiante la quale, fi dovevano
lafciare liberi; e fe quel Go. vernatore
la diede, non avendo facoltà, eflervi obbligo, fecondo la ragione delle genti,
di mettere lui in mano di Sua Altezza. Per lo contrario fi difeorreva, che gii
tra il Rabatta, e il Pafqualigo fi era convenuto che gli U fiocchi ufiiti in
corfo non folfero licuri, nè protetti:
che Matteo Tomiz, fervitorc di Giurifla, nativo di Zara vecchia,
uno de' cinque, fu bandito l'anno innanzi
da tutto il dominio per omicidio
commeflb nella perfona di Tommafii Malfiifich; però nè come
bandito,' tiè come fuddito fuggitivo
ooteva capitare nello Stato : che gli altri due
èrano di nuovo venuti dal paefe de’ Turchi ad abiur in Segna;
gl’altri t>cn nativi di quella Cittì,
ma eSi ancora Ufcocchi, ufati al corfo :
E quando, neffuna di quelle cofe fofiè, che la fede non fu loro data, fe non di ritornarli neinfielfo luogo, e
fiato, e combatterli, fe il Generale non avefic voluto lafciarli liberi.-
adunque non fi poteva per quella ragione pretendere che folfero rilafeùti
allblutamente, ma ritornati, e
combattuti.' E chi può dubitare che, ritornati con t oo. Albanefi attorno, non
folfero refiati motti, anche fenza alcun danno degli alTalitori coll’ufo del
fuoco; e non elfcre però alfolutamente, e univerfalmente vero, che il Principe
fia protettore di tutti i luci fudditi che
fi ritrovano nel paefe del vicino, ma filo di quelli che vanno in
cafa dell’ amico per negozj, o per altro
bene; non gii per far male, o per
accompagnar banditi, o dare fofpetto: che in quelli cafi, per
ragione de’ delitti, fono foggetti alla
giuftizia del luogo; altrimenti per la ragione loro i Magillrati Arciducali non
potrebbono mai giudicar alcun faddito
Veneto colpevole, o indiziato di delitto, fe quelli colpevoli, e indiziati non erano foggetti alla giufiizia
Veneta. Altri fi maravigliavano della nuova forma di trattare, poiché gii molto
tempo era divulgato che negli uffiz) fatti a i tempi palfati, per la
refiituzione del commerzio levato alle terre percaufa degli Ufcocchi, i
Principi, e i Miniftri Aullriaci erano foliti a colorire la richiefia con dire
che, fe la Repubblica era oftefa da
quella gente, la facelfe perfeguitare in mare,
la prendelfc, e la impiccalfe; ma non delfe molefiia alle terre per
loro calila' il che pareva molto
repugnantc a querelarli all’ora, perchè fof.
feto prefi nelle 'erre deUa Repubblica,
Ma ri Mi ritonundo alla ferie
delle cofc, T Arciduca, immediate imefa U
prigionia del Provveditore di Veglia, mandò Gian Jacopo Ccfglin Commidàrio
EipreiTo a' Segnani, il quale con un leverò editto, pubblicato in quella Citth, comandò che il Provveditore
folTc condotto innanzi, a lui; al quale
ubbidirono gli Ufcocchi; c levatolo dalle Grotte, lo condulicro in Segna al
CommiTario; ed egli, ricevutolo co rtefemente, lo liberò immediate, dicendogli che il
Scrcniffimo Arciduca, intclà la fua
pattivitli, aveva Ipedito immediate lui in pulU lolo per metterlo in libertb,
e che larebbe feguitaio da altri CommilTarj, che venivano per punire i colpevoli. La preflezza, c prontezza
di Sua Altezza a rimediar immediate alla tralgrclTione de* Tuoi; la diligenza,
e rifoluzlone del Commiirario nell’
elecuzione; c l* ubbidienza pronta preiUra da gli Ufcocchi, eziandio ritirati nelle Caverne
delle montagne, ad uno che fenza arme, e
fenza alcuna forza andò a Segna col folo nome di ComlniffariQ Arciducale,
ficcomc fono indizio della buona mente di quel
principe, e che Sua Alrezza ha Minidri che, fe vogliono, fanno efeguirla;
c che gli Ulcocchi, Icbbcn nodriti in tutte le fccllcratczze, non fono però ribelli, c cotumaci alloro
Principe, quando cificaccmenle vuole circr ubbidito, o non modra contcntarfi d*
effer difubbidito; cosi dimodrano che
colia medcfima faciUù con cui fu provveduto a
quel difordine, fi potrebbe, e ft avrebbe potuto provvedere a qualunque
altro, quando gli interedì non avcflcro pr eponderato, c preponderadcro
tuttavia al debito Cridiano, di lafciar ad ognuno il fuo, cd effere buon
vicino. Nò da alcun’avvenimento più, che da quedo, fi può meglio penetrare nel fondo del negozio, c
veder al chiaro le caufc de i mali padati; e conqfccrc con fondamento quale fu
il vero, c proprio rimedio di queda pede
Dopo la prigionia del Provveditore, i Minidri Veneti non fì contennero, come
prima, nella fola difefa delle cofe della Repubblica, e nelcudodia de f paiTi;
ma cercarono per ogni via, e modo il rifacimento : ma (eguita la liberazione,
fi farebbono contentati di dare fu le loro guardie, come prima facevano, fe le
cofc fuccede, mentre quella durò, non avedero tirato dietro altri accidenti;
accadendo in quede occorrenze come avviene nel moto delle bilance, che, levate
dall’ equilitrio, trapadano pivi volte dall’uno, c dall’ altro canto, prima che
pof{ano ritornarvi. Elfendo ancora il Provveditore ritenuto nelle Grotte, alcuni foldati Veneti Imontarono otto miglia
vicino a Segna, e diedero il fuoco a certi Mulini di ufo di quella Cittù, per
fare danno fpe^ialmenie a Giorgio Danicich, padrone di parte di elTi, che fu
principale nell’infulto di Veglia, e cuilodiva il Provveditore nelle
grotte» Dall’altro canto gli Ulcocchi,
non potendo vcndicarft, e far male iti
2 uei contorni, per le grandi, e diligenti guardie, padaco con
viaggio i terra il Monte maggiore, ed
entrati in Idria nelle Ville di Bergodai, e Lanilchie, abbruciarono gran numero
di Calali con fieni, e imjnenti, conducendo via molta preda di robe, animali
grodì, e minuti: dal qual accidente
eccitate, e irritate le milizie Venete, che in Idria erano, deliberarono di non camminare più per
via di ripetizione, tenendo che dalla fperienza di tanti anni fode abbadanza
dichiarata fuperdua; ma fecero rapprefaglie nel Cadello di Bugliou, e in altri
luoghi del Contado di Pidno; e
dUendevanQ la loro azione, perché in quedo
occor zi6 STORIA occorrenze la ripetizione caufa pemizie
colla interpofizione del tempo,
aicefochè, fe poi, quando l'ofTclo fì vede delulo colla lunghezza delnegozio,
viene al rifarcimcnto di rapprel'aglia, valendoli gli offenditori di ogni vantaggio, e come le Toifela folTc
dimenticata dal tempo interpollo, danno al tifacimento nome di provocazione: la
onde, atteft quelli rifpetti, era
commendata la celeriA nel rifarcitri, per evitare le moleItie di dovere, oltra
il danno, far anche una ditela. Ma
giunto a Venezia ravvilo della liberazione del Provveditore, come le con quella
loderò emendati tutti i lalli degli Ulcocchi, e loderò cedate tutte le caule de
i padati dilpareri, e i rilpetti di dare lulle guardie, il Capitano di Fiume
colla medelima adiuenza dell’AmbaIciadore Cattolico, magnificata, come
meritava, l’azione di Sua Altezza nel liberarlo, lece illanza che le lode
corrilpodo colla liberazione de gli
Ulcocchi prigioni, e coll’apertura del commerzio; cosi meritando la buona
volontfi dell’Arciduca, e le azioni latte gi^ tanti anni in foddislazione della Repubblica. D’Albona, e
del Fiate più non parlò. IMon è da
tralalciare la narrazione de i concetti ulati da quedo Minidro per tre meli che
dimorò in Venezia, potendo da quelli prenderli
grande idruzione de i penfieri che nodrilcono quelli che hanno il governo
degli Ulcocchi, e delle mallime colle quali li reggono. Egli diceva di richiedere i prigioni, e la redituzione del
commerzio lolo per riputazione del luo Signore, figurandolo defiderolo di
rimediare alle male operazioni degli Ulcocchi; ma impedito dal larlo, per non
modrare di elferne codretto per la prigionia de i luoi, e pel commerzio levato
alle terre; colla rediluzione dc’quali
gli larebbe aperta la via, ptomettendo
per nome di Sua Altezza, che all’ora fi rimedierebbe si fattamente, che mai più non fi femirebbe moledia alcuna.
D^Ii Ulcocchi diceva, che fono gente
fiera, e indomita; che non fi podono gadigate ; che, non fi polTono aver in mano, perchè fi
ritirano a i Monti; onde ellere di bil^no con dolcezza mitigarli più, che
reggerli con leveritll : chs colla
rilaOazione de i compagni, e r^tuaione del commerzio, fi lareb-bono addolciti ;
dove colle durezze fi larcbbono renduti più contumaci.- eh’ erano zooo. in
numero, nati, allevati, e fortificati in qnei fili; che a sforzarli vi larebbe bilogno di ze.
mila foldati; che non larebbe decoro di
Sua Altezza, per leggiera caufa, far cos'i gran moto; nè me-i no poterlo fare, non effendo Segna lua, ma
del! Imperadore : e quan-^ do folle fui,
r avrebbe fpianata, non cllendole le non di Ipela col mandare fpello
Commiflarj, che le codavano dooo. feudi alla volta; e tan-i te volte, che con quel danaro Segna farebbe
due volte comperata ; che farebbe la
provvifione conveniente aU'autoritk che teneva di Governatore.- ma volendo un
rimedio totale, e durevole, fi doveva trattare C09 fua Maedù, eh’ era lupremo Signore. Che non
però fi poteva cogli Vfcocchi tutto quello die fi voleva; nè conveniva metterli
in difperaz ione, ellendo buoni Cridiani, e difendendo quella Citth, e quel
paele da’ Turchi: che vi era bilogno di
tempo, e opportunith; e conveniva fopportar qualche difetto, e alpettar quella
provvifione che Sua Altezza farebbe, tubilo redimiti i prigioni, e il
commerzio; e poi negoziar il di più con
Sua Maedìi. Colle quali forme di parole dava ceru fperanza d’ intera provvifione ; prometteva gran cofe ;
ma infieme inferiva che non ^rebbono
cdctcuatc, mettendo al pari la caule, che fitrebbono ulate P" per prerelti ad ifcufarc il
ttuncamento delle promeflè : pareva ehe diinandane un puariglio, e tuttavia
dimand-ava quello ch’era il tutto nel
negozio, cioè il commerzio; perchè col folo impedimento di quello
era pollo qualche freno alle operazioni
nefande. Ma, olita il modo di trattare luhrico, e in sè delio difeordante, la
perfona ancora di quedo Minidro non era
ad alcuni molto accetta, per edere cob certa che gran parte de' bottini li fmaltivano in Fiume,
andando quei della Terra a pigliarli in Segna, per non lafciare che gli
Ufcocchi medefimi vi eompatilTero; e il
meglio fi riponeva in Cadello, dove il rafo, e’I damafeo era pagato mezzo
tallero il braccio. Ed era anche fama, febben
non tanto certa, quanto quedo, che i panni alti, de' quali la cab
fua era fornita, fodero deUo Ipoglio
fatto alb Fregata gb tre anni nel porto di Torcola, del quale s’ c parbto a fuo
luogo. Ma avendo quedo Minidro prefo
per ragione di feufare la tolleranza, per non dir approvazione, di tanto male,
il numero grande, e le forze degl’
Ufcocchi, e il pericolo di perdere Segna, privandola delb loro cudodia; argomento ubto altre volte con
maggior amplificazione, fino ad adermare
che. fono un propugnacolo della CrilUanith ; e che altra milizb non brebbe atta a difendete quei
confini, e quella regione da’ Turchi; predicandoli per buoni, e veri Cridiani,
partiti dalU loggezione degl’ infedeli
folo per blvare 1’ anima, e per educare b Poderità neUa l^ta religione,* che
non è giudo fcaccbrli contra la lede
data, con pericolo che rinneghino, c altretuli fciocchezze; quedo luogo
ricerca che da narrata il numero, la qualitli, e k imprefe loro in queda etli; non potendofi trarne cognirione
dalla notizia dello dato loro nelle eb
(uperiori, edèndo geme che, per b mobiliti, cosi dell’ animo, come del corpo, è foggetta a |varie
mutazioni,* nè Colltnte in altro, che in
non voler guadagnar il vivere colb fatica, ma col l'angue; e da quedo apparirà
chiaro che nè per numero, nè per valore
fimo da brfi temere^ nè la cofeienza loro meritevole di dfere
favorita, ovvero dimata Cridiana; nè il
loro fervuto utile alb oonferyaziooe di
quelle marine,. : Sono tre forte
d' Ufcocchi in Segna, cos'i didimi, e nominati nelb Corte Arciducale.' Stipcndbti, Cafalini, e
Venturieri. Caiàlini fon» ? ueUi che,
nativi, o gik abituati nella Citb, hanno da pih. fucceSioiu èrmo domicilio in quella; i quali anche fi
chiamano Ckadini, e fon» al numero di
loo. Altri zoo. fono con titolo, e narae pih rodo, che in realb, di dipendiati, divill in quattro
compagnie, a yx per cbfcuna, con quattro Capitani, da loro chbmati Vaivodi. Ma
olm quelli quattro (vi fono altri Capi
di Ufcocchi, col qual nome tòno chiamati
tutti quelli che hanno ii modo di armar barche, per andar in corfo. A quedi aderifeono, e fono compartiti, come
in comitive,! vagabondi, c quelli che, nuovamente partiti di Turchb, o banditi,
di Dalmazb, 0 di Fuglb, non hanno fermo domicilio in ^na; e tutti li Chiamano
Venturieri, e danno all’ ubbidieaza di quei Capi mentre fon» applicati alle barche codeqaali vanno, oca in
poco, oca in maggior numero, rubbando, e
predando fopra i vicini. Ix oidiuarie bacche degli Ufcoeahi bno capaci di 30.
per una- Alb volte ne hanno bbbricata alcuna maggiore, capace lino 50. come
quell’anno in Fiume. Fanno più fiate aie anno, fe non fono impediti, ulciu
generab,* ma due Tomo II. E e bno fono
piCt ordinarie.- per PaTqua, e per Natale, aggregandoli loro anche ^eUi che fono fparh nelle terre di Vinadol; e
all' ora quei di Segna votano cosi la
Gitth, che reità culladita d>' pochilTimi vecchi, infermi, dalle donne, e da’ fanciulli. Per le fpefe
delle fpedizioni generali contribuifcono i Vaivodi, i foldati ricchi, anzi
le'donnc ricche ancora, le V edove, e i Preti, e Frati, facendo la loro parte
delle fpefe, c participando parimente la parte de' bottini. £' cofa notoria,
che in quelli ultimi anni le loro ufcite
fono Hate con 15. in 10. barche al pih, in modo
che il numero, il quale ora è maggiore, ora è minore, fecondo che i Venturieri più, e meno concorrono ; più;
quando il Mare i aperto; meno quando è chiufo, e ferrato, è di doo. in 700.
uomini da fazione : ma volendo metter in
conto i vecchi, fanciulli, e donne, fi potrìi dire che afcendano a aooo. Il numero crebbe quando
lì congiunfero con loro i Carampotani, altra gente ufcita di Turchia.
Crelcerebbono fenza dubbio giornalmente,
fe il corfo non fofle loro contefo, e impedite;
perchè molti Morlachi, allcttati dalla dolcezza del vivere di quello ed gli
altri, fi adunerebbono con loro; e può, ben ciafcuno penlare, fe, accrefciuti di numero, farebbono darmi
maggiori. I Veneziani fono flati coliretti a perfcguitarli, non tanto per li
grandi, e frequenti danni inferiti da
loro, cosi a'naviganti in mare, come a'fudditi loro in terra; quanto per li
maggiori imminenti che avrebbono inferito, quando, tollerata quella licenza,
folTero crefciuti a numero fpavcnievole, come farebbono: c non v’ha dubbio,
che, quando la R^bblica non avclTe rimedia-'
to giornalmente, come ha fatto, rillringendoli, e incomodandoli, le forze
loro fi farebbono fatte filmabili; i Turchi; farebbono fiati cofiretti a rimediarvi da dovere, e per femore, come
fogliono fare quando rifolvono : e fccome i ladronecci, eie incurfioni, che
quella fona di gente ofava giù 80. anni,
abitando in maggior numero nella Licca
lotta il Conte Pietro Cmfiob vecchio, firono caofa che la Licca, e la Corbavia follerò occupate da’ Turchi; e
quella medeCma caufa fece perdere Clifia al Conte Pietro Crufich giovine; cosi
a quell' iflelTa fine farebbono ormai
giunti i Contadi di Segna, Vinadol, e Fiumeancora, fe la Repubblica non fi
folte colle forze oppofta al libero corfo
degl’ Ulcocchi. 11 che febben da lei è fiato fatto per difefa delle cote
proprie, è nondimeno feguka da quello la confervazione di quei Contadi alla Cala d’ Auftria, che da' Turchi
fenza dubbio farebbono fiati occupati.
Sa ognuno, che per caula degli Ufcocchi fu mollà da’ Turchi la guerra nel 1593. che durò 14, anni,
nella quale, oltre alla perdita d' innumerabili foldati Crilliani, la
CrillianiA con tanto detrimento refiò privata d’Agria con gran pane
dell’Ungheria fuperìon, e di Canifla coi meglio della Grovazia ; e quelli tono
i bàiefizj che dagli Ufcocchi
riceve. Hanno aflài leggiera cognizione
di quel paefe, e di quella gente, quelli
che dicono eOere vadorola, c tener a freno i Turchi, e cufiodire quelle marine,
che fenza loro fi perderebbono ; non elìéndo veto che mai dopo il 1540. abbiano tentato di fiu-
ineurfione nel paefe Turco, nè depredare
le loro Terre, ovvero combattere con loro a i
confini del Contado di Segna, dove i Turchi fi guardano; ma contra di loro fono fempte andati paflàndo
funivamente per mare, e per li tetritoi)
Veneti, a i confini de' quali non compottandofi Icorrerie nè dall’una.
runa, nè daU’altra parte, gli abitanti fbmno per rordinario non cnllodici. Se hanno cosi gran defiderio, che
fieno predati, e pròvocati i Turchi, hanno comodo di farlo aMoro proprj
confini, e non debbono palare pel paefe
del vicino con pericolo, e danno dell'
amico contra ogni legge divina, e umana, fervendofi del territorio di quello con detrimento di lui, avendo il
proprio, e i proprii confini, per dove più da vicino polTono fare lo fteflb. Ma
gli U. fcocchi non fono buoni di far
imprefa fenza foperchiaria, nè per aU
tro fine, che per alTaiTinare; e i Minifiri Arciducali non riceverebbono benefizio alcuno, fe
combatteflcro a’ loro confini, dove trove«
rebbono la refiftenza, e non comodo di rubbare. 11 valore degli Ufcocchi è infidiare i deboli; uccidere, e
fpogitare chi non fi d^ fende. Non fi
potr^ mofirar mai un* azione fatta in campagna da loro; nè che mai abbiano difefo un luogo
afialito: ognun la con qual
vigliaccheria voltarono le fpalle neirafialco di Petrina; e qual danno causò neirefercico Crifiiano la lor
infame fuga. Non potrh alcun dire che
abbiano mai fatto una fcaramuccia ; non fanno che cola fia fcaramucciare ; fe fono molto
fiiperiori, danno la caccia; o fe non
fuperano di molto, la ricevono : mai non hanno impedita una tncurfione de'Turchi: anzi è cofa
meritevole da efiere laputa,' che molt e
volte i Turchi hanno fatte delle feorrerie fino a Segna, e fatti de’ prigioni a villa della Cittb; e
fempre in tempo, che gli Ufcocchi erano
fuori alle prede, avendo i Turchi a bello fiu.
dio elette fempre tali occafionì, che avrebbono dovuto indurre i Govematori di quella Citth a ritenere la
guardia dentro, c levare r opportunità
a* Turchi di feorrere fenza rifpetto, quando loro fofic fiata più cara la difefadel paefe, che la
porzione delle nibberìe. Mai loro protettori, quando trattano con perfone non
informate, dicono che gl’ Ufcocchi di
Segna fono un propugnacolo della Crillia»
nit^; che difende la Caxintia, ITllxia, e Vltalia ancora da’Turchi; febben la verith è incontrario, non facendo
elfi fe non tirare i Turchi in quelle regioni .* i quali molte volte fono corfi
fino a Gorbonich; nè pofiboo eflèr impediti che non corrano anche nella
Cla« na, e Piuca, e più oltre ancora,
fenza che da Segna pofla efiér loro
Jimpedito. reftano i Turchi per li pericoU nel ritirarfi ^ eflendo aflaliti dall’unione che in quelle
occafioni fznoo le genti dì Carlillot, e
altri Crovacini del paefe; da’ quali alle volte fono flati rotti con grande
uccifione: nè gli Ufcocchi fi fono mai trovati a quelU latti, occupati foto nelle rapine, in
modo, che fenza gli Ufcocchi il paefe è ben cullodito : e da loro non fi^ha
altro, che provocazioni. Ciò è raccontato affine di moflrare che, per difendere
quei luoghi a fervizio della
Crillianith, non vi è bifogno di loro; anzi dii^ ficulcano efiì la difefa; febbene i fautori
loro, come feci racconta A fero favole
d’india, dicono ch’efli difertano per fei giornate di paefe Turco; che da quegl’ infedeli non può efler
abitato; che, quando effi non fodero, i
Turchi abiterebbono quei terreni; e, fatti più vicini, fi darebbono alle
incurfioni : però il mendacio non è facile
da follenure in cofe permanenti, e vicine, che fi pofibno ogni giorno
vedere. La Licca, e la Corbavla, regioni de’ Turchi a quei confini, fono pienC) e abiiaciffime.
DaOttoiàz, ultima terra apTttno IL £e 2 parte
lio parteiiente al Regno d’Ungheria, e lunghi 40. miglia da Segna,
ad entrar in Corbavia ncU'abitato
da’Turchi fono io. miglia; c quelle
poche miglia lòno delle appartenenze d'Ottofaz; e non gl’Ufcocchi
le rendono inabitabili a’Turchi, ma i
Turchi a' Criftianj, a’ confini de’
quali appartengono; che il proprio de’Turchi è tutto abitato', e pur mai gli Ufcocchi non hanno ardito d’ entrare
da quella parte in quello de^Turchi, ovvero far abitare il proprio confine, non
che far a’ Turchi danno, falvo che
paflando pel territorio Veneto, che non vogliono urtare, le non i dilarraati. Viene
rapprefentata per cofa prelente quella
che una volta avvenne innanzi il 1 540. nel tempo in cui gli Ufcocchi profelTavano la milizia,
non i ladronecci, quando per tre anni diedero molta raoleftia a’Turchi
confinanti; ma convertita la virtù in vizio, hanno pofeia foftenuto,e
foflengono al prelente gli ftefii incomodi da’Turchi eh’ elTt inferivano loro,
quando profelTavano di eflcre foldati, e
non ladroni. Il corfo da loro è fiato efercitato con qualche profpcritù, non
per valore, ma per la comoditi di tante Ifole, Icogli, e porti folitarj, de’
quali abbonda quel mare, opportuni a
tender infidie; nel che foUmente gli Ulcocchi vagliono. E il folo confiderare
le armi che portano, farà certezza che
non fono foldati, nè abili per combattere. NefTuno di loro porta fona alcuna di
armi difcnfivc non mortone, 0 celata, non arme in alla: portano folamente lin
Archibufo a ruou, ben picciolo, debole, e leggiero, come bifogna a chi confida
più ne' piedi, ehe nelle mani; c una
picciola manna^. Alcuni di loro hanno di
più uno fiiletto, tutte armi, ficcome proprie per la profelTione
del rubbare, cos'i inette alla milizia,
e per difendere nc'prcfidj, e per
otfendere in campagna. Quelli
particolari fono fiati efplicati cosi diffufamente, per levare la malchera a quelli che feufano colla
impoflibilirà del remedio quel male eh'
elfi fpontaheamente fomentano a proprio profitto. Se 1 ’ eferopio del Rabatta
non fofle recente, folto gl' occhi di tutti fi potrebbe fingere, e palliare la
verità; ma egli fenza ventimila jwrfone con una guardia di Tedcfchi, fece
morire alquanti Capi di loro' diede in mano a i Miniftri Veneti i banditi dal
loro dominio; fcacciò molti
indifciplinabili ; trafportò ad Ottofaz due terzi de i rimanenti* ed era per mettere fine al tutto.
Non fu uccifo quando molti Ufcocchi
erano in Segna, ma quando erano ridotti al fuddetto poco numero; e le quei non
folfero fiati fomentati da chi non
poteva vederfi privato dell’utile, con molta lode del Sereniffimo Arciduca
fiabiliva quel negozio in modo, che con quiete de’fudditi la buona intelligenza tra’ Principi non farebbe
mai fiata feemata. Ma poiché fono anche
lodati gl’ Ufcocchi di buoni Crifiùni, C
ha da dire la verità. Non fono Luterani ; nè in Segna vi fono altre Chiefe, che della Cattolica religione;
ne fi può dire ch’efii fieno miferedenti
in alcuno di quegli articoli che fono controverfi co’ Protefianti. Però la purità della nofira
Religione non comporta che fi pollano
chiamare buoni Crifiiani quelli che non credono il furto, le rapine, i latrocini elfcre peccati
; nè fi ha da dire che lo credano quelli
che, non per fragilità, non per ignoranza, non per qualche tempo, ma per tutta
la vita loro, e come per profclTionc, c di padre in figliuolo, e con pubblico
cortame di tutta h nazione, perle verano
nel corfo, e latrocinio, non rertandone alcuno elclufo; poiché quelli, che non
vanno in mare, vedove, vecchi, c Religiofi, come s’ è detto, fono alla parte; c
le maritate fono d* incitamento a gli
uomini di provvedere le cafe di quello
d’altri a concorrenza: e, quello cb’c notabile, ciò fi efercita piò ordinariamente al tempo delia Fafqua, e del
Natale, per diroortrare ben chiaro, ch'efìfL tengono i iatrocinj, e le rapine
nel luogo che i Criftiani tengono le
opere di penitenza. Nè fi polTono dir
gPUfcocchi più buoni Crirtiani, che i Zingani, che profertano il furto: fe non che gl’Ufcocchi in tanto fono
peggiori, che paffano alle rapine, c
alle uccifioni, dalle quali i Zingani s’artengono. Ma tornando all’ordine della Storia, da cui
il tertimonio della verità mi ha divertito, il Configlio di Gratz, vedendo che
col negozio di Venezia non fi poteva
ottenere la refiituzìone del commerzio, fe
non fatta prima una provvifione durevole, che IcvalTe per fempre le molertic; la quale, o non potevano fare, per
mancamento de’danari da pagare la
milizia; o non volevano, per le private comoditìi, e forfè anche per mantenere
la prctenfionc di poter corfeggiarc per l’ Adriatico; deliberò di voliarfi alla
Corre Cefarea, e indurre quella Maertk a
congiungerfi allo rtclTo fine. Perciò mandarono a Vienna a far querela degli
aH^cidenti in Ifiria occorfi, e di fopra narrati, come fc i luoghi di fua
Altezza fofiero fiati non folo i primi, ma anche foli afialiti; c foli aveffero
fortenuto danno; eccitando fua Maefib ad afiirterli, così pel rifacimento, come per liberare i
luoghi tuoi patrimoniali, e gli
appartenenti alla Corona d’Ungheria, tenuti rirtretti, c privati del commerzio con indigniti di fua Altezza, e di
fua Macllk, che n’è fupremo Signore. Ma
dall’ altra parte efiènJo fiata fua Maefiì i-iforv mata dell’intiero; ed eflcndolc fiato
mofirato Toriginc del male cflcrc
provenuta dalla pertinacia del prefidio fuo di Segna, ofiinato a volerli arricchire colle facoliò de’ Mercanti, e
popoli; c dalle terre così dcIP
Ungheria, come patrimoniali d’Aufiria, c da' Governatori di effe,
che fono fiati a parte della colpa; e
che la Repubblica, non avendo altre modo
d’ovviare a i danni de’fudditi fuoi, operava a necciraria difefa; che la cufiodia tenuta in quelle acque non
era per pregiudicare alla dignitìi di
lua Macftò, ne di fua Altezza, ma per proteggere le cofe proprie; c quanto alle cofe ultimamente
feguite in Ifiria, che gl’ UIcocchi, non potendo ulcirc per mare a far danni,
erano prima pafiati in quella Provincia, e avevano abbruciati, faccheggiati, e
dclolati molti Calali; onde i foldati
Veneti^, dopo i danni ricevuti, erano fiad
cofirctti,pcr kidcnniù dc’popoli, a rifarcirli con rapprelaglie; Sua MaefPa
refiò con loddisfazione, e fn molto bene conolciuto a quella Corte che non era
poflìbile far cefiare il moto, fe non fermando la prima caufa d’eflb: e fu
rifoluio in quel Configlio, che fi trovafiè rimedio per via di trattazione; c
che Cefare pigltafie in sè i’aiTunto di
fare le convenienti provvifioni; c che non fi doveva incominciar a parlare
della reiUtuzione delcommerzio, ma folo fare che fi cefiaflc dalle ofiilitk da ambe le parti, defifiendo da
nuovi danni. Deliberò Tlmperadore di mandar a Segna il Traumefiorf, perfonaggio
di valore e riputazione, con danari, per rimediare fui fatto. Quefta
deliberazione^ che farebl^ (tata un*
ottimo principio, non fi mife in effetto^ perchè, eOendo ciò fìgnificato all* Arciduca, per
farlo dì fuo confenfo, non vi alTenti ;
ma fi offerì elfo di provvedere di perfona di comando, pra« tica dei paefe, e del governo degli Ufcocchi,
che farebbe ogni necefiaria provvifione.* il che fu appunto il contrario di
quello che il buon cfito del negozio
ricercava, cioè, che gli Ulcocchi foffero per Tavvenire governati, non lecondo
le pratiche, e i modi fino alfora ulati.ma ben fece chiaro in poded^ di chi
foffe il rimedio; poiché immediate dopo la rifpol^a dì lua Altezza, la
rifoluzione dì quelb quantunque
pubblicata, e lodata, non ebbe luogo; anzi fi raffreddò anche l'ardore col
quale il Configlio Celareo prele penOero di rcmedia^ re; e non fu più parlato che flmperadore
affumeffe a sè il carico, ma che
l’Arciduca deffe principio all’ora per mezzo di perfona mandau efpreiramente; e
l’ultima mano s’avrebbe applicau, quando fu»
Altezza foffe andata alla Corte.
Fu in un’iffcffo tempo pubblicato neU'armata Veneta, per comandamento
del Prìncipe, che, reffando i Vafcelli alle loro guardie, fenza punto
rallentarle, s’affeneffero da metter in terra, e fare danno ia luogo alcuno.* e
nelle terre Auffriache per nome dcU’Arciduca fu comandato che da'fuoi non folle inferito alcun danno
a’fudditi della Repubblica. Deputò anche
Tua Altezza due Commidarj, come per lo più nelle occorrenze paflate s’ era
fatto. Non affermerò gii, a quello fine; ma dirò bene, cho dal numero di effi ne feguiva che Tefecuzione,
per la varietà delle opinioni, era divertirà, o almeno allungata tanto, che
idannificatì, Ranchi, deffiReffero dalle iRanze. Si fpedirono anche i
Commiffarj lentamente pure, fecondo l'ufo ordinario, dal quale era fempre
leguica una pretenfione di tralafciare
il mal paffato, come troppo vecchio, e
che mcrìtalfe effere poAo-in obblivìone. Ma ne* tre mefi che feorfero, pubblicata la
fofpenfione delle offefe,’ fino al line
dell' anno, eziandio dappoiché i Commiflarj di fua Altezza giunfero in paefe,
non ceffarono grUfcocchi, per quanto poterono, fcanfate le guardie, d’ ufeire
di Segna in picciol numero a far danni,
riportata fempre la preda nella Citiù; poi paffarono con più groffe incurfioni fopra l’ilola di Pago^
; e dappoiché fu provveduto col ritirar ne i luoghi fìcuri le robe, e gli
animali, ritor narono all’ Ifola d' Arbe, Veglia, molcllando, e rubbando in
più volte in divcrfi luoghi quantità d'
animali, e di vini. Nel Mare ancora preffo a Zara vecchia facheggiarono una
Marciliana; e nel Canale della Morlaca
fpogliarono un Grippo, e una Fregata con
robe, e danari, levando loro anche gli finimenti nautici. £cofa degna di
fpezial relazione, che, ritornando col bottino dt una barca Chiozzou, e feguitati da una Galea,
effendofi falvati nel porto della Cittù,
non furono ricevuti dentro per la porta del
mare, per dove era il folito entrare; ma., lafciate le barche in porto, c circuita la Cittù, entrarono per la
porta oppoRa di terra, e poi partita la
Galea, con comodo ricevettero b preda bfeiata nelle barche, e b porurono nelb
Citti, In tante rubberle ebbero fortuna di non incontrar, (alvo che due volte,
nelle guardie, che li conRrinfero a lafciare la preda e le barche, e falvarlì né’bofchi: e forfè maggiori
incontri avrebono avuti, fe, caiifa
della infermitìi, e morte del General Canale, non foffe Hata rallentata r
riatta diligenza da lui ufata. I
Commilfarj Arciducali, giunti, fi fermarono in Fiume lungamente^ dove attelero a far procefli, per verificare
la quantità de’danni da'fudditi Aullriaci patiti in Kiria i quali, fecondo il
loro conto, facevano afcendere a loo.
mila feudi. Non farebbe alcuno che non fi molirafle creditore di molto, quando non mettefle in
bilancio i debiti fuoi. Se i danni di
quelli pochi anni inferiti dagli Ufcocchi, e non rifarciti, foffero
contrappolli, fi troverebbono afcendere al decuplo di quella fommat ma i
Comminàrj aggrandirono i danni ricevuti, e degli inferiti ne lafciarono la cura ad altri. Quello fatto,
chiamarono a sì il Ca^ tono di Segna, i
Vaivodi degli Ufcocchi, e altri principali di quella Città; intimarono loro comandamenti di fua
Maellà, e di fua Altezza, che non doveflèro ufeire a' danni della Repubblica,
fono pena della vita, con grandi, e feveri minacciamenti : levarono il Capitano
dal carico, per aver avuta parte nelle
turbazioni; quelle parole appunto
tifarono. ferivendo a Venezia al Capitano di Fiume, e dandogli conto
dell'operato, conchiudenda che i capi degf Ufcocchi, e i primi Cittadini avevano promelTo religiofamente di
ollervare quei comandamenti; e ch'elTi Gommiflàrj avrebbono ufau ogni cura, che
folTero ubbiditi ; aggiungendo che lellava fola il galtìgare feveramente i malfattori per li delitti pallàti; ma lo
differivano a quando folfero compolle le differenze colla Repubblica,- che cosi
fua Altezza aveva loro comandato; e parimente farebbe flato all’ora punita il
Capitano; che avevano mandato a richiedere danari per pagar il preudio; e le
cofe eflere tanto ben ordinate, che fenza dubbio gli Ufcocchi non farebbono pih
danni. Perì la dilazione ad efeguire quelle deliberazioni fu cosi lunga, che
mai fe ne vide effetto e poIcia fu rifaputo che il Capitano fu levato non fenza
fuo confenfo, e pollo ad altro
carico. II Capitano di Fiume, fatta
quella relazione in Venezia, e ottehuto
che Ibfle dato in commiflìone a Filippo Pafqualigo, che doveva
andar Generale in Dalmazia, che, quando
avelfe veduto chiaramente provvifioni che ballalfero per renderla ficuro di non
poter ricevere danno, potelfe rallentare
le flrettezze delcommerzio, o auolutamente, o quanto gli parefle potere con
ficurezza; e vedendo ch'era irimeflb a Vienna il dar perfezione al negozio, fi
parti ; e giunto in Fiume, riferì a i
Commiliarj eflcrgli flato detto in Venezia nel licenziarli, che la mente delia
Repubblica era, e farebbe fempre, d' eflér
buona vicina di fua Altezza, mentre folfe rimediato a gl' inconvenienti
degli Ufcocchi ; cafo che no, avrebbe anche fuperata quells difficoltà, come aveva (atto d'altre
maggiori. Ma il Pafqualigo, giunto al
fuo carico, pratico del modo, come doveva procedete in ul’aSue, volendo ular
tutti i termini convenienti, in una lettera, ferita a i Commiflàr] a Fiume,
fece intera narrazione di tatti i danai
inferiti cantra la parola daa alla Corte
Cefitrea, e in Venezia; e fece efficace ìllanza di provvifione per mantenimento
dell» ripuazione loro. Rifpolero cortefemente i Commiflàr;, aver intele con difpiacarc le male operazioni
degl’ Ufcocchi, non fapu te da ft»4 '
te ^ Jbrp finp > quel tempo ; p che
fr» quattro giorni farébbono mdati ;> Segna, pee gaftigue i colpevoli, e
(arrendere le cole depredate; inaOlme ie andalTerip neU’illeflp luogo
grinterelTati per dar piiV chiara, e minuta informazione. Ma lenza andar a
Segna, il Baron Aufpergct; principal GomraeKario, ritornb alla Corte, dato
compimento a quello, perchè era venuto,
cioè, di prender informazione de' danni inicciti, e in luogo fuo fi) mandato
Daniello Gallo, il quale colf altro
Commeilàtio Ghetlin andarono a Segna accompagnati da t50. (bldati; d’onde alla fama della loro andau erano gdi
partiti Viccnzo Cragliaoovich, e Giorgio Danifich con circa altri 40. Fecero i
Commel^j pubblicar un bando, che i
Fugliefì, Dalmatini, e altri foreSierì, che
avevano prelb domicilio in. Segna, dovefero partire in termine di
otto giorni colle mogli, c famiglie; e
crearono Capitano della Terra Niccoli Frangipane, Conte di Terlàtz, chiamato
dagli Vfeocchi Micleo; Terfatzi,
Orppierc diijba Altezza. La mutazione
de’Capitani per li tempi addietro non causi fe non peggiori efietii; non avendo portato i nuovi
minare difpofizione, che I rimuiS, a
pariicipare de’ latrocini di quella gente ; ma bensì. fempre entrati in governo meno (limati
dc’preceflbri, e pii avidi di arricchire,'
con tutto cii di quella vi fu quiebe buona Ipetanza, clTendo giovane ben nato, c Signore di Novi, Caftello poco da
Segna difcofto, che come inierclTato
nella giurifdiziooe, faceva credere che dovefle regoUte il tutto bene; maflìme
intendendofi che aveva penfìcri di far bene
il fatto iuo con alcuni bofehi; quantunque refler naturale del
paefe, e la maniera iua molto limile a
quella degl’ altri Ulcucchi, rendelTe il
giudizio iorpelo, £ egli )cr la prima fua azione, congregati tutti nella'
Piazza, lue un pubblico ragionamento, preferivendo i modi del governo che
voleva ulare; particolarmente afi'ermando di non dover permettere .l’andar a
bottinare, nè far colà diverfa dall’ obbligo di buoni, Crilliani; giurando di voler ehim ubbidienza,
quando ben credefle d’ aver perciò a
perdere la tclla; promettendo che all’avvenire farebbono pagati ; olfereudufi,
che, le non trevalTc danari da follentarli, fi lamemallero folo di |ui. In
efecuzione del bando de’CommiUàrj mandò
fiuiri di Segna too. Ufeocchi Venturieri colle mogli, e co’ figliuoli,
i quali fi riduficro nelle marine di Selze,
e Cerquinizza, tra Buccari,e Nuovi; che
fu un cavar Colonie di ladroni dalla Metropoli de’ predatori, e di ua nido fame
molti, c dar maggior comodo al mal operare.
Poi egli infieme col Gallo, partito gih il Cheslin, congregati
tutti gl’Uloocchi ftipendiati nella
Piazza a luono di tamburo, fecero in loro
pretensi pubblicare un lungo editto, o più tofto una diceria, con molli
capitali, che in lolianza proibivano le prede contra i Crifiiani, e comra i 'Turchi, Efclamarono all’ora
tumultuariamente, dolendoli come avrebbonn potuto colla poca paga, che loro era
data, vivere; eh’ «ano coàilaiti colla
facoltà di poterli procacciare ; t che quella fofle loco mantenuta, ovvero la
paga accrefeiuta ad onefta qnantiih, Acquicuto alquanto il tumulto; rifpofe il
Capitano, ehe la paga farebbe badante, c d’avvamaggio, quando s’aSenelIm dal.
giuoco, e dall’imbriapirfi: che Totcndo l&e in Segna, conveniva che fi
contentafleio; e chi pon fentiva di
poterlo fare, £ n’andaOè, che la porta era aperta. Il tumulto fi fece maggiore,
dicendo eh’ erano creditori di molte pagbe, che i^he volte corrono; e anche
quelle poche fono defraudate, e diminuite; raccordarono che anche nel idod. fu
fatto £mil editto, che non fi andalTe
alla preda, con proroeflà, e giuramento di dar loro le paghe intere', nè però
t'era mai elèguito. Bifognò, per la gran conhjfione, dar 6ne a queU’azione,
acciò non terminaffe in qualche finidro; e quella difciolta, i tumulmanti
furono facilmente acquetaci da iCapi,
principalmente da Giorgio Danilìch più
volte di fopra nominato, il qual inCeme co’ compagni effendo ritornato
in S^na, ottenuto generai, perdono di tutti i falli commeflì, a' adoperò più degl’ altri nel dar loro buona
fperanza. Compolle le cofe in quelli termini, parfi anche il Commillàrio Gallo,
lafciata fama che altri Commilur) farebbono venuti per raa^iori
provvilioni; nè della rellituzione, nè
del galligo de i colpevoli ptomeflo in lettere al Pafqualigo fu detta altra
colà. Quello fu il fucceffo della cosi
lungamente preparata, e canto bramerà venuta de' Commifl'arj in Segna ; elTendoli tutta l’ opera loro
rilblia in proibizioni, e minacce di gaftigo, e cSétti £ perdono ; non avendo
efeguito una minima pena centra alcuno (
che pur molti furono, e manifelli )
de’.Concrafacicorì a i loro tanto Teveri bandi; ma folo, col tenere le
porte della Ciiib ferrate tre giorni, tentata d’ aver prigione Andrea Ferletich, famofo Capo, e molto
fceleraco, in maniera, che rellò quali
chiaro che aveffe avuto lo fcampo da chi ordinò la cattura. Quelle cole
lafciarono nell' animo delle perfone prudenti dubbio di vedere ridotto nell’
avvenire il negozio in peggion termini, come per li tempi pollàci fecero le
altre azioni «’Commillàrj, offendo il collume de’ malfattori, che innanzi le
proibizioni, e prima de' tentativi
inefficaci di galligarìi, per timor di quelli, non làpendo i modi, come
efentarfi traila giullizia, camminano cautamente, e riienutamente nel mal fare;
ma dopo avere fpecimentato_che la giullizia
non può, o non vuole raffrenarli da dovere, rimoffo ogni rifpetto,
e certi dell’ impuniti, ardifeono quello
a cui prima non avrebbono penfato; è tanto più confidentemente, quanto più
volte la giullizia tenta fimulaiamente
di proibirli, o galligarìi. In quello
fiato di cofe nel principio dell’anno idi;, arrivò il Sereniffimo Arciduca
Ferdinando in Vienna alla Corte, accompagnato
dal Capitano di Fiume, daU’Echemberg, e da altri luoi C^nli^eri, rifoluti ttb loro di non raffare più innanzi,
che quanto fin all’ora era fiato fatto
da i Commiuàri in Segna, per dovere poi lafciargli avere quel corfo che altre
volte ebbe, quando fu ridotto nel termine
fteffo; a quello effetto vennero con due propofizioni non più-
ptemeffe nelle trattazioni di
quell’affare; l’una, CM i danni fatti dalle milizie Venete in Ifiria alle tene Arciducali foffeto
pagati, e che degl’inferiti a i territor) della Repubblica non fi pariafiè; I’
altra, che a’fudditi loro folle concellà libera la navigazione. Quella feconda
era ballante, per portare la tratazione, non folo in lunghezza, ma anche in diuturnità; poiché era pretenfione
ritrovata dall’Impcradore Ferdinando, e a fua richiella trattau, e fatta
conolcere poco fondata | e poi rinnovata
dall’ Arciduca Carlo, e maneggiata alla Corte di Maffimigliano, e di Rodolfo collo fieffo
fucceflò, Quanto alla priTanw i. Ff ma,
ax(5 .ognuno avrebbe per inverifimile che foffe (tata fatta propofla
-di hf^imemo per ima parte, elTcndovi
parùK di ragioni da amcndue; però non è
da tacere qual foiìe la differenza che pretendevano. Dicevano i danni dati a
ludditi della Repubblica effere venuti da private pcribne contri la pubblica
volontà; ma gl’ inferiti da loro agl’Ar.
cidiicali, eflcrc con confcnlo de’ pubblici Miniffri; però qucfti
dover effère rifarci dal Pubblico immediate
; c (opra quelli dovcrfi prima intendere le ragioni dcgl’interelTaii, Ma nel Confìglio Imperiale, mafflme negli aTunti
a quel carico da fua Maeffk, non era
riffeflo pcnOero; anzi una gran dilpofìzione dia(lopcrarG per compito
affetramento; perchè, conbderando quante querelè erano (bee portate a fua
Macff^, dappoiché a lua contemplazione
fu pubblicato da ambe le pani che fi fofpendeffero le offde, e gli Ufcocchi
mai non ceffarono dalle rapine, e da i latrocinj, facendofi fentire
moleffiffimi, e infolentiinmi ogni giorno; e raccordandofi quante ne udirono gflroperadori, Padre, e Fratello
fuoì, giudicavano effere bene libcrarla in tutto delle moleffie con un compito
affettamento. In quello principio
s'applicò fua Macffk, e il £uo Confìglicx per alcurii giorni ad intendere le
ragioni di Sua Altezza, querelandufi i Tuoi
Configlicri degl’ Ufcocchi ritenuti nella villa d’Arctina, che,
pretendendo offela dagli Ufcocchi, aveffero penfato i Veneziani di
rilarcirfì Ibpra altri fudditi fiioi
particolari, e aveffero invafi gli Stati proprj
d’efla, non appancnemi alla luogotenenza fuprema di Crovati, alla qual ^gna appartiene; che per danni fatti da
private peribne folTero tenute
afi'ediatc le terre. I^olcvanfi anche molto, che, avendo mandato a Venezia il
Capitano di Fiume, non aveffe ricevuta foJdiffazione alcuna, con tutto che fua
Altezza molte ne aveffe date ^ e tenendo
perciò J' onore d’efla intereflàto, conchiudevano non poter fare di più, fe la
riputazione fua non folTe reintegrata, e perciò richiedevano prima quattro
cofe: che foffero riialciati i prigioni t che foflc liberato il comracrzio alle
terre; che a’ luoi ludditi fbffc
lafciaia libera la navigazione : che foffero rifarciti de’ danni ; le quali cole elcquire; Sua Altezza avrebbe
compito quello che rimaneva per rimedio totale. Veramente è degna di maraviglia
Y aflbluta promeffa di total rimedio,
lenza parlar più, che foffe bifogno della regia autorità dell’ Imperadore; nè
che alcuna parte del rimedio Ibfle
rifervata alla Maeft^ fua, come Principe lupremo di Segna; il che tutto l’anno innanzi era flato jl colore, col
quale il Capitano di Fiume dtpinfc le provvifioni fatte da’Commcffarj tutto
quello che fua Altezza poteffe fare,
effendo rilervato il foprappiù alla Maelb Cclarea, Dopo lunghe confultazioni, fua Maeffù fece
intendere aU’AmbafctadorVeneto la buona volonb iua, che tutte le dilBcolb
foffero accomodate, e la prontezza d'imerporG come mediatore, e amichevole compoGtore,
e metter Gne a tutte le differenze: che le erano flati elpoffi tutti gli aggravj, e le richiede di fua
Altezza; però defiderava d'intendere anche la volontà della Repubblica. L’
Ambalciadore non voile fare alcuna
particolare querela di cofe paflaic, forfè perche, avendole per manifede, la giudicalTe fuperdua; ma G
riffrinfe alle richiede. Della navigazione diffe, che quello cran^ozio altre
volte trattato, del quale la Repubblica non avrebbe rkufato di trattare di
nuovo; ma non avendo alcuna 5 connefTione
cogli Ufcocchi, non era giuHo confondere infìeme materie diverfc ; del
rifacimento rifpofe che conveniva fofle reciproco; fi conofce0e chi aveva participato nei danni, e a
refHtuire incominciaffe chi prima aveva inferito danno. Dimandò egli in
fofianza che di Segna folTero fcacciati
affatto tutti i ladri, e la mala gente, che inquietavano i vicini; e gli
fcacciati non foffero più ricevuti, nè foffe dato ricapito a' banditi dalla
Repubblica, e a* ribaldi; che in Segna folTe pollo prefidio d'altra nazione, e
pagato ordinariamente; che fofle provveduta per Governatore di perfona d’onore,
e difintereflàta; che foffero abbruciate tutte le barche dacorfo, e airavvcnire
nè in Segna nè altrove in quei contorni ne foflero fabbricate, poiché non
poflbno averne bifogno perdifefa, non
avendo moleflia alcuna in mare; e non fono più utù li, anzi molto meno delle comuni, per portar
vettovaglie, e mercanzie. Dopo diverfe
conferenze colf una, e coll’altra parte, lafciati i particolari che non era
opportuno di trattare, parve alla Maelfù Cefarea che le difficoltà poieflero eflere compofie nella
forma in cut di fotta fi dirh; e mandò
il Vicecancelliere a darne conto all’ Ambafeiadore con dirgli, che r Arciduca aveva accecuci quafi tutti i
Capitoli da lui propofli, « aveva data
parola a fua Maeflh Cefarea, che la Repubblica non avrebbe più dtflurbo
immaginabile, e che Tlmperadore era rifolutiflimo che ciò reflafle efeguÀo; il quale dava parola
che rutto paflarebbe con quiete.* che
mai non il era parlato cosi chiaramente; e che poteva ilare ficuro che il negozio farebbe ben
accomodato; foggiungendo che anche dal
canto della Repubblica conveniva corrifpondere con rimovere TafTedio, e con rendere i prigioni. Gli efib^
il Vicecancelliere una fcrittura, che conteneva le promefle di fua M. e di fua
Altezza flela in lingua Italiana, la
forma della quale è qui polla in copia.
L'IlUflr. Sig. Vicecancelliere ha detto, per ordine di fua Maeflh Cefarea, che il Sereniflìmo Arciduca
Ferdinando si ha dichiarato fopra i
punti che cflb Illuflrils. Sig. Vicecancelliere fcrifle nel Configlio di Stato; che fua Altezza promette a fua Maeflà,
che il mare reflerh netto, e libero da’
Pirati di Segna, e altri luoghi fotto il fuo coinando; e che non nfeiranno di
Segna, nè di quei contorni perfone per danneggiare la navigazione, ne i vicini
fotto pena dellaviu. I ribaldi faranno aflblutamente fcacciati di Segna. II
Governatore gib è mutato, cd è perfona
di valore, e difintereflata .* che avendo fua Altezza dato principio a
rimettere in Segna prefidio Tedefeo aflbldato, ovvero pagato, continuerb anche
ad ampliarlo; e che non lo fa ora puntualmente, perchè non vuole moflrare di efleme affretta. Ma fua
Maefli Cefarea procurerb aflblutamente che ciò fegua, e che tutte le
fopraddette cofe fieno interamente efeguite, quando la Serenifllma Repubblica
rilafcierb i prigioni, e leverb 1'
aflraio da lei meffo, dovendo reflare la navigazione de’ commerci nel
folito termine, e mantenuta la buona
vicinanza. Quanto alla libera navigazione
del mare, fua Altezza non meno, che TAmbafeiadore l'ha rimefle ad
altra trattazione. La ccnchiufione prefa in Vienna fu fenza
alcuna difficoltb ricevuta in Venezia, e
attendendo Toitìma volomh di fua Maeflh Cefarea, e la buona rifbluzione alia provvifione, per
corrifponder a lei, e al Sereniflimo Arciduca, e dimoflrare la (lima verfo
laCafad’Auflria, fu ordinato al
Fafqualigo di ritirare le guardie da Segna, e da Fiume, e altri luoghi, Tèmo II. Ff a c la e lafcìar il conmerzio
libero a’fuddici Aufbiaci, come era. innanzi gli accidenti occorfi; e di far coniegnare a chi
Tua Maeilh comanderebbe i prigioni: fu
anche commeflb airAinbafciadore, di darne conto del autto alla Maeflk Imperiale. Arrivò l’ordine
al Pafqualigo il fecondo di Marzo, e
quell’ iiìelTo giorno fu ei'eguito con molta allegrezza defuddiri Arciducali, e
rilcontrò, per buon accidente > che il medefimo fu fatta Tambafciara alia
MaeA^ Cefarea; alla quale rìufc^ tanto
più grata, qtiando alla Corte non fi fpctava che doveflero le condizioni
cilere accettate per iutheienci in Venezia, elTcndo in altre occafioni pm volte Hate oflerte, nè mai vi era (lato
acconfemito. Della grati’ rudine ne fece
fua MacfUi dimodrazione non folamente con lodare la deliberazione, e i’elècuzionc immediate data,
ma con alTicurare fopra la parola
Celarea che da quella parte non si avrebbe avuto per l'avvenire difgiido
immaginabile. Fece del tutto dare avvifo a fua Altezza, ch’era già partita di
Vienna, con una buona eforcazione all’ ofkrvanza delie cole promelTe. Comandò
anche la Maefl^ fua al Conte di Sdrin,
(otto pena di perdere il feudo, che ne’luoghi fuoì del Vina« dol non folle dato ricetto a’Piratì, o ladroni,
e all' Ambaiciàdore fece dire che
intorno a’ prigioni s’era fcritto a Gratz, e che sì avrebbe prefo ordine come riceverli, quando fofle
venuta la rilpoda In confeguenza di ciò il Segretario Cefareo in Venezia per
ordine efprelìb dell' Arciduca diede
conto delle provvifìoni gih fatte ^ e degl’
ordini dati in Segna, per rimediare a’ mali palTaii; e della rifoluzione
fua deliberata a dare perfezione al rimanente per. intera oifervazione delie
cole promelTe in Vienna; e dell' ottima volontk fua a perfervcrarc in buona
vicinanza; c del piacere, che fentiva, per clTcrc le palTatc differenze accomodate. Non farebbe facile diilinguere, fe i popoli
di Dalmazia, gl’lfolani malTime di
quella regione, o pure t fudditi Auflrìacì confinanti fentiffero maggior
piacere di un’accomodamento così facilmente fucceifo dopo le molte diflìculTa, dalle quali furono
ambe le parti per tanti anni travagliate, k non che dagli Aullriaci il frutto
era goduto in realt^, i quali con l’apertura del commerzio recarono liberati
delle ìncomoditk che lentivano ma i fudditi Veneti non godevano fc non la loia fperanza di quiete, la quale nè men
ardivano di ben abbracciare, e tenere per ferm a, afpertando di vedere prima
qualche principio di efecuzione che la
confcrmalTe, o colTabbruciamento delle barche da corfo; o collo (cacciare gli Ulcocchi
Venturieri non folo fuori di Selozione di non voler abbandonare il corfo. In
poco tempo ancora vide pian piano ritornare i fuggitivi a Segna, ed elTere
ricevuti in modo, che in termine di un mele furono ritornati tutti.- del che non intendendo la
vera caufa, ni penetrando, fe fofle con ordine di fua Altezza per adunarli, e
fervirfì di loro in altro luogo, rimafe
in molta ambiguità dove il negozio dovefle terminare t ma predo redò chiaro a
tutti che l' accomodamento -fatto non
poteva fortir fine migliore degli altri in altri tempi conchiufi. Imperocché,
avendo gli Ulcocchi la fettimana Tanta fatta deliberazione di far un ufcita generale, e avendo, Iccondo
il lolita, contribuito anche i vecchi, le vedove, e i religiofi, a metter
infieme una munizione di polvere, e viveri, e danari per comperarne, quando
quella mancafle- ufeirono il di de'
fette Aprile, giorno della Santidìma Refurrezione di nodro Signore, in numero
di quattrocento in dieci barche; e
avendo navigata per ito. miglia, fmontarono a Crepano, giurifdizione di
Sebenico, e per quel territorio padarono nel paefe deTurchi, facendo preda di
uomini, animali, e robe;c ritornati pel medefimo ter. ritorio, nelle marine di quello imbarcarono
la preda, e la ridulfero in Segna;
avendo lafciata fparfa voce, ch’erano accordati co’Veneziani di poter andar a' danni de’Turchi pel
territorio Veneto, mentre non
oifendedero le perfone, e i luoghi per li quali palfadcro, e ne’
giorni feguenti, palTando piu innanzi,
all’ improvvifo fecero molti danni in
Macarfea, e Narenta ; e internatili piò oltre per le terre de'Ragufei,
depredarono la Villa di Trebigne, la migliore, e piò ricca che fia ne’ contorni di Gadel Nuovo, con grodo
bottino d’ animali, e prigionia di
uomini ; e nelle molto andate, e ritorni, fi ricoveravano ora in una, ora in un
altra delle Ifole Venete dove intendevano non effervi armata; cosi per
ripofare, come per provvedere i viveri;
i quali ora pigliavano con violenza, ora pagavano. Durò per alquanti giorni quella imprefa, che tiufcf
loro felicemente; perchè la fama
All’accordo llabìlìto, e la credenza certa di non avere piò moledie dagli Ufcocchi, fecero redar i Turchi
lènza guardarli, c quei dell’ Ifole
Venete fenza la diligenza eh’ erano foliti ufare ne’ tempi de' pericoli. Ma i Turchi, podit in arme, e
fatta calare moltitudine grande in ajuto, minacciavano di vendicarfi centra le
terre del Dominio Veneto confinanti ; e
mandarono a protedare a’ Rettori delle
terre della Repubblica; e il Bafslt di Bodina, nuovamente venuto a quel
governo, ne fece rifentimento gagliardo col Generale, ufando quedo concetto
alla Turchefea, che la complicità non fi poteva
negare, valendofi gli Ufcocchi della cafa della Repubblica, come
della propria ; minacciando di avvifar
la Porca in Codantinopoli ; e che farebbe mandata armata; per guardare quelle
marine. Nel principio di quelli mfulci
il Generale, non con fperanza di
provvifione, ma affine che i Minidri Audriaci non poteUcro negare di
averla faputo, mandò a Segna a dolerfi che centra la parola daa, non elfendo ancora afeiutto finchiodro
del decreto Cefareo, e delle promilfioDi
Arciducali, fi contravveailT* cosi manifedamente alle promede tanto confermate,
violando le giurifdizioni col tranCto di
gente tnnau; provocando con quede azioni, e con falfe didènunazioni, la
flndctta de’Turchi fopra i fudditi innocenti. A quedi lamenti Gioan Deleo, Vicecapitano di Segna,
rifpofe, fentire Tal»» . Gg gran 154 STORIA graiì difpiacerc di cos'i finlftri
avvcnìmemi, c che il vale era provenuto da perfone bandite da quella Cittk,
alle quali egli non poteva comandare. Si fdegnò grandemente il Generale della
rifpoda, come che foffe riputato tanto femplice, che fi potefTe fargli
credere, quattrocento banditi eflèr
entrati in una Cittlt; e valendoli delle barche proprie di quella, elTcr ufeiti
dal porto, e ritornati colla preda più
volte ; clTere i^aii Tempre ricevuti, e il tutto contra il volere di chi governa* Più fi riputava offelo per le
vettovaglie pagate nelVlfolc, che per le rubbate, tenendo che foife cos"!
latto, per metterlo alle mani co'Turchi* £ lebbcne in quella occorrenza era
più urgente bifogno jl guardarfi di non
ricevere danno da'Turchi, che r ovviare
all’infolenze degli Ufcocchi, deliberò nondimeno di attendere all’uno, e
alfaltroy e a quciìo effetto ordinò che dodici barche Albancfi fotto il
Governatore Giovanni Dobracuich bene rinforzate di uomini trafeorreflero per
tutto, con ordine erpreflb di non offendere i luoghi, nè meno i fudditi
Aaffriaci che foffero ritrovati in
barche da viaggio, o difarmate* irà folo ovviare alle rubberie
degli Ufcocchi, e perfcguitarli,
ritrovandoli ne’ mari, o altri diff retti della Repubblica. Ma gli Ufcocchi,
che avevano fatti grpffiffimi bottini, tnaffime di fchiavi, fra i quali vi
erano anche perfone ricche, e di conto,
per cavare il frutto, levarono bandiera di rifeatto in Sabioncello, territorio
de‘Ragufet,> dove andando i Turchi per contrattare con loro, effi ancora fpeffe volte
tranfitavano trh Segna, e Sabioncello per le occorrenze che quella negoziazione
portava, Avvenne che la lèra del giorno
degli otto Maggio ritrovandofi con
dodici barche armate da corfo, incontrarono a S, Giorgio, a capo di Tielina,'ialtrettante barche di Albanefi,
e combatterono ferocemente inficme, attaccata una fanguinofa fazione, die durò
Cnp alla notte, la quale li divife; e in
quel combattimento reffarono prete due
barche dt Ufcocchi con morte di feflanta perfone; e trh queffi Niccolò
Craglianovich, capo principale di loro, t dal canto degli Albanefi reffarono
uccifi otto loldati ‘con dicianovc feriti, tra* quali il figliuolo del
Governatore le altre dicci barche prefero la fuga, falvandofi a Segna. Queffo
conflitto fu dagli Ufcocchi, e dagl' Albanefi divetfamenic riferito. Quelli
differo di efferc fiati aflìcuraiì dagli
Albanefi di poter entrar in porto; e dopo entrata due barche, queU le efferc fiate affalitc, che le altre non
potevano focorrerJe, e però fi
ritirarono * Quelli affermarono di aver combattuto con tutte le dodici barche da buoni loldati, e di averne a
buona guerra prefe due, adduccndo, per
confermazione, che fc dodici barche di loro con cinquecento uomini eh’ erano,
aveffero affali to a tradimento due fole, non
larebbe refiaro morto, c ferito tanto numero di loro, Ma comunque quello fi foffe, certo è bene che il conflitto
non fucceffe in porto, ma nel mare
aperto tr^ ITlola diLiefcna, eia terra ferma* Gli Ufcocchi fuggiti per la
vergogna, e per li compagni perduti, refiarono
pieni di rabbia, e di appetito di vendicarli; e più di tutti
Vincenzo, fi-atello di Niccolò
Craglianovich, uccifo nella fazione. La
mala ventura s'accoi^ò colla rabbiofa maligniti loro a far fuccedcrc un altro
accidente di peffima confeguenza. In quel tempo fitffo parfi d’Ififia, per
andar all’ubbidienza del Generale, la Galea di Cristoforo Veniero, ilquile, non
avendo alcuna notizia del fucceflb occorfo a
San Giorgio, lenza alcun Ibrpetto facendo il fuo viaggio, cri giorni
dopo quel conflitto, capitò la fera
nelportodi Mandre dell’Ifola di Pago. Gli Ufcocchi, avutone l’avvifo da una fpia,in gran numero
fmontarono in terra, e fipofero
occultamente fopra il monte che circonda il porto, in aguato,- e la
mattina fet barche d' elli, entrate in
quello, aflaltarono la Galea, e quelli eh' erano in terra, in molto numero con archibufate, e
fafli uccidendo, e ferendo dalla parte
fuperiore, levarono il modo di pocerfi metter in difefa, fene impadronirono; e
preti ifoldati, e grUlBziali della Galea, ad unò ad uno, facendoli palfar alla
fcaletta, gli accopparono crudelmente, e gettarono i corpi in mare. Fucofadi gran compaflione, chea fangue
freddo folTero cosi barbaramente uccife quaranta perfone innocenti ; fecero
vogare la Galea pel Canale verfo Segna, e nel viaggio cagliarono la teda colle
mannaje a Lugrezio Gravile, Cavaliere,
gentiluomo di Capo d’Idria, e al fratello, e nipote, ch’erano fo. pra la Galea per paflTaggio ; e fpogliarono
delle perle, monili, anelli, e vedi Paola Stralbldo, moglie del Cavaliere,
colle fue donne, ch’erano in compagnia del marito. Servarono vivo il Veniero
folamente- Si conduflero lotto la
Morlaca, pocolonunoda Segna, e quivi difcefi in terra, per flgillo della barbarie, fecero fmontare lui ancora, e gli
troncarono il capo colla mannaia, c
fpogliato il corpo. Io gettarono in mare, e apparecchiato il deCnare, poterò il
capo deir infelice Ibpra la menfa, dove dette mentre durò il convito. Quede cofe tutte furono vedute dalle donne, e
da'Galeotti redati fopra il Vaf. cello;
alcuni de quali afiermarono ancora che dimandò con molta pieth la confelUone, e
gli fu negata. Altri diOero che gli mangialfero il cuore; altri che folotingeflero il pane nel fangue, per certa
fuperdizionetrìi lororadicau, che il
gudar inficme del fangue del nemico Ga un'arcano, e una Gretta obbligazione di
non abbandonarG mai, e correre la medefima fortuna. Finito il delinars,
condulTcro la Galea a Segna, dove divifero le robe, e le munizioni di quella; rilafciarono i Galeotti con minaccia,
e obbligazione di non ritornare nello
Stato della Repubblica; e didefero l’artiglierìa fopra lemura della Cittk. Andati gli avvifi di cosi atroci fatti a
Gratz, da’ fautori degli Ufcocchi fu
perl'uafo l'Arciduca che tutto fatto dalarofofle con ragione; e alla
provvifione fatta da’ Minidri della Repubblica fu data Anidra interpretazione,
incitando fua Altezza alla rottum, e guerra; cofa da loro glh molto tempo
defiderata, per una vecchia Iperanza di facilitò conceputa, che fua Altezza
acquidezebbe, e aggrandirebbe, sò, e loro con quel mezzo : il che fu anche
caufa, che fcrilTelua Altezza a tutte le
terre fue diconGne, che delTero fopra le guardie, e A fortìAcadcro, dal qual
comandamento nacque che a Segna con gran
follecitudine portarono terra, e prepararono legname, per munire
laFortezza. Il Capitano di Fiume ancora fece fpianare gli orti, le vigne, e gli
uliri attorno le mura di quella terra, e in tutte le terre a’ conAni eziandio
in iflria A dava qualche fegno di
preparazioni militari, il che diede gran fofpetto a’ Veneziani che iblfe un’
apertura di guerra ; perchè, non parenw loro di vedere che, pel conflitto di S.
Giorgio, caufato e riufeito in qual modo
A iblle, i Miniftri Arciducali avefléro caufa alcuna di dolerA, non putendo, nè dovendo loro importare, fei
violatori della giurìAUzione Veneta, e contumaci del Principe loro proprio, che
centra la volonth, di quella erano
andati in corfo, folfero flati ucciA fuori della fua giurifdizione in qual A Aa modo, tenevano d aver ragione di credere
che quei preparamenti folfero, non
peraflieurarfL, non cflendo preceduta occaGone da generar fofpetto, ma perdilegnodi mettetele cole loro in Acuro, e
aflalure Io Stato della Repubblica.
Toma 11. Gg ^ Ricevettero un gran difgafto, avendo intefo per la
confeDìone d’ un Ufcoeco prefo vivo nel
combattimenioa capo S. Giorgio, e di quattro altri prefi dopo in Arbe, chel’urcita fu con partecipazione del Vicecapitano,
il quale centribui anche la fua parte;
mcfirando chiaro l'evidenza del fatto che non potevano elTere ufciti alla preda in tanto numero fenza Caputa
de'Minillri Aullriaci ; e i’alfalto, eia
crudeltà commeflà contra la Galea, febben poteva eflère fatu fenza
confenfo loro, per rabbia e vendetta
propria di que' ìcelerati, nondimeno non fu fenza precedente caula, dau dalla pubbHca Autorità,
col permettere l’ufcita al predare contra la promelTa del fuo Principe, tanto
recente, e con fuccedente approvazione, dimollrata nell'avere ricettati i
malfattori, Se gli Ufcocchi, per
vendicare la morte de’ compagni, hanno ufata la crudeltà contra i
foldati, e padrone della Galea, quando
bene ciò valeffe per feufa loro, non farebbe buono per ifeufar il governo di
Segna dal conceder loro la facoltà di predare; dal riceverli colla Galea; dal portare le robe, e
munizioni nella Città; dal difiendere le artiglierie Culle muraglie. Quelle
opere non pofTono aver il primo mo. to
dagli Ufcocchi, ma da chi governa Segna; i quali, oltradi ciò, anche nella
prela della Galea, e morte de’foldati, e del ^praccomito, non fi polTono feufare, di non aver parte, almeno in quanto
hanno alficurato, e partecipato con chi
hà commelTe le fceleratezze. Ma Niccolò
Frangipane, Capitano di Segna, ch'era allora alla Corte, per aver danari da
pagare i foldati, pafsò immediate a Novi, fua terra, e raccolti cinquanta buoni
uomini, con quelli accompagnato andò a Segna. Chiamò a fé in Cafiello Cotto la
fede i principali intervenuti alla prefit della Galea c da loro pigliò informazione del (ucceffo, e
ne formò procelTo, il quale mandò alla
Corte di Gratz in diligenza. Vifitò anche l'artiglieria polla Còpra le muraglie,
non facendo dimofirazione alcuna di approvare, o non approvare il fau to. Il Generale Veneto, per bene certificarli
le il Colo Vicecapitano Dcleo trà i
Miniftri Coffe in colpa, udito l’arrivo del Frangipane, mandò in Segna perfona
efpreffa con lettere lue, dimandando la refiituzione della Galea, e delle robe, e CfKcialmente delle artiglierie, anela
la buona intelligenza, e amicizia
tràiFrincipi,eraccordoultimamentcfeguito. Dal Capitano|fii rilpollo pel
medefimo Meffo con lettere, le quali fono ancora in effere, dolcndofi del male
fucceffo con molte parole di cortefia; e quanto alla refiituzione della Galea
rifpondendo che già l’Arciduca fuo Padrone aveva ordinato che la Galea Coffe
tenuta cosi; però egli non poteva far
altra dilix>fizione;maavrebbeavvifaio fua Altezza della riebiefia fattagli,
per efeguire ciò che da quella gli foffefiato comandato. Dopo molti giorni il Capitano, per qual
caufa fi Coffe, mandò al Generale una
caffetta colla tefiadel Venicro inclufa; egli feriffedi mandarla, per
mofirare di non cffergli nemico;
einfiemefoggiunfe che in materia dalla Galea nonaveva avuta riipofia alcuna; ma però mandò uno
de'pczzi dell’ artiglieriadella Galea a
Novi, Fortezza propria lua ; dalle quali azioni fi certificò il
Pafqualigodell’animo
fermoanonrefiituire; e giunto quello indizio alle frequenti ufcite,e
a’paffaggi degli Ufcocchi pel Canale
della Morlaca con maggior numero di barche fornite, di fuochiartifiziati,eaItri
apprefiamenti, e provvifioni non piò da loro ufate, ebbe dubbio che vi poteffe effere qualche
penfiero di fare un’occulu guerra alla
Repubblica Cotto nome degli Ufcocchi.- laonde giudicò neceffario
aflieurarfidi non ricevere qualche
affronto maggiore; congregò le fue forze, per ferrar i palli, je impedirei foccorfi di munizioni, e
vettovaglie a Segna, afienendofi però di
sbarcare,o d'inferire alcun danno alla terra ifolo proibii ad ogni Corta
di Vafcelli,chenon ufeiffero, ni entrafTero;e a'fudditi ogni fona di commerzio
con Segna, ealtre Terre di quel Capitanato. La provvifisnenon fu di quel
efficacia, come altre volte era rìufcia ; percbi, eirendò Fiume Ubero, di IV
andava per terra vettovaglia, febben
v’interveniva pib fpefa. Ma il Generale Veneto non giudicò condecente operaralcuna cofacontra
Fiume, perché dopo raccordato di Vienna
non l'aveva trovato in alcuna complicitV cogÙ Ufcocchi. Arrivò il Generale di
Crovazia a Fiume, e raunò deToldati in quella Terra con difegno di paflàr a Segna, diceva egli, per dare rimedio
a quegl' inconvenienti febbene poi non
relegut, Mr la urettezza del vivere cbe in quella CittV era, la quale non comportava ette accrefcelTe numerodi
gente; mV Tdegnatopel commerzio impedito, che la teneva in Urettezza, fece
correr voce per tutto il paefe che Sua
Altezza aveva deliberato di non accommodarle differenze co'Veneziani, fe non
avendo libera la navigazione del Golfo, per andar a danni de’ Turchi: cofa
della quale gli Ufcocchi furono molto contenti, e pieni di fperanza di dover vivere in felicitU. Da quello moflb
il Ferletich, andò a Fiume, per divilare
fopra il modo d'idiluire un corfo formato per l'Adriatico. Ma dopo diverfe trattazioni fu dal Capitano di Fiume,
o di legreto ordine del Generale, o di proprio moto, pollo prigione. Corfe
Tubilo la moglie del carcerato a Fiume ;
portò in dono al Generale due pezze di panno d’oro, e un padiglione di prezzo ; donò anche a Volfango Frangipane,
fratello del Capitano di Segna, una
littiera di valore; i quali prefenti, uniti allalperanza d’averne de'maggiori,
ebbero forza di conciliar l'animo del Generale in tal maniera, cbe tentava diverfe vie per levarlo di prigione.- al che
non conlentendo il Capitano, oper zelo
di giuflizia, o perchè gli pareffe Urano che il Generale godclTc il frutto dell’ opera Tua, palfarono uh loro gravi
parole, e in 6ne il Capitano condannò il
prigione a morte, e il Generale lofpele la fentenza. Scrilfero ambidue
alla Corte, e venne rifpolla che foOc
giudicato fecondo le leggidi Ungheria onde
nefeguiva,chc non fi poteva far il giudizio in Fiume, non appartenente a
quel Regno; e per non tornar a parlar
piò né del prigione, né del Generale, dirò
folamente che, elfcndo quelli dimorato in Fiume fino alla partenza dalla
Corte Cefarea de'Commilfarj, de’ quali fi dirò a Tuo luogo, fenza far altro di
piò, che udir piò volte la moglie del
prigione, fe ne parti, menandolo leco in Crovazia. Mh nel mcdefimo tempo alla Corte Cclarea,
fecondo chei difordini luccef(èro, furono rapprefentati a Sua Maellh
dall’Ambafciadore Veneto con illanza di
provvifione ; e fi dolle Cefare degl’ inconvenienti occorfi, e maflìme
della morte crudele de’lóldati,
eSopraccomiio della Galea con tanta atrocith epromife di dare fodddUfazione, e
rimediare daddovero. Fece dire per nome fuo
all’Ambafciadore da principale Minillro, che la Repubblica era in
illatodi ragione e cbe Sua Maellh aveva inclinazione a levar quella gente dalle
marine nel tempo delle palfate
differenze ; ma incontrò divede opinioni de’Minillri, che non la lafciaronofpuntare: cheDioaveva
permeflbpolcia queigrandifeandali, per porvi quell’ ultima mano cheli doveva
porre all'ora. Alle illanze dell’
Ambafeiador Veneto s’aggiunfero quelle del Nunzio Pontificio,Mrché il P
gior amplifìcaztonelc querele contri il commerzio interdetto a Segna,
conrap. prefentarlo come una dimunizione
di riputazione, e di ofiefa della dignità Im«
penale, e di tutta la Cafa d’Aullria, acciò l'uà MaelU fi dichiarane
congiunta ne« gl'intereni loro :
ealcunide’ConfìglieriCerarei, da quelle propodc molli, entraTono in alcuni
pareri marziali, per compiacere ai defìderio degli Arciducali. altri di loro ebbero per inverifimile che il
Generale Veneto avelTe conceduta licenza agli Ulcocchi di ufeire contri
iTurchi, acciò elll aveflèrole prede, ei
fudditi le rovine; e pareva gran llravaganza, chegliaveire fatti
combattere per quelloche gli avclTe ali
ora conceduto. Ma quei di loro, che fi raccordavano che per ottanta anni continui i Veneziani s’
erano dichiarati di ricevere ugual danno, e offefa, quando gli Ufcocchi
paflavano a predar altri per li diUrctci della
Repubblica, come quando bottinavano i fudditi loro proprj; Tebberoper
un’invenzione molto fctocca; e non pareva loro conveniente nè alla dignità,
nèalla religione di tanto Principe, che movefle una guerra, per mantenimento di
ladri infami. S. M., alla rapprefentazione del commerzio levato a Segna, H
commoffe alquanto, come che foflc airediata una.fua Terra; ma, certiheato che
non iì pretendeva di far offefa alla
Citt^, ma folo di afncurarfi che nonfoflcro inferiti nuovidanni, comegrufcocchi giornalmente
tentavano, reilòquieta; eavendo colla
prudenza fua penetrato il vero, preflo conobbe che tutto il male era nato per
rinolTcrvanza delle cofe prom effe ; e nel ConHglto fu conchìufo di
mandare CommifTarlpernomediCefarechc con
fuprema autoritli metceflero la mano,eapplicaflcro il rimedio proporzionato al
bifogoo corrente ; e furono nominati il Conte Altani,il Baron Bech, e il Sig.
fiuonomo, a’quali furono date commiifioni molto
ampie, e chiare, di levare da Segna gli Ufcocchi, e mettervi
prefìdioTedefeo, egafligare pofeia i colpevoli degli ecceflì commeflì. Il Sig.
Buonomo fu fpedho immediate a Gratz, per
conferire la rifoluzione prefa, e ricevere iflruzione anche da fua Altezza. Ma avvenne quello che piò
volte eraoccorfo, c regnante ITmp.
Rodolfo, che nel Confìglio Cefareo fu prefa rifoluzione, per rimediare
al male, la quale in Gratz fu convertita fempre in quella forta di medicina che
lo fa peggiorare : cosi occorfe
nell’occafìone prefente, che gli Arciducali diflero eflfere cofa giuda il
gadigare, e rimediare; ma, per farlo in modo che metta fine, efrerneceflarìocheiCommiirarjs'informaffero,
cractafleroco’Minidri Veneti, e
riferifTero a’ Serenifs. Imperadore, e Arciduca ; e non efeguiffero, fe
prima da fua Maed^ eda fua Altez. non
foffe deliberato quello che fi dovede mettere in effetto. In Venezia comeladeliberazionedegr Imperiali
fu commendata di giudizia e finceriik,
cos'i fu immediate intefo dove mir^e f aggiunta degl’ Arciducali, cioè, che, non potendo trovare pretedo di
difobbligarfi dall’accordato di Vienna con allegare eccezione alcuna contra di
quello, penlalTero difobbligarfi con idi mire una nuova tratuzione,nella quale obbliquamente
fodero introdotte le medcfime cofe, e
con qualche maniera, o hdrette, o glofate, fìcchè rimanedero fenza effetto: imperocché
in altra maniera non vedevano pretedo, per dipartirfi dalle cole promeffc;
poiché dall’altra parte era efeguito quello che le toccava, e in quelbche
re^ dava far loro non potevano
pretendere aggravio; non eflendo cola piò giuda, quanto proibirci! corfo, e nelle guarnigioni
tenere mfidio pagato ; ch’era la fodanza delia promefTa;né avendo
probabilità,perinodrare d'edere dati in pane alcuna gabbati; poiché
lafcritturafufonnata,e defa non, come è folito, da ambo le parti, ma dallaloro
folamente, fenza che v'imervcnilfero i Veneziani, da' quali poi fu accettato.
Non fi venne in Senato a deliberazione di mandare perlona alcuna a trattare con
quei Comminar], 0 per la ragione
fopraddeita, o perchè era noto che il motivo non veniva dagl' Imperiali, ma da'medefimi
Arciducali; o forfè anche perchè volellero alpettare di vedere le prime
operazioni de'Commifiarj in efecuzioae
delle cole promclTe, per regolarfi poi come quelle aveffero infegnato«
Mentre i Commiflar) erano in viaggio, occorfe all’ Arciduca, per li Tuoi negozj, vifitare la Maefi^ Imperiale
in Lintz, dove, conforme a quanto prima da Gratz era fiato fcritto, furono
replicate le feufazioni degli Ulcocclii, e rinnovate le querele pel commerzio,levato
alla Giuli; e propofio il progreflb che potrebbono fare le armi Imperiali in
Ita^a colla fponda deirefercito che fi trovava ammafiàto in Milano; e furono
anche fatti diverfi ulBzj, acciocché non
foife difarmaco prima che fi vedelTc l’efito delle cole di Segna.
Ma 1 CommilTarj, giunti a Fiume,
chiamarono a sè i Capi degli Ufcocchi da
Segna, i quali ricufarono di andarvi fenza falvocondotto. Furono i Commiflar]
cofiretei a concederlo, parendo loro ciò
minore Indignitk, che fe i chiamati foflero refiati contumaci. Col falvocondouo andarono a Terfau, e di 111
mandarono a richiederne un piò ampio, diffidando del primo; e ottenutolo,
andarono a Fiume, dove furono ricevuti
con termini amorevoli, e correli. I Comfniflàri prefero da loro informazione
del conflitto cogli Albanefi a Liefina, 6 della prelà della Galea, e delle
altre cole occorfe dopo il concordato, e fubito li licenziarono, per ritornar a
cafa ; o perchè da loro altro non
volelTero, o perchè, fiance il faivocondotto, non potelfera efeguire altro
difegno. Dopo alcuni giorni mandarono il Segretario loro a Segna a comandare che folfero
confcgnaii i Turchi fatti prigioni in Trebigne; e il Segretario non folo non fu
ubbidito, ma git convenne partire fenza veder efletio alcuno degli ordini de'
Commiflar]: e quantunque ufafie minacce
di feveriffimo gafiigo contra i contumaci, nè meno gli fu data rifpofia per
riportare a' Padroni.* le quali cofe dimofirarono in fatti quanto ditferente
foflè la filma che da quei ribaldi era
fatta de Minifiri di Celare fupremo Signore, dal rifpetto, e dalla ubbidienza che fu da' medefimt
prefiata un' anno prima al Cheslin
Commiffario Arciducale; e diedero materia agli fpecolativi di credere che, quando alcuna cofa da quei di
Gratz èrimefla a quella Maefià, come eccedente la podefià concefTa, ciò fia per
forma di apparenza, e coperta di Icufa
Mentre che furono i Commiflar] in quel luogo, altro non fucceffe di conftderabile, fe non che i Kagufei
Ipedirono Achille Pozza a richiedere loro rimedio, per li danni degli Ulcocchi,
e per li perìcoli Turchefobi, ne' quali
li gettavano, il quale non ottenne provvifione
alcuna. Avvenne anche che la Galea, o per fortuna, o per malizia, andò a traverfo, efidifllpò in tal maniera,
che fe ne vedevano le parti nuotare per la riviera; e finalmente il corpo fi
ruppe Cotto la torre Saba : c quello eh' è di maggior confiderazione, fu gli occhi
de medefimi Commiflar] fette barche di Ufcocchi ufeirono di Segna, camminando
dietro terra lotto la Morlaca, e pizzicandt»
le Ifole quanto poterono ; il che fu poco, per la fquifita guardia Ttmù IL Gg g, eh x3« STORIA
ch’era in quelle, rirtirono i Commiflari nn dopo l' altro, mandata
a Grata l’ informazione fenea aver fatta
altra cofa che ibfle veduta, o faputa;
non mancando gli Arciducali in Fiume di luggerire, e imprimere, eflère paflàto
con loro dilbnorc che non fóllè ttato mandato a
trattare foco ; e aggravando, con dire che altre volte fi era mandato a
trattare cogli Commiliari Arciducali tanto inferiori degl'imperiali. Della dimora, e opera infruttuofa di tre perfone
infigni fpiccate dalla Corte Imperiale era attribuitala colpa diverfamente. Altri
l'afcrivcvano a mancamento del Senato Veneto, che non aveflc mandato alcuno per
fu» nome, allegando che, quamfe fi
tratta caufa comune, come fono tutte quelle di (Ubilire una buona vicinanza,
conviene che fia per Miniftri da ambe le parte maneggiata, acciò riefea con
reciproca fodditfazione: che i Cefarei non avellerò fatto colà alcuna, per
elTere mandati, non ad operare foli, ma
uniumente co' Veneziani : e quando bene avelièro veduto foli applicare qualche
rimedio, non avrebbero potuto lark>, per eflèr incerti fe quello folTe poi
piaciuto a'Veneziani, e gli aveflè renduti contenti; e però che con ragione
dovevano eflèie feufati gli Aoftriaci di
ogni inconveniente che fol^ potuto fuccedere. Altri dicevano che alfora fi
tratta per comuni Minillri, quando vi ò bifogno
di concordare diffèrenze; ma per efeguire le cofe concordate,
ognuno dee fare la fua parte da fe
fteBb: che quando il Generale Veneto refiàtul il comerzk), lo fece da sò, lènza
alTiflenza di altri; che i prigioni
erano fiati liberamente offèrti a chi fua Mael& avelTe comandato
fenza tratare del modo di darli: che, quelle cofe fatte, i Veneziani non
avevano altro che fare, fe non afpettare corrifpondenza coll'oirervanza delle
cofe pròmeffe ; che il mandare la Repubblica Commiflàri, per trattare accomodamemo,
non farebbe fiato altro, che rinunziare l'accordato di Vienna, nel quale, poiché la parte Arciducale era fiata
tanto avvantaggiata, ed era efeevito interamente tutto il vantaggio di quella,
nel nuovo congrelfo non n poteva
propone, ni rilbivcre fe non qualche cofa di più per gl’Arv ciducali, e qualche maggiore difavvantagio
per la Repubblica.- lenza, che fi poteva
con cenezza prevedere che, non avendo avuto luogo qoello che fi era fermato colla Maeftà
Imperiale, e coll’Altezza dell’ Arciduca,
molto meno fi avrebbe potuto fperare della trattazione de’ Minillri, i quali fe erano andati per
efeguire le cofe concordate, neflìin impedimento fi può diré che aveflèro
ritrovato, il quale colla prefenza de’ Veneti poteficro fupetare.- ma fe con
altro dife^ gno, che daU’alTenza de’
Veneti, folTe fiato difiurbato, non poteva
quello eflère fe non pregiudiziale alla Repubblica. Gl’intendenti delle
cofe di governo dicevano di più, che occorre fpeflb trà i Principi mandare Minillri per negoziare, ni mai quella
fi fii altramente, che avendo prima
rifoluto l’uno, e l’altro, che il bifogno vi fia, e concerrato quello che
s’abbia a trattare, il luogo, e bene fpefia anche il modo a tenere. Ma che uno fpedifea Minillri
dove, e con quelle commiflìoni che a lui piace, e fenz’altro dire, afpetri che
l’ altro mandi a tratura con quelli,
ficcome i cofa non mai ufata, cosi, quando
avveniflè, più rollo avrebbe ragràoe di dolerli rinvinro lenza
precedente concerto, che l’ invitante a
cui non folTe corrifpofio.' non poterfi però
aferivere a mancamento di fapienta, e prudenza in Cefare, che non fu autore di ut configlio, ma di chi T
inventò, e aggiunfe in Gratz oltra le commiflìoni Imperiali. Partiti i
Commiflkn, refta^oBo i kdfi alTicurati
deli'impuiiiik per le cole facte^ e inanimiti a tenere ritafiTa (lile alPavvenire. Non racconterò le pertico
lari prede di barche, o re(celli, e le incurfioni fatte l'opra le Ifole con
una, ò due barche, perchè moh te furono;
e futbbetedio, perl'uniibrmitb, commemorarle tutte.* narretò folo una generai
ufeita fatta mentre il rigor del vento doofteinfe rallentar le guardie, nella quale prefero
quante barche incontmroRò alle riviere
d’illria; e in Dalmazia i due grippi con mercanzie, e da» nari; e alii fcogli di Zara tré marciliane
cariche di pannina, renft, c fpczicric;
e una Nave che poruva drappi di feta, lana, zuccheri, e altre merci di valore v Paflkrono dopo
quelli Ipogii ad offefe non più da loro
ternate. Si ritrova in faccia di Zara uno Scoglio, nominato di San Michiele, con un CalUllctto nella
lòmmith, dove ne i tempi de’fofpetti 0
tengono guardie, e lentinelle, per ilcoprir il mare; ne i tempi tranquilli reità il luogo, come di
leggier momento, lenza guardia 4 Quelli
uomini, con molto ardire ivi montaci, e munito il luogo per quello che poterono repentinamente,
pofero dentro guardia della loro gente,
per ben ifcoprire il mare, e non folo ìnGdiare la navigazione, dando legni accompagni de*
Valcelli di viaggio, ma ancora per awifarli di ichivar Tarmata chetrandea per
guardia di quelle riviere; e ciò fatto, con incredibile audacia fi mifefo
ìoGeme in forma digtulla guerra, e in
numero dÌ 40 o.con lèi iiilègnc sbarcarono a Ro» iiaoze, vaia della medefìmaCitth, e predato
in qirella quanto vi 0 ri» trovò,
pailatt innanzi ad Islan, luogode’Turchi, preferoanimali, donne, e nnciudt;
ritornali per la via Aefla, portarono tutto a Segna, linfbrzata prima la guardia, e la munizione
di S. Michele ;donde per dilcac’ciarli, eflèndo lo fcoglio forte di Geo, fu
bifogno di congregare la foldate» ica, e
adunare molta gente, per paflare nello fcoglio, e alTaltarii : di che elfi avvedutifi, la notte fuggirono. A tanti
inconvenienti avendo con0dcrazione, il Generale Veneziano riputò neceflàrio
ufare più potente ri» medio, che T
impedimento del commerzio a Segna, per confolazione dc’fudditi, che, ritrovandofi danneggiati e
afflitti, erano vicini alla
difperazione, e a gettarfi lotto la volontà degTUfcocchi. Era
debole il rimedio ufato contra Segna
folamente, poiché quella gente, con ar«
rifchìarh ad ogni pericolo, luperava parte delle difficoltà; e col
riee» vere per via di terra fbccorfo da
altri luoghi Arciducali, rendeva io»
fruttuola Topera impiegata nell’ incomodarli. Sino a qucRo tempo i’ era alìenuto di levar il commerzio all’ altre
terre, per non diipiacere a fua MaeOà, c
a fua Altezza: all' ora, vinto dalla ncccffità, pensò che quei (Principi colla prudenza avrebbono
bene conofeimo che, quando fi foflè riientico con tutte le terre loro polle a
quella marina pel favore preparo a cosà
fceleraci ladri, non doveva cflère hcevuco per
ofièfa da chi fi difendeva da cosà gravi olt^gi, mà da chi lì cotnmetteva
fono T ombra loro; e perciò proibì ad ogni fona di perfone di poter andare cofi vafcelli, .0 barche di
mercanzie, vettovaglie, e di ogn’ altra
Ibrta diprovvifìoni a qualunque terra polla fopra il Quar. ner, c fopra il Canale della Morfaca dì
Bcfezfino a ScriUà. Ancorché 0no al
tempo prefente non fia mai (lato applicato rimedio proprio, che abbia potuto ovviare pienamente alle
fcorreriedegrufcoccni, que00 nondimeno é Rato in tutti i tempi il più efficace
; perché, oltre al x 38 storia al levar a' ladri la comoditi di Ilare rutti
uniti in uni uogo, pel mancamento delle
vettovaglie, gli altri ludditi Audriaci, che
per cauli loro pativano, fi Iòno concitati centra i ladri, ed efclamando
alle orecchie della Corte Arciducale, hanno collretti quei Miniftri a fare
qualche provvifione, per cllcre liberati dall’ incomodo per all’ora. Cosi in quella occafionc le querele,
e i lamenti de’fudditi andati a Grata, giunti cogli lifliz) dall’ altro canto
fatti da i Miniflri della Repubblica
alla Corte Cclarea, indulTero gl’ Imperiali apenlàr di levare quella molellia a lua Maellb con rimedio
perpetuo; e gli Arciducali a peniate di portar il tempo innanzi, con dare
qualche apparente, 0 almeno leggiera loddisfazione : e communicati i configli
infieme, rimilèro a trattarne unitamente
al leguente Agollo, pei qual tempo
avevano i Principi di Cala d’ Aulirla intimato un congrelTo dì
tutti loro, e de’ deputati delle
Provincie foggette in Lintz, dove l’Imperadore fi ritrovava, per rilolvere
negoz) importanti de’ loro Principati. E
per dar ingreflb a quella trattazione, fecero gl’Aullriaci per nome di lua Altezza querela coll’ Ambalciadore
della Repubblica, Refidentc prcITo a lua
Maellb, che il Generale in Dalmazia avelTe pubblicato un bando, proibendo il commercio alle terre, c
a’ ludditi tuoi di quelle riviere; e con
effetti avelie trattenuto diverfi valcelli che navigavano a quei luoghi, per fomminillrar vettovaglie ;
e ne avelie anche gettati a fondo parte
di elfi ; e che ciò folle non tanto con fua offefa, e danno dc’fudditi, quanto
( il che piò loto importava ) a pregiudizio della libera navigazione che
pretendeva nel Mare.- al ch'era flato giullo,
e neceflario rimediare; che gib in Vienna fi erano ptomoHe parole
di quell’ ìflellà materia, e concordemente
era fiata rimeflz ad altra trattazione: che quello era il tempo, e luogo
opportuniflimo di trattarla, che
facilmente non fi prelenterebbe una congiuntura ule, quando foffero prefenti in
una raunanza tanto frequente tutti i Principi di Cala d’Aullria, e anche i Deputati degli Stati
loro; deU’inicrelle de’quali tutti fi
trattava: e che, decifo quello capo, infieme fi avrebbe trovato rimedio alle
cofe degli Ulcocchi. A quella
propofizione fu dall’ Ambafciadorc rifpollo in follanza.- che in quella materia dì navigazione non era
fncceduta novitk alcuna; ma era fiata
femjrfe libera ad ogni torta di perlonc lotto le leggi della Repubblica, che fono neccllaric per
conlervarla; e tale cllece la men-, te
di lei che fia mantenuta tempre. Elfere flato proibito nuovamente^ il commerzio alle terre, dove gli Ulcocchi
erano ricettati, foccorfi, e favoriti,
appunto per ovviare alle infellazioni loro maritime principalmento, e mantenere
libera la navigazione, e a’ danni, e alle ollefe che inferifeono in terra.- che mentre gli
Ulcocchi avellerò ricetto in quelle
terre, nè elfi potrebbono allenerli da’ ladronecci, nè la Repubblica lafciare
di perfeguitarli, e ribattere le offelc. Raccordò le promelfe fatte in Vienna
con parola di fua Maellk, c di fua Altezza in
ifcritto, e replicate molte volte in voce, che il Mare rollerebbe netto,
e liberato da’Pirati di Segna; e che nè di la, nè da quei contorni ufeirebbono
perfone a danneggiare la navigazione, nè i vicini: e recitate tutte le molcllie, e offelc dagli
Ulcocchi inferite dopo il tratuto di Vienna fino a quel tempo, loggiunfe che
per religione, ginftizia, e riputazione de i Principi, erano obbligati ad
efeguire le pro melfe; melTe, con che anche per corrifpondenz» farebbe retiduto
il commerzio alle terre, ficcome fu renduio l'anno innanzi per rifpetco, e offervanza
verfo fua Maedb finceramcnte, fenza aver altra fìcurezza, che la fola fua promcfsa, quantunque le
ingiurie ricevute dagli Ufcocchi fin’ all’ ora folTero da non fcordarfi
facilmente; e che gli at;ticoU da fua
Maeflli, e da fua Altezza promefli all’ara non conteheiTero, il total rimedio, e folTero flati conglciuti
per molte fpertenze paflàte
infufficienti ; laonde, per debita corrjfpondenza, fe la ragione, l’oneflb,
e roITervanza della fede debbano aver luogo, fi dovrebbe ormai vedere Teffetto delle promelTe: ch’egli
afpettava che da quella raunanza, fecondo la intenzione datagli, da Configlieli
di Cefarc folfc pollo fine a tjucllo
fpinolb negozio. E perciò riulcirgli cofa molto inafpettata l'udire in luogo di
qnello, che fi trattafie d’ implicarvi altri
negozj di lunga digeflione, che non potevano fervire ad altro, che
a portar in lungo Tefecuzione delle cole
promelTe; che il negozio degli Ufcocchi
gik era in piedi, e fi ritrovava in tale flato, che non fi vedeva adito, nè apertura di ravvilupparlo
con pretenfione di libera navigazione,
ovvero con alcun’ altra fomigliante; ma bensì, terminato quella, che non aveva
bifogno di trattazione, ma di efecuzione della parola, e fede data, la
Republica non farebbe fiata aliena di trattare ogni altra difficoltb : anzi il
metter fine alle moleflie degl’ Ufcocchi farebbe flato un facilitare la
tratuzione di navigazione; che la
Republica aveva fempre ricevute, e incontrate tutte le occafioni,
per metter fine a qualunque differenza
colla Cala d’Aullria,- e che in Vienna erano fiate conofeiute le urgenti
ragioni, per le quali non fi poteva trattare, nè di libera navigazione, nè
d’altro negozio prima che a quello degl’
Ufcocchi folTe rimediato; e perciò di comune confenlo era Hata rimelTa ad altra occafione: e rellando
le caule le medefime, conveniva tener
per decifo, che nelTuna opportunità di trattar altro poteva venire, (e non era levato di mezzo
quello impedimento, che non concedeva T
unire altra cola con lui. I Configlieri di Gratz per quello non fi molTero dalla loro rifoluzione;
ma fi fermarono collantemente in quello, che non occorreva parlare degli
Ufcocchi, fe infieme non fi parlava di quell’ altro punto; il quale tanto
premeva a fua Altezza, che fenza quello
non avrebbe potuto afcoltare ragionamento di altro; febben gl’imperiali non
fecero fopra illanza alcuna. Quelli che
fludiano, per indagare i fini delle deliberazioni, credettero lo feopo degli Arciducali non eflcre flato
altro, che di fcanfare il parlare degli Ufcocchi; cofa molto abborrita da loro
in ogni tempo; e la mira de’Celarei
elTere fiata di vedere prima rifoluto un altro punto, che fu propollo, e rellò
iniecifo nella raunanza, cioè, fe fi doveva attender alla guerra, o alla pace
co’ Turchi, forfè a fine di cavar alcuna fomma di danari, quando fofle llau la
guerra rifoluta, con negoziare qualche
cola d; Segna. Quello che in ciò fólTe di vero
non fi può affermare. Ma poiché
il negozio della libera navigazione Tanno precedente in Vienna fu difgiumo da quello degli Ufcocchi,
e rimelTo ad altra trattazione, e a quello tempo in Lintz fu promollb dagli
Auflriaci, per riunirlo a quello degli
Ufcocchi, e non fu trattato, avendo i Veneziani perfeverato m tenerlo
difgiunto; quello luogo ricerca un poco di digreflione, per efplicarc che cofa
fi pretendeva colla richief^a dì libera
navigazione, e in che tempo ebbe origine la pretenfione; e qua^ li ragioni aironi ^fTero ufate da ambe le
parti. Dopo una lunghiflìma pace trli i
progenitori di Mafllmigliano I.
Imperadore, e la {Repubblica dì Venezia nel 1508. ebbero principio leggiere perturbazioni, le quali fecero
progrclTo a notabili, e memorande guerre ; e fu la Repubblica per zz. anni
feguenti con quel Prin« cipe, c colla
pofteriib lua per varj rifpetriora in guerra, ora in pace, e ora in tregua; nel fine de quali, l'anno
1528. furono compolle tut“ te le
differenze, e conchiufa in Bologna una pace, la quale durò oltra tutto quel fecolo con Carlo V. Imperadore,
infìeme con Ferdinando fuo fratello, Rè
d’ Ungheria > e Arciduca d’AuRria, Perchè nella divìlìonc tra loro fratelli
lette anni hmanzi fatta, tutte le Terre AuRriache conhnanti co' Veneziani erano
toccate al Rè Ferdinando; \ confini
delle quali colle Terre della Repubblica erano molto intrigati ; perlochè
molte difHcolt^ erano da decidere, parte per le ragioni pubbliche de' Principi,
e parte per quelle de’fudditi privati, che non poterono, per la moltiplicitb, e
per la lunghezza della cognizione che ricercavano, elTere terminate in quel
trattato di pace. Fu aU'ora il tut« to
pollo in quiete con un capitolo, che dovefle elfer iRituito un tri. banale arbitrario, per deciderle. II
tribunale fu eretto in Tremo, dal quale
fu la Icntenza pronunziata nel 1535*) c tutte le differenze ( eh' eccedevano il numero centenario )
difHnitivamente furono terminate. Qui
però non ebbero fine le diihcoltky imperocché, neU'eleguìre la Temenza, altre si attraverfarono, e col
progrclTo di tempo ebbero origine da
ambe le parti nuove querele; pretendendo ciafeuna che dalTaltra folTcro fatte
varie innovazioni. Laonde, per metter fine a tutte le differenze, fu da
Ferdinando, fuccelfo all’ Imperio per la cefllone del fratello, e della
Repubblica dì concerto comune iRituiu in
Friuli nel 1503. una raunanza di cinque Commìflàri, un Proccuratorc, c
tre Avvocati per parte, i quali trattalTcro le dilhcoltli, cosi antiche, come
nuove; e da’ Commilfarj folle poRo fine lotto la ratiheazione de’ Principi.
QucRo cosi gran numero di giudici fu dall’ Imperadorè richieflo, per loddisfare
a’fudditi fuoi di varie Provincie intcreffati in quelle caule. Per la parte
Imperiale i Commillàrj furono, Andrea Pcghcl, Barone in AiiRria, MalTimigliano
Dorimbergli, EIcngero da Gorizia,
Stefano Sourz, Antonio Statemberg ; Procuratore Jacopo Campana Cancellier di Gorizia.* Dottori, Andrea
Rapizio, Qervafìo Alberti, Gian-Maria
Grazia-Dei « Per la Veneta CommiRàrj furono
SebaRian Veniero, Marino de'Cavalli, Pietro Sanudo, Gian BattiRa Centanni, AgoRio Barbarigo: Procuratore Gian
Antonio Novellò Segretario.* Dottori, Marquardo Sufanna, Francefeo Graziano,
Jacopo Chizzola. Nella Radunanza furono da ambe le parti
efprefle IcrichieRe; e dopo aver difputato, e parte compoRo, parte decifo le
altre differenze pubbliche, fu prefa in
mano una richicRa del Procurator AuRriaco in
qucRa forma .* Ejufdem ÌIajejlatis nomine re^uiritur ut poft bac illm
fubditisy atque ei'tis in Jìnu Adriatico tuth navigare ^ ac negotiari
liceat» Jtem ut damna Tergejìitth
Mcrcatoribus, atque aliis illata rejlituantw\ c
accompagnò il Rapizio Avvocato la dimanda con dire che quella non era
caufa da trattare fotttlmente : effer cofa notininia, che la navigazione doveva
efler libera: con tutto ciò i Navilj de'fudditi di Tua Maefìò erano alle volte
fatti andar a Venezia, a pagar dazj; che di queAo fua MaeA^ A doleva, e faceva
idanza, che vi fì rimediafle. A ciò
rifpofe il Chizzola, Avvocato della Repubblica, elTer coÌk chiara che la navigazione dee eflfer libera;
ma a queAa libertà non eflere ripugnante
quello di cui fi dolevano; poiché ne i paefi liberìflU mi chi domina rifcuote dazj, e ordina per
qual via debbano tranfitare le mercanzie; e nelTuno fi può dolere, Tela
Repubblica per li fuoi rifpetti ufa
quoAa facoltà nel Mare Adriatico, eh’ è fotto il fuo Dominio: e foggiunfe che,
fe intendevano di difputar la loro richieda,
gli avvertiva che non poteva elfer introdotta tal caufa in quel giudizio,
idituito folo per elecuzione delle cofe fentenziate; elTendo cofa notidima che
la Repubblica, come Signora del Mare Adriatico, efercitava appunto c^uel
dominio che da immemorabile tempo aveva fenza neffuna interruzione el'erciuto,
cos^ nel rilcuoter dazj, come neU’adegnar
luogo per la efazione.* e che la protenfione propoda era nuova, e
mai piò da nedun antecefsore delflmperadore,
nè come Rè d Ungheria, nè come Arciduca
d'Audria,e delle Provincie adiacenti, nè da fua Maedà in tanti anni mai per innanzi permefsa.
Interrogò ì Cefarei che diceffcro quando mai piò era data pretefa tal cofa.*
che non fu pretefa innanzi la pace di Bologna, perchè la differenza farebbe
data terminata all' era, ovvero nmefsa
al giudizio arbitrario: che in Trento furono
traratte piò di izo. controverfie, e di queda non fu fatta menzione:
adunque fino a quel tempo non fu in piedi una tale pretenGone.* Mà s’era nata all’ora per innovazione fuccefsa dopo la
fentenza di Trento, diceffero quale, e quando ebbe principio; perchè egli era
pronto a modrare ogni cofa efsere di aniichidimo ufo, fenza una minima novità:
però non doveva elser udito chi veniva
con dimando non originate, o dalla
fentenza, o dall* innovazione. A
ciò il Rapizio rifpofe che non intendeva far il fuo principale fondamento fopra quello che a rutti è
notiflìmo, cioè, che il Mare è comune, e
libero; e che però a nefsuno poteva proibirfi il navigare per qualunque luogo
gli parelse, e febbene alcuni Dottori dicono che la Repubblica hà preferitto il
Dominio dell’ Adriatico col lungo
pofsefso, però non Io provano; e a* Dottori che affermano una cofa di fatto non fì crede lenza pruova ; e
perciò non voleva dimorar in quedo, ma venir al principale, cioè, che, quando
anche la Repubblica folse padrona del
Mare, i fudditi Imperiali potevano
navigare Uberamente per le capitolazioni che trà i Principi tono dabilìre;
e però cfser appartenente a quella Radunanza la richieda proMda; alla quale,
poiché cosi era da' Veneti richiedo, aggiungeva per fondamento: ^ra libera navigaM mmris
Adriatici cum Majejìatis fu€ Cefarex,
tur» fttbditorum damno^ Ò" incommodo ab Jllujhijpmi Dominii Veneti
triremimn PrxfeBis impedita ftmit cantra capttula Vorma^ tixy Bononix^ Andeeaviy et Venetiis inita, £
qui portò U pafso della capitolazione dì
^logna, la quale cosi dice: comune%
fuhdito tiberey tutOy et featre pojjjint in utriuftpue StatibuSy et Domi
niis, tam terra, tjuam mari moran, negotimi non bonis fuh ; be neqke (T umamter
tradenìur y ac Ji cjjcnt imoUy tT fnbditi iUius Prit^ Tomo li. Hh
r^ù, X Domlali, mui fratrias et
imùaia rJihuu; pnvUexur^ ni va, auf
alitfua iajuria ulta de caufa iis inferatur > celeriterque fvt adannijintar, Recitò anche i capitoli delle
tregue d‘ Afigiers, e de Vomies, e della
pace di Venezia, che fu regidrata a’fuoi tetnpi, benché non folTe bifogno, per
elTere dello fteflb tenore. Ponderò la parola libere, confìderando che libere è
aggiunto al verbo navigare ; perlochè fi
dee intendere fecondo la legge comune, per
cui ognuno può navigar liberamente: e non farebbe libero chi follie
corretto andar a Venezia. Aggiunfe di più che la parola libere conveniva che
non folfe fuperflua, ma bifognava che operalfe
alcuna cola di più, che le due parole iati, et fecare ; nè altro poteva importare, falvo che, fenza
impedimento, o molellia, o pagamento di
dazio : a ciò aggiunfe che vi erano più di 400.
ijucrele de’fudditi con vafcelli fatti andar a Venezia, e fatti pagar
dazj, per elTere capiuti ne i Porti per fortuna, o per altro. Leflc una fentenza d’un Rettore di LieCna, che
liberò una Nave capitata a quell' Ifola per fortuna; e narrò che alcune barche
di fale erano Rate lafciate andare
dall’armata Veneu al loto viaggio fenza
mandarle a Venezia. Conchiufe che la fua richicRa fi Rendeva a quelli
tre ponti.- Che i Ridditi AuRriaci poteflero navigare per tutto dove loro piaceva.- Che per andare ne i Porti
della Repubblica per tranCto non pagaRero; E andando per mercantare in quelli
non pagaflcro più, che i ludditi del
Dominio. Replicò il Chizzola promettendo di
rifolvere chiaramente le obbjezioni dall'altro introdotte, ficchè
non rcRcrebbe luogo a replica; e di
moRrare con ragioni vere, ed elhcaci, che quanto veniva operato da’MiniRri
della Repubblica nel Golfo era fatto con legittima autorith. £ rifervandoR a
parlare dei Dominio del mare dopo, ma
prcfupponendolo, nel prmcipio incommeiò dalle Capitolazioni, e difse prima che
la parola libere non Rava appoggiata,
come il Rapizio diceva, al verbo Navigare; ma
a' verbi .- marari, tS" negaeiari tàm terra, qudm mari ; e però conveniva
intendere libere come la legge comune intende, quando fi dimora, o negozia in
cala d'altri; ch'è olfervando le leggi, e pagando i diritti del paefe. So^iunfe poi che quelle
capitolazioni trh la Cafa d’AuRria e la
Repub^ca erano ugualmente reciproche, e che non vi ora convenzione più a favore degli AuRriaci
nello Stato di Venezia, che de’
Veneziani nello Stato degli AuRriac^ nè cRer paniita maggiore liherth nel mare,
che nella terra; ed edere chiare le parole colle quali fi dice che i Ridditi di ciafeuna delle
due parti poRano (limo, rare, negoziare
e mercantare negli Stati dell’ altro, cosi in terra, come in mare, e fieno ben trattati. In modo
che i Ridditi Veneti non hanno d’avere
minore liberih nelle terre AuRriache, che i Ridditi AuRriaci ne’ mari di
Venezia; e per virtù di quelle parole, quello che Sua MaelHi vuole avere nello Stato della
Repubblica, conviene che lo conceda a
lei nel Rio.- e fe Sua MaeRù Cefarea nello Sato Rio di terra non concede a’fudditi della
Repubblica fare la Rrada che loro piace,
ma li coRringe paRare per quei luoghi dove fono pagati i dazj, non può
dimandare che i fuoi poflàno andare pel
mare della Repubblica per tutto dove l»r» piace, ma ded contentarli ohe vadano dovei rifpetti diRuelU che ne bù
il dominio comportano. Se Sua Maeft^ fa pagar dazj nella Aia terra, la
Repubblica faccia pagar nel Tuo mare.
Gl'interrogò, fe pel capitolo volevano che foC»
ie levata, 0 riAretta la facoltà all’ Imperadore di efigere dazj? le nò, perchè volevano che folTe levata, 0 rìAretta
alla Repubblica per un capitolo che
parla di ambi i Potentati colle Aefle parole? MoArò con narrazione particolare, che dalla pace
Veneta del 1523. fino allora V
Imperaaore aveva crefeiuto dazio con aggravio de’ ludditi Veneti alle vettovaglie, e mercanzie che
palTano dall’ uno all* altro Stato in
maniera, che ciò che pagava uno era aumentato in alcune a 16. in altre a 20. In particolare narrò che
il ferro già a quel tempo aveva libero
tranfito,| e non pagava cofa alcuna: che di nuovo Sua Mae Ah aveva impoAo per dazio lire 18. per
miglia)o, e aveva ordinati i luoghi per dove fi paAalTc a pagarlo; fuori
de’quali foAe contrabr bando, dove prima
il mercante poteva fare che Arada gli piaceva; che fi pagava un carantano per manzo che fi
conduceva per Venezia e l’aveva accrclciuto ad un ducato con danno delli
Beccati di quella Città: e fe Sua Maellà
Aima lecito nello Stato Tuo fare quello che le piace, fenza repugnar alle convenzioni, non può
penfare che la Repubblica, facendo
quello che le torna bene nel proprio, le contravvenga: aggiunfe che in ogni
pace Aabilita trà due Principi dopo una guerra, h conviene che i fudditi
poflano dimorare, e negoziare liberamente, non ad efclufione de’daz), ma bensì sì efcludono le
violenze le oAiliià, e impedimenti ch’erano ulatt prima, durante la guerra, e
non fi leva, o rìAringe l’autorità, nè dall’uno nè daU’altro Principe, nè in
terra, ne in mare. Alla clùarezza, e
forza di queAo dilcorld rcAarono così lotpefi gli AuAriaci mirandofi Tun Taltro, che il
Chìzzola giudicando non elsere ncccfsario fermarfi più in ciò, pafsò alla
pruova del capo prefuppofio che la Repubblica abbia il dominio del mare, e
dìise; Efsere veriffima la propofizione che il mare è comune, e libero, ma non
altrimenti di quello che fi dice ie vie pubbliche elsere comuni, e libere: il che s’intende, che non polsono etscr
ufurpate da alcuni privati per loro
proprio fervizio, ma rcAino alfulo di cialcuno;non però libere sì,
che flon fieno lòtto la protezione, e l’
imperio del Principe; che ognuno pofià far in quelle liberamente tutto quello
che gli piace, a dritto, e a torto; che tal licenza, e anarchia è abborrita da
Dio, c dalla Natura, così in Mare, come
in terra: che la vera libertà del Mare non el'clude la protezione, c
fupcriorità di chi lo nunticne in libertà; nè la foggezione alle leggi di chi ne ha l’imperio; anzi ncccAariamenic
le include; che tanto U Mare, quato la terra è foggetto ad elser divifo trà gl'
uomini, e appropriato alle Città, a’
Potentati ; il che, già ordinato da Dio nel principio del genere umano come
cola naturale, fu anche molto ben conofciuio da
AriAotile quando diAc che alle Città marittime il mare è
territorio, perchè da quello cavano l'
alimento, e la difcla: cofa che non potrebbe
elTere, fe non fofle loro appropriata parte di effo, non altrimcnte
che al modo, come fi appropria la terra,
la quale è divila trà le Città, non in
partì uguali, nè proporzionate alla loro grandezza, ma quanto hanno potuto dominare, e guardare. Berna non
è la maggior Città deU’Elvczia, e pure
hà tanto territorio, quanto le altre dodici inficme, c la Città di Norimberga, molto grande, appena
efee col territorio fuori delle mura. La
Città di Venezia molti anni è vifiìuta lènza punto dipofiènìone in T0mo II, Hh 2 terra ferma. In mane parimente
alcune Citt^ di molta fona, e vitti
hanno occupato molto mare; altre di poche forze fi fono contentate delle proflime acque; nè Inno mancate di
quelle che, (ebben marittime, avendo alle fpalle terra fertile, fi lono
contentate di quella, fenza ulcir in
mare; altre che, impedite da pii potenti, fono fiate coftrette ad afienerlene,- per le quali due
caule una Cittì, febben marittima, può
Aare fenza poOédcr mare. Aggiunfe che
Dio ha ifiituiti i Principati per mantenere la giufiizia ad militi del genere
umano : che quelli fono nccelfarj cosi in terra, come in mare. Che San Paolo
dille per quella cauta eflère debite a’Principi le gabellee contribuzioni.- che
larebbc una gran firavat ganza lodare le
terre guardate, regolate, e difefe, e biafimaie ciò nei mari. Che fe qualche mare ^r la fua ampiezza,
ed ellrema lontananza dalla terra, non può eflere protetto, e governato, quella
è pena del genere umano, Cccome è anche,
che vi fieno difetti cosi grandi in
terra, che neflimo pollà proteggerli, come nei fabbioni di Affrica, e in molti luoghi immenfi dell' Atlante. E
ficcome è dono di Dio che una terra fia
colle leggi, e colla forza pubblica retu, protetta, e governata, cosi il
medefimo avviene in mare ; che furono ingannati danna grolla equivocazione quelli che diisero, la
terra per la fua llabilià poter elser
dominata, ma non il mare, per efser elemento inconllante, ficcome nè anche
l’aria; imperocché, fe pel mare, e per l’aria
intendono tutte le parti di quegli elementi fluidi, certa cofa è che
non polsooo eÈere dominate, perxJtè, mentre
fi fervono gli uomini di una parte,
l’altra fcorre.- ma quello avviene anche a’Fiumi, che non poflono elsere
ritenuti. Quando fi dice dominar il mare, overo il fiume, non s'intende
l'elemento, ma il fito dove quelli fono polli. Scorre ben l’acqua
dell’Adriatico, e non può efsere ritenuta tutta,- ma il mare è l’illefso, ficcome il fiume; e
quello è quello che flhfoggetto alla
proiezione de' Principi. Interrogò gli
Aullriaci, fc la pretenlione loro era che il mare fot fe lafciaio fenza protezione, ficchè ognuno
potelse lare in elso, e bene, e male, corteggiarlo, depredarlo, e renderlo
innavigabile? quello efser tanto firavagante, ch’egli voleva per loro
rifpondere che nò.- adunque conchiufe
che per necefsaria confeguenza la Maellh fua
voleva che fofse guardato, protetto, e 'governato da quelli a’ quali toccava per dilpofizione divina: ma le cosi
era, ricercò, fc loro pareva ginfta cofa che quelli tali lo facelsero con fola
loro fatica, loro fangue, e loro fpefe;
o pure che vi coniribuifsero quelli che ne godevano frutto? A quello anche
rifpofe per loro, eh’ è troppo chiara la
dottrina di San Paolo, per non alleare la Gmrifprudcnza, che tutti i governali, e protetti fono obbligati
alle contribuzioni, e gabelle. Adunque conchiufe che, fe la Repubblica è quel
Principe a cui appartenga dominare, e
prot^ere l’Adriatico, fegue neccefsariamcnie che chi le navin debba Ilare
foggetto alle fuc leggi, non altrimenti che a quelle «Ila rcgioiie ttrrellre
chi tranCta per quella. Pafsò allora a
moflrare che quefio dominio da immemorabil tempo era della Repubblica, e fece leggete da una
raccolta i luoghi di trenta Giureconfàlti, che dal ijoo. fino all’eth fua
parlarono del dominio della Repubblica fopia U mare, tome di cofa notilIima,e
imme morabile ne' loro tempi, difcendendo alcuni fino a dire che la Repubblica
hb dominio di eflb non meno che della Citth di Venezia; dicendo altri che l’Adriatico i il
territorio, d il diftretto di quella Cittb, facendo menzione della legittima
podeltti fua di lUtuire leggi alla
navigazione, e d’imporre dazj a’ naviganti; e foggiunlè ch'egli non
fi raccordava di aver veduta alcuno che
diceflè in contrario; e rivoltoG al
Rapizio, dilTe che, s’egli non voleva credere a quegli Scrittori i quali attcllavano, che il mare foOé de'
Veneziani, poffeduto da immemorabile tempo, precedente la loro eth, perche non
lo provavano, non però poteva negare di
riceverli per telUmonj di quello che nel
loro tempo vedevano; e averli per fuperiori ad ogni eccezione, efièndo
uomini famofi, e che, da tanto tempo morti, non fono interelTati nelle cofe
prefenti, e per 150. e più anni corrono dal più vecchio degli allegati all'ultimo, teda per
l’attellazione. loro provato che giù più
di unti anni la Repubblica hh dominato il mare, e per ciò non poterli negare l’immemorabile poflelTo al
prefente. Indi rivolto a’ Giudici, li
pregù che fopra le autorith allegate afcoltalTera una fua breve coqfiderazione,
la quale lafcierebbe Toro compiutamente impreflà la verith. Ponderò prima, che
febbene alcuni de’ recluti luoghi
parlano con parole generali, dicendo, il mare de’ Veneziani, non efprimendo
quale, e quanto quello fia, altri però lo Ijpecificano, ufando il nome di
Golfo, e altri con termine più erpreluvo,
dicendo l’Adriatico, che fpecifica non loia il fito, ma anche la quantità
del mare poffeduto; e con quelli che parlano più cfprellàmente modrò doverfi dichiarare quelli che in
termini più generali fcrivono, conforme
al comune precetto, che co’luoghi chiari conviene illuminare gli ambigui.
Confiderò apprefib che il varùi parlare di quei Dottori, facendo derivare il
dominio della Repubblica in mare, chi da
preferizione, altri da fervitù indotta, e alcuni da privilegio, è
nato, perchè, ficcome erano
inrormaiiRlmi del poOeflb, ed efercizio di quello che vedevano, e udivano
ellèrc dato l’ideflb da tempo immemorabile; cosi, fcrivendo in quella materia,
non ad idanza d’ alcuno, ma di proprio
moto, e per forma di dottrina, ciafeuno giudicò erprimcre meglio il titolo, chi con un termine, chi
coll’altro, fenza curarli di ufare il
foln, vero, e proprio, come avrebbono fatto, dove fofl’ero dati condotti a fcrivcre per interede di
alcuno; nel qual cafo i Confultori fono fempre conformi, ricevendo
daU’intereffato la medefima idruzione.
Soggiunfc che però quella varictb non diminuifee punto la fede, anzi faccrefee, come Sant’Agodino dice,
parlando della diverfitli che trù i Santi Vangelidi s’odcrva; perchè dal modo
diverfo, ufato da que’ Scrittori, può
redare ognuno certificato che nefliino di
elfi ha fcritto nè pagato, nè pregato; ne’ quali cafi non lì
farebbono partiti dall’tinico modo,
dall’ interede loro preferitto.- anzi da chi ben efitmina, vcderfi tiù quei Dottori una
mirabile concordia in queda unica, e
lineerà veritù; e che dopo la declinazione dell’ Imperio Codaniinopolitano,
ritrovandoli 1 ’ Adriatico per più anni abbandonato ( come anche molte Ifole, e Cittù di quello
Stato ) in modo, che redava non
cudodito, c lenza protezione, e governo di Principe alcuno, c fodit la
giurifdizione di neduno, fu dalla Repubblica, per ricevere il fuo vitto da
quello, codretta a mantenerla netto, prelò fotta fua protezione, acquiilatone
governo, e dominio nel modo in cui per
diritto naturale, e delle genti le terre, i mari, e le altre cole che non fono
lotto il dominio di alcuno, diventano di quello che prima le occupa; colla qual ragione furono
fondati i primi Imperj, COSI in terra,
come in mare; e alla giornata le ne formano de’nuovi, quando alcuno, per la
vecchiezza, e per li vizj, indebolito, manca di forze, e cade. £ in quella
cudodia, e in quel governo del mare cos'i acquidato, la Repubblica s"è
andata avanzando con potenti e fempre
maggiori armate; con fpefa di molti teforì, e con profufìone di molto languc
de’ tuoi Cittadini, e fudditi, continuando lenza interruzione in colpetto di
tutto il Mondo rincominciato domìnio, e
cudodia, e fuperando, e rimovendo tutti gl' impedimenti che in prògrelTo,
o da Pirati, o da Potentati, cos\ d’Italia, come dalfoproda riviera, le furono in diverfi tempi eccitati.
Soggiunfc che ì Profcflbri del parlare
con erquifui termini di gìurifprudcnza non codumano dire acquidato per conluetudine, falvo che il
poter valerfi di quello che de jtrrc
civili è pubblico ad alcun ufo privato, fenza impedimento dcirunivcrlàle, come di pefcarc nel fiume
fenza impedire la navigazione; con tuttociò nem impropriamente fi dar^ anche
titolo di confiietudine, dove lark acquidato, e continuamente tenuto in
protezione e dominio, un didretto, o terredre, o marittimo, abbandonato, c da neduno pofleduto, come Bartolo, Baldo,
Cadrò, e altri alTegnano. Ma bensì per virtù di prclcrizionc non poterfi dire
propriamente pofTcduto, fé non quello di
cui colf ufo fia dato un’altro IpogUato; il
qua) titolo non cade in quedo luogo, poiché la Repubblica non hù ipogliato alcun poflcflbre del mare, ma l’ha
acquidato, ritrovandolo abbandonato, e
lenza Padrone, o podeffore; poterfi però dire in certo modo prefcrizionc, come fe un Falcone,
abbandonato dal Padrone, e
inlelvatichito, poi da un'altro prefo, fofle addomedicato, e per
lungo tempo nodrito; lebbene non
propriaaittnce, però non inconvenicntemente d*rebbc codui d’ averlo prelcritto.
Similmente la proprietà di parlare non ammettere Tufo della voce, Servitù, fe
non quando al proprio territorio è acquidato alcun particolar ufo in quello del
vicino, il quale però redi Padrone del
fuo: in quedo fenfo U Repubblica non ha
indotta fervitù nel mare alla lua Cittù, perche non vi ha acquidato foio un ufo
l'peztale, redando il dominio ad altro Padrone; ma vi ha aflunto l’intero, c totale dominio di
quello ch’era abbandonato, nè da alcuno
governato, o dominato.* poterfi nondimeno, per certa projxirzionc, chiamare lervitù, in quanto la
Repubblica è data codrctta ad adlimcrc quel totale dominio, e governo per
fervizio della fua Citr\, che nè aveva
bifogno. Qiianio a privilegio, ceru cofa edere
che qui non può avere luogo alcuno, poiché non vi era all’ ora chi lo potefTe concedere. L’imperador Occidentale
in nedun tempo mai vi ha avuta podedk,
nè autorità alcuna; nè i Principi in Occidente
vi hanno avuta alcuna giurildizionc, o lupcriorith, tanto meno potevano
darla ad altri. In Oriente queirimperadorc, per non avere forze da tenerlo, gii
l’aveva abbandonato, e perciò fpogliatofi di ogni forta di podedi, c di quella podèdìone, che
avvede potuto ritenere coir animo, ne
fece cedione nelle paci, etranfazioni fuccede pofeia tri queir Imperio', c la Repubblica. Con tutto
ciò i Giureconfulti Italia oi, come profeflbrì del jus CefareO) e giurati nelle
parok di qudloi dcvotiflìmi della Maedà
Imperiale^ come fc ancora regnafle Augudo)
overo Antonino, G fono sforzati con ogni eftorGonc di verificar neUImperador
Occidentale quel detto.* Imperata tft Dimtinm Mtindi^ il quale fino in quel tempo, quando Ga
pronunziato, non era vero in, una
centefima parte del Mondo, e al prefente non è in alcuna confiderabile
proporzione e mentre vogliono far onore alflmpecidore, e dargli con parole quello che nè bk, nè può
avere, non fi guardano dalla firavaganza
di parlare: e ficcome diflero che neflun Rè pofiede Stato alcuno legittimamente, fé non per
concefiione Imperiale, diflero ancora
che la Repubblica pofledeva il mare per privilegio deirimperadore. Mli ben
apparifee in che fcnlb fu da loro detto, poiché nefluno di elfi vuole che vi
fia intervenuta mai conceflìone; ma chi lo figura privilegio prefunto dalla
immemorabile pofleflìone; chi interpretativo dalla feienza, e pazienza
deiflmperadore, che vuol dire tanto, che
fe diceflero che i Rè Crifiiani pofleggono i loro Regni, e la Repubblica
poQ'ede TAdriatico cosi legittimamente pel titolo del loro acquifio, come fe
que' Regni, e quel mare foflero fiati deirimperadore, e da lui a quei Principi, c ad efla
Repubblica conceduto. Cosi fi dilatò il Chizzola rpaziofamence in parlare
de'Giureconfulti, per eflèrc campo di
Tua proteflione; e conchiufe poter ognuno refiar certificato, che cosi in fatto, come in ragione) coll'
autorità di quei Dottori erano pofii fodi fondamenti alia caufa che
difendeva. Indi al tefiimonio
de’Giureconfulti aggiunte gli Storici, i quali nar« rano che la Repubblica già più di 300. anni
rifcuoceva dazj da’ naviganti, e teneva barche armate in guardia con ordine di
far andar i NavUj a Venezia;
tefiificando che continuamente dopo fino al tempo loro fi fcrvò i’ificflb; ma fopra le loro attefiazioni
non fi fermò molto, dicendo che ficcome fono buoni tefiimonj de i fucceflì
occorrenti, cosi, quando fi tratta di
provare le ragioni de'Principi, o de’privatt,
convien valerfi di fcritture autentiche, e ufar gli Storici con gran diicrezione;
eflendone alcuni mofli, chi da amore, chi da odio, e da fperanze ancora, che li cofiringono ad ufare
adulazione, ovvero iperMi, fopra le quali non fi può fare fodo fondamento.
Portò ancora l’atto del Concilio
generale di Lione nel 1274. dove l’Abbate di Nervefa, delegato dal Pontefice in
una pretenfione degli Anconiuni, d«
avere libera navigazione, fencenziò che la dimanda fofle rigettata,
e che i Veneziani non foflèro molefiati nella
difefa, e protezione dellAdriatico da’ Saraceni, e Pirati, ne foflero turbati
nella pofleflìone loro d’efigere i
diritti delle gabelle, e de’noli.
Aggiunfe il Chizzola, non eflervi memoria quando primieramente fbfle fiata creato in Venezia un Capiuno di
Golfo, perchè nel 1230. fi abbruciò la
Cancellerìa colle memorie di tali elezioni: mà da quel temp o fino al fuo fi poteva mofirare
da’regifiri pubblici la continua
fucceflìone degl’ eletti fenza alcuna interruzione. Similmente
aggiunfe ancou che refiano i regifiri da
quel tempo fino all’ora delle licenze di
tranfitare pel mare con legni armati, o con perfone, o con robe per loro ufo, da diverfi Principi poflelfi}ri
di riviere fopra l’Adriatico xichieftc,
da Pontefici Romani, Legati, Vicari, e Governatori, c Comunità delie terre di
Romagna, e della Marca, da’ Rè di Napoli per
la Ph 2.48 STORIA ti Puglia; delle quali molte furono
concefle, alcune negate, e alcune anche
in parte folamente concedute; mk elTere fuperfluo allegare i fatti di quelli, i
fuccefibri de'quali non promuovono dillìcoltk. Difcenderebbe allo ipeziale folo
de’ PrecelTori di Sua Maeftk, come de’ Rè d’ Ungheria, e dell’Arciduca
d’Auftria. Recitò un breve di Papa Urbano
Sello diretto al Doge Antonio Veniero folto la data in Lucca 14. Giugno I j88. in cui gli rende grazie che colle
fue Galee deputate alla cuRodia del Golfo fia Rata liberata Maria Regina
d’Ungeria, ritenuta in prigione a CaRel nuovo; e due altri congratulatorj; uno
alla Regina fuddctta ; l'altrp al Rè
Sigifmondo, che poi fu Imperadore,
marito di quella, rallegrandofi parimente con loro deiriRcffa liberazione
fatta per opera del Capiuno, c delle Galee Veneziane deputate alla cuRodia del
Golfo. Indi fece leggere un falvo
condotto conceflb a richicRa di Rodolfo
Conte di Sala per nome di Ladislao Rè di Napoli, e di Guglielmo d’ AuRria del iì 99 - ta. Dicembre, che la
forella del predetta Rè, fpofata al foprannominato Arciduca, fi poteflc
condurre per Mare dalla Puglia alle
riviere dello Spofo con Galee, e altri legni in tutto in numero circa di
dodici, con condizione che, fopra quelli non folfe ricevuto alcan bandito da
Venezia, o che avelfe operato contra il dominio cofa per la quale meritalfe la
mone ; del qual làlvocon^otto fi valfcro gli AuRriaci, che a TrieRe
s’imbarcarono per Puglia a quel fine
COSI nell'andare, come nel ritorno. Non fu però la Spofa condotta, perchè avendo il Rè differito alquanto tempo
la partenza della forella, in quel
mentre ella s’infermò, e pafsò all’altra vita.
Ancora portò due lettere dell’ Imperador Federigo al Doge Giovanni
Mocenigo, la prima in dau di Gratz l’anno 1478. 24. Settembre, la feconda nel 147?. a. Aprile dal medefime
luogo, nelle quali narra d’aver ordinato che fia portato di Puglia, e Abruzzo
a’ fuoi CaRelli del Carfo, e dell’lRr», «srta quantitk di frumento, e
richiedendo permiflione che fia portata
liberamente; chegli fark unpiacere il quale riconofeerk colle maggiori
grazie. Soggiunfe una lettera di
Beatrice Regina d’Ungheria a Giovanni
Mocenigo Doge nel 1.^1. ultimo Gennajo, dove narrato il fuo defiderio d’avere per ufo proprio diverfe cole da’
luoghi d’Italia; le quali non potendoli
portare fenza permiflione della Repubblica, dimanda che per li^ralitk, e amicizia le fia conceflb, che
loriceverk percola grau, e corrifponderk.
E un altra del Rè Mattia d’ Ungheria
alTiReflb Doge nel 1482. atf. Febbrajo,
in cui dopo aver narrato che la Repubblica era folita a concedere licenza ogn’anno a’Conti
Frangipanni, padroni di Segna, c altri
luoghi marittimi, di portare dalla Puglia, c dalla Marca una quantitk di vettovaglia, e dappoiché erano paflàti
quei luoghi in mano fua, s’era tralalciaio il farlo; pregava che folfe conceflb
l’iReflb a lui, e fofsero fpedite le
lettere fopra di ciò, e date alla perfona mandata efprefsamente per riceverle,
che lo riconolccrcbbe in grazia e
corrifponderebbe. E un’altra del
medefimo Rè ad AgoRino Barbarigo Doge 1487.
18. Ottobre, nella quale, dopo aver narrato di avere bifogno di legname,
per riftaurar una Fortezza nella bocca di Narenu; prega di poterlo condurre da
Segna per mare, e che gli fieno fatte le lettere patenti, ofierendofi a gratificarne anche
incofe maggiore. Aggiunfe aquefie una
lettera di Anna, Regina d'Ungheria, nel 1502
30. Agofto, nella quale narrata la fterilith del paefe di Segna,
pregat dipoter farcondurre inquella
Citth cerca vettovaglia di Puglia, e della Marca, dando al portatore mandato
erpreOamente la lettera della licenza,
offerendo di riceverlo in gran piacere.
Per ultimo portò una lettera del 1504. 3. Settembre, di Giovanni da Dura, Capitano di Pifino, Minilfro
deU’Imperador Maflìmigliano, il quale
ferivo al Doge Leonardo Lotedano, che Jacopo Croato, fiiddito di SuaMaefih, partito da Fianona, entrò, nel
mare il qual i fàttopollo al dominio della Repubblica, per andar a Segna, e fu
aflalito da una barca armata di
violatori del Mare in vilipendio della Signoria; e fupplica che fia fatta
qualche provvifione., Sopra tutti
quelli particolari ponderò quello che meritava di elfere confidcraco, rifpetto a i tempi, alle
pecione, e qnalich de’Principi: e per
maggior confermazione deU’aflcnfo loro, raccordò, l’anniverlària cerimonia di
fpofare il Mare in prefenza degli Ambafeiadori, e particolarmente di quello di
fua Maeflh, e de’ tuoi Antecefibri, coile parale tifate : Dcfpmfamia te Mere in Jigman veri,
et perpetui àominii. La qual cerimonia
febben dagli Serheori è detto che avefle principia alfendo Alelfandro III. in Venezia; dagli
llefli nondimeno ò aggiunto che folfe illituita in legno del dominio acquillato
innanzi jme te! li. Alle 400. querele, e alla fentenza di
Liefìna rìfpofe, ringraziando come di
cofe portate a favor fuo, perché le querele prefiippongono la proibizione; e le fentenze, o
condennatorie, o alfolutorie, provano la
giurifdizione : e intorno alle barche di tale diffe che non furono fatte andar a Venezia, come non fi fa mai
andar alcuna, per elfere proibito
ch’entri in quella CitA l'ale forclliero; e fe non lu gettata in Mare, fu cortefìa, che non dee effer
imputata a pregiudizio. Conchiufe di avere dato il vero fenfo alle
capitolazioni, eprovata la poffelfione immemorabile dell'Adriatico; che avrebbe
potuto dire più cole; ma gli pareva fuperlluo, rollando chiaro per quelli due
punti che la pretenfione era nuova, e la
richiella non poteva aver luogo. I Cefarei, dopo aver trattato infieme,
vennero in rifoluzione di non.
perfeverare nella dimanda per giullizia; e il Barone del Suora apertamente
differo la Repubblica elfere Padrona del Golfo, e potere metter i dac) che le piace; • che cos'i fentivano in
loro cofeienza: ma infieme aa 'be erano di opinione che, per l’onellh, e per
l’amicizia della Cala H' Aulirla,
dovefle farlo col minor incomode de’fudditi di quella che fjf. ;ogibile. DilTero gli altri tre, che
non era tempo di approvare, nc «il contrailare il dominio del mare, ma bensì di
ritrovare per curtefia qualche
temperamento: che la Repubblica riceveflé i fuoi diritti da'UiJditi Aullriaci naviganti, e
folfero levate quelle condizioni che lOno d’ iiieomodo loro, e di nelfun utile
a lei. Furono efaminari diverfi partili,
e fi conchiufe di riferire a’ Principi, ficcome
convenivjTf^erire ogni altra cof.v determinata; eflendo lacommilCone
fotta )aratilicaziomdiefli,elaraunanza
ebbe fine. Ma la relazione arrivò in tempo
T om, It ‘ li che rherimperadore,pcr gi«veinfennid,nonpoMviati«a
animali, e grofli, e minuti. Quefto
accidente difpiacque molto a fua Altezaa, per le circoftanze di efler occorfo nello Stato proprio, ej
contra la fede daa da’fuoi Miniftri; e
con indizio anche molto violenta di complicithcosl attefo il lungo viaggio fetto dagli Ufcocchi per la
giurifdizione Arciducale feima elTer mai
fiati impediti, n- divertiti; come anche attefa la refiituzione btu per ordine
de’Magifttatia’fudditi.loro folaiqente, reftando tutto il danno agli
altri. 1 Miniftri della Repubblica
riputarono che per li danni inferiti non
baftafle rifentirfi cantra gli Ufcocchi fojamente ; ma convenire appref lo in tal accidente, per debito delia
protezione dovuu a’fuoditi, che si
adoperalfeto per zilàrcirli con appreiaglie : opera, che fu fata da una, Galei che sbarcò veriò
Fianona,emcoòvia, febben non uguale numero di animali, quanti gli Ufcocchi
avevano predato, quei perù che fi
poterono aver ne i luoghi vicini, i quali furono ìmmediate diftrihuiti a
proporzione a dannificati per rifacimento. Per quefto fetto gli Ardwali rimaUi alla
Corte. Ceferea, dopo la jarienza del lor» padrone, fecero grave lamento, che
fua Altezza foT(e fiata provocata da’Veneti nelle terre fue patrimoniali lenza
nelTuna olTela precedente dal canto fuo
e de’fuoi fudditi; e rifpondendo a chi
loro opponeva la prenarrala, che non era con violazione della giurifdizione
Veneta; che toccava a liiaAlteaza rifentirlì come di malecommellb nello Stato
Tuo proprio ; e che prima del partir fuo da Lintz aveva rifolnto di volerlo fare ; quefia
rirpolla fece maravigliare ciafcun intendente delle leggi, e del diritto delle
rapprefaglie, che appunto fi concedono,, perche quegli, cui tocca fare
riTeniimento contra i malfattori colla
giuflizia ordinaria, non lo là. Ma la
Maefh Cefarea, acciò, moltiplicando le offeCe^ non nafceflè qualche grave fcandalo, fcrifle lettere all’
Aroiduca, cfonandolo efficacemente a
mettere la mano, e provvedere. Mentre a Gtatz
fi configlia come foddisfare alla volonà della Maeflk fua, accollatofi
il verno, quando alle guardie riefce dannofo lo Ilare lungamente in mare,
fecero gli Ufcoahi diverfe furtive,] e improwife ufcite. Diedero fopra l'Ifoh d'Ofléro con generale
preda delle due Ville di Luffin,
fpogliatt delle proprie vedi fino i fanciulli, e le donne ; baflonati, e feriti quelli che fi dolevano, e
pregavano di mifericordia ; e fopra Pago fvaligiarono la Villa di 0>lune, e
poi lo Scoglio di Proveechio appartinente all’ Ifola di Veglia. In mare
non perdonarono a Valbello di
qualGvoglia fora, non fo!u rubbando ; ma
ritenendo i marinai più principali, e dando loro rl'-rtco. Tanti inconvenienti, e le lettere della Maellh
Cefarea m..ro.o finalmente il
Seteniffimo Arciduca a mandar a Segna il Signor Ha’:, Baron di Echembeig, General di Crovazia, accompagnato
i! a buon numero di faldati, parte
Tedefchi, parte del Contado di Gorizia, acciò potelTe sforzare i contumaci, e regolare quella Cittb.
Qucito Signore, giunto in Segna, con
fcvero comandamento fece adunare il bottino^
delle teire di Luffin, e altre del dominio Veneto ultimamente fatto, e
fece pagar lire quaranta per tclla a cinquanutrè Ufcocchi che intervennero a quella preda, pel
mancamento che fi poicffe trovar in efla • Fece un bando, che io termine di
quindici giorni tutti i Venturieri fi
prefentaflero a lui, altrimenti reflaflero banditi colle loro famiglie; de’
quali una parte ubbidì, e un altra fi ritirò alle montagne. Dopo aver fata più volte la moflra, e
rafiegna di tutti, improwifamentc ne imprigionò noi CalleUo trenunove, nel qual
numero furono i C^pi tutti, e alcuni anche di baffa lega, e degl’ infimi ; a’ quali tutti fece immediate
fvaligiare le cafe da’ Tedefchi condotti ficco ; e per sé pigliò l'oro gli
argenti, le fete, e altre cofe di prezzo
; immediate fece tagliare il capo a quattro Ufcocchi, ladri, ma uomini lenza
feguito, di baffa condizione e de’ più
miicrabili. Fu anche Autore che in Bucati foffero imprigionati da quel
Governatore due Ufcocchi fuggitivi da Segna ; e ne| giorni feguenti imprigionò, e fvaligiò la
cafà ad alquanti altri ad uno ad uno ;
fece correr voce di volere lafciar in Segna pez
guarnigione cento Tedefchi, e cento nativi di quella Citih lolamentc, e
trafponar* gli altri in Ottofàz ; ma indi a pochi giorni gl' intTom, II. ' li I
prt prigioiuti, eh’ erano al numero di trentarei, avendo dalle lorofacohì, e dagli amici, trovato modo di ricompetarfi,
pagando tutto quello che poterono,
furono liberati T Non ardf peri egli di liberare apertamente Vincenzo Carlinovicli, capo, e autore
d'innumcrabili mali, particolarmente del barbaro trucidamento di tutti i
faldati, e pafleggicrì della Galea, e
dell’atroce, e hera uccifìone del Sapraccomito, febben donò grolTamentc per cjuefla caula; ma lolo gli
diede modo di fi'^ire. Fatte queue
elecuzioni, mandò il Conte Cefana a parlare col Generale Veneto, e dargli parte
delle caufe della fua miflìone, e richiedere che foITcro aperti i palli,- folTe
reflituito il commerzio, offerendogli, quando dcfiderafle alcuna foddisfazione
particolare, far tutto il poflìbile,
acciò la ricevelTc. A quell' uffizio il Generale corrifpofe, nar. rande la mente della Repubblica elfer tutta
volta alla quiete, nò altro efla defiderare, fe non l'cfecuzinne delie promelfe
fattele.- che i Venturieri toffero tutti
fcacciati; non folfe dato ricetta a’banditi; e
foOero levati i ribaldi dal nido dove ricevono comodo di offender
il vicino: che, quelle cole fatte, egli
troverebbe in tutti iMiniflri della
Repubblica una perfetta corrifpondenza di buona vicinanza.- mi non fapeva
gik come perfuaderfi di vedere melfo in opera quello debito, men. tre le reliquie della Galea erano nel porto
di Segna, c Icartigliericfopra le
muraglie, e gl' imprigionati gittflamente per quello, e per altri midatti,
liberati, ^uell’ uflizio non ponò in confeguenza alcun buon'effetto; anzi i Capi gl'; tmtti di prigione Aitoiio
onorati, e favoriti, particolarmente Vincenzo Carlinovich Ji fopra nominato; il
quale, dopo effer fuggito, gli donò,
oltra le cole dette, un prigion Turco, a cut era fiata impolia una taglia di quattro mila
ducati. Non loto egli fu richiamato in
Segna, ma gli fu dato uno de' quattro Capitanati, e fu pigliato tn protezione di- fua Altezza
Fu. pgfta m -filenzio la traslazione in
Òttolaz ; i rifuggiti alla a poco
prefero annuo di ritornare e il
Generale, dopo tfere idtlBoylftin quella Cittk circa cinquanta- giorni, parti
ioicp ^ conto a fua Altezza delie cofe
fatte, e ricever ordme mnllielle che
doveva fare, lafciata parte dei prefidio de’ Tedcldtt che feco
aveva condotto, e Iparla fama, che Ira
due mefi farebbe ritornato. Pigliò in
compaoM fua Vincenzo Carlinovich, per condarlo alla Corte, e fargli comennare il Capitanato. Candulfe feco
dodici cavalli da foma, due carichi tra
danari, e argenti,- dicci carichi dipanni; e altri lavori di leta, tappeti
prcziolì, e cùmbelioti cavati, parte da’ prigioni che liberò, e ^rte dagl’altri cbe.^ «menda il
medefuno, prevennero la mata .ortuna,
avendo .reBdutaiquclla gente piò avida alle prede coll'inpoveiirla, aggtula impalilo di chi,
ellratto dalle giumente tutto il latte,
le manda. a PUtdo altrui, acc^ fi riempiano
delle foflumze di altri'. S' ceno che in danari portò via cento cinqoanta
mila fiorini: di quanto prezzo iblfcro le altre cofe afporiate li parlò variamente; c, quello eh' c notabile,
appropriò anche a sè quello che,, raccolto aveva de’boitini fatti ultimamente a
Lufiìn, e a Collane. ( Immediate dopo
la fua partenza ritornò in Segna il rimanente di quelli «h’ èrano fuggiti alla. montagna, e
iodi a pochi giorni parti la
Campagoiade’Teddchi, da lui lafciata^ per mancamento di viveri ; fe però
ciò non fu piuttonopretefto, cheveritli; e quello fu il fine limile in tutto a
quello che le altre milfioni Je’ CommilTar j hanno cotifeguito; fe non che
quello eccede, avendo non participato, come gl’ altri, ma prefo il tutto, e
lafciati gli Ufcocchi dirguflatilTimi, che fi
querelavano al Cielo dell’ ellorlioni fatte all’aperta, e fenza alcun riguardo;
e a bocca aperta dicevano ch’egli aveva potuto operare con confidenza tutto quello che gli tornava
meglio, confidato nella potenza del fratello, uno de’ piò favoriti Minillri di
fua Altezza. Il medefiliao Capitano Frangipane rellò tanto difgullato, che
rinunziò il Capitanato, e fi ritirò alla fua terra di Novi, feben la rinunzia
alla Corte non fu accettata. Ma i
Minillrà Ifeaeti, dopo il facco generale delle terre di LulTin, di Collane, c di Porpecchio, gih preparati al
rifacimento de’ danni de’ fudditi,
intefo l’ordine dato da fua’ Maefiò, e poi la rllbluzione di fua Altezza coll’attuale milfione
deU’Echemberg, giudicarono bene fopralTedere, e afpeturo le provvilioni che
folTero da lui fatte: e quando intefero ch’era raccolta quella preda per ordine
fuo, tanto piò lì confermarono che
convenifle veder feCto. Ma udita la fua partenza da Segna nel modo deferitto, irritati, maICme
dall’ aver applicato a sò il bottino
fatto io quelle terre, vennero in rifoluzione di rilarcire ì fudditi colle rapprefaglie, cosi per
conlolazione loro, che, veduti i
finillri andamenti, s’alìliggevano, difperati di poter vedere folievamento
; come ancora per gaitigo, e per metter freno a’ misfatti; e il Ca S itano del
Golfo, pollato nella riviera di Valofca, e Lovrana, depreò quelle urre. Ritrovò
tra le altre cofe alcuni maggazzini con molta quamitò di frumento, biada, e
farina, che raccolta dal Contado di
Pifino, era ivi polla in rilerva, per ellòre condotta a Segna; della quale
riputaudo necelTario privarne quella terra, ricatto de' ladri, nè potendo afportarla, ordinò che felTe
abbruciata; e palsò l’ incendio oltra
quello che fu creduta, parte per la vicinanza degli edifizj, e parte per gli
eccein de’lolJati, in modo che rellarono molte cale abbrociate; e fu maggiore
il danno del fuoco, che delle robe tolte,* le quali elfendodillribuite a'
danneggiati, non ballarono per rifarcirti iKlIa meth. Non rellò oifefo alcuno
nella perfona, e leChiefc rellarano intatte per efpreflo comandamento del
Capitano; e quantunque la principale li rìtrovalfe piena di frumento, quello
rimale lalvo per rìverenaa del
luogo. Un’altro accidente fuccelTe
nella fortezza di ScrilTa, con altra nome chiamato Carlobago, eh' è uno dc'fcUi
degli Ufcocchi dirin^petto, e tre miglia Iblamente lontana da Bagof Ctuata in
luogo eminente della Morlaca, che domina tutta quell' Ifoia, la quale dagli
Ufcocchi di quel prcfidio viene dannificata, non come gli altri luoghi, alle
volte, c con intervallo, ma perpetuamente; avendo quelli della Fortnza
comoditb, come da luogo* fuperiore, di veder dove li facciano le adunanze dì animali, andando
appoftatamente a' luoghi, e fenza
fallóe. Gli Ufcocchi che guardavano quella Fortezza, ben confapevoli
deV^difperazione degl' iTblani, e quanto fitrrebbono Rati pronti ad attentaW|,ogm cola, per lìberarfi, penfando
di ulare la miferia e femplicitò dt poveri uomini per mezzo di acquilbr premj
da i loro Padroni, ouMuoaiono un
trattata doppio. Negoziarono Con ogni for ta
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u di apparai u di rcaltii, e promirero al Conte di Pago, che ad ua legno ravrcbbono introdotta nel Callello.
Dall'altro canto mandarono a Segna ad
avvilàre il trattato, donde fu immediate fpedito fegretamente Paolo Dianifi
vich con 30. Ufcocchi. Al giorno deilinato il
Conte, prefa una parte di una Compagnia di foldati, ch’era alla guardia
ordinaria dell'Ifola, e buon numero d’ifolani, al fegno dato andò; ed
elTendogii aperte le porte, lenza ufare le canzioni debite, e folite in fimili occorrenze, molto
fcmplicemente entrò il primo, e fu
feguito da tutu la gente con molta confufione: furono immediate colle
archibulate alTaliti dagli Ufcocchi, che ulcirono dalle infidie, onde renarono morti il Conte, e il Capitano de'
foldati, e alquanti de' primi; e degl' altri parte fuggirono, e altri
circondati furono tagliati in pezzi, e
reliarono morti quaranta foldati, e altrettanti uomini dellIlola, perduta la
bandiera cosi degl’lfolani, come della compagnia de' faldati, le quali dagli Autori del doppio
trattato furano portate prima a Gratz alla Corte Arciducale, e poi anche
aH'Imperiale, per ricevere premio. Quello fecondo accidente fu fentito in Segna
con piacere; nè è maraviglia, poiché fu operazione degli Ul.occhi; ma è ben maraviglia che fentUfera con gudo il
fatto di Lovrana, quantunque folTero reftati privi della vettovaglia, (perando
che per quello foffe loro concefla aperta liberà di Icorrerie dal loro
Principe, 1 Miniftri di fua Altezza
fecero gran lamento alla Corte CeOirea
per tutti due quelli fuccelD, ehtgerando il primo per l'importanza
del unno, e il fecondo pel rilpetto
della Fonezza; e aggravando, che, per
elTere terra della Corona di Ungheria, era flato tentato un’atta odile contra la Maelà Cefarea principalmente.
Ma quanto al fatto di ScrilTa tre cofe
dicevano i Veneziani.- Prima, per quello, che tocca gli Autori del doppio
trattato, che le infidie tele a quei poveri
innocenti furono effetto della perfida di quella gente, che tempre
da nell' inventare modi di feminare dilcordie
tra i Principi, per confervarfi nella licenza del far male : poi per quello che
appartiene al Conte, e a gl'lfolani di Pago, che il loro hne di liberarli dalle
molcdie degli Ufcocchi m qualunque modo
fu buono, elfendo per necctfaria di^; ma
il difetto di prudenza, in non faper dtfeernere un trattato finto, fu alfai
pagato da loto colla vita. Ma per quanto tocca i Principi; che il tentativo, quando fofTe
anche riulcito, non avrebbe avuto fine
con ofiela della Maedi Celarea : e per fede di qtu-do, nartavano che nel I5pz,
avendo gli Ulcocchi di Scnlfa fatti danni notabili in Pago, il General Veneto
aflaitò la Fortezza, e la prefe; e pochi
giorni dopo mandò a lignificare a’Commcflài; Celarci, che allora erano in
Segna, non aver avuto altro fine, che di gailigare gli Ufcocchi con ogni rilpetto allaMaedli
deU’Imperadore ; però mandafléro altri Soldati, che Ulcocchi, per guardarla,
che l’avrebbe confegnata: il che quando non aveffero fatto, egli però non
intendeva di tenerla, ma l'avrebbe
fpianata, acciò i Turchi non fc ne impadroniffero,I CommelTarj mandarono nn
Capitano Tedclco che con loro era, al
quale fu coniegnaca immediate ; ficchè l’Imperadore non udì prima la piefa, che la confegnazione, e cosi fua
Maellk, come 1 ' Arciduca Ernello, che
allora governava per la minor eih di Ferdinanda, iniele le caute dd fuccelTo,nan riputarono che loffe
coatta la buona intelligenza. Ma tm,
cucilo che m yiieuQ» er* coavci^ito : e w u ui i»»** m fe cob impofllbile^' e «he le «ofe opecue
ae',mfnifto Veneti so» Mfero i>er neceflitìi di fjcurexza, o per ^ullo
riiarcu^to de duni dp fudditi, ccene
predicaveng poifhe non era proceduto
al,cim dannolgro dagli Ufcocchi, ma eia uea pigvof^iaM, e dUwne di oneUcw intacco della riputaaiooe di fua AIuim^ la
|luaU> quando non joDe reintegrata
colla relUtuzione, e con laftiare libero il
naceva effer falvan, fe non colla guerra; non manundo chi loltenelle la
parte de’ Veneziani, rifpondendo, non eflere biu^lp> di dilcono, ma d’infpezioae g dimollrare, fe Taccordaito
fofc (lato adempiuto, vedeodofi tutti gli Ufcoecbi ritorngti in ^ nazioni, e incurlioni non pib per intervalli
di Wpu, continua ferie di oSéfe; non i
Qipi, ma alcuni miferi, S'“' lÙzìati
per fola apparenza, eflere de’meno colpevoli ; che niente eia dato operato dai Miniftti Veneti, fe no"
8^*" prvocazione : u ìucccflo delle
barche ptefe efler originato dalle prede, e da altre mgiuM precedentemente latte : quello di tovrana
elfete dato una giuda corrifpendenza per li gravi danni di Lufm^ C Collane; eia
dilazione ^r a(pettare, le TCctiemberg avefle provveduto, non dover
pregiudic^.; ft il tempo ÙKcrpofto
ildanno, e'J riiarcimento, che non amvòa
tje meli, poteva date nome d’ illazione d’inporia a quello che tu ^ bcimento differito; mentre vi ea mgione
d’afpettar® 1 *• • andava pubblicamente lettera del Vedovo m
"S"*» fu-itm ad un'altro
Prelato alla CorteCeiàrea, la quale attribuiva all Eehembere la caufa di ogn’ iuconvcnience,. •
i. la Maedh Cebrea, eccitata dalle
moltiplicate querimonie ^ ambe k P*^ti,
oosi precedenti b mildone deU'Echemberg, come fmeguenti la partenza dì gnello, deMftnla di metter
fine a cmi moleuo oMOaio comandà m fuo Gonfiglio c!« vi applicaffe 1' apirao
con maggior ac^ratczza- e fu tifiJuto di
tenere una confiiltazione, nella qi^
veniflè ancora l’Ambafcbdor Veneta, accib con difculjone di ambe If parti più beilmente foffe trovato lo
fpediente. Furònoanclie rn^rnu in ConfinUo l’ Ambafciador Cattolico, e il
Fiorentino, Minidti di Prìncipi
cerumente colmi di bonth, e giudizb, c cosi «ingiunti cm SereiiiBimo Arciduca Ferdinando, che per fangue,
e ^nith, umpoifeno effer più prollimi. Non è certo fc foffero inv.tar^ per
«Viatori non parendo che nè delluna, nè
dell’altra gualuh Vi toffe bilb to.
In^lU Raunaiua, dopo tango dihaKimento di tag^, fio», fu conchiulbche,
affermando una Wtte di condii, e negando
1’ altra, hifognava vederne U venb ; e perù cho
l’impcradorc fpeditehbe immediate Comminino a Segna, P« •j?’’ cuziow aUe cofe concordate, quando nttovaffe
™ efeeuita msiù fi eSèttuerebbe in
termine di un mef; Che la EepabWica pm
irebbe manèbr Miniftti ivi, non per trattare, maperap^e >.f afficutarfi cha in acfiun conto fofte
.mancato; nmeirouJo P*” mandar, u non
^uUlfcre, come' meglio le foITe parato ; e fn tanto da ambe le pari? fi fofpendcflero le oflefe.
Fecero iftanea gli ArciducaU. che folfe dichiarato dovcrfi imendcrc lotto nome
di fofpendeofTcfe, il celTare di tenere le terre rifirctte ; inretelTando
qtiiden^ tn f-tmpenidqre con dire, non
elTere dignità di Celare operare cola
U'Rnubblica teneva la Ipada in mano minacciando, tóme fe per foni .'\^i^e. cnftringete foa
Maefià ; e tanto maggior, mente, quanto
elm ipcótnIiilMfva a far fatti colla milTione di CommilTario. Ma daU'ahta ^He
era confiderato non potcrfi fperare che
'la Repubblica condifcendelTe ad allargar comodo a' ladri di
faredam ni ma^iori, avendo tante volte
veduto che mainon erano flati aperti i pam fenza quella confegnenza; e che
larebbe difficile farla venir a fatto
cosi importante, non dando in cambio altro che. parole: imperoccl)^ la miluone
innanzi che il Commiflàrio aveffie eleguito con-, fiflcva in parole, e non i fatti; e che non
teneva la Repubblica le arme in mano per
minacciar Principe alcuno, non che fua Maeflh, fcmpre olTervata, come metiu
tanu dignità ; ma folo per difendere lì flelTa, e i luoi fudditi.- che le
continuate dimoflrazioni diperpetua olTervanza della Repubblica verfo quella
Maeflà non lalcierebtono entrare Cmili conce tti ; e la virtù dell’ Imperadore
renderebbe certo ognuno che farebbe molto folo dal fuo religiolo animo, e per puro zelo di giuflizia: anzi,pinttoflo
che potelse el'ser alcritto a timore di
quello ch'era per debito di religione, e di promelsa, potrebbe dar a molti
maraviglia la dilazione neU’eleguirlo - I Celarci con^ chiufero che alla Repubblica fofsc rimelso il
levare, o non levare le guardie ; e folo
ballar loro che operalse in tal maniera, che il
Commilsario potelse ftar in quelle terre con dignità di Sua Maeflà. Di quella riloluzione fu data parte all’
Arciduca con lettere Impe. riali; c lua
Maeflà ordinù al luo Segretario refidente in Venezia, il quale accompagnò con fua fpezial lettera
credenziale per quello particolare, d’ efporre, come anche, dopo aver
prclentata Inietterà, efpofe,cbe Sua Maeflà aveva rifoluto di mandare
Commilsario a Segna, per vedere,
intender, e regolare tutto quel negozio, e fare quanto conviene alla buona vicinanza: che pregava
Sua Serenità a dare que. gli ordini le
parefsero concernenti pel .buon fuccefso, ed effetto, di quella fptdizione- A
quello uffizio, degno della religione, e giuflizia di tanto Principe, iu corrifpofto con
lignificare al Segreurio quanto fof.fe grata la comunicazione di mandare
Commilsario a Segna; e con quanto
maggior contento si avrebbono intefi gli effetti; aggiungendo, obblazionc di non tralalciarc cofa alcuna,
per foddUlàre Sua Maeflà, e per far ogni
dichiarazione co’ fatti dell’animo fempre diipoflo. a continuare in buona vicinanza: e con
lettera di fpeziale creanza peri’
Ambafeiadore le fece dire lo fleflb- Fu gratiflìina a’Veneziani quella
deliberazione dell' Imperadore, cosi per defiderio di veder il fine delle moleftie; come per efsere chiaro teftimonio
che Sua Maeflà medcfima non feiuiva
efsere flato mancato ad alcun debito di csnvenicnzaquaqdo non fu maudato alcuno
a trattar col Conte Aluni, e coi CoUeghi a Fiume. Diedero immediate ordine al
Generale di Dabnazia che fofse fatto
ogni onore, edita ogni comodità a quello che per nome di Sua Maeflàandafse aSegna,
einqualunquealtro luogo di quelle marine. Deliberò Su* Maeft^ mandare per
CommiBario Giovanni Prainer, Governator
di Giavarino, pcrfonaggio di gran qualità, reputato giu(lo, di valore, e con
riroluzione; il quale lebben fi ritrovava allora in Ternavia per negoziazione importante (opra
le cofe diTranfilvania, lo fece andar
alla. Corte, e lo fpedi con iftruaione, dcU* if capo principale fu di vedere fe il trattato
di V^nn* *t* eieguito; c fare quello che
fofle neceflarip per total efie^uaione; con ordine che andaflc prima a Gratz, conferifle
l’iftruzione coll’ Arciduca, e immediate paflàlTe a Segna per l’ cfecuzione ;
tenendo per fermo che avelTe Sua Altezza
lo lleflb fine, e defiderio di una buona provvifiione ; e folfe per coadiuvare
; aggiungendo alle iftruzioni imperiali le fue maggiori faciliti, e la lua
fermezza. Andò il Prainer a Gratz, e
dall’ Arciduca non gli fu ^rmeflò il
palTare piò oltre; ma rifpedito indietro nel fine di Luglio con rifpolla
in ifcritto alle cofe da Sua Maefti ordinate; la (oftanza della quale fu ; che non poteva aifentire al levate
gli Ufcocchi, e fare le altre cofe
ricercate dalla Repubblica, mentre quella (lava armata, per non dare fegno che lo facefie fer forza,
e violentato; ma, levate le armi, (irebbe pronto a far il tutto: anzi che gii
aveva incamminate le cofe ad ottima difpofizione, avendo ridotto quel prefidio,
che richiedeva due cento mila fiorini per le paghe (corfe, fe doveva partire, a cento mila, con ifp«anM
di ridurlo a molto meno : onde, levato
lo fcrupolo di apparir violentato, metterebbe
mano all' opera - Siccome il veder partire dalla. Corte Celar ea
cjucl perfonaggio con tanta rifoluzione
di Ccfare, del ConCglio. Imperiale, e
fua propria, di metter fine all’ imprefa, fece tenere quello travggliofo
negozio, per ridotto a buon yalTo; cosi la canfa, perchè fu rimandato indietro, diede gran maraviglia;
poiché avendo confideratamente rifoluto la Maefti Celare*, Principe fupremo, e
Padrone della regione, che la miffione
d’ un CommiOàrio fuo non derogava alla
fua dignità Imperiale, non pareva eOervi coperta di pretendere che derogane alla riputazione Arciducale. Non
mancava chi artribuilfe il male a’Miniftri, che, non volendo il rimedio, nè per
termine di buona vicinanza, nè di amicizia, nè di colcienza, nè in qualunque
altro modo, non potendo addutrefcule apparenti, nonaveftèro rifpetto di dare nelle ftravaganti, purché in qualche
modo impedilfero l’effetto. Il ritorno
del Prainer non fu di gufto alla Corte Ccfarea, parendo che folfe con poca
dignità di quella Maeftà, che una riloiuzione prefa da lei confideratamente,
con aflìftenza, e approvazione ancora di Ambalciadori di altri Principi, e di
uno 'cosi grande, come il Re Cattolico,
c fignificata anche elprcltamente a Venezia,
folfe attraverfata fenza ufar almeno qualohe colore di riverenza; e con chi ne parlava con loro non fapevano
fcufarla, fe non con riftringere le fpalle, o divertire il ragionamento.- e
ficcome a Venezia riufcl molefta,
privando della fperanza conceputa, cosi certificò che, quando i Miniftri Arciducali rimettono
qualche cola all‘ Impcradore, ‘lo fanno
per futterfugio, ma tutto proviene da
loro. In quello mentre gli
Ufcocchi, che fono temerarj in ogni imprefa, e inconfiderati del fine che ne
polla feguire, fecero molti Tom.'JJ Kk
tenta x 58 storia tentativi; che, per la grande oppofizione,
non poterono mandar ad effetto, le non in cofe leggiere, che non meritano di
edere memorate particolarmente; ma ben
occorlc quello che luole partorire la lunghezza de i negozj, quando ogni minima
preparazione di arme fìa in edere;
imperocché le lòfpezioni che nalcono, e la inquietudine defoldati, le minacce
che alle volte imprudentemente cleono di bocca, aumentano le diffidenze ; e il
lungo negoziare caula motivi di ofiefe,,
e le nuove offde aUungano il negozio.
Avvenne che Niccolò Frangipane, gih nominato per Capitano di Segna, e Signor di Novi, adunò in queffa lua
terra, quindici miglia lontana da Segna, molte vettovaglie, e altre provvidoni;
condulTe quivi le armi, e le munizioni, e tre pezzi di Artiglieria della Galea
Veniera; e li fece mettere fopra le muraglie; e vi condufle numero maggiore di
Uicocchì, che diede veemente lolpetto al Generale Veneto che avelfe in trattato
qualche importante imprela; e fì
accrebbe Ve fbfpezione, perché, dopo efler (iato rimandato il
Prainer da Gratz, e pubblicato che fua
Altezza non alTeniiva all' accomodamento, andò a Segna Groffredo Stodler, al
quale davano titolo di Prendente, con
numero di foldati, e aveva in compagnia il Frangipane. Quefh mandò a vedere la
Fortezza di Scriffa; icorfe a Fiume, e a Buccari, trartenendofi in quelle
regioni quindici giorni; ne ì quali
furono molte andate, e ritorni di Ulcocchi da Segna, così verfo Scrifla, come anche a Novi, che milèro
in gran timore glilolani di Veglia, {limando effì ciò cfTere fatto, o per
qualche imprefa iopra di loro;o
perfermarvi dentro per ordinario una cosi numeroLa guarnigione di Ufcocchijchefc^effata unacontimiadiftruzione
deU'UoU. Ne fecero gran lamenti col
Generale, pregandolo di liberarli da quel pericolo. A quello fi aggiunfe che 1* armata Veneziana,
la quale (pedo tranntava di là, vedendoli quell' artiglieria dinanzi agli occhi,
fi commofle talmente a fdegno, a
vendetta, c a defidcrio di racquìflarla, che i Opitani, confìderata la facilità
della ricuperazione, lo efqftarono all’
imprefa. Egli, per prevenire i mali desìi nolani, non fenza cauià temuti*, e
per rilarcimento della pubblica dignità, le cui armi erano tenute come trofei
degli Ulcocchi, venne in rifoluzione di alTaltar quella terra, e Imantellarla
*, e diede gli ordini necelTarj, non
loto per effettuare 1* imprela con ficurez21, ma ancora per farlo fenza danno
degli abitanti Fu la terra, che é
iìtuata lopra il mare, affaiita una mattina con pettardo, e Icalata così ordinatamente, che non
morirono in quell* adalto di quei dentro
le non venti che fecero olìinacamente refillcnza colle arme in mano ; rellarono intatte le Chicle, e 1’
onore delle donne *, fu ricuperata
rartiglicria, e abbattuto il Torrione ; e le mura furono in divede parti aperte
: ciò facto, il luogo fu abbandonato, e
iafeiato in podelVà degli abitanti • La fama del lucceffo, come fpeffo avviene, paffò a Gratz amplificata,
effendovi flato aggiunto, che foffe
fiata ulata crudeltà contragli abitanti, conculcazione di reliquie, incendj, e
diffruzione di Qiiele : rumore che predo Ivaì\\, cflinto dalla verità ; poiché
fi videro reflatc le Chicle cogli
ornamenti loro nell’ effer iftcflb ; c nella terra non vi fu veftigio di
abbruciamento alcuno, Ma da quella Corte, immediate doporavvifo, fu fpedito un
Corriera all'Imperadore, aggravando il fucceflb; e furono aggiunte alle querele, per qucDo accidente, altre ancora,
per un'ordine dato antecedentemente dal Generale Veneto, col proibire il
commerzio anche per terra; e una fama dagli Ufcocchi liudiofamente
dilfeminata, che Segna dovelTe eOere
aOaliu. Ulàrono ogni arte, affine di perfuadera che la demolizione di Novi
folTe una rottura di aperta guerra. Alla
Cone Cefarea non la tennero per tale ; piuttolio ebbero opinione che a Venezia, veduta la milTione
del Frainer con ampie commillioni di
rimediare, e come a mezzo viaggio era (lato rimandato indietro, fofle (lato
giudicato necefsario fare qualche motivo,
non per rompere, ma per eccitar al rimedio che (i andava procra(linando;
non parendo che l'aver aperta la Fortezza, e 1' averla ab-, bandonata, mentre
ft avrebbe potuto ritenere fenza timore che fofse ricuperau, folfe indizia di volere pafsare
pid oltre.- anzi dicevano i Veneziani
quello efsere chiaro indizio che lei mcC prima il Conte di Pago non ebbe penliero d' occupare Scrifsa,
ma di levare folo a quella il poter offendere la fua Ifola. Ma lo Stodler, e il Frangipani, quelli,
peldanno della fua terra, e ambedue forfè perchi folte prevenuto qualche loro
difegno, fecero uffizi cos'i efficaci, che fu da Grata daa libera licenza agli
Ufeocchi di far tutto quel male che potefsero; e a loro data facoltà di levare parte della milizia di Crovazia,
per fare rifentimento : per lo che
immediate in Segna rilarcirooo, e armarono tutte le b arche al numero di venticinque; unirono tutti gli
Ufcocchi fparfi per I» altre terre della
regione fecero diverte ù^e, ora in. molto, ora
in poco numero.- non perb riulcl loro di poter metter in efietto dìfegno
alcaao, perchi i Veneziani ancora erano beo preparaci, e avevano accrefeiute le lOTOforze; e quandonon
potevano impedire gli incocchi
daH'ufcire; ufeici. Li perlcguitavano fenza lafciarli fermar in luogo alcuno., Di tempo in tempo cha gli avvili degl'
accidenti giunfero zGrat^ furono anche
di Ut fpedite IlaRctte, per dar coniu all' Imperadore de'fucceffi, con
interpretazione che fofscro oifele priucipalmence inferite a fua Maella; e che a lei coccalse mentirli
colle armi; portando diverfe perfuafioni, per indurla alla guerra. Con tutto
ciò a quella Corte non fi defilleva dal
trattare negozio di accomodamento; •
tutta la differenza era da qual capo cominciare; iltando i Celare!, conforme alla volonih dell'Àrciduca, che s'
mcomincialse dall' apertura de'paffi; e i Veneziani dal levar gli Uliocchi
dalle marine: quelli, comendando le opere fatte dall' Imperadore me la
concordia, che farebbe (eguiu ; fe da
altri non foire fiata impedita ; e la
buona volontà di far il di piò che fi poiefse con lua dignità ; efortavano
a corrifpondergli con quella dimoflrazione di onore ; confidando oeUa fua
parola, acciò potelse proleguir innanzi, fenza far credete al Mondo che lo
tacelie sforzato ; e dall' altra pane a' Veneziani pareva «(tc nefsuno fi potcfse dolete e di
quello ch’era (lato fatto per difela,
ei;blicarc il bando contra 41 Peuzzo
co’medefimi termini da lui ulàti. Ma mentre era olirà il Itorrente della RoCanda, confine tra i
territorj Arciducale di TricRe, e Veneto di Muglia, in dalle genti di quei
luoghi avvertito «he in quelle marine
erano certe faline del Pcuzzo fabbi icate, e che alla bocca della Rofanda erano fiate da chi
fi fofie riedificate alcune, uhc già
circa quarant’ anni di nuovo erette, furono in quel medeCnoi tempo tUfirutie
come quelle che fpingevano il torentc lopra
«onfiui del vicino con gravilfimo danno. Per quelle caule il Prov.veditort,
non -parendogli avere iàttoalfai per reintegrazione dell’onorefuo cqiKra. if
Petazzo ; e per levar le novità fitte a’ danni di quei «onfioi, deliberò di andare alla devafiazionc
: e mentre chiamava in •jnio una Galea,,
e congregava le barche che per l'opera erano necedàrie; difcele in quelle parti
b geme che col Terlatz,e col Franco! veniva alla quale s’erano aggiunti altri
ancora per viaggio, moffi dalb fperanza di rubbare : Andò il Frovvediiote con
buon numeio di padani, per far l’opera, e co’foldaci, per guardarli, e difenderli.
Il Petazzo s'aflaiieò per far loro impedimento,- ma non gli riufcl. Mentre però
quelli fi trattenevano nelb difiruzione degli argini, b gente di ’Tcrfatz venne in loccorfo del
Pcuzzo in numero di 3000. dalb -quale
allaltato il Provveditore nel ritornarfi, eflèndo fopr^tto il numero tanto
maggiore, non eOendo -con lui fe non 800. perfo' ne tra a piedi, e a cavallo, dopo aver
combattuto, e fatto rcnUen. za a (juella
milizia, gli convenne cedere alla forza maggiore, e ritirarfi in Muglia. Durò
il conflitto due ore, nel quale intervenne la
morte di 12». de’ tuoi con alcuni feriti, e dalla contraria con perdiu
di alquanti mentre il combattimento durò dal qual lucceflb inanimiti gli
Arciducali, eflendo loro anche fopraggiunto qualche numero maggiore di
Cavalleria di Crovazia, fcorfero tutta l'illria ; mettendo ogni cofa a fèrro, e
fuoco, e depredando, e fvaligiando tutto
il paefe. Reitarono tutte abbruciate le Ville di Ofpo', Abrovizza, Bettovizza, e Lonchi; e in quella, ch’era
aflai ben abitata, fpogliarono le Chiefe, guallarono le Immagini de’Santi,
gettarono in terra il Santilfimo Sagramento, per afportare la pillide
d’argento. Fecero l’illcfl'o ancora nella terra di Marceniglia, e ne’territor;
di Barbane, e San Vicenzo ; Poche delle Ville non murate rellarono eienti
dall’ incurfione di quella gente, c
maflime dagli Ufcocchi, che ufarono ogn’
immanità contra le perfone, e ogni rapacità comra le cofe divine, e umane: il
che loro fu ^cile, effondo la Provincia tutta aperta, ed efpolla alle
fcorrerie. Per dodici giorni durarono gl’incendj, ne’ quali rellarono abbruciate, oltre alle
terre nominate di fopra, Xafe, Grimalda,
Rofarolo, Figarolo, Recatovi, Valmorola,
Craficchia, Sacemo,Cerncza, e Barato, le Ville del territorio di Dignano,
c molte di quello di Rovigno; e pareva quafi che tutto folle fatto affine di
devaftare tutta la regione, acciò, combattuti poi i luoghi alquanto minuti, fblTe loro facile
occuparli, e fortificali dentro. Tenurono a quello effetto l’oppugnazione del
GaQello di Dra f uch, donde furono ributtati, e colli etti a ritirarfi,
abbruciato il orgoj. Avvenne l’IlelTo
alCaflello diColmo. Indi in maggior numero, con maggior ordine a bandiere
fpiegate affaltarcno Ducallelli, come
luogo- di confeguenza, dove diedero fcalata,e con tutte le forze tentarono
l’oppugnazione; la quale durò quattro ore con. morte di molti degli aflaliiori, i quali in fine,
coflretti a ritirarfi, polero fuoco in
tutte le Ville del contorno per dove palfarano: Ma etTendo giunta milizia di
Corfi, e AibaneG, fpediti immediate che capitò l’avvito delle prime
devallazioni, furono coflretti gli Arciducali
ad abbandonar l’imprefa difegnata di occupar l’I Uria; la quale i Veneziani,
ai efa 1’ univerfale devaflazione del paefe tutto, e gli affalti de' luoghi
forti, tennero per principio di guerra formale; e fi coiw fermarono poi per quello che legul pofeia
immediate : imperocchi i Capi
Aiiflriaci, perduta la Iperanza d’ impradronirfi d’ alcun luogo munito, lafciati in quella Provincia i
Villani di PiCno, e ZiminofoDto Aianagij Callioti da Sogliaco, e alquanti
Ufcocchi, e Tedefchi per dilcia delie
cofe proprie, col rimanente della gente paflàrono le montagm del Carlo; epe! vallone di Vermigliano
entrati nel territorio di .Monfalcone, che folo i nel Dominio della Repubblica
oltre al Ulonzo, tra quel Fiume, e le
radici del Carlo, e fvaligiace nuove Ville; e a fette di quelle dato il fuoco,
colla llellà impieth verfo le chiefe, non perdonando alle donne, a’ fanciulli,
e alle altre perfone innocenti;
alTaltarono la Rocca per impadronirfene, e fermarfi quivi; fecero ogni sforzo
per occuparla: il che veduto non effero
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STORIA riufcibile, e fopravvenuti foldati
dì Palma per foccorfo, fi ritirarono nel
Cario. Quelli motivi, non più di
rubberie degli Ufcocchi, ma di eccelli
militari dc'Capitani, e foldati Arciducali, collrinfcro i Minillri
della RepubbUca, per ficurezza de i
confini loro, fare camminar a Faima le milizie del paefe, c quei numero di
altri foldati che fi potè raccogliere all' improvvifo quando ogni altra colà
era afpettata, falvo che fentirc guerra
in iftria, e molto meno in Friuli. Ma capitato
l'awifo a Grata, eccitò maggior allegrezza della foUta in quella Corte; la quale qualunque volta ne’ tempi
palTati ha udito avvifo che gl’ Ufcocchi
avelTcro ufato qualche notabil infolenza, danno, o ingiuria, non fi è allenuta con parole, e con
altri modi di moltrarne la giocondità interna, cosi pel benefizio che le veniva
in parte ; come per l' invidia verfo il
nome Veneto ; e pel defiderio di veder
che fuccedeflero mali maggiori ; eccitando ì loro Principi
a’medefimi aifetti, e a tutto quello che
potelTe caufar rottura. Ma nella
prefente occorrenza, parendo loro avere ottenuto colà da tanto tempo defiderata, l’allegrezza fu
fomma, divifàndofi vana- ‘ mente
vittorie, e aumento di Stato, e ricchezze immenfe. Rivolti però a’ configli
della guerra, fu dato ordine alle genti del Contado di Gorizia, e della
giurisdizione di Gradifca, che fi mettelTero in
arme nelle cale proprie: Al Conce di Terfatz, e al Francol, che paflaifero ad alloggiar in quelle parti: Alle
milizie paefane di Carintia, e di Stiria, che difeendefiero ne i luoghi
medefimi. Conlìgliarono ancora di levar fei mila Aiduchi, che fono Villani
Ungheri, con una paga fola, che non
farebbe coflau -più di dicci milla fiorini; e pel Contado di Gorizia, e
territorio di Aquilefa fpingerli in
Friuli, nel paefe della Repubblica, e farli vivere in quello; penfando
far anche cofa grata aH’Imperadore, al quale la partenza di Ungheria di quella
geme fenza dtfciplina avrebbe fervito a levare gl’ impedimenti, per metter in efecuzione le cole
convenute co’Turchi; e liberarlo da
molti pericoli di fedizione; e a Sua Altezza farebbe flato di mollo utile, facendo la guerra fenza
fpefa. Furono Icritte lettere all’
Imperadore con difcollarfi maggiormente dal modo del componimento trattato, e con avvifo eh era
feguiio conflitto tra ambe le parti; nel
quale ■ fuoi erano reflati fuperiori; amplificando molto il valore della fua milizia, e pregando
S. M. di prendere la difefa di S. A.
colle armi; mollnndo facilità di aver una preda, e intera vittoria. Ma a’Capitani, e Minillri della Repubblica
ridotti in Palma, per prendere configlio
fopra la difefa dc'fuoi confini, era data molta materia di conlultazione, e
difficile, avuta la debita confiderazione fopra il tentativo delle genti
Arciducali di foriificarfi in Monfalcone;
e avvertiti del numero di milizia di Cariniia che già era giunto a Tolmino; che il Conte di Terfatz, alloggiato
a Profeto colle fuq genti di Crovazia, e
'cogli Ulcocchi, fi ordinava per palfar innanzi; e intendendo che quei di Gorizia offerivano
laro contribuzione con condizione che
pafTaReco il Lifonzo; e che l’Arciduca aveva fpedite patenti per far joo. Cavalli in Audriay e ne
i confini di quella Provincia fi
congregavano di foldati a piedi i vagabondi', eponderato an- cora ancon il
difegne di levare ì lei mila Aiduchi^ molto facile da efTertuare, e molto
pericolofo, pofto in opera; e attefi i molti configli di guerra tenuti in Grata, e che il Conte di
Sdrin s'era offerto di condurre Coliuhi,
Cavalleria Unghera, lolita pure alle incurfìoni, c per queOo erano ordinate preparazioni di
alloggiamenti nel Contado di Pifino; e
che in Gorizia fi erano ridotti i Capitani Imperiali a configlio, correndo da
più parti voci, che, quando foffero accrcfciuti du^nto Cavalli Valloni, ùtti
dal Ferino in Vienna, e alcuni fanti raccolti a Gratz, che tutti erano in
viaggio, larebbono palfati nel Friuli; e che eli abitami nel contado di Gorizia
fi preparavano, per coadjjuvare; b videro in necelTith di prevenire tanti
pericoli, e tanto certamente} imminenti
perlocbè,coDchiudendodienereiniHato di necefìTaria difeia da una imminente, e
certa incurfione, che, pereifereil Friuli
paelc piano, c aperto, farebbe liau dannofìflVma; perù deliberarono
di farfì innanzi ad occupare i podi
Gtuati ne’confìni di quel Contado ac»
ciò qualunque geme venifTe fode codrecta a femurfi in quello, e non potede far incurfìone nel Friuli; e il d\ xp.
Dicembre fpinte le geiK ti raccolte a
Palma, che fino alfora erano date tenute folo per foccorrere, e proibire le
feorrerie dell' altra parte, furono occupati Medea, Sagra, Cervignan,
Cormon&, Merian, Porpeto, ed altri luoghi
aperti lenza violenza, nè ingiuria di perfona alcuna, mandati paciRcameme
ad abitare in altri luoghi que foli che fii modravano mal contenti di quella mutazione; c furono quei
luoghi trincerati, e vi fu pollo
(dentro, prefidio fufiìciente per difenderli, e man^ tenerli.
Alcuni giorni dopo eflendo partita quella poca guardia Arciducale ch'era in Maranuto, gli uomini della terra
andarono fpontaneamcntei a darli ; e
i^j^uìleja col terrkoiio. ^o fi diede, da lè ali’ubbìdìenza ien*^ za contraddizione di alcuno.. La Corte di Gratz, avuto avvifo che le
miliziè della Repubblica la arano
alloggiate nel Contado di Gorizia, prete di qui occafionc dà dichiarare la guerra elTer aperta; e di ciò
darne conto^ a tutti i fudditi Aullhaci, e a* Principi di Germania amici, cosi
Ecclefiallici, ce» me fecolari, con
lettere contenenti in foRania, che avendo la Repub» blica. di Venezia inferìte diverfe ingiurie,
a danni- alle terre, e lud» diti della
Cafa d'AuHria fotto colore di rifarcirfi de danni dati dagl» Dlcoccht, quantunque gli efagerafiè oltre al
dovere, fua Altezza, per levar ogni
occafìone di difparere, aveva tempre ofata intera diligono za, per dar ogni IbdJisfazione, cosi
galtiganck) i colpevoli, come meftendo buoni ordini, per impedire nuovi danni;
ma che i Veneziana non crauo fiati di
alcuna cola concenti.* anzi, proleguendo nelle offeie, uliMiainente avevano
invaio il Contado- di Gorizia, e gliene ave»
vano occupata pane lenza alcun fondamento di ragione; ma con dk fegno, e dcRderio di ulurpare Palmiì, com'era
tuo ordinano cotlu» me, e icacciare la
Caia d’Aufirja d'Italia; onde tua Altezza era ilata coltretu a pigliare Tarmi
per confervazione del luo Stato e della
riputazione propria.* Ricercava però da cialcuno alTillcnza, e ajuto, per onore della nazione, e favore della
Giultizia. 1 Miniftrì prelcntatori
delle lettere a^iunlero il loro uffizio, e{ponendo in panicoiare tutte le
miffioni w Commifluj a Segna, e a Tom^
II LI Fuk 1 Fiume òz alquanti anni in
qtia ; narrando fpezialmeote ì gaflighi, e
gii ordini poAi da loro moUrando che da' Veneziani dovevano ciTer nimati baiUnti, perchè lenza quelli avrebbono
gli Uifeocchi fatti danni maggiori, pretendendo di elTere provocati da loro.*
maebequei Si J mori non fi erano contentati degli onelU rioicdj, infillendo in
quel olo, che tutti gli Ulcocchi foflero
levati da Segna; rimedio inumano, imponibile, e contrario al bene della
Criftianith ; propplto non peraltro, a hne di trovar apparente preteso, per
ect^iur una guerra contra la Cala
d’Auflria; gii Stati, e le giurildizioni della. quale han no leinpre proccurato d’intaccare, com’ è
manifedo per tante Citth» e Terre che
tengono, levate a quella Sereniflìma Caia, Qhe Ugitti-, inamente le poiTedeva prima: e quantunque,
per confervare la buona vicinanza, deno date dabilite da cento anni in qua
diverfe capitolazioni in BrulTeUcs,in Vonnes, in Venezia, in Bologna, c in Trento,
non fono mai date da’Veneziani olTervate ; e Xpezialmente, iebbene da ambe le
parti fu promcITo che i fudditi dovdTero avere per terra, e per cotnmerzio libero, come le
fodero di un’tdedo dominio, edi avevano aggravati i luddiii della C^la d'Àudria
che negoziavano nel loro Stato con ogni iorta di novìth, con inufiuti da^ z): avevano impedito loro Tulo dei mare
conira quel)’autoriilt che pretendeva iua Altezza di avere, che i iuddixi
Audriacipoiedero navigare, contrattare, e corleggiare per TAdriacico con ogni
li^rik, lenza che alcuno potede loro
contraddire; e che i Veneziani non potedero adìcurare lopra i loro valceUi, nè in loro cau, Turchi,
Giudei, e Mori dalle forze di fua
Altezza, per li diritti, e ragioni che aveva in
quel mare. £ in terra ancora, violando le convenzioni, avevaBo con falle
pratiche, e aduzie ridotto lotto il loro dominio la For^ uzza di Marano*, e dnalmence edificata la
Fortezza di Palma nel Territorio altrui
centra le protedazioni del le|ittimo Signore dH
Territorio t Fu anche mandato
Gian Criftkao Smidlino Amhafctadore agli Sviz«
zeri, per dar loro conto della guerra co* Veneziani aperta*, e richiedere
a quella viaorola nazione il non permettere che alcuno fì conducede al lervizio
della Repubblica : dal quale Ambalciadorc fu prefentaca in ileritto
un'elpofizione, che per tutto fu pubblicata colle querele, e precenfioni di lopra narrate. E per pubblicar, e imprimere ì concetti
delfi anche nelle menti de i )K>poU,
fu dampata in lingua Tedefca una relazione contenente U mededme fcule de'Principi Audriaci,
querele, e imputazioni nuo« ve, e
vecchie contra la Repubblica, con difefa delle azioni degli Ulcocchi*, con particolare narrativa di
divcrfi accidenti occorfi, accomodata però a’medenmi lenG con molta
amplificazione. £ polcia ancora m lingua Spagnuola fu da pedona nominata con
pubblica participazione di quel Governo mandata in luce una arttfìziola
narrazione dclieiitcde cole, e ragioni
co’medcdmi concetti del dominio del mare, della facoltà di corleggiarlo, della
fabbrica di Palma, e in difela degli Ulcocchi.
Ma i Minidri Veneziani, uditi grufiìz) eh’ erano fatti contra i lo ro Signori, elG ancora informarono i Principi
prelTo a’ quali rifìdevano, e altri amei delia loro Repubblica, di quei lolo
che alle co fc l Digitized by Google DEQLI USCOCCHI z6^ fe allora profenti apparteneva*, giudicando
che pienamente rcItafTe giuftificata la lua caula, quando folTe dimollrato
ch'ella avefle prefe le armi per
neceffaria ^fefà. Erpofero in foftanza che gli Ufcocchi hanno per un corfo di
molte decine di anni diliurbato il commerzio,
inquietata la navigazione, depredate le terre de’ vicini con
cftrema inlolenza, e con ofTefa delle
pcrione, fenza rifpetto diqualfivoglia qualità,
fcnza rifguardoa’piibblici Rapprefentanti, e alle pubbliche lettere:
Che oltra le ingiurie pubbliche, e i
danni inferiti a’fudditi col palTareper
li Territor) della Rpubblica a bottinare, hanno molTi i Turchi a rifarfi
centra i Sudditi di quella, e le hanno eccitate diverfe difficolth alla Porta di Collantinopoli : die da’
Miniltri Aulliaci fono flati ricettati, confentendo loro dividere le cofe
rubbate, e venderle, e donarle a' loro Fautori.- che non fi i veduto contra i
colpevoli dimoflrazione alcuna, nè provvilione effettiva, per ovviare a nuove
offele, quantunque piii volte l’uno, e l’altro rimedio fieno flati richiefli, e
promeffi già dagflmperadari defunti, e ultimamente nel trattato di Vienna ;
anzi tutte le miffioy de’ Commiffarj aver partorito contrario effetto, avendo coll’ efempio
alGcurati i ladri, che mai i bottini non
farebbono reflituiti, nè i depredatori gafligati,- anzi avendoli fpogliati, e
refili piCi bifognofi, e avidi alle prede: ch’è colà indegna, contra ogni
ragione divina, e umana, il foftentare gente cosà perverfa, e nimica della pace, e quiete: che
da alquanti anni è flata fatta alla
Repubblica una occulta guerra col mezzo di quei ladri nelle fue acque, Ifole, e
marine del Quamer, e della Dalmazia; nelb quale, oltral’effere fiata difertau
la regione, e diflurbati i commerzj, il Pubblico ha fpefo ogni anno non meno di
quello che fi farebbe fitto in una manifefla guerra.- e che finalmente, veduu
la rifoluzione deUa Repubblica a volerfene liberare, U guerra occulta fi è convertita in una iQoffa di arme manifefla
con molte provocazioni, e oflilith
inferite prima nell’Iflrb, e poi nel Friuli: per le quali, e per rifpetto delle molte prowiConi di arme
ridotte in quei confini, i fuoi Capi di
guerra fono flati coftretii, per ficurezza dello Stato, e per difefa dalle rubberie, e ìncurConi che
loro erano minaccbte, e preparate,
fpingerfi innanzi, e alloggiarfi in polli Ccuri pih prefló al Lifonzo. Non aver avuto la Repubblica in
tutte le azioni fiie paflà^ te altra
intenzione, fe non che le promeffe le faffero olfervatc; e k foffe finalmente corrlfpofto nell’ offervare
una buona vicinanza co'fatti, e non con iole parole, per tanti anni
efperimentate lenza effetti; e le cofe fue reltaffero alficurate: il che quando
foffe efà fettuato in modo, che poteffe
avere certezza di buona vicinanza, corrifponderebbe interamente, ritornando le
cofe nello flato di prima con ogni
fincerità. Fu anche divulgala una fcritimra in forma di manif» fio con fuccinta relazione delle frequenti
rubberie', ingiurie, e crudeità degli Ufcocchi, e del conlcnlo., anzi della
participazione de’ Mìnillrl Arciducali,
e del mancamenia de’ Principi a porgere i debiti, e ptomeffi rimed); e gli
artifizj co’ quali tòno fiate delufe, anzi
derife le querimonie delU Repubblica e fu traitenuia dal provvedere all' indenti^ fua colb forza. Per quelli
mezzi reflarone divulgati per r Europa
iffi folo i motivi di guerra, ma lecaufe loro ancora colle ragioni, e prcmtCpai delle pani; onde cufeono
fecondo ' b pror Ttm. Ù. LI a pria
pcrfuiftoné, è inclinazione afpetrava Tcfito, c difcorreva dell^ èiuftìzia, ' >. A favore d’Auftrra, poiché gli Ufcocchi nòh
potevano cITcr ftufati, le cólpe loro erano alleggerite con dire, che clTetido
in padc ftcrilc, e fenza paghe, non
potevano altrimenti vivere, che dclìotuni; non peri di quello poteva efler attribuito colpa a fua
Altezza, che Icmpre gli ave^ va proibiti
centra ’Criftuni; e che non poteva fare di piu, quando non tveflè voluto tentare di fcacciarli tutti
colle mogli, c co’figUuoli, e vec-, chi
; che (arebbe (fato cola inumana: oltra che farebbe (lata impoifibile mandare ad eflèito, clTendo quella gente
fiera, c indomita, c in pae(e di accélTo difficile: e quando bene folTc
riufeito lo fcacciarli, farebbe (lato con difervigio della Crillianit^, alla
quale era utile che fi conlcrvafTe
queirantemurale contra gl’infedeli. Che a* Governato*, ri, o Capitani di Segna non potevano effer
imputate a colpa le ufeite pcrmclTc loro nel mare, pferchè un capo della
commilfione che fua Altezza dava ad
ognun Capitano era formato con oueffe precife
parole: Non pèrmetrfraì che JM fatto alcun pregiudezio alia ^iurtfdÌT^iohe
nojha nelin naitigaifone ai quel tnare. E poiché altri non cranq che poteflero mantenere quella giurifdiziorie,
fc non gli Ufcocchi, fi poteva dire
elTere in facoltà del Capitano proibir Tulcita.* fe jpox ttfeendòv facevano dei (naie, la colpa
era della rtiala confuctudi«e loro, non di chi fe ne valeva a bene : cosi
avvenire in ogni luodóve i foldati dannificaho i popoli; nè però aferiverfi a
colpa del Plihcipc, o del Capirano,
collretti a valerfi dell* opera loro. Ma
^chè parevano tjuéfle giuflificazioni aver bifogno di c(Ter appoggia «d
altre di maggior apparènza 1 acciò folTcro portate s’i, enepoteffero ^effer
approvate, le accompagnavano per loftcniatnento colle prc\enfiohi vcctÀic delle
convenzioni non fcrvate, de* (udditi aggravati contra i mpatti, della
navigazione libera non concelfa, delle tette póflèdute dalla Re^bbUca^. ite
erano d’Aultria, nominan do parte del Contado di *^Gorizia’,* C *Màftino,
uliimamchte dopo le convenzioni
(òttoihd!^, e Palma nel diltreito Auffriaco edificata ;còi\ Quelle fortificando le proprie nella caula
degli Ufcocchi, e che (ola fi trattava,
' Ma per dìfefa de’ Veneziani
difcorreva, che nel panicolate degli
yicocchi ti poteva dire Iquanto ognuno voleva per iteufa dc’Govcrtetori,
c di altri, che fìnalm ente rutto fi rilolveva con urta fola paòhe la caufa era
di ladroni abbominevoli a Dio, e agl* nomi*%ii; ^He flon folo il proteggerli,
ma anche il fopportarli, c il parlar %
faVófe Cosi di loro, come di chi li fomentava, è tollerava, era \co(a it^egna ; e che la vcriA fi poteva tene
palliare con àp|Ktrenza di parole -, ina in lóffanza fi vedeva ben chiaro la
differenza elTcre, che unà parie dimandava di viver in pace, Taltra voleva foffentare ladroni a fpefe altrui. Che al
rimediare alle (celleraggini loro coti
levagli da quelle ma'rine non fi poteva dare titolo d’inumaflirti, eflèndo
ufhanità grande verfb, ì miferi vicini, e i navigami, Kht da lóro 'erano (pogliati, uccifi, e coh
ogni barbara fierezza trarrti. Che il levar lóro la comodici, e l’occifiohe di
rubbarc eralervizio divino, c benefizio loro, cóftiii|gertdoti ad iftenerfi
dall’ offende^ lua divina Maeffb: bendt^ «fipckhb de’ loro figliuoli,
togliendo^ Digilized by Google DEGLI USCOCCHI 165 |()rq il comodo di allevarli nella itieddima
{imfelinotie efccrandt; ^ levandogli
dallo (lato di dannazione in cui fi Mantenevano effi, i 8, gli, e le mogli, e ogni altro abitante di
quella regione. Che non fi poteva lenza
ingiuria della verità dire che le donne, 0 glcuno dt loro foirero fenza colpa, poiché quelle hon
fapevanti che cofa fbTe ago, o
conocchia, ed ergqo incitamento a' mariti di fornire cafa col fangue alimi. Che gl’iftefli Religiofi nelle
pubbiiche prediche efertavanq alle
mbberie ; che del rubbatq le Chiel'e ricevevano la decima. Che in Segna, e iq rutta quella regione le pib
onorate famiglie erano quelle che da pid difcoda eù traevamo Argine dg una
continuata dircenden-; za d’impiccati,
ovvero uccifi nell’eferciziq del ladroneccio. Che alti-' tolo d’ impoRìbilith era nuovamente inventato,
e troppo' apparentemen-. te alieno dalle
cole vedute; perchè, fe iólse impolfibile,' non farebbe flato tante volte
promelTo. da due Tmperadori defunti ultimamen-,
te .• perchè nella fcrittura del trattato di Vienna' non fi feusè Ina Altezza,
della dilazione di rimoverli tutti per impqflìbiHth, nè tampoco per. difficoltà, ma diSè per non parere di
farlo, coll retto. Chela pot fibilith, e
fàcilith, t r utilità anche fu, mofhata dal Habatta; il che elTendo (lato da lui feoperto contra
rintereffe di chi voleva mollrare
impoffibilith, gli coflò la vita. Se il levarli di Ih folTe di danno
al Crillianefimo, badava dire che, per
cauta loro, veniva ogni giono minacciato
da’Turchi di fare cofa che avrebbe meda in pericolo., non foto la Dalmazia, ma la Puglia, la
Romagna, e tutta l'Italia. Che il
confervare le pretenfioni del proprio Principato non era cbfa riprenfibile, quando non fofliiro volontarie,
avelièro, qualche aj^taiea^ za di
giudizia; ma il volerne acquidarè, e mantenere le inmagiim. rie a fpefe, e con danno del vicino amico,
era cofa di chi reputava i propr; appetiti regola della ragione, e della
Giudizia. Che del male fatto da^oldaci a'proprj, liidditi il Principe aveva da
rendere conto a Dio folo; ma di quello
ch’era dato a’iudditi del vicino, era in debito di renderne conto al
danoificato; che poteva anche, feconlo il diritto delle gemi, rifare con
rapprefaglie. Che l’attribuire a diicem
di cacciare la Cala d’Audria d’Italia le azioni della Repùbblica, Smte
per Uberarfi dalle inginrie, e moledie di quei ladri renduti incorrigibili, e
intollerabili, era contrario a tutto quello che aveva vedalo il Mondo
da'fucceflt di più centinaja d’anni, in qua; neflano de’ quali aveva modrato nella Repubblica avidità
di dominare; ma bea rdbluto animo di
mantenere quello che Dio le aveva donato. Non
mancavano ancora di quelli che difendevano le azioni de’- Veneziani ne’ tempi palTati, fodentando che mai la
Repi^lica non aveva mofla guerra ad alcun Principe Auftriaco, ma' folo.
provocata prima, era data codretta a
difenderli. Che farebbe molto difficile da mantenere. che il Contado di Gorizia,
apperfcnentelalla Repùbblica per 1»
motte dell’ ultimo di quella Cala, non fofre dato occupato lenza
bu». na ragione. Che Marano
particolarmente, foprail quale facevano, rame
parole, era dato dal Re Francefeo Primo di Fnncia con ragione g>uda
guerra occupato, e per più anni difelò. comra le forae di Culo Imperadcd^, e di Ferdinardo Re de'Romani
unite, nnici anche i favori della Hh^nbUma. Ma quando l' elpugnazione parve
impoffibile, e fucceflè pcrìedftelie
cadeflc in mano di Principe, la cui vicinatnn
in Digilized by Google DEGLI USCOCCHI gazione h reciproca, e debbono eflér
trattati gli Aunriaci nello Stato di
Venezia come i fudditi Veneti negli Stati Auftriaci; ma ben vedcrìì in quelli
tempi in fatto, per non andare troppo lontano, che nel fola dillretto di Trieile fono aggravati
i Negozianti Veneti pib de'fudditi
AuHriaci incomparabilmente; poiché quelli per alcune merci 15. volte più, e per
altre fino a ì 6. volte tanto come quelli pagano, cosi nell’ afportarle, come
nell' introdurle nel paefe. Ma eh’ era
ul'cir del cafo, e confelTare mancamento di ragione nella caufa degli Ufcocchi,
il paflàr in altre materie; e tanto più, quanto in quelle non fi poteva dimandar efecuzionc di
cofa decila, dove quella degli incocchi
era ponchiula con accordato, e promilTioni.
Ili quelle conirarietV di gSltri, e di dilcorfi a me non conviene il dare fentenza, né da qual parte abbiano
origine i motivi di guera, ni quale d> effe fomenti caufa giulla; ovvero
nelle antiche occorrenze fi fia portata con mancamento, ma bensì, come
aggiunto, e lupplito alla Storia dell’
Arcivelcovo di Zara, affine di lomminiftrare materia, per ibrmaro (ano giudizio
-fopra gl’ accidentu moderni, oiiginaii dagli Ufcocchi; cosi mi .vedrei
invitato dall’oppartanith, anzi dalla neceOìtì dèi mio Atie coftreito a-telTerc
una: bitve, e vera relazione delle
guerre, e convenzioni, oflervanze, ed inolservanze delle capitolazioni per li
tempi palsati occorfe tra quelli duePotentati; e in quella occafione
rammemorarle, e rawiluppatle a colle
prefenii, fe la Iperanza di vedere ben prello rinnovata la pace, c miona intelligenza tra i Principi, e la
uanquilliih de'fudditi, non pii fàceite
credere che làrebbe opera fuperflua, e importuna. ALLEGAZIONE, OVVERO, CONSIGLIO
l'N IURE di Gl. Corndio Frangipane J.
C. ftr la 'uiueria navale contro
Federigo J. Im^adire, eJ Alto di Papa
Alejfatidro III. PROPOSTA DA aRILLO
MICHELE per Dominio i^Ia„Screniflìma
Repub» blica di Venèzia fopra il fuo GOLFO, CONTEA ALCUNE SCRFITURE DE'NAPOUIANI. 1 TNtcnzion deirAutore di
difender l’attcftazione che della StoX ria di Papa Alcflandro fa la Sedia
Appoltolica nella Sala Regia, e la Repubblica in quella del maggior
Coafiglio. 2 Autoritli che hanno
gl’inferiori di buon zelo neirerror de’ Mag giori • 3 Dilcordia degli Storici circa la venuta di
Papa Alcflandro a Ve nezia in che confìfla.
4 Modi Averli di provar una Storia I. ISCRIZIONE DE’ MARMI. 5 Stilografla deferive le Vittorie nelle
colonne, e in altri marmi
pubblici. Efempio di quelle di
Augufto, di Irajano, ejdi Antonino, num.17.
4 Vittoria navale de Veneziani contra Federigodeferitta in un marino
antico pubblico dove è intravenuta.
Opere pubbliche fondano le Storie.
7 Colonne, c pietre pubbliche fanno fede certa di quel che è fcritro in elle. 8 Ifcrizioni pubbliche inducono il notorio,
non eflendo contraddet te, num. 25. 5)
Ifcrizioni pubbliche contraddette, num. i6.
rp Pratica di contraddir alle memorie pubbliche pregiudiziali imparata
da’Greci. ti llcrizioni nc’fepolcri non
s’intendono pubbliche^ ma private nè fono affine di memoria pubblica y quando
vi fono denuo 1 cadaveri. 12 Ifcrizioni deTepolai, fe non fanno prova
certa, fono adminicolo di pruova*. (3
Maraviglia vana del Sabellico, perchè nel fepolcro del Doge Ziani non fia fatta menzione delia vittoria
navale contra Federigo. Ragioni che
ne’fepolcri de’ Principi, e Capitani non lì fuol far, menzione delle lor vittorie. Sepolcro del Doge Andrea Dandolo fenza
narrazion delle fue imprefe. 14 Ulo de Dogi antichi, di non aver
iferizione ne’lor fepolcri « 15
Sepolcro del Doge Andrea Contarini lènza menzion delle fue imprele, cos^ di fuo ordine. 16 Mctid.'icio di Giorgio Merula
neU'Epitaflo del Doge Ziam a S. Giorgio
maggiore. H. PITTURE. 17 Stilografla che fa fede pubblica delle
vittorie è anche la pittixra. Vittorie
degli Antichi ordinariamente defcriite in pittura. 18 Pittura è orazion che tace, ed è di
maggior efficacia nel ri cordar, che la orazione. Tomo il.
Mm 19 Pit 1
\ 2-74 ip Pitture pubbliche della Storia di Papa
Aleflandro in Venezia, in Siena, in
Germania, in Roma nclLatcrano, nella Sala Regia del Vaticano di quanu efficace
fede fieno da per loro. (P^'Ilcrizione
(otto la pittura del Vaticano. IO
Congrcgazion de' Cardinali ifiiinita da Pio IV, per canonizzar la veriib di detta Storia avanti che fì
dipingeflc nella Sala Regia da Giiileppe Salviati, at A’ Principi liberi fi dee creder, ne’
quali non cade mendacio, aa Dio non
lalcia, che la Chiefa s'inganni per le male confeguenze, che
luccedercbbono. a3 Repubblica di
Venezia, che dica falfith affermano i Giureconfulti, che fia bellcmmia a
peniate, non che a dire. Z4
Conluetudine di creder alle fcritture della Repubblica dove fi tratta anche del luo comodo, Autorità del
Cardinal Tofco. 2 $ Pitture non
contraddette dagl' intereffati inducono il notorio. a 5 Contraddizione di Federigo alle pitture
fatte far da Innoc. II. nel
Laterano. 27 Intelligenza del verfo d'
Orazio fopra la licenza de' Pittori. 28
Effetto mirabile che operano le pitture a’ lifguardanti, autorità del Conc. Nic. II. ‘ III. C R O N I e H 2p Croniche fanno fede di quel che narrano
quando è folito, che lor fi pretta
fede. 30 Croniche che narrano la Storia
di Papa AlelTandro conformi al le fuddette ttilografie. Cronica Delfina, e Sanuta. Cronica del Doge Dandolo allegata dal
Cardinal Baronio. Cronica Alexandri/
fuo Sommario a S. Ciriaco^ in Ancona, ed
a Parenzo, Cronica amica
ritrovara nel Monatterio delle Vergini, num. 33. de' Ginonici di San Salvator, num. 75.
Generale dell' ordine de’ Canonici
Regolari, num. 32. 3 1 Epittola del
Vefeovo Capitenfe fcritta al Doge Giovanni Delfino già anni 300. in circa, che fa '1 tranfunto
di detta Storia da un libr 100 Libri fenza nome d’ Autore non ancora
ricevuti fi chiamano apocrifi, e non fi
debbono leggere. 101 Libro fenza titolo
è come uno Strumento, lenza nome del Noe
tajo, che lo ha fcritto, però non ha credito. tea Autor quando non vuol fodentar le cole,
che dice nel libro lafciato fenza titolo,
non può un altro fondarli sò detto libra
per foficntarle efib. 103
Vangeli co’l nome d’ alcuni difcepoli, che furono prefenti agli atti di Grido rigettati come Apocrifi. 104 Libro di Romualdo prodotto dall’
Avyerfario ha molte, e gravi oppofizioni.
105 Stnanenti imperfetti non hanno nome di Strumenti, e non fi rilevano in pubblica forma. lei Volumi del Cardinal Baronio quando
fodero imperfetti non fi potrebbono
legger per le cofe, che dipoi tante volte muta, e rimuta.
107 Romualdo Autor allegato dall’ Avverfario facendo menaion d’ ecclide del Sole nel legno della Vergine, che
accadede ai tempo della pace con Federigo prende grave errore, che lo dóno Ara poderior al Belluacenfc. log Regola legale per accordar gli Storici
quando difeordano in un atto
iterabile. Autorith, e precetto di
Sant’Agodino fopra i Vangelj quando pajo.
no dilcordi. lep Storie che
parlano della venuta di Papa AleOTandro a Venezia incognito fcrivono, che ciò folfe avanti la
vittoria fuccellà nel ii7d. Storici che fcrivono della venuta di Papa
Aledandro trionfante, per quanto allega
lo deflb Avvcrlario, dicono, che folfe nel
1177. L’ Avverfario per la
regola legale aveva obbligo credendo a’ fuoi
Storici di dire, che due fodero date le venute di Papa Aleffandro. Regola legale fopra gli atti iterabili in
altre controverfie Pontificie gl. in cap. fi Petrus 8. q. i. 1. j. C. de fum. Trin.
Card. Bellarm. 2-79 ^Ilarm. de Romano Pontifice lib. a. c. 6,
verf. non (amen ral. dij. XIII. VERISIMILEI. fio. Argomento dal verilimile della venuta
di Papa Aleflàndro a Venezia per
rifugio. Ili Luoghi diverfi ricercati
dal Papa per falvarfi. Ili Venezia
fatta da Dio Cittì di rifugia per ialvezza dell’Italia ' contri ’l furor de' Barbari. 1 1 3 Venezia Paradifo di delizie dove i
Papi ed altri Principi rifug' giti non hanno piii defìderato ni il Principato
perduto, nè 4 Patria. 114 Auioritì de’Giureconfulti
fonllieri. Autoritì del Petrarca, e
d’altri. ilj Veneziani difendono Papa
Gregorio II. e la venerazion delle facre
Immagini contri Leon Imperador Iconomaco. 116 Cardinal Baronio in lode de’ Veneziani
per la difefa del Papa, ' e delle
Immagini, e per la lor religione. 117
Chiefa di San Marco carica di fante Immagini come trionfante contri
rimperadore. 118 Certezza della Storia
di Papa Gregario fa argomento verifmile di quella di Papa Aleffandro. VERISIMILE
E SEGNO IL, lip Papa Onorio onora i
Veneziani con titolo di Repnbblica CriftianilTima per difender la Religione,
per la qual fempre crebbe. 110 Trionfo
della Chiefa per opera de’ Veneziani fopra Federigo la vigilia di San Jacopo a’ 24. Luglio 1177. Dall' ora in poi i Veneziani nel mefe di
Luglio ebbero da Dio fingolari
grazie. 111 Mele di Luglio per avanti
infaulio a’ Romani, ed all’Italia per
diverfi infortuni ^be occorrevano.
Circuito d’armonia di Platone, che in certi tempi altera le Repubbliche
come ne’ giorni decretar], ed anni climaterici i cotw pi umani.
Ili Romani rotti due volte nel di XVII., di Luglio; nel XIX. due volte Roma abbruciata; oflervazione di
Cornelio Tacito. 113 Due volte il
Tempio di Getulalemme abbruciato nello ftelTo
giorno di Luglio, che ora cade nel d’i di San Jacopo; ofler-, vazione de'facri Canoni, e di Giufeppe, 114 Chiefa di San Jacopo prima fondazion di
Venezia per occafion di voto per
cflinguer un’incendio. 113 Allegrezze,
e felici avvenimenti alla Repubblica dal 11-7. in qui nel mefe di Luglio, nei quale indi ad
anni 24. ella fece il primo acquifio di Coliantinopoli. (id Argomento della vendetta della morte di
Crifio dal tempo mcdefimo, che
intravenne f eccidio di Gerufalemme dopo anni
quaranta, ed altri efempj. 117 Primo
di Luglio celebrato da’ Veneziani per la fella di San Marziale, nel qual ebbero diverfe
vittorie. 128 Fella della Maddalena per
Tacquiflo fatto nel concluder la
Capitolazione di pace co’ Genovefì ; della qual Angelo Aretino nel conf. 2Sp. I2p Fano d'arme del Taro adi 6. di Luglio,
nei qual fi ccuninciÀ a ricuperar T
Italia dalla man de'Francefi, e la preda che da
efla gloriofi portavano via. 130
Prefa di Colfantinopoli la prima volta adì XVII. Luglio nel giorno di Santa Marina. 131 Feda di Santa Marina celebrata, nel qiul
giorno la Repubblica acquidò due volte Padova, e diè principio ad acquidar il redo dello Stato occupatole dalla Lega di
Gambrai. Parole della parte di celebrar
detta fedivith. 132 Prefa di
Cadiglione, e Lodi dopo Tettava di Santa Marina, che cade nella vigilia di San Jacopo. 133 Capitolazion tra Collegati dove fi
conferrnano gli Stati diTcrra ferma alla Repubblica fatta adi 2p. Luglio
1523. 234 La Serenidima Signoria vifita
folennemente la Chiefa del Redentor la III. Domenica di Luglio, nella qual la
Citt^ fu lù berata da una orribile, ed
inaudita pede. 135 Repubblica riceve
vittorie, cd altre allegrezze da Dio nel mefé di Luglio in fegno di
remunerazione d^l fetvizio predato a
fanta Chiefa in detto mele. 1^6
Domenico Memmo, Procurator di S. Marcp, uno de’Capitani di galea che combattè nella giornata contra
Federigo. 137 Filippo Memmo, Dottor,
guidò Otton prefo nella giornata navale
al Padre, che lo fè venir 3 Venezia ad umiliarfi la vigilia di San Jacopo, 138 Dio non ceda di dar premj a’difcendcnti
difeendendo in edi S er ragion
ereditaria la virrii, e meriti de’Maggiori.
Sercnldimo M. Anronìo Mommo rapprcfcntantc,i fuoi Maggiori col merito, e
colle virtù cfercitate ne’ fupremi carichi
della Repubblica. 140 Creato
Principe la vigilia di San Jacopo miracoloramente, nella quale per opera de’
fuoi maggiori Papa Aleffandro pofe il
piè fui collo di Federigo. 141
Portato fuora il dì feguente dal luogo dove Papa AlefTandra fece il detto atto trionfante a Ipargcr oro e
argento con /ingoiar applaufo di tutti gli ordini della Cittk. 142 Dio ha voluto dar fegno di raccordarfi
del merito pel fervigio di Santa
Chiefa. Efempio che di quanto ben fi
opera fi crafmecta il merito an-^ che 3
i poderi ben lontani. // del
Sommario^ PER LA storia DI PAPA
ALESSANDRO IIL Pubblica nella
Sala Regia a Roma, e nel maggior
Configlio a Venezia, ALLEGAZIONE DI CL. CORNELIO FRANGIPANE J. C. Contrd h narraj^one contenuta nel Duodecimo
Tomo degli Annali Ecclejiaftici. Deus aferiat labia mea ad veritateìi. Leu NI penfano fottrarre alla Sereni/Tima Rcpubblica
di Venezia il fondamento delle Tue
prerogative ) fé impugnano la veritk delia Storia di Papa Aleflandro
III. venuto qui profu*. go dalla
perfecuzion di Federigo I. Imperatore, rimeflTo in Sedia, dopp la vittoria navale
centra quello ottenuta dal Doge Ziani. Nel che quanto s*ingannino ognun potrb veder,
c coaolcer dalla noiira Allegazione del
Mar Ubero fcritta centra il Valquio, e Ugon Grotto, Autore del libro
intitolato : Mare liherum * e centra altri : tanto ancora s'ingannano, negando quella Storia,
dove, in vece dì acutezza d’ingegno, cortezza, e ^arlitb ne mollrano • Alcuni
con femplicc narrazione diverfa, altri
con alTai poco penetrar di penna, ma a guila di Scorpione, la pungono; altri
fcrivendo, non mano, ma calcio par che
adoprino, cosV l^n calpedano. Aperto
morte la impugna 1* Autor degli Annali Ecclefìadici, collantemente,
intrepidamente tanto, che egli, come foldato gloriolb, avanti che combatta, Tuona la tromba,
vantandoli di doverla far conofeer una
impodura ; quafì, per ingannar il mondo, Te
l’abbia fìnta; e dice di proporre una pietra Lidia da paragone, per conoicer la veritb dal mendacio. Ma fe
fìa tale, o elitropia del mugnone,
efamineremo nella prelente Allegazione. Non redo però di compianger PAutor in
molte parti de’ Tuoi volumi, che,
ùtrovatafi una teda come di acciajo a tanta fatica di Icrittura, Opera già
grandemente defìderata ( come riferifee il Cario ) da’ Padri nel (acro Concilio
di Trento; dovendofi impiega^v re in
avvivar' le memorie di fanu Chiela, e de' Tuoi Fedeli, e Tomo IL Nn devoti, col raccontarle
cofcfucccfle, come è oggetto de gli Scrit»
tori delle Storie; fi è affaticato in alcune fcriver contra il co appiglia alla narrazione di due Autori uovati
da nuovo, contemporanei ( com' egli dice ) del fucceflb ; 'uno i lenza nome,
che [crive i fatti di Papa Aleflàndro ;
l'altro i un Romnaldo Arcivefcovo di Salerno, che fcrive le Cconicke del Mondo;
i quali Autori dice anche elfer Dati prefenti.- parò gli elàlta come
tedimonj maggiori di ogni eccezione, che
lor non G pofla dir in contrario; da’
quali cava che Federigo I. Impeindore l’anno precedente, che fu del tipd., vinto con gran (Irage
da’Milanefi, non Papa Alelfandro, ma eUQ era che fuggiva ; e ili quel che mandò
a dimandar pace al Papa in Anania; e che
il Papa, aifcntendo, non profugo, .ma
trionfante venifle a Venezia accompagnato da tredici galee dd Rè di Sicilia, che lo conduBcro pel mar
Adriatico in lllria, e poi a San Niccolò
del Udo, dove il Doge Ziani io andò a le-,
^ar, e io condulTe dentro a Venezia: indi che andalfe a Ferrara, e poi tornalTe, q che trattalTe coi Minillri
Imperiali la pace ; vi venifle l’
Imperadore, e che la vigilia di San Jacopo andafle alla Chiefa di San Marco a baciar il piede al
Papa; il quale il di feguente a richieda dell’ Imperadore cantalfe la Meda, e
fermoneggiade in un pulpito ; e le parole che Latine diceva, acciò, r imperadore le intendede, un Prelato gli
replicava in Tedefeo ; e vi narra di
mofebe, e zanzare, e di altri liroili particolari accaduti, e la dimora, e la partita de’ detti
Principi. Quedi due libri vuol che fieno una pietra Lidia da conofeer la verich
dal mendacio delle cofe che narrano le Storie Veneziane. Ma quelle per principale, e in fodanza, dicono.-
che Papa Alcdan-. dro fuggidc incognito
per fua compiuta ficurth a Venezia che
per lui, divotamente ricevuto, la Repubblica mandade AmMfeiadori all’
Imperadore per uffizio di Pace : che non folo non la conccdcde, ma che m andade un’ armata
verfo Venezia, perchè gli fi dede nelle mani il Papa ■* che la Repubblica armalTc,
c gli mandade il Poge Ziani contra : che combattede, che vincede, c che menade cattiva l’armata
con Otton Figliuolo dell' Imperadore,
che ne era Capitano, prigion a Venezia : e che
egli, mandata con compagnia di Senatori al Padre, fodc mezzo di
coochiuder la Pace : che 1’ Imperador venide a Venezia a geitarfi a’ piedi del Pontefice, il quale gli
mettede il piede fui collo, dicendo le
parole del Salmo Super afpidem &c. che l’impeiadore gli Tomo II, Nn z rifpon. f irppndefTe che ’l
Papa gli replicafle, per la qual azione folTe
iHituita la folennick di Spofar ogn’anno il Mare. Narrano anche la conccITtoD delie infegne che in cerimonia
la Sereninima Signoria porta, e delle Indulgenze: ma il lodo che vorrebbono
elpugnar è la vittoria ottenuta centra l’Imperadore; chelaltre circoHanze poco
rilevano, fe non in quanto che Ibno adminicolo della prova principale. 4 £ perché a provar le vittorie li fbgliono
allegar opere pubbliche de’marmi, o delle pitture, dove, lucccfle, dcfcriverfi
fogliono, o Croniche, o Storie, o felle
pubbliche, ofatna, che, correndo, e
Tuonando, a guila di fiume, nella poHerith fi diffonde, e ne perpetua la fede, e la memoria loro; benché
una di quelle at*. tellazioni ci
ballerebbe, le addurremo tutte; così ben e fondata la verità di quello iucceiro; e mollreremo
che gli Autori i quali pare che ferivano fin in contrario, ne prellano il
confenfo, dato anche che fufTcro legali, e degni di tffer creduti. 5 La prima pruova fi chiamava iStilograha,
che é, quando, fuccelfa la vittoria, fi delcrive in colonna, o altra pietra che
fi mette in pubblico. Quello titolo
predò a'Settanu Interpreti ha •1 quinto
decimo Salmo, dove Teodoreto dice: Columna Vincen „ TiBUS quoque nigitur ceeUta
Uttem nefcìentibus, viCiorism^ indi-,, ctmtibus • Come anche ordinò Augullo,
che le fue imprefe fece fcriver in
colonne di mecalb avanti il Tuo Sacrario. Se ne veg^ gono anche di altri
Impcradori, e Re per tutto il mondo. La
vittoria contra Federigo l'abbiamo dcfcriira in una pietra a Salbore
affida alla Chiefa avanti la quale fucceffe la giornata: le lettere fono
antiche ; e quando fu polla, 1 ’ Iflria era nel temporale fotto il Patriarca d'
Aquile)a .* in ella i feguenti verfì
leggono: Hbus, porut. 1, celebrate locum cìuem
Tertius olim Factor alexander donis
coelbstibus auxit. Hoc ETENIM PELAGO
VENRTAE VICTORIA CLASSI DbSUPER ELUXIT,
CECIDITQUB SVPBRBIA MACNf Indvpbratoris
Federici, rbddita sanctab ECCLESIAB pax;
TVMQVB FVIT IAM TEMPORA MILLE
Septvaginta dabat centvii, sbptemqve supernvs Pacifbr advbniens ab origine carms
amictab, Quella pietra, a ragion di
Scoglio, l’Autor degli Annali ha fuggito
di toccare, perchè certo, le ci avede ben penfato fopra, non farebbe andato ramo oltre a fcriver come
h^ prclunto; perché quello folo ballerebbe per piena fede, c tcflimonio,
quando anche altro non ci fode: al che
tutti gli uomini ragionevoli, e legali
fon tenuti a prcfiir compita fede, perché quelle fono vere pietre Lidie da far conofeer laverith dal
mendacio, fenza le quali è ncceflaiia alcuna Storia ^ per atiellarci la verità,
fecondo „ Ciuleppe ad Apirne, che dice.
Eo quod ab initio non fuerat jìud'tum apud Gr^cos publicas de bis qua femper
agunttsr proferre con-,, fcriptioneSy bec etenim praeiput (T erroremy
poteflatem merendi ^y pojìsris vetus
aliquod volentibus fcfiptitare cencefpt\ però dicono le „ Glofe, c ì Dottori.* Sì in aliquo Lapide,
vel columna inveniatu „fcripn. Jqriptyra
ejì éàbihenéa, in c. fané in vcrb. dijiich 24^
q, 2, et in c, cum cavjja de probat. et ibi omnes Scribenres» Speatl. de
prober. •ùidendumy num. 12. taf. in l. fané, num. 26, ff. fi cert. petat. Aret, infi. de eHion, §.
psneles^ num. 2. H/ppol^r. in l.
prenatn, §, in rationibus. C. de felfisy Ù" de probar. num. 191. Hier. de Monte de finib. cap. 61. per
totum. Mefeard. de pròbar. conci. 105. pofieaquam, nu. IO. Ù" conci. ^99.
confineSy num. 5. et allegata per
Cagnol. in I. 2. num. 6y. ff. de orig. jur. Ò*pcr Potjfdorum Ripam obfervar. 6%, Craver.de
antiq. tempor.par, l. verf. oB/rva
daruTy man. 13. traB. ro, vj. fol. 141. ) dove dicono U 8 ragion dcllcfficacia di tal prova. Talis
fcriprura in Lapidibus^ aut ^y cofumnis
publice apparet y (T inducit nororium: ob id impuratfdum yy viderur et de cujut jnajudicio agiruTy cùr
non contradixerir y come . fece lo ReiTo Fedengo, il qual contraddìlTe alla
memoria, e iferi 9 zione che fì trovava nel palazzo Laterancnlè ; tenendo
egli, roa centra ragione, che foffe
pregiudiziale alllmperio.* di che lì
ragionerà più ^ ^Hb; e come è il cafo che narra il Coppola. ( de fervir. urb. prted. c. 70. nu. 9. )
Quella pratica forfè fh apio prefa da' Greci, come da quelli da^ quali fì
hanno, imparate le altre leggi; (A a. ^
de orig. /ur. T. Uvius dee. \. lib. 3. Dio.
Halicarnas. lib. io. } perciocché i Mantinei, avendo fatta giornata con
i Tegeati preifo Laodicea convittoria incerta; ìTegeari, a che chi leggeva le
ifcrìziont de'fepolcri pcrdefse la
memoria.* di che ne artefta Cicerone: ( de feneBurv in princip. ) „ fepulcbra legens vereoTy quod
ajunty ne perdam memoriam: onde di certa forta di memorie ne'lalfi vicn detto
ap prdfo Digilized by Google ^86 ALLEGAZIONE preflb Tacito* prò fcpulcèrh fpcmuntur (
lìb. 4. ) Con tutto ciò non fono tanto
prive di fede, che non diano adminicoio di pruova; come, per provar il buon
fucceflb del fano di arme delTaro, dei qual fi parlerà infra al num. jip, il
Guicciardini addace la infcrizione del
fepolcro di Melchiqr Trivifano qui nella Chicfa de’Frati Minori: per i’acquillo
di Ceneda facto dalla Repub" blica,
oltra altre pruove, fi adduce i’epicafìo nella fcpoìcura de! Doge Tommafo Mocenigo t S.S. Giovanni e Paolo.
( Mafcard, (ie probat. con. conpnes
aum.n. Guicciard. bijì. lib. z. Onde,
fe non li cava fe non tal qual pruova delle cofe dalle ifcrizioni de’lepolcri,
non doveva il Sabellico, contrario a sé llcf^
fo di quanto ha ferite* nella Storia Veneziana, nella univerfai che
fcrive ( lib. 5. Eneadc p. ) maravigliarn che nel fepolcro del Doge Ziani non
li facefle alcuna menzione dì tal vittoria; perché loimlTione in fimilì luoghi
può venir da diverfe caule; o da umiltà,
o da grandezza, che balli a dir il nome
del perlonaggio che fì rinchiude, come quel che, dettoli nome, dice carera norunr Ù" Tagus, et Cnages,
Scrive il Guicciardini che Gian Jacopo
Triulzio, tanto celebre Capitano, non avelTe altro Icritto nel fuo fepolcro, le
non, in quello eflb ripofTarfì chi
innanzi non s’era mai ripofato. (lib. pag.^po.) Può ancora avvenir una
tal ommilTione per non render ingrati i fepolcri a’vinti, ed efporli alla loro
ingiuria, col commemorar le vittorie oi'«
tenute: perlochè Ciro, Rè de'Per/l, nel fuo (epolcro, dove loit „ narrate le fue gtandezze, vi fe in 6n
aggionger : Jra^uc ne miI, hi ob hoc monurnentum invideas rogo. A quello fin
nel fepolero del Doge Andrea Dandolo, che è nella cappella del BattiHerk> di
S. Marco, fu tralafciato l'Elogio fattogli dal Petrarca, che £ l^ge nella pillola 25. foritia al
Bcnimendi, Canccllier grande, che ne lo aveva richiello dove commemorandoli le
fue im' prefe di Candia, del Tirolo,
dciridrìa, di Zara, della rotta data a'Gcnovclì a Sardegna, fu tralalciato, e
poHovi quel che al prefente fi legge,
dove non fì Hi menzione veruna di quelle im14 prefe. Oltreachò, è flato ufo de
Dogi antichi ne’ lor fepolcri non metter
nè ornamento Ducale, nè anche il nome proprio,
come neirillefsa cappella fì vede quel del Dcge Soranzo. Il Doge Andrea
Concarini fepolto a San Stefano nel claullro non vi aveva ornamento Ducale, nè veruna lettera; e
pur fu quello che liberò la Patria
daÌi’alTedÌQ con vittoria cost fìneolaro, e al tutto "^ifognofa centra i GenovefìaChioggia.
Scritte da me le fuddetee cofe, mi è
venuto a mano il Libro della Repubblica del Cardinal Contarini, il quale nel
Libro primo in quello propofìto cosi fcrive: „ Mk gli Antichi nollri tutti di
uno in uno confenti-,, rono dì aggrandire la Repubblica fenza aver rifpetto
dell' utilità pri-,, vata, e deironore. Da quello cialcun può far conghiettura,
che,, nclTuna, o molto poche memorie di Antichi fono a Venezia, di „ uomini per altro chiarilTimi in cafa, e
fuori: dirò un’efempio fo„ lo, tra molli, di Andrea Contarini Doge, mio
parente, Al lem-,, pQ della guerra Genovefe, importantilfìma, e pericolofìfìima
di „ tutte, con incredibU fapienza, e
(ingoiar grandezza di animo, „ lalvò. z
87,) falvò la Repubblica; e data loro un^ grandifllma rotta, fracafsò yy i nemici gii vitioriofi, tutti, o
ammazzati, o fatti prigioni. Confervata
la Patria, ordinò nel Tuo tcllamenio che alla IcpoU yy tura fua, la qual ancora al «fi d* oggi fi
vede a San Stefano, yy non fi mctteffero
alcune infegne, nè armi della famiglia noUra;
yy ma che pur ivi non vedrai fcritto il nome di $j gran Doge. Il nome, e adornamento, che ora fi vede, è
per opera di Jacopo Contarmi, Senator di riverente memoria ^ il qual, tutte
le buone arti, e ogni virtù amando,
ravvivarle fi affaticava : Egli fù il
promotor, coadjmor, e mantenitor del Bardi, che le la raccolta della Storia di
Papa Aleffandro, alla qual però TAvverfajdrio non fi ha fapuio acquetare. Qu'i
non debbo ommettere lo sfacciato
mendacio che contra le predette cale dice Giorgio Menila ( Uh, 6, Ccograpb,
Jivc anriq. Vicheom. ) che nell’ Epitafio
del Doge Ziani, dopo aver numerate le vittorie ottenute da altri, di
queffo fatto di Papa Aleffandro. non dica altro, fe non : kinos conjunxir gladios : fc quello folle
vero, forfè avrebbe qualche ragion effo., e il Sabellico di dubitare. Ma la
Icrittura è molto diverfa; la qual,
avanti che fi. perdeffe nella nuova falbrica della Chiefa di S. Gregorio
Maggiore, il Sanfovino, tanto benemerito
di quella Citt^, nel dar conto delle fuc preclare cole memorande, l’ha
regifirata nel libro quinto della fua Venezia; non mi difpiacerb, qui
fcrivendola, farla legger, per convincer di tanto mendacio l’Autore, qualunque
i verfi fiano, f/ic Dhx egregiwr,
fapicnSy dives cenerefeity Vivir cum
CbnJÌOy Mundo. fua famrn_ nhefeity
Sebafìianus vochatus in orbe ZianuSy
Cum Papay PrincepSy CleruSy ^tebs Jbunc rccolebaty JnJìut^ purusy cajìusy mìfisy cutque
placcbap. Confitto poilcns, bona
planrans, et mala tollens, Robur
amicorumy patria luxy fpei mìferorum Et
flos cun^orumy Duk eteClus Venetorum ',
Binos eon/unxìt gtadioSy O' more rcfulfty Etoquìum fenfus, bonitas. degnila cenfus, liti parebanty nulla •virtute cartbat. Dove le parole : mundo fua fama nitefeh, cum
Papa Prineeps Jbunc rccokbat \ bona
planrans y et mala tollens, robur amteorum, fpes miferàrumy binos conjunxit gladios y non
venendo a nomi particolari, per li rifpetti gi^ detti, ma applicate al fatto
tanto notorio, come era allora, ed è al preleme, pur troppo ballano : maflime che fotte di Ini non vi è da
raccontar altre vittorie, nè fatti
notabili, come afferifee i! Merula..
II. Seconda fiilografia è la pittura roeffa ne’ luoghi pubblici,
dove 17 fi deferivono le vittorie
ottenute ; come quelle marittime di
Agrippa, che le fè dipinger nel portico di Nettuno ; quella di Gracco nel tempio della Concordia .• ne’
pubblici, trionfi ancora fi poruvano .•
di quella di Meffala, di L. Scipion, di Ollilio
Mancino Ch menzion Plinio ( lib. 30. cap. 4. ) : quelle di Tramano, e di
Antonino, lono defericte nelle loro colonne a Roina, ma con figure di mezzo
rilievo in marmo, che ancora fi V veggo x
vedono : quefla fk fede, come le lettere feoipire neTaHì, non efl^do altro la pittura, che orazion che tace,
c Torazion pittura che parla* onde i Greci, non facendo differenza da
Pittura a Scrittura, come confìdera il
Cardinal Paleotto, ambe le chiamano yp^m : anzi per memoria ^ piu efficace la
Pittura, che la narrazione in iferitto,
come fi vede nell' uio della memoria
sSartifiziale, che per via d’immagini lì fupplilce alla naturale .fopra
che dice Qiiintilliano : ( Uh. ii. cap, 3. ) pidura taccns,, aÙus y Ù"
babhui femper cofdem Jic ìntemos penarat affehius, uf „ ipjam vim dicendi nonnunquam fuperare
videatur : „ dove i Padri nel Concilio
Niceno fecondo differo : „ major tft intano, quam „ orario ; atque hoc providentia Dei conttgu
propter idiotas bomiftes, perche fervono
per lettere degli ignoranti. ( j^dion. 5. Concilior, rom, 3. foi, 501. c. ptriatum de confecr.
dijì. 3. D. Tbom. %. a. q. P4. arr. 1.
primum. CapcHa Tbolofan. q. 303. Ct* allegata per
Cardinalem Paleottum de Jacris imaginihusy et profan. lHt*l. cap.^» Frane. Curt. de feud. par, j. in princ. num.
i6. (T per Cepollpm de fero. urh. prsd, c. in f. ( 5 * per Dod.
in c, l. in prin. ae pace Ijtenend. )
Dove l’Alvarotto, volendo addur teffimon; della verith di detta Storia, dopo aver allegate fopra ciò
le croniche, e gli annali de' Pontefici,
allega le pitture che la deferivono in Venezia, e in Siena.* „ Ut de prxdidis
pa/ee in aula folemni Civitatit,, Venetiarunìy uhi bac bifiorta mirabÙiter pida
ejl. Fraterea dieta,, bijioria fatU diffufa in aula Civitatis Senarum, ex eo
quoà àidut „ Papa jilexander fuit
nationc Senenfis. Così anche altri, come teffimonio degno di fede, allegano
dette pitture; Ermano Schedel nella
cronica ffampata in Norimberga, Giovanni Stella nelle vite de'Pontebci fotto
AlefTandro; Erancefeo Modello nel libro z.
della fua Venezia di Pietro McfTia nella vita di Federigo ; Remigio
Pofliilator di Giovanni Villani, per fuppiir quel che ivi manca { Uh. 5. c. 3. ): ma Francefeo
Sanfovino nella Ina Venezia vi aggiunge quelle di Roma coq le fue inlcrizioni :
dice eh; ve ne era una nel Palazzo
Laterancnfe con alcuni verfi ; gli ultimi de’qnali dicevano: Naw pRorucus Latet in VenetJs tandem
manifejlus Regi Romano pacifeatus
abit. La ifcrizione fotto la pittura
del Vaticano nella Sala Regia così dice: „ Alexander Papa III. Federici I. Imp.
iram, bt,, IMPBTUM FUGIENS, ABDIDIT SE VeNETIAS J COGNITOM, BT A,, SENATO
I’ERHONORIFICE SUSCEPTUM, OtHONE ImP. Fìtto NA-,, VALI PROBLIO A VeNBTIS VICTO,
CAPTOti. FeOERICUS PACB „ FACTA SUPPLEX
ADORAT, FlDfeM,ET 0BE9IENTIAM POLLICITUS.
5, ITA Pontifici sua dignitas Venet* Reip. beneficio re„ STITUTA.
MCLXXVII. ■2.0 B perchè non fi creda
che ciò Ila flato capriccio del Pittore,
come vuol inferir T Autor degli Annali, è da laper, prima che detta Storia foffe dipinta, c col predetto
Elogio fottofcritia, fu da Pio IV.
ordinata una congregazione di Cardinali, tr^ i quali entrava 1 ' Illuflriflìmo Cardinal Sirletio
di veneranda xnemotia .di che me ne diede conto Marc’ Antonio Gadaldino, luo
fapula m, c Digitized by Google DEL FRANGIPANE. z8p re, e gentil* uomo letteratiflimo : quefli
fecero dìIigentUTimo proceffo degli Scrittori, e delle fcritture, come
de’tcHimonj degni di fede, in guifa che
fi dovefle far una canonizzacione, e in
quella maniera che Dio non lafci fallar la Chiela nelle liie.aP ferzioni : pervenuto il Pontefice in
fondatiilima cognizione di verità, ordinò la pittura a Giufeppe Salviati,
Maeflro celebre, e ringoiare, che da
Venezia fb chiamato, e di tal lavoro mi dilTe
aver avuto mille ducati, che non fi fpendono cosi in meri caprieej de’
pittori* £ .perchè la pittura cosi ordinata dee far pniova, e piena fede;
Aleffandro VI. fè dipingere in una loggia dì
Cafiel Santo Angiolo rofTequio, e la riverenza di Carlo VIU. fervente
alla fua Meflà Pontificale, acciò tal cerimonia fi confervafle nella memoria de'pofleri. ( Guicciard. lib.
i. car. 35» ) 21 Quelli fono lenimenti
pubblici rogati db Principi iit^ri, e che
non co(^ofcono fuperiore; che la lor gloria, e grandezza è la liberti/
ne’ quali quando cadeffe mendacio, imbrattar il lo ro fplendore; perchè è
qualitb quidditativa di chi è libero non
dir, fe non verità; come è qualità fervile dir il mendacio. 12 Però dicono t facri Canoni che Pio non
lafci mentir la Chiefa Romana, (e.srcHm,
gi. m Z4. 1.) alla qual anche fi
convien quel che fi dice delle perfone pefate, e. gravi; Nm éiirJ il fsljo effetti il fntdtntt. Qui corre la fleffà ragione che cade, fe
occorrefTe feoprir un mendace nelle làcre Icttercj delle quali dice Sant’
Agollino {inEpifl, MdHi lamente, non fuggitivo, non è da tralalciarc
il tdlimonio di Pietro dalle Vigne, il
quale 6or'i in que’ tempi,, nè maneggi, c
negozi dell’Impcradore con Sanca Chidà ; nel principio delle Tue piitolc, dove intieramente è regiArato il c.
ad apojìoiico de te jud. in 4. dice!,,
fece ( Federico ) uri altro Papa ^ e pìife altri „ Vejcovi nelle Chieje dell Imperio^ ma alla
fine andh a ({inedia y ove,, il diritto Papa era FuciTO, e li fece fuo
comandamento : “ la qual autorità (i può
-aggiunger a quello che di quello dice di
aver villo il Bardi; cioè, nella vita deU’Imperador che fcrive, fa menzion della prefa di Ottone. Con quella
AclTa regola rela^'tum cenfttur in referente fi poObno legger i Commentatori
di Dante, luoi fcolari, che furono gih
trecento anni, nel commento del I^ndino al canto i8. del purgatorio, i quali
egli afferma aver veduti, c ad unguem
ferivo la detta Storia come i Venc. ziani la narrano e dipingono ; parte de'
quali regìAra il Bardi con molto numero
di altri Storici che in conformità fcrivono ;
^ al quale aggiungerò i feguenti da lui tralalciati colle confidera2Ìoni
fopra alcuni che egli fimplicemente nomina : quanto agli ^paltri, che egli allega, intendo, per
corroborazione della verità, che qui lì
abbiano per rcpetiti. Benvenuto de’ Rambaldi, Autor di trecento anni, nel iuo AuguAal, che irà le
opere latine del Petrarca fi legge lotto
Federigo, Icgue detta Storia / e in fine
dice: „ Alexandram Papam perfecutuSy apud Veneros vitlusy “ (?*r. 40 che è (guanto piò difiiiiamente fcrive il
beato Antonino nella ivia 'Storia; ( p.
2. tit, 17. c. i. io. in fi, fot, 214. ) „ Cum Friyy deritut Imper, veniret ad
Urbemy Alexander y timens ejus potentiamy
„ Fernet ias refugity ut manut e/us evaderet : fuper quo indignatus
Jm~ „ perator y armavit cantra Venetot
claffem, cui prafeùt Otbenem fi»,, iium fuum ; 0 “ ad repofeendum AlexandrurH
Pontifkem mijit. Fe~ rum Otbo fUius Imper. primo concurfu navali prodio fuper
atw J yy Clajfc Fenetorum, qui juvabant
partem E(cUf$te .SanSìx, Ù" Aleyy xanàri, captus, duéius ejì Fenetias. Anno
autem fcqueuti, procurante Otbone filio Imp. qui captus erat, ablata e(l
dijjeafto inter yy Papam, Imperatorem ;
et faHa afì pax, indeque magnus ■ bonor,, et gloria fecuta funt Fenetos, quibus
ad ptrpatuam tei memoriam „ Pomifex
Jummus quadam injignia perpetuò ferendo donavd, Miror „ autem quhd nec Fincentìus in fpeculo
bijìorialiy nec Joannes de Co. yy li
faciane mentionem. “ Dove è da notar che fcrive la fuga di Papa Alclìàndro a Venezia; la vittoria avuta
contra l'imperadore; e la prefa di Ottone fuo figliuolo. Si attenda ancora
che la battaglia fu un’anno avanti la
pace fatta ; e che in quello luogo non
vi metta il calcar del piede del Papa fui collo dell’ Impcradorc; il che riferilcc poi in altra
fcritiura, come diremo ai luo luogo, ai
num. 55. Oltra ciò, la maraviglia che fa,
che Vincenzo, nè Giovanni di Coli, non abbiano tocca queAa Storia. Confidcrafi poi la gravità dello
Storico, che è Teologo, e verfati 01 ino in tutte le Storie, avendole fcrìtte
dal principio del Mondo fino a i fuói
tempi. 41 Nello fiefib tempo Laonico
Calcondila, Areniefe, nella fiia Storia
Greca al lib. 4. fcrive dello fiefiò fatto, come i Veneziani hanno meno in
Sedia Papa Alefiandro dopo la vittoria ottenuta centra Federigo, il quale
chiama Re barbaro, infinuando il fuo
cognome di BarbaroUa. 42 £ perchè gli
Scrittori delle Storie dicono : lUud veritash
„ bijìoria Jifftum eertum effe y fi de iifdem tebus wmes confentiant
: „ ( Jofepk. cMtTM Apptenem lib. j. )
emnes fcilicer y ^ued a pluribus yy
dignieribus ( gl. in eap, de quibus. difiin. 20. r. in eanonicis. ^ fui dem de
conjecr. difi. 1. Barbai, cmjtl. 12. illum num. 21. W. 4.) Reciterò alcuni, olirà i predetti, che
feguono la detta Storia forelheri, e alfai interefiati per l'altra parte, che,
non elTendo vera, dovrebbono piò lofio contraddire; e fono di tal graviti,
che il Mondo lor crMer fuole ; anzi
alcuni dì efll come tali fovente fono
allegati dall’ Avveriario. Raffaello Volaterrano in due luoghi ne fcrive, (
Urbanor. •commentar, lib, ^ et 27, ) il quale è
da attender, come quel che aveva alle mani, e verlava i libri della libreria Vaticana, come egli attefia
nel lib. 3. nè fi è ptinto moflb dagli firaccioni de* libri, come ha fatto
rAvverfario, fe pur vi eianoi al luo
tempo : ha dedicata l’opera a Papa Giulio li. in faccia del quale, e di tutto
il Mondo nell’ arringo di Roma fcrive
detta Storia eOer fuccefia come la narrano i nofiri 43 Scrittori : così fono lo fieffo Giulio II.
ha fatto Giovanni Stella nelle vite di
230. Pontefici che fcrive. ]acopo Spigellio, Tedefeo, parlando di Ottone dice :
„ fttem cateri Scripteres y et e»*,, temi y ò" nofiri, ■ vi&um navali
praiio a Venetis ajunt in caafit „
fuijfe fuibd fiater ex diutina difeordia in Alexandri Papa gratiam „ redierit. ^ ( >« Scbolm ad Gumermm lib.
1. de gefiU Fnderici ) Ertemano Schedel)
Tedefeo, nel fuo volume De biflortis atatum
mtmdi fol,t%i. Rampato in Norimberga, fcrive parimente la prefa di
Ottone, e la pace feguita per opera de’ Veneziani. Alberto Cranzio, Autor diligemiffimo delle cole idi
Germania, che Icrive, fpefib allegato dall’ Avverfario, fegue la detta Storia,
e dice ( Metrop, Saxon. lib, 6. cap, 37.
„ Annui erat feptuagefimus fe„ ptimnSy Ò" Eufebii contìnuator tradir,
oSavus, ut AH nonni pofl „ mille eentumy
cum- Imperaror y capto Otbone fiUo, quem rlajfi prg*. yy fecity Veneta classe intercefto, Vbnbtias,
ubi erat fummus yy Pontifex Alexander y
ebeoucto, de pace, Ò" reeonciliatione tffira*,, citer cogitavit. Il
Contìnuator di Eufebio dice lo fieffo tutto
di diretto contra quanto vuol affermar rAvverlario; come Martin Cromero
nella Storia di Pollonia, ( lib, ii, p, 2. ) e gli al44legati dal Genebrardo
nella Cronolt^ia. ( lib» 4. foL dii. ) Vi
fi aggiungono altri forefiieri, Giovacchimo Becichemo, Scodrenfe, nel
fuo panegirico; Gregorio Oldovino, Cremonefe, nella fua Venezia al lib. 3. Orlando Malavolta nella
Storia di Siena p. i, lib. 3. car. 34.
tien quefia narrazione per maggior verirh. Modernamente Giofeppe Bonfiglio,
Cofianzo, Cavalier Meffinefe, nella
Storia Siciliana p. i. lib. d. e p. 3. lib. 2. e per ultimo i Padri
Digiti. by Googlc DEL
FRANGIPANE. Padri Gefniti, nel cui feno
ora unico refugio hanno tutte le fcienze, dottrine, e buone arti ( minalecito,
quando allego uno di cflt che Icriva,
allegarlo così in plurale; poiché i loro Icritti non cleono, le non purgati, ed
approvati dagli altri) dicono per cola chiara, lenza veruna dubbierà, parlaiido
de* Veneziani : „ licere Fi-,, itum F edntci Aembarbi Otbonem^ captumque
ohulere AUx. Ul.Pon„ tifici^ ijui Vertetias Profug&rat. “ Marrmus del Rio
diftfuijitio. Ultimo, lalciando altri
moderni, non lafeierò di allegar anche i noltri Giureconfulti, i quali léguono
la detta Storia, effendo Autori di
profcHione, dove fi tratta di roba, e di vita, che gli uomini pih cauti, ed
accurati; e Mrò degni di efler leguiti
in quel che Icguono. Pietro Ancarano, IX}Cror antico, nelle lue letture
canoniche {in c.i, nu.io. de conjìit.)
facendo mcnzion di Papa AlelTandro, dice tanto, quanto balla per confcrmazion della Storia : „ prò quo
Vr.NBTi arma fumpfere,, contro Imperatorem Federirum y Ò" ohinuerunt in
beilo. ^ M. Antonio Pellegrini de ;wre fijci nel tib.Z. ai titolo de mari num.
i8. fìt la iìefla narrazione. Camillo
Borello nel volume fuo de RegisCa tboltci praftentiay al cap. ^6. num. a^4.
allega, e iiegue Angelo Mattiaccio de
vta jurisy nel lib. i. cap. ^6. e gli allegati dal Dottor Marta, i quali fìegue
parimente (ri» Jlar.de /urifdiBione p.t.
cap. i8. num. 21. ) : i Dottori Francefi parimente la feguono : Stefano Forcatulo J. C. { deCalUr.Jmper, fib.
pag.q.ij.) yy Planb ^ Duch {Venetiarwn)
ematus didici non parum aMÌàilfe Alexandrum
„ III. Pontificem renmutrantem fcilicee Venetos y quiy SebapianoZia» „ noy Federkum AemAarbum Imp. navali pralio
profiigarunt. Guglielmo Sodino nel luogo contra il quale fcriveremo infra
al num. 67- fegue la detta Storia, come
egli dice : „ qua omnibus,, omnium feri biftoricorum fctiptis eonsinetur : e da
alcune paro le ivi molila di non creder sì facilmente certe cole ; e pur crede
queOa. Crifioforo Sturcio, Dottor di legge, Tcdcico, nel luo libro de Imperio Gtrmanorum cap. 4p. num. 17.
inerendo alla detta Storia, conferma la rotta dell' armata* di Federigo da'
Veneziani; e giuda la dottrina legale di accordar la dilcordia de* tedimonj in
quel che dicono alcuni, che non Ottone, ma Arrigo, phmogeniio di Federico,
folle Capitano ; alTcrendo altri che
Ottone non avelTc et^ abile a quel carico, egli Icnve che vi 45folTcio due hgliudi. Ma io non mi contento
di quello accordo, perché non c é
bilogno ; che punto non olla Tardilo argomento
del Sigonio centra la detta Storia, il qual ha tralatuaca di narrare .*
die* egli che Arrigo dei 117^. aveva anni undici ; onde Otton terzo fratello allora non poteva aver
ec^ abile a trattar negoz;, pruova che
Arrigo m quell* anno avvflc anni undici,
perché di lopra ha riferito che ave/Tc anni cinque, quando fh fatto Ré di Germania, che fb del 1170. le lue
parole così dicono .* ( de Oicident.
Imper. lib.ì^ fub anno iiyó. fol. ^43.)
„ Hcnricus fuit Rex Germania y ut fupra diximus y qui cum annis zi. „ ejfet natusy fatili quam atatem agere
Federicus, Ù" Otbo pofì eum,, nati pofuerint, ìdefì, quam minhnè rebus
agendis idoneam, „ vidersnt li, qui
Otbonem ante bac tempora pralio navali eum
Tom IL Pp,, Fade ipS
ALLEGAZIONE „ Faderatìs nnflixijfe
fmpfcrmt, con quii pruova poi di fopn abbia detto che Arrigo avelTe cinque anni
quando fu latto Re, Dio ve lo dica;
perchè egli non dice altro, che cosi. „ Henricum fi„ /ivi» Minmim gu'mquc punm
Refem Ccrrnmit legi, tvmdem^uc „ per
PhUippum CoUmieaJem jtrehiepifcepim Aqws currnit, “ Quello e quanto il libro del Battefmo adduce, per
provar la fua etìiy con che intende aver
a fcriver contri quella Storia contri le atte4$ dazioni di Roma, e di Venezia,
e tante altre. £’ da notar ancora, che
egli non vuol che Otton, il qual, elTendo terzogenito, poteva aver otto, o nove
anni, ( al fuo conto ) non potefle effer Capitano, ma fh che Arrigo di cinque
anni Ca dato fatto Re : al che non fi
può rifponder altro, che un Regno può
aver un fanciullino per Rè, e poi elTer governato da fapienti perfonaggi :
perchè adunque un' elèrcito non può aver un fanciullo per Capitano per infegna,
per dover poi efler retto col confìglio
dei Veterani ; Mrlochè Caligola confidava ( come aveva in mente di fare ) di
crear Confolo un fuo cavallo prediletta, ( Suet. in Calig. pag. ioa. Die. Ut,
6p. ptg, 830. ) Pofeia chè anche egli cosi era dato condotto nell' elercito
Romano ; cosi anche i Rè di francia
fono dati portati bambini. Non odan te la eth tenera di Corradino, i Guelfi di
Tofeana non mancarono di far idanza per via di Ambafeiaduri in Alemagna di farlo
venir contri Manfredo fuo Zio, che gli occupava il Regno di Sicilia, e di Paglia .■ al che non
acconfentendo la madre, forfè impauriu
dal cafo di Ottone, fi fecero dar un fuo mantellino, e lo portarono a’ Tuoi,
che gran feda ne fecero; follmente ^
aver pegno, ed infegna da moQrar contri i nemici ; acciò fapelTero che fotto l' ombra dell' imperio
combattevano ; venuto poi Corradino a
maggior eth, ma pur ancora fanciullo, non redò
d'andar contri Carlo. (PsuJns AemUius tifi. Sut. Edutrrdo.Jo, Pii. luna! Ut. 6. cup.8ì. ' M.p. eup.%ì. ) C «1
Otton non farò dato „ il primo, ut quem
vet imperare jujjilìis., is Jiti Imperuterem etium „ queret, fimut eliqutm i pepulo meniterem
effitii fui; SaJluJi. de teliJugureb. pag. no. } jdclla qual colà i nodri
Giureconfulti dicono: htfant petejl effe miteif Ò" Rex, (Bar. ini, l. in
prine. C.de muner.&bener.fii.io.O' allegat.per Hippet.de MarJU.in l.
infans. nu.p.ff.ad l.Cem, de Jicar.iT
S/lvan. de feudi recegnieienem q. jd. ma». 7. ) Ma che Ottone non poflà elTer
dato abue a quel carico, fe cosi poca età
avelfe di otto, o nove anni, l'argomento è da retorquer con• tra '1
Sigonio, che, eflendo dato Capitano in quella fazione, foflc dato di età abile; da ehe fi potrebbe
argomentare che Arrigo avelfe molto piò anni, dopa che fi vuol argomentar la
età di un fratello all'altro,' maflime
di Arrigo fi potrebbe, non avendo altra
pruova, che quella di fopra, la qual oltra che è leggeriffima, ha congettura
che mollra certezza in contrario ; perchè
nella Cronica ai Otton Frigingenfe, (lit.j.cap.fi.) ed in altri autori fi trova, che ad Arrigo nell'anno
1170. quando fìl coro47 nato il Padre, diede moglie Codanza, figliuola del Rè
di Sicilia, di modo che in quellàmto, elfendo uomo da moglie, non poteva aver
anni cinque. £fe il Sigonio fi feufa d’aver ieguito Gottifreddo Viterbienfe,
ilqual ferivo che tal matrimonio foguifTe del
tiSò. fi rilponde colle lue proprie parole ( lib, 15. de reg. haiyy
f to meno lo doveva fare, quanto che il
numero di quegli anni con corrilponde
aU'indizione che vi mette i hcchè ragionevolmente li può fofpettar effeme errore ; però del tempo
di detto matrimonio non h fidando il Nauclero, per la varietà degli Scrittoti,
dice ; yy Vides bic qubd Scriptotts
fantpji non folum diverfa, fed adverfa ferh
yy pferunt. Utruu verius s(t Qbus novit. Qlcra ciò, fi lu un48 altro
argomento contra ilSigonio, che Arrigo in quell’anno tiy6folfe molto maggior di
età ; perciocché vi Hende l' illrumento della
pace (atta da Federigo col Pap a, e della triegua col Ke di Sicilia, e
co’ Lombardi/ dove il Padre, e Arrigo Tuo figliuolo giurano la manutenzion di dettò frumento: fe Arrigo
adunque del 1176, • folfe (lato minor
in quella maniera di undici anni, non avrebbe
potuto giurar dante i capitoli dei Lombardi tranfunti ne’facri Canoni, e
feguiti dalla Chicla, e oflèrvati ne’ comuni giudicj; (r,
vuli. e, pu^i* 22. ^.5. S. Thomas, 2.2. 8p. arhc. 10. in, corpotc, (T allegata per AffitH. in cap> i. §• hem
facramenta* mtnu 7, 8. de pace ptranu
firmand. Socin, conjil, j 3. vtfis copJUiis, num, 3. voium, I. ) perchè
fpccialmente i Lombardi non avrebbero accettato il Sagramento di un fanciullo
di undici anni, fe fecero querimonia contra la legge promulgata da elfo
Federigo, che i minori codituiti in
pubertà di anni quattordici potedero giurar, per validar i contratti ; per la
qual querin^nia Arrigo era rifoluto rivocarla; e non io avendo fatrq, (
percioochè 1^ da morte foprapprefo) molte Città di Lombardia le hanno derogato
efpreflamente ne'lor Statuti, come le predette cofe attedano. ( Jifjlt8us in d, §. jin, nu, 8. Àtber. Fuìgof Paul, relat.
per Igneum tn autben» Sjtcram. pub. C. fi adver. ven* d'u* Qumer. ltb.%, de
uftisFridersci fot. 127. ) Avendo
adunque i Lombardi accettato u giurameni»
di Arrigo, è conghicttura fondata, che egli non avelTe quella età di undici anni; ma per aver fottoferitto, e
giurato, fi dee creder, e tener che folfe molto maggiore di quattordici anni. (
per glo. in c. prttfentia de probat,
allegat. per Alciat. de prxfumpt, reg.
2. prsfumpt. 14. nunu d. traS^. som* 4. foL 313. et per Mcnach. ^^prtefumpt. 50. nitnu 22. Uh. 2, ) Onde il
Sigonio, fondandoli in cofa si dubbia,
non folo non prova quel che intendeva di
provare, ma s’incende aver provato tutto il contrario per r^ion legale, che dice : „ Dubia prchatio facn
cantra prodttcentem. „ ( f. in prafemia
de probat. Ò* ibi Card, col, 2. Abb. num. 34.
„ Bero. nu. 138. Mafcard. concluf. ^71. Dubia res- num. 2. Sytag*com.,,
mu». opin, Cod, fit, eod, num. et sìlegat. per Vincent, Annibat.,, m nddit. ad
Albam confil. 244. dedu^um in fi. et per Cardin„ Ti^. pnabL conclufi in verbo
probatio dubia conctuf. 766. num. 8.
voi. 6, fai' 5P4. ) Però,
tornando ad Ottone, e recorqueodo, come dicemmo, l’argomento, cheOccone, cflendo dato Capitano
deirarmaia^ave> va età abile a qoel carico: quedo fi conferma, perchè egli
reggeva Tomo II. Pp 2 la Borgogna, e
tutto quello Stato, fuccelTovi per eredik mater-i na, del qual fcrive Guntero, Autor che
feguiva la Corte di Fedcrigo. ( lih* I. de gcfìis Friderici /. ) „ Òubium puer incfyte dici,, Resene y
Come/ne veln\ vererum nant Rcgné PoTBNTER,, AUobregutn materna R e G I s,
regntque decore „ Dignns ab encelfo
nomen deducit Otbone, 51 Dice, dnbittm,
&c. perchè fi legge eh? il Ducato di Borgot
gna per avanti folTc Regno, ma de’popoli fieri: ebbe Re piu di cento trenta anni fin a Rodolfo ; il qual,
non potendo pih lopportar le continue fedizioni di qucTudditi, rinanziò il
Regno a Corrado Impcradorc, che fh
ridotto in Provincia, come era di prima
• ora è Ducato, ma con potenza, e prerogativa regia. ^ r* vùìumvs. li. l* cap, cum Captila de
privil. Cencil. Tridente cap. II. fejf.
24. de reformar. Abb. conf. 62, in controverjia p. 2. Cbejfan in princ. Juper confuet. Burgand,
Ò" in catalog. p. l. conJider. 44. Sigibert. in cbronico fub anno 1032.
lare Frane. Gnì/ìman. de reb.
Heluet.^ lib. 2. c. 8, (Sr 13, Jac. de Ardi?^n. l. f. i. quibus
mod. feud. amir. Petrus. Caiefat. de equeflr. dignitar, mmu 120. rraH. tom. 18. fot. 31. ) Ma il Sigonio
dice che Ottone non aveva ek abile a
maneggiar negozio tale di combatter coVeneziani; e ciò dice, come gli Storici
diceflero, che fi abbia portato bene, e
vinto ; c poteva penfare che quefia fofle fiata
fa caufa, che egli non avendo eth di fperienza forte rotto, c prefo quafi dalla mek meno di numero di
galee; fcrivendo Obon Ravennate : pars
Otbonem increpare, qui inesplorato es IJÌriee ora foìvtjfer. Or lafciamo d’inveir piu oltre,
come fi potrebbe, centra quell’ uomo in altro cosV benemerito delle buone
lettere. 5iManco crror è quefto del
Sigonio, che la sfacciataggine di Gior* gio Menila; il qual, icrivendo d#
ansiquieare Viceeomitum al lib. ò. per
tirar ancor erto che la concilìazion con Papa Alelfandro fia fiata per U vittoria de’ Milancfi, nega la
vittoria navale de’ Veneziani, c la preCa di Ottone ; procura diverfi argomenti
vaniffimi, c frivolìflimi; fpccialmente nega che Federigo averte alcun figliuolo nomato Ottone; e dice non aver
letto che ne averte i'e non due, Arrigo,
e Filippo : adunque le la Storia non è vera
per lui, che non ha letto che averte altri, che i predetti due figliuoli ; farà vera per gli altri che
avranno letto, c tutuvia leggono, che ne
averte cinque, tra’quali il terzo genito era Ottone, come abbiam veduto di
fopra jper Guntero, Corti^ano dì
Federigo. L'Abbate Urlpergcnfc, viciniflSmo a quc'tempi, e for-, fe contemporaneo, nella lua Cronica fotte
l’anno nytf.dice : „ Jm„ pcrator quinque jam gcnucrar filioSy Enricum^
videlicet y quem defu „ ^avir fieri
Jmperatorem y Friderkum y quem effecir Ducem Sitevo^,, rum, ér Otbonem, qui
poji modum babuir terram matris fine : “
poi tratta di Corrado, e Filippo : qui fi leggano tutti i l’edeIchi, la
Cronica di Suevia, la fpofizion, la Cofmografia della Germania, il Teforo delle GeneaU^ie. Il
Nauclero generat. 40. fot. 2^6. ) oltre
ciò nega che pqtcrtc aver annata, perche non
aveva erre marittime ; fopra di che dilcorreremo nella fecondi^ parte di quefb allegazione : il Bardi fopra
ciò dice tanto che ba vi è quello connunaerato, che dice. „ Ante prin„ Cipem
portam templi y inter angiporti ojìiay lapis ma^nus rubeus qua„ dratus tjìy in
quo aris quadrata itidem lamina infixa foliis vefiitOy „ in qua Alexander IH. Federici Imperatoris
Collo pedem imponi „ /wr; ubi propterea
litterx incifas leguntur : Super Aspidem &c.I ( Itinerarium Ital. p. i. pag, 34. F.
Sanfovinus in deferìptione Venet. lib. 1. pag. 34. Jofepb Bonfìl'tus
Conjìantius in bijìoria SicuU p. I. lib.
6. pag. 241. ) Egidio Bellamera, Prefule di Avignone, vicino molto a quei tempi {in c. faerk de bis
y qua vi metufque) dice:,, Alexander
Papa y ponens pedem fuum fuper Cervi CEM
j, Imperatori, ipfum cenando (iixie : Super ofpìdejn, Ò“ Bajilifeum
0'c. 11 Cardinal Giacobazio nel fuo
libro de Concilio ( lib. i. art. 18.
fol. ì6. col. I. ) „ Alexander III. pojìquam apud Claramontem ( Federicitm ) Imperatorem damnaverat, et Venetik
ante fores S. Mor ii
3o^ ALLEGAZIONE ^ S, Marci
frQjhatttm collo caUover^, QucfH fono PrcUti
gn^i^ e Canoiiifli dotcilTimi, e por lo credono, e rifcrifcono, come
fanno gli allegati dal Dottor Marta ( frsB, de /»« fifàid. p. a. e, antichi Qommentacori di
Dance» che fi leggono rifioriti dal
X^ndino, nel iS. canto dei Purgato» rio,
per quel che dicemmo fopra al num. jS. riferifcono Io ftcRb atto. Lo riferifce Giovan Villani»
tutti quelli vicini aquetempi, ( hb» i* bifi* ^»p* 3^ ) Gennadio, Patriarca di
Collanti' nopoli ( de primatu Petri cap,
i. fe 3. 6. ) COs!i dice.,» Romano^ »»
rum Jmpcrator Aioxandrc Papa inclinata cerwe coUum ejus pedi „ fubmijit^ arm dteeret'. SupiR afpidem ^ tT
bajilifeum, &€. et ille j» re/pondif
: non (ibi fed peno obediemiam exbibeo : (Sr Pontifen : ^ Cjr mibi, et peno, “ Il B, Giovan Gerfone,
fehben non loda quello atto, non rella
però di crederlo.- de ponft, pcclejiaft. p.U
conjiderat.^f» ) Il B. Antonino nell* orazion a Pio II. ( bi/ì.par,^, fif. 11. cap, 17. §. I. col, 4. foL 185. )
dice: „ Alexander III, „ ut juhar
emicuit^ fridericum J, Imperatorem ut afpidcm ^ 0 ! baJUh, „ feum perfecuforem Ecclefie proprio pedo
concjtlcam» “ Quello è lànto, e iettcratilQmo Teologo, e CanoniUa, e ciò
riferilce per 5d trionfo della Chiefa,
tanto è lontano che fi fcandalezzì, corno
fa TAvverlario. Non fi fcandalezza manco l’Abbate Tritemio diligentifiimo io tutto quel che fcrive : dice
che Chiliano, Arcicancellier di Federigo, ilqual dalla Storia di Obon, e da
altri è mentovato eOer fiato prefente,
abbia icricta un opera che intitola : Friderici Imper. gejia^ 0 vita ^
riferifce ( de feriptor. Ecclejié^. fub anflo xiòo- fol, p, ),, Alexander Papa
IIL fedir in „ Cattedra Peni annis uno,
et viginti .• multas in/urias d Friderieo
», Imperatore fuftinuh ; ipfunufue Imperatorem tandem fuperans, in „ SiGNUM suBtECT(ON(s e/US COLLUM pcde
eonculcovìf, dieens : I, fcriptum eft »
Suptr a^idem, 0 e, Non fi fcandaleziano manca
i Greci, i quali, aderendo a quanto è fiato conchiufo nel Concilio
Fiorentino, che 1 Primato di Pietro continui ne’ Romani ^7 Pontefici che di tempo in tempo fuccedono,
nella cenfura Orienule recitano la detta Storia per le parole che difle
Federigo al Pontefice : non tibiyfed
Petroy efiendogli mefib il piede fui collo ; unendo quelle a quelle di
Cofiantino dette a S. Silvefiro : (
Cenfura Orientai, cap. 13. pag. 334. ) Però i Moderni che Icrivono le Vite de i
Pontefici recitano la detta Storia in quella di
Papa AlelTaodro^ ( Alpbonfus Ciaeonius fol, 470. } Lo recita medefimamente
Lodovico DomenicKi nella Storia de’detti, e fatti de’ Principi. ( lib, 6, ear. 287. ) Non lo ha
manco faputo negar Giorgio Menila, dove
nega il refio della veritb di quella Stona;
( de antiq, Vkeeom,) il qual atto febben non è efpreflb cosi ben dagli Autori, che dice rÀvverfario efier
fiati prefenti, non va la confeguenza,
che non fia fiato vero : come non va la confeguenza di fopra al num. 48. il B.
Antonino ^non lo riferilce, adunque non
io ha faputo, nè creduto ; perchè lo riferifce por ( come abbiam mefirato ) in un’altro libro :
ma i detti Au» 5Stori rlferifcono la umiltazion dell’ Inperadore con certe
circoAaoze che non danno a creder che non fia vero il redo. L’Avverfarto
riferifce che Romualdo Icriva: „ Cumque ad Papam apn y traBus divino fphiiu y D
E U w in Akxandro vcne~ „ ransy
Imperiali dignitate poftpojua ^ rejeBo pallio y ad pedes Papa,, rotum fe
extenfo torpore iaclinavir. “ ( fol, 450. ) Recita parimente che l'Aucor degli
atti d’Aleifandro dica : yy Depofito da-,, m/dcy proflrmjàt fe in terram y et deofculasis
PontificiSy Tamquam „ Principis
Apostolorum, pedibus'y *•*" che è ^uei che gli altri Storici raccontano elTer dato detto dall’
Imperadore : Hon eibi, fed Petto y di
modo che quelle parole, tamquam, verranno ad
eder dell’Impcrador, e non dello Storico. Provata con tanti te5pflimonj
quell’azione, fi prova la vittoria antecedente; perchè metter il piè fui collo, 0 il giogo a i
nemici, è ngiUo, e confermazion delle
vittorie : onde i Grammatici dicono dare
yy CoLLUM ejl BELLO viCTUM effe “ ( ejp Propertio ),• come fecero i
Milanefì, che, vinti da Federigo, fi gettarono a’ Tuoi piedi co* coltelli al collo. ( Abbas Urfpergenjis
in Chronieo fol, ipp. ) Scrivono di
Marzian Imperadore, per modrar che vinfe i fuoi
nemici,, omninmque inimicorum fuorum colla Domini virtute yy CALCANS, fex annis y me^e y regnans y in
pace quievit, “ ( /ornandes de Re^torum fuctejpone fd, 78. ) perchè il vinto,
jnre belli redando di ragion del
vincitore con quell’atto fe ne toglieva il poflelTo; giuda quel che è fcritto
nell’xi. del Deuteronomio :,, quem calcaverit Pet vqfter, erit : dal qual
calcar de yy piedi è propriamente detta pjfejfioy quafi pedum pofirio,yy ( /.
r. et ibi ff. ff, de acqtùr, fo^ef,
Ù" Axp* nnm, Pad, de Caftr, nunu 5.
Jaf. nwn. z, AffitB, decif. zpq, Rex nnm, 7. Facon, de^ dar. lib, 2. cap.^ 6. poft medium. Tbolofanus
in Jj/ntag. /uris Itb.Xy cap. i3« num.
q. ) In contrario di quede pruove 1 * Avverfario dice che Papa Aieflandro non puè aver fatto
qued’ atto, edendo vergognofo,
arrogante, e totalmente infoUto : cosi appunto egli dice. „ Magie indeeorumy qno ajferitury
Factum iliud arrocans,,, Cr FENiTUs iNSUETUM, quhd bumiliatmn ad pedes
Pontificit caput,, Imperatorie pedo ipfe prefferity acque infultaverit verbis
ilìit e Super,, afpidem Ù'c. Come arrogane tT injuetum ?" Si legge nelle
lacre di lettere che Giol'uè fì lece
condur avanti i cinque Rè amili, e
tremanti, i quali, rotto il lor elercico, fi aveano nafeodi in una fpelonca; ed ordinò a’fuoi Capitani: „
ItOy et ponite Pedes „ SUPER colla Rbguu
ijlorwn, " ( Jofue io. ) Virgilio induce
Turno a far qued* atto fopra Eumede vinto a mone. ( Aeneid. lib.io.) yy Semìanimie lapjoque fupervenity
Pedb Collo iMtR&ESO£* da creder qued' ulo eder continuato, e fe non fe ne
fa menzion nelle Storie tal volta, fia per efler dato tanto ordinario, che, fenza dirlo, s’intenda; perchè fi legge
a’ tempi piò moderni queda dd& cerimonia col verfo del Salmo ; Super
afpidem ( ferivo .Otcon Friimingeilfe,
il qual dicono edèr dato Nipote di
Federigo ) che fede mta da Giudiniano, ilqual, preib Tiberio Apfimaro, avendofi concia lui fatto
Imperadore infieme con Leonzio, dice : „
Trberinm, Cr Leomium captat y ae in cateni^
„ pfuos pojttos per platees trabìy (JT pofiy univcrfo pepalo adamante y
Suyy PER ASPiD^M et hejiiifcum y Ù'c. Ò*Pedibus COLLA corum CaLCANS. ( Cbronic* tib» 5. cop. 174 ) La ftefla
cerimonia ferivo Zonara di Diogene
Imperadore, quando fu prefo in battaglia da A(Tan Soldano, condotto alia fua
prefenza: „ Sdtanusy nomine Axan y gayy vifus efi y ut natura fere, neque tamen
fuperbia elatus y de cupu yy moderetione
y Ù" jujìitia multa memorantury addudus ( Diogene! ) „ ad pedet fiens fe projìravif* Tum ( Ananas
) quafi numine j> ^ exiìtìt\ (T de
MORE bumi jacentem calcavit : „ deinde
erexity atque amplexus ejl eum bujufmodi verbis: Noli maeyy rerCy hnperator'y
ita enirn fune res bumantr. Ego verh te y non ut yy captivumy fed ut hnperatoremy traSabo, Et
Jtarhn ei tabernacula,, Imperatoria, menfafque adbibitum Juxta fe collocar y
captivi! quot~ yy quot redditi!, ^ Qui è
da notar che il metter il piè fui collo
del vinto, per umile che fi apprefenti y è de more, Jtem che quefto è atto di poflefTo debito, non di
Àiperbia ; perchè dice, ncque fuperbia
elatus, Jtem che Alhm y avendo l’animo moderato, e volendo trattar Diogene da
Imperadore, non reflò di calcarlo. Item che ciò fece come tnfpiraco da Dio, che
dice : quafi numine affata!, da Lo fieno fecero i Romani, perchè T.
Quinzio Cincinnato, volendo rilafciar
gli Equicoli da lui vinti, volle però che fottometteffero il collo al giogo.*,,
ut exprimatur tandem confe/fio fub^ „
oHam domìtamque gentem fub jugum abituro! ) come fecero anche I Sanniti a’ Romani : quoniam vidi, et y
forrunam fate^ yy ri feirent. " (
T. Uvius lib, 3. Cf Itb. p, dee, i, ) In vece di piè, con che dovevan calcar il collo a* vinti,
era il giogo dirizzato con tre afte in forma del Fi Greco, che forca, come
ora, djfi chiamava. Era fatta quefta
cerimonia, acciò non fi mettefle in
contefa, cerne fpeflb fi fa, la vittoria ; dicendo Ennio ( ex Prifehmo hbro 4. ) vkit non eft viUory nifi vtdus fatetur, Dionifio AUcarnaffeo nel libro io. vi aggiunge
che quefta era meda in cerimonia dì
religione, dove, cosi pafl'andovi i nemici,
toccando l’afta, di fopra, chiamata tigillo, era far confeffione, come di fopra, e reftavano Uberi, ed aflbiri;
forì'e fu ombra di quel che, venuta la
luce, fi vede nella Chiefa adoperato; come
tante altre cofe fimiU fi veggono. Nè manco quella è fpiegata fempre dagli Scrittori, quando fanno menzion
della confelTion devinti. Efleodo vinte le navi diAntioco avanti il porto di
Efefo, non iferivono, fe non „
pofieaquam conftjjionem vidh fatti expref,
yy ferum, “ f T. Livius dee. 4. lib. 6. inf, ) Vifto adunque che quell’ atto è ordinario, che il vincitor, per
modello che fia, fuol ufar,. togliendo
il poirelTo del vinto, ne vk confeguenza^ che
fia preceda vittoria contra Federigo ; che non può elfer fiata, come fi dirV a baflb al nom. y 6,, fe non la
Navale de’ Veneziani, dove fii prefo Ottone fuo figliuolo, Duca, anzi Rè'
di d4 Borgogna. Ora veggiamo fe era
lecito a Papa AleflTandro di pre.
icrmctterlo : troveremo che no, dicendo i Giureconfulri : „ ij „ quod confuetum eft fitti non dicitur
aréitrariumy fed neeeffarium, ( Bai Bill*
if 9 /« qutatm^ue netnh, 4* Everard, in Topica /vrh y loco facit gl, in c, ad yipojìolicie in vcrò.
fadtfoHionemy de re /ttd.iné, vide
Novar. in terminis in c, inter verba, un. 47. 11. g. opewum ìom,u fol,io. Late Cenehardus Cronaleg,
lib,^, fot, 50^.) Ma PaAieflandro bilognavache lo facelTe in efecuzion del
precetto di Dio, per quel che è icritto
nel 33. del Deuteronomio i „ Nega^ bunt
te mimiri tui, (27* tu eorum Colla calcasis : ^ a nei Sai'1 roo 17. Cadent
fubtus pedes meos, conforme al vedo che egli
difTe : Juper ajp 'idem, dove dice Eufebio : „ Dig^atem propbetiyy ci
fpirhus contemplare, qua pronùjjionem ArosTOLiS Salvator fe»,, citi Ecce^ da
vobis porejlatem oalCaNdi fuper ferpentes > et fior»,, piones y (y [uper
omnem virtuten» inimici, ( Catena Barbati fuperPfal.ty,) Ónde anche A può
conghietturar che forfè per pre» 66
rogativi di quelU promiOione i piedi del Pontefìce fi dicono beati. Non far^ fuor della mia profelfion
legale dir quello/ perchè i nofirì Dottori prendono argomento, come lor torna
bene, non (blo dalle voci delta lingua
Ebrea, e Greca, ma anche dalla Caldea v gl. in rubr. ff, fol, matrhn, Efièndo
adunque quello un trionfo preordinato, •
pronunaiato da Dio agli Apposoli, e alia
dignità loro, Papa Aleflandro non lo doveva pretermeeeere lotto pretello di
modefiia, per mio parere ; perchè avrebbe
mancato, come Saul, il ^ual credè far meglio laJvar le pruniaie della
preda pel lacrìfizio, e non le uccider, come Dio aveva comandato, (i.ileg. 15.
r. fiiendumZ.q. i.) Gli Atcniefi, daquali i Romani, come dicemmo, hanno
imparate le leggi, par che anche eifi
decidano quello punto come riferifee Tucidide. y, Gli uomini, dice egli, dalla naturai
ncceflìth fon modi a figno„ reggiare, ciafeun a colui il qual è fiato vinto da
eflb. ^ Però Papa Alelfandro, trovandoli
in quello fiato, gli conveniva dir, e
ollcrvarquel chefegue: „ itane autem hgem ncs ncque tuUmusy „ nequCy ea latay primi ufi fumm\ fed jam
reeeptam à Matoribui oc„ cepimus y O" ufarpemus, perpetuarti funtram
reliHuri. ( T bweyd^ Itb.é, inf ) Onde
fi v^ qual ragione abbia il Cerione nella fua
Cronica, il Bodino, e altri, benché Cattolici, a dannar quello atto; tra’ quali danno maraviglia ilGerfon,
quello Autor degli annali, e Francefeo Duareno ; {de beneficih lib. i. cap, 3.)
uomini di caiua letteratura, a‘ quali
lono da rii'ponder anche le coie (critte
da Giuiep)>e Stevano, leguace anche egli di quefia Storia: (deAdoration.
pedum Roman. Pont, cap. 5. col. 3« tr^^. tom, 1 3. p. 2. fot, 53.) „ Alcitandri III, fa&umy quoé tantopsrCy
ut tjvannicum ^ elevat Fran„ cifius Duarenus, commendare pottfì cum jure,
meritoque in religia„ nisy Ù’ Ezclejue infenfiffimum bofìem Federicum
Barbarujfam, non „ ut in falem
infatuatum^ quem jubet Cbriftus pedibus protereri, fed „ potius in borrendam belbtam calcibus
infultaverit, ^ Però Papa Alcffandro non doveva mancar (h eiercitar il luo )u^,
per la vittoria conceifagli da Dio colle
felici arme di quella SerenilTima Repubblica; col qual atto ora ne vien a far
foie al mondo a confufion de’luoi contraddittori. VI. L*Avvelario col Tuo argomento ci dk
materia di far un'altra dppruova di
detta Storia. Se il calcar del piede è atto unto infoTomo II. Qq lente) come
egli dice „ uf gàb^ tanto hherc inàu^um Imperatortm y yy- Jttfifiim to modo exnfperfitum faHis y et
di^is iwtrban 'n tnnJU „ taùsy dkrisy
efptrisy ptr Pontificcm enacerbatum y cum a panìtentiee yy tempio procul abfgcm. “ ( eod, fol. 456. )
Se adunque, facendo detto atto,
flmperador fe ne farebbe tornato addietro, e ritrat^ tata la penitenza di che era compunto, come
egli fuppone, conflando chiaro per tanti tefUmon) che Papa Aleflandro lo fece
;ed avendolo tollerato i’imperadpre
luperbiHìmo, bifogna che la cau(a fta prima, perché il Pontefice efercitava
quel che gli competeva jure belli; fecondo, per ricuperar il figliuolo, il
qual, non feguendo la pace, (lava ne’
patti di refiar prigione. Cos\ allegano
i Dottori. „ ImperatOT FtdericMsBarbatubeay ut Kecupbraret ejus „ jìitumy pajjus cjì Paptm Aiexandmm JIJ,
calcajfe ptdìbus ejui ca„ fmt, ‘‘ ( allegata per DoU, Martam d. C4p.l8. nu.2l,)
Nè fi per7ofuada rAvveriario, come facciamo ancor noi, che ri' umiliazione deU’Imperador folle atto di vera interna
penitenza, perciocché non lo inoltrano
tale le parole dette al Pontefice: „ non tibiyfedPe„ tro ; Itantechc petnitemU
cogit pcecatorem omnia libenter fufferre ;
yy in tarde ejus conttitio, in ore ejus confejffo, in o^ere tota
bwmlu „ “ ( r. perfeiia dìft, de panie.
) comC: ne (ù 1 efempio il Van gelo nella Cananea, che, più che era fprezzata,
ed ingiuriata, più s’accendeva a
dimandar la grazia della fanii^ per la figliuola a Crifto. ( Mattè» 15. ) Si
accorda ancora che non vi folle
7icontrizion nella lettera rhe poco avanti i’imperador fcrilTe al Papa-,
piena di accufe, e di iir^properj, fenza ninna confcfnon del iuo peaato ; della qual lettera, trovata a
Roma nella Badia di S. Gregorio, ne
regiftra parte U Bardi a car. 151. dove tra le altre dice.* yy Et quod manimwn
eji y novijfme Vbnetos, 0“ Veneti a„ RUM ’Dmqs.vl adverfui nos dhrexijìi quorum
ope y (T auxilio terre„ firn, Ù" maritimas noflfài copias in unum conera
Mauros congregayy tot y Uffa cum F I LIO. /^fito. y qmm vi y Ù" dolo
Coepf.runt, „ difperdere volutjìiy \.
55. Candinus in traila. moUf. fub ruèr^
qualiter Jit jidett, tortur, Ò" at^
togat, per lo. Baptifi, Bo/ard, in addition. ad Clar. ji, 64» nu, pi. Ó" per Tiraq. in Jnrtef. icgis Ji mnquam. C. de
revoc. donat, nu, 7. Ò' fequen, Bernaràm
Scardonius. de motejiiis conjugatorum. lib.
4. eap. 14. ubi.,, ^ippe nulla re parentet afficiuntur atrociui, „ qudm ntàloy et incommodis jilionmy ut qui
/ape etiam ftviffimosfui „ corporU
cruciatui neglexerinty eorum tormenta nequiverint iene: re„ pertìque Junt quiy
ut feryarent viram filiisy fe ipfos perdiderunty vh „ ta ìaHura ìltis fuccunere non verentes. ) I Canoni Ai, da i caA feguentt confermando.* Che
Bater diligit ma^s filiumy qudm feipfumy
recitano un cafo imravenuto in Puglia fotto Carlo li. d’ un omicidio,
dove il Padre, dopo efler Aato coAamiflimo ne* tormenti, trattandoA di liberare il figliuolo, confefsò
aver egli commefib il delitto, e cos^ ne
andò all'ultimo fupplizio • ( Aod. Barbat, i" c. atm in prefentia nu. 8l. de probat. alias
eafus vide apud Dh.bifi. tìb. 15. de
Àqudio fioro pag. 88d. Valer. Maxim, li. 5. cap. 7. Kavijiui Textor in officina, p.i. tit. amor
parentum) Appreuo gli efemp) che
add&cono i predetti Autori A da aggiunger queAo di Federigo, al qual non
avendo potuto ammollir la ferocia
dciraniroo tlpfut ricuperar il figliùolo, abbia ceffo, e A abbia umiliato a ricever gl*
infoiti ordinar) che fanno i vincitori a
i vinti, ma ordinati da Dio a i fommi Pontifici. Vili. Si dice per argomento^ legale :• La
ciofa limitata produce effetto limitato;
on^ da tal efietto A conofee la caufa, dr è con 77 verjo da tal caufa, l’
effetto. ( Bai. in rubr. ff, fi eert. pet. ver/Cr dÌBo de caufa,. Card, in 'c.
cvm dilcBi verf. et nota argumentum de accifat, Thatml. trBat. ctjfante caufa
§. z.nu. 147. et alleg. per Affi, in confit. fi quìs ahquem q. 5. in fi. allég.
Card. Tufebum praB, concluf. in verb. effcBus
regulatur conci. 47. et per Menoc. confi
^16. hi eadem. nvm. 6. Capo, confi. 133.
multa, nu. 31* ) Se la rotta data
da*MilaneA a Federigo aveffe caufaca la
78 pace, e la umiliazione a’piedi del Pontefice, ciò avrebbe caufato
prima a’MilaneA.* e fe cAi ebbero appena fei annidi triegua, bifognava che il Papa aveffe triegua di
altrcttantitonde, effendoque ' Ai effetti diverfi, bifogna che nonfia una la
caufa, ma dìverfa.Oltra di ciò, non può
Aar che chi ha vinto acquiAi manco beneficio di quel 77 che ha acqulAato chi non ha vinto;
nafeerebbe una Aravaganza, dicendo i
Giureconfolti:,,^! vicit ahum tnneit propter ficy non propter,, aliumy (
jBtf/d. in l, fi d^un^us nu. 4. C. de fiuis Ò* le^thn. liP^- • ' ••vvr „ Atfr. et in A y? ^uis vtt Jt que, »«.i, C.
Tertul, Cam. conf, vjx „ ie ha nnltjiom
m. 5. iW. 4. ) Altra era la conterà de’Milane.. fi, conte aUtiam deno, che era, per liberarli
dal giogo de'niioifiri imperiali; altra era quella di Papa Alcflandro, che era,
di eflér me&> in Sedia, erduii
gli Antipapi ; però, combattendo i
hdilanefi,pcr fe dovevano vincer, ed ottenere il fine per cui combattevano;
non erano come i Veneziani, che combatterono, c
vinfero, per metter in Sedia Papa AlelTandro. Però fe i Milanefi per la
detta rotta aveflèro aftretto l’imperadore alla pace, ed alla umiliazione a' piedi del Pontefice, e a
conceder la triegua di anni quindici ai
Rè di Sicilia, avrebbono vinto per altri, e non
per fe, che non ebbero, fe non i fei anni di triegua : blfognava ben dir
loro ; per altri, e non per voi, avete arato, o buoi.Onde bea fi adagia la
rotta che dietro con la triegua che ottennero, e la rou dell’armata, e prela
del figliuola con la umiliazione, e pace col Pontefice. E fe fi vorrS trovar
caufa, perchè, gonel trattar la pace con
Papa Alcflandro, fi trattaflè la triegua
co'Milanefi, e col Rè di Sicilia, fi trove^ che il Papa, favorendo i
Milanclì, e le altre Citth confederate, e, vice verfa, cflè favorendo il Papa, ma non per ragion di Lega,
non doveva coneluder pace fenza la ficurth di elfi: il che è arto proprio
della Chiefa Romana, come ne fcrive Papa
Innocenzio ( in diSo c, jfpi^nlicn, n».
3. Cr Hi Jom, Monah. nu. 3. de re jude. in d.)
„ Nera fdeluetem Ecclefu Remmie, numjatm voluit hn-,, bere faem^ na pais
/raèfanrm, niji prius exprimeret de pae ytfi
„ ndhnreniium, 6 " de perpetue feenritate emtm. “ Oltra di ciò,
fe i Veneziani, invigilando alla
follevazione, e liberazione dcllltalia
fecero far efli la Lega delle Citth di Lombardia, per liberarle dalla
mala amminiflrazion de’minillri Imperiali, ma con patto, che oflervarfero la fede data aH’Imperadore; '(
Blend. dee. 1. Hi. i. Siun.de Regna
Itel. Lii. 13. ftd. 518. 6" JIJ. Bare», d. rem. iz, [tX. anno 1104. Jb/. jt^. ) è ben da creder
che, trattandoli di pace in Venezia
coll'lmperadore, non abbandonaflero la caufa di
quelli che per opera loro erano fiati mclfi in guerra ; profelTando la Repubblica di non aver mai mancato di fede
ad alcuno; come fegnalatamente narrano
le Storie, ( Saiell. dee. i. li. i. c. 58.
Gniceierd, li. 3. c. pp. ) IX.
La pruova della detta vittoria la fella che s’incomincia a lòlennizzar la
vigilia dell' Afeenzione colla Indulgenza nella Chiefa di San Marco, e colla cerimonia di fpofar il
mare il di feguente, pel trionfo che in effa Chiefa celebrò, il Papa per detta
vittoria; fopra che dicono i facri Canoni:,, ( trnnkxrferie recordetio „ repreefentet ^qnod elim foRum. efi^ et Jte
not fait moveri^ tom^m „ ’tèdeamus, “ )
e. femel. difi.^ 2. de confecr. ) Per lo fieflb effetto di memoria de’ felici fuccelfi anche le genti
infiituivano folennità di felle.- nel
qual propolito fcrive Amobio net lib. 5.,, Acne illem „ ( bifìoriem ) vis tempority Ó"
vetejlatis obfolejeeret ìongitudoy per.
„ petuitais honore mandafìis: perocché quella folennith di fpofar
il mare che fi faceflè col concorlb di
tutti i popoli circonvicini, gih tKcento
anni ne la fede il Petrarca ( Senilium lii. 4. epi/le ^ 4. ) A quV tempi, ne’ quali ancora il
fatto era recente, ancor feguiva a
giubbilarne I* Italia ridotta in liberti l'uor del dorainio de' Barbari per tal
imprela, perchè per le vittorie acquillate
è flato coflume de’ Popoli, ed è meflb in obbligo dalle leggi, idituir
un giorno fedivo, (che ferve come Stilografia deirallegrez» za pubblica, e ferve per riconofeer il Sign.
Dioche l'ha donata. ( L I. C. ae pubiic.
lath. tib. xa. CT ibi And* de
Band, man* a. Jo. de Platea in princip*
lofepb. Moniard. verf nane tjuibttSy nnm. • 2. ) dove fcrivono: „ oh viHeriam^ quam
Jibi gloriofam imp. confc',, curut fnijf^ì fa/li dtes celebrari confuevcrune ^
Jiqtt gentes fe iniùjìb „ faOuToSy Ji
Diis dies In perpetuum opthd rei gejìay Ò" nmneris „ memoriam non dedicabunt: però conchiudono
che della pace, che fegu'i a S.Chiefa,
ed a tutta la Lombardia, nominata la pace di
Codanza, che fu parto, e frutto della detu vittoria, le ne doveva far allegrezza pubblica folenne. ( allegat*
per lo* de Platea ibi Refiaurus q. Ji.
Cajlald, traHat* de Imp^at. ) Conforme a quelli
dice il Card. Earonio, per la pace feguita.* ( tom* eod. fol. 4^5. B ) quis bac,, tanta nondejiciae admtrando
Imgua^verb viBorialem „ occinat bj'mnum
Cbrijìo FiHeri, etti Ù" erigat Jtmut de fuperatis bo‘ „ /iibuSj infuperabilibus inhnicis, tropbtea
perpetM permanfura. Il che non fi vede
fatto, fe non a Venezia, perchè ivi è fuccefià la vittoria, e la pace, effeodo fcritto
neU’ApocalilTe. 2. Vincenti dabo
calculum candidum: dove dicono i Teologi: y^conjlat apud Ve»,, teres
VlCTORlARUM DIES publieit fajiorum talfulis infcriptos confuc" 51 candido lapillo pranotari, a quo elarius a
caterif diebus difeef „ neretta',
pofuit autem^ hoc loco calculum candidum^ quod ir nottts ef? yy Jet bity qui in tbeatrisy oc Jìadih
certabanty et Vincentibus tra» „
debatur* ( Sixtus in bibliotbeca p. 1* Ìd>. 2. in •verb. calculus y faeie
glc. in l. i. in yerb. errorem, C.de error. calcidi*)SQ adunque fi debbono celebrar le fede, fi debbono
celebrar dal vincitore, perchè cos\ è
confuetudinc; cd il tedo dice .*,, Vincenti dabo,, calculum candidum.^*- Ma
della vittoria con tra Federigo, onde fe ? ;u'i la pace alla Chiefa ed a tutta
la Lombardia, non fi celebra eda
altrove, che a Venezia, viene la confeguenza certa, che i Veneziani abbiano ottenuta la vittoria, e non
^Itri: cos'i quelli che combattono,
debbono aver la corona, non quelli che danno
82 a vedere. Se muove qualche fcrupolo perchè la commemorazion del trionfo intravvenuto 1 nella vigilia dì
San Jacopo fi fia ridotta all' Afeenzìone, fi può dir con buona ragione, che
ciò fia, acciocché in quel giorno nel
giubbilo che la Chiefa colla mefn.oria deU'afcender di Cbrido in Cielo,
efprimefTc anche quella del Trionfo che
ebbe fopr» la perfona del iuo perfccuiore ; perciocché in quel giorno nella
colletta de’ divini uffizj fi legge nelle lczioni(:.*„, bumilia refpicit,
Ò" alta a longe cognifcit : ilìa utex„ tollaty bete ut deprimati le quali
parole fanno memoria di. quel „ che
l’imperador rifpofe aH'orazion del Papa, come riferifee il Ba„ ronio: ( to. 12.
fub anno 1177. 45 ^ faHum efi qubd yy
*^^^y 0 *** bumilia refpicit y et alta a longe cognofeity patientiant no^ „ Jlram, ( 5 " adverfte partii
bumilitatem confiàeram, more fuo potem de
^ fede depofuity et bumiles exalavit* Oltre a ciò nella pidola alla mcl
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FRANGIPANE. 51 r meATa, e ne"
refpoiiforj fi legge,jifccn 4 ens in ahttm ceptiv*mi!u83x1/ captivitatcm ^ ch*é
del Salmo ^7. nel qual avanci per canto
tempo dallo Spirito fanco h ^A^ta dclcritia rninutamcme qucAa vittoria, come dime Areremo in altra carta;
qui baAandoci dire che, ficcome il
verfetto.* AfcewUf io altunty Icritto da David per una uittoria, che [doveva luecedcr, è ridotto
dall'ApoAolo; e dalla Cbiefa
airAfccnfìon dì CriAo, cosi al giorno di eAa c ridotta la celebrazion di detta
vintala colla Aefla colletta^ che ferve aU’ur^a, ed k ali’ altra X. Perchè
tutto l’ argomento dell’ Avverfario verfa fopra queAo, 84che gli Autori da cito trovati dicono che
Papa AlelTandro fia venuto a Venezia accopipagnato da tredici galee mandategli
dal Rè di Sicilia; che par Aa totalmente
contrario a quei che noi alTcrimmo, che veniAc incognito in abito di Cuoco, e A
accomodaffe nel MonaAero della Caritk; par di averci convinti di falfo in tutto; avendo per coAantc che qucAo Aa fallo:
però ci reAa un’ altra pruoya, ch’è la
indulgenza della Caritk, dove ogni anno
concorre tutto il popolo a riceverla con queAo concetto ^ che Papa
AleAandro la lafciaAe, per quando fconolciuto ivi capitò per refugio, come ne fa memoria e fede la Cronica
di que'Padri memorata di fopra. Il Popolo concorre parimente alla porta
della Chiefa di San Salvatore, dove. ha.
per coAante, che il detto Papa, giunto la prima notte a Venenfa, vi dontniAe
fotto la coppola che vi era.’ la qual memoria è regiArata in una Cronica
di que’Padri, A trova copiata nella
Cronica Sanuta, che cqsV dice: Alexanàcr
III. Pontifex^ „ dum morem trsèerer tl^tnifiisy confecra„ vh AtMTf S. SAvaioris,
prasjentc Federico Imptfatote, fuper cjftod
„ etiam Mijfam ceUbravit anno 1177. die 2p. Augujìi, Ù"
Ecclejiam „ dedicavit ù" multas
indulgenttes conCeJJit i Ù“ in fc/ìo Transfigura^ „ tionisy 0“ omnibus tranfeuntibus per
porticaU^ fub quo ipfe dotmierat „ prima
noQcy quando Vcncnas applìcuit erat Prior D. Vivìanus^ qA „ pojìea anno 1180. menfe Martii fui$
eonfecratus Epi/copof Em«s» 8 5 QucAa
continuata amica memoria di un Popolo A tiene per pruova di verità infallibile;
fopra di che, come teAimonio ordinato da
Dio lenza altr^ fcrittura, è fermo nel Salmo 77.,, ^anra mandavit paìribus nojìris noia facere
eafiliis fuis^ ue cognofeas s^ene„ ratio Aia, Filii qui nafccntuTy 0 exurgenty
0 narrabunt filiis Juis, Per qcAa via i
Principi mandavano i raccordi importanti a’ loro PaAori, come faceva Antigono;, qui pracepijje
fiJis diceretury ut 0 „ ipji
meminijfcnty 0 ita pofieris prederant,^ ( T. Livius dcc. 3. /zèlo p, 505. )
Però dicono i Giureconlulti: Longa^ 0 tenax Po-’ » putì, Jeu Republicae memoria prò vernate]
bAetur „ ( BAd, conf, „ 48. ses.
probibita, num. 2. vol.i.frquitur Ttraquel de prK pri, ma parte nu. 2 treB, tom. 17, fA 141. )
perchè dicono:,. Raro fi fAfum invenitur
quod Universi dkunt\ però danno il precetto di
Catone, che doveva cAcr oHcrvato dall’ Avverlario .* yy Judicium /•opULl nunquam contempferis unus. ( Alex,
confi, 53. profpcHis num, IO. vA. 4.
Barbato, in c, tertio loco num. 3Ò. de probat, AfjiiH. de pace tenend, quarto
notabili num, 22. ) 11 che ferve per U il redo detto di fopra^eflTendo anche di
quella tenace, e continuata memoria appreflo tutto il Popolo. 3 C 1. Seguendo ancor io l'antica memoria
della Repubblica, e di Sd tutto il
Popolo, ricevuta ancora da quelli che non fcrìvono punto della vittoria centra
Tlmperadore; i quali dicono che Papa
AlelTandro concede le infegne le quali porta la SerenifUma Signoria in
cerimonia; dico eder ringoiar argomento di quanto i Venezianì hanno operato per
lui, e per la Sedia Apodolica; perchè
quelle infegne fono le itede che portavano gli Inmeradori Orientali,
come fi può veder nel Curopalata, ( de official'thus Palatii Cenft. ] come altrove pienamente abbiamo
dimodrato. Quedo dichiara che la Repubblica predaiTe l’uffizio d’Imperadore nel
difender Santa Chiefa; che è proprio di chi ottien l* Imperio di effer fuo Avvocato, c difenfore. f c. vmerahileM^,
tm. é, fot. }ó 6. ) onde dicono mem» nudifar i Ttgulis. j»TÌS,, Qiuncp all'ofinion di Giovan Andrea, sii che
gli altri (i fondano, l’addizipna. l’Abba^ nel. detto capitolo aun inflmtis, e
dice „ Std ofonte, io, jladrets femit
oppa/imm, dnm dkit Regem „ frtmit ex
frivilfgia jifeflolm mw» pojfe McemnmKrori 4 borni„ »e, mn à cmooxe^^ Scrivono
di pib i Dottori Francefi efleie ftato
pi^, dichiarato, che ta\ pivilegio li elienda ancor uli Uflìziali,
five Magiftrari delKegno; perchè il
privilegio cancello al Padrone comprende anche la ina famiglia.- ( r. ecdtfìa
i%. p. a. glof. in c, etniconun 1 1. tf.
I. re/»», lo, Rerctd. de /'«r. Cf prèvi/, Reg. Frane, m. p. Cero!. Degroffal. Regalium Francia d.
verf. marna /»» §. hmc ejiy et fcemdo (T
allegata per Prohan in addit. ad lo. Monacò,
in c._ ne aiiqm de pnvil. in 6. ) \e quali cofe s'intendono qui introdotte
remiffive con tutte le loro oppolizioni, eccezioni, c intelletti^ ^ «flèndo
Hata bm una tal concdCone fuori delle
tegole (di ragione, fi cavi argomento y efler giandillitno il merito ^Ua
Kepnbhlica/ che vicino a ^ue' tempi fu
combatter, e vincer in difela della Sede AppollqIjEa. Mi refian certi altri argomenti, i quali lin
fin del prefente difeorfo^ pe-r finiilo
in ricreazione, ho deliberaro riferbare; e dirò le (eguenti cofe, traponcndole
come intercalari. Abbiamo vide tante
pruove tratte da memorie pubbliche di
marmi, di pitture, da Croniche, da Storie fcritte dagli Autori di quei tempo, e da’ vicini, e da tanti altri
poderi, che han lor creduto.- oltra di
ciò, da tanti altri argomenti neceUàrf, ficchè a Roma, nella fala Regia fc ne è filtra
pubblica atteftazione. Non è però da
prender maraviglia, che vi fieno così arditi, che la vogliono impugnare,' perche iìnahè vi farh
Sannaflb al mondo, vi faranno miriti di
'contraddizione, che a vele piene urteranno, ed
opporrano alla vcrià, come le tenebre s'agitano alla luce. Chi a P7CÌÒ guardafle, non leggerebbe mai Storia,
fe non a ragion di Romanzi. Volendo il mondo anche neHe azioni palfiite
de'miferl mortali aver mano con innalzarle, abbaflarle,ed a fuo arbitrio
anche annoiarle, e come alle cofe
future, non lafciarvi verith determinata. „ aidee mìnima ( dice Tacito IH, j. )
„ tfanfue amiigaa funt, dam ali/ quoque,
ntode audiea pre corrtpertis baione/ ali/ vera,, «I! eentrarium vertunt, et gUfeit
utnmque pmfieritaee. Cicerone nel Bruto
imbrutta tutte le Storie Romane, dove dice.',, multa ferij, pta funt in eh
quafaSa non funt ; fatji triumpbi plures confulatus,, genera ttìam falf‘y Arar beinngegnoj vpol moArar Dion
Grildftomo, che Troia non lìa lUta
iprela, contra la fama impennata da tahtt Scrittori, e anche dalle noAre leggi: {Lverbum in fi, ff,
deverb,fign,Bórbat,m t
rubr.deptobat.»u,29,) yoXgzxvttA'^cìst il detto'dì Paufania, e di > Licofìone, che Penelope non fìa fiata
pudica': -1 • • I i che ferfe non fi pub
leggere, dicendo di quelli libri i facri Canoni.- „JùigfJari ctuelt intRtr „ mau Enlejia «m Icguntiir, emm qi$i
firiffirttìouitiA PeNiTua IcNoaANTUa.^
c, fanH» ^ item gefla fanHorum diji, 15. ) dove
la gioia, e l’Arcidiacono dichiarano, che apocrifo fia quei libro nt/M mmen >gnm»r*r, I libti che non hanno
il titolo del .nome loi dell’ Autore non
hanno credito, perchè pub avvenire che l'ABtòre lo abbia lafciato, per non aver
obbligo di difender )• cofe che vi narra
; cosi fcrive S. Girolamo in una fua pillola ( t4 Evopnm 1x1, j, fui, jg. cosi
fcrivono i Canonilli ( /e. jiaJr. ia
Diut. Iti. 6. max, a}, vaf, qumui quando id agii, ) Titolo, fecondo i
Grammatici, vien detto a tiùndc; onde un libro lenza titolo viene a dir lenza
difelà, che ne abbia a far l’Autore, tolto il traslato da’foldati, che fi
chiamano Thuiiy quafi nndi, quad fatriam
auartntur: ( Feflus, et Bhmdus mumfbanth Rema Hi. 6, a* Ulpiam { ait ) da militari teftamtn. ) ed
è pallàto in comun parlare, che,
riptovandofi un libro, febben fi sh l'autore, non ne avendo il nome, fi dice, che è fenza titolo,
e cosi fenza autorità. ( Aueraet Hi, 4, phffic, nmm, 15. Baccachu in quarta
ditta Decameranis in princ. ^ allegra in
liiro nofiro; da aiuSoritattf Ò"
Judic'tB paitorum tit, da liiris legati!. ) Dove un’Autore non volendo
loilentar le cofe ch’egli nana, cab non pub lare un’altro; loacome quando uno rinunzia ad una lite
occorla ibpra la fede di fuo illrumento,
il qual fi prefume che abbia confellàto che poflà eflèr fallo, non può egli, nè altri mai
ularlo: ( t. peftaquam liti C, da pad,
(T t. }. C. da fide injhrum, Barèat. eanf iz. illud ififtram nu. g. voi. 4. )
di modo che, fe l’ Autor non ha voluto
metter il nome, per non aver obbligo a foUentare le cofe che dice de i fatti di Papa Aleflàndro, per la
incertezza che ne ha di effe, manco lo
può far l’Avverlàrio. Le Oeffe
oppofizioni ha Romualdo, perchè, ora ufeendo in luce, non ha ufo di effergli creduto; e non ha
opera pubblica, come a’ è detto, che (t
gli confórmi; nè farh che fe gli creda, febben
dica effer flato prefente; perche chi finge un mendacio di un libro,
finge anche il nome di Autore che fia flato prefente; lo conferma lo fleffoAvvertarìo in altra
materia; Falieas oanas fiarent „
impofloret, fi e* falfo tantum fuper pafite titula quad cupereut fra„ batum
iaberent { tam. iz. fui anna ligi. fai. 535. ) Però non fi 103 legge il Vangelo di Nicodemo, nè gli
altri con nome di quelli che fono flati
prefenti, di Taddeo, Tommafo, Barnaba, &utolommeo, Andrea; perchè, non fi
avendo certezza che fieno flati feticci da elfi, come apocrifi, non hanno acquiflato fede; anzi fon rigettati da fama Chiefà. ( O. jbgufiin.
da confenfu Evangelifl. Ili. t. cap, I. et d. cap. Romana. §, item Cbranicam.
Candì. Trident. feff. 4. in prineip. cum
cancardantis iU. Cardia. Bateaius tam,
I, fui anno 44. fai, Z34. ) E fe il libro è di Romualdo, dove è fede che fedelmente Ila flato copiato;
che non vi fia fla104 to aggiunto, o diverfificatoè Ma come fminuito fia, lo
ftefio Avverfario il conferma; che di due copie, una trovau, dice, nella Libreria Vaticana, l’ altra a Salerno, ( fai.
444. nwr. iz, ) » in. Cadi 3i8 allegazione Ctniice LMgobarào Sakmhano ^ ubi àtfinit,,
Impbrfectb, ftcut ^ tùem idem S.
Pem-codex eft Imperfectus : cd altrove ( eod,
» fol. 7^0. ) collarus cum codice S* Peni in Vaticano Haud inteGRÒ, SBD
FiKE CARENTE* Abbiamo in jure che le cofe imperfette fi hanno per nulle/ ( /.
cum Sillejanum, C. de iis quibus pt
indign, per Canones concordantes ibi, Cravet. de antiqu. tem~ 'fot, p. 3* wr[, vidimuf. num.Ji. troBat,
ìom.i'p, fol. iqp. Menocb, confai, /uris
num. 13.) pcrlochè concludono. „ Imperia autem,, infirwnenta inflrumentorum
nomen non retinent ob id in publicam,, Jormam bevati ^ Ù" redigi non
poffunt ! onde fe quello libro era 1053!
tempo del Volaterano nella Ebrerìa Vaticana da lui, come afferma, maneggiata, meritamente, e fanamente
ha fatto a non hCr tener alcun conto,
avendo ferino in altra forma, come lo
abbiamo allegato fopra, al numero 42. Non ne hanno manco tenuto conio i Cardinali della Congregazione
lotto Pio IV. che non abbiano perfaafo
il Papa a far la iferizione di tale Storia
nella Sala Regia; còme non hanno tenuto conto del libro degli Atti di Papa AlefTandro. loò Sb bene il Cardinal Baronio come
riufeirebbono i Tuoi volumi de gli Annali, fe vi mancadè il fine di alcuni tomi,
dove tante volte con appendici muta, e
rimuta, aggiunge, e ridice quanto per
avanti aveva detto, ed ingenuamente confeflTa Terrore. „ A priore fententìa
recedere^ ^ et qm firmiter pabiliijfe vi„ debaty re&aHare minimi diffidam.
£ pih oltre.,, Re autem vi» gdantiffimo fiudio exaBius pervefiigatay atque
attentius difqui/tta a „ priore
fententia volensj tibenfque difeendens ^ in eam potius vento, „ quam verteas perfnadet. ^ (Annoi, tom.j.
fol. Sé.) Se il libro non ioffe Siterò,
e vi mancafle quella pane, e quella delle appendici, fi direbbe che T Autore
aveflc una opùiiono, k qual avendola retrattata, non ebbe per vera. 107 Nel margine che vi è meffó al teAo di
Romualdo citato da-llAvverkrìo ( fol. 444. ) fi dice „ incìpiendo ab illh
verbis’. in hoc,, eapitulo Fodericus Jmporator^ ò'c. ufque ad illa verbo;
Eccl/fationes „ Solit. f. in figao
Virginisì ^ le quali parole però fi è Icordato di porm; o che fi è Icordato di levar dal
margine; non avendole polle nel tallo /
forfè per non levar la fede all’ Autore, il qual pare attefii che fia in quel tempo fucceduto
Eccliffi del Sole nel legno della
Vergine; il che è fallo; perchè per quanto fi ha dal Calcola Allronomico non fon fuccefii tali
Ecclifli, nè fucceder potevano, non
fervendo alcun dei nodi a quel fogno. Secondo i
Compuùlli del 1 177. furono due Ecclifiì della Luna ^ il primo fu nel di 2Ò. d’ Aprile, T altro a’ tp. d’
Ottobre : Ecclifli del Sole non fu fe non del iiSo. a’aS. di Gennajo, c del
1181. a1 3.' di Loglio ; nel qual tempo il Sol non poteva elTer in Vergine : di
che TAvverfario, forfè avvifato, non ha polle le parole del teflo promefle nel
margine. £* vero che fcritte le fuddecte cole, mi è occorfo veder d'un EcclifG
accaduto in quellanno 1177* nel di 8. Settembre, prdfo Vincenzo Belvacenfe nello
Speculo lllorkie lib. 2p. cap. ar* ma quello appunto ci pone il fofpetto, che il detto Autor Romualdo,
feguendo l'error del Belva Selvtcenfc in queftn Tua Cranici, fìa autor
|»fteriore al 1144. Ca dove ó:rifle il
Bcivacenfe, e non prefente al fucceOb del 1177.
come vuoi r Avverlario, Della ^ual falfià di Ecclillì non avendo veduto
il tello di Romualdo, le non quanto fcrive l’ Avverbrio nel margine non fò
alKduiamente fondamento fino che non lo
vegga. Ora quelli Autori dicoaa che
Papa Aleflàndra venilTe trionfante con tredici galee mandategli dal Rè di
Sicilia, cosi negano che avefle bifogno dell'.ajuto de' Veneziani, per vincer
Federigo, che gih era vinto, e ne ricluedefié la pace ; e vogliono far . mentir
gli altri, che venilTo. profugo, e di nafcoHo; che fcoperto poi, la Repubblica
toglieflè la Tua difefa, e ne feguiflero le
cofe prenarrate. Qui laicio di confideiar le flat^ite, che dicono in numero aflai dove, dato che detti Autori
fodero ftnza quelle mende che li modrano
mendaci, e fenza credito, è in obbligo
chi vuol por loro penderò, e tener conto d’adopnr le regole leloSgali,
che infegnano quello G ha a bre, quando vi' fono tefti. monj difeordi, per
fuggir la bIGth di efli, per rifolverd come G
abbi a credere. Se trattano di atti iterabili, la contrarietà fa che ft abbia a prefumere eder lùccedi più d'
una volta.- ( ri t»» ( 14. de ttflH, et lèi glaf. 0 ~ omnes
ScrHe4U(i et m cap. m prafen(ia de proiat. Bar. (rriit, de ta/tii, coi, 1.
jirtr, m fi 4»ima in p, Ittliu. dt efl».
Ancbm. cm[, J35. /iree primt, imm. t, Frane,
Care. tir. eod. p. 7. nam. 1^6. varf. ftcmi& rtdncrauar. Fot,
Ant. pietra de fideicammifi. 4. ta.
Nkelatts Lejènt, de ttjì 'ti, verf. eenfequttuer traS. rem.4. fol. Z37. dove G
dico in torminis : Conetr. datar ficnt
Bvangelifta, juiM quei dkitnr difihtgue ttntptra, et rencardaiis Scrtpttlras^ ite tttagii
ahfervandttt» tttea dherfitatem Hifiericomm Ctrtmograpiemm. Quella Dottrina Circa gl' Evangelìdi infegnb Sant'Agodino molto avanti, de
Certfenfu EvartgeUftarttm IH. a. cap.
50. oper. Toiei. 4. fot. 153. Sk nii fintile invenittr fatìttm a Dwnioe, qnaà
in aliqne alteri Evongellfia ita eepttgrtare
videtmr, ttt emnhii pdvi tiett pefftty triiil alind intelligittir,
quam utrttmqtte faÉhm ejftj et alittd ab
alio eonotterrteratttrH ^e. Cosi G dee
far degl' altri Storici ; cosi doveva far l'Avverfario nel cafo di Papa AlelTandn) : il che non avendo egli
fatto, lo faranno gl' altri, dando loro
ampia materia, e teftìmonio i proprj Avvefarj. lop I Nollri affermano che Papa Alelfandro.
venilTe incognito a Venezia avanti la
Vittoria, la qual fia fuccedà del ityó. e Tanno feguente feguide la pace ; cosi
lo atteftano anche i Foreflieri Beat.
Anton. Hiftorico par. 2. eie. 17. Cap. i. §. io. Polater. IH. az. /e/. 234. Coritts par.i. fot. 51. La venuta
poi, dicono, colle Galee del Rè di
Sicilia fu del 1177. cioè nell'anno che fi fece h pacecosi per li fuoi Autori
Tanefta T Avverfario l. D. Tiem. 12. pH
anno 1177. Jot. 430. Gli Storici dunque, parlando di due anni dillinti,
danno all' Avverbrio obbligo di dire che due Geno fiate le venate del Pontefice; una quando venne
incognito, dove dimoraffe finché la Vittoria Giccelfe contro Federigo, ed il
trattamento, e la conclufion delb Pace lo aflìcuralfe cb potefie andar libe
lamente ninente dove pI 2 ì gli piacefle, poi dovendo venir Federigo ad umtliarA a’ Tuoi piedi a Venezia, il Papa
venire la feconda volu trionfante con
tredici Galee del Rè di Sicilia.* non oftante dunGue r improperio, e la
oppofizione che hanno gli Storici addotti
dall' Avverfario, concedendo ancora che integri fieno, punto non contraddirebbero alli nodri, quando
l’Avverlìario ha un obbligo di credere,
e dire, cóme infegna Sant'AgoiUno, Ihrumqut faHum ffffy Cr aytud alio omijfum. Stante le quali
cofe, febbene allora per opera de' Veneziani fu levato quel fcifma, e
conoiciuto il vece Pontefice, ed
ottenuta la pace, ben farebbe conveniente ^n•
cera che da qui folle levato Io fcifma trb gli Storici, e fermata concordia trb e0i; fofle conofeiuta la veritb
certa di quanto apprclTo la Sede Appoftolica nella Sala Regia, e nella Regia
del Maggior Conlìglio in Venezia è
confermato. Alle predette cofe
s'aggiunge per argomento più rìfervato, che
fi cava dal veribmile, prova efficace, cera, econcludentene'Giudizj con che f( fanno le X^^i> e fi dlfinilcono
i Litìgj, come fi ten« ga per vero quel
che e verifimile. jfUcgtt. per lìipolit, im tvè. dt pnéét» num* lo8. et fea, Tiraq, in ptxfat,
/. fi unquam «m. 37* et ftqq. C. de revoc» aonats
0 “ Mafcard, de pnbar, eencl. 1402.
verijimiiie$tdù in prinàp, 0 nu^ 22. 0 feq, Parfan, de probat. lib, I, Cép. 8. 20. 0 fca* Mandof. in - regul. Camelb, in prafat» per $ 9 fum lat^ Card, Tufil, pad. Cenci, in
verb, verifimHe quid fit 9 M. 0 feq.
tom^ 8. fel, 375. Chi dià che un Vafcello travagliato da grave tempefia
di Mare, o da perfecuzion de'Corlàrì, non fi fia ridotto in Porto ficuIO, che
gli fia vicino ogn* altra pendice, minacciando cattivici, e storte? £ dove Papa Aleflaodro, per
afficurarfi andò? prima raccontano: Pimijffe Lateranenji Pélatio^ ad tutor
domet ìb^ngipanas ad Ciftemam Neronis, m
qua latuit Nna fi*giem Rotnanos infequentes metu ab Urbe fugam, medhantem
Cuglielmui Rea fuis Trf temibuky e
Terracina in Franciam deduxit^ poftea Francia y 0 Anglia Regum Conjtlio Remam. Ex, Ottene Fringenfi de rebus
geflis F rider, lib. X. cap, 66. Tbom,
Favelli de rebus Skulis dee. 2. Uh. 7.
fot. 410. 0 ex olieg. per Baren, D. Tbom. li. fd. 342. Di modo che è
verifimile, e coti fi dee tener por vero quel che ferive Obon Ravennate.-
Defperaiis rebus Vtltelmiy ad tamos Friderki
Exercitus vires imbccillas fuadebanty ne illi falutem fuam facile erederefy
PrefeBionem in Cahiam ut rnanimumy 0 qui prater fuga di^ verrkulumy nibil ei adverfus Friderkum praft
intra effe damnabaty Venetam Chitatem
liberam y 0 oh id minimi fufpeBam, quam
ifem amicam potius, 0 fuarum partiunt fuifse cognoverat maxuni ad eumdum probabat. Chi può dunque in quella difperazidn di cofe
non credere ehegli fi lift ridotto a Venezia, la qual Iddio, in vece delle
Ciith di rifugio concefib al fuo popolo,
ha fatta riforger per falvezza l'Italia
contra il furor de’Barbari? Per lo che Leon IX. fuo PredecelTore, vi fi
trasferì perfeguitato da* Greci, e da' Normanni, dove fono cacciati tanti altri Principi da'
loro fiati iòccorfi, e ne hanno ricevuta
tanta confoUiiooe nelle efireme loro miferte, che han
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FRANGIPANE. 311 tanno confelTaro non
aver più defìderio nè della Pairia, nè del perduto Principiato SM. dee. 3. li.
i. pag. 152. ne fuona la Tromba per
tutto il Mondo. I nodri Giurc-Confulti,
benché efteri, di lei dicono ; Urie prtelariffima, deevs. fplnidm eeiius
Italia, v'trntihts, divitiis, ac Religione
ornata, Paradifus delitiarum'. Bald. conf. 41 1. qu'tdam man. 2. voi.
4. Carnati, conf. 72. de fare Col. }.
Menoei. conf. 75. tac /am dici nam. yS.
Jaf in l. fi Infalam nam. y. ff. de veri, oiligat. Gomef. li. ft
faerat tnjlit. de aHion. Kevii^n. Iti.
5. nam. jy, Catelian. Crfia Memorai, in
Veri. Fenetis. Tomai Deplovat. in Mditio ad Cepoltam de fervit. raflic. prad, e. 16. Mandof reg. 1 3. qu. 6.
in fine Pietro Antonio Petra de Principe
Cap. 3. qa. 4. nam. 34, Ai quali fi aggiunge Pietro Bellino Configlicr del
Serenilfimo Emanuello Duca di Savoja nel fuo
trattato de re milit. lit. 5. i» princ. traCl. tom. tS. fol. 335. Il
quale cosi dice, Urne Uriem Novam Romam
dixie Falgofas, et Commanem Patriam
vocat Cama, eamque, et noi non immeriii calme n, et decui Italia dieemas, ehm fola, nel exorieni conira
Bariaricaa Gemei, et rapin.ti, er vifiationei tatiffimam praiuerit llalii
refitgium, folaqae tedia halicam liiereatem, tr dignhatem confervet, et taeaiar.
Il Petrarca che godeva lo ftefeo rifugio. Seniliam, hi. 4. Epiti. 4. Aagaflilfitma
Fenelianim (Iris, qaa ana todie liiettatii, ac pacii, et tifiiHa Domai e fi,
anam ioaorum refugiam, ama Portai, qaem IM vivere capientiam, tjirannitii
andiqaeiellicii tempefiaiiim ipuafia rate: pelane, Urli, aari divei, fed ditior
pradentia, poiens opiiai, fid vinate poteniior; folidii fandata marmor Hai, fed
filidiori eiiam fand.imento Civili!
concordia fiaiilita, falfit einSa fiaàiiat, fed falfioriita tata Confila! tee. Onde Sabba Calliglionc ne’fuoi
ricordi num. 114. dice, Fenexia bonor, repataxion, ed ornamento dell afflitta,
e fconfolata IiÀia : per la Cai
confcrvaxione ogni iaon Italiano dovreiie pregar noftro Signor Iddio. E certo a
me pare mirabile b continua conlervazione
della prima liberti fino a’prefenti tempi, e per Mar, e per Terra, in
Levante, e Ponente, col Senno, e colle Mani valorofamente confervata,
mantenuta, e direfa, cosi poITiamo fperare in Dio che fi confervi per l’avvenire di bene in
meglio per la vera Giu. flizia, per la
Religione, pel cattolico Culto di Dio, e per le opere pie, e fante, ch’in queUa
abbondano ad onor e fervizio di noftro Signor GESIT CRISTO; Onde in modo di
profezia è introdotto a parlar l’Angelo neU'Italia ìibettu da Gin; Giorgio
Trifin. Hi. y. Mira qaetla Cini, ci' a
mexpep alt acque Sorge tri'l Sde, t
Adige, e la Brenta I^uella è Fenexia
gloria del Terrena Italico, e Rifagio
delle genti Dalla Sevi-gia' Barbara
percoffe. $mfla Regina è di late' il
Mare Specchio di liberti. Madre di
fede. Albergo di Giuflixia, e di
qaiere. Le cui virtìt fempre faranno
eccelfe. Ed ampie in ogni fan futura
etade. Però la fama che con fimili
Trombe fuona poteva invitar Papa
Aleffandro ad aver quel ricorfo, coU'cfcmpio de’ fuoi Predcceffori,
cb’ Tomo II. Ss ebbero foccorfo, e
difesa coatra i Perfeemorì loro, e di Santa
Chìcla Lo dovea fpcztalmente inanimar il cafo di CregorÌ0 //. qoaB fìmiquando
JUcn Impttudort^ eiTendofi meflTo aD’imprcfa di diflruggef« tucte k Santi
Immagini della CriHianit^ far ciò oOinatamente ne lo richiele; qual villo che il Papa non volle,
come non poteva ubbidirlo, richiefe il
PuceOrfo, cd i| Popolo di Venezia, o a dargli in man il Pontefìce, 0 che
Tainmazzairero; arditamente gli rifpolero quel che è regiurato da Bernardo
Giudiniano nella Tua Storia al Libro X. Refponftan iis magno animo advertero po$utJfc quanto
femper fiudio^ et bonort omnU bus
ttmporibui Imptraroriam enolZcrcMa/eJlatem : maximb ramtn nowjjima Ravenna
Urbis retfptione ^ non verim in corum gratiam Regem amiÒ" ficderatitm
belìo ìacefeere : efse tamen ita a Majoribns injìitur rum, Ht ubi de facrofanbia agatnr Religiotte
Romanee Ecclejùe /aiuti y Cr bonari
mtllo modo dejint, rum omnipottnti DeOy porìus quam tdli mortaliwn fit partndum, Jraqtte Romanum
Pontificem non daferturos» Ma farh
meglio feguitar il fatto con quel che regi&ra, e diceda fe per meraviglia il Cardinal Baroinio. Sub
amo 7 ad. num. 37. tom, p. fol, 18.
perrmti Venetiarum Esttreitus jujjioni Impcratorit re Jiituerunt \ Ijla ingenti
prsjìantique animo Veneti Tkef terra y marique
protrimi ejsenf Imperatori, a quo deieri timere ponti ffettt, fi adbuc
viribus y adeò fortes prò Ponti/ce certamen èrme adveìfia ipfum atiquo modo
prafumerenty fed ubi de Religione feient effe certamen y eun 3 a ei pojì babenda nterith cen/uerunt. Indi ne ebbero tal gloria che contrariando^
airimpieib deU’Imperadere, ne riportarono trionfo, ch*ad onta fua hanno
fabbricata la Chiefa di San Marco carica
di Santi Immagini didentro, e di fuori
ùi (cultura di Marmo, d’oro, e d’ Argento, di Bronzo, di Molaico, nel letto, nelle Pareti, nelle Colonne (ino
nel Pavimento, ma pròpor7Ìonatamefite collocandone. £d ivi contro la Pazza
erefta deH'lmperador Iconomaco, che alTeriva ciò effèr Idolatria, fcrifle in
Molaici verfo la Canonica. Nam Deus efi
quod Imago docety non Deus ipfaHanc videaSy fed mente calasyquod cernii in
ipfa. Chi è quello dunque, che avvuta
un ardentilTtroa, e mortale febbre, fie tic rìlànato per opera d’un fuo
valorolo Medico amorevole, cd
affezionato, che trovandofi con gli flefli fegni, e parofilmi, non torni allo deflb Medico come certo di liberarfi.
Però la Chiefa cd il Papa liberato dalla pcrlecntion d'un empio Imperadore per
opera deVeneziani; chi dir^, che tornatagli li lleflì travagli non Ha
ricorfo alli HelTi, 0 incognito per llar
Ccuro; o feoperto per efler difefo? Certo il vcrillìmilc, c la prelunzione è
per raffermativa ; perche dalle cofe
pallate, ft conofeono le prefenti, C. mandata C.Scriban, de prO' fumpt, Menocb. eod. lib, i. prafump. 24. ir».
8. La Storta dt Papa Gregorio certamente
vera lo fcrive il Bibliotecario allegato, e feguito dal Cardinal Baronio è regillrata nel
Pontibcal Tom. i.conf. 410. è Icritta parimenti da Paolo Diacono nella Storia
de’ Longobardi nel Libro 6. Cap. 4p. Se
quella di Papa AIclTandro non foffe fiata vera, nè la Sede Apollolica 1 avrebbe fatta dipingere, nè
i Veneziani lafciando quella ^ Gregorio
vera, e^ tanta gloria; Ufquequb gravi cordcy ut quid iiligitis vanitatemy et quaritis
mendaciumì Pfalm. 4. perchè giufla il proverbio, ]!le matici in favor di Papa Onorio, dice, cbe
acquiilarono dal Papa titolo di
Repubblica. CrilHaninima, e di Dominio ampio per Terra, e per Mare, perchè Nallum kommt mtpouneratum
Tom, 5. fub tmM 6^0, n, 17. fol. 6i%,
to, p. fub an. yi6, ». 37. fui. 58, quedo fi
vede conlcguito fobico dopo la vittoria conF^erigo, e meìlb in fedia
Papa Ai^lTandro, perchè oiiracolofamente la Repubblica collegata co’Francefi,
fece l'acquida dell'Imperio d’Oriente, che di fopra al numer. 78. abbiamo
narrato, e poi fempre piò crebbe. i Il
trionfo, e fine quando il Papa milè il piè fui collo di Federi' go, e figillò la pace, fu adì 24. Luglio la
;VigiLia di San Jacopo come dicemmo del
1177. dall’ ora in poi il Signor Iddio G è compiaciuto di donare diverfe
grazie, ed allegrezze immenfe alla Repubblica fino ad oggi giorno nel detto
Mefe, che ben d^ fegno in rìcompenia di quanto merito 6a. Per avanti il Mefe di Luglio era infaudo a’
Romani, ed aH’Italia per li sfortunati avvenimenti, cbe loro intervenivano, e
par che ave^e principio da peccato di
Religione; per lo che alcuni Politici, e
Qiure^Ionfulti, pcrGufi della Dottrina di Platone ofTervato che certi cafi G trovavano iterati quafi
all'idefib tempo, differo, che era un
Orcuito di proportion armonica cbe girava, e giunto alle corde dello deflb numero iterade lo deffo tener di
cole, come nel Corpo umano, quando è
infermo per lo perìodo degli umori fi fanno le
crifi nelli giorni decretor), e l’altre alterazioni negli anni climaterici,
allegar, per Valentin. Forjlerum de hifi, /ut, civiUs, ì. i. in prin^ cip, frati, tom. 1 fol. 25. AUi II. di Luglio i Romani ebbero due rotte
d’Eferciti in diverfi tempi cioè f Alienfcy c la Gremercnfey però quel di fu
chiamato ni j^uJÌOy ni infauflo Corm Tacir. tib, 18. Tir, Uvitn dee. r. Uh, 6, Macrob. Satttrnal. l, I. c, 16. alti
II. Nacque Giulio Cefare che diè nome al
Mefe prodigiofamente ufeito a guifà diferpe, tagliato il ventre della Madre, e ne fegui con tanta
uccifione ledinzion della liberti della Patria, della qual ben dide il Voicì. ^
Socerque y Gener, que perdidijii omnia.
Succederò poi a dominarla i Tiberjy i Cajy i Nereaiy e tanti altri ferpi. AUi
ip» cominciò Tincendio in Roma, comandato come alcuni vogliono da Nerone che
tutta Tarfe.’ nel qual giorno per avanti
da Calli Senoni fu prefa, et abbruciata. Tacitò
Tib. 15, AUi X. Tito, non valfe
ad impedire che a fuo difpetto i fuoi
Soldati non abbruciadero il Tempio di GeruQUcoime, abbruciato la prìma
volta da Nabucodonofor nelb dedb giorno, che fu il decimo del Mele quinto, che appredb i Latini è il
LugUo, però detto tilcy ma comandofi
perKaIende,che retrocedendo, principiano a'feoici, fi chiama Agodo, il qual giorno per^edi
incend) Giufeppo chiama Tomo il. Ss 2 fa 3^4 ALLEGAZIONE &ulc, e cadetcbbc a'i5> Coà lì Calva
quel che dice San Girolamo Copra
Zaccheria S. Tt/mfumpùvi i» r. jciimmm àifi. Jcfcpbo Je itilo Juào'uo Hi. 7> e. e dove in. tal
giorno per meilizia era inftiruto U
diurno. In contrario qu^ lì celebta la
feda di San JacopO in Rialto, quella Chiefa la qual la Cùtìi volle che foflc
prima Pietra, e fondameto della dia foodazionequando ottenne grazia Cubito
Catto voto, che li eflingueflè rincendio
appiccato, che di giìi abbruciate 14, Cale
era per abbruciaala tutta; così avendo colle Cue Celici armi ottenuto
che d edinguelCe l' incendio di tanta guerra con Federigo che affligeva la
Chiefa, e cenCumava tutta l’Italia.
Quel MeCe dall’ora in quh Dio condituì che folTe tempo di dar la paga a' tuoi Soldati benemeriti, perchi in
elfo Ce che la RepubUica conùnciaOc a far il predetto aoquido, prima col romper
l’armata dell’ fmptsadore nello AelTo Areno di Collaniinopoli, e dopo affediata,
e prcià la Citth, fugato il Tiranno AlelTio, col rimetter in ie^ liàccio, ed AleOio, fuo h^Iiuolo, i quali
Cubito uccili da Marcilo occupò, la feconda volta V Imperio, dico la Città, e
l' Impcrio ; non ancora partito 1’ Efercito nè 1’ armata dalle mura, uccifo
Marcirò, a lui rimafe la Grecia; del qual primo acquiflo, fcrive Niceta. Aniwlium
Lii. 3. Col. i a. fri, 177. ABom toc tfi
Menfe JuHo onno lyii. che rifponde all’anno del Signore izol. cioè anni 24. dopo la detta imprela; l’anno
feguente fu poi il total acquiAo : la qual’imprefa ora^i man di Jacopo Palma
rendè fplendida la fua arte colla Pittura nella Sàia del maggior Configlio a dirimpetto
deH'imprefa fatta per Papa Alefiandro, quafi due partite de’ libri de Conti aU’incontro di dare, e
d’avere. Dalla Morte di CriAo lino
aU’imprefa, e diAruzione di Gerufalemme, che fcgu'i per vendetta, pallarono
anni quaranta, e qui 24. Coli, volendo
il Signor eAer affai piò preAo alla rimunerazione, eh’ alla pena, dove Eufebio In Cronico confiderando
il tempo della PaCqua, nel quale per quella imprefa fei cento mila Ebrei furono
uocifi, ne cava argomento che ciò Iblfe per divina vendetta dal fegno del tempo, come intendiamo ora di far ancora
noi, e dice, Oportliif onim iifilcm ditha Pojcbtt coi mterfei in quihn
Solvotorem crutifxcnmt. Però nel Mefedi
Luglio la Città feAeggia per diverfi altri feliciffiini avvenimenti, come per
avanti forfè per altre fimili caufe leinteivenivano il dì di San Pietro. Nel
primo celebra la feAa di San Marziale
per tre Vittorie da lei in diverfi tempi in detto giorno ottenute; Al che fi aggiunge che nello Aeffo
giorno il Doge Andrea Contarini fi refe a Chiozza trionfiinte per la vittoria
contra Genovefi narrata di fopra al num.
15. Contra gli Aefli alli 22. fi
conclufe la Capitolazione, e pace con
tanto onore, ed acquiAo della Repubblica, che ancor fi celebra per memoria di allegrezza pubblica la fella di
Santa Maria Maddalena. Alli 6. fucceffe
il fatto d'arme al Taro, nel quale il Rèdi Francia ricevè così buon accordo,
che fuggito per voto, come riferifee il
Guicciardini Hi. z. cor. jg. e sbigottito da queir angofeia, gli feappò la voglia di fapct dove piò fbAe
l'Italia, intento all'ora folamente
al Digitized by Google DEL FRANGIPANE. 32^ ai pafTàr avanti nonvolendo^mtender più
pratica alcuna, con celeritk fegultanda il Tuo cammino, levandofi aguifa di
vinto fcnzafaonar la Tromba* Gmcciard.
lib, 3. car^ 5p. e 6 p. ed ivi queirifteflb giorno cominciò a ceder
forzatamente i luoghi che teneva confederati
della Repubblica richiel^ill dalli Provediiori Veneti nella rifpofU data
al fuo Araldo quando richiefe U paiTo, Bentbus Hb. 2. cor. 44. j 4 lexanà, in diario ejuuUm belli y
Jov/uilib» 2. car. 8^ per chè all’ ora angoTciato a difender la propria perfona
più colla ferocia del fuo Cavallo, e colle orazioni,che da* fuoi eHèndo. anche
eflì occupati nel difender la Tua,, cosi
che io avevano abbandonato, non potè
mandar come doveva la gente fui Genovefe,. però ufcita Tarmata di Genova,,
prefo fenza difllcoltk il Borgo di Rapallo col prefidio de* Francelì che lo
teneva, e prefa l'Armata loro che ritirata
in quel Golfo di li a poco il Rè Ferdinando ricuperò il Regno di Napoli, ed il Duca di Milano Novara : pel
qual fine la Repubblica s’armò e
combattè, ed avendolo ottenuto da Dio, ne
vicn aver avuta la vittoria all’ora felice per T Italia, colla ricuperazione
della ricca, e gro 0 a preda, che dalla mifera Italia, fpoglìata in Francia
gloriofi riportavano. Allt 17. che fi
fece appunto U primo acquilo di CofianttnopoU y
come di fopra al num. I20. fi fcfieggia la memoria di Sanu Marina,
perchè in quel giorno fcrive il Bembo, fi fece Tacquifio diPadova due volte, ma
la feconda Dio fece, che ficcome era d^ di Santa Marina foflc luce di Stella
Marina per ralTèrenar le tenebre della
Repubblica, in mezzo della fiera tempefia della Lega di Cambra;, fopra che dice la Parte prefa nel Sereninimo
Senato per folennizzare detta Fella 1712. Die XXK Junij fide prhtcipiam
Uberationis a eonventu maiignanìium y CT
a fmcibus inimìcontm nojlrcrmn y Civi^
fas Padiue non bumana opv, aut ConJUtOy fed^ Divino auxilio fiiir cuperatay t per dame qualche argomento, e
fcgnodicc, In cuyasetimt T'empio tppcnfn
ClavesÒ" Sigillo Civitatit fitb feptdcro Serenifs. Dtteis D.Miibaei
’hSfeno in monwmntum prim^ %pfiu% acquifmonis, Quello giorno fu principio tale, che da indila Repubblica
ricuperò tutto il fuo Stato, cho aveva
perduto, c ciò con tanta gloria., che il Guicciardini dice /i^.4r. 327. Con
ejini Icp^ieriy e poco dwrabili fi terminarono i movirnertm ti dell armi fen- 3 ^ utilità y ma non ferrea
ignominia del nome di Cefore, e con accrtfeimento della riputatone de'
yenezi^*** 9 ^be a ff aitati dagli
Eferciti di CefarCy e del Rè di Francia mantenejjero alla fine le medefimt forze, ed il medefimo
Dominio, Indi alTottava, che è la
Vigilia di San Jacopo. Renzg da Ceri
ufcico da Crema prefe Cafiiglione, e menò prigione Ì 1 Capitano, che Io teneva, e iubito prete Lodiy c
confegnollo a’ Collegati. Aleman. Tinus in Hifi, Erement, lib, 8. AlU 2p. di Luglio del 1523. fu fatta la
Capitolazione della pace, colla
confermazione di quanto pofledeva la Repubblica in Terra ferma •
La Signoria vifìta folennemente la Chiefa del Redentore la ter2a
Domenica di Luglio, nella qual fu liberau la Citta da una gran pelle.
Cof^ il Mefe, temperai per avanci degli Infortunj, è divenuto (Ragion
Digilized by Google 3zo Raven.
fih. 8. Bard^ cor. 24. FiJi(q>o Memo Dottor andò ad accompagnar
Ottone, che fu prefo all’ Imperator Tuo Padre, Crontcs Samtìa M. S, fai. 84. ed
ambi ebbero in tal fatto merito, uno per
la Vittoria, l’altro per la con» clufion
della pace col ridur T Impecadore a* piedi del Pontefice nel jnunesazione io quel giorno, e celcbrandofi
1* annuale dell’Afcenfione ravvivar la
gloria della Repubblica con ravvivar la memo^
ria del trionfo, confeguito contra i Perfecutori di Sama Chiefa, c fpiegaic elempio a’prcfentt) ebe abbino a
perfeverare, e non effere, degeneri a* luoi Progenitori, dovendo per le
proprie confeguirne premio Gngolare in
perpetuo, e trafmettere il merito anche
a’ pofleri, per lo che ogn’uno dee defiderare, e pregare con devoto Inno di Policromo, che il Signor Iddio
faccia perpetua quella bnta, gloriola,
ed a lui gradita REPUBBLICA, che fia cuBodita
flagl’ Angioli^ Grazia-. DOMINIO DEL MAR ADRIATICO DELLA SERENISSIMA
REPUBBLICA DI VENEZIA SERENISSIMO PRINCIPE.
t L Dommio della Serenedima Repubblica fopra il Mar Adriatico i cos» celebre, e famofo, che forfè non fi troverà akan’ altro, del quale
dopo la declinazione dell’Imperio Romana
più Storici, eGiureconfulii abbiano fatta menzione, ed approvato di
comune confcntimento per le. gicimo, e
giuflii&mo; nel che elTendo tutti con
^ cordi,fifone però trovati differenti neiraflegnar vi l'origine, e
varj'nell’allegar il tellimonio, fondandolo, chi lopra privilegio conceffo dal Papa, chi fopra
privilegio, e conceflione dellimpcradore, ed alcuni fopra la prucrizione, altri
ancora fopra antica confuetudine.
L’opinione, e ragioni de’ quali avendo io confrontato con le Puh. blice Scritture, che per comandamento di
'Voftra Serenità mi fono Ihte mollrate
per dover metter infieme un'iniera relazione, ed informazione delle ragioni di
quella antichiffima, e nobililfima giurifdizione, confiderato il tutto
accuratamente, ho creduto che quella materia poffa effer ben dducidata,
ponendola in cinque confidcrazioni. La
prima tratterà il vero tellimonio, e poffeflione, de’quali quello Dominio
colla, mollrandolo non acquillato, ma anche infieme con la Repubblica confervato, ed aumentato
con la virtù dell’ armi, e fiabiìito con
la conluetudine eh’ eccede ogni memoria. La feconda larà in mollrare non effer vero,
ni utile il dire, che la fercniffima
Repubblica abbia il Dominio del Marc per privilegio del Papa, o dell’
Impcradore, ni meno per preferizione. La terza confiderazione farà vedere fe il
Dominio del Mare comprenda i Seni,
Porti, et altri ridotti, ed inclufi i Lidi ancora, e le quella giurifdizione s'^llenda a
llatuire, ed imponer Leggi a’ Naviganti, facendo quell'otbuùzioni, che ricerca
la pubblica utilità, ed a pe Digilized b, - ìoogle 3z8 DOMNIO del a punire i delitti commeflì in Mare ^ e ^
imporre gravezze a quelli, che fi
vaglino dell’ ufo di elfo.. quarta far^
in efplicare, e rifolverc ropinioni d’ alcuni che vengono fatte in contrario. ^ Nella quinta metterò infleme le ragioni
particolari, c proprie della Sava di
Goro^ ed in quelle ^coofid^zioni non mi vaierò fe non di cofe » chq fi poffono moftrare per le
Scritture pubbliche, ed "autentiche
di Voffra Sereniti, ovvero per tefiimonj, ma degli Storici, c Giurcconfulti approvati^ Il vero Tefiimonio, pel quale la Serenifiima
Repubblica ha il Dominio del Mare è
quell’ ifieflO) pel quale ella ha la fua liberti, fi che al piiqcipio del fuo nafeimento per
una IWfia caufa ella nacque libera^ ed ebbe rimpcrio maritimo, e quella caufa
fu reffer edificata, e cofirutt^ in
Mare, il quale all’ora non era fono il Dominio d’aìcuno. E’ termine indubitato appreffo i
Giurcconfulti effcrc de ]ttre Gett^
ri»m, che ognìCiti^fia libera s’ è fondau nel fuo, ficcome le Cincin luogo dominato fono dal fuo nascimento
Soggette al Dominante; quelle, che
naicendo in Terra non foggetea ad altri, nafeono libere per quella ragione, che fono libere per la
Slcflà fono Padrone della Terra dove
hanno il loro principio. Co$‘( quella
inclita Citt b nata nel Mare, del quale non eia alcun Padrone, è nata libera, e per rifielTa
r:tgione Padrona dell’acqua dove ebbe il fuo principio; per Io che tanto è il
ricercare rimpcrio Maritimo di Venezia,
quanto ricercare roriginc della liberti fua,
ovvero la fua fondazione. A
quello non olla, che ne* tempi precedenti la Repubblica Ro^ roana abbia fignoreggiato rillefib Mare;
ùpperocchè non fi ricerca per l’edificazione
ad una libera Cittì, che il luogo mai in alcun
tempo fia ftato dominato da altri, elTendo che per ifiabiliiì dello cofe mondane, non v’è ragione,che non fia
fiata loggetta ad innumerabiii mutazioni, ma bens'i ricerca, che nel tempo
deiredilicazione il luogo non fblTc fo^getto ad alcuno. L’Imperio di tutto rAdriaiico per molti
fecoli innanzi il nafeiinento di Venezia, fu deirimperio Romano, ma nè Dominj
de'Popoli avviene quello ftcITo che net Privati; cioè che cìafcheduno per tanto tempo è Padrone della fiia cifa per
quanto la tiene in proprietì Sua, nel qual tempo non gli può eflcre legata
lenza ing^llizia; ma s* egli l’abbandona, o non ne tiene il polTeflb, o
irait ne può piò tener conto, quella
difoccupata può elTere privilegiata per propria dì qual fi voglia, che primo le
mettcrii la mano fopra. Così le Cittì, che foggette ad un Principe, non
poflbno eflérgii levate fenza
IngiulHzia, ma s’egli abbandonerà la loro cuftodia, c non la govcrnerì, o
perchè non voglia, o perche le forze glie fieno tanto mancate, che non poffa,
faranno di quello, che prima ne piglierà
il governo, c protezione ; c per legge divina, ed umana dovranno fiare fotto di
quello, mentre egli cominueA a reggerle. Anzi il Dominio così acquifiato anderì
prendendo fcropre maggiori radici, e confermandofi per quanto nuggior tempo
durerà, in mo do Digitized by
Coogic MAR ADRIATICO, szg do che avendo continualo in cosi lungo
Tpazio d’anni, che non vi fu memoria
d'uomini in contrario, fata perfcMamente llabilito,e& poirh dire acquillaio per confuetudine. Certa cola i, ehe innanzi l'anno 400. dalla
Nafcita di nodro gnore, gl'imperatori
pollédevano Tacque del Mar Adriatico, partW
colarmente le Lagune dove quella inclita Citth i fondata, ma ef. fendo dedicata la forza dell'Imperio in
Occidente per Toccupazione di gran pane
dell'Iialia da' Barbari, quelle acque furono dagl’Imperadori abbauJcnate; onde
redando fenza Dominante, per legge Divina, ed umana, poterono i Popoli, che fi
ritirarono per l’inonda. alone de’
Barbari, indituire in qued'acque una Repubblica libera, e per virtù della fila Nativith Padrona del
luogo, abbandonato da chi prima lo
dominava era all' ora fenza Padrone, e difoccupato. Ma mentre dico, che il Dominio del Mare fia
naturale a quella Repubblica, e nato
infieme con lei, non voglio intendere, che tutto in un tempo abbia ac^nidata la
padronanza di tutto TAdrfatico, perchè
le forzo nel principio non erano tante di poterlo cudodire, e guardare tutto; ma nel fuo principio ebbe
Dominio di quel tanto, che con la virtù delle lue forze poteva cudodire, e
proteggere, che fu il tratto contenuto
trk Ravenna, ed Acquileja; redando il
rimanente fenza Padrone come abbandonato dalTImperadore, e non dominato da’ Barbari, che s'impadronirono
d’Italia lenza forze maritime, fintato che Giudiniano mandò per la
ricuperazione d’Italia Efercito terredre, ed Armata di Marc, e fcacciati i
Barbari, ripigliò il Dominio, e cadodia
dell'Adriatico,* nel che avendo avuti favorevoli i Popoli di Venezia, non
toccò, ma lalciò nella fua liberti la
parte, che è da Ravenna in qiù, come polTeduta legitimamcme dalla Screnilfima Repubblica, contentandoli
di quell'altea parte ch’ò oltre Ravenna
: ficchi ilSerenifilmo Dominio della Repubblica in Mare fn di quella fola parte di edb, che è
prollima a queda inclita Citch. Ma in
progreflo di tempo fatti gTImperalori un’altea volta debo'lì, ceflaronu di
mandare Arma» in Ravenna, ed abbandonala quella parte, che è dal fiume di
Tronto in quh fi ritirarono nella Puglia, il che mife in ncceflìtii queda
Repubblica, la quale era crefciuia anche di forze a pigliar cudodia piò ampia
del Mare, e tenerlo netto da'Cotlari per mantener Scura la navigazione,
incominciando dalla Riviera della Marca
Anconitana, e dal Quarner fino a Venezia: il
che lecoftava ogn’anno moltoifangue dc'fuoi Cittadini, e molto
tefoio. Seguile le cole per alcun tempo
in queda maniera, fu moda guerra da’.Normani aU'imperadorCodaatinopolicano
nella Puglia, il quale non elTcndo badante a difenderfi per fe IlelTo in quella
regione ricercò Tajuto della
Serenifiiina Repubblica, il che fu uccafioneche
ella palTafle con le file armi anche nella Riviera di Puglia. Molte fazioni Icguirono, nelle quali avendo AleOio
Comneno Imperadoco fodenuta la gueira
piò con Tajuto Veneto, che con le forze proprio
per tré anni in circa, il quarto abbandonò Timprela, ne mai piò mandò Tarmata neU'Adtiatico - per lo che redò
la Puglia occupata da' Normani, i quali
elTcndo fcaz'arme maritime, il Golfo da quella parte fino a capo d'Octanto,
abbandonato deUTmperadore, non poteva
elTer, protetto, e cudodito, falvo che dalla ScreoiOima Tomo IL T t Repubblica.; oiide per neceflitìt
di. render Scura la navigazione aTuoi
Sudditi^ eOi. che gib. aveva con la forza acquiftato, quel Mare, con•
tìnuò. a cudodirlo, e difenderlo da’ Corfari, e da altri turbatori, e oc acquiSb. il Dominio come di cofa
abbandonata, e non poCTeduta da alcuno.
Per lo. che ficcome s'i detto, ch'il Dominio del Mare d: naturale alla Repubblica, principiato
inficmc con lei nelle parti
proflimeaquell’inclitaCittk,cosV anche infìeme fi dee dire, chefiaamplificato
fuqceflivamente neiraltre parti di elfo Mare, che fono ab- bandonate da quelli,
che le pofledevano. prima, e prefe in protezione, c cuSodia dalla Repubblica
fin tanto ch’ella s’è fatta Padrona. di tutto il Golfo, e perchè cib eccede fei
centinaja d’anni, fupera, e di giìi, molta ha fuperato ogni memoria, ficchc è
confermato con la confuetudine immemorabile.
Di tal confuetudine convien fare ogni capitale, perchd la legge la ptefuppone tempre buona, ragionevole, e
lodevole, e che fia intervenuto tutto, quello, ch’era neecITario a làr cofa
legitima, che fia equivalemeadogni
contratto, e convenzione. Per dottrina de’Giurtconlulti a (labilir una
giurifdizione per conluctudine irrevocabile fi ricercano, che fieno fiati fatti
atti giurildizionali continuamente da tempo. che non vi fia memoria in
contrario, e che altri non abbiano
elercitato. atto alcuno, fe non con licenza del Polfellbre : c che da. quello, fe alcuno, ha tentato, di farlo,
gli fia fiato proibito, tutto ciò non
occultamente, ma con faputa, e tolleranza di
quelli, che avrebbero potuto pretendere altramente, le quali cole tutte fono intervenute nella continuata;
polTel&one di quello Mare, Da tempo che non vi ò memoria in contrario è
fiato eletto continuamente un Capitano di Golfo, fono fiate tenute Galee, ed altri
Legni armati per cafiodia ordinaria, continuamente è fiato proibito
efiicacemente, o con tutta tratuzione, o con forze a qualunque altroPotentato
il tenervi Legni armati; ed i Pontefici, Imp'cradori, ed altri Principi hanno aflcnciio a quella
giurifdizione, o col confeffarla in parole, ovvero per effetti, ricorrendo,
implorando l’a)uto,e quando hanno voluto
trafportar|Vettovaglie, od altre cofe pel Mare
ricercando licenza, ricevendo le Patenti della conceflione ; e alle volte
anche fono le licenze fiate negate, ovvero concedute limitatamen* te, e non
quanto la loro dimanda richiedeva. A’
Naviganti fono fempre fiate date le Leggi fopra la navigazione, coti quanoo al luogo, dove dovevano far la
Icala, come alla qualità delle merci; Li Conaabbandi fono fiati confilcati, e
fono fiate impofte dazioni de’ Dazj,
azioni tutte di giurifdizioni, e fupreme
Dominio. Non v’ò memoria quando
avelTe principio l’elezione d’un Capita,
no di Golfo, ma ben nel ijp;. fi vede una lettera dell’Eccellentifiimo
Senato ferina al Capitano dì quel tempo con precetto, che feorefle la Riviera
della Marca Anconitana, e la Puglia fino b Capo d’ Otranto, e dal tcnor di quella lettera appare
che il carico di Capitano non comincialTc all’ora. E' notoria la cufiodia
tenuta continuamente con Galee, e Vafcelli armati per difenderlo da’ Corfari, e
Ladri maritimi, «dopporfi a quelli, che voleficro
impadronirfene;efisbinficme quante civefeovo
di Magonza Vicario imperiale in Italia con la Sercnil&ma Repubblica nel 1174. che Ancona fodeadaltata
con l’Armi Imperiali per Terra, e con quelle della Repubblica per Mare, ficcome
fu anche pugnau, ed elpugnati. Fu-.ancora un’cfprcflb confenfo del Papa, e
dell'Imperadore Federigo infieme l’anno 1177. imperocché avendo il Pontefice
Alcflàndro Terzo implorate le pie Armi
della Repubblica per difefa Tua, t della
Sede Appodolica dalllmperadorc Combattuta, ed avendo Tlmpcradore dopo la rotta
della Tua Armata acconfentito di venir a Venezia, Tuno, e l’altro confeflarooo
in quede lue azioni legicimo il di lei
Dominio Maritimo; e fé bene alcuni pochi Storici non fanno menzione di battaglia, e vittoria marìtl ma,
attedano non di meno che il Principe
Ziani incontrò prima il Papa, e poi Tlroperadore con potentidlma Armata, con TideHa li condude
nella Marca Anconita. na, ed.
aggiungono, che fu eletta la Citù di Venezia da ambe le parti, come quella che non foggetti ad alcuno
aveva forze d’impedire, che dall’uno non foffe fatta violenza all’altro di quei
Principi Valendofidel Dominio maritimo
della Repubblica, come loconfeifarono.
A qufda s’aggiunge, che il medefimo Federigo Imperadore quando' i’anno
xi88. fi mife in viaggio per Terra £inta, Icrìvendo una lettera comminatoria al Palatino, e
magificando le forze del Cridia. nefimo,
oberano in fuo ajuto, mife frh le principali aver in lega, e compagnia la Repubblica di Venezia, encrau
a fua difefa ad indanza,, e preghiere del Pontefice Romano, lafciato ben
gorvenato, e cudodito il Mare.* il che
tutto modra non folo ralTenfo di elfi
Pontefici, ma anche quanto fofle loro grato per fervizio pubblico della Cridianith, che la Repubblica av^e
forze non foto da protegere il Mare Adriatico, ma da mandare anche in Paefe
lontano. Celebri furono ira le altre le
fpedizioni £ute ad indanza d'Urba. no
Secondo, e nei 1111. a preghiere diCalido Secondo; ma foprartutto è notabile la
fpedizionc fatta h Coftantinopoli l’anno 1202. con il potente Arnuu, che
inlìene con la Nobiltà Fraticefe, che vi
era lopra fu fufficiente di reftituire in Coftantinopoli
l'Impeiadore I fcacciato il Tiranno, e
dopo la morte di elfo Imperadore acquilare il Dominio della Citth, e
delflmperio, lafciando peri tanta Armata in Golfo, che fu fufficiente a
guardarlo, ed a ricuperar Zara, che
all’ora fi ribellò fenza muover le forze ch’erano in Coliantinopoli. Forfè la
più notabil memoria ò, che nel ia7}. avendo congiurata quali tutta la Riviera
della Romagna, e Marca Anconitana per
ufurparC il Dominio di quei Mari, turbando la poireffione della Serenilfima
Repubblica, fu nundata potentiifima Armau per reprimerli; e dopo alcune
Batuglie, fu fatu pace con quei di Romagna, de’ quali erano Capi i Bolognefi 4
convenuto, che la SerenilEma Repubblica continuaflè nella poflefCone fua
dicufiodire, e dominar quel Mare; Per lo
che quelli della Marca, refiati foli, non potendo far rcfiflenza, fecero
ricorfo al Pontefice Romano Gregorio Decimo, il quale tentò di far comandamento
al Duce di quel tempo di defifiere, al
che avendo egli rifpofio, che il Dominio del Mare era della Repubblica, e che voleva in ogni
modo difenderlo, e proibire a tutti il tener Legni, e Galee armate, e trattar
da nemici quelli, che avelfero pretefo
di tenerli, il negozio fu poitato dallo
flelTo Pontefice nel Concilio Generale di Lione, dove fu commeflà
la caufa degli Anconitani all’Abate
Naverfa, il quale udite le loro ragioni folamcme perchè la Serenillìnia
Repubblica non confenfi di mettere in
litigio quello, che da tanto tempo poffedeva, conobbe il Giudice, che gli Anconitani non avevano
fondamento alcuno; onde furono coftretti d’ acquietarli, e cedere. Fece
parimente guerra la Serenilfima
Repubblica col Rè d’Ungheria, tth le altre caule, anche pel Dominio del Mare
dirimpetto alla Dalmazia, ed in fine fi
fece la pace in Tarino nel ijSt. dove fu convenuto, che la giurifdizione
di quell' acque rellalfe alla Repubblica. Di quella ulnma guerra, e pace fono le Scritture pubbliche in
Segreteria; le altre cote narrate di fopra fono tratte dagli Storici, eDendo
cofe fuccelfé innanzi l’anno izji.
quando furono abbruciate tutte le Scritture
pubbliche. ‘ Più efficace prova
ancora fi cava da’ricorfi fatti -da diverfe Citth, e Principi polli fopra il Mare Adriatico, i
quali avendo ricevute irt‘ giurie nel
Mare da’Corlàri, ovvero altri Ladri maritimi, fono ricorfi a quella Principe,
dimandando ragione, e giulliziz. Per le
Scritture pubbliche appare, che nel 1377. gli Anconitani prefero ardire di far diverfe novitb in Mare
contro i Mercanti di Fermo, eÌAfcoli.
(^elli di Fermo fecero ricorfo a Venezia, e dal
Principe fu mandato in Ancona a ricercarli della Conveniente emen. da, ed a dolerli delle novit b da loro fatte
in Mare, la cui guardia era acquifiata con tanto fangue: al che avendo elfi
finillramente rifpollo, e non celfando di velare il Mare, fu perciò
mandata una potente Armata per
reprimérli; nel che volendo interponerfi il
Pontefice Papa Gregorio Undccimo, al qual-efiètto mandò un’Amhafeiadore
a Venezia, gli ih rifpoflo eoo aperte parole, non elTervi altra maniera d’accomodamento, fe non
celfimdo gli Anconitani di molcllare i
Naviganti, perchè la cullodia del Mare en llau dalla Repubblica icquillata con
fuodori, e fangue da tanto tempo, cht
non vi è memoria in contrario, come i ben noto; e perciò facevano
intendere a Sua Santità, e cosi erano per dire a tutto il Mondo, che volevano
foli culfodire il Mare, e proibir^ ad ogn'uno l’offendere in elfo chi fi
fia. Furono coftretii in fine gli
Anconitani a deri(lere,ed a ftxldisfare
ancora a danni dati nel Mare a quelli di Fermo, e di Afcoli, Ebbero ancora ricorfo quelli di Spoleti
airEccellentiflime Senato nel iì 9 ì-
per elTcre ftau prefa una loro Barca fopra la Spiaggia di Rccanaii, onde fu comincio al Proveditore
d'andare in Ancona, o sforzare gli
Anconitani alla rcllituzione come di cofa prefa indebitamente nel Golfo di
giurifdizione della Repubblica ac^uiftau eoa
indori, fangue, e fpefa. £ nel
1408. corteggiando intorno alla punta d'Italia alcuni GenovcC con una Nave, una
Caravella, ad una FuRa facendo danni
particolarmente a Sudditi dal Principe di Taranto, egli fcrifle una lettera al Duce, avvilando i danni ricevuti,
c ft^iuitgendo, che la forze fue
farebbero Baie baflanti per rifarcirli de’ danni de'fuoi Sudditi; con tutto ciò
aveva voluto prima darne notizia a Sua Serenitb, fperando, che vi rimedicrli,
ficchò non fatò nOceflario per altra via
provedere all' immunità de’fuoi Sudditi.
L'illeflb anno eflendo fuggite due Galee al Rò Ferdinando di Sicilia di
quà dal Faro, ed entrante net Golfo Adriatico, quel Rò non giudicò gli fo 0 c lecito il léguitarle,
ma mandò a pregare il Sereniflimo Dominio, eh’ effendo enitate nel Mar fuo,
voìeflie perfeguà. farle, e
prenderle. In quegli (lem tempi del
nti, eflendo fatte diverfe novità, e prede da' Golfari nelle acque della Marca,
ficchè anche il viaggio alla divozione della Madonna di Loreto era impedito,
quei della Ri. vieia mandarono a
Cgnilìcarlo al Principe, avvifandioio della violazione della giurifdizione del
fuo Mare, e che le prede fatte in quello erano con danno, e vergogna fna,
pregandolo a prevedere con la fua
potenza, e giulliaia, maflitee per heureeza di quelli, che dovevano andare alla
Madonna di Loreto. L'illeflia illasza
fu fatta nel 141(4. dall' Ambafeiadore dello Beflò Ri Feidinando per le Riviere della Puglia. Nel 1483. eflendo Baie predate da un Corfaro
alcune robe del Ri d'Ungheria, i fnoi
Miniflri ebbero ricorfo al Principe Cgoificandoli, che le offefe erano fatte a
lui eflendo occorlé nel fuo Marc, c
dimandando provinone, acciò la Navigazione fofle libera. E quello che i di maggior momento nel i48d.
avendo i Turchi fatta una incurliene
ikIU Marca Anconitana, predando uomini,e
robe, Rapa Innoccnzio Ottavo con un fuo Breve, che ancora G ve. da, ordinò al fuo Nunzio AppoQolioo di fare
doglianze con l'EccellentiiGiao Senato, e GgniGcarli, che all'onor fuo
conveniva, che il Mar Adriatico faflc
tenuto libera' da' Coefari, t far anche efficaci inflanze acciò raflrenafl'e l'ardire di quei
l'urchi, che corleggiavano il Mare con
vergogna, e fprczzo della Sereniflima Repubblica, aggiungendo, che cosi facendo
farebbero opera gloriofa, e gratiffima
alla Sede AppoRolica. In quelli ultimi tempi attenta nel 1577. Papa
Gregaria DecimoWnio fece pregare rEcc^llentiflimo Senato di liberare il Golfo
dall’ infedazione di una Galea del
Marchefe di Vico, dicendo, che alla
SerenilEaia K,cpubb.lica fpettava la coliodia d'elTo Golfo. Non i
da tralalciare una lòtta d'ai^ellazione
de'Pontefici Romani, che ii Dominio di quello. Mare fpetti alla Repubblica,
alla quale hanno fatto alcuni d’elTi nel conceder le Pecime particolarmeule per
le fpeGc della guardia del Qolfo^.Viè un
Breve d’Adriano Sello noi un'altro di
clemente Settimo nel ijzd. uno di Paolo Terzo nel ijjS, ed uno di Pio Qaaito nel 1504. che ciò
dicono erpreOàniente, e forfè chi ricercaOc piò minuumente ne’ tempi innanzi,
e dopo ne troverebbe degl’ altri dello
flelTo tenore. Similmente
manifeliilTimo confenfo degl’Imperadori fono le Sei Bolle Imperiali d’Enrico Quarto, Lotario
Secondo, Federigo Primo, Enrico Sedo,
Ottone Quarto, e Federigo Secondo, refemplare de' quali ò nella Segreteria, dove ciafeheduno
d’efli pattuifee, che i Sudditi Veneti pol&no liberamante tranfiiare per le
Terre, e Fiumi deli' Imperio, ed i Sudditi Imperiali pel Mare, e Fiumi di
Venezia. Non fi dee tralalciare trb le
dichiarazioni Imperiali la pace con
Carlo Quinto, ed Ferdinando Secondo nel i5Zp. nella quale vi ò un Capitola, dovei! contiene, che i Sudditi
polTano negoziare in Terra, ed in Mare,
che è ben una chiara canfclTione, che la Repubblica ha il Dominio del Mare. Ma che quedo Mate fi
debba intendere tutto l’Adriatico, Io
moflra un’altro Capitolo dove dice, che la SeTcnilEma Repubblica continui a
poircdere,come in quel tempo podedeva Terre, Fiumi, Laghi, ed Acque; il che non
fi può intendere fe non dell’ acque del
Mare, avendo prima detto Fiumi, Laghi, ed
Acque; ma all’ora polTedcva tutto l’Adriatico, (wrehè ella in qud tempo y’ aveva l’armau dentro: Adunque quei
Principi acconfentirono ìa poiTcuione dell Adriatico. La cerimonia ancora di fpofiir il Mare, che
annualmente fi fa in prefenza degli
Ambafeiadori, e Miniftri del Papa, e dell’ Imperadore, che non è data mai
interrotta,è un’indizio deU’attedazione di
quei Principi. Modrano ancora il
confenfo di molti Principi, e Potentati le licenze chiede da loro per
tranfirare con vettovaglie nel Mare. Ve
ne fono innumcrabili concedè ai Marchefi di Ferrara, alla Cittì di Cefena, ai Signori di Ravenna, ai
Malateda Signori di Rimini, ai Rè
d’Ungheria, ai Ragufei, ai Rè di Napoli, ed
all’ Imperadore deifoj ed al Pontefice ancora, che farebbe troppo lungo riferirle tutte. Io ne ho da’ Libri
pubblici raccolte trenta nave, e fono certo, che ve ne fono dell' altre. ' Fra quelli fono notabili per la grandezza
de’ Principi, Che le han. no richiede le
concedioni fatte a petizione ;del Pontefice, e de’ fuoi Minidri, come nel ladp. all’Arcivefcavo
di Spalatro Governatore della Marca, e Patriarca Antiocheno Governatore della
Romagna di poter condur grano dalla Marca, e nel 1477. il Pontefice Sido Quarto per un luo Breve ricercò di poter
trasferire grano dalla Marca in Cefena, e nel 1505. Giulio II. per un fuo Breve
chiefe licenza di portar {rumenta dalla Marca a Roma. Si
33 che nel 1 3pp. efRtndo contratto matrimonio erb Guglielmo Arciduca
d’Auflria, e la Sorella di Ladislao di
Napoli, la quale volendo il Fratteilo, ed il Marito condur per Marc di l^glìa alla Riviera di Dalmazia
con la. Vafeelli, tré Galee, e Navigli, dimandarono falvocondottp per li
legni, c per le |>crfone^ ed il
lalvocondotto fu concelfo a compiacenza di
que’ Principi, a tutte le perlone, eccetto quelle, che fofTero
bandU te da Venezia per delitto di
Maeflh ofTelà, o per omicidio; col qual
falvo condotto la Spola palsò con tutta la fua Compagnia; pniova noubiliinma della luperiorith del Mare;
poiché i Banditi da Venezia tono banditi dall’Adriatico, come da Territorio
fuo, e non è loro permeflb il femplice
paffaggio, tranficando di Terre aliene in
Terra aliena, ed in compagnia di gran Principi, Aggiungerò con qued’occafìone, non efler leggiera pniova di
giuriidizioac in tutto il Mare il
colhime antichidimo di bandir da’ Navigli armati, e dilarmati, che fi vede
efegmto caiandy) ne* Navigli d’altri Principi, come neiroccafioni narrate* ^
f Dell’ aver ftatuite leggi, ed
ordinazioni fopra fa navigatone, e
deU’efazione de'Dazj, urh il luogo dì dilccNTcre à|l particolare nella terza Scrittura, ficcome anche il ledknonio
de’Gìdreconlulti (i riferidi nella feconda, come in luogo proprio. Per
compimento di queùo teda folo raccogliere con bwiÀme parola tutte infìemo le
con« chiiìoni propode,^ o per dir meglio
provate Ogni Dominio conda di titolo, e pofleflb « 11 titolo del Dominio dalla Sereniifima Repubblka fopra il Golfo
contiene quattro condì» zbni edenzialt^
La prima, che non é in modo alcuno acquidato,
ma nato ìnfìeme colla Repubblica, a colla liberti fua in acque libeiQ,
non foggette allora a ;giuriidnions d' alcuno.* la feconda che fi é- aumentato, c dUaiak» per occafioni
fopra le acque/ dappoiché furono
abbandonate da chi le podedeva, e redavano fenza Padrone, che vi avelie
giurildizione ; la terza, eh.' è conlervato
colla forza deir armi, con fpargimenta di langue, profufione di cefori,
o. tutto a cagione di rendere più ficura la navigazione; la quarta^ eh’ è- confermato pec una lunghidlma
confuecudine, il principio della quale fupera ogni memoria Ma oltre quede
quattro condizioni intrìnfeche, ed eifenziali, s‘ agghusgono altre tre, che febbene noa
apponano ragione, lervono a maggior
decoro, c manifedazione della veriii, e lono quedeLa prima, raflènlo di molti
Pcincipi coli’ implorar gli ajuti marìtimi, o chieder licenza di) iralportare
robe o con pace, o convenzione; la feconda il tedimonio degli Storici; la terza
1 ' attedazione, ed approvazione de'Giureconluici, la poflelTionc
continuata attuale, e veduta in tutti i
tempi, e fi vode ancora al prelenre da
tutti per quattro .continuati, e non mai intcrxotti cfercizj di Dominio. Il primo per la continuata elezbne de’
Magidrati, ch’elercUana il Governo
panicolaie pel Capitano di Golfo. Il fecondo per b cuRodia armata continuamente
tenuta, con proi. birc ad ogn'uno if
entrarvi armato, j 11 terzo per le leggi
ogni tempo Ratuite fopra la navigazione, ed
efeguite con pena centra i trafgrefsori. Il quarto per refazìoni impoRe, c rifeofle in
c^ni tempo; le quali cofe eflèndo tutte notorie, non può queRo Dominio eÓcr
dedotto in controvetlia, nè dilputato;
ma reRa falò il continuar la polléflione cott’efercizio de'medefimi atti
giurisdizionali, opponendo la forza a
tentativi, che foflero fatti in contrario; perchè ficceme le ragioni, ed i
titoli de’ privati fono cadaveri fenz’ anima, quando non fieno vivificati dalla
forza della legge e del giudizio, che danno il vigore; cosi la ragione, ed il
titolo del Principe fono cadaveri, quando
non fieno animati dalla forza, ed ufo di quella, dalla quale ricevono la
vita. 1 I Principi tengono vive coll'
efercizio, e coll’efecuzione le proprie
ragioni, per uno di queRi tré rifpetii, o perchè portino dignità, e utile; o; per efler necefiàrie alla
converfazione del Governo. Si vede con
quanta accuratezza i Regni di Francia, c di SpagAa. IbReptano le loro
pretenfioni dì precedenza, dove non vi è pun.
to d’utilit'a, fenz’aver rifguardo a' difguRi, che perciò fi danno
1' uno all’altro; ed agrìmpedìmenti, che
portano alle negoziazioni; E queRo
folaroentc per confcrvare l' onorcvolezza. Delle ragioni, che portano utile non occorre parlar più innanzi,
elfendo certo che gli Stati non fi
mantengono fenza fpefe, e la fpefa non fi fa comodamente fe non fi cava l’
utilità : dove la ncceflith interviene, ella ha
ranta forza, che non permetre dubbio, nè lungo configlìo; ma fpigne
immediaramente all’efeCDzione. . . Ma la
giurìfdizione di queRa Repubblica fopra il Mare ha le due prime qualii'a, la
dignità; eflendo un titolo molto fpeziofo, ed onorevaie l’elfcr chiamato
Signore di tutto l'Adriatico. Che fe i Rè dì
Portogallo ebbero per titolo d’onorevoiczza il chianurfi Padroni d’ un Commerzio dclflndie Orientali, che s'intitolavano
nelle loro pubbliche lettere ; molto maggior dignità fi dee fare 1’ elfer detti
Si'I gnori non del Commerzio raaritimo,
ma del Mare fldfo., L’ utilità è
manifeRa; poiché oltre il benefizio de’Dazj, riduce il Commerzb in Venezia, accrefee il negozio
della Citti, e. quella fi fa più ricca,
ed abbondante; dacché il Principe può cavare maggior frutto pubblico; ma all'utilità, e dignlth
s’aggiugne la ncccRiih ancora; poiché la vita di quell' inclita Citth Rànci
Mare, efuoCommerzio, con quel fole è ridotta a queRa grandezza ; fe quello è diminuito,
bifogna ancora, che queRa indebolifca, onde per confcrvarla é neceflario
mantenerlo, e s'è diminuito, teRituirlo come prima; e dove fono congiunte tutte qucRe tré ragioni
infieme, non fi può aggiugnere
eccitamento maggiore. £ qucR’é quello,
che ho giudicato rapprcfentarc a V. S. per cfplicazìone del vero titolo, e
poflcRione tua fopra il Golfo; il che
apparirà maggiormente neceRàrio, quando nell'altra Scrittura tratterò
gl’ inconvenienti, che feguirebbono, valendofi d'altro titolo. Avendo,
efplicato. nella prima Scrittura,, eh» il titolo di V. S. fopra il Dominio, del Golfo non t in. alcan
Modo, acquiftato, ma nato, colla liberti
deiJa Repubblica, aumentato c confervata colla Tirtbi delibarmi, e fpefe di
lefort, e confetvaio. per immemocabils
confuetudin* conleguita neceffiinameme^ che preferizìone, o
privilegia Boa vi abbiano, luogo - ne
(irebbe bilogno conftderara gtlncovenienù di
quelli ckoli, quando riifarli non blTe di pregiudizio. Non b Iblo opinione tuia, che fia cofa
pregiudiziale allegar privi, legi in
quella matetn, ma alcuni ancora de’ ane
ediGcare un’ediGaio fopra fuolo alieno.
AppreGb di ciò è cofa cena, che ninne può concedere Dominio ad adtri di cofa, che non Ga fua; ed infieme
è ceno, che nè il Papa, nè rimperadore da Carlo Magno in qui, dal quale viene
l’origine di queG’Imperio, nui hanno avuto Dominio, ne cuGodia di quefto Mare; nè. mai hanno tenuta Amata in cGb ;
adunque non ^nno mai poiuth concederlo
ad altri; laonde fe V. S. che tiene quello
Dominio da fc GeGà, diceffe d' averlo avuto dal PontcGce^ o* dall’ Imperadore, G priverebbe di quello, ch’è fuo;
e darebbe loro quello, che non hanno, nè mai hanno avuto. A quello G aggiugne, che chiunque afferifee
di poGédere per privilegio alcuna cola, oltre l'obbligo di confeflare, che il
Concedente fia legitimo Padrone, e fuo Superiore quanto a quella, è tenuto anche a moftraic la conceflione, fe fu
fatta in tempo, del quale vi Ga memoria;
il che non è neceGàrio, fe è da tempo
immemorabile; noi qual cafo bada la fama, ed opinion com^ che il privilegio vi Ga, e hafta allegarlo;
ma oltre di ciò è ohhligato chi l’allega a rifpmdere a quelli, che voleffero
provare che non Ga vero; E gli
EccleGaGici fi fono dichiarati di voler
eombattcre la verith della .Srorii |d’ Aieffanòro terzo, quanto
fpetta alla vittoria avuta dal Principe
Ziani conera il Gglìoolo dcH’Impetadore; e potò hanno fatto lérivcre al Bironio
un lungo difeortd nel Tomo fecondo in
contrario, dove G sforza con molti arteGz^
e con grande aflètiaaione di molfrare, che allora il Papa era al di fopra, e che non ebbe infogna d’ajuto
nè v’imervennero le forze della
Repubblica ; e naolte cofe dice, abbaffando anche, e vilipendendo quanto può il Governo, e la
potenza della GeGà Repubblica in quel tempo; il qaal difcorfo, fe ben è impreGb
da lui con proicGa di vetith, e
Gncerith,' non afconde però affatto G vero Gne Romano, ch’è di GabUire due
pretenGont lorouna, che il Mare debba effere riconofeiut» da Roma; l'altra,
ch’i per pura, e mera grazia, e non
ricompenfa d'ajuti pieGati. Lo icopo di
tolta l'Onta del Baronio non è altro, le non moGrare, che tutti i Principati hanno dipendenaa dal
Papa, ed ora tocca queGo, ora quello. Nell’ XI. Tomo fcrive centra' U Monarchia
di Sicilia, Gccome nel XII. concia la
Storia d’Aleffandro; ed il SereniGimo Rè Cattolico, con tutto che parrebbe, che
la fua potenza lo doveffe nodere illefo
da tutte le macchinazioni, che poteffero effer fatte, con Sciitiute, t libri,
nondimeno vi ha fatta riGeffione fopra,, Temo II. V u a e l’ha ( rii9 Annatx
coTi dx non fprczzare, ed i venuti quella Macflì in riiblpzione,. non folo di proibir quella
parte d'opera del detto Caidioale io tutti t fuoi Stati con pene graviilime a
chi la ponalTe, a htenelle appreCTo di
fé- ma ancora con fuo Editto pubblico per tutti i liiaii Stati pronanziò una
fcvcriiriuia Centura cantra il Cardinale, il qual eferepio mollra, che'
quett'altro- tentativo del Baronio circa la Storia d'Aleflàndro Terzo inerita,
che dalla Sereniti Voiln vi fia avuta
(opra la debita confìderazione, acciò in progtelTo di tempo non partorilca qualche Icandalo ; ma perchè
quaG tutti i Ciureconlulti atteilano
quello Dominio del Mare, e rattribuifcono a
privilegio,, alcuni pochi dicono del Papa, altri in gran numero dicono
dciriinpcradore,èneccirario fcoprire la cagione del loro errore, per aver che rilpondere a chi
rallegaflè. Quelli, che l'attribuiJcono
a privilegio Papale fono i Fautori delle prccenfioni Romane, che hanno tentato
di fottopone con varie invenzioni tutti
gUStati ai Ponieiici piòvecchi, innanzi che le forze maritime della Repubblica Ci Gendelfero a'
luoghi lontani ; >' arredano però per noa aver vcrifimilitudine; ma Teircr
fatta in Venezia con tanta iblennith la
pace trli Papa Alellàndro, e l’Imperador Federigo preda loro probabiliih, come
fe folTe dato per allegrezza del buon
lucceflo, come volgarmente li dice per buona mano. La falli' tb fi convince, elfendo quafi cent'anni innanzi
liiccellé tante fpedizioni in Terra Santa, che fecero fentire a tutto il Mondo
le forze, che la Repubblica contibul,
oltre le altre guerre latte in Dalmazia, ed in Puglia; e dall'altra parte non
avendo mai quel Pontefice avito in Mare un Legno armato, e nella Riviera di
Romagna, non avendo come nella Marca fe
non qualche ben generale ricognizione ; onde fecondo quafi, che non aveva
niente a che fare in Ma.re, lo concede a chi prima lo polfedeva. Credo bene,
che alcuni abbiano equivocato, e preio
lo Ipofare del Mare in luogo di dominarlo, e cuftodirlo. Che io fpofare veniffe
da Aledandro Terzo,efe tie fa menzione
in alcuni libri antichi, de' quali v'j copia nella Segretaria, perché le
Icritture di que' tempi s'abbruciarono dopo. In
quella Copia fi fa menzione, che al ritorno del Duce, dopo ottenuta la
vittoria, il Pontefice le falutò Dominator del Mare ; per tanto gli concede fpofare il Mare, ficcome il
Marito fpofa la Moglie nelle dita- Non v'é parola alcuna, che concedede Dominio
d' autorità,' cofa che non farebbe data
taciuta, come più importante dà chi fece
menzione della Cerimonia ; la quale chi conudereiù, avvertendo quanto rEcclefialtico
v'iniervenga, e quanto fia ringoiale e fenza efempio,fi tenderh facile a
credete che poteva eflére inflituità dal Papa. Primieramente il nome di fpofare
é quell' idedo, che fi ufa nel parlare
del Sagramertto del Matrimonio ; v' interviene benedizione; tutte cofe, che
niun Principe temporale avrebbe ardito d'indituire da fe medelimo, ma dime in
que'tempi, quando i Principi, e
Monarèlti dipendevano tutti da'femplici cenni del Papa, If quali ben confiderate fervono a levar l'equivocazione,
e modratc, donde ha avuta origine queda falla fama. Più abbiamo da penlare a que’Giurecoafulti
Legidi, i quali fodengono, che qualunque Fomentato podeda Mare de /aS» l'abbia
per concdliane Cefaru ; ma aocorach! non po!Ta «Ocre itgicimzmenie da alcimo' tenuto fe non per privilegio
deU'Impeiadore, e fono-molu e £unoll,
che diTcendcndo. a. tal particolare ancora dicono, che ^ privil^io. Imperiale la ScceoilTiaria
Repubblica tiene il Mare Ad^ tico, ed
ogni altro li»' Dominio,, e la liberti fua medefima; edAt bcrico da Rofates antico Giurecónfulto attelU
d’ aver veduto fteflb il privilegio
Imperiale autentico boUato con bolli d'oro ed i
Dottori feguentt, fccoiKlo ch'è loro coRumedi citarfi Tun l’altro {anno
menzione del fuo tcRiraonio occulto, e lo feguono; anzi il Dottor Marta
configlia la Repubblica, à guardarli dal dine di dominare il Mare per altro titolo, che per privilegio
Imperiale, perché ogni altro farebbe
ufurpativo, e tanto peggiore, quanto più antico. Ifoodamenti loto tono, che il
Mare I del Principe, e del Popolo Romano, perchè da niuno può
eiretepoireduto,nè occupato, nè ufurpato;
onde fé alcuno lo poDede, conviene, che ciò abbia avuu origine da conccOione Imperiale, della quale le la
memoria non refla, C deprefuporre, che per l’antichiii fia perduta, perchè
altrimente il principio larebbe viziolà Ma queRi Eccellcntiflimi Dottori foliti
a Rudiare nelle antiche leggi Romane, e quando con veriti -que'Principi fi
chiamavano Padroni del Mare Mediterraneo, e de’Golfi di quello, e fpellb anche
IV droni del Mondo, intendendo però del
Mondo praticato da' Romani, hanno
penfato, che ficcome gl’Inaperadori di quelli Secoli fuccedoBO a quelli in
nome, cosi fuccedono in ragione, ed in podeRà, e che tutto fia di queRi quello, che fu di
quelli; ed ancora in que. Ri temj» vi
fono de'LegiRi che fcrivon», che 1' Impeiadore è Padrone di Francia, e di
Spagna de jm fe bene me de feSe. Ma
rimperadore è Rato Padrone del Mondo Romano, menireha avute fora* terreRri da dominarlo, e del
Mare, mentre ha avute forzo maricime per
difenderlo, e cuRodirlo; e quando non ha avute forze con che tenere, e guardate
il Mare, quello è leflato fenzPadrone, e paflàto poi nel Dominio di chi. avendo
forze ha prefo a cuRodirlo, e,
proteggerlo.. E' veriflimo, che le cole pubbliche dej Principe non pslfono eOère appetiate da alcuno;
ma. s'intende con due limitazioni; runa
da niun privato; perchè da m‘un. altro.- Principe poObno eflér vinte con guerra, e l’altra
limiuzione è, che s’inteiw de mentr’
elio le cuR^ce, e protegge; perchè fe le abbandona affatto reRano di chi prima
colla fua protezione le occupa ; onde le leggi, le quali dicono, che il Mare è
del Popolo Romano,' o dell’Iinperadore, s'intendono, mentre il[Popolo Romano lo
cuRodiva; e prote«eva colla fua Armata, e non pel tem^. presente, quando
non retta deila Repubblica Romana altro,
che il nome. E quando dicono, che la
confueiudine immemorabile preRippone
privilegio, conviene intendere cosi quando fi tratta del fupremo Principe
al fuo fitddito, il quale pt^eda alcuna giurisdizione che fpet. ' alfe gà pet l' addietro al Principe, fi dee
prefuporre privilegio, perchè per nelTùn altro titolo la giurisdizione può
paffar dal Principe al privato, liilvo
che per concelCone; ma quando fi trata tA due
Principi fupreini, ed uno tiene da tempo immemorabile Territorio, o ginritdizione,chel'altrQ aveffe prima, non
fi bada pitfupporre privilegio; imperocché non cade tri i fupremi: ma kens^una
dcU'altrc ragioni, coUe quali iDominj
paflano da Principe a Principe, che fono ragioni di guerra, convenzioni, patti, ovvero
mancamenti di forze; onde avendo la Sereniflima Repubblica da tempo
immemorabile il Dominio del Mare, che gii fu del Popolo Romano, fc per le
Storie non fi fapeflc, come fia {Htlfats
in lei, fi dovrebbe prelupporre uno de'fuddeiti titoli; il che non occorre
trattare alternatamente; effendo certo, che v’intervcnifle la debolezza di
quello a poterlo pih tenere, e le forze
della Repubblica a cuRodirIp; e fe palsb qualche Scrittura, che quella folfe una confelliozic di legitimo
titolo gii acquifiato.Ed in fatti è cosi
; perché nella fegreta di V. S. vi fono lettere di lei Imperadori Enrico Quinto, Lotario Secondo.
Federigo Primo, Enrico Sedo. OttoneQuarto, FedcrigoSecondo, che durarono pili
di cent' anni, incominciando dal un.
fino ai izio. nelle quali fimo defcritic le convenzioni, ed i patti loro colla
Sereniflima Repubblica, ed é
fpecificatamente convenuto, che fia amicizia trh i popoli fudditi dell'Imperio
in Italia, cd i fuddiii delta ftelfa Repubblica, e fatta nominatamente menzione
di quelli, e di quelli; fòggiugnendo,che
i fudditi di Venezia poffano andare per le terre, e Fiumi deU'impetio,
ed i fudditi dell’ Imperio, poOano andare pel Mare, e Fiumi di Venezia ; dalle
quali convenzioni fi veggono tre cofs
chiaie. L' una che rimperadore
non aveva Dominio d' alcun Mare.
L’altra che la Repubblica aveva Mare dominato da lei, e non concelTole da loto. La terza, che fi convenne del pari tra la
Repubblica, e 1’ Imperadore, che i fudditi dcU’uno fieno ficuri per li luoghi
dell' altro. Al prefente le convenzioni
tea' Principi fi fanno per un Infirumento, che poi è ratificato da loro. In
que’tempi la grandezza dclF Imperio non
cofiumava di fare IiUlmmenro; ma le contrattazioni fi fpedivano folamentc per Bolla Imperiale; appunto
come collu. mano di fare al prefente i
Turchi nel trattare con Principi Criftiani. Ma di quelle. Bolle Imperiali o alcuna non
farh fiata veduta da Alberico, o egli
pel troppo aSetto, che i LegiRi in paeticolaro por. uvano ail’antoriih Impeciale, che perniò fii
anche in poca grazia della Corte Romana,
e fegui Lodovico Imperadorc comra PapaGiovanni XXII., c per onorar piò
rimperadore 'avrò voluto chiamarla
ptiviIegio.,ovvcTO avrò veduta la Bolla col figlilo in oro, c letto
il nome dcU'Imperadore, e non pafihnd»
più oltre, avrò per conghiet. pire
imefo. il ioggetto, ed avtù dato quel nome, che larh Rato ca. sione dell'errore degli altri, che lenza
efóminace piò oltre hanno lerotto il fuo tcRimonio. ° Seno altri Giureconfulti, che aRérifeon»
il Dominio del Mare alla Repubblica per titolo di prelchzioae, il quale non fi
può, réfi dee in iciodo alcuno ufare;
principalmente perchè non è vera; poi
ancora, perché mette in campò molte diHìcolth. : Si dice acquiRata per ptelcrizionc quella
cola, la quale effendo veramente id'un
altro, tifando per lungo tempo |con buona fède come propria, per virtò del
lungo ufo muea Padrone, e palla dal pri. i ma di rao di chi ai ai
fiKoodo," che l’ha ufaik ia modo che pce ciwiodj prefciizionc non li pofledonio fe non cofe
d'altri. La natura della ptdctiztone d
qucliav che linfa accompagnaiodalk bnona fede' lena la cagione, e ’l titola,.
che un altro ha, e trasferì, fce il.
Dominio, in chi ha poflèdiua ultitoamente.k cola. . Hifittifcona i Dottori, che dilborrona dà giuriadiuone,
che il Marc fi>nè. delllmr pnadotc di
Geonania, • che: la Repobhto ufandplo per lup^ilE. mo tempo, del principio del quale i»n v
Memoria, fenaa.ch’ efc Impcradote' fi
Isa appofl», ne ha acquillato il Domàiio.
A quella dottrina divcrfe oppofizioni fi fanno, una che il Ma-, re Adriatico non fa mai dell’ImperadaK
Germanico, lìcchà pglkeffere preferino cantio di luii, raltra, che k
pKfcriziooe i ooia odiohy pigliando a
Ho, e legitimo. Quelli fono
Alberico di Roface, Bartolo, Baldo, Angelo Bonarb,. Bartolonmieo Saliceto, Selino Sardco, Paolo
da Ca Uro, Angelo Are-, tino, Gialone,
Bartolormmco Cepolk, Lorenzo Colca, Gtoranoi da
Imola. Carlo..... E^o Balco, Giulio Folcilo, Giovanni Beitachrno.
Benvenuto Inaccia, Martin Laudeirfe, Fiaocefco Balbo, Nicolò Triftavio, Angelo MuÀ)', Gio.- Jacopo Marta,
e'I Collegio d’Ingolllad, de’ quali fi pone k fola conclufione, che la
RcpubUàca di Venezia ha il Dominio deirAdriaeico, lenza (Blcendcre ad cfpUcare
il titolo ; otto r alcrivoro a
privilegio, quattro a prefcrizione. Ma
i più celebri, che fono èrtolo. Baldo, Saliceto, Paolo da Cadrò, c Franccteo Balbo, tengono il
fondamento, ch'è k fokpofi feffionc peramichitliditeinpe,'eiunghiffimaconfùetudine
immemorabile; al quale io aggiunga, anzi mando innanzi quello d’ rifer
nato inficine colla Repubblica,
aumcniaKi, e mantenuta con virtù fempre con fangue, e f^k; e vi aggiunga pofeia
il confenló degli al. tri 344 DOMINIO DEL tn Pilitcipi, il tefbmonio degli Storici, e
1 ' apptavaziaoe de' Giureconfulfi, quantunque non debbano elTcre ricevuti
quelli, che G vagliono'di privilegio, o confuetudinc recita, ovvero efprefla, o
prefunu; nè quelli, che G ibndano in preferiaione- Quanto a quella ragione,
dove fanno il fondamento, dobbiaina -però valerci della loro autoriilt, in quanto tengono il Dominio della
Repubblica fopra il Mare per giuGo, e
legitimo, ed in quanto rendono chiaro teìlimonio,'cbe gìk 300. anni a tutta
l'Italia em noto, che il Mare Gpoffedeva gii canto tempo, che allora non vi em
memoria del principio. ' r E (è alcuna
diceflìc, che -non è lecito di valcrG di. parte nel detto d'un Teftimonio, fe non ricevendolo ‘ tutto,
rifponderemo ciè effer vero- nelle cofe
dt fa(h, che il TeGimonio dice di propria icicnza ma non di quello’, ch’egli
conghiettura fopra, ovv«o difeorre effer de falUy. - - •. i:, QueGo Hi de fede, che nè tempi de ij.
GiureconGtlti fopraddetti era notorio il Dominio della Serenifllma Repubblica
(apra il Mare, e che del principio
d'cfTo allora non v’era memoria; maqual
ioGe il titolo di qucGo Dominio, non apparteneva ad alcuno il dirlo per
conghiettura; ma folo a chi iblTero Rate moGratc le ragioni pubbliche: onde con buone ragioni G riceve il
loro lefiimoniodi quello^ che hanno per
licenza in fedo, e C riprovano le loro conghietture in Jure, Dal che G avn come rifponderc a
quelli, che hanno introdotti falQ titoli
di privilegio, o prclcrizione, o fecondo il mio
riverente patere, il quale rimetto al giudizio di VV. ££. G ufer^il vero, e’I p*Dprio tante volte replicato.
Grazia. •' .1 SCRITTURA TERZA. i O
Ltre hi conCderazionfe: del Dominio del Mare in generale rcAa il terzo capo propello, cioè particolarmencc
parlare de* Porti, Ridotti, e Seni, lion
per que’ luoghi, dove lo (leflb Principe è Padrone del Mare, e deitaiTerra,
come in Idria, e Dalmazia, ma rìfpetto a quelli, dove il Mare è lòtto la
giuriidtzione d’un altro, eia Terra
lotto quella d' un’altro, come occorre in Puglia, Rom;^na,cd altre pani deirAdriatico: la qual diveifit^
di Dominj può far naicexe difputa, (è le acqtie vicine a ter/a debbano feguire
le condizioni dellaltro Mare, cd effere fono la giurildizionc della Signoria
d' eflb, ovvero quella del Continente,
llando foggette al Signore della Terra;
c vi e apparenza, che non G dovelTe aver riguardo al Mare; perchè Tacque
de'feni tono cosi poco profoflde, che piuttoHo G polTono dimandar Terre; appreflb ciò G può
allegare Tautoritb di molti Dottori, i
quali dicono, che ogni CitiX è Padrona del Mare
vicino a fe; e maggiormente de* Porti, i quali alcune Cittk hanno
edificati di nuova, ferrandoli con Moli, o con altri EdiGzj, che farebbe grande inconveniente volerli
fottoporre ad altri. Ma in contrario è
l'opinione univ^rfaJe de’Gìurcconfulci, che deSeni, e de’Poni ( degli aperti
parlando, che deTerrati G diri a Tuo
Uiogo ) abbia il Dominio quello Geflb, ch’è Padrone del Mare, e nofninacamente delTAdriatico. Que’ Dottori, che
attcGano il Domi nio Digilized by
Google MAR ADRIATICO. 345 DÌO della SerenUStna Repubblica, cfplicando,
ch'eflèndo a' Seni, e Ridoni, eh’
e&t chbmaao ftaaioni, ed a’ Foca, adducono per ragiooc, che quelle acque
che fono continuale a quelle del Mare, fi
che frh loro non fi pub metter termne, che le divida; iti fi pub trovare un confine, dove l'uoe fòmilca, e
l’altio principj, non ^ tendo, eflére
fctio il governo di due, ledano alla confiderazione del Mare^ del quale fono i Porci, non mettendo
difTerenza tra acqua profonda, e non proionda,' poiché può anche elTere in
qualche luogo vicino a terra maggior
profondià, che in un altro molto lontano.
Ma la, formai ragione, per la quale tutte le acque marine debbono cITerc
fottopode a chi fignoreggia il Mare, i pcrchò il Dominb del Mare fi dice protezione, e cudodia per
ficurezza de'Naviganti, ed i Seni,
Ridotti, e Porti hanno maggior bifogno di queda prò. lezione e difefa, come luoghi, dove i
0>tfari, e Ladroni marittimi hanno maggior comodo di fax ruberie/ adunque
lupra quedi il Signore del Mare ha da
efercitare la Tua cudodia, e protezione, come nell'alto Mare ò più eflèndo. il
bifogno maggiore: S’aggiunge, che vana
farebbe la difeia dell'alto Mare, quando i
Violatori di quello fof&ro bivi ne’Seni, e Porti, potendo edi
dopo aver fatta la preda loro) aver dove
ritirare, fenza timore d'alcun, il che
riufeirebbe anche a danno delle CittV vicine, le quali non hanno forze
marittime da reprimerli, fe non foOero raflrcnati da chi domina il Mare, fiuebbero le prede fenz’alcim
impedimento: per la qual 'ragione la
giurifdizione del Marre fi dende anche a’ Lidi, che hanno bifogno della defla cudodia, e
protezione : e buona parte de'Giureconfulti ateedano. nominatamente, che b
Setenidìma Repubblica abbb anche la giurifdizione ne' lidi ; e fi può provare
con una legge, la quale dice, che
ilPadrone delMareha infieme Dominio di tutte le cofe, che il Mare non lafcia
altri tifi, come il fuo. fondo, che col
dufo,e rifludb ordinarìaihente copre, e difcopre,fu eoa molta, o poca acqua, e quella poca arena
appena, che copre nelle fue eferefeenze,
fe ben d’ordinario non ò coiidianamente coperta. E’ ben necedario metter didcRoia tih i Seni,
Ridotti, e Porti aperti a' Porri
ferrati, perrifblvere queU’inconveniente, che feguircbbe,fit. le Citth non fodera Padrone de’ Porti
edificaci irò bro. I ferrali, Irecome fono cudoditi da Terra, cosi appartengono
ad ed'a, e non al Mare, e fono folto la
giurìfdizbne dd Padrone della Terra/ perla
che il Dominator dd Mare non ne ha ragione, dove non i Signore anche
della Terra; ma gli ^rti, non elTendo cudoditi da Ter» ra, ma folo da Mare, e colle forze-
marittime, fanno un'deda giuritdizione coll’alto Mare. Il detto d’alcuni Giureconfulti, che ogni
Citth marittima podeda la pane del Mare
vicina a fe non. conclude, che il folo Mar alto
fia fono il Dominio dd Principe, ed il prodimo a Tetra, appartenga alb Cint, fc farù iniefo il beo veto fenfo il
qual è, che il Dominb univcrbie del Prmeipe fopra tutto, il Territorio fb
infieme con un altro fpcziair, che
cufeun privato ha fopra una parte d’
eflb b qual poflede, e non s'oppugna l’un l’altro., anzi per b contrario
uno fenza l'altro ceda impenetlo.. £
dove il Principe ha la giurifdizione, c più d’una Citth viòuo, Tomi X X terzo Dominio, intermedie, che
cUrcheduna Citth ha fopra il fuo'
Tenitor», il quale è fuperiore a quello' del privato, ed inferiore
a quetlo- del Principe. Quefto lì llende
lopra certe cofe comuni, le quali benché
ad ufo' fieno di ciafcliedun privato'/ da ninno però polfono effete
appropriate, ed ufupaie perfefolo,^ ma reflano in comune della Citth. Il Mare: non puh cadere in Dominio dei
privato; perchè non potendo per la fua inflabilitìi efler divifo,non può
parimente il privato occupare in parte,,e circondarla,, e cullodirla per fé
foto; eccetto che dove folTe qualche recedo che potelTe edcr ferrato co’
pali, e cosV fatto proprio. Ma perchè il
Mare profiimo alla Terra può ben edere
ulaio continuamente dagli Uomini della Città ora da uno, ora da un altro per tranfitarc con barche,
ovvero per padarvi; per tanto vi è oltre
il Dominio del Principe fopra il Mare, anche quella che ciafeheduna Città ha fopra la parte
contigua a fé. Cercano i Giureconfulti
quanta parte del Mare appartenga a ciafcheduna Città r ed alcuni d'edì hanno
detto cento miglia; ma parlando propriamente ella è tanto grande, quanto può ad
operare a fuo ufo, lenza ingiuria
de'vicini; perchè una grande, e popolata Città fui Mare, la quale abbondi di
lìti terrcllri, dove cavi il fuovit10, avrà pochi, che vogliano fare il
melliere di Pefeatore, e fi valeià di poco Mare, dove una picciola Città con un
poco di comodità in Terra attenderà a
cavare iivittodalMare, e li vaierà di gran Mrte d'edb; e non altrimente hanno voluta intendete i
Giurcconfolti de'cento miglia/ ponendo un numero determinato per un incerto;
cioè le Città fono Padrone di tanta
parte di Mare, di quanta hanno bifogno di
valerli fenza ingiuria d’altri, fe folfero ben cento miglia. Quelli forra di Dominio, che le Città hanno
nelle parti vicine a loro, non ripugna a
quello, che ha fopra fe flelTo un Padrone di tutto il Mare; imperocché non fi
Rendono alle medefime ragioni. Quello del Principe llà nella cuRodia, difela,
protezione, e giurifdizione ; e quello
dePaCittà è nel valerfi dell’ acque a benefizio comune de’popoli. V’è
dilferenza, fe quelli fieno Sudditi deiriReifo Principe, opure d’uà altro; ma
ficcome del Dominio, che ha la Sereni&ma Repabblica in tutto il Mare, ne
hanno la parte forale Città di IRria e
di Dalmazia fuddiie, così anche he hanno leCittà diRomagna, e della Marca non fuddite; ma nè queRe, nè quelle
per poter culladire la detta parte coll'armi, mafolamente per poter valertene
a’ loro ufi. ElTendo rifoluio, che il
Dominio del Mare fi Renda anche a tutte le pani di quello, rcRa a vedere con
che fotta d'azione s’efcrcita quello nel Mare Adriatico, e nel Territorio di
Venezia, dove ha quella RelTa podcRà,
che ciafehedun Principe ha nel Ino Territorio;
per lo che ha da efeteitare in Mare quelle azioni, che fono elèrcitale. da’Principi
nelle terre di loro foggezione. 11 Signor del Territorio per rirtò della fua
giurifdizione ha podeRà di dar legge a tutti gli Uomini, che fi ritrovano in quello, di
punirei delitti fatti contrale leggi, ed’imporre contribuzioni, e gravezze per
foRenete i pefi, e lefpele di chi ha
della fua cuRodia, e protezione bifogno; adunque per la ragione della giurifidiaione, e ciModia del
Mare, la Sereniilìma Repubblica può metter leggi a' Navigami, gaRigare i
delitti commelli in Mate, ed efigere
Daz), ed altri diritti. Che poITi far leggi a’ Naviganti, fecondo che giudica
nece fili che II poflà Mettere in
diffieolth, è coCa decifa per univetfal
latrina di. tnate ie.«enii, cmfiennata anche per la Dottrina di S. Fa^ nella PiOola. f Kenuni; e quella i, .che
Dio ha polii i Prin, cipi, e Potentati
per proteaioira i’buoni, e gaftigo de’caitivi, e per, che fon» Miniftri di DI» in quello; per tanto
ipiotetci fono inobhligo di pagare i irihutà, e le gabelle, lìcoame al
.Principe., che ha cultodia, f guardia I
della Xcira, per conlervazieoe della ppbblica
iranqqilhtlit quelli, che ne godono, debbono contribuirà alle
tpele, cbc; fi .fiiinnn,. e non folo- i
luddhi, ma anche gli alieni, (he tran,
filando per la Regione godono la ficurezza del cammino, fono ob, bjigati a pagar paflàggi, e pedagi; cosi
tutti quelli, che,tranfiuno pel Marci a
Mrtanto godono la ficurezza daCorfati, e Ladri cagio, nata dalk Ctwiditt arraata- dei Betnìnante,
la 'quale non fi può tenere fenzz difpendio, fono obbligati e per ricognizione
di quella pròMaioBe, e per oontrjbnire altafpelà, a pagar l'impoCaione,
eziandio, a ohe noti toccafiero Terre
del Padrone del Mate per cagione di quella enfiodia,, che li rende ficuri. 5 tanto d da dubitare, fe ;i Naviganti fieno
obbligati a contribuire per la igufiodia dd Mate, quanta i da dubitare, fe nel
tranfilo terreflre chi pafla per lo llrade d’un Dominio fenza toccar le Citth lia obbligato a pagar dizip. Di quello
nefiitno debita ma cgnfelTa, che dee
Wonolcere quello, ehe gli tiene la riva ficura’, cosi nell’alto Mare per la
llelli ragione ha da riconofeere, chi glielo tiene fieuro : e quella v«rith i
fiata praticata pir li tempi paffati nel Mare
Adriatico ; onde refia memoria nelle Storie, che nel laag. il Duce Tiepolo
meltelTe un Dazio a qualunque Navigante pel Mare ; la qual impofiaione però non
fi dee credere, che foOè la prima, ma che fofiefempre in tfib pel tempo
innanzi, dappoiebi fu prefa la protezione, e cu. Ilodia del Colfo. A quella impofizione hanno
accotuemiio i Principi ppfielfori del Continente intorno al Golfo, i quali
volendo tiafporur robe per Mare da un
luogo all'altro, eziandio efiendo ambedue fatto illoto .Dominio, hanno xiohitfta lictnza, il,. Rè di
Napoli, Pottmati, « Commiflarj della Marca d’Ancuna, e 4* Rodjagna, Duchi di Ferrara, «d altri
Potentati, che r»IUmleglttraK ne' libri pubblici „,oqde, ho latta 'ntenaicae
|neùa firiina Scotiura. .l'i I 1 i Dc’Oatj impolU dalla SereniSina Repubblica
'particoUrnieate fora le Mcrci^ de' Ma vif^Mui: per l'Adriatico tratcano. i
Giuieceniiilci pa me veduti Baldo,
Angelo da Perugia, ^tolomneo Saliceto, Ciò:
4’Anania, figndommoo CepoUa, Martino LaudchTe,. Giulio FofecCo, Gio:
ficctachino, Egidio BalTo, c tutti approvano tal fotta d' ùnporiaipni nome legiiime, ed alcuni d'elB
dicono che tanto la SerenilBma Repubblica ha auaorilb d'imporre Qaaj nel Mare,
e conhfeare i ooncrabbandi, .quanto nella medeCnia Ciltb iii Veneaia. -1 le gravezze, quando, lóno. antiche, ed
ulàte .pare che non Geno da'.po^li.
malp^volmente Capponate quando di nuovo s'impongono; • dilulàte,làac: rinnovate, yengono riputate
gravami: e Gccooie la Sereniilima
Repubblica è- ftata coofueta per h tenapi pallàti a rnett lere irapoGzioni’ lepra. i Naviganti, q
coRringeili a làr fcala in Ve. zia; così
potrebbe in avvenire tornar la. Acfla ixceflitb, fe roGèrvanaa fari Hata
neglena, e i'efazwnn dìGtfata; il Nmetcerla farli una dificnUb, e..maU fodditCwione; il iche.
avendo però legge antica, ed eiegaita,
fark con giulUzia > ed vtiliik prefente e futura il continuare colla GcGa
equitk, e modetaziune .nfléryata coti neU'mdituzipoe) come neU'cfecuziofii p^zie. f n Quelli, che per lo paflato hanno, voluto
metter >. dilScoltk al ginfto, e leghimo Dominio della Seteni/Snu:
Repubblica (òpra il Ma, perchè il Mare
di tua natura e libero, e comune; la
feconda, perchè la SereniiGma Repubblica
ha convenzioni con diverfi Principi, che la navigazione del Mare rdlaGè libera a' loro. Aiddiù; la
terza è una Capwplaato, ne,, che dicono.
eGèr contratta con Papa Giulio. U,. j-n
Per la prima ragione diconq, che nelle Leggi fpeQb G ritrova, che il Mare non è d’ alcuno, ch'è comune di
Iva natura, ch’è pubblico per ragione delle genti, che non pub edèr occupato,
perchè non può cG :e la SereniSima
Repubblica, e per col», leguènza anche
olliiitb verfo i Sudditi, ed impèdimeuoal tranlitar, e negoziar ne’paefi dell’ uno, e dell’ altro
cosi, per terra, come m mare; e nella
pace levandofi l’ollilitb tib Prìncipi, per un capa ^eziale, conforme all’ufo
degli altri PaeC, è datala Geurezza lÙ tran,
filare, e negoziare per tctra^ è per mare. Sintenderà dunqub ti navigar
ficuro, e liberamcRia nel Golfi» Adriatico, fervate le òrdìna; znni di quella .navigazione.: ' Potar fare imaioofa noa Uberdi, e Scurezza
non vaol dire arbh trarìamente, e
fecondo rappetllo irragionevole dì tialicheduno; ma vuol dire Gcuramente, e libcraOlcnte, fervate
però le leggi.. Quando fi dice, che cìafcheduno può liberamente fiù' tetUniento,
non a’ intende però', che k> polla
fare inuifizi oro, ed impertinente; ma
che dee fervar le leggi tcllametarie ; e chi può far viaggiò Uberamente,
e ficuramenie non può navigare, le non fervale le leggi di chi domina il Mare, che fona di far fcala
a’iuoghi determinati, no» portar cole
proibite, pagare i Dazj, c diritti llatuiti.
£ che cosi fi debba intendete lo dichiarano le medeCme parole, le quali dicono, che i Sudditi deH’altro
Prìncipe pollano tranfitory c mercantare
cosi per terra, come per mare rwC, et iétri-, ma le per terra non poiibna mctcahure, falvo, che
fervale (eleggi, e pagati i Dazj; dunque nè pure per Mare Io pollano fare, le
non cònlucic le iuddctie condizioni. Ciò fi Confatma, perchè non è di ragione,
che i Sudditi del Principe amico Ceno maggiormente privilegiati, che i propri;
dunque (e i proprj fono fimgetti alle proìbi-.
ziooi, ed a’ Dazj; debbono eflcre cosi anche gli flranieri. Oltre
di ciò dimofirano lo lleflb chiaramente le
parole del medefimo Capìtolo, il quale dopo aver detto, che pollano negoziare
per terra, e per mare, tati, neralmentc a fare ogni altra opportuna
operazione circa le predette cole. Gli
Ambafeiadori andati a Roma negoziarono; ma per (labilire il Negoziato il
Pontefice non contento della Proccura, ne ricercò un’altra più ampia. Per lo che lotto il giorno degli 1
1. Decembre fulTeguente fu fatto un altro Mandato di ^Ueflo tenore .* che
volendo il Papa trattare alcune cofe
cogli Ambafeiadori, fe bene perciò fu
fatto loro Mandato anaptillìmo fotto il giorno de’ 31. Luglio, nondimeno di
nuovo conlUtuifcono gli (lem fei Nobili Proccuratori della Repubblica a
trattar, e conchiuder col Papa, o co‘Depurati di lui qualunque cofa, quantunque
fodè di quelle, che ricercano Mandato fpeziale, unto come fodero efpreflc
iliigolarmente, promettendo dr T0tùy &c.
La Negoziazione fegu'i lino al Febbralofudeguentejedovendoncoochiudere,
il Papa non lì contentò de’due Mandati ; ma colla fevcverii^ dei tuo animo
avendo (labilito il giorno de’ 14. di quel Mefe, ch’era la feconda Domenica di
Quatefima per giorno di trionfare a dare pubblicamente ralfoluzione, fermò una
modula, o minuta dell'Idrumento, che voleva, che fode fatto in quell'azione,
contenente i Capitoli, che ricercava gli fodero accordati.* volle, chela Serenidìma Repubblica iacefse un'altra
Proccura, inferendo di parola in parola
quella Minuta. La proccura fu fatta fono il giorno de15. Febbrajo, e vi fu
inferca la Modula dciridrumenio, che il Papa voleva dabilire, e data autorità
agli Ambafeiadori di convenire con que’
Capìtoli. Qiied’Idrucnento è quello,
che fi produce, ed a nome di Capitolazione, fatta eoo Papa Giulio li. Se
abbiamo qued’lUrumento autenticato, o nò, io non lo sò; ma dato, che fofsc in
forma approvante bada Iblo per modrarc, che per quello è data autoritli
agli Ambafeiadori, ma non appare,
ch’eifi Tabbiano efeguica. Oltre quello Mandato fi ricerca necefsariamente, che
gli Ambafeiadori innanzi il Nocajo in- Roma modrafsero queda loro Proccura
prenarrau, e pregafsero il Notajo a fare
un Indrumenro, com'edi per autorità data
loro dalla Repubblica promettevano le tali, e tali cole al Proccuratore del
Papa, o ad alcuft fuo MiniRro, o ad eflb Notajo, che riceveva la Pniccura, di che era pregato da
ambe le parti a fare ridnimento. Queda
farebbe la dipulazione, la quale fe fofse fatta
io non lo sò; ma veggo certamente, che i Romani non la poftono produrre; ed in luc^o di quella producono il
Proccuracorìo coliamo i 3 nU fteUsat che non ferve; perché come s'ì detto, ft
ben la furrauU vi é dentro inferta, altra cofa però é il Mandato Procuratorio,
altro é la Convenzione ftipulata. 11 Proccuratorio da podelllt di convenire, ma
non fa che Ua convenuto; né mai prova, che la cofa fia fatta. Innumerabili volle occorre, che
làrh data autorità ad un Froccuratore di
contrattare una cofa, che non viene poi contratutaper qiulche rifpetto ; anzi
quello, che piò importa, fi trovano Mandati autentici, ed Inllmmcmi (leifi,ma
non flipulati per qualche oc cafione
nata pofcia full' elécuzione. Ebbero i Proccaratori autorità della Sereniflìma Repubblica di convenir col
Pontefice in que' Capitoli folto il giorno de’ij. Febbrajo in nove giorni, che
paflàrono fino pi giorno de'24. che fu
quello dell' allbluzione, in tempo che tutta riulia era in armi. Infinite cofe
poffono elTere occorfe, che abbiano
fatto aggiuenere, fminiiire, od alterar i Capitoli. Bifogna però mollrare non quello, che folle
commetTo di fare, ma quello che fia
fiato fatto, e fiipulato; il che cfli non mofirano né autentico, né non autentico. A’Proccuratori
fidò autoriib di contrattare, ed cK fui fatto veggono quello, che occorre; non
poflbnotmpaflàre il Mandato, ma cercar d’cSieguirlo totalmente, ovvero
ufarlolimitamente a favore del loco Principale. Chi vuol fapere, che dalla Serenifltma
Repubblica non folle data linfiruzionc agli Ambafeiadori di confeniire a que’Capiioli, fe non con
qualche condizione dal canto del Papa, la quale non cgnfentita da lui gli
Ambafeiadori follerò refiati di concludere la Capitolazione nella formula data’
Infomtua Mandalo di capitolare non é d'aver per capitolato.- e fe la Repubblica
veduta la Modula mandata da Rtyna folle fiau rifoluia, t che fi avelie per conclulb in quella forma,
poteva fare rifinimento del filo
Confenfo qui in Venezia, c non dare autorìtò, che folle fatto a Roma; tanto che
non é buona confeguenza dal vedere l'autoritli di capitolare, dire dunque fi é
capitolato. Quando penfavano i Romani di
valerfi di quello Proccuratorio in luogo di Capitolazione fiipulato con Launlio
Nocajo ilella Camera, fi aegiunié una nota fotio,allefendo, che la
Capitolazione fu fatta, ed i Proccuratori
promifero, e giurarono i Capitoli; e quella natta fu fatta dopo la morte di Giulio; il che apparifee; perché in
ella é chiamalo piò volte falicii
moritaiimh^ titolo, che fi dà a' Papi morti. Non ha il Noiajo pollo il tempo quando l'ba notata;
ina fi congh lettura, che folle 15. ed
anche 20. anni dopo. In quella fórma Papa Gregorio XIII. diede l'ailetta
Capitolazione agli Ambafciadpri del 157?.
adì 17. Settembre. Di quella nota non é da tener conto alcuno, poiché le Scritture di Notajo non fanno fede,
le non fatte per decreto del Giudice, (e non Giudiziali ; e le fono contratti,
fimi in prefeoza de' Tefiimon), e delle
parli con rogito d'elle. £ qui un
Notajo molti anni dopo 1 ’ allerte pani fcrille quello, che fuccellc, e con parole anche piene
d'ambiguità; perché chiama quella fua
Scrittura Trtnjimta, e dice d’averla collazionata coll'Otigmale lenza dire che
Originale fia quello, e da chi fatto.
Quelli difetti furono fuperati da'Confultori di V. $. il che venne a notizia della Corte Romana, onde nel lioé.
per occalione dc’meti pailati ftamparono 1 ' afierta Capitolazione colla fede
dello ildla 1-anti I^urilio; m«
corretta non iniitolaniÌQ pib Giulio di felice memoria, e mettendovi il teqapo fieOo dellafToIuzione
14. Febbraja ij 2^. Ma non avendo ardire
di dire, che foflè rogata dagli Ambafeiadori, fotiofcrillè non come Noujo, che
facea Inftrumento trh le Parti contrae
enti ; ma come quello, che icriveva un Decreto giudiziale, dicendo Jc
Mmdut ftiferiffi ^ onde fuggendo un inconyeni^te (tanno dato ia un ina^^te,
( Ma vi i chw liacamciua, che queU'aano
105;, Laurilio nonem Notajo di Camera;
perchè nell'alTeTta Capitolazione fono nominaci
tutti i Notai di Camera per nome proprio, e quello non i in^el numero. Tra diverle pretenfioni Romane
apparifeono molte alTordith ; ma nelTuna ha tante oppofiaioni, come quella,
delia quale quando in avvenire venilfe
parlato dagli Eccleliallici il mio riverente parere è che,fe ralleghetanno
folamente,(ia loro rifpollo, che da
pochi anni in quk s’è dato principio a nominarla; nè però mai è nato veduto nè l’autentico, nè l'efemplare di
quella Capitolazione; perchè cosi
veramente è. £ fe produrranno quella, che dal Papa Gregorio fu dau, ovvero la Rampata, fia
riljiollo, che quella è un Mandato
Proccuratorio per Capitolare. ReRa, che moftrino, che la ftipulazione fia fatta, e fe voranno venire
con argomento, dicendo, che trovandoli
il Procctiratorio,.C dee prefupporre la flipulazione. Ila replicato, che tutto è contrario per le
molte,, ragioni efplicaie dì fopra. Dalle cofe moRrate in quella Scrittura
apparifee chiara, che le difiicolth
promoRé fopra il Dominio di V.S. nel Golfo hanno vera, e facile nfoluzìone, ch'è quanto col mìa
riverentiflìmo Zelo ho làpuw ritrovare, rimettendolo perb come mio umilinimo
parere alla prudenza di V. V. EE. GRAZIA.
» O M I DOMINIO DEL MARE ADRIATICO E SUE
RAGIONI PEL JUS BELLI DELLA serenissima repubblica DI VENEZIA Drfcrino da S., Suo
Confultore d’ordine pubblico. v»:r • n
1 ^1 —w», SERENISSIMO PRINCIPE. Orna
molto, a propoGto nelle Oufe forenG, com«
uifegD^ i IXattori, ualafciar le diTpute fopi^ le ragioni GeirAvverTario quando fono tanto
forti, e gagliarde, che non G poGbno didru^e-.
k; però G Gioie parlar fuor di propoGto tirando fa Cauta fuor del fuo
alveo, per tirare il Giudice fuor di buon (lato, che non attenda alle buone
ragioni, e (accia fentenza in-, giufta.
QueG’ artiGzio viene uiàto da alcuni
Dottori melG sii non da alt», che da diaboGco fpirito a far novità per
turbazione della pubblica quiete, con far venir Vafcelli foreGieri in queGo Golfo, in futura petnizie
del comun commerzio, e della Gcurezza
delle Città marittime, contra l’antiche, a legali ragioni, che ne ha quella SereniIGma
Repubblica inveterate, appio, vate, ed
acconfentite da tutto il Mondo, da’Grandi, e da’ piccioli, da’ Principi e da tutti gli Ordini Gno agli
ultimi plcbbei, con prc. fcrizione di
Secoli, che vi aveva poGo Glenzio,- Operazione percer10 diabolica per mettere
alle mani i Principi, che non abbiano a
goder la pace, la quale il Signor noGro in miniGero,e tutela ha loro laiciata-
Segno di queGo è, che nel priucìpio cominciano a fcrivera contri rautorii'i del
Papa, ch't il primo alTalto de’NovaCori, i quali il Diavolo mette in battaglia per rovinare il
Mondo, e come aque. fta difgufla fi
titano, fingono che i Signori Veneziani fondino le loro ragioni fopra privilegj di Papa
Aleflando, e deU’Imperadore; e per
diltruggerli fuori di propofito li mutano contri lauiorith loro, e li mefchiano come fodero le Carte dei
Tarocchi, che al fine fono pazaie, bagattelle, e giuochi di mano, trattando
materia di tanta importanza con forme non degne nè del nome di Dottore, nè di Crifliano ; cosi infamano le fteffi, ed in
certo modo i Miniftri de' Principi, come
a bella polla vadano ad incontrar briga, per effére adoperati, e mettere di le
medeCmi neceffitb a'Principi loro in ali
maneggi malHmamente nel Regno di Napoli, dov'è fama, che le contenzioni fono fiate maggiormente
nutricate per confentimento de'Rè. ( Gicc. I. ). Cari. iji. ) Non è vero
altrimenti, che i Veneziani, fondino le
loro ragioni del Dominio del Golfo fopra
privilegio di Papa, o d'Iroperadore; che fé ciò foffe, forfè per certe
ragioni non tornerebbe conto aprir bocca, però quelli Dottori fondano la loro difputa sò cosi sfacciato e
vano mendacio, fanno alle pugna, danno dei calci a lovefcio, e cambationo lenza
incontro, come i Tori, che hanno perdita
la Vacca, dicendo, che nè pur fono
fognate dalla Repubblica di Venezia, ed anifìziofamente lafoiano quelle, che
pubblicamente fi leggono fcritte da Marc’Antonio Pellegrini nel libro ottavo de Jote Fifii, da
Angelo Macacio nel libro primo da Giambatiila Leoni nel libro delle
Confidenzioni del Guicciardini, da
Augullo Treo nel fuo Panegirico, da Jacopo
Chizzuola nel fuo Confìglio, ed allegazione pubblicata nel fupplemento
della Storia degli Dirocchi, e da Prorperu Urbani nella nife-. Ca fatta centra Emanuello. Tertoviglia
Spagnuoto. Gli Amichi Ginreconfulti,
non avendo trovato chi abbia fcritto, o
detto in contrario del Dominio, che ha V. SereniiU lopra il Golfo, dìfsero, che
aveva prefcrizione immemorabile, volendo dire non efservi bifogno di mollrare altro titolo,
facendo quelVeffotto la prefcrizione tanto antica, che fi abbia a credere il
maggiore, e'I piò laido, e forte, che
poflà mantenere tal polfelTo; conira i quali non conviene llraparlare, dicendo, che fono
ignoranti delle Storie, benché abbiano acquiftato come di prudenti, e da loro
fi governi il Mondo. Quelli, che
forivono per la Repubblica gli allegano, e fe ne fervono come diteflimonj,
elTcndoflati in tempo della preterizione non mai imerrota a’ loro tempi. A quelli gli
Avverlar} oppongono tellimonj di
Storici, che riferilcono diverfi Rè in divelli tempi elfer venuti in Golfo con Legni armati; e però aver
interotta fa preferizione ; nel qual
calo fecondo i termini legali, bifognerebbe, che cercaflero d’ accordar tali tellimon j, come facilmente
fi propone, quando fi dèce, che que'Rè fieno venuti con aver ottenuta licenza
dalla Seteniflima Repubblica; perchè i fuoi Confultori Marc’Antonio
Pellegrini, e Jacopo Chizzuola nella
dilpua fatta, prefenti i Commelhirj Imperiali, adducono Principi, che vi fono
venuti, ed hanno dimandata la licenza ; dove biiogna dire ^md folinmeji fieri,
frefuminr feSum. Quel ch'è folito a
farli, fi prelume fatto ;edè benefpiegato ed ellegete dìCora. Conl.z87.num.i i. voi.p.fapradi
cheiContraddittori fi riducono adire che
bifognerebbe mollraie, che almeno due volte ne avelTo lata
refifienzaj Temo li, ^ Zz ma dille cefe
fegocnti lo intenderemo^ oltre molte altre rifpoflc legali) che ù pofsono dare
a tale inllanza; ma perchè centra G grati
legge della prdcrizione fi ardil'ce di parlare) cos^ fi dee renderconto
dì titolo di COSI amico pofTefib per ovviar per via di ragione,fe fi può) a quel malC) che potrebbe nafeere per
mala ed ingannevole perfuafiooe di cofioro» Se ne parivi altrove) ma per
oi^nitk. Ora quefii tra gli altri
fìngono di parlare fopra il ]us belli ^ che
ha la Signoria Screniffiiaa ) il qual titolo toccano, come parlano appunto. Non fanno, ma faper dovrebbono,
quandola guerra ègiuila queir eflere il piò faldo titolo che pofla aver una
Repubblica, e qualunque altro Pnneipe
deVuoi Stati; perchè quello vince il Jusna^
furJcy e mette fervirtù, dove la Natura, non che il Jut genrium ha melTa liberti, e comunione; onde fi vede
quanto ridicolo riefee il
di(pmare,cbeneirun Potentato EcclcGallico, o Secolare polsa farleggì, dar
termini, o conceder cola in pregiudizio della legge naturale, t con quello gli
altri inicG, vogliono, che riefeano bagattelle.
Vuole il belli y o Jus gemhtmy che vinto il Nemico, tutto quel)o«
ch’egli pofiede s'intenda del Vincitore. Il primo premio, che zia, dove Baldo dice, effe re come dar della
teda nel Muro/ inquedo. oKiza. bifogna mantenere il poflellb a chi lo
tiene. Al Cecondo fi. ciCponde, che
quando la Repubblica fbndaffè le fue
ragioni. fbpra..puMlogj le baderebbe la faìna dèfTi;CosÌ conclude Mariaoo
Cpccina nc Cuoi Conigli ; come fa la Sede Appodoiica trattando la ^a^ooc
de'iuoi Stati, che non L’è necciTario naodrare alcun lodcuoiemo JeTcoiacquidi.
Sarebbe error grave tnodrairli per farli leggere, diffidando della fàma. £
quando la Repubblica aveflìr a moArareglIdxiuscnù ripofU. nella Segreta,ic le
prederebbe pienifCma fede ? A quedo proposto, dicono i Giureconfulti non elTcr
lecUodire, ne menopenfàre, che laiRepubblicadicelTe una fallici, benché
delfuocomodofitratci; cost
aliega'ilCardinalTofco ne'Cuoi Volumi delle Capitolaziom praticabili. Àltcrzofìrirponde; cheCe il Papa aveCse
conccCso tal privilegio, fenza la libci^ ve^ontV, quando ritornò in Roma lo
avrebbe rivocato, come fece PalqualIL
de'privilegj concedi ad Enrico IV. Imperadore,
quando esa nelle lue mani/ il queir fcibko giunto a Roma in pubblico
Concifloro li rivocò, come editti in dato, dove non era indio potere di negare; e fé durano i titoli
privilegiane* Rè di Napoli con-celila Guifeardo da Leon IX.. quandolofecero
prigione eo’Cardinali nella guerra di Benevento y perchè non li rivocò* quando
tornò a Roma, mcglia avrebbe a durar
quedo fàttO' da Papa,, che non fu mai prigione
in Venezia,ie fe avelie voUmo U Repubblica edorquere tal privilegio, ed altri titoli,, gllavrebbc avuti mdto prima
dallo llefroLeoo IX. quando venne a
Venezia., del qual anche la Repubblica aveva prefa la dif'ela. Al quarto fi rllponde, che Papa Àledandro,
quando dille HocMawl ipfum Mare ha* detto di qbedo Golfo, il quale comincia
da queda parte, ed intero, (enea mutar
nome, fi donde fino a Corfb; nè manco
più oltre vogliamo, che ptflì « òsi fi ha intefo da tanto tempoinquà, che non v’è memoria in contrario,
chefinal prefente ft chiamatGolfcr di
Venezia. Ben> ir DottopìNapoliiani aivevano imparato nciUdifputa tra’
Francefi,. eSpagnuoU per caufa de’ Confini dei Capitaniato, le fodé deif
Abruzzo,, o della Puglia*, dove fio tenuta concilifione pergliSpagnuoli, che
nella difierenab de nomi, e de* Confini délIcProvincic, fi debba^attenden
fempre alfulo prefenter. Fu confemiaca
qucda> ragione colie armi contra> i Francefi; pCTÒ nemcnte quando fi À il mireflb d'nn podere,
balla una gleba d'effo; cosi per hoc Mare lì e intefo tatto T Adriatico, dove
fi ebbe la vittòria, ch'era avanti gli
occhiti ut: n Ma quclladifpau i
friulratoria, o perdimento di tentpoi, che la Repubblica non dice
d’elTerPadrona del Mare, perehè il Papa le abbia còticeflb privilegia, nè il
Pape in quella parte fa conceflìone; ma dichiara^ • aiODe, e coDcefrione, ebe làRepubblica
fiaSignora del Marò Jkre talli, ebe
qucHoTha de Jurt gaathm; e di tal dkniaràaione fe n’è compiaciuta la
Repubblica, ad imitazione di Nollro Signore, le cui azioni fono inftruziòni
noftre ; ilquale ficompiacque della confellìoiw, chePieuo fece qualtncme era
Figliuolo di Dio; quando non fi voglia, che il
Papa, d qual è nel pofiéflo prenatrato anche di maggior autorità, non abbini fiuta tal dichiarazione; queflo
non leva alla Repubblica il Domintojm talli acquillaio, per aver vinti non
foiamente i Rè di Sicilia, ma i Saraceni, ed altri Infedeli, e perfecutori di
Santa Chiefa; nel quat cefo dicorm i
Giurcconfulti, che lènza- altra dichiarazione,
oConcefiCoite Pontificia fi acquifia piena ragione negli Stati conquillati
di mano d’efii. Ne daimo efempio de’ Rè di Spagna Aeiracquifto di qtie’Hegni filori delle mani di uli
nemici, c pètA ivi nen riconolce fuperiore flmpefadore, inquanto gli abbia a
comdtidare ; Con- i eludendo lopra
quelli quattro capi anche a modo degli avverfarp ; che il Papa non abbia dette quelle parole, e
fe dette le ha, non abbia avuta aumriib
di dirle / confidcrino bÓMy e vedranno con qual
azione aveb potuto dirle il Papa. - A chi vince i Nemici in Mare, ebe
occilpavaiio, fi dee J tare talli
flmperio del Mare; LaRepubblicadi Venezia havifiti ìNemiciinMa-' re, che occupavano; adunque a' Veneziani fi
dee ima talli l'Imperio del Mare. Si
provala maggiore per li Giurcconfulti, i quali dicono^ che la Vittoria db in mano del Vincitore
tutte le cofe, e di quello, che alcuno
ha prefo in guerra ne ha il Dominio : ed aliti Dottori dicono, che finite le
guerre i popoli vincitori, tutte le terre, dalle quali hannofcacciati i Vincitori pubblicamente, ed
atiiverTalmentc dicono loro Territorio
•,SicFtac.daCa»iit.Agt. frf. Bap. ^jnn.ila Allimianitut Cap.iy. m. 9, /iè. II. E ne’tcTffliai dcIMain, che fi
faccia Territorio, e polIcflione di chi vittoriofamenfe vi ha combattuti, e
vinti i Nemici diremo, come allega
ancoraGioiFrancefco da Ponte dnadeDottoriav.
vetfarj nel fuo lib. de PattHata Prafrii eap.ìj^ Uti Re» fama conertojiam
a»mE*areia», iti efiTcrrhartum Ragia, et aala Ttrritariam diainr a potaftata
tanamis, ÌT Jiaua dkitwr Cataefis prima; Spiritu Domini faratarna fiapat aquas,
Jia famr fapar Mate paaaftaa éatanris JnrifdiSianam. Cioè dove ilRè va con
efercito contea iNemici, ivi è il
Territorio del Rè, perchè Territorio è detto dalla ^ellb del
tenere, ficcarne fi dice nel primo del
Gencfi ; Lo Mrito del Signore fi trasferiva fopra Tacque, cosi fi trasferifee
la Ginrifdizione Ibpaa il Mare a chi n'è reliato Padhme. Perloabè t Romani lotto Scipiane, vinti i
Cartagineli, dice Polibio nel lib.
yuikviSK iaflitm Impari» Maria fojiai fiata ; ciò! vinti iCartagmefi, tolat.le
loro Navi, emefli i rollrtnellelororeftò flmperio del Mare a'Rommilip iMtadaa.i, lib. 4.
Satalt.diS.^lit.^. Gli Atenieft potimun
tc dopo la- vktoria di Salamina contra i Fani
confeguirono, dice Lcuda, rimperio del Mare. Qui anche fa a pròpoCto il
cafQ allegato da^i Avverfar), che Ferrando figliuolo del Rà Ferrante con 53. Galee paisà tutto
rAdriatico, e fugò la numeroia Ar« mata
de'Veneziani fino a villa del lor Generale Marcello ; didrufle la Dalmazia con tanto terrore
de"Veneziani,die dice il Sabeliico diél. 4. Iib« 2, Eififtinunttt flHum effe àe Imperio Marit\
perchè da quello ficavaparimente, che chi fuga e vince Tarmate nemiche
nelMare,togliendoad altri riiien per fé
Tlmperio del Mare divenuto Tuo Territorio dai tener fuorii Nemici, di modo che
TAdciatico farebbealiora divenuto tutto Tehttorìo deRè di Napoli ) ma v|
lalciano il piu bello da narrare. Del vincer, e del perdere nella guerra fifa
contoin fine ; difopra abbiamo Bellis bakitis dove quello avviene, conte negli altri giuochi;
chechinel principiovince, alfine dirperataraence
perde/xomeavvenneaPompeonellagucrra centra Cerare; nel principiogloriaodoC di
certa vittoria, come appunto ora fan no gli Avverlar); non fanno fcrivere di
ceno poco dtfordine accidentale; onde
perchè la narrazione di quel fatto abbia a galligare i Milantatori de*primi
lucceiTi nelle guerre, e perchè torna a propofuo per provare la fuddetra nollra minor propofizione flendcremo il luogo
del Sabeliico, che Io narra. Federigo
ArrigodiFerdinandofigliuotopiagiovanecon43. Galee, eFufUencròneIportodi.M,,Diedequelloaflàia
temere al Sonato; edera veriAmile, che il Nemico ivifermandofipotelTc
contcnderea Venezia il Mare. Tutta U
Citik aveva gli occhi rivolti al Marcello, cadauno a lui, ed alla fua Armata guardava ) credutoaver perduta
SignoriadelMare, quando non fofle
cacciato a forza il Nemico di quel luogo, il che era mantfcAo non poterfì fare
fenza grave confiùto, Stava adunque laCitthin afpettazione, che Marcello, ilqualera a Geldra, o ardefle
TArmaca, che aveva nel Porto Anconitano,
fopravvenendovi alTimprovUb, ovvero la conducete olfattod'armi, elalcaccialfedi 1^;
mafrateanto, ch’^lifupplifce a'bifipgni delle Navi condotte dal Pò, mentre fi
apparecchia la vettovaglia, ed ogni
altra cola bilogne vale, il Nemico non fi tenendo Acuto io quel luogo, fatta vela, fi part'i d’Ancona, prima, che vi
venineTArmata Veneziana. Panar» tal cola
grand* odio centra il Marcello fpezialraente del Volgo, ù quale mifura il tuuodalT avvenimento; e
giudicò, che non fofTc (iato ardito d'andare contrai! Nemico venuto in alto
Marc per mofirare dinon efiere venuto in vano, alTaltando alTimproviloLUlairela
della Dalmazia., qiiafi tutta con ferro,
e fuoco la difertò. Cosi
parlailTefiimonioallegato dagli Avverfarj, dov’è prima da notare, cheTArmaia
Aragonefenonfugò lanofira. Secondo, non vi enarrato il tanto tremore de*
Veneziani. Terzo fi vede, che non i Veneziani,
ma l’Armata di Napoli era alquanto tremante; imperocché dice, che
il Nemico, non fi tenendo ftcuro in quel
luogo, fece vela, ma vediamo piò oltre, chi ebbe il tanto tremore, perchè 1
Autore di quella Scrittura non ha
inietto il Sabeliico. Si vede dall’ eiroie, che prende circa il nome di Fernando BgliuoIodiFcrranteconM.Galee, in
vece di Federigo figliuo. lodi
Ferdinando COD43. Galee, eFuAe, ^ice ilSabeltico; adunquequeAi dopo aver meffa
LiÀà a ferro, ed a fuoco andò ad aflalire Corfò, Pietro GiuAinian, e Niccolò Bigan, dicono Curzola,
dove da principio furono fi terribili
gii alfalti, che ad un tempo vi pofero le Scale alle mura, ondo avevano fpaventaii i Terrazzani, Giorgio
Viaro ivi Capitano, diffidane dodel poco
numero de’ fuot, hfpettoaquc! de'Nemici, per intimorirli fece fparger voce per la Terra > che
rArmata Veneziana lo veniva a foc correre, efecerUrealIc Campane per tutto, e
levar dalle mura un lieto grido, che
gàvenilTe l’Armata. I Nemici dalla paura del pcridsio agitati, perduti circa
aoo. fi ritirarono inMare comeOmbre, e Ipiriti tenebrofi di procelle,
anzicomeComacchie, che fuggono il (uono delle Campane de' Campanili, dove fi
aggirano. Vibannoanchelaiciatodidire,
cherArmataVenezianaandò a prendere a forza Gallipoli in Regno, dove li llende
la Colonna in confine dell’ Adriatico, e
Ionio; e che Trento Terra de’Tolemini, Rudis, ed
altrevicineTerreim^ientidelcal'adiGallipali,fi arrenderono, oltre
di ciò hanno lalciato, cneFerdinando
vedendo fi grave rotta in cafa fua,
pensòalla pace, ^guerra fu la sfortuna di tutti i Principi d'Italia congiurati
cantra i Venezianiper caufadella guerradiFertara, dellaquale (crivc il Giovio nel principio delle Storie,
ed il Guicciardini nclLibro ottavo nel principio, dovelìlegge, cornei
Veneziantconfe^uirono la pace
onorevolmente per fe, e vittuperofamente pel rello d’Italia, che con fenlimentotantogrande,
e nel tempo che fioriva di ricchezze, d'armi, e
virtù s'era unita tutta contra. Per concluderla vi fu lafciato tutto il
Polefene di Rovigo, ed i Rè di Napoli per la fuga, fe pur avellerò avuta qualche
ragione nel Marc Adriatico ravret^apo perduta.
Vi farebbe anche per provar la minore la fuga dell’armata di Federigo
II. ImperadoreRèdiSicilia, e Napoli recitata da PandolfoCoUeruvio nel libro 4.
delle Storie di Napoli, oltre di ciò la rotta data da Ruggiero Rè diSicilia,
ilquale infeftando l’ImperioGreco aveva prefoCorlò, dove fatto un Arfcnale, dominava tutto il
Mare. La Repubblica, che aveva
giulfamentela protezione di quell’ Imperio, fe gli mollè centra conArmata, loincontrò, c ruppe dice
Tommafo.Gazzilio Siciliano ScrittoredellaStoriaSiciliana Ub.p.dec. z. Commijfo
prttio ex fuisTriremiha, undevìpnli amijps, fxinUTfifqut yRugeriui vilha rwn
Juueis dijjìpttiiSicilimi profughi et pojit» bello fe fuitraxh. Cioè lucceSà
una fanguinofa battaglia Ruggiero
perdette, e fommerfeip. delle fue Galee,
con poche, e diifipate vinto fe ne fuggi in Sicilia, e poi Rette
ritirato fuorde'travaglidellagufrra.
Parliamo adunque, ficcome abbiamo deliberato centra Federigo Imperadore, come
quello, che abbiamo detto elfer chiamalo
DeminmA&odi, ed è quello, che i Dottori dicono, che il Mare fi pofla far proprio, quello
concederfi, e fe egli vinto ha ceffo al
Vincitore il luogo, fiamo nella regola Finro vineentem. La Repubblica ne aveva
il Dominio exiiujhii ad omnes, quella dunque farò per finita pruova della minore.. Edin rifpoRadelquintoArgomento degli
Avverfarj, col quale parlano, come dicemmo a propofito, ma vanamente in
riguardo allaveritò dellaStoria, come a quello invigilano tutti i Regnicoli
eccetto il Collanzo autore, e tellimonio
degli.Awerfarj, l’Auior degliAnnali
Ecclefiallici parte per emenda, c parte per rifacimento di guanto ha fetitto contea la Monarchia di Sicilia, li
è melfo a quell’ unprcfa, ci ha prodotto per apparenza di tellimonio uno
Straccia fcritto da penna d un altro
Regnicolo, ed un'altro Apocrifo fenza nome,
trovati folamenie a quello tempo tutti due a bufi leggere difuccelC di quattrocent’anni, vogliono anteporli a'
Scrittori pubblici di quel tempo, a
tante memorie antiche di Marmi, e pitture antiche non mai contraddette. Se Romoaldo Arcivefeovo di
Salerno, del quale dicono elfer uno degli Stracci prodotti, non fa menzione di
quella vittoria, ec. torit, non va la
confcguenza, che pon fiafuccefla; poflbno enervi mille caofe d* una tal ommUTione, o per
invidia, o per fcoprire U mancamento, e
Timpotenu del Kè di Sicilia fuo Signore, o per
non confeirare il Dominio di Volita Sereniti, o che non ha Icritto, • che gli è (lato levato, e fìmili. Si
adducono anche altri, che non ne parlano
punto; aniche, e Pitture palefano. 11
Padre }acopo Cordano Gefuita in una fua Cronologia fcrìtta in quei Ila materia feguita per fuo Autore il
Compoficor degli Annali, ma non nega
quella vittoria, ed i PadrìGefuiti, chehanno mandato fuori in Colonia un libro intitolato Dtfenfiones
Ànnatium Ectlejiaftkorum. non la negano
; però per pruova della minore, e per rirpolla del 2.. c. 63. dove introduce il Cardinal di Monopoli
a dire al medefìmo Pontifìce dell^ltalia, come la liia liberti, e grandezza rìfiede nelle Lagune del Mar
Adriatico; e come fi deb. bono
bilanciare t fervig; della Repubblica antica, e moderna fatti a Santa CKiefa, ed a tutta la CrìAÌMÙt^
parimente; (ìccomc ampiamente fi leggono in molte Scorie i validi ajuti dati
per 1 * acquifio di Terra Santa, e le
vittorie ottenute centra Infedeli, f ubbidienza verlo la Santa Sede, ed i Tuoi
Sommi Pontefici ne* più urgenti bifogni;
ficcome ad AlelfaRctro III. fugato, e fcacciato dall’ Imperadore Federigo
Fnobarbo, per la cui li^rt^, ed onore prodigo fu il Principe Ziani, e quel Senato delle facolcli, e della
vita tu acquiilare quella famofa
vittoria in Ifiria al Capo di Salbore con cattiviti d* Ottone figliuolo dell’ Imperadore, e non effendo mcn
liberale ne* tempi di Leon X., ed altri
Pontefici ec. Onde gli Avverfarj non offendono
la Repubblica, ma i loro Principi, mentre vogliono indurre i Miniflri
non folo a far guerra, ma a commettere infame latrocinio, dicendo S. Agoflino nel lib*4.c.4. e ò.
deCivitate Dei. Remora Juftitia quid fum Regna, nifi magna latrocinia ? e piu
oltre muover guerra a’ vicini, e
procedere ad altre confeguenze, e per cupidità di Regno affliggere, c foperchiare i popoli, che
non danno impaccio, che altro fi dee
chiamare, che gran latrocinio? Penfo d’aver adem^ piuto a ciò, che per tal materia brevemente
fi abbia potuto dire, GRAZIA I N- I N P
E 5^ LIBRORUM PROHIBITORUM, Pum R?§uii^ pqpftfli* p^r
P^trcs a Tridentina Synodo dclcAos. AWCTORITATE PII IV, PRIM^M EDITUS. 1 -i. f»Jìe* vtra ^ S/nt» ofiiu jht
Et KUNS p«MVMS.p. n, CLEMENTIS ^
P A P ^ Vni, ' Jitffu rtu^iùtia, ^
paUictun. INSTRUCTIONE adiecta, {V mjuniét fnhUmmh, itfiù Jbictri tmeniaitdi,
CLEMEN5 PAPA VIIE Ad perpetuam rei
memorfam. tacaosaNCTUN acho. Uem Mii éqNfinMii fise ^ PcopUccRi Mtctertìitfì iàUiKin confc^tu nemini
Ikxt > ut Ciivua in Ecclefla Dei
perpetuò eoo(tfvaresur » p^rifque iovioUrutn crade aercitanm, ut haoc fideà catbo^ìca; dpr firnwfM ioGigrkttem t (»Unm » incorna pcam^'ie òi Mcidila Dei reciaarent, ApoAokci
animi magnitudine» prò muro domuv
Ifraei, advcrAis einrdeni fidei hoAes»^ fciproa oppooentei, ne iAoram doHi, 8c
infidiia imprudenter> &limplickaiit vctcres ex infcm excitanecr ficn
riiu: Noi. ranl eandcm Pjì pndeceiToris
Tri^ntitu Synodba» pefVileijceiB ooxicv- Conllitu^eoem»
&]iiclicen>y acReguias« TUO
libroTuo copivm, qoc plbs. nitpio ^uonim q^iam. tenorer haberi voiutous cxercventr coerceiet auferre èu> cxpiemh
^uam hxc ip^ p'iens prìnram quìdem
dò^iflìmos alì- ta> prour ìnKrms dcfcrìpt# Aific oronui quoc vnosnfetl^iei qu^de
d^T||hgila»i|in^oi^araAp^ft^fi^^ tenore
^norceti^,;fc,der^r 4 ^tt''.*’
pcrmota» ad ipfxm Apoftblicam l^deni» gurarìbui peribnis ubiqiie loconmr
exiuucgram rem défertndara Aan]tc»-Itaqpe Itentibua» Aib ufdem p in
did^aPìì fel. ree, Pius. Papa qitamìs
przdeceflbr, ConnjtDCrone COTcentis» obiérvari prveinoAcr, qat hcofcTw
xpbrrpacV J de; (fiadamut^rQ^ «ovai faci fa fedebat, Przbcis qui&atàam
doé^rina» Itas negqtuim» cùm prombìrionìSf rum et prudentiaprxlUntibusy^adbibirxar.^DK^exputjacioais,
de imprcfConia libromm dìeem librorum
prohibitofun) » À Re^* pcragamr» eas omnci £acalcate mein. Fias firevi^, proinulgavic ì de c/ufmodi noxìo-
Qiintus. MagiAro facriPalatii primum rum Itbronmrdetrimcncisdicpcitcnn^» op-
dcipdeGrcgoriin dccimas rcrtius > 9c Stxfortunè- pfOTìdìt, CarteruTn, Ticct
illa tur qumtusi CardinaTibosCongregarionir
prò rempfìrtii raiionc prudenter ruqrinc predi^z concelRrtinc « quornm
tcnores rune conAiruca j rameó'^ -Icum
Sarimiz me vofaraus haberi proexprefliSi conArafhuia» in bujufniodi librorum
edhione mamus* Se qiucenus opmeA innovamus.
finva ili dfi^t mala ( nam.polV in- bis ornniros, qu;r addiùi in bne In
ìUlhI tempi» afit erùm libri pcrnicioA dice» noti adverfantur, volumurqric propartim
cqnfcripri, atqiie «dici. parcim> prcreai ac dccemimus > ut fi q;;x inpoqui
fcriplfì e^aKc» de antèa JcTicùerthti' Atrum dubìtaironet aùttóntfoverfix
circa in medium prodiere i ic mem.
Sixtns Papa Quinta» przdccef- aliomio» qut prò tempore fiiper Iiunce òr noftcr,|mildt ilIaArari«« acque àd
hu;iifa)odi deputati fherinv» rd'eraneur i
l’cgoUi a^iMs neceflàrif» rebus » liianda* et ex fencemia eonindeih*
Cardinalium y vie » nr nonuutli alii
ejufdear generis (i- nobisi aur fuccefioribus noAris > fi rei bri V eidem* Indici ad^ereptiu;. Vei^m
gravita» id poAulaverit» conrultis>declacuro: idem Sixeus I rè minimé
abfoluca » ^ rencur» et decidantur, quorum audorìhumani* ezcefcrìtJ Noe la fw
fqi»» fai^ fuem » cuir pennittcndtt » tum prohiti quantuiTP CQQT Doniìoò'
poiAnnez con- bendii ex{àirgandis » 6c 'imprimeniis 4ìfiilcntes»
quodjampridentiiuliccrarpcoior brit, airifqoe ad eam rem pcrcìncnribos 9c a mulcis- dia defideratunr cratr hoc
expiicandìs» volaouis efie przeipuam, artempore oronino perficiendum » atqw in
^ èra mandaimts ab oomibiis venerabilocem edcnditm duxtaui-- Venerabiliigi-
libus Aatribos noArisPatriarchis, Arcbietur fratrr noAro Marco Amooio Epìl^
pifcopii» EpKcopis» aliifque locorumOrpo PreneAino de Colamela dilt^is
dinariist «uroque gradò»» ordini»» aoc
diruti»» Oc Marie Angelorairr intbensi»^
Borro* cam EccìefiaAicis rccnlatibas» vcl regumeo, Fratinlco SanOcMaric Tran^n*
laribu»» quiro laici», quocunanebonore,
tiuc Tcd'eto r titulorum Presbyteris» nec*^ ve! digicitare prediti»,
ioviolabicerobAi» non Afeanio SaoOe
Narie in CoAixdio vari. Non obAamibos ApoAoIùis» acin de Columoa diacooo» Cardinalibu»r fu-
tmivcHaUbo», Provinctalibm» et Synodar
per hnjufmodi Indice per no» depinari», fibus Concilii», editi»
generalibu» » vd aliifque pit»«
ficcruditis» viri» in colIfi•^ fpecialihusConAitationibut» drordiiurioliom
adhibici», ca omoia, ac fingala» nibo»/ ac qnibufri» Aatml», 2c coornetitqoe a
Suro quinto» oc fupra dixtistt»» dioìbus» etuni fitramento confirmatione ìnAicuta ennt, diligcmer exiroimnda»
ApoAoKca» vcl quavi» firmitace alia ro«ommilinm»» que cum magno Audio vÌp>
bomis privilegi» qooqoc indcllds» fieli ter»
PROHIBITORUM. 371 teris
Apoftolìclst rubquìbiircunque tenoribusj &- formis in cor^crarium pnrmifforura
conccflif t confirnoarh, approbacis, et innovatisi
Qjtibus otnnibus. Oc fìngiilì etiamfì prò ìTlonun fufficienci dtrogatfone fpeciaUs, rpecìflca» Oc ad verbum in(«rta
mcntio kabenda cCkci tenores hujulmodi przfenribns prò expreilis habentes, hac vice dnnraxat, rpecialicer» &exprcriè
derogamus *. czccriiqne conrrariis quibufcunqiK. ^cemenccs camndcm przfentium
cxemplis, cciafn imprefljs, Notarli publicì manu fubfcriptis» Oc figìtlo Trslati a!icu/us Bccldtafticì
obfìgnatis» car^m haberi fidem > qux
hibcrerur ipHs prxfentibus, iì forenr exhibitSi vd oiicnfx. Dar. if’urculi, fnb Atmulo Pifratoris.
Die decimafeptìnia OOobris, MiHenmo
quingenrefìmo nonageiìrao^ninto, Pontilìcarus Noftri, Anno Q^no M, f^ìus Bibrianusy PIUS PAPA Ad perpetuam r?i meraor jam. OMINICI ^egis cuftodix Domino dil^nente»
pr^pofìci ) vigilili n>ore paftorisnon dciìAimusx ipAgrcgi ab immineniibuspcricuh's,quanta maxima pofsomus
cura, et diligencia rrcavcrc, ne propter
negiigenclam noum peream ovcs, qnz prction/Cmo
Domini Noftri Jcfn Chrifti fanguine,
fune rcdcmpcx* Eifì autem, qua adAdeì
vesitacem parefacicndain, et ad horum
temporum hareics confutandas pcrtinebant, in orcuraenico, Oc generali^
concK Ho Tridentino, SanÀi Spiritus
aflìfteiK ce gratta, nupcr adeò
enucleata, ac definka fueriint, ut facile jam fit tmÌcui-que fanaro
catholicamque dodrinam, a falia,
adulterataque intemoTcere ; ta-. men cam
libronim abharericis ediroram iefiio,
non modo Cmpliciores hnminet corrumpere
folent, verura fcpd etiamdoùoi, cruditorque in variot crrorcs, Oc a veritate Adci cathoticx alienas
opinionet inductre, buie quoque rei effe
diximus providenduno Cum auietn
aptiiBmum et inalo remedium c0e
feirerDus, A componeretnr, atque ederceur Index, Ave catalogus librorum, qui
vel hzretici fìnt, vel deb?tciica
gravitate fufpcfli, vel ctr» xè
ptoribua, Oc pktaù ooccanc; idnego» Tvm
ìk tfum ad facram Tridentinam
SjrnodBna rejeceramus. Ea vero ex tanta
Epifeop». rum, Oc aliorum dodiflimorum
virortim copia delegit, ad eum
conAcicndum in*» diccm, multos cum
doéVrma, tum judiciò in/ìgnes Pralatos, ex omnibus fere nacionibus, qui quidem non Anc maai'mo hbore,
phirimifqua vigilits euro ii>^ diccm
tandem, Deojuvante, perfccenmt»
adhibitis etiaro in conAlium Ic^iflimiquibufdain Teologis. Prraé^lo
aatcroCondlio, cum ex iplìus Synodi decreto, is
Index nobis oblacus fuifict, nt ne anrc
ederetur, quam a nobis approbaius fuitfee, nos doAiffìmis quibuldam,
probacìfAmifquePralatis eunaccurati0ìnrk Icgendum, examinandumque tradidimus,
et ipit edam Cumigkur cmn ma gno Audio,
acri judicio, diuturna cura confefhim.
Oc praterca commodiflimèdigeAum e(W cognovertmus,* Nos falutianimarumconfnlcre,
camqueob caufampro*. videre cupicntes,
nc libri, et fcripcacu^ iufeunque
generis, qua in cd-*improbai>tur, fìve ut harccìca. Ave ut de hzretifa pravicate fufpcffa, Ave ut pietati, acmorum
hoocAatt inutilia» aut aliqua corre»
fHone faltem Indigeniia, poAhac a Chri«
Ai Adelibus tegamur : mfum ittdiccm,
nnacuro Rcgulis et prarppfitis, anAorirate^ ApoQoItea tenore prafenrìum approbamus impriroique ac divulgar!, et ab omnibus UnivcrArafibus cathoNcis, ac quibufeun^ qne aliit, ubique. fufeìpi, eafque
Regulas obfervari mandamus, atque
dcccmimiis; Inhibcntes omnibus, Oc
Anguh's, ram EccleAaAicis
pcrronis,SarcnIaribDS, fir Re*,
gularibus, cu/ufeunque gradui, ordinis,& dìgniiaiis 6nt, quim Laicis, quocimque honorc,ac digniiate praditistne qiits centra
earum Regularum pr^rcriptum, au( ipAus
prohibicionem Indicis, fibros uUos
legere, babenve audaas. $i quù autena
adverfus eas Regulas, prohibirionemque
Acerit, isquidem, qui hxrericorum libros, vel cujnfvis auaorisfcripta
propter hzrcAm, vel falA dogmatis
lufpicioncm damnata, atque
prohibitalegerir, habueritve, ipfo ;ure in. excommunìcationis pGcnam incìdac, eamque ob canfam in eum, tamquam de harefì rurpcdiiin inquiri, Oc
procedi liceaa.' przter aliaspor. nas
fuper hoc, ab ApoAolica Sede, f»crifque canonìbtis conAitmas- Quiautem Hbros a|Ì4 de cau/a prohibitos Icgerit, habucritve, prxter peccati morcalìs reaturo,
Epifeoporum arbitrio feverd fé noverte punienduflD, non obAanrfbus conAinitionibus,
Oc ordinarionibus ApoAoli(is contrariis quibufeunque, aut A quÌ-« Aaa i bus. INDEX LIBRORUM I)Ri comfTiunirer, vel dìvirim, ab eadcm
tadm faumlMMipt^dìmunanT'Jcllbe-, /ic
Sede indulcum, nc cxeoinirxinicari raiiowmt wncruRi, ut jiulUartnt nUùi ir: ‘;7pf>(Tìnt;
per Iitera$ ‘Apo^olicas, non fa- us fitti poffe% tfttàm fi F^itutniu ÌUe cientes pcrnam»& expre(ram> ac de ver*
forum ^.'^rruriati Index, aò tn^uifitorìouf
^ a^yerbum,de indulto .hiijurinodi menr tM pofiremò nnfediuf
^pa^lelftanllm dttr.pùs, (ipnem. Ut h«c
aucem ad omnium nO; «ifae erùm addiiìst Teùneretur s ^nippe neve quìs excufaritv cum ma^r.a mAturitate 2
mulfis virif doÙU pe ignorationis uti
pofGc» voItiiDUS> et cempofiiuj, piurlmot compre(:endat au8oft$, mandamuijUt hz licere per aliquos Cu- «if«e
/a erdinem fatU commdum diiefifu tfri» noflr* Curforef in Balilica Vatica- fe
^idcatur. rii PiÌBcipis ApoAoiorunij
et io Ecclelia Laterancnil cune, aitn in eis popului» ucrmirarnmfolcmnibus
inccrni> congregari folce» palam» et cUra voce reci« lemuri et poflquam recitate fuerint ad valvas earutn Ecclefìarum » itcìnque Cancdl 4
ri» Apoftolic» » et in loco folito Campi
Flore afligancur: ibique ut Icgi» et omnibus
innotefeere poflìnr» aliquarv tifper
rclinquamur* Cuin autem inde amovebuntur» earurn excmpla in iiidem tocis affixa remancant. Nos enim per rccicationcm hanc» publicationcm » &a£Bxionen)»
omnes» et lingutos » qui bis liccris
comprehen^tur» poft tres menfes» a die
pubiicationis» A affixionis earum»
numcrandos» volumus perinde aAri£Ios»
9c obiiqatos effe» ac ù ipAfmcc ille edite» Ic^equc fuiflent.
Tranfumptis quoque carum, que manu alicujus publici Notarli fcripta» fabfcriptavc » A
figlilo» ac rubfcripcione alicu/iis
pcrfonz in dignitate Ecclefiaftica conftùute » munirà hKrint» fidem fine ulla dubitationc habcri
inandamus» acque deràmimus. Dar. Rome apud S.
Pctrum fub Annulo Tifearoris, die xxiiii. Marcii». Pontifica cm Noftri Anno Qjiinco. »^Rimus FioTeìfelUt LaxellìnutConfe£Iuin a
deputatione Tridentine Synodi R. P. F. Francifei Forsrii » OriL Fratrum Pred. S. T. Profcflbris. A cjufdcm
Depucationis Sccrcurii UM SanSd ttamunuA TfldeutU «4 Sytf»dMt ÙV roimììfus Addita #.t g4j fjfcc « fecnuU fefioaU De creio Jub
BeajlUimo Tio Qjfario Toni. Max.
txplicatj Ju», c«ifmffet » «r Tarrer Ali^uct » ex ctmibui feri nstlonihuf deU8i$ de Ubrorum etnfurif
^uld Mutuendum tfjet » di/ij;e>ttcr
coptaiiatus, in j^oniaw vero
ìiuelli^ebAnt t propiere* In alì^Uibui
'PrttLìiuus, oc loels haSenus eum
fndìcem rteeptum non tffe^ i^«odÌ» eo ifuldam ìlbri prol/ibereatur t quorum leOione viri
da~ Bi pTivari ^magnoincommodo
afficerniur » Atque animo advtrttntts etMin» in eo effe nonmUa forum expticati
pafitUf qua interpreiO' tlone
indl^eretìt j re, multum diuque delibera'
tionibur abitata, ac vÌtìs etiam ex ornai notiene, Tixoitt^ica
facuìtatls fcìentifjimìs, in coafilium
adinbUìf » fuhieQoi Ryguiat componcndas ;ndir4rmr» ut quoad tjus fieri
pofjtt, dìBorum homlnum eommodht
&" Jìudiii faii'4 vtrhaie, oc reli^icne, frojpUeretur. Jllud i^itur in prtmìe aà fervore
oporiet, utumquamque peni aipiìobeti
literam, tret hobtre ciajjet, Ja primA non tam libri, quòm Ubrorum fcripiorct, eoiuaientier, qui aut haraici,
aut nota Ifartfit fnJpeBi fuerunt ;
horum enim Ca~ toìof^um fieri i^riuìt.,
m omw ìmeUi^ant, eorum fcripta, non
edita folum, fed tdenda etìoM, Orohibìta
effe. Sed iitni etum aifimadverrendna^»
quod lieet muliì pratcrtA fini, qui
jufiiffmìs de cortfis in Imuic ilaffem refern pourani, Tairibus temoi non is fult animui, aut ad cerum pertÌKcbat
ii|^ii«rj 0 ii » ut eot ad unum ferquirCm
nnt, fed Ut pene contenti fuere, qui in
mano Catalt^o dtftripti funi, de aliìf veri ejufdem green'/ auBoribus, idem ab trènorìU,
et biquifitoribuf fiaiuendum effe exiflimarmt.
Ih fecundam Clafjm ron auBortt, fed libri futa r fiati, qui propier
doBrinam quòm tontlnent, non fanam, aut
fufpeBatu, aut qua tffenfionem etltm in
morìbut untum fideiimit aficrre potefi,
re/ieiuttur, etiam fi auBorts, a quìbut
prodiere ^ ab Eetìefia Tjaiquam defeherunt
Tenia vero et ultima claffis, eot llbrot
compleBìiur, qui fine fertpiopt nomine exìeruttt la vulpts, et tam
doBrlnam emtlnent, quam H^ntana £eelefia
tzmquam eathoUea fidel, aut morum IntexTÌtail contrariam, rtfi^ tanibm ae repci/endraii effe defrrrtif. >(on enlni om^es llbrot, qui Komen auBorjt
nonpraferunt, damnandot putarunt : quandoquldem fapè virot doBot, ae SanBos
noviniii » M Cbrlfiìana quldem Ppfp, ex eorum vigiliir lìiiU etpent » ^ ivr^
ìnstiem rUm fvìiarau, ùkru ofnimoi /ine
nemne edi^ àlffe, ftd tos taravm » ftu
ent lujiiìdo prtvtm 1 «•w diibUm fidel
doSTtnamy /Ìi« BMnA*a fcruienfém ecniìnpu •
vero /mf hujnfmodl, aiit tales
omnino prohibeneur, AUorum.
autem. bxreticorttni libri » qui de
religione quidem ex profeflb trapani »
omnino damnancur. Qui vero de
religione non crafUnr » a Thedogii
catholicis, iulTu Epircopomm|_ et Inquifitorum
exairinati» U approbari »
permitrunrur. Libri eriam
cathoUcé confcripti» cani •b ini*» qui
Qoftea in hxrcfìm lapH Ainr» quaiD ab
illis» qui poti lapfum ad Eccleuz gremium rediere» approbari a faculca-. tc
Theoiogica allcujus UniverfiratU cacholics» vel ab. Inquinrione generali»
per«. mirti poterunc. V Erfìone*
fcriptonim.^iam EcdeHa-. Ricorum. quz
haf^nui edita fune a damiutis
Au^Voribu*, modo nihil conrra fanare do^rina cootineant » permiccunmr. Librornm autem vetcris teRamenri verr fìonet» viri* tantum doOis » Se pii* Sudicio
Epifeopi concedi poterunc; modo hu»
jui^mondi vcrilonibu* tamquam elucidatici nibtt* vulgatx cdicionis» ad
intelligcndam facram Scripturam» non
autem tamquam (acro texcUf utanmr. Verfiones vero novi ceRamcnci, ab auOoribu* prime cladis huju* Indici* faneraini
coneeJantur » quia utilitàti* parum»periculi vero pluritnum leftoribn* ex earum
lefUone manate folet. Si qui vero
annorationcs cum huiufroodii^ qua permictunnir vernonibus» vet cum vulgata editione circumferunrur» ex pun^is loci* fafpcftì* a facultatc Theoiogica
alicujus Univerfitacis catMicc» auc
Inquiruione generali tpcrmicti eifdempoterunt » quih^ Se vcrnones. Qu^ibu* conditionibus tocum volumen Bi« bliorum, quod vulgo fiiblia Vatabli dicitur,
auc parte* eju*» concedi viri* piis»&
do£li* poterunc. Ex Bibfii* vero
Ifidori Clarii Brixiant prologus et prologomeru
przcidanrur eju* vero cexrum» nemo tex. vulgata edi-« ^ionis ciTc exiRimet. C Um expcrimcnto maniféRnm fìr» (t Sacra Bibtia vulgari lingua, palÉm (ine diferimine pcrmittaniur» plut inde, ob hominum temerirarem» detrimenti
qiiam ucilitatis otiri» hicin parte
jndicio Epifeopi » aut Inquifuoris Recur » tic cum conltlio Parochi vel Confedarii
» fiibliorutn, acatbolicis AuOonbus
verforum» leAionem in vulgari lìngua ci* concedere poRìnt} quo* inccllexerinr»
ex hu. jufmodi lefiione non damnum» fed
(idei, acque pieracis argumentum capere
pofTe; quain facnirarem in fcripti*
habeant» Qui amem» abfque cali
facultate ea legete » fen habere przrampferit» nifi priaBiblii* Ordinario
redditi* » peccatorum abfolutionem pcrcìpere non pofEc. Bibliopola veròqui prxdidam faculcarem non habenc » Bìblia idiomgte volgari confcripra
vendidèrint» vel alio quovi* modo
concerserint» librorum pretium» in uTupiosabEpifcopoconvcrtcndum,
amitrant; aliifqoe perni) prodeliAi
qualicace eiurdem Epifeopi arbitrio
fubìaccant. Rcgulare* vero » non nifi
facuirate 1 Prelaris fui habica» ea
iegere» aut eroe(e pcdCnc. RE L ibri il!i} qui hcrcciconun Auélonim opera, Imcrdum prodeuac, in quibus nulla j lut pauca de Tuo appoiiunc» icdaliorum
di£iacolligunc>cu/uraK)diruiic Lcxica
> Concordancix, Apophiegmara i Si-railifudincit Indice», Se hujuftnodi, fi
quz ne admixea, quzexpui^atione geam * illi», Epifeopi, et Inquifitoris,una curo Theologorum caibolicorum confilio ^bJacii» eaMndaci», perraùrantur, L ibri
vulgati idiomare de conrrover» fiiss
inier carholicos, Se bareticos noAri
tempori», difiercmcf, non palGm
i^rmìttancur, fed idem de iis ferveotur, quod de Bibliis vu^ari lingua Jcrjptis, flatutam eft, Qui vero de ratione bend vivondi, comemplandi, confitendt, ac fimìlibus argumemis volgare r«m»onc confcripti iiiiu, fi fanam do^rinam coiuiiieanc, non cA cur prohibcantur, ficuc nec lìcrmone»
populares, volgari lingua babiti. Quod
d ha£lemi», inaliquo regno, vel
provincia, aliqnt libri funt prohibiri,
2 'iiod ivooQuUa coiuùterentiqua fine dcle;u ab omnibo» legi non
expediat, fico, fum aufloret cacKolici
fum poAquam cmm Chiromantix, Necromantir, five in quibus concia, nentur fonikgia, veneficia, at^ria » auTpicia, incantariooe» arti» magicz, prorfus rejiciantur. Epifeopi vero, diligcnccr provideant,
nc AArologix /udkiaric libri, trapani»,
indice» Icgantur, vel habeantur, qui de futuri» concingencibus, fucceffibus,
fortuicifve cafibus, aut iis afiionibus quz ab
humaiu vohintate pendenc, cerco aliquid
evcnn irum affirmare audene. Permiiruorur auccm judicia Se naturaks
obrervationes, quz navigationes, agricolturz, five medicz artis juvandz gracia,
confcripea fune. I N libronim, aliammve
fcripnirarum, imprefilo nefervetur, quod
in Coucìlio Lateranenfi fub Leone X. feffione
decima Ratutum eft, Qgasè fi in
alma urbe Roma, liber aliqui» fic
imprimcndm » per Vicarium Sununi Pont,
de {acri Paiatti Magifiruin, vel
perfonas a SerenifiCmo Dominio NoAro deputaiula», prius cxamincntuF. In alii» vero locis ad Epifeopum, vel aliiim habentem fcicntiam libri, vel feriprurz
impriinendz, ab eodem Epifeopo depucartdum, ac Inquifiiorem hzrcticz pravitati»,
e;us civitatis,veldÌGrccfis, ioqua
iinpreflìo fiet,e)usapprobacio, Se examen pertineat, Se per eorum manum propria rubfcriptione gratis, et fine dilatione imponendam,
fub perni», Se cenfuris in eodem decreto contenti», approbecur, hac lege, de conditiorte addita, ut
exempluas libri iraprimersdi
autheniicuai, de manu autori» mbfcripaim,
apud Examìnatorem rcmaocat. Hot vcrò, qui libellos.manDfcrìptos volgane,
nifi ante axaminati,probaiiquc fuerint, jirdemp^nitfubiicidebcrc
)udicarunt Patres depurati, quibus
iniprclTorcs, et qui co» habuerinc, de
Icgcrint, nifi aurore» prodidcrint, prò
aufloribus habeantur. Ipfa vero
huiufinodi librorum ptobarlo in fcriptis
detur lA in fronte libri vcl feripei,
xel impreffi authcnticc appareat, probatioque de examen, ac czteragratis
nanr, pQt Pmirct, in fiiagatis
cfVitatibaB > le Ckteniin nomìtUt ctzm Hbronim « ^ur 4i«cefi&(tt4 doonuyvet toei>,«bi an
im* t Pasnbus «lepucac» porgati funt, tura
pretfotiL termnir » 8c bìMìothcat 1ibr» maiur defcripca» San£UiEmi
Domiiu Noie hcreeiÈfc praricacis» oc nihM commi ftri. ìaiTa. tmdidit.. quK
pfoiUbaxur» ant imprioiacuri auc. Ad c xa t ma re verò- oranibot fidbMmwdttnr»
aòl hdieamr.. prccipinir» ne qaìv aodeac eoocra hanim Oranea ««t6. librarìi » fle qucunqne 1 n>
Rcgnlamaó pm(crìptu{D« luchiijui Indie»
bcoQim. ecadéco res ^hab^c io 6iis bibiiou pn&biuoocm a. libro»
aliqoos legem » ibedi» ifidkxaadibaMnm
mp^um» aufbabere.. habenc» cum
Tnbiccipcìone di^bruen per- - H qni> - libro» kat«rieofumv v# Ibnarum, » aJip»viiproaL habeant » auc
oipiìvìi Au^r» feripea > ob h«rentai''>cl
vendanoli ib? qujCBAqole adbnecridaoci ob £alfi A»mii» rufpietonem
damnaca» line lieencia corundem
depucandoram » i^ue prohiDiéa, Inerir, live habucric»iU miniRri publici ejtlT'loci»i
predifì» peifonis fignsfieenr » libro»
4 ^e addu£b».. - « ^. Nono veto
aadear • iifarara » qo^ jpft, «aitati»
io cÌTÙateiB mtrodoxie» alwai lefeodutt
tradem » mi aliqna fa» tiona atnaare »
«ar commolam » nifi o» Aenfo pnnt libro
» bi bab^ Ueaocia a hane ìmpnfBonem » et edìtioneni de nòvo pec&fiis depucandi» » ant -oifr nocoeid.
trlbui ^culcaiem Epireopis» veMnquifito«oofiei »> librasi jam c& otuùbux
per- ribu»» toc Regutarium Sc^rìoribu^i con
tini ia caconunicacionis Iracenciam iiw
tiiKrac. ’ - Qui verò libro»
> alio Domine intetdi£lo»Wgecic » aut haboerìt, pretcr peccati morrai» rea
tura quo aftcituri /ndicio Epifcoponim
fcvcrd puuiantr. Ckra qmtrtam - 1. A NImadVertendtim eft «Irta fapraraw pcamqdattain r^hiiD Indici» felic.^ recòrd/ Pii Pape XV. nulfam per mefiurn •
ideici qooqne (ervetur » sd Ksrediba» ».
le eicèquiicoribui oldmaniin vt^uwaioro»
m libro* a defooftì» rolidh»» firo corub
iodicea>»ìllia peiWi» dqpgcanditoéGmnc • et ab ii» lieeMiam obcìneaoc » prìorqnaa ei» ucasuur » aot in alias perfonat qu^ cuDqoe rariooe eos traufiecaor. cedendi nbenciam emendi » iegendi t
àul retinendr fiibliavulgari lingua mira
«cura ha£lenot mandato, le nfu Sanf^e
Romane le univerfali» loqui/ìcionis fublaca ei»
fiierìc fiicaicas oeocedendìluilDfmódilicentias l^endi» vcl rctinendi
fiibìlia vtilgaria» auc aliai (acre Scriptnrc cara i^vi qndm veteri» tcRamcnti parte» qoaviaVdl Jn hi» a^fo oranibui» le fiagul»» pf- ^ri
lingua edia»; ac infopcr ruraraaifa sa
ftaraaror» vel amiffianù Ubr^iBiVei le compendia eciam hiAoriea coruodcra alia. arbirrìA corudera £pi£ooponira» vd
Bibliorum^ feu librortuo (Kie fcripcnrci
Inquifitoram» proqoalitatq «oocnniaels». quocuoque vulvari idiocoace
conlcripu c vel dclidi-. * quod quidem
inviolati (ervandam eA. Circa verd
libros» qooi ^tma deputa» -ti. aut
examraanmr. aui expo^runc » Crrni. «nmm
auc eirptireando» cradideriioc « ant cerei» _ condittonwoi.ocntrfa» excudueneirtcofi-
^^Trci Rmdam ìx. aiddem Xndicti »
ccfi*e^t» mìdcpiid ilio» Aatmiiflé confti- 1. abEpifropt»,
IclaquificoribusChricerit y cara bibliopolc » quim. esteri ob^ fiifi^le» fedulò
adinonendi fune » £rrveiit. quòd in
legente»* auc rerineote» concra Liberum
taraen fic Epiicopii* aot tiv r^Iam banc» libros huiufooodi Aftroloquifitoribus
generalìbu» » fecnidum &cui- gis |odiciarÌs divinarionum le
fortìfegio. tatem quam hatency eosecUm
libroiyqut rum» rercmiqtte aliaramin eadem Reguia hi» Regulis perroitti videiirur » prt^ibcre»
«xprefiaruaiy procedi poteft, non raodò
fi hoc in fui» tvffi» aut proviociit» vcl per ìpfos EptTcopoiy A
Ordinariosi fed dioNcfibus expeiure iròicaverine.
eciam per Inquificores loconim ex conAi tutioM feU ree* |jxti Pap» C^mn contea
.exercentes A(bplogÌx judicùrùe artem* et alia qocnwtpic «livuutioattm genera »
UbroCque de cn kgences t ac ceoent«s» protnulgaeat Tub Damai Roniz aptid &an£^un Pcfmm I anno.
locamationixDo^ ininicz M. D.JkXXXV^
Noni». Jannarii » Pc«(ilkatu« (lù aDi¥>
primo t Px Ttéhi^ k et lìkth Uthémm, Q Uimvìs in tenia c1a0é lodkiia p*v» di^i Pii ffapz IV. Itfb licera Thabmid Hcbwocuia » epiTigue gioite k anoocatiojies i iacarpMUtioacs
» £c cxpofiiiooes. onmes pmlubnitmr i
^ quòd Q abTque ooaiiiie Thilaisd g et ne iDjuriis, Oc calumniis in Religiooem ChriftiaDam abquaodo prodiiiTena * lOkxareiuur:
quia tamen Saa£Uil$iniu Domi90S NolUr Domiqp*^ Clemens FapaVlIL Mr Tuam eoaRitutìoneio concra inapia uripea et libro» Hebrroram » fub Datum Rorpe * 0 ^ Sartfbiux Paniai anno Incarsacioais
Doffiiniac prbtie Kal. Marcii Pontificar, fui, anno lecunlicioQÌb«s.
pcnaicegp» auc co^randi i fed ^ialicer et exprefie Aacqic Oc vuki u; ^/uf^niodi
impti ThaUnpdici, CabalilUci,, aliiqpe
ne4im. Hcbrsonim libri omnino Canati
Aeprobibiti manche et ^nfcaocnr f ^tqoe foper eis > de. ali/T librii
hujufiooìU > pr»4iAa cooAicutia perpetua j Oc iqTÌpUbi:^ U(ce Qbfcrvcrar., ^ lUfn
A d bee (citnt Epifeopit OrdiBOni». et lj>qwiricore» locorom 1 libmna Magazor HebraeormB t qui eoocU net pariem oUcioram, fic ocrimoniamm. ipforum t 6c ^ynag^z * Luficaoica > Hiipanica
t Gallica » Germanica > Italica ».
auc quavù alia rulgari lingua i praterquam Hebraca » edimm * iamdiii ex
fpe(iali decreto, racionabilirer, prohibìtum
c(Te. Idcirco provideanc illuni nuMarenns pennitri auc tederari debesEL > oiR Hqbraica
lingua pr«U{^a. De iihrìs Jeewy/
3edùu. C Um in Appendice » fecundz
clafEl iub lirera L dicami ( Joaqoit Bo(lini
Andegavenfit DcmocKimania omnino
prohibeenr» liber ueiò de Repoblica » Oc Methodus ad £icikm HiRoria ram cognttiooem tamdib prohibói fintqaotdque
ab AufVore expurgata » com approMtione
Magifiri (acri Palaiii prò^riot • X Id widem per eirocem forcaffe librani fauum
credicnr r nam liber de RepuUica
einfdena JoacnÌB Bodini • primùm die xv.
Mentii Odcb*M.DJfCII« detnde liber
Demonomanùt dio priioo Menfit
Septembris. M> D. XCIV* eodem Sao£lUSmo Domino onftroPapa firn^iciter
damnati funcf ac proiode ueerque
daiimanu Oc probihitai aideodm cft INSTRUCTIO, Eomm» qui librii turo
prohibeodùi com expurgandis> turo
eciaro iropriroendisa diligcntiam» ac
fidcleiQ ( ut par eft 2. operam fune daturi« A P fHà CéiMkit canfenmomm t nm fmtt « fai MMM ex jm ectJtit !/•% Ont dxmau USìtaU iu t n ( fited Jadite, per Patttr a fOicMii T^Uemàu Sponde dUeSot^ fréuìpai Jrnrìnm (fl tufi iiiui etiém raveuur
• M vai iiém deene poiiidair IHrrì't vd
fm^ olii emetxmt t et pn^mtir • mù
iaeuutMt fideiium^mmtes «ante vateca
u^cÙBtet • iiifiu, ét «erica dcMorùiee dejxi/iidwaiaxt _i (A ^rfm, fuìemtpie pefi hit fìu vetem, fot naeù Uhi edmur » MÒm m*xlmi furi « ^ MB À «r pta «( pdmi, ^oaai qoa ad 9 um ftrUmt hemumìaaii extfioMt i foad efiva ma i wnm Ubnrim imndì^ouem • ad 40/ fmùtu aèoieuio/t um ab Epifeapùi ^ jifiq^tMciio/ i fodoi a camli » «nenon
ad ti tu MaeUfia pei fiudum miere % ^
enfiarito/ perdi ; preperr e« fna TVidexlMenoie
‘PornoM ^oùr jMpraMSù * decreta fmt )
ftiUUa miluM exigat, (ofuJbits i^/ra fcfh di t dUìgeutim jbwùor » tifdemw JtamtW t M «Miiae io «nf ak Ufidem /rtftV » et lu^tfitcìribtu, aliìf^ i o»
pM)trNot f tu loaienww. ii&rorna» ÌN/exdifi>eoe » et éboÙtme • tm a CcnrefieriW c InJev weric publicants
) eocum juriCiifìionì (ubjef ad ipfoi defcripca Angillatim dc&renc noaiuia
librorum omnium iTugulumm > spui (c in codcm Indice prokibitos» qniique rcperiet« Ad hujuimodi vero libros fic lignificandos »
infri certujn cempus ab Epifco» pOi
vcllnquifìtoreprxrcribcndunii omnes
cuiiifcunque gradua» &condicionìs exciterinc > fub gravi porua »
corun) arbtcrant inAIgenda»
tcneancnr. Homx vero hac omnia certo a
&• piopoficis edi4tii » prafcriberulo tempore » przilari curabic Sacri
Palaci i MagiAer^ S I qui crune * qui
libnun unum * aut plorer » ex
prohibids!» qui ad prxfenpeum Regulanim pennini poAunc » certa aJiqua ex cau£a poteAatem Abì retincndii
aur legendi &ri» anc& expurgationem defiJereoc t concedendz
faojutis extra Urbem » cric pcndr
Epifeopam » atic Inquifiiorena# Romei
penés ^cri Paiaca. Qju quidem gratis eam » et foripco naaiw liu
lubAgnaco uibuent » de triennio in
triennìum renovaniatsi ea in primis adhibicaconrideratioae» ut noonifi
viris dignìs» tc piccare » 8t do£Vrina
confpicuis » cuna dele£iu ( ejufmodi licenriam largiantur » iii aiKom in primis, quorum Audia, militaci pubUcx» &(anéW Cackolicx EcclcA*
ufuè cAe, compercura hahuerins. Q^i inrer l^ndum > quaecvnqne repererinc
ani>rcdvcr(;one digna, nocads capiiibi:, Afbliis, AgniAcare Epifeopo,
vel InquiAtori tencanrur. IL IH I LIud etiam Catholirx fidet confervanJz
neceflìcas extra Italiani, maximè cùm ab
Epifeopts, et Inquintoribus, cùm a
publicisUniverAtaribus, Omni do£Vrinx laude AorentibuspoAulat» uceorutn librorum Indicem connei, et publicari curcnt; qui percorum regna, acque provincias
» harctica labe, ac bonis motibui
concrarii vaganiur » Ave ÌIU J iroprta
nacionit» Ave aliena lingua concripti fuerinr.
Utque ab corum leflione, feu rerentione » ceciis poenis » ab eifdeni
EpifcOpi$, dt InqtùAioribus propoAds » eorundem regnoruia » gc provindaruoi
homi» nca, arceanc. Tom ik
Ad qttod exequendum, ApoAolicc Sedif Niinriì » et Legati extra Italtam
» cordem Epifeopos » Inquìtìcores, he
UnW verArates» feduJò excitare
debebnnc. 1 IV» 1 Idem ApoAoIici extra ItaliamNuncii Ave
Legali » ncc non in Italia Epifeopi, he
InquiAcores, cani curatn furcipientaic
Angulisannis, cacalogum diligencer colle£lum librorum in iuis partibus
impreAbnim, qui aur prohibici Am!, aut expurgatione indigeant, ad fao^m Sedere
ApoAolicam, vcl Congregatìonem iDdicii, ab
illa depucatam» cnn^ictaoc s.
V. E Pifeopi, he Inquiiicores, feu ab
iifdem fubdelegaci » he depuucj, tam io
Italia, quitti extra, pends fé habeaut
AnguJarum nationure Indices,ut librorum,
qui ap^ tUas damnati, ac pròhibiti fune • ct^nitioncra babcnces, raci« litts profpiccre poflìnt, an cciaoi, a
Aiz >utildi£liuQÌ& terris «
eofdere recognitos, arcere, vel retincre
debeanc S. VI. 1 M UDiverfuiD aurerede
tnalis, &pernicioAs librts id declararur, acque Atrairur, uc qui certa aliqita lingua initio edili, ac deinde prohibici, ac damnati
a Sede ApoAohea fune i eofdem quoque,
io. quarecunque poAea txrtamur linguam»
ccnieri, ab cadere Sede, ubigeaeium, fub. eifcleoi poenis interdi-, he damoatos
DE CORRECTIDNE LIBRORUM. S- L H Abeant
Epiicopt, et InquiAcores con;unLlim
facultatem quofeunque libros, ;uxta przfcrìpcum hujus Indicts, expurgandi,
eciam in Jocis cxenipcis, de nullius,
ubi vero. nuUi fune InquiAcores,
Epifeopi foli*. Librorum verò
expurgatio, nonniA viris eruditione, he piente inAeiiibus committacur, iìque
Ant tres, niA forté conAderaro. genere libri, aut eruditione corum, qui ad‘ id
dfligcncur, plurcs, vel pauciores
ksdicentur cxpedtrc. Ubi emendacio
conferà cric, notacis capicibns,
paragraphis, he foli», manu illìus, vel
illoruru, qui expuigaverinc, fubfcripca,
reddatur, eifdem Epifet^is, et loquìAtoribus,
ut przfertur t qui A etnendacionem
af^robaverioc, cune iibet
pertniccacur. fbb s-n.. s- u. Q ui ncgotiitm. fiifeeperit corrigendi ac. ^
moia », flcaicemé. norare deber» non
Colum» que in curfu opcris» manifeftd k
otferunr » Ted » Ci qtuc in IchoIiLs ». in rtrnnnitii4 », in (nar^inidut
>Jn indicibiu librorufn » in
prdacioQibus» aut.epHlolisdedicatoriis»
unquim in inftdm».dcliterctinr.. ~
aurem correflione » aroue txpur^
gacìonc indigene. » ferd hxc fune, qux
iequunrar^ PropoHrionef
hxreticx». erronex-» hxre« firn,
fapiences » fcandaloTx », pianim aurium
odénfìvx».rerDerarix» et rchifmaci» tliciorx» biafpheinx^ Qtó centra Sacramcncoruni ritus, et cxrcmòniaf » coorrac^uc recepnim ufiim » flb cofiruecudinem Tan^be Komanz Ecdelix».novitatem
aiiqnam indnettnt. Profattx eciam
novitates vocum abhx-. rccicis
exeogitatx j, ic ad falicndum in»,
uoduflz Verba dubia et ambigua »
gux legcntiiim animo$».a rc£Io»
eatholicoque feniu>» ad nciarias
opinioncs adducerc poiTunt*. Verba
Sacrx Scripturx, non fùfelirer proiara » vcl d
pravisrizretieoruinvcrrionibus.
deprompta » nifi forte aflcrcnmr » ad eofdem hxrccicos irnpiigiundot, de proprtis.
celia, jugulandos» de convincendoti Expungi etiam oporrcc vcrba.Scnpturx Sacrx, quxeunque ad profannm ufum ienpiè accormnoiantur »’ rum qux ad fcnfnn) detor-. queneur abhorrenrem a CathoUcorum Pa» trutn» atquc Dofioruin nnaninii fenccn-. tia ..
Ircmquc epithera Konorìfìca» Si omnìx
in laudcm hxrcticorum » dcleatitur..
Ad hxc re/iciuntar omnia» qux fupcrflU
tioncf * fortiicgia ». aedìvinatiooes Capiunt. Item quxeunque faco^» auc fallacibus lìgntv»-
auc echn l'ex fonuRx, haitiani acbicrii
libertatem fub/iciunr» oblirercnnir..
Ea quoque aboleamur » qux paganifmum redoJcnc •' itemqux famx proxiiQonim, et przfertim
eccleiiaAtconim» de Prìncipum detrahunt > booifqiic morjhps de ChriAianx difciplinz
fune contraria » expui^cmur Expurgandx
funt etiam prop^icioncf » qux lune
ccmtra libercacem » immunitatem» de jurildiflionem Hcclcfìafticam. Irem qux ex gemiiium placitis » moribus »
cxcmpli» t}Tain)icam policiam foveoc» de quam falco vocanr rationemftatui >
ab Evangelica »- et Chriiliana Icge
abhorrcntem inducunr» delcancur»
Explodantur exempta » qux Bccleiia
fìicos rìtus». religiofomm ordines » ftarum » digniutem » ac perfonai
ixdunc Se violane.. Facccix etiam, auc difteria in pernictem»auc
f^xiudicium famx, de exifti. macionis
.aliorum ja£Uca» repudientur. DcniqtK
lafciva» quxbnnot raorescorrumpere poHant > ddcaniur.. Et fi qux obfccna imarinc», pf.vii^is libri expurgandit iniprcfTx» auc extenc » eciam in liceris grandi • quas inirio lìbrorum, vclcapicum imprimi
morii. efii hujus geoeris oiania pcni«
tuf obliterentur^ S. in. r i libris autem catholtconim recentio. rum» quodpoftannum Cheifiianz Ca« lutii. M. D.. XV..ooiilcrip s- ly I N libris autem catholicomm,
vetertmi mhii mutare fas fic» nifi» ubi
auc - fraude bxreticorum » auc
typographt in caria» laanifeftus errar
irreplcrii. Si quid autem majoris
momenti» Se animadverfiooc dignum
occurrcrit» liceac in novis cditionibus
». vcl ad margincs» vei in fcholiis
adnocare; ea m primis adhibica.
dili^entia» an ex do^Irjru» lo» ciique
collaris» ejufdein aufloris rcntcntìa
difficilior illufirari» ac mens ejus planiut. expticari 'pofièt .. 5.V..
P pfiquam codex expurgatorius con»
«fefrus erit, ac mandacoEpifcopi.de
Inquificoris imprclTus ; qui libros
cxpurgandoihabcbunc» potcrtinr de corundem Itcencia juxta formain in
codice cradiraiD eos corrigere» ac purgare. DE IMPRESSIONE lìbrorum. 5- L
N t.Mlus libcr in pofiemm excudarur»
qu) noninfronten»nomcn»cr^nomen, Se pacriam prxferac Auéìoris. Qiiòd fi de aufìore non confiec» aut jufiam aliquam ob caufam » tacito e;us nomine» Epifeopo» Se Inquifirori Uber edi pofTe viJcacur» nomea iliius ononino defenbatur » qui libnim exaroinaveric » arque approbaveric. In hit verò generibus librorum» qui ex vacionim frriptorum di£Iis » aut e» zcmplis» auc vocibus » compilali folcnc» is
^ui laborem coHigendl» et compilaQdi
rufceperic» pra auf^ore habcatur*.
R EguIvc^t preter Epilcopj, ^ Irv
qui/ìtoris licentiamCde quaregula
(Kcinu dìàum cft ) meiniaerinc»
ceneri k (acri Conciliì Tridencini decretoopcris in Incem eiendì
faculcaccoi * aPra^lato cui fubiacent, obrinere. Utramque
^em concefiCooem > que appareac* ad
principiqui operiti Etcianc • S III.
C Urent^pifeopi* et Inqui(3tores* p3nis etiam propoHci^* ne
impreiTo riam arrem excrceiu«s*obrccnas
iro^gioet, tarperve * etiam in grandìufcuUs
literii imprimiconfuetat * in librorutodcìnctpf impreiCone
apponanr. Ad libros vero» qui de rebus
eccledafticis I auc (pìriciulibus couferipei fune* ne charaderibus grandioribus utafimr « in quibcu exprei^ appareat aUaijut rei pròphans,
nedara rurpis obfcena fpecies. Qui
etiam invigilabunt furafflofarp.ut ^
(inguldenm impreffione librorum > no9 K 0 lmprc(Toris* locui icnprefConia*
6c annui* quo liber imptelTus e(^* in
principio e)a$ * acque in iìne anno retar. s. IV,
Q ui opcris alicu^ edicioftem
inccfmm eins exemplar cxbibeac
Epilmpo» vel Inquincori; id ubi
feoo(novtrioc,probavcrintqoepcoes fe tesineaai i qnod Roma qaidem in
Archivio Magiftri (Icti Palatii* extra
Urbem vero in mo idoneo* quem Epiicc^uts
mk In» quifìtor ciprie* referveatar. Poftqnim aiwem liber impr^ns eci»non liceat
cuiqtiani veoakro in vulgua, proponete *
auc quoquomodo publicareanrequàm is* ad qnem hcccura pertinec» illuni cum manurcripto apud fe rereneo » diligciucrcontuleric* Ucencìamqne
ctveivt di» publicarique poffit*
concelferir. Idque rum demum
fiaciendum* cum expIorMMu habebicur* sppoeraphum (ideliMr fe in fuo manece
geiSnè « ncque ab exemphrì manoTcripco »
vel minimum difcciSée « Qpi
contrafacere toTus (uerit, graviccr et feverd
puniacur. 5. V. C UrentEpifeopi* atInqmncores«QUOrum munerit
cric faculcatem libros imprifiiendi »
concedere* ut eis. cxaminandts* fpe^Uaeptecatis* et do^iqc viros adhibeanc* de quorumfide« et inteXmw
Ik grirarci (ibi polliccri ^anr; nihi!
eos gracia daruros* oihii ouio* fed omni
humano afTe^ poUhabito * Dei dumraxac
gloriam fpeAatuto&i ic fideU popuIiaiiUurem. Talmm antem vironim approbacio » una cum iicentia Epifctqpi, et Jnquifitorìs»
ance initium opcris* imprimatur, s.
VI. T Ypogtaphi, 6c BibKojioln »
coram Hpifcopo* auc Inqui (icore* 6c Iloma,
coram Magi(tro Sacri Palarii jurc/urando fpondeanc* fc munus fnum cachohcè,
(Incerè * ac fidclicer cxequururoS| hu)ufq(ie Indicis» decrecis* ac regulis*
Epifeoporumque* ficlnquifìtorum edi£lis, quatenus corum artei attingunt, obtemperaruros,
ncque ad fita anis minifterium quemquam l'ciemer adiniduros» qui barerica laM fìt inquinacus. Quodd inter illos* inTignes, ae^
eroditi nonnulli repertantur, 6dem etiam
cachotlicam, ;xta fbrmam a Pio IV. fcl. ree.
praferipeam* corundem Superioruoi arbitrio > pro(iccri tcneancur
.. S- VIL L iber an£loHs damnati, qui ad praferU peum Regularnm expiiigari permiccicur*
poftquam accurate rec^nirus» de puigams,
legitiméque perroiflus literit» u denuo ftt imprimendus, praferat rinilo inreripturonoroenau^ris* ^um nota
dampationis * ut qnamvis, quoad ahqoa
liber rteipi * audlor tamen repudiar! intelligarur. Inejufdcm quoque libri principio, rum veteris prohibitionis * tum recencis emenditÌocHX*acperminionis
mencio (ut *exempii gratia, Bibiiotheca a Courado Gefnero Tigurino, damnato
au^re, dim edita* ac prolubita* nunc
jnlfii Supcriorum expurgaca* et permida .INDEX
AUCTORUM ET LIBRORUM PROHIBITORUM
AUCTORES PRIMIS CLASSIS A A Bydentts
Corallus* alias Huldricut Huttenm, AcJuUes Pyrminius Gadarus. Bbb i Adolphns Clarembach. Aibercut Bran CaroIoAadius.'’ Andreas Cratauder. ^ Andréas Dieihcrus.Andreas Fabritios»
Chemniccnits.Andrcas Fricius, Modrevius. Andreas Hyperius. Andreas Knopen. Andreas Miifailits. Andreas Ofiander. Andreas Poach • Angelus Odonns.’ Anronias Alieust vcl
Halieus. Antohùis Anglus • au^or libri tU
orìgine Antonius Bruccfolus Antonius
Corvini». ' Antonius Otho. Arccit» Felinus, et Marttnus Buceni^ Antoldus Montami. Arfatius Schoflcr. Amints Briranmis.. Auguftinus Mainardus Pedemonfanus.
appendix. r:.v| r*.v fi t icj-. A Bdias Libcrinus * vel Liberinus.' ' Ahdias L • ^. Abdiav Pratoritrt.*’-'*^ " Abrahamus a Munsholt, Aniucrpienfis? Abrahatmts Mufculus. . ^ Achatius Brandeburgenfìs. Adansus Hoppitis’; ~ Adamus Fafìoris.'- • ‘ Adaiuus Schmìdt. vcl Schuberts. AdaTfuis Sjbcnjs:-”'""~' ' Aciiiiliujn .portw, FMncjffi filius.Albertus
Htrdtfjt»bcyius.‘'‘ A Al^rtus
I.yttichius. AJceus Antij^iusX) T D Ij
ì. Alexander Novcllus. Alcian4« iFcOfa^. t -r T Apòftata iCTipm bnno '^'^41. Alexius Alcxa^tf l-ipfcofi?». Alphonfus Còffaditis; vei Conradi»; Ainbrofiys Uhvu^i&r., Ambrofìus féiidcljins. Ainbtofìus VvolfiuSj Vcl Vvolfius. Andreas Cclichigs,,, AAdrcas Corvimis. ’ /^ Andreas Crithis, Polomjt. Andteas Ell^cri». Andreas Freyhnb.Andreas
Fulda. Andreas de Gorlitz» ProfelTor
LiprenfìsAndreas Gomitius. • Andreas Hondorffius. Andreas Jacobi Gojjingenlt. Andreas Krcuch. Andreas Lang. Andreas Muncems. Andreas Oiho, Hcrtzbergenfìs • Andreas Pancracius. Andreas Petrhis. Andreas Poucheraias. Andreas ScofRus, vcl Scoppius Andreas
Volanns. ^ Andreas SKcvvc. ^ Antonius Ccvalterins» Antonius Cooke. Ancmiius Corramis. Anttwius Fayus Antonius Gelbiu»*
Linconicn/ìi.' Antonius Herfortus. ' Antonius Mocherus. Antonius Pafquius. Antonius Probus. Antonius Sadecl. Antoniin Schoms» Anglos. Antonius Palcarius. Augnftinus Marloratnr Cetcrorum
AuftorunXr-'^ Libri prohibtiii ' *
) Auguftinl de Roma Naaarc.. ) ni Epifeopi, traiUtui de ) - facramenco Divinitau* Jc-i) fu Chrifti, 3c Ecclcfir; ) Donce’; item rraflatus' dc Chrifto ) cxpufge»^ 'capire» et c^usùulico priiH > tur cipatu : )
''Itern tradlanis de charitatè
Chifti» circa elcfìos,- ) ‘ A de
e)us infinito amore. ) -, 1
I>fiartiBar)andi; libcr fcteéUsTJnJ
dam Bpiftotas EraTmi Rotcrodat
concinciu. Alberti Artfcntinenfii )
Cronichon,edkioBaJiieeiu ) (is.
) Alberti Krantii Hareborgen» )
Nifioorrì/i* ) gantur. HiAori», Au
Cbroni» ) edicz Franconfurci. ) Alphonft ErtAt^d», xlcfenfio|>ro Erafmo
1 conrra Eduardum Lzum, &contra Uniref’fitatem
Parifrenfcm. f Amati Liifìtani
Centurixi donec e«{»u|gentuf. Ambrofii
Carharinì Politi > quxArotìeduz, deverbis, quibusChriftusfanOKfimum
Eochariftiz Sacnmenrumeonfécit. Afvlrcz
Corri, libcr de Chyromantia. Andrcz
Mafìì, Comcntaria, fupcr Jofuc, □fqtie
emendentur. Annali gcnth Silcfiz,
)oachimo Curco aurore « AnnotatiorK^ fupcr Inftir. Joannis SchcncKdfvuini,nift
cmciuientur Antiochi Tiberttj libcr de Chyromantia. Anronii Bonhmi, Commentarla de pudin; A Cca Noribergz ., vìddicec» OHaiv. drifmu».
Ada Synodi ìkmenAv. Adionc» dtix
Sccrctarii Ponrificu. Admonitio
MiniArorutn verbi ArgeminenCdiD • ' i Aenuitatis difeuf^o, fupcr (^onAlìo delcdorum
Cardinalium. Alchimia Purgatorii. .--r
Alchoranu» Francifeanorum. .
Alchoranus Mahomcti, Bafiléz. imprcL
Acnilcs cum ScholiiS} et impiit
Annotacionibu», et Pncfatinntbui.
Item in vulgati lingua, non nifi ex conecAìone
Inquilìrorum haberi polBr. Alphaberum
ChriAianum. Amica, &hnmilis, &:
devota admonitio. Anatomia cxcuAa
Marpurgi, per Eucharium Ccrvicofnum •
Anatomia della McAa.
Annotaiione» in Ada CoitciliiTridenrini.
Annoratione» inChronica Abbati» Urfpcrgenfis. Anonymi cniufdam, Libcr de Repugnantia Dodrinz ChriAianz. Apologia ConleAioni» AugnAanz. Apologia de Dodrini Vvaldenfimn. Apologia contra Henricuin Ducem. Apologia Grzeorum, de Igne Purgatorii,
&c. Argyrc^hylaci», fen Thefaurarii
EpìAbli. Artiaili AnabatiAaruin
Moravix. Arciculi AnabatiAarum Saxoniz. Articuli» a facuiratc Thcologica
Parifienfi dcterininait, fupcr matcrii»
Fide) noArz hodie controver fi», cnm
Antidoto, Alidore ut ereditar, Calvino.
Articuli novorum Vvonnatiz EvangcIiAarum. Articuli quadraginta feptem » plebi» Francfofdicnfi». AagufianzConfcAìonis Ecclèfiarum caufz, qiure ampicxz fine» et rctinendam ducane fuam
Dodrinaró A Cadeniiarum Lipfenfis, A Vvirebergenfi», rcpctido Ofthodoxz Conf^cAioitt».
j Ada, et Scripta Tbébfóem
Vrirebt^ gcflfium A
ParViaiWif'iCoftA'anrinr^h cani, D.
Hieremiz, Aci quz de Angunina
Confeflìoivùuerfemifcrunt i.Grzcd, A:
Latine ab eifdem Thcologis edita»
Adiones, A monumenta Martyrum corum, quia VViclcAb, et HuA. ad^ii Aram hanczcatcmrn Germania, G;d!lil, Britannia. et i^dcmumHilpania, vericacem
Evitn^rfeam, fanguìnc foo conAanter obfignaveotht. Agenda, feu forrbula; Officia Hx. rcticorum; quacunquC tiogiia confcriptaAnalyfi»
rcfolucio Dialcdica, quaiuor Li. bronim
InAitutionum IibpcriaUum. Annatz
TaxationeiEcclefiarum, et MonaAcriomm, per imiverfum Orbcm, ab Hzreticis depravatz., ;nris, quòd In
approbandi» Pontificìbits Imperatori»
habenc. Apologia Anglicana, feu Ecclefiz
Anglicanz, five Apologia Anglorum Apologia Catholica » advcrfi^s IribelK^
» declaration'S) &cOQruUatiof>e minus Fratcì unicus Regìa » vixa fui^ fhta eft 1 per E. D. L. L C. Parifica >
4pud Jacobiim Peciichov. i5S 9 c PatrecK nia diverforuni Au^orum » intcr quoa cR unus Philippus Melanchthoo. B àlcbalar
Hiebnaa)er« BalthaCir
Pacìrpootami). Laptifta
Lardcrmiut. Bartholonazua Bernardi. Ba^tholomxus Conformi i^aribolonifut Roiinua, ÈartholQmzui Vvcfthcroerus. Baltliat Groeningenlia aliai Vvcffelut, Balìlips Joannes Heroiet Acropoiica^ Bciiedi^us MorgenRcrn Bcnedi£Iu$ Schurmeginus
» Bcrengariiu Diaconua
Andegnavenns. Bemardinus Ochinus t vcl
Onichipm, ScncnHiv Bcrn^rdos Rotmanua Rernardus Zieglerus. Bertholdus HaUerua^ Bilibaldua Pirkaymerua. EUkaQi» TheobaldiKv Blaurcfu» An^rofuu.. Bocerus Martiom Bullingerus Uenricua. Bu^genhagiua Porucranna y feti Joanock BH^n£|cuvius. Bemandus Loquam Baquimn Pernii. Brentiniu» vei Proncia». Bruno Qpinos Builingaiims Anglus«. Certorum Auftorum Libri prohibiti, B Aptiftx CreroenGs opeca omfiU t quatndip emcQdata« non prodierinc^ Banholomxi Janoeit de Advencu AntichriRi. Beati Rhenani Scolia in Tertnllianuin. Benonis Liber» de Vita Hildebrandi. Bctcrami Liberi qui inicribitur dq Corpore, A
Santino Chrifti.. Boccacii Decade! five
Novella c«niiDquamdiu expuigatx non prodierinc. fininonis Heidclii QMrBtrdràfìs $ Pocnaacum
Libri fepceio,. appendi».. B Artbolomxi Canfxi opera omnia. Barcholomxi Caran», MirandetK dti Catheehifmui. Bartholoroxi Coclitis Anaftadt * Chyromamixi
et Phyfiooomix. Bar(holomci
FerraricodSi de Chrifto Je, fu
abrcoodiio « Libri fcx quoofqoe ex-pureeocar.
Beati Bhetunì Epiftola t de Primaca Pecri ubicunouereperiauir» five
feorfum» five libro decimo Opcris ad
Fridericum, Naufearo .. Bcmamin Cantabri* kinerartumBcrhardi Lotii
Hadanurii * feu Cerardi Lorichii
AJamarii • Col!c£Iio trium Li^ bronim
RaceourìonumBrnnonis Scillif de Mi(Ta
publica prorogtnda. Bcrrurdini Telelìi i. de Na.
) cura retum^ ) Itcm de fomno. ) Donecept. item quod animai Univer- ) purgennir. film ab iTpica animx fub- ) Aantia gubcrnarur. ) Bemardini Tomicani t Bxpofitio in Martlurum
.. Bononia, five de Lìbris facris
coover^p^ di* 1 in Vcmaculam Linguatn »
Ubij. duo 1 Aii^^orc Friderico Furio Cariolane
Valentino. Inqcrtorum Au^ìorum. Libri pnhibiti. Elial» five de Confolacione Peccalorum. Beneficmm CbriAi.' Ber Bemcn/t5. DiTpuratio*. Bcmenfii.Keformacio conrra Minam.. Brevji, Se compendiosa lollruAio de Religione ChriAiana. Brevis, TraOatus ad omnes in ChriAianam
libercaeera. malevolo!.. \ Brevi!
PaAonim. Jfagogz. B^.(ilien(iam MiniAroruro refponTio.t. scontra Millam. Biblia Hzrecicoram, opera ). impreifa, vel eomnÌJcro ) Annotationibus * Argu. ) mentis» SummariÌs,Scho- ) liis» et Indicibus referta» ) omnino prohibenrur. ) Bibliocheca ConAancinopoH-, ) tana. )
Biblioibeca Sanflorum Pa- ) trum.
Farifiisedita» Se per ). Margarinum de
la Bignè in ) Donec exunum coUcfla. ) purgentur. Biblioiheca Srudii Thoolo- ChriAophorus
Hoflmano. ChriAophorus Mclhoverus. ChriApphorus Rheiter ChriAophonis
Trafibulus. Claudiu! Scnarclamus. Claudius Taurinenfìs» ^ fettffa de ìum» ginìbur. Clemens Maror Conradus Claiiferm. Conradus Cordarus. Conradus Dafypodiin. CcMiradus Gemems. Conradus C (bel us > vel Crebellit» Tigurinus. Conradus Lagus. Conradus Lycofthenes. Conradus Pcllicanus# Conradus Perca • Conradus SchrecK. ^ Conradns Somius. Conradus Trewe de Fridesleren.. Comelius Agrippa Craco Miiius. Cyprianus Lcovicius. gici»expperibu5SS.Hiero- ) nymi » AuguAini, A re- > r liquorumconA£Iai vel Sub >., alio.Ticulo* ) Bibliocheca Studii Theologi- ) ci,ex p.lerirqjDo£ioruinPri- ) fei fzcuU monumemis col- ) leOaiapud JoaanemCrifpi- ) num» Au alibi impreifa. ) Bnicum Fulmen Papz XìAì Quinci, adverfus
Henricum, Rcgem Navarrz, et Henricum
Bortenium » Principem Condenfem » una
cum proceAatiooe ronlciplicis nuUicatis C \ElÌus Horatius Curio. Cztius Secundus Curio.
Calvinos. Capito Vuolphanghus
Fabcicius*. CaroloAadtus*. Carolus Molinzus. Cafpar Cniciger. Calpar Pcucerus» BudilGnos.. Caiparus Taubcrus. Caflatsde.' Brugeniis. Carieus Cc^dìus*. .ChriAianus Bcycr.
ChriAianus Locichins Hdfus.
ChriRophorus Clarius.
ChriAophorus Cornems ex Fagit*. ChriAophoru!
Frofcovenis. ChriAophorus Hegendorphinas
C Arlus ChriAo{^K>rus Be/erus.
Carohis Joovileus. Carolus
Vvrenhovius. Cafiiodorut Kein\ius. ChriAianus Granimdr. ChrìRianus Hcfiìandcr. ChriAophorus Fifcher* vel FifehemsChriAophorus
Godmannus. Chriilophoms Imlerus. ChriAophorus Ireyns Paifavienlls. ChriAophorus LalTus. ChriAophorus MarAallcr. ChriAophorus MoIhufenAs. ChriAophorus Obenhemus. ChriAophorus Ohenhin, Ochingenlìs. ChriAophorus PezcUus. ChriAophorus Ricardus. ChriAophorus, Spamgenbergius • ChiiAophonis Scolberg. ChriAophorus Stymmelius. Churrcrus Cpnradus. Clemens Schuberui. Ciementius Gulhielmus» Conradus Badius. Conradus Churrcrus. Conradus Brcberus. Conradus Hcrsbachjus*. Cooradui Laurcnbacl^» vel Lutenbac. Conradus MerchKalinus. Conradus Neander BergenAs. Conradus Porca. Cooradus Ulmerus. Cooradus VVolA. Piacz. Conflancinus de la
Fuontc» Hif|ianus^ Copics
Balrha£ar. Coranos Antoniiis Cyriacus
Spanigcnbergius Ccrtorum Auftorum, Libri
prohibiù. C Aptìccì del Bonajo, Joannit
Bapti-, 1^ Gclliii qiurodia emendatus
noQ prodicrit» C^aucDani Hliafpachii, de Tabemh Montanis»
Chronologia, ex Sacris Litcris. Cyri
Theodori Padfomij. Epigrimnjacav Claudi! EImiiczI) Commen- ) taria, « cbHtinenria, 6c ) Nifi corriin
Epiftolam ad Timm. ) gantur. Cicmenris
Scuberrì» Liber ) de
Scn*puli$Chronologorum») Commcncaria
Rabbi Salomoni?, A Chi» rni) et Rabbini
Hierololyniitani) A nmiiium, fupcr Vecuj
TcfUnjencum, tara fcrrpta Hcbraicè »
qodtn Latiné translata, per Conradum, et
Paulun) Fagiuin Hcreticos. Confilium
Abbaiis Panorraitani proConcilto Bafileenfr.
Con De Subtiliute, ). De ConTolatione* ) Nifi corri-» Coromchtaria in Quadripar- ) gantur» citura Ptolonutijde Cenim*) ri»,& reliqua omnia, qua de Medicina non
tramane. ) CafGani Cotiftancinopolirani,
de Libero arbitrio CollacioilU, quz
Agano^im^prelTa eft» per Joanoero Sicerum 15x8.
Gbriftophori a Caoitc Fonciotoj LibrÀde
oeceflaria correzione, Tbeologic
ScholaQics.. ). Omnloa D$ Mìffs GhriRi
ordine^ ) prohiben^ fi riru. )
tur*. Epitomar nov^ Illuftratio- nis
Chrii^ianff Fidei Reliqua vero ipCus
opera icem pvohLbemur doncc cxpurgcncur.
Chronica T u re ica collega a ).
Phi'i'rpo Lonicero, cni cft )Nificmcnadjcitnni opiu quoddam )
dentur». Joaniris AvemmiHerecici, Ó in quo dcclaramur caufs ) mifcriarqm» Ac. ) ContinoatioTemporum Ger- ) mani aipildam» ab Anno ) Salucisijij. ufqucadAn- ) num 1 y 49. Qu* folce addi ) Chroflico Enfcbii» ab eo >Ninefnciv. loco nbì incipit, Nova ) denrur». Temporiim concimuiio, &c. Chionologit Gerard! Merca- ) coFÌs, qu« a Sleidano, et ) daranatis AuOorlbus fum-pta cR • ) Claudi! Baduclis, Liber de ration( Vice ftudioTx, et Ùterata in Maerknonio collocandz.
expurKntur. Coropxdia, fivc de
Moribus, et Vita VireinumSacrarum,
Gafpare SryWino AuZore •. Iixcertorum Auftorum Ijbri ptohibirì. C Apice Fidei Chriflianx centra Papam, fi
Porcas Infcrorum. Capo Finto. Caronria, A Mercurii Dìalogi. Catalogus Pap*, et Moyfft. Cacalogttt ceRium veritaiis, ex Sandis Patribus.
Catechefis Pueroturo in Fide, Litcris » et Moribus.
Carechifmin Ecclefìat Ai^nroratenfiiCauchiùnus, prò Ecclcfta
VVitebcrgcnfi. Cathcb Ocus, ani
Titnluscft, Cathechifrrus Major, A Minor.
Cathechirmus, cui Titulus. Qjial
manie, ca. Ac. CaihechifnfK), ciod Formulario, per iClniire,
ed ammaeflrare i Fanciulli nella Religione GhrtRiana, farro a modo di Dialogo. Cathcchifmus, five cxplicatio Symboli Apoflolict..
Cethcchirmas parvus, prò Pii»r« m
Scholis, nopcr au£lus.
Cathechiftuus fupcr Evangelium Marci.
Cathechifmus, Óve Symboli cxpofitio.’
Cathcchifmus Tubicenfis. Cauf*,
quarcSynedum indiftam aRoma. no Pont.
Paulo III. rccufarint PrincipeStatus, ACivitates Lnperii» profitentes puram,
ACarholicam doitrinam. Centum
gravamitu, Ac. Cantoni, A C^atuordecim
Sententi* Ptrum, de Officio vcroftim Reélorum
Eccidio Chnflhna inft 1 turia. Chriftianz juveocurìs crcpunJìa*. Chriftùna
R«fponfio MtniArorum Evan gelii Bafilc*: cur MifTani &c., ^^]AIvinianus
Candor^ ChriAiar» Scholx, Epfgrammaram,
Lì> C. Cantica felef^a vcrerìs, Ije novi re
bri duo, variis Poecis, excepii.
Civiraris Madcburgcnfìsipublicario Literarum ad omnes CbriAi
Adc]es,annat;;p« Clavicula
Salomonis» Collacio Oivinorura» et Papalium
canoDum t. CoJleflanea demonArationum
ex Propheiii, AooAotis, fleDoAoribus Eccle»
fìz, quòd Spiricos Sanfhis a foto Patte procedit • Colloquium Coelei « Ac Lutheri • Coiloquium Marpurgenfe. Colloquium VVorinatiz inAiracm», av no 1540.
Comedix fuper qaicAione » qnz cA major confoUtio moriendis Acc. Comedix, ^ Tragedie aliqtiot ex Veteri Teftamento,colIeAore Toanne Oporino. Conuneorarias de Angelo Melanchchonis Commencaria
germanica» in Coroelium Tacirarn. Coromentarius In pcioirm Thìmotzi epiAÓlàa
viro fumniz pietaris confcrrpeus
Concilium Pifanura, quòd ver.iut Con^iliabulum dicendtipi cA. Cc^iliabolumTh^ogicorutn» adverfus bonarum literarum Autliolbs » Acc. Coociones dedecemlprzceptnDominicii. Concordancix Principum,*nationti vel Curtiranorum. Confeffio Ecclefìz Tigurinz. ConÀAio fidei AognAanz. ConfelCo Adei Baronum» Ac Nobilinm» Bohemi*.
ConAAio Saxnnica^ Confrflio
VVitebergenfi*. Coufuuuo
dctenninacionis DofVorum Pafircnfium.confra Martinnm L’trherwm. ConAicurio u;uiv> V vj'’irci
Propol^tio nu:n> de diii'prenru.
Legis»Ac Evangelii. ^ Congregar io, Ave
coUe£iio ioAgnium co^ cordintiarum
B*btix. CoaAglio d.'ajcuni Vefeovi,
congr^aù in Bologna. Contra Regulam VCnoritaruro, Ac ijntverfas peMitionis
fedas. Conta San£h>s
Zcylleyften. Conventos AuguftenAs. Copia 4 'unalectera fcrittaalli
^.diGei^' nare M. D. t. Coptis Chriftianui,. Cordigerx navU conflagratio DiaIogu$ « Cyntbalum Mundi*, rene JU
Aamenti,cum hymni«,&colle^ts»
feu orationibuspurioribiis, qux iti orthodoxa, atqiieeatholica EcdeAa
cantari foienr, addica dirpoAtione, Ac tàmihari expe^tione Chriftophori
Comeri. Carmina» Acepìftol* de coniugio
adl>lvidem Chycrxum hzrericum. Carmina amicorum in honorem nuprìanim. R. et viriute,
dofirinaque Aancis viriSrephani Ifaaci,
verbi divini apud Hcyibcrgenies minìAri.
Cache^cAs do^rinxChriiUatl*, innfum
fcbolarum Pomeranix. CatheebeAs
religionii ChriAi^n* » qux tra bri duo.
) Circnlut chariratif dtvmx, ) Ave (ubatio rìtulo, circu.)NiAexparhi$
divìnitati»., - ) geatur CoiieAio Agnrarumomnium ) facrx Scripturx. Colloquium Altembuigeofe.. Colloqjiium Badenlè. Colloquium Bcrnenfe. Colloquium Clerici» A: Mititisv 1 Colloquinm Htrphordienfe. ' Colloquium lefuiticum. Colloquium Lypfenlè. Cplloqumm Marpnrgenfe*. Colloquium Parificnfc. Colloqtiium PnlB.'Cum. Colloquium Schmaldicum. Colloquium -Witcrbergen/c. Comedia Tragica SiUarmx, quandoque cuir nominc,qtiandoq;etiam Anc nomine Au£)ons
prodiir, urraque prohibetuf ^ Comedix,
Se Tragedix» ex novo, le veteri
Teftamento, imprcAx BaAlex 1 ^40. per
Nicolaum BryUiogenim. C cc Comitia
Spirac» et Vvormati*.. Comencacium
Biblioram. Commencanus captar Urbis
dué^ore Borbonioadexqui/iium niodum
Con^jendiupì ) five Breviariam cextus «
A: gloffaematon > in otenes vccerh Inftrumet^ libros.. Compcndiutn oradoanm. imprcfTum Veneti
>$), per jun£Varo, et alios, docce
czpargattun iuen’c.. Concordia
pia r et unanimi confearu»repecita comeiCo fìdei» 9 e doAriuz eleQorum
Prìncipum, &or«Ìimim Imperli, atque eerundem Thcologomm, Qui Augufianam confciSoocm compie«unrur. ConfclSo Anglicana Confeflìo Antiierpieoiìs
ConfeCào Argentineniìs. ConfclBo
do^Vrinx Saxonicartim Ecclcfiarum» Synodo Trid. oblata« amto Domini 1551 ConicniìoBdei, de EuebariAis
Sacramento, per Miiiìftros Ecclelìx Saxotucx.
Confc&o fvdei Minifirorum VVitebergeiifium. Confeflìo Miniftronim lefu CbriHiConft;ffiopizdOu>rinx,qi7Z
nomincChriflophori Dncis VVirebergenfo, &Tcccniis Comitis &:c. fuit
propoHia.per legato» eius, die 14.
Menfls laauarii, anno ly/a. coogrc^auoni
Conc* Trid. Cpnfcnio rcligionis» feu
fidei ChriAianar facratiffimo
Im()eratori Carolo Qpinco » Cxfari
AuguAoiin Comttiis Auguflar anno Domini ijfo. per iegatoteiviracum Argeiuoratt » ConAancix, I^nmogx - et Lìodagùt >^ib ift».TonumCathechefis^
Ave pnma mflicutio, aut rudimenia
religioni». ChriAianx, KciTraicè, grxcd, latind explicata, Li^duni Batavoium.,
ex nflìctna Plantinia^ na, apud
Francifciim RachclengiumD Avid Geotgius ex Delphis*. David Fettcrus Liptìui, vclPfcffinger. David SchcAcr Dydimus Faventinus^ui eA Melanihchon Dicthclmus Cellarius. DionyHus Melander. Dommicus Caraminiut. Dominicus Melguitius D Aniel Bodembergius
Daniel Hofmanus Daniel Toffaniis David Chytrzus David Parzus. David Stangius David Thoner. David VVetterus. David VVithedus. David VVoitus Doiuttts Gotuirus. Durandus de Baldach Ccrtorum Au£\onim litm prohibìti*. Ami» Monarchia-.. Davidi» Chytrxl,!iberdeiu«orj-. tate* ccrtitudinc ChriAian* Dtv firinx, ac rationc dilccndi Thcolt^iam. Dendetii ErafmiRorcrodamì, Colloquio rum
liber. Moria» Lingua, ChriA^ni Matrimooii inAinuio.dc intcrditto «fu carnium » ejufdcm ParaphrsAs in Matthxum, *1**® a Bernardino Toniitano in
Italicam lii^uaro convcA Cecera vero
Opera ipAus, in quibu» de Religione
naftat .tandiu prohibiw fine, quandi u a
facultatc Thcologica Panficn. fis ve!
LovanicnA» cxpurgaca non nierinr. Adagia
vero ex cditionc, quam molitur Faulus
Manuciu», permittenrur. Interim
vcrò,qu®;ainedita funt,cxpuntìi» loci»(ufpeftis,iudicio alicuiu» facultatisTheologic*
Univerfitati» catholic®, vel
InquiAtionis alicuju» Generalipermiicantur ., Davìd de Porais Hibrci, de
M^ dico Hxbrco enarrarlo Apolt^tica»quamdiucmédaca
non prodierie. Defideriì Erafmì
Rotcrodaim adagia iampridem edita a
Paulo Manutio» pcrmittumur Dialogm Petri
Mochii de cmciatu » exilioque cupidinis. Dialogus Fontani Charon • Pldaci Steli* Commentarla in Evang^ lium Lue*, m'A fuerint fx ìmprelm ab Anno ij8i Puareni, Liber de S* EcclcA»
min^ms pcrmittitur, Atamcncotrcftus
fucrii. Libellm vep6 ei^m adian^us»
ab co for finus £atìu?, cui citulus cft,
Pro libcrtatc Ecclclix Gallicanxadvcrfu» Ro«
maium auUm, dclainoPadneons Curi^t Lodovico Xl.CaJlorurn
Regi»quotvt daiDoblaUi oimuno prohibetur
« Auflorum incerti nqminis, libri prohibiti, D BcIaiatoria Jtibihci. Dcececurn Noribci^ctgeUe » odieuro anno ifajt)cfÌEu\fìo
prò Zvinglio. Peienfìo adverius axioma
catholicum 1 ideft criminatiopem Roberti
Episcopi Abriacon/컫 Piatc^ adverius loiortecn Edo'um. Dialogì de Mercurio, et Charonte. Dialogtts de I>o£lrioa CHriRiana. Dialogus Karftans, et Rcgeilians. Dialogm de mone julii II. Pape, fìve
JoJìuh D ialogm Mumarus Leviathan. Dialo^s obreueonim virorum > ia ^uo rics colloquuntur Tbcologi. Diali^s Orar. Pooeificis Rornam^Rr
illius, qui cRFontiiki a
confaflÌDiubus. Diali^s paradozDs, quo
Romani PoocU^ iicisOratort una coq) eo
qui cft » flte. Difeorfi fbpra lì fioretti di S. Fraqceico. Digrado Badenfis. Di^caxio. ^emenfis. BilputacioCrociiccn. eum diiabuiepiftolii. Bifpucacio inter clericum » Se milicem, Aiper poceftate PoiUcis Eccleftc atqtie Principibus ternrum corpmjflà • alida fomnium viridatii Dirputacio Lypfica- inter
MoKÙinO). » di Hitroaymum Em(etuiD^ Diìordine della Chieia. Diurnale Romanum > ìmpreffiim Eogduni
> in edibus Filibcni RoUeti » de
Bartholomau Frtat. Do£lrÌna
verilStaDa fumpea » a cap. ^ epift- ad
Komaoost ut coufolentur ah fti£)a
conl'ricntix*. Doéìrina vctui, de
nova-. Dragale locorum communiunh Due difpuuc. Herfiordiana: Langi » de Nauclerii •
Due letrere d’im Cortigiano, nelle quali
fi dimoftra, che la me, ec*.. D
e au£^oritace » officio, de potefta. te
Paftorum Écclefiafticocum • Declaratio
i nifi corrigatui^làmo V, De dirciplinit poeronin » re^^ue for. mandts eorum ftudiis, Se morlbus, ac fimul ^ um parencura, quiro pnece^ prorum in eot'dCm, offiao doflomr^ virorum libelli vccò aurei. De Scripeura CinÀe przftancia, dignitate
». au£Voritacc, &c. De Chriftianiftimi Regts periculia, de aocaa
qoadam, ad Sfiindrare, Pontifici» Romani licera» monicorùle»,
Frincofiirci, apudMarcinum
LechJeruro DialeOica Legali», edam ctua
nomino Au£lod». Dialogi lucri, fine nomine i^^orì», qui camen
film Sebaftiani Caftalionishérecici ^
Diljpatatio de fcfto Corpori» CbriiU^
Di^catio de peccato origini»,
pilpucado de poeni». Difpueatio
de i^iniOerio verbi Dolina /efiiiranim precipua capirà, a do£li» quibuTdam. Thcole^s retexta folidisrarionibus, ceftitDonùiqoe Ikcrarurn
Scriptuearuiq, de doé^orum vereri» Ecclcfia confiitata. Tomi tre». AU cera editio priore emendatior, co diapio
major, de fub. ci (dem vel parum
diverfi» tirnlis, doghine ^fuicica, && Tomu» priiDus, Tomus ^undo», ter J^4 ia /(
WfU ù. Eraùsu» Sarecrius. Erafmu» Snepfiu». Eurititts Corda». Eutycbiua Mion, qui de Mofculii». Ccc a A P
E Admiindu» Hilen Hordevolgiusj vel
Nordovolcgius. • • Edmundas Gdl
Anglus. l;dmut>dut Criiidìitts Anglus.
EJmundus BunnìQs. iUgidtus Huntiius. Eichanon Pragenfts. Elias Palmgenim. Enochus Sar^cenos Gencvcnfis. Efartmis A!bcnn • Erafttis Thomas. ErhardiK Schnepfnn. Kmefhis Vogciin. Efaias HcinJfihich. Eufcbcus C!eU;rin. Ccrtprum. Auifìorum, Libri prohibiti Lereenta magica Petri de
Abano. Enchiridioo doCtrinrChri- ) • Ibnx ConciiiiColoitieniis.) Enchirrdion loilitis Chriilianxi) aiiflore Ioanne lufto Lanfper>) purgengioifcu
Hne nomine auflorìs,) tur. iinpre/bm
Comphiu. ) Epitome omniutn opcrnm D.
Aurclii I AugulUni • per loannem
Pifeatortm » jllx (|iie itnpreft« fune
per loannem Crirpmunti. »i Euicbii Candidi, ptaefus Lu£kiflcx
mortis. Examen ordinandorum lounnis Feri
» . oili Ht ex impreffis ab. anno
1987. Auftorum incerti nomlnis, libri prohibiti.. Lcmenra Chrìiliana, ad inAititcndos pucros.
Enarraiiones Epiflo!arufn)& Evangcliormn • Enchiridion CriAianirmi. Enchiridion piarum prccaeìoitaro. * y Epigrammatum ChriArana (e^x » (ibii duo^x varìisChriAianis Poecis dccci^nrff EpìAola Apoloccrica ad ftneerioresChriAiaiu'rmi
k^atores,pcr PhrjAam 0 riencaicm, &c.
EpiAola ChriAiaru» de Cona Domini.
EpiAoIa dircela ad Paupcrem, Se Mendicam Ecclenam Lucheranam. ' EpìAola de non A^«oAoloci» qiiorundam moribus, qui in ApoAoloruin fe, Sic, Spinola de XlagiAris Lovanienilbus. EpiAo?^ MinìAri cu)ufdam Verbi Dei»ds EcclcAx clavibuS} SacrametKÌs, vcraque
MiniArorum Spirims clc£Iiooe. Epiftelz
piz> et ChriAianz. EpiltoUi et Przfatio
in Decalogura. EpìAola SanOo Ulrico
adferipea in EpiAolam ad Thimothzuin Commentaria. Epitome Belli PapiAarum contraGermoniam,
atquc Patriam ipfam» Czfare Carolo Qiiimo Duce. Epitome Dccem Przcepromm, pront qitcmqucChriAianumcognoicere decec. Epitome EcclcAz rcnovarz. Epitome RefponAonis ad Martinum Lorhcnim. Efdrz lamcntariones Petri. Eipofìzìone dell'Orazione del Signore in volgare » compoAa per un Pa^ s non nominato.
Evangciicz Conciones. Evangelium
ztcrnum Evangclium Pafalli. Exameron
Dei opus^ Expofìtio Sympoli ApoAolorum
t Orationis Dominicz, et Przeeptorum» E Legìz aliquocs de morte Conjugis, Si libcrorum» quz fune loahnisPiAorii
Hzretici. Eqchiridion Man gale s Romz
exciiAum » apud Thomam Membronium ( ut
qui• dem apparet in Fixmtifpitio ) tic vero
in calce legirnry Trccis» nbì cimi libnrm excuoerat Francifciis TrumcAii.
Enchiridion parvi Catcchifmi,
Ioannis Brentii. > in Colloquia
rcda£Iuin. Enchiridion aliiid} piarum
przeationum, cum Kalendario, et Paflìonali
( ut vocattir ) VVircrbcrgz, apud loannem
LuA. anno trip. Eyichiridion
Principis, A MagiAratus ChriAtanì, quod
referrur ad Pctrum Egidium» Sl Comelium
Scribonìum. Epigrammatum Flores, nifi
corrigantur. EipiAoIa confolaroria ad
Reverc'ndos Se graviffitnos
Thcologos. EpiAola LiKÌfcri ad malos
Principe», CbHAianns, > • BpiAokc cpnfolatoriz, collcfìz per Cyrlacum
Spangcnbetgium. EpiAolz Obfcurorom
Virornm. Epitome Chronicorum,. et HiAoriarum Mundi, Velftt Index primz, et fecimdz
impreflìonis, in quo fimt impref• fz, atque figiìratz Imperatorun^ Ìm«gincs. Epitome Figvrarum Sacrz Scripmrz. Epiiomatz HiAoriz de Bello Religionis Epitome
Hiilorànim Sacrarum, et lo* Frìderìcus a Than.
corum communium. Fridolinus Broiubach* t Ethiex ChriAianx Libri cres > .in ^ui-
Fridolinus Lindovems. biis &c. Evangelium Lzcum, Regni Nundum» Excerpta quzdam capita ex Scrrpturis) omnibus lidelibus neccffaria. Exempla Virmeum. Vicionim. Excmplarium Sanf^x Fidxi Cacholicx» quocunque idiomare> impTetTum. Excmplonim variortnn liber» dcApoAoiis, et Marryribus»
Hve feorrum » fìve conjundtus catalogo.
S. Hieroayim de EcclefiafticM
^riptoribta • Bxcrciratìo Vitx
Spirhualis .) Explicacio Symboii pcrDia*
Ic^os. ) Explicatio Primi.Tcrtii.Qoar-
tii j^Q^iinti cap.A^. Aj-oft. ) Sine noExpofìtio SccunJx EpiilolXy) mine au*D.
Ferri» 5c ludz. ), £^oram»&:
Expo/ìiio nominUIefatiinta) quocummentem Hcbrzornm,Caba>) quc ìdioli(Urum»Grzcorumi
ChaU) mare inadzorum, Perfarum, et La-) prcffatinorum ^ ). Expo/ìtio fuper Cantica Can- ) ticoruin ^lomonis. ), tm •Expofitio in
Epifìolas» Paoli ad RomaDOS, et ad Galatas» cujus Przfatioirl Epiftolani adRomanoi incipit; Variai narrationei » 6(C. Et in expoikiooe prU mi Cap. ad Rocnanos» cuhM inicium cft. Qnum ficatus ApoRoles Romanis fcm>crc
inAituiffet» Sic. 4aoT^>- ' i F
.Abricius Opiro VVOIf^ngus: 'Fabritius Montanus. Felle lanus de Civitclla. Felix Mallcolus Tigurinus. Felix Manfius. Firmianus Clorus, qxi et Viretiis.» Francifeus Betttts. ' XJ Francircus Burgardi. Francifeus Cotta. LembiBgiBs*^ Francilcus
Enzinas. • T Fraiicilcus Kolbius. f -
i-qlw Fiancifcus Lambertus» Francifeus Lamperti • Francifeus Lifmaniniis. : -O
- % Francìieps Niger
Baitanenfis. FrancHl^ Portiis Grxclti»
' Francifcib Stancarus. Fridcricus^a^irtheim. Fridericus
Fridericus Mycoiriw» F AuAtn
Souinust Filli Pal}or io AuAria. Fiiis PaAor HtlberAadknAs» vet HalberAatcnfis. Forrunanis Creliius* 1 Francifei Zabarcllz. Liber de SchiTmate )
ai^» cjmtd^ P»£auQoei» '
Aigennrnrdfripvefie.'donecexpurgeaciir. Friderici FruoAì tra£Vatns de Orattooc, de
juAincacione, de Fide, Se Openbtu* Se prefatioin EpiAolao) S&oiOi Paiiii adRomanos,qui umen falsò creditur adferiptu». 1 Friderici
Furi! CcriuUni Valentia! &>nonia; ftve de libris facris» in verna*k Tcniam Unguam convcrccndis. a 1 ... 1 ..L-ysril. J rA« r
. /Ótiv''- '••r' 1 xÌìjM F
Abricii» Liber o^aoBs £piftolftiBmad Fridericom Naufeam» qui cA Roberti a MofliaWv t Farrago Poemacum, LeodegariiaQuercu. Fiorei IQRoriarum» per Ma^•0 monia mondi t et Problema- ) ta Sacrar Scrìptiuar « Fr^ncifei Gicciardini, Hiftorta ) larinè recita per Coeliìim ) dooec iècundum Curiooero* > expar Franciki
Irenici* Endingiacen- ) gcntufCs Gcmnanjar. Exqgereos* vo*lamina duodecim.
) Francifei Polvngrani aftrtio. ) nes quonujurs Ecdrlìae dog- matum. X francifei Patritii Nova de Vniverfi» phi*
]o(bphia*nifì fueric ab Au^Iore correÙXt 9t Rema cum approbaciòne R« Sacri PaUcii
Auftoium incerti nominis, Libri
ptohibiti F ^mgo C^cordantiamm inngbiaiQ;.
(o^iut. Biblia • Faìctcttlt»
RerufD.expetcndaniiQ*^^
iugiendamm-. Forma delle
Orazioni Ecclefoftiche .. ed il traodo
di ammiiiiflrare i Sacrameocic di celebrare il Santo MatrimonioÀu£Ior credkuz
efle Calvinm. Francilci No^nu.
apparicio» Fandamóncuni malòruiBi de
booomm o>. pcrum. F .KrcìaiUw Mirra, Ccnevx imprei^. fu». Pidei.l^l^ftianz c^icF* conerapa^ F^S» i^rvi fubiiw inKyefr ren^ponfo, una curo crroruin et eahtmniaruin .. Flore» epigramma-) turo* Flore» Romani ) Flores San£bocum..).ubieanq>*& ^aacwnÉkVe»
VinunvD. ) qne lingua imprelG» Foni
Vit*. > donec coKigantur. Formala
MifTx Unitebergenfis. Formule Precaro
*. feo agenda * aat Of. fteia
Hanecieomm* Olona » ^uacanqitc ; lingua
confcripea .G Alalitts Zwmglit * defenfor » vcl
Nicolaos Galalìus * Olivini defenfor.
Gafpar Brurchias Egranua Carpar Charreras. Gafpar Cruciger. Galjpar Grctteris. Galrar Hedio Galpar Heldelinus. Gaf^r Kubertinus. Gafpar Megander TigurillDS^ Gafpar
Rodulphìus. Gafpar Swcacfcldius « Geòrgia» £milius MansfeIdeoNotgreiui»v Gorcìniamit Gregoan» Brnck Gregorìu» Cafelius*. Gregofius Giraldo»* 2{an ìilc
Ptrrsntff^ ^ dlcìUIT LÌfÌHS. Grinsn» Sinv^. Gualieriu» Tignino» Gulieloui» AurifcxGuliclmo»
Guaphxu» Hagien-, Gulìelmu»
Pofttllu»»Barenrorio$-. Giilic'mu»
Sartori». Guliclmu» Tayloii», Angla»., Gu'Krou» Tin^lus. Aa
G Afpir Adeler.. Ga^r
Braummilkr-. Gal^r Elogia». Ga^r Eurioacbea *. vel Eurymschnra^. Garoar Faber. Olroir Gooderoan.^ Garoar Canea. Gi^r Gómbe^ias. Galpar M^cer* vel Micras.. GalMi MetUlnder. Gawt Morthvru» SemansildenB» ^ Oal^K Olevianu». Gafpar Peucerus Budifiìniu. Gafpar Scolihagios Gafpar Taoberu» Gcorgtus
Autumnu». Gcorgius Blaruirara* vel
Blao^acrajGeorgius Brin fìve Novipiagijs ^
Germanus Peyer. Gothardus, qui
et Cpnradtv Gregorius Paoli. Cr^orms
Pcrlidus LubcqepTis» Gregorius
Voerier. Gulicimus Barloupe. 1 Guliclmus Bidembachius., Gulielmus Charcus.. Cutielmus Cpius Gulielmus Fuhureìus» vef
Paquerius • Gulielmus Fulcus. Guliclmus Htcron. Guliclmus BÒdigiius yaiTw* -Guliclmus
Sarccrius» Gulielmus Turacrus. t
Gulielmus Tumerus*, ^ Gulielmus Vdalus.,.
’ Gulielmus VvitakeAs. ^ 4 Culiclnius Vvidephus Gulielmus Vvirte» Gidielmui YvictinganDua.. Gulicltous Kilandcr. . •. t..,. ..H, :. Certorum Auflorum, Libri prohibici. G Aufridi de Monte cicalo, Ti*Oa« rus fupea materia Coocilii Balilcenf)s« Georgi CafTandri» Hymni EccIefialUci. Gracia Dei de Monte Satino, Epiilolc pix, Se Chrillian*. Gripbit Pr^cationes Dominici. Gutielmi Occhamit^snonagintadierum. Icem Dial(^i • et Icripia omnia, coocra Joannem Vigcftmum iecundum. G Afparis
Caballini Tra é\atuscommercioniro,
) &ufuraru I reddituum- ) que pecunia conftiimomm, j Se monetarum. E;ofdcm traftatus deeoqoad ) nifi ctnciiintereft.
Etdedividuo» Se ) decur. individuo ; qua
onenes font ) ' Caroli Molinai morato
) tantum aufìoris nomipe. ), { Gaijparii Scibitni Corqpadia. •• i, i Caudentii Mrrulc, MemorabiUm» lij^s nifi emeodetur# ^ Georgi! Nicrini Concioocs. j Georgii Viaorii Poemau. Gulieìmi Grattarolc opeaa 1 quasidiu mendaca non prodierint. . i l't Auftorum incerti nominis, Libri prohibiti. G Eographia UmVef/àlii. Gerreanicae Nationii Lamenti^tù^ fws,
Giuditio (opra le Lettere di tredici Uo,
mini ftampate il qual fi cooofee
eficr del Vergerio G Hnefis cum Catholica expofitiooe . Ecclefiafiica. Geofnaneic libri omnes • Gefta Komanorum. GloiTa Ordinaria Genevenfis « Gioite ordìnariz rpccirneo.. Craiianus Anrijefoita, ìdefi cai^num ei feripeis Au£lorum Theologonun, a Gradano in ilfod volumcn ( quod Docrenim
af^llatur) collcflorum, &doftrin* /cmitiec ex .vadis.. iftius nuper fefì*
MaKologdmiQ fcriptii -fxo^ pw * collacie
I 4 quodato vericatii ;tEofo inftituta,
Se ounc priiman m l^eip edita Trancifci
Gcoi^ii Vcacti,Har- monia oiundti et Probicma- ) ta Sacre Scriptarx. Francifei Gicciardint, Hiftorìa htinè réddita per Coelium ) dooec fecundum Cortonem. > expar } gcntuf(n
Germantz, Ex^efeos* vo-) hiiDÌna
duodecim» ) Franeifci PoJvngrani
afRrrdo» ) oe$ macum. Francifei
Patritii Nova de Vniverfi»phi' lorophia, nifi fueric ab Auflore corredi, Se
Rems cum approbacione R« Magiari Sacri
Palatii imprefla. Auftorum incerti
nominis, Ubii pfghibin Arrago
OM^dantiamm inng&iaiB; todus.
Bibliz. Fakic^iK Reru{D
eKpetcndanmi>a( fugiendanim.. Forma delle Orazioni RceUfoRiehe ..ed il modo di ammjniftrare i Sacramentie; di
celebrare il Santo Matrimoi^'o *, Àu^Ior
creditus eflè Calvioos. Franci/ci
Noibima tpparitio. Fondamencure
maloruis* et bonoEum o«. pcrum. ’ A.PPENDIX. Afcieuliia Mirre, Gene^ imprtft. fus. Fidei/^^Uanz capita-, coovaPa F^dSit fervi
fubdito infidcli mnfpónÉó una CIMO
erronun &calumDÌar«Dnjuaaundam examine, cjuz conrinentur. in feptera libris, de vifìbiti EccleTix Monarchia,
a. Nicolio> Sandero conferìpta>«.
Flore» Epigramma-) tnm. ) Flores Romani ) Flores San£kotucn. }-ubi donco corrìgantur. Fonnyla Miflie Unhebergcnfis. FormulK Precnm %. fen agenda, aat («» ^ dicitur tUiusCnnxu» Simot}. Guaherius Tigminus» Culielnuis Aurifex. Gultelmos Ouaphea» HagienGolielmus
PoftelUis,Bareotoria»^ Galic^mus
Sartori». Gulichno» Taylous,
Anglus.. Goliemu» Tinoalus G .Afpar
Adeler. Ga^r Braammiller*. Galpar Elogio». Gaipar EuriouclKa i. vcl Euryoachxra... Ga(^ Faber.
Gal^r GondelBaa^. Ga^r
Ganez. Ga^r GòmbtrgittsGalpar Màccr,
vcl Macrus.. Gafpac Melilander. Gamac MottKzru» ScmaJkaldenfi» ^ Gal^c Olevianus. Gafpar Peucerus Budi/Bnus. Gafpar Siolshagius Gafpar Taoberos Gcorgfus
Aurumnus. Gcorgiin Blandran, ve!
BJaotUtrai. Gcorgìiu Brinderus. Gcorgius Bochanani^s Scotus Ctorgitis
Ca(fander Bru§enn$f fìve Veranius UodeAus Pacitnomaout. Gcorgius Codonigs. Gcorgiuf CooftantÌDUs Aoglus. Gcorgius David. Gcorgius Dieterichus. Gcorgius EboufT Gcorgius Eckarc. Georgius Edclmai\n Gcorgius Fladorius. Qcofgius Grynaut Bo 4 icetius Gcorgius
Hanfcldt. Gcorgius Hcnninges. Gcorgius Toye ^diòrdicons Gcorgius
Kupelich. Gcorgius Lyàeoiua Gcorgius Mcckart, Gcorgius Mylius. Gcorgius Niger. Gcorgius Nigrtnus. Gcorgius Princeps Aiultioos. Gcorgius Raudat • Gcorgius Schmàlczing « Gcorgius Scholrz. Gcorgius Shoo. Gcorgius Silbcrfchalg. Gcorgius Sohnius. Gcorgius Spintleru). Gcorgius Tilenus. Gcorgius Vvatihenu. Gcrardus Ncomagus « live NovimagHt s Gcrroanus Peyer. Gothardust qui et Cptiradoi. Gregorius Pauli. Cx^oritts PcrUrius LubeqciiBsGregorius
Voerfer. Culicimns Barloupe. Gulicloius Bidcmbachius Guliclmus
Charcus. Culielpius CqIus. Guliclmus Fuhurcius» vcl' FuqueriuiGuliclmus
fukus.. j Guliclmus Hìcron. ^ ' Guliclmus Bódiigmts |lafini. Guliclmus Sarccrins. Guiielmus Turaems. T T Gulieitnm Tumerus* ; GiiUclmus Vdalus. Gulicloius VvùakcAs. ^. -! Guiielmus Vvidephus Guliclmus Vvitre. Gidieimm Vvirringamus» Gulielmtis Kilandcr. ' t .
I. '.’H. Certorum Auflorum, Libri prohibiti. G Aufridi de Monte cleflo t TnlOacus fupsi
saarcria Concilii BafiIccnHc • Georgi
CaiTandri, Hymni Eccleftaftici. Gratia Dei de Monte San£ko, EpiftolpiaCt ^
Chrillianx. Gripbii Prfcationes
Dominica. Gulielmi Occhimi 8c (cripta omnia, coiKra Joannem Vigeiimum Cccuodum G Afparis
Caballini Tractatus commerciomm, &ufurarù, reddituum- ) que pecunia conftieuionun, et monctarum.
) BiuTdem traf^atus deeoqnod > niii
ciixih incercA. Etdedividuo, et ) dotar
• individuo i qua orsnes Àiot } Caroli Molinzi mutato ) tantum au£lorisnon)io«. J { Gafpatis Stiblini Coropaedia. 1. ! Caudeniii Mcfultr» McmorabilioiD
lihó>s nifi emenderur.. ^ Ceorgii Nigrini Conciqnea, ..a Georgii Vi^orii Poeinata. Gulielmi Grattarolc opeaa quamdiu emendaca
non prodierinc- ;; -t .0:,' ‘d Au£Vorum incerti nominis, Libri prohjbiti. ' Eographia Univetralis. Germanicx Nacionii Lamentaciqs ncs • .,
Giuditio (opra le Lettere di tredici Uor
mini Aampace l’anno M- D. L. V. il
qual fi conofee cfTcr del Vergerio G Enefis cnm Catholica eapofitiooc . EcclcfiaAica. Geopiantia libri omnes GcAa Romanorum. GloiTa Ordinaria Geneyenfis. ^ Gioita ordinaria (pccimea. Cratianus AnriJeliiica, tdefi canonum ei Ccriptis Au^orum Thcologorum, a Graciano in illud volumcn (quodD^cretuffl
appcllatur) co1lc£k)rum, et dottrina Jelmtica ex .vaxiis/ iAius nuper fe£ù
Ma^logòmm rcripciifKc^ pta, coUatio, a
quodam veritatft^. «boto inAituta et muw pnimiin Tb bice^ edita. H H Adrumu Junius. Harrminnas Beyer >. ^ HarcmAimas PaUcinus h C. Hebcrns.
Hedio Cafpar. Heitas» vel Helin*
Eobanas Heflns., Helìas Pandochcus» Henricin
Lapulu». Henricus Pancatcon. Henricus Scoms. Henricns Srollit». Henricus Surphanus. Henricus Vvelf^ii» Lingcn«, Henricus Uringenis. Hermanus Bodiiit.
Herroanus Bonnus. Hermamu
Burchiut Pa^hilm*^ Hermanus Heflùs Hermanus Itali». Hermanus Kìdvuch. Hcrmama Luiciis. ^ Hetxenis.
Hicrooymus Baflanns. Gicroi\^^s
Cam PHaurio)*, Kieronyraus Galatharus .,
Hieionymus'Kiuf(hcrv ' Hieronymus
Mar*u»: Hleron^jus Maiurius* % Hicronymus de Praga, i\ J Hicronymos Sabir de $ai\flo Gallp,, Hieronymu} Savonen. Hieronjmius Schiurptf. ‘ Hitronjmius Vicellerms Friburgeii.. Hieronymus Viiolphigs» Hiob Gaft. ' A Hippinus.
Hortenfis Tranquiftos, aliis Hicremias^. aliis Landus.,, Hugo Latimcrus. Hudricus Bnchau/lius. HulJrici» Htmenoi, five de Uttcn.. ' Hnldricns Mutins Hiiguraldus.. Huldricus Zvvingiltis Toggius H Mlerus
Barcholdiis. Hamefus Godoffredos. Harrmannus Scopenis, Novofefenfis. ^pricus. Hclias Ho^en9 Helias Palingcnius Helìas
Scadzus. Hetningius NicohttS4 Henricus Boethios Henricus Brinkelous » ^
eiUtt fiorar Ab nmiiu BfldtrUi
Morfii» Henricus Ètfbrhen» vcl ESordenHenricus
Enberg. Henrù;us Harcopcnt. Henricus Hufanus. Henricus Mylius.^ Henricus Modec Henricus Mollerov, Henricus Nicolata, five ìibri mrat n- fitfutlHenricus Petreus^ Henricus Rhodut, vel Rodnu Henricus
Senenlìs. Henricus Stbenius Mimderpi
Henricus Scephanos. Henricus Tbylo. Henricus Tbolofanus .. Menricus VVolphins. Hermanus Pigofus Hemunns Hamehnannus,. Hermanus Pacilkus. • Hieremias BaiUi^ius. Uierooymus Hambol^us, vel Hauboldus Ratisbonenfis. Ijieronyinus Hennit^s*^ Hieronymus Maocelius. Hieronymus Panchus. Hieronymus PcrUhrìss. Hieronymus Pumekius. Hieronymus Valler. Hicronymu» Vchus Hieronymus Vuatenis. Hieronymus VuihlcmbergiusAurimÓtanDs, Hieronymus Zanchius vel Pancus.. Himmanucl TremcMus. Hovardps.
Hugo Hugaldus. Hugo Sureaov
cognomine Rodere.. Ccrtorum
Auftorum, Libn ptobibiti. H Enrìci Bebcblii JuRiagen/ts, Facc« liz, ioRicucìo pucrorum, (cium« phus Vcncris. Hlcronymi Gebiulcri, liberdefacrilcgio4 item exhortacio ad lacram Comma» nionem. * ' Hicrooymi Melfi Pifcn r fi i s, Proverbia^ et Prognoliica. ’ Hicronymi Savonarola Fcrraricnih Sermones,
qui olim in Romano Indice prohibiti mere,
noo leganmr* donec iuitu ;uxra cenTuraf
Tacrum Dcpiicacorum cmencUri prcJcanr,
et funr hi. In cxodum fermo primuj tncipicns Dornine (]uid mu1tip(icati, &c. Ircm S
•u’s Chriftìani. Ha-iriau'
l>am nacGandavcnl^s liber iftfcripms
Imnerii ac Sacerdoeii ornacus. DiverCaram itemgentiuin peculiaris veftitus,
cure Commcncarìolo Cocfanim, Pontifìcum,
ac Sacerdotum. Henrici Decimarons
Gifiìiomenns, fylva voeabuforum, A phralìum, cum folucx, rum ligai« oracionis, dee. t)i rum, permittìcur. Henrici Harphii Theologia millica, nifi repurcata fuerìc ad exemplar illius, quz mie impretfa Romx anno Domini Hieronymi
Serrz Lutheranorum Se£lz in
fcrvumarbirrium liber, nifi prius,
corrigacur, 1 Hiftoriz
Magdeburgicz '^ab lllyrico, et complicibus coaccrvatz. Hifiona de Schifmare Theodorici Nemienfis. Huldarìco Epifeopo Anguftano epifiola adfirripta, adverfu^ Nicolaum Papam. Hyporypofeon Martini Martinet Canupecrenfis
liber, nifi fucrint ex impreffis Auflorum, incetti nominis, Libri prohibiti. Enfici Quarti Ofaris vitaHifioriade
Germanoniro orìgine. Hilloriadc iis
quzjnanni HuÌT.in in Conftanricnii
Concilio everte ntnt. HiAoria demone
Joannis Daaii Hifpani » quem fratcr ejus
germanus incer;ccic H iEbrea,Chaldzai 8c Latina i-'terprecario Bibliornm, cum
Indice Robenì Stephaui « Hetvecìz graculatioad Gal'iam, dcHenricohujui
noiDÌnis Orario Galluruaa, et Navarrz
Rege. Hcidelbergeiifis jTheologia, de
Cotoa Domìni • Hilloriarum, 8c Chroniconim Epitome, velut ludex ufque ad annum {4. Hilloriarum > et Chronìcorum cocius, mundi,
Epitome, imprelT. Bafilcz. HìAoria
Belgica HiAoria Cermaniz, Fran- I
cofurti edita 1584. ) donec ex Hilloria Graciz, nuper odi- ) purgeoturta.
) HIAoria Scotorum, nuper ) edita. )
Hiftoria HulCtarum. ) HiAoria
vera, de rebus Martini Buceri, PauH
Fagli A Chatcrinz Vermilyz, Petti Mar(iri>Uxorì$, vcl rubaliotitulo Hidoria de vira, obicu, et icpulrura, &c. Martini Buceri, A Paul! Fagli, qua intra annos duodccim tn Angliz Regno accidie. Ddd Hortulus aniipi, ni/i corrigamr. Hortnhis Pa/Eonii in ara Aitarti fiori dus. loanncs
Coman«fcr» Ioanncs Colmius. Hjrdroniinti* artis. Opera omnia J Acoou!
Bcdrotuj, Pludcntinusla^bui a Burgundia, Hit
Acropolica loanncs Hcrvagius.
loanncs HefFus. loanncs
Homburgius. loanncs Hopcrus,
Anghis. loanncs Holpinianas, Sceinamis
loanncs Hofl. loanncs Huichinus. loanncs HulT. loanncs Huflcrus. loanncs HuccìcHìuSé loanncs de Indagine» 7^"« ioannes ZuicKius. ' lobGeft. 3 : Joannes Avicioi lodocbot Coch, fivc Cocusj mi et /«k J vel
Co» CUI. luftus MenioS} Kènacen» Acobus Acoocius. lacobus Anetius» vel Aenetios. lacobus Andre». lacobus Andreas ShihìdellinoS} vel lacobus
Shmìddiinuse lacobus Arrifonlacobus*
Brocardus. lacobus BninicenCs. lacobus Cornerns. lacobus Eifcmbcrglacobus Frindaogus. lacobus Grynsus. lacobus Heerbrandus. lacobus lufti.
lacobus Kiincndociusolacobus Koich. lacobus Linfìor. lacobus LachKem. - lacobus Palieologiis. lacobus Pcregrinus. lacobus Ruogius. . lacobus Scoppenis. j lacobus Sobius. lercmias Piflorius. lercmias Horabergcrlui I loanncs Acrocianus. ” Ioannes Avenarius, vel Habermarm. i Ioannes Avicinius^ loduchus, yvUlichiut. lonai, qui. ^/Jpdochu^Coojs^ lonat Philologtti. Tm» li
Ioannes Belizìus • Ioannes
Bocenis, Li^ccnfìs. Ioannes BortAyus. loaooes Bradibrdui. Digitized by Google 39 Ulajcnis. loanncs Crifpinus. loanncs Cronerus, vd Crumerm^ loanncs Cimo. loanncs Darriiis. * loanncs DauTus, vd
Douiar Ioannes Fcidc. Ioannes Fcrinarius^ loanncs Filpotus. loanncs Gallits «• loanncs Garczus.^ Joanucs Gamcrìus» loanncs Gcorgius CodelmaniA •• loanncs Griffin. loanncs Gtilicimus Soickiosf Tigutinus.loanncs
Harrungus. loanncs Hctlcricus. loanncs Hedierus. loanncs Hcidcnreich. Ioannes Hcrzbcrg., loanncs Hugo. loanncs lac^us Gryn«|U. Ioannes lederusi Scaphufiinus# loanncs Irenxus. ioannes Index. Ioannes Ivellust Angltis^ Joannes Kenerus tamdiu prohibira iìnr » quamdiu ab alicuius Untvxrfìcatis
catholtoE facaltatc Theolc^ìca» vel ju
infetìptas Imperatonim • tc CTfantm vita,
cum imaginibus ad vivam effigìem exprefn$y
donec corrigatur. Ioannis Fabriciì
Montani» Pocmacom ber» Ioannis Cerrophìi > Recriminacio adverfus
Eduardum Lzum Ai)gium. ^ Ioannis
Lubicenits » de Antichrifti adventu » et de Media lud^onrm. - ^ Ioannis Pici Carthadenfìs > Para|dirafes
» et Annotatioocs in Pfalmos» Ioannis Reuchlini» rpeculum oculare »
de verbo mirifico» ars Cabalidica» Ioannis Soccri liber » iive epigrammata
» ex variis auAoribus collcaa v Ioannis Surei » de rerribili excidio Hierofolyrnirarum.
Ioannis Vnnfchelbui^enl>s > de fìgnis et miracttlis falfìs » et de fupcrftionibus. lalianiCoIen»
de cercirodine grati» Dei» et làlucis
Dodr» craélaius» J Acobi a Burgnndia
> Apologia ad Carolum Cxiarem. lacobi Scbecii liber» de una perfona^ Se duabus naenris in Chrifto • lannoccius de Mannectis Florencinos d^ digoicace, et cxcellencia hominis, doneC
emendemr. Ioachimus fuper citulum iT.
de ;are;urande. Ioannis Baptid»
Folengii CommencarU fuper Epidolas
Canonicas San£fi Pem> Se San^i lacobi, Se fuper primaiq Epiftolam Sanali Ioannis. Ioannis Bodini Andegavenfìs » Demonomauia
omnit» prohibetur, Liber vero de Uvfntblica, A: Methodus ad fecileni
liiftoriarum cc^nirionern, randiu
prohibita finr, qnoufiijuc ab Anafore
exporgata, cum appiobatione Magiflri
Sacri Palatii piodicn'nt.
Ioannis Cafì Splixra Civita- )
tis, hoc elt Rctpubltc» ) rciVc T
ac pie fccundu-u ) Icgcs adminidntnd»
ratio- ) Ioannis Corafìi 'liber, de )
donec emennniverfa brardotum ma- ) dentar,
teria. ; i--. ) Ioannis Drudi
opera. ) Ioannis Feri opera omnia.
) Excipittnmr tancn, cjufileii)
Feri, Annotationes » Se Coromentaria in
S. Macih»i, Se S* Ioannis Evaiuclia, ac in ejufdem S. Ioannis Epimlain primam, Rom» recognica, et iropreda. loanni Fifeherìo liber (liso adferiptus, de fiducia I Se mifericorJia Dei. Ioannis Forfleri, Difiiona-) rmm hxbraìcum. ) Ioannis Lalamancii Medici,) exrerarum fere omoiom, ) Se przeipuarnm gcntinm») nifi corrianni
rario, de cum Ro* > gantur. mano
collatio. Ioannis Mahufii
Aldemadenn.) Epitome annocationam E-
) rafmi in novum teflamen- ) cum. )
Ioannis Mattkci Tofeani » Pfalmi Davidis. Ioannis Mevìxatit Afteofìs. I. C* Silva nuptialis, donec emendecur, Ioannis Pauli Donati libeOus de refervacione
cafuum. Ioannis Peregrini Pcrroreilani,
liber convivilium iennonum ., Ioannis
de Roa, de Avila, Apologia de iuribas
principalibus, defendeous, et raoderandis jnhè. Ioannis Rutbeni, r^l» lo-) coronsioomiinimum utriuf^i) leflanenti. } Ioannis ScapuI» » Lexicon ) nifi corriGrxcolatinum.
) gantor. Ioannis Scbenekdevuini
fuper) Inftit* Commentaria, feu) annotationes.
) Ioannis Wierii Medici, libri
qutnque de przfiigiìs damonuro,
incancationibus, Se vencficiis. lulii
Cafaris Scaligeri >Coin- ) mentarii
in Theophrafhim,) donec e--' et Poemaca. > roendétur. lofeph Scaligeri liber de e-) mendatiooe cemporuro. ) luliani Tabaocii de quadrimlici Monarchia. Inlii Ccifiì (Xrj/iV) vera»
Chrifiùmaque Philofophia comprobatoris »
a^oe emuli, quinq; Antichrìfii do^rinamfe^uirar per contenrionena, compari,
uocemqoe deferiptio. Incer Librorum Incertomm
Auftorum, Ubri prohibiu I Mperatorumi 8c CxtaruiQ- vit». Jndru^io vi/ìutiofiis Sayonicz. Intcrpreurio oomiuam Cbaldxomm. lorrodu^io pucrorum, lulii» Dùlogus, aliis AqU. Jnc?rtorum Auflorum, ^^brl prohibiù. K Alcndaria omnia ab hxreticìs. con» fleéU, io quibus aomioa hxrctico^ rum poountur.
I Magitiet CDortis > cum
roedkìM ini« IT)X. Index biblicMom imprefi» Colonie, icv edibcu Qgenteliaais « Index re rum omnium» qnz in novp« ac veccri ccftarDcnco habetunr locupleti!fimus»
no» cum hebrxorum» duldeo turni, ac
loUDoruizi nominom incerprclatiottCì &c. Vencuis ad figoom fpei. Index utriufque ceftamenti * penè
fimilis Indici Bibiiomm Roberti
Scephani. InAinici.ones Graromatke >
et aliarono Artium, niil repu^nens
» Infticncio Principù. loAiturio religionis ChriRiancj
impreilà Vvitebergz» an. InAruflio, qua vitam zcemaHi obeinebU mu|.
Introducilo admirabilium antiqua > 9c
moderna • feu Apologia iicla prò Herodotoi anno ludicium t et Cenfura Eedefianun pti»rum »
de dogmatc » in quibuldam Provjneiis Septentrionalibus» coopta taodam. Trinitaictu.. Pomeranus*. Leo ludai Leooandus Culman Leonardus
Fuchfius. Leonardus lacobuti
Norchu!iaout Leonardo» Srrobin. Leopoldo» Dickius» Lolla rdus.
Luca» Lofllu» Luca» Chrotek »
feu Schrotcyfen * Rtibeaqueniì». Lucim
HaCIeneusi vel Hedcctus Lucius Pifxus. Ludovico»» ab EbcrAain*; t Ludovico» HcAzer « Lutheru».
Lyfmaninus. L Ambertu» Daoxus%
Laooicu» AnxiAurmiu» oeck. a
Sturine^ Laurentius Codmann Laurentius Ludovico» > LeobocgcAn$ Leonardus PelUcanus» RubeaqutnA$A Leonardus Schveiglinus.. Leonardus Stockclius. LcfOnardus VVannundus», Leonardus Werner. Lucas BackmeiAents* LuneburgeunsLuca»
Mainus. Luca» Ofiander. Lucas Steenbcr^i;) Moraws*. Ludo
I Ludovicm BcrqQtnQS. Ludovicus Evans. Ludovictis Helmboldus. Ludovicus LevachcniS} vd LavatcriusLudovicus
Kabus. Ludovicus Villebois. Certcum Au£lorum, Libri prohibiti. Aorcntii Vili* in fcilCi Jolutione Conftantmì. Itcm de libero arbitrio. Ircm de voluptate Lclil Capilupì, Cento ex
Virgilio non nifi cKpur 4 »aiit$ Icgutur
Lue* flcctinì libcr infcripttis, Oracolo
della rcnovationc della CUiefa. Luciani Mantuani > annotationes in
Cor^ menrum. 1>. Joannis Chryfoftomi
in Epillolam ad Romanos. Luciani Samolatcnfis, Dialogì, videlicct, mors Peregrini* et Philopatris. •Ludovici* feu Z.aonici Cbalcondylc Aihenien.de
origine* et rebus geflis Turcarum, libri dccem » Conrado Cl^nerio interprece, cum annorarionibus. Lodovici Pultii, Focmaca, ncmpc,Od*, Sonetti, Canzoni. L Anrentii Vali*, annotatione» in novum Tefiamcnium * òc Ubcr de pcrfoiu centra fioechium, nfTì corrigantur Laus Matrimonii, et congcftìo
bonarum mulienim ex diverfis biftoriis,
M. Perri Lefvandcrt. Lclii Capilupi Ccntoncs ex Virgilio, Roinz anno Domini 1590. iropreif*, |)crmittuntur. Levinii Lemnii Medici Zi- ) rizei * occulta nacur* mi* ) donec exraciila.
) purgentur. Lexicon S monis Schardii. ) Ludovici fiorbonii, Priocipis Condxi liter Ludovici
Carvajalì. Dulcora- } tio
amarulcntiarnm Eraf- > nifi prius
mie* refponfionw, ad A- ) repurgeapologiam ejafdem Ludo- ) tur. vici Carvajali. Ludovici Caftelvecrii » ope-
) ra omnia. ) Ludovici Impetacoris nomine liber
fi£ìu$» contra facras imagines. Ludovici Vivo Valcmini, annmationct in $. Augufiinum, nifi expurgentur. ineertorum Auflorum, Libri prohibiti. Amentationes Petti, aufiorcs Efdra. Lamentatio*
A quarimonìa MifT. Libcr inl'criptus,
de au£ioritatc, Officio > et potcllate PartorutD Ecclefiafiicorum. Libcr inicriptus > Anguftini, A Hicronymi
Theologia Libcr infcripius, alcuni importanti luoghi, tradotti fuori dcM'
Epifiole latine di M. Francefeo Petrarca,
Ac. con tre Sonetti funi, A xviii.
ftanze dd Bernia avanti il xx. canto*
Ac. LibcHus aurcus quod fdola. Ac. Libcr infcriptu» Baniccnfis Ecclcfi* cur MilTam » Ac.
Liber infcripms. Bulla diaboli • A£.
Libcr infcripnis, capo finro.
Libcr infcriptus» de corna Dominica.
Libcr infcriptus, confilium de emendai^
da Ecclcna. Libcr infcriptus*
confilium PauSi III. datum Imperatori in ficlgis cum Eufebii Pamphili pia
expUcarione • Lilier infcriptus delle
commìflioni, A facoltd che Papa Giulio
111. ha dato a M. Fatilo
Odcfchalco. Liber infen^us * de
difciplìna puerqrum, rcetdque formandis eorum Audiis, A monbus. Liber infcriptus. Dottrina vcriffima tolta
dal Capitolo quarto, a’ Romani, per
confolare l’affiitte cónfcicuic Libcr infcriptus, Cur Ecclefia qbanior Evangelia acceptavir. Libcr infcriptus, de emendatione, A corrc£h‘onc Aartis ChriAiani. Libcr infcriptus, de genuino EuchariAiz
negotii inccllc£Iu, A ufu » ex vetuAiflìmis orthodoxorum Patrum libris, Ac.
^ Liber infcripnis, de falfa
religione. Liber infcriptm, de fatis
Monarchi* Romanz, fomnium, vacicinium Efdr*, Ac. Liber infcriptus, la Forma delle prehiere
EcclefiaAichc, con la maniera
’ammìniArar* i Sacramenti, A celebrare il matrimonio. Liber infcrìpeus, de Gratia A libero ejus, vclociquc curfu. Libri Hcrmetii Magi ad AriAntelem Libcr infcriptus, llluAriffimi A potcnliffimi
Senarus populique Angli* fencencia, de co confilio. Libcr quod Paulus Epifeopus Romantis, Ac.Liber infcrìptut. Miliraiuis, Occ. Liber micripcu» » Nicodcmus de paflìone Chridi,
Liber in(cripiu$ 1 opus IHuflriffimi $c
ExcclJtnfiffimi, icii fpcftjbilis vy-i
Caroli Magni > &c. coocra lynodum, in partibus Grzcix 1 prò adoranvis
in'>agmibus Aoliddj five atroganter
gefta cA. Xibcr inlcriptus j in,
orationem Dominio cam, &c. 4 lbcr infcriptiu » in orarioncs
Dominio cas faluberrimx » et lanf^inìrox
medi» tariones « ex 1 U>.
oacholieorum Fatrurn, &'c Liber infcriprus « Lettera di N. ad uno Ambafeiatore di Papa Giulio HI. Liber infcriptus, Fauli IV. Papx Ronaani )
EpiAoIa confolatoria 1 et horcato. ria
ad fuos dilcflos filios. Liber inicriptus» Poiirificii oratoris legatio I in
coflvencu Noribergeniì. Liber
infcriptus, de providentia Dei. Liber ioferipm, de facerdociot
Icgibtrt, et ^crificiis PapXf
&c. Liber infcriptus t delle Aatuc
1 et itnagU ni I &c. Liber infcriptus » in Aaruì > et digniraci ^clcliafticoruto t m;igis conducati aiflaictere
rynodum Nationalern * piam « flcliberam»
quamdecemere bello, &c. Liber
infcriptus» de vera dìAèrentia regie poteftatii, 9 c EcclelTaAicx • Liber iaferipnK » de vita juvencutis inAiruenda
» reoribus, Se Audiis corrigendis,
Liber inicrìpeu « de unitale Ecclefiaftica. Licanix Cermanorom. Loci coreiDunes, de boAli operibus, et de potcAare EccleAaAica. Loca inlìgnia. Loci infigniores. Loci omnium ferd capiruro Evangeliorum
« Loci utriufque teftameari. LnÀi ChriAiana. Ludus PyramiduiQ» appendi X.
Lexicorv Grxcum novnm » GenevimprciTum.
Ljbellus A. P. C. trai^ans rudiincnr.t Kcligkmis. Liber qui infcribicur.afla Conctlii Tridentini
anno i5'4^. celebrati .una cum annorarinnibuspiis» et lcC>u
digniilimis. Liber Anonymt cuiufdam, de
repugnantia do^lrinx ChriALmx. Liber Infcriptus, Annatx, caxatlones Eeclefiarum,
et Monafteriormn per uni-, verfum orbem,
ab hxrcticis adverfut Anniras
confcriprus. Liber contincns articulos
reprobatos a faailrarc Parilìenn, conrra
do^rinam S.I Tbomx. Libri
duo, de laira, Se vera unius Dei Patria,
et Fitti, et Spirimi San^i cognitione, au£IorÌbus ininiAri Ecclenarum
confcnticittium in Sanuacia»&
Tranfìlvania. Libelius de
Concordia Ecdelix. Liber de Convento
Haganoen. Liber infcriptus, Crux
ChriAiani, cuoi qtiibufdam
annocationibus, in fandium
Hilarium. Libri dece CD
annuloram » quaruor fpe^lorum, ihiaginum Thobix, imagioum Ptolomxi vitgìnalis
clavicola Salomonis. Liber infcriptus,
Dìalogi fieri. Libri infcripti, comra
diccam Imperialem Ratisbonen. Libclluf
infcriptus, dedrgna prxparatione ad
Sacramcnniin EuchariAix. Liber
infcriptus, de divinis Se Apoftolicis tradttiontbus. Liber infcriptus, Genefìs, cum catholid expofirione EcclcfìaAica, idcA, ex U. niverfìs probatis Theologìs, quos Dominut
futs Eccleriit dedic • excerpta l quodam
verbi Dei ininiAro, diu, mulnimque inThcoIt^ia verfatos, live Bi« bliothecicxpoI'tioniiraGencfeos, ìdcA, expolìtio, ex probacis Thcologis, quocquot io
Genefim aliquid fcriplcrunt. collcfla,
et in unum corpus Angulan artifìcio
confata, Ac. Libelius intitularus de
Jefu ChrìAo Poolifìce Maximo, A Re» fìdelium fummo, regenre in Ecclcfìa
fanflorum. Liber qui infcribirur,
IlluAriffimi Prìncipis, ac DD. Joannis Friderici feamdi Ducis Saxonix, Ac. fuo
> ac Frtrum D. Joan. VVilhclioi» A D. Joan.
Friderici nani junioris» nomine, lolida
confutatio, A condemnatio pnrapuarnm corruprelarum, fe£Iariim» A
erro, rum, hoc tempore ad inAaurationem,
Ae. Liber qui infcribinjr, Interim, anno edirus.
Liber qui infcribiiur, Libelius ApoAolo.
rum nationis Gallicanx cum conAicutione lacri Conctlii Baniecnfìs. Liber contincns doftrinam adminìAraeionem
Sacramentouim, rirus Eccle/saAicos, formam ordinactonis conflAorii, viAtacionis fcholarum, in ditione Principutn,
A Dominorum D. Joannis Alberti, ft n. Hulderici Fratnim 1 Ducum» &:c cimr in dieCorpori» Chriftì. Liber iorcriprwS» Ordo baptizandì iuxta rirum fin^z Renunz Eccicliz» Venetiis Apud
Joaniwm Guirifcuiii » et A>cios» anno 157; nHì corTÌ|atur. Liber infcriprcH » de officio pii » et pablicc
cranqailliraiii verè amarnis viri, in
hoc religionit diffidiot fine auAo. hs
nomine» Se alias ab eo» quero fob Mdem
infcripeione compoTuic loannes Hefielz
DoQor Lovaruenfis. Liber iafcriptus>
de petfecutione Barbarorum. Liber
infcrìptus, prò libertattf Ecclefiz»
Callicanz» adverfus Romanam auUm
defenfio farifienfis curiz, Ludovico
XL Gallorum Regi quondam chiara »
qui circumicrrur cum rra^am Duarr
ni de S. Ecclefizminiftcriis; ab eolatinus Liber infcriprus» de protrabenda vim ultra
vigintiquinqiie annos. Liber Pfalmorun)
Davidis, cum catholicaexpofirione EcclcfiaAica» iinprcfii^ per Hcnricum Srephanum» annoi^as. Liwr inlcriptus» que regìa potefias»
quo debent aii-f^ore folemnes Ecclefiz
Conventus indici» cogique, &c.
Liber inlcriptus, de Regno,Civitare. Se
domo !>j, ac Domini lefn Chrifti.
Liber in quod fit homiiii
moricnci Buxio)um foUiium. TbuK) lU M M Arcellus Palìngenins» Srellatus. Marcus Anconius Calvinus. Marcus AnroniasCorvinos. Marcus CordeJius» Torgeofis. Marcus Ephefinus. Marcus Tilemann. Heshufius. Marfilius de Padua. Martinus Ko» vel Martiniko. Martimis Borrhaus» Stugardian. Martinus Bucerus. Martinus Freflhus. Martinus Lurherus. Maninus Meglio. Martinus Oftermineherus. Ma. tinus VVolphius. Mitthzof Albems» vel Albertus; Matchzus Judex. Matthzui Phylaigyras. Macthzus, qui Se Afiarcius Scofier. Maithzus Zelius*, Keifefpergenfis » vel Kiferpergen.
Matthzus Zifer. Matthias Fhccus,
lliyricas» vel Flavios. Maturìnus
Corderìiis. Maximilianus Maurus. Melanchton. Melchior Ambachius Mekhior Clinch» vel
Mlinch. Melchior Hoftnanaus. Memnon
Symwi. Meoardu^ Molchcms. '' Michael Celarios. Michael de Cxfena. Michael Kothingius. Michael SchuJ(hejs « Michael ScIIarius. Michael Servccus. Michael Toxica. Milo Coverdale»
Eboracenfis. Morlinus. Munccrjs,
Murnerus. Munfteros. Mufeuttts. Myconius OTvaldiis; fF Agdalena Aymairus. I^Y I Manfon Anglus Marcus Andreas
Falkehenbergerus. Marats Blcumlerus»
Tigurinns. M. Marcus Mennigos. Martinus Agricola Martinns Crufius. Martinus Faber Eeé
Mar Martious HcMingus. Mafluccìi Salernitani > Novell*. Martinus Hofmann. . Martinm Kemnìcius», vei Chemnìtius. Marcinua Lochandrus» Gorliceniìs» Sile
>Iartiniia Mollems».,. Martinu»
Morlin Martinus Salbach.. Martìnuv
Schalincius ». Farens .. Matihaus
Bcroaldos. ' Matthaus Chcmnicius Matthanis
Colfebui^ias Mattharm * fca Matthias, fireflènis^ Matcharus Huttenus Macrhsus Ludtke. Matthzus Veghel. Matthzi» VVeflenWccìus., Matthias Bcrgius, Brunrvicenl!s «. Matthias Ebcrhart. Matthias ErbiuSi aor ErbeBUs» «cl Hfibeous Matthias
Ludccus Matthias Ritter.u Matthias
Schneider*. Matthiav Tinflorius Matthias
Vebus. Melchior Bifcoft'. Melchior Ncofarius.. Melchior Socket. Melchior VVildiuaM. Mento.. Mcrterus. Mentrius adverfm BalearÌMm, Epìfccotm
Mercdirn Hanmerus. Michael
Aichlerus ». vet EychlerUs.. Michael
Czliits.. Michael Dilerus. Michael
DincUus. Mtcbael Hagenx». Michael Hampclus. M. Michael Hcnnig». DreUenfis». Michaet HcrmaoBus.. Michael HimmeU Michael Mclllinus. Michael Neaoder». Soravienns. Michael Rennems, Michael Rcnn^crus, Anelus. Michael Scrmiua» Danii^anus.. Michael ITraniui. Mintts Cclfus. Moyfes Pclacheras Ccrtorum Auflorum, Libri Prohibiti. M
Arci Pagani Carminum 1 iber»cuius
tituluv cR Tiionfo Angelico. Et
airer qui dictrar. Sonetti diverfi di Marco Pagano. Merlini Angli liber» tobreurarum predifUonuxt]
M Accaronicortira opus » Merlini
Coccaci» Poet* Manruani» nifi
reporgatum fuerir. Mahomcris
Saraccnorum Principis» c/ufque fucccnòrum virar, icem Alchoran» cum. przfatione Martini
Lutberi. Martini Eifengrenii Traflarus
A;h>Ic^.. ticus, de certifudine
grati*, prò canone xiii,. fcfT. 6, Concilii Tridentini. Martini Martinez Cantapcrrenfis » HypocjmoTcon*
liber, ruTÌ fueric ex ìtiprefiis, ab anno i;Sa«. Melchior Klingius, in praxipuos iccundi
libri Dccrctaliom Tir. 8c in ìnRU
tmiones Juris Civilis. Michaelis
Carranzz, annotano macinalis, ad D. lldcfonfum» Au(ftorum incerti nominis. Libri prohibiti. M ^nicra di tenere ad infegnare i figliuoli Crifiianii Margarita Thcologica. MacrimoniodelliPreti» &. (ielle
Monache» Medieina anitn » Meditaciones in Orarionem Domìnicarn. Meditationes, Se prccationes pi*, aJmomodum
uciics, Se ncceffari*, prò formandis» rum confcicniiis* cum moribuftcleOonim. Mccaphrafcs Epifiolarum SaOi Palili » ad communein Eccicnarum concordia. Mcchodi facr* fcripturz » Thoini duo. Mcthodns» in przcipuos fcripturz divinz
locos. Microfynodus, Noribergenfis. MiniRrorum Verbi Argeotmennum admonitio, ad
miruftroi Heivcticos. Modo di tenere
ncll'infcgnarc, e nel predicare al
principio della Religione
ChrlRiafea. Modo, e via breve di
confotire quelli, che Ranno in pericolo
di morve. Modus folemnis, Se authenticus
ad in^uirendum, &c. AP. appendi X;
appendix M “ArpaTÌtji Paftonim. Mcdfciiu aniiDZt prò fantu fi ‘ mul et zgrotis
indaote morrt^ Medicina anitoa adjunfia
ima^inibm nK>njs ^ Medicina animai cam hi» ^uam ()tti adverfa corporis valetudine prillici fune» |n moru a^ne, et extremis bis
periculonffimù cempocibusa roaxmè
nece&ria quÌ-« bus Dominica
paffioois myftcìiuni ex^. plicatur. Methodica Juris uinur^ firadi(io. Minbllis Libec^ MiiT.t Hvangeh’ca. MifTa Latina, qua olim ance Romanam circitcr annnm 700. crac, Modiu confitcTidi » et ipodiii oraodi, prout impreffie Polccus*. Modus orandi. 6 c conficendi. Monumenta (^iorum Patrum » ortho. doxograpba, hoc eft « croTan£te, aciincerìorìs Mei Dc 2 h>res, numero circiter ofloginta qiiinque Ecdelia
lumina, au£^ores partim Oraci, patim
Latini, BaTicIa 1 jtfp. nifi enKAdencur. Multi integn loci facra Do£hioa, vetq- ris, 6 t novi teftameoti, ex Hebraa, et Graca lingua, inLatimuo, &Germanurn
lermone crauslati* N Atalis Torneerai.
Nathan Chythraui, Natbanacl
Nc&kius, ideft Theo- donis
Beai. Nicolaus Bioccitis Ludima^ftei
1 denits. Nicolaus Bocerus, Brugenfis. Nicolaus Cancerinos. Nicolaus Qoeltanitis. Nicolaua Collado. Nicolaus Erbenius. Nicolaus Florus. Nicolans Griroaldus,, — • • Nicolaus HemmiMim, v«l RewngiM.». Nicolaus Jagenteu^. Nicolaus Leflerus. Nicolaus Opton Nicolaus Rndingenis».. Nicolaus Sfkcpi^tts. y» A
Cer forum Auflorum, Libri
prohibiti. N 'colli Clemingi». opera
illa oik rum modo permicti
pocenmt,qua .uxtt cenfnras Patrum
deputatorum, emendata excudentur. Nicolai, Franci (Jacmina. conua Pecnim Arecinum.
Nicolai Rodingi cahonitio ad Ccrmat
niam. Itera Pradicationes
carmineconfcripta. Nicolai VVinmanni
Colymbcfcs, fivp de alte naundi,
Dialogus. N icolaus Amldorfius Nicolans Balingius. > MicotausBorbootus,Vandoferanus» Nicolaus Bryl'ng. NicoUus de Cilibria. Nicolaus Caltilim. Nicolaus Galeats^ Nicolaus GaVus., Nicolaus Gcrbellifii. Nicolaus Herforde» Anglus Nicolaus
Krompach. Nicolaus Macchiavcllns. Nicolaus de Pclhrtimorv.. Nicolaus Qitodus. NicoUus Rhadivil, Palatimis VVilncfii Nicolaus Ridlaus. Nicolaus ^eubellius. Nicolans belnccccrusi vcl Sclneckerps
•. Nicolaus Scorckios. Ni^laus Udall, Angkiv. N Vtalis Bedc, liber confeffionìs. Nibulus ThclTalonicenlìs, contri PP. Aliis Illirico lupponcos. Incertorum Aui^orum, Libri prohibiti. N Omendator infìgnium fcriptorum. Notoria anis» opera omnia ^ Nera vera Ecd»a. appendix.
N \rtatio* eornm, qua conrigcrnoc
io> Patria inferiori, anno
Nccromanrìa opera, et fenpta
omnia. Nova gioita ordinaria,
doncc metiora Dominus, &c. fivc io
Evangclium, fecundum Matrhaum » Marcum,
et Ecc ^ Jàm Ik
Lucam. Commeruariij obicun^ue
ixu. prtfli ferine ^oy* prccationc) I. ex optimis, quibuTqu?
Tcriptis» przcìpaorum noftri fzcu» 1 1
Thedogpruro. ., O O EcoIompailius joannnes.^ Onholphus Marolc, Frànnis, Olìandcr Andreas.^ Ofualdus Myconius Orbo BrunsfclHiis Oiho
Cerbems Pabergen Otho H?nricus Otho Vfncriw Otho, Vvcrdmiiferus pthoncllu Vida O
Siande Lucas Oiiuldus Betus Otho Gryphius.Gparinas Cattin Otho
Wiflcnburgìusjfivc Luroburgenpa Otho
Zander. Q/cnus CuntCTUs. Certorum
Auftorum Libri prohibiti, O Gerii Dani
Fabulz In OVIDIO (vedasi) Mctitnorphofiros Jibrosi commcncaria, fivc cnarrationcs al. Icgoricx» veJ tropologieO Limpì* Fulvi*
Morate, Dialogi, Epiilolx, et Carmina k
Prima ratio conponendxreligiocuii I quz
fict ' Opas magni
lapidispcrLocidariam^^ Orario
I^minica,. cum aliis quibofdam
Precatiunculis grxcc ctim latiua verHoae, è regione polita, quibus adiun^um
cft Alphabetum Grzeum. Orario
Ecelenarum Germanie, ac BeU. gix fub,
&c. Orationet Furtebres, et Epiccdia,
per Tomos diftinOum opus» Orationes Fimcbres. de hxrccicis
habire^ ccrtis romis imprdre«i^ Ofdo Ecclcfiafticus, circa' do£lrinam, Sacramenta, et Ceremonias, in Duca ru
IjluftriffimiDucisBavarie Frideridorus«
Pcirus CUrke. Petrus Dathenus
• Petrus Dilleras. Petrus Dc^inus. Petrus Qcdulcig, (ea Pati'em« Petrus GU(fet^ Petrus Hafiùius. Petrus LandsbergiuSf vel Liodemburgìus
« Pccruv Palladiusii. Perros Pateshul. t » Petrus. Panlas, Nochtefterus. Pernii Ramus Petrus Kinavvs Petrus
Scatorius« Petrus Trevver, Petrus Vvaremborg, ab Alcenkircfiea. Pcims Vvartei, vel Vattcs, Pctrm VVirth Philippus Deibrunerus. Philippui Dirixfon « qui fuot ^tukaptlfm
fmut ferlìiit lìuTÌs « T« i>. Philippus
FcKìqìus Philippus Gcrrarde. Philippus
Neibronnerus^ Philippus Kcifer. Philippus Lontcerut4 Philippus Marbachius. Philippus ie Marnix> Domlnut de 5*
Hd~ degMia, Philippus Merziliust Philippus Momrus, PlelTeui. Philippus NycoU Phili^TpQs Rufticns. Philippus VVagncnis, Pilkioionios Preudoepifeopus, Dunilmenfis. Prinius Tuberus Carmqlanus. Procopius Lupacius. Certorum Auflorum, labri prohibiti P AuU Dolfcit pralrerium»
Grzeo catmine ver{uiD» cum prxiacione Philippi Melanchthonis. Pccri Aretini, opera onmia Petri Lignzi,
Parabola. Tetri Mofcllani, Protegend,
Pedalogia in puerorum ufutn
confcripea. Petri de Virea,
PercgriaatioHicnifalemPhilipp] Catti, liber adverfus Heaticum Bninrviiceni'em Pogii Fiorentini, Facetiz
Polydori Virgilii, de invcnioribus rerum
liber, qui ab hzrcùcis au£lus, et de.
pravatus eli. Rotopzii Barbz,
liber deSccrectsNaturz, P AnopIia omnium il!iberalium, Me. chanicarum, auc Sedentariarum artium,cucn
imaginibiis «sudore Harcaman Scoppcro» NovofofCD/ì,Norico, Fran((qjti adMxnum ijdS. donec ex. purgetue,
Papyrii Madbnii, libri fex, de vitisEpi.
feoporum Urbis Rotnx, nifi hicrit ex
corrc^is, abaudore, cum approbationc Maeiftri Sacri Palacii. Taraphraus Cornclii Chaidaica, ìa facta Biblia. Tauli Diaconi hiAoria, impreca Badler nifi delcarur epifiola, qux habetur in ejus
principio, quz clè, no^ probati
Auaoris, Petri de Abano,
opet^CeomaDtix, &e)or. dcmdcQinnì
genere divirutionÌso}>era. Pccri
Fcrmandca de Villegas, Archidiaconi Burgenlìs, Flofculus Sandorum. Petri Gunchcri, Rhetorica, nifi
expurgecur. Petrus Pomponatius, de
Incantacioitibus. Petri Romani, Circulus
Diviniiacis. Ferri de Vineis,
Querimonia Friderici Cecundi
Imperatpris« Polydori Virgilii,, de
invenroribus rerirni liber,
RoinzjulfuGreg.XIII. lyy^.ex. puigarus,
6c excufl'us, permittiturPofiillz Draconitis, per annum^ Pradica Mufica, Hcrmanni Finehii. Przfaclo JacobiHarcelii, in quìncjtuginra Comicorurn rententiasGrzcolacinas. PCUmi aliquoc Davidici, per Hcnriaim Stephannm, et quofdam alios, Grzeo carmine rradudi « Pfalcerium Hebrai ant Apoftolic* Sedi quoniodoc'jnque dctrabatur. falquilliB prpfcriptua a cibo.
Pafqitil'n Scmirocta.
PalquiUoruin. Toroi djiOc
Pàiquim> ti Matphofii Hyninui in PaiW
IniD III. Paffio Martini UthetJ,
fccundinn Mar-, celluin Phalarifmu» c
' rhralca {acri Scriprai». quandiu
eapn»-. gara non hictint atqtie ab
Inquilìto-. ribuJ Gencr.ilibui
racojnlw. Pii, St Chriftiani Epiltoli
ciiiuldam fervi Jefij ChriiU, de file, operibui, !c charitate.
Pracationum aliquof, tc piaruin Meduaciomim t Enchiridion ^ Pfccationit Biblici. Precationer Chriftiani, ad miitationet» Pfalmorum. ^
Precationcs Dominici, Griphn.
Precaiionn Pfalmomm, per )oanncni
Hombutgiuin latinirate donati. PrteedenK all' Apologia della Cooteffione
VVittcmbcrgenlc. Pioceirns
ConfiAorialia, Martini Joann.s Huls. pliltcriam ttanrlationia veteris, cum no. vq Pnfatione Maitiai Luthcri P Aralipomeno* .ómniam i^in meinorabiliuin a
Fridenco Secmido, ufquc ad
CirolutnQuintnm, HiKotii Ahbatis UfpergcnIIa, per qncndara fiudiolutn. Annexum Patquilb «latici, feu
nuper icoalorcverfi, JctebttS patrim fopena, partim inrer homin». in Chriftiana
Rel.gione paffim hodie controvetlis, cnm
Matphorio Colloquinm. pjqnilll
iDinufcriptl, Santìwt aucSicrannciKJS»
autCatholicEcclefiz 1 et fjui caltui » aut Apoftolicquoraoèxunqac de Todygncoo.. Ricardus VVick.
Ról^rcus Anglas. Robenus
Bonnes. Robertus Baus. Robcrtus a Moshaim • Robertus Stephanus. Rod NajaI •
Rodulphus GualceniSf Tigurinos. R Einerius Rcìneccius, Sceinchenms
• RcinhoMus Marcaaus, VVcftpbav Ricardus Coxus » Ricardus Fcums. Ricardus VVyfe. Robcnfonus Bangareufis. Robertus Crovuicyus. Robertus Hornus. Robertus Recordus. Robertus VVakefelde. Robertus VVarfwius. Rodulphus Hofpiniatms. Rodulphus Lemanus. Rodulphus Ladolif. Rodulphus Sncllius. Certorum Auflorum, Libri prohibitì. R Aymundi de Sabaude, prologus in Thedogiam naturalem. R leardi Dìnothi, de re-
) doneccorbus, ic faftìs inemo- ) rigannir. rahibbus, loci com- ) munes Hiftorici. ) Et eiuiilcm Adverfaria Hiftorica. Roffcnll falfo adferiptus, liber de fiducia j
et mircricoriia Dai. Inccrtorum Auflorutn, Libri prohibiti. R Aeio bcevìs, facrarum tramandanim
Cancionum. Ratio, CUT • qui
coafeflìoneiD At^iUnam proficenrar»
&c. Ratio, Jc Methodus coniblandi
perielilosd decumbences, &c.
Receptacio omnium figurarum focrx Scrìprnrsr. Reformacio Ecclefia; Coionienfis, Regis, et Senarus Anglici fententia de Concilio, quod Paulits Epifeopus Ro. roanus Mantuz fiiturum fimulavit. Reftitucionum doftrtnar, &vit*Chriftian*
libcr, per Monafterienfes Anabapriftls edicus. R Acìo } et forma pt^lice onndi Deum, acque adminiftrandi Sacramenta in
Anglofum Ecclcfia, qus Ceneya
coHigirar. Rccanrario de inferno Rerum
ìnGalUa ob religionemgefUru^n^ libri
cres. S S \pidus Poeta. Sclaperus.
Schnepplus, vel SehekiasScbaldus Hanrencius Sebaldus Hcyden SebaUianus
CalUlion Sebaftianus Francus.
Sebafiianus Frofchelius.
SebaBianus Lcpufculus.
Scbaflianus Meyer. Scbailianus
MunAcrus. Servetus Hifpanus Simon
Grytmis Simon Heilus. Simon
Mufzus. Simon Saltzenis. Stephanus Dolecus. Syven Kfeidius S \daeIIns Antonius Samuel
Fifcher. Samuel Hebelus Samuel
Ncvuheiircr. Samuel Radrrpinner. Siwìct VVigormicnlis, PfeaJotpifcopu». Scamblcnis Pctroburgtniis, Pfeudoepifeo. pus. SebaAiaoat Figuhis. Sebafhanus Henriepetri. Sebafttamis Lupulus. Sebaftianqs Sperber. Seba
t Sebafliinus Spradler^ Sjc^irìdtii Saccus. Sigirnundus Suevui^ Sinicn Cn»iliccvus^ 5iincn Mej'er SiiroQ Pauii» v(l Panhis
STcrineofisi Shnon Sidenis Slmnu
Simoniiu. Simon Snc^derus. S»ni!> Wi. òatniciiK.« Sicpoanu-» Gerbchtuv Srrphtf-iut de Malefcot,. Srr; hanui Rcich». Stephaons Szcgcdimis*. |tc^’i-unus VVacker4 Ccrtorum Au^orum, Libri prohibiti. S Tgibcrtì libcr, centra Papam Gregorium t
et centra Epiftolamr Pafchalii Papx.
Scraphini Firmaiu Apologia» prò BaptiAa «ie Cremai (tephani VVindonieoAs Epifcopl > l lionec
rcpuigaca fuerìc. Scephani Lindii EpiAoU
». de Magù Arata» et MifTa Svidar
Hiftoria » nuper Bafitec imprcHa ».
^uaiodiu annotarionci oMiginalcs » et indicci» emendeatur. Incertorum Auflorum, Libii prohibiti. S Cholìa in EpiAohim Paoli 111. Pon> tiftcì* Maximi. Script! quxdam Papx, &Monarcha« rum > de Concilio Trideotiao &c. Sentenrix piieriles. Sernaones
Convivalea. Sermoaes ite proviJcntia
Dei. Similitudinnin, et DiAìtnilicudinum
libcr. Simplex» &' foccinOm oranJi
modus. SimplicifISnu» et brcviiTima
Cathechi(mi expofitio. Simulacri, Iftorie, e Fignrc della
Mone. Somnium, et Vaticinium Efdrx, de
£ati& Monarchix Romat:.x. Spcculum
exeorum, ad cognicionem Evangclic* vcriiatis Swermenica Doflrina Somna totius
Scriptur Sammarinm Scrìpturx» 8umro| in
Smaragdum > Aipcr Erange. lia »
&: EpiAolai totius ann>. ram Ceparatim» quiin nna » cuna ipfo
Au£lo> re impreifa. Snpplicacio quonmdam, apud Helvcrios EvangelìAarum » ad Epifeopum Coo» Aanticnfcm.
Supplica loerortazione, di nuovo mandata
ali'tfìvittiffimo CeCarc, Carlo Qpinco.
Suppucatìo aonorain Mundi.
Syncrama clariflrmoruin virorum,
cuginale pcccarum dcpuigentes» Ac.
Stateri PruJtmuiti • grracagcmaca
Satbanx. Summa piuioris doflrinx »pcr
M3 fes» adCallicarn EcclenatiuntiVa,
^c. Synodus Sait^ioruni Patrum c«>nvocara ad cognofccndam, et dljodicandam controverAam » multos jam annoi £ccleAam
ChiiAì gravilGmc cxercemcm» de majcAate
Corporis ChriAi T HeobaldmCerrachius» BillicanuiTheodorus Biblìander. Tbonui Blaurems Thomas Cramner Thomas ab
Hofen. homas Munccrns. Thomas Nec^eorgius^ Thmnas Plaitcnis^ Thomas Vcnatorios, Thomas VVolphius. Titetmanus Heshu^us Timotbeus NeocorusT
Halounnos Beaedi6his. Thcodoricns
Scheneppius. Thendoms Bcza^
VcxcUnS\ Thcodorus Ncc^eofgus. Thcoioras Sneppius. Thcodorus Zuvingerus Theophilus Bfidanus Theophilus
Frcurelìus TheopbraAus Paracclfus Thobias brmon Thomas Bcconus. Thomas Carcuvzightas ^ Thomas Copperos. Thomas CprbcM Thomas E^nta. Thomas Eraftui. Thomas Gotctsf»nhi»«,
Thomas Gybfooas p Thoous
Leverus. Thomas Pavjpell. Thomas Scndbachiu» veL Seltbachliii é T homas Swinercon Thomas Thanhoinmi Thotms VViJfoflui, Thomas VViftadias. Thirootheus Kfrclmerus, TriAramus* RevcU^ Ccrtorum Aué^orum libii ^rohibitt T Argpm,
hoc Paraphnfis C^-. oeTii Chaldaica* in
facra Bibita ^ ùuc^cete». Paulo
Eagio. Tbeacnim vitaebumanx» prlmunta
Cou« ra^ LicoAhena: Ru^aqoepfi
inchoa» deinda a. Theodoro
Zvringero aUolucum» cuitifcnaqae fit
iroprtìfioais» nifi corrigarur.
Thcodorici Nemicnfisi vel' a Niemen
Hiftoria de Cchiiinaie, The^nna
lioeua Grece» ) Henricì Srej^ani. ) Thelaun»
Lingue Hebraice > ) San£h Pagnini »
aufVtts opera omnia « Incertorum Auftorum, Libri probibiti. T Halmud Hebreorym» eiulquc gl fumma sotius icripturevetcris,Se novi TcAamcod > altera vero de dccem Preoapiis^ Theologorum VVitebergenAum vera» 8 c folida rcfuaauo» duorum libellonim lefuiramm •
Threnodia Ecclcfie Catholiee» ad Chrìftam ^ponfiimv fwim ^ Triumphi Aoonmmcw»^ Ir jfde GhrtAi» in cotlum afeendentta coilado. Turco grecic libri ofio,Bafilee impre{« fi 1584. donec corriganrur. • Turingtcoiiim exolun) rdponfio. Xotini Belgica > Urbium» Abbaciarum» CoUegk>rufu. divifio» ad opprimendum per novos Epiicopos Evan^iium» 8 k^ fine nomine Ao£mNs ccafiurc » impref> ipris». Se loci..V Adianus )oachimtts
Valerìus Anfelmus Ry 4 ' Valerius
Philarcas. Vareroimdit»
Loitholdus. Velcurio Vergerius^ Fffi Vi Vi£loE di Bonkaaxi ve[ de Bordcns.. Vi^ormus. Strigqlius. Vincentiut Obibp«t»« Virctus. Petras. Y i r i I iog4>Sjfìye Brenti us>. yito$, T^codorus.. ., Virt» Vvif«pin$v i ^ Vlricus, Scuderius,, Yltictt* VeknuSf Minhomenft., ^ Virila* 4c Vvitera Vrbamn Rhegitti.. YVendelinusi ab Kdbach., VVcnriclaaJ Linck. YVefelus» live Balilias CroeningenCs., VVcfphalus Ipa^imus VVig^us óro^er* Wilhidmus Hefenos WlIhieliròs Ibadcnlis Wolphapgus
FabrUius, Capito Wolphangos Mater Wolphangus Meufd Volphatigtts MuCcuIub Wolphangus
Uuce#/ WolpIungus Rupercus Wolphangus WaUaenn^
yVoIphan^ VvtlTcn^burgiis Valcntinos Eryihwus. VaknKinuv Frottdorfiuiv Vaicntimis. Cìreflérns^. a Valentinus HeiLind^ r. Valcntijius Hefenenu Valeatinos MecckcK* Valcmious
Schacbtiut^ Valentinus Shinidclenis Valentinus
Tro^cdorSus VakQtiiHUk VaJenrintts VwinfchOTUsv Valarius Fildl^rus\i'>--' Vcnis C^at^amls Veitranos Pinfcrus^. i Vinc^n.tios, Cmnchor^ Vinitos^ J. T •
Vjcui Bfcfchvucrtibach> Vùus
MoUcfus-, Vhiaricu» RuppincoTtiK Vlricus. J.vuinglius.. Volradsis, Conjcs, Mansfcldcplii^ Vvahiclmits BiJcrtìbachius^ Vvilheilnjus, Clcbitius^ Vvilhichnus. Nolderus^ Vvilhielmus Sarcerius^ Y^ilichius Fikhcrus Wolphangus AmliJi| •. ^
f Wolphangus Ammonms Wolphaogus AmpelaAdatP\ Wolphangus Audingus Wolphangus
Bisbachius. Vuolphangus Cam!inm« Vvolphangus Finckclnaus^ Vvolphangus Maler Vvolphangus Martius*. Tvolphangus Ochelìus. V voi phangus FeriRerus x Vvolphangus Frisbach^u»^ I \volphius. Certorum AuftoruniJ libri protlibiti^ i V iti Amcibichii., A"tipari de
Officio pii viri traOatut» Vinccntii Ciconi* Vcfoni^nns, Enarra-. tiones in pralmos, nifi còrrigantur^. Vldarict ad Paptm Nicolaum EpiRola; VIdarict Zafii, opera omniai donec C0C\ rigantur«, i
IncQttotum Au£lorumi (.ibri
prohibiti^ V Valdenfium conleffio x, et
Apologia fìdei, ad Uladislaum Kcgcm
Un^ gari Varia dotìorum, piorumquc
virorum* de corrupto Ecclefia; Aacu >
Poemata* Yindarii* ^mbdìuio » de
EotelUtePapcj^ de. Principum
facitiartuniv Vificacio Saxpnica Yitai
et gefta Hildebrandi^ Vi» Patrum,, cum
przfatipae Maftirii Lutberi VitK Pont.
Rom. VViteberg* iroprelt*Un breve modo,, ^ual deve tener ciafcun Padre Unia
diffidentium. Tripartita*. Vniverfitaiis
VViiebcrKnfis, feria aflio», apud
Principem FrldcricuQi Wa Juyennitis cum anoocationibosx \f feti aildittonibus ?hilippi Me* ^ lanchthonis x Vvitcbergica afta SynoJaUa> a quodatn • COl-v collega et per Vvttcbei^icost
Jlieokv go» probara» concra
]Hyricanos« Vvormatienfes Arciculì. Urfuis Mnnfterlcrgenfìt Docidie defenfia* no licenza, dall’ ondiuarioi poRo in. una
calTa iìcura nella CanccU ovvero
dali'In^uificore di pocerh tenere», laria Ducale per (ervirTene» qnarJo fa- Se
li Stampatori foranno ri bifogno, nella oaa! calta fi tenghi, rifiamj'« 4 e li (addetti Libri (pipefi.»
Ala- un Inventario de* Libri, che 1! riponeraniro infianza per U correzione» si
cor- ranno: e ciò s’ incendi folamcnre de’iiregeranno efpeditaroence in
Venezia» e bri novi, ed ancor de* Libri rofpcfi, che nell’ altre Citti del Sraro Teoia ODandaili. fi
corrtgeranao» e riftamf^ranno. Nelle a
Roma avendo fufiicieBcc facolti per Cicti j>oi del Stato gU originali
predecii il novo Indice gli Vefeovi
infietoe con li fi conlegncranno al Cancelliero del ClaInquifirafi» e
rifiampandofi corretti» fi riOìmo Capitanio, acciò li tenghi net* vmdcranno liberamente a tutti. modo predetto»
q. fi confegnino focecfiiUferanno diligenza gliScam* earocnre con .l'
Inventario da Canceliiepatori per confervaie oqi migliar moda» ro 4
Gancelliero* nmezfc Pff a Nel ftampar
Libri 9 ^ terefticrl». 0 con &Ifc % t finte licenza impriina a tergo del prinio tV^lio la Ih
Qampati * e rariflìme volrc fi dari il
«enza folita deli Magifirato» nella quale calo» nc fi fiiri fenza
giullifliroa caufai fiaoa cfprcflj li
nomi di quelli » che a*n e con parcictpazione dei Santo Officio, vranno rtvifio,cd approvato detti Libri», ed
incervemo di CiactiSmi Signori Af(ome è dilpoita per le L^gi.. - fifiemi
rantoin Vcneziicome aelloStato. Aveniranno
li Stampatori», La regola dgl giuramento
da che r>e‘ Libri novi, che
fiamperanno«"ò, darfi a* Librari, e Stampatori npn.s’cf*. oc’ Vecchi che riftaropanero. non. tifino
tguìfea in quello Sercnils. Dominiò s
figure » che ripprefeniino acci difonefiiv. Tutti gli eredi doveranno
dar ooit efjendo però prohibitcle figure
pros nota al Padre Inquifitorc de' Libri profane. che non comenefsero
dishoniftè- ibìti » e fi>rpefi » che ritrovarsero nell* SESTO*. Lt Librari dovecanno far T* erediti /
e ouelU eredi » che non fufInvcntario di- tutti li Libri > cift, fi fero
abili a aifcemérli > doveranno lo
trovano per cfpurgari; in quello princi>. ro, o Tuoi Cantori chiamar
perfone mpio le Librarie da‘‘ Libri cfprefiamenre teliigenri che vifiiino tutta
la Libraria proibiti nel novo Indice » e
prefenrar» per cavarne nota delli proibiti, c iòflo al Padre Inquifitorc, e
quello s’in-, pefi) et prefencarla come dì fopra in tenda per una volta folamenre v termine dì
mefi tré dopo ebe V avran-, Intorno la liberti » che ho, avuti irt fuo potere c
fri tarn / vtcn conceda, all i Vefeovi,
ed* Inquìfico- co non pofsano ufare. ni in qualitnque i ri di poter proibire altri Libri non cf-
modo alienare i Libri proibiti, o rof ^ ^refi rMiriiWice~» fi didilira. che
t'ìn-. pefi « c ciò fono |e pene • e aenfurq
tendi de.‘ Libri contrarj aM^ Religione,, (latuiie^ Feo fede» e corroborazione di tutto» ciò. li
fuddetti Illuftrifljmi Cardina*, le
Patriarca». 3c Nunzio^ Infieme co' 1 Reverenda Padre Inquifitore di Venezia fottofcrivqranno le prclqnti. c le
affermeranno eoa proprj loro Sigi(li
coniinci|coda.|er Vautor/ih alatale *d» fua Beatitudine che inviolaWiécnte debbano «flervare le predette.
dichiarazioni tanto in Venezia» quanto
in tutte le altre Cittb » e Luoghi fudditi ai detta ScrcoilD'mò. lJominio; D aniello Barbo Capitano di Segna Faiitor degli ÙlcoccKi. 174 Daniello Francol Ifricilitip facce, de 4I KabattA nel Capit^niaeo. di ìk Decime (e l^no de fure divino. Decime prediali che eofa fieno. 18 Diaconi infitruùi dagli AppoftoK per governo
delle cole tcinpor^i. a pifeorfo del
Chiazola in propofito del Dominio 4 el
Mare della Reptibbllci. pnpenfa é tm
mso di giallitìa ^^ributiva > c pecca chi apn ht * perfone» alle quaK è
dovuta» Doge Ticpolo mette un dazio a
quaUmque Navigante p& TAdriatico.
^48 Pottori Napolitani ; loro opinion^
circa ilPrmcipaco di tutto il
Mgodo» E MerìroGtierri vuole piutrofb
abbandonare il filo ArciveKOvaro, ebev^
der la fua ChieCa mclTa 4 Cacce da
ln;iocenzto IV. Pontefice»
^rìberto Conte Zio d'Ugo Caperò fii fuo
Figtioolo in eti d'ansi 7. Arciv^feovo
di Remi» c Papa Giovanni X. ne eoo.
ferma reiezione. api Rtmolao
Tiepolo ProveJitor in Dalma, zia con
iibera podeiti • temuto dagli Ufeocchi^
t}x F Anioni de'Gnelfi» e
Ghib^niquan». do oacqueto*. 40 Ferdinando Vefpio» fua opinione in. tomo al Mate.. 74> Filippo Pafqualigo Provedìtor Generale in 4^1m«iaconm gliUfcocchi. igf Francdco'Allegreiti Kc 4 >ilc Ragufeo
Ca> pirano dHina Calca P-ootificia. 17^ frati Mc^can^ quando ìdOìomiì. 8| G Fftiin» loro infeirato. 107 Giovanni XI. fatto Papa d’anni xo* figliuolo naturale di Sergio III. » e di Marozia figliuola della meretrice Tcodor^ * 4 quale proftituiva le fuc figlinole a’ Papi x xp Giovanni ^ (oti intento a cavar danari d’ogni cofa> che lalciòalla
fua inorte x^. milioni. 77 Giovanni Alberti dccapicaMda'Turchi in Gli A. 174.
Giovanni Bembo Provediior in Dalmazia
centra gli Ufeocehi. Gio: BattiAa ConraeÌDÌ Proveditov in Dal. mazia contri gli Ufcocchi. 19S Gio:Criftiano SmidHDoAmbafciador Ce> fareo agli Svizzeri per dar loro conto
deh la guerra aperta co* Veneziani. Gio: Taeopo pelco Vice.CapicaMxdi Segna, ipd
OicK Jacopo Zane Proveditor in Dalmazia
contri gli Ufcocchi. xoo Ck>:
Jacopo Cafglin Ipedito a Segna dall*
Afcidsca per liberare dalle mani degli
Ufcocchi il Proveditor di VecHa Marcello. X17 Ciroiaono MarcctIO’Provedùore di Veglia fatto prigione dagli Ufcocchi. x 1 a Governo di Santa Chiefa nel fua
principio ebbe fivioa Democratica. Giuda
aveva la boria dd’daaati prefencati a)
Signore. a Giuramento de) Clero > e
del popolo Ro. mtao ferro all’
loperadore incocuo air •fezione del
Papa. X4 CiuriCdiaione EccleliaRica
quando abbia avuto principio. x 179.
fatto Comnffciferro daH’Arciduca
contragli Ufcocchi. i 4 d. trucidato
dagli Ufcocchi • i8a CiuAinfeno
ricuperando I’ Italia da' Barbari lafciò il Dominio intatto delia Repubblica fai .Marc da Raveniu in qua. 7x9. fiu legge circa aUenaie ni EcclefiaAici. Gradi EcclefiaAici ne’ primi
tempi noo erano nd dignird» nè onori. come
fono da molli Secoli » ma cariche « e
miniAerJ. 7$ Guido Bacon di KùK
General in Cr» vaila fpedito
dall’lmperator a Segna per informarfi
de’ mii^i d^Dicoc-J Acopo Coreana Gefufta in unA foz Cronol(^ia confdlà victoria della Repubblica nell,’ Adriatico « 1^9 Imperio dell' Adriatico innanzi il
nal’cU mento, di Venezia bx dell’
Imperio Romano^ 5x8 Indulgenze quando
incrodocce« 81 Inico di Mendozza
Ambafeiador di Spagna a Venezia levato dall' Ambafceria con ftx) poco onore. i|$» Innocenzio IV. muore da nna percoflà datagli in fogno col calcio del PaAoralc da Roberto Vefeovo di Lineo! Uomo celebre in dottrina» e bontà. ^4 L Orenzo Diacono ritenuto da Pedo per levargli i, Telori Ecdefiafti ci., 5 M M
Anfionario» che cofa na e quando introdotta pz
Pietra Croltcchio Signor di Cliflà. ijp
fia II. vuole armare dne FuRe in An.
coni, e gli vien proibito dalla Repubblica* SP Pontelice » che non era confermare ujlP Jmpcradorr "o» ^ «hltjtuvì Zfìjc^uf, ma dtfftu'. Z4, Pontefice dee pafeere non tofare le pecore pontefici
pretendono che gli atti Concili non
fieno validi, fé noa in virtù della
confermazione Papale. 41. proibifeono
l’aver benefizio maffime di Curata a chi
non imetide la lingua del pc^lo.
5ji Povero obbligato fecondo i CanoniAi
a pagar la decima di quello» che
trova per iimofina », mendicando alle
portc*, Preferizionc che cofa fia*
^41 Pragmatica pubblicata in Francia.
85 Principi chiedona licenza alla
RepubbliI ca di pattare pel Golfo Proibizione fatta da' Veneziani a quelli di Riminì» Ancona» Fermo, cdAfcoU » che non
navighino in Schiavonia. 547 R Egalia
è un ;us del Ré di conferire tutti X ^ncfìzjlcmpUci vacanti dopo, la morte
de'Vefcovi Rn. eh’ è acato il SuccdTore.
KccreCro che cola fìa* 84 Reudenza
tenuta da molti, che fi trovavano nel Concilio di Trento de Jare divino, 91
Rifervazioni, annate, afpetracive, c
tutte le altre etazicmi della Corte Romana iDsna t proibite dal Concìlio
Balilen* fc. S S
Vnro» SantiiBmo, beato, beaciUìmo •lami
t che convenirano una volqi a tutti i
fedeli j che afpiravano. al* Sanciti j
ora particolari fmo del Son>* mo
Po«if:6cc. »7 Scrittura dclP Imperadore
s c deirArci-i dura io favore dcU^
Repubblica, ^on* tra gli UlcoccKi. Segna
Citti de’ Conti Frangipani . 1 49
Signor di Lenovicb Genqral di Crovaaia . 1J4 Spoglie» che cofa fitop. 10; Stefano eletto Papa dopo la mprrc di * Zuccheri^ > perché non fii conlàgrato,
non fu'pofto nel Catalogo de* Papi che non Ù lafcit^ mai vedere in pubblico i fatto Pap^ la
Teodora faraoTa Meretriae Roooa^ na •
Stefano della Rovere Qapiuno (H Fiu*
me ^Apita in Veneaia per trattar^ in
propolìco degli VTCtxtbi a
V U Scocchi di che paefe
fieno. loro violerà?, e rapine I C
E, no di tre forte > ftipendìati »
CafalU ni e Venturieri 1x7. loro
delcrizione» 11® Veneaia fi fa Padrona
di tutto il Col- fio . 510* proibi fee a
nxt| dì tener le* f ni armati nel
Golfo» jt** non fon- a le file ragioni
del Dominio del Ma* re fopra privilegi
dì Papa* o d'Impe* radere . {^7. Signorn
dell* Adriattep >irre feiìi. jdf Véfeovo anricamente era chetio dal Po polo» le. quando era morto fi por* Cava U fno anello » e ’l fuo Pafiorale all’Imperadore > affinché lo
conferiite ad un altro. $7 Veicovi titolari i gran numero vt n’era innanzi il Concilio di Trento» al pre* lente é molto ri^retco. a a Vefeovi Italiani dello Stfto
Ecdefiafii* co non folamente fiam>o
in piedi al* la prefenaa de' Cardinali {
nu ancora noa Aiisano difboore fervirli a tavola. 5® Vefeovi delle Chiefe ricche > e
gr;:n- di fono pafTati dal dirpenQire al diffiparc • Fu provedgto a dd d..' 5^ coleri.
Vector Barbaro Segretario fpedico dal
General Pafq04li|o al Coinmetririo
Rabatn per 1* iniereflè d^li .Ufeoe*
chi, ' 57^ , A.A. F. Paolo Sarpi. Paolo Sarpi. Sarpi. Keywords: l’arte del bien pensar, Locke, impression,
reflection, metaphysics, Bibioteca Marciana, pensieri, pensiero, logica, bien
pensare, galilei, hobbes, metodo, sensismo, il fenice di Venezia, scritti
filosofici inedita. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Sarpi” – peri il Club
Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Sarpi.
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