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Monday, January 20, 2025

LUIGI SPERANZA -- GRICE ITALO A-Z S SCI

 

Luigi Speranza -- Grice e Sciacca: all’isola -- la ragione conversazionale all’isola -- l’idea della libertà – fondamento della coscienza etico-politica – la scuola di Messina -- filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Messina). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Messina, Sicilia. Studia a Palermo sotto RENDA. Insegna a Palermo. Volge il suo interesse verso il criticismo, a cui dedica “La funzione della libertà nella formazione del sistema kantiano” a cui fece seguito, “La libertà come fondamento della coscienza etico-politica” (Palumbo, Palermo), che reproduce la memoria in appendice. Società filosofica italiana Altri saggi: “Filosofi che si confessano” (Anna, Messina); “La steresis nella filosofia dell'azione” (Accademia di Scienze, Lettere ed Arti, Palermo); “Il concetto di tiranno, dagl’antichi italici a SALUTATI” (Manfredi, Palermo); La visione della vita nell'Umanesimo di SALUTATI” (Palermo); “Politica e vita spirituale” (Palumbo, Palermo); “Gli Dei in Protagora” (Palumbo); “Esistenza e realtà” (Palumbo, Palermo); “Scetticismo” (Palumbo, Palermo); Ritorno alla saggezza” (Palumbo, Palermo); “L'uomo senza Adamo” (Palumbo); “Sapere e alienazione” (Palumbo, Palermo); “Il segno -- quel Segno” (Cappelli, Bologna); Reale accademia di lettere scienze e arti", «La filosofia per cambiare il mondo», La Repubblica.  Bono, Rocca, M. K. N., la tradizione del criticisimo, in Giovanni, Le avanguardie della filosofia italiana, Angeli, Società Filosofica Italiana", Plebe, Giovanni.   Sciacca fu un filosofo italiano nato a Messina nel 1912 e morto a Palermo nel 1995,  fu professore di storia della filosofia presso la facoltà di lettere dell’Università di  Palermo e presidente della Società Filosofica Italiana.  OPERE:  Le opere di Sciacca sono:  • La funzione della libertà nella formazione del sistema kantiano (1945)  • L’idea della libertà. Fondamento della coscienza etico-politica (qui Sciacca, in  appendice riproduce la memoria del 1965).  • Ritorno alla saggezza (1971).  • L’uomo senza Adamo (1976).  • Sapere e alienazione (1981)  • Il segno, quel segno (1987).  PENSIERO:  Sciacca, nella sua opera “L’idea della libertà. Fondamento della coscienza etico-  politica” tratta del rapporto esistente tra Scienza e Filosofia, privilegiando la  dimensione metafisica della filosofia contro la dimensione positiva delle scienze  esatte.  Sciacca recupera il pensiero di Renda e abbandona il pensiero di Cantoni, secondo la  quale oltre la conoscenza del mondo è importante il destino dell’uomo nell’aldilà e  nell’aldiquà.  Nel 1963, egli nel suo saggio si chiede con Kant se la metafisica sia possibile come  scienza; la risposta è negativa, in quanto la metafisica di per se, andando oltre la  scienza tratta i problemi di maggior rilievo per l’uomo. L’uomo usa la sua ragione per  problematizzare la sua esistenza nel mondo, proiettandola verso l’aldilà in una  dimensione etico-religiosa. La presenza di Kant, in Sciacca, la possiamo ritrovare  nelle sue opere successive, ovvero: Ritorno alla saggezza (1971); L’uomo senza  Adamo (1976); Sapere e alienazione (1981); Il segno, quel segno (1987).  Sciacca, sottolinea che, nella fase storica di maggiore espansione della scienza e  della tecnica, l’uomo ha più che mai bisogno della filosofia, cioè l’uomo ha bisogno  di tornare alla saggezza, considerando che l’uomo dei tempi moderni è primo di  saggezza, ovvero “un uomo senza Adamo” che ha mistificato e mercificato la natura.  Egli, sottolinea che l’uomo non può ignorare l’enigma dell’aldilà, cioè non può  dimenticare l’ignoto oltre l’orizzonte della vita terrena.  Per Sciacca, il sapere che distoglie l’uomo dai ver problemi è un sapere allenante o  fuorviante, cioè: il mondo è un sistema di segni che vanno decifrati aldilà  dell’apparenza, ed è proprio per questo motivo che Sciacca suggeriva di cercare  l’essenza della metafisica, ovvero della filosofia.  Egli, afferma che la filosofia si è sempre limitata a chiedersi il perché delle cose  senza mai ritenere di poter dire l’ultima parola, la scienza invece ha finito con il  prevaricare ogni forma di sapere, nel momento in cui da scienza pura e semplice, è  diventata tecnica o peggio ancora tecnologia.  Proprio per ciò occorre scoprire e riscoprire una filosofia “critica” che torni alla  saggezza.  Successivamente, Sciacca, nel suo volume “L’uomo senza Adamo” si confronta con  Marx; sembra strano che uno spiritualista come Sciacca riesca a riscoprire attraverso  una lettura di carattere antropologico del giovane Marx e quella di carattere  economista del Marx maturo, evidenziando una forte esigenza di metafisica.  Sciacca, sottolinea l’esigenza di tornare all’origine, a Dio, ovvero riscoprire la  dimensione umana; qui, si ha un distacco dal materialismo storico, dal marxismo-  leninismo, che predicava la violenza come strumento di lotta, al contrario del  pensiero di Sciacca che a una libertà raggiunta con la forza, preferiva una libertà  raggiunta con la pace, semmai con la forza della ragione.  Il penultimo libro di Sciacca, “Sapere e alienazione”, è composto da cinque saggi  ciascuno dei quali pone il problema di intendere il sapere come alienazione, infatti il  filosofo è convinto che ogni forma di sapere storico costituisce una forma di  alienazione.  Sciacca nel primo saggio si interroga sulla dicotomia tra vero e falso, ed il suo  suggerimento è quello di scavare, socraticamente, dentro se stessi, considerando che  il vero e il bene sono da ricercare sempre come problemi.  In “Sapere e alienazione”, nell’interiorità di Sciacca si accende una curiosità: quella  di Nietzsche che nel Saggio della Gaia Scienza, conferma che sono stati gli  uomini ad uccidere Dio, e secondo Sciacca, conferma anche che nello stesso tempo è  morto l’uomo stesso, sradicato dalla sua storia e dalla sua cultura.  Sciacca andava incontro Marx per superarlo e andava incontro a Nietzsche per  superarlo; in quegli anni, il filosofo, andava contro corrente.  Nel suo ultimo libro “Il segno, quel segno”, egli intende il mondo come un insieme di  segni, sottolineando che l’atto della conoscenza rappresenta il primo segno  dell’uomo, il segno iniziale e distintivo che lo rapporta al mondo.  Egli, suggerisce che conoscere non costituisce un atto semplice cosi come può  apparire a chi è accecato dalle apparenze, proprio per ciò sostiene, come già detto,  che si dovrebbe tornare all’essenza delle cose e non soffermarsi all’apparenza delle  cose.  Tutti questi interrogativi posti da Sciacca possono trovare una risposta in una sua  affermazione: “Forse, risalendo all’origine del nostro personale, ripetitivo conoscere  nei suoi atti spontanei e pur carichi di significative responsabilità, l’essere di un  mondo del quale sempre cerchiamo il volto migliore potrà aiutarci a rispondere  insieme alle domande dell’anima e a quelle del sapere, scientifico e no”BIOGRAFIA:  • Filosofo italiano;  PENSIERO:  - Tratta del rapporto tra Scienza e Filosofia; - Privilegia la dimensione metafisica della filosofia;  preso roteare i il di mivesta  di Palermo;  Presidente della Società Filosofica Italiana.  GIUSEPPE MARIA SCIACCA  (1912-1995)  OPERE:  La funzione della libertà nella formazione del sistema kantiano (1945) L'idea della libertà. Fondamento della coscienza etico-politica (qui Sciacca, in appendice riproduce la memoria del 1965). Ritorno alla saggezza (1971). L'uomo senza Adamo (1976). Sapere e alienazione (1981) Il segno, quel segno (1987).Giuseppe Maria Sciacca. Sciacca. Keywords: Grice, ‘Negation and Privation’, negation, privation, negatio, privatio, the use of ~ to stand for both negatio and privatio – privatio as mere negatio (~), plus implicatum -- steresis, l’idea della libertà – fondamento della coscienza etico-politica -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Sciacca” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza --Grice e Sciacca: FILOSOFIA SICILIANA, NON ITALIANA -- all’isola -- la ragione conversazionale dell’anti-filosofia e contra-implicatura – filosofia fascista – il ventennio fascista – la scuola di Giarre – filosofia siciliana --  filosofia italiana – Luigi Speranza (Giarre). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Giarre, Catania, Sicilia. La filosofia non asciuga lacrime né dispensa sorrisi, ma dice la sua parola sulla verità delle lacrime e dei sorrisi. Dopo gli studi liceali classici si trasfere a Napoli, dove si laurea sotto ALIOTTA. Insegna a Napoli, Pavia, e Genova. Fonda Il Giornale di Metafisica. Molto intenso e il suo rapporto filosofico e di stima reciproca con il filosofo fascista GENTILE, un sodalizio testimoniato dalla fitta corrispondenza tra i due filosofi, da cui però ben presto S. si allontana, in particolare dal filone idealista, per condurre la sua propria ricerca filosofica in modo più ampio, tanto da condurlo a studiare per un certo periodo, grazie alle sue conoscenze pure in campo teologico, sia la corrente del misticismo che quella dello spiritualismo. Accademia di studi italo-tedeschi, Merano. Profondo conoscitore di SERBATI, promotore della fondazione del centro di studi dedicato a Serbati a Stresa. Una delle principali figure dello spiritualismo, a cui pervenne dopo i primi interessi per l'attualismo ed i successivi, più impegnativi studi sullo spiritualismo, anche interpretandolo in modo originale, delineando un particolare percorso di continuità che, rifferendo alla metafisica classica, perviene a concepire un'apertura del soggetto personale come creatur averso l'attualità assoluta dell'essere nell’integralità. E ricordato principalmente attraverso Ottonello. Saggi: “Agostino” (Morcelliana, Brescia); “L'Anima” (Morcelliana, Brescia); “Filosofia morale” (Bocca, Torino); Atto ed essere (Bocca, Torino); Interpretazioni rosminiane Marzorati, Milano); “Come si vince a Waterloo” (Marzorati, Milano); “La filosofia e la scienza nel loro sviluppo storico. Per i licei” (Cremonese, Roma); “Platone” (Marzorati, Milano); Filosofia e anti-filosofia (Marzorati, Milano);  Chiesa e civiltà (Marzorati, Milano); Critica letteraria (Marzorati, Milano); L'oscuramento dell'intelligenza (Marzorati, Milano); Studi sulla filosofia antica. Con un'appendice sulla filosofia medioevale (Marzorati, Milano); Ontologia triadica e trinitaria. Discorso metafisico-teologico Marzorati, Milano. L'Insegnamento della filosofia: atti del Convegno di studi, Messina (Peloritana, Messina); Ontologia triadica e trinitaria (Epos, Palermo); Atto ed essere (Epos, Palermo); Il magnifico oggi (Epos, Palermo); In Spirito e Verità (Epos, Palermo); La clessidra (Epos, Palermo); L'ora di Cristo (Epos, Palermo). Centro di Studi Filosofici di Gallarate, Dizionario dei Filosofi, Firenze, G. C. Sansoni; Dizionario dei Filosofi (Firenze, Sansoni); Schiavone, L'idealismo, Negri, “Dall'atto all'integralità” (Forlì, Ethica);  Pignologni, Genesi e sviluppo del rosminianesimo, (Milano, Marzorati); Bologna, Quaderni del Giornale di Metafisica, Stresa, Rivista Rosminiana, Incontrare S., Venezia, Marsilio, Ottonello, “L'anticonformismo costruttivo” (Venezia, Marsilio); Shiavone, L'idealismo, Collana di studi filosofici rosminiani, Domodossola; Milano, Sodalitas, Ospitato su Bontadini e la metafisica. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. S. Filosofia e Metafisica MARZORATI MILANO  FILOSOFIA  E METAFISICA    I due volumi di Filosofia  e Metafisica raccolgono le  pagine più impegnate e pro fonde che lo S. ha  scritto e segnano il passaggio dallo Spiritualismo cristiano  alla Filosofia dell’integralità. In essi si possono leggere saggi di rilevante interesse teoretico come quelli  sul concetto di metafisica e  sull’ateismo, oltre all’altro  sull'esistenza di Dio, che ormai si allinea tra 1 testi classici della filosofia contemporanea.   Lo stile avvincente e chiaro, il vigore del pensiero insieme profondo e cristallino, l’unità dell’ispirazione,  il modo proprio dell’ Autore di rendere attuali e vivi  problemi di sempre, fanno  che quest'opera, sistematica senza pesantezza, sta una  lettura appassionante e proficua.    Zursarax $. Tommaso visita S. Bonaventura. OPERE L'interiorità oggettiva, Come si vince a Waterloo, Interpretazioni rosminiane, L'uomo, questo squilibrato , Atto ed essere, La filosofia oggi, La filosofia morale di A. Rosmini, Morte ed immortalità, La clessidra (Il mio itinerario a Cristo), In Spirito e Verità, Dall’Attualismo allo Spiritualismo critico, Filosofia e Metafisica, Pascal, Dialogo con Blondel, Così mi parlano le cose mute, Kierkegaard e il  malessere  della cristianità, LA FILOSOFIA ITALIANA, Il tempo e la libertà, Il momento estetico e il valore ontologico della fantasia, Platone, Studi sulla filosofia antica, Chiesa cattolica e mondo moderno, Il pensiero italiano nell'età del Risorgimento, Il pensiero occidentale nel suo sviluppo storico, Studi sulla filosofia moderna, Le mense di Cristo. via Borromei. Ai miei allievi di Genova e di Pavia. L’ illustrazione è opera del pittore fiorentino  Primo Conti. La caravella dalle vele crociate, che attraversa le  Colonne d’ Ercole, simboleggia l'aspetto essenziale  della filosofia dello S.: non vi sono ostacoli  per il pensiero umano, nè barriere invalicabili, se  esso cammina e procede sorretto dalla fede nella verità di Cristo. I più impegnativi e sistematici scritti raccolti în questo  volume sono il condensato  dei due corsi universitari di  Filosofia teoretica, da me tenuti a Genova, elaborazione di idee maturate  nell'ultimo corso professato nell'Università di Pavia. La lezione  almeno per me  è la forma più efficace di comunicazione e di silenziosa collaborazione: è sempre stato ben  poco quel che ho insegnato al confronto di quanto ho appreso  insegnando. Perciò ogni anno il debito verso i miei Scolari  aumenta: il giorno in cui si stabilizzerà, avrò esaurito la mia  capacità d'imparare insegnando e sarà giustizia e onestà che  scenda dalla cattedra. È dunque per un motivo intrinseco  (e direi in segno di riconoscenza) che il volume è dedicato  ai mici Giovani di Genova e Pavia. Ma ve n'è ancora un  altro: alcuni di Loro sono già docenti, studiosi e scrittori  di filosofia. Per il saggio sull’Esistenza di Dio, nella fase di  elaborazione e in quella di revisione, ho chiesto il loro  ausilio, datomi attraverso il dialogo e anche con precise  obiezioni scritte, di cui ho tenuto conto. Di ciò ringrazio  i Proff. Antonelli, Caracciolo, Crippa, Prini e Scotuzzi,  tutti già mici scolari del Portico pavese edoggi mici collaboratori nella lieta fatica delle ore riscattate e affidate alla  perennità dello spirito.   Così, dopo i Problemi di filosofia, ormai lontani, pubblico ancora una raccolta di saggi teoretici. Credo che l’organicità del volume non abbisogna di essere giustificata: l’unità dell’ispirazione (almeno questo è il mio avviso)  trapela dalla prima all'ultima pagina; le idee fondamentali  che lo sostanziano, sempre presenti, tornano con una inststenza martellante. Ma, come che sia di ciò, resta il fatto  che pubblico ancora una raccolta di saggi teoretici, invece  di quella Filosofia dell’integralità, che prometto da alcuni  anni e la cui pubblicazione non ritengo prossima. Il senso  di responsabilità mi obbliga manzonianamente a pensarci  sopra, a meditare ancora su quella che considero la sistemazione definitiva del mio pensiero, per minima che potrà  essere la sua importanza.   Ma, in mancanza diciamo pure di meglio, anche le pagine qui raccolte forse significano qualcosa.   Innanzitutto ho cercato di eliminare un equivoco, a cui  i miei precedenti scritti potevano prestarsi: non dall’immanenza alla trascendenza, ma dalla presenza in noi di qualcosa che ci orienta ed oltrep assa alla Trascendenza in sè:  da Dio come è presente alla nostra mente a Dio in sè nella  sua Realtà assoluta e nel suo Mistero impenetrabile. La  prima posizione, per la sua equivocità, andava definitivamente chiarita e, una volta chiarita, oltrepassata. Essa  può rappresentare un temporaneo stadio intermedio (forse  un passaggio obbligato per chi proviene dall’idealismo trascendentale) tra immanenza e trascendenza, non un punto  d'arrivo definitivo, fondato criticamente e sondato fino tin  fondo. Ma l'abbandono di ogni compromesso con l’idea  lismo trascendentale, in special modo con l’attualismo del  Gentile, mi ha consentito di distinguere nettamente le sue  due forme fondamentali: dell’Idealismo trascendentistico ed  oggettivo e dell'idealismo immanente e soggettivo, quest’ultimo negazione della verità del primo, sopruso che il pensiero consuma contro la Verità che lo fonda e alimenta,  per cui problemi, esigenze e principî dell’Idealismo trascendentistico, trapiantati nel campo sterile dell'immanenza assoluta, trovano la loro morte proprio nella soluzione immanentistica. Mi è sembrato e mi sembra necessario  tenendo  conto del processo di nascita, crescita e dissoluzione del pensiero moderno  riscattare problemi, esigenze e principi dalla illusoria soluzione immanentistica per farli rivivere nella  verità dell’Idealismo trascendentista, fatto più ricco, maturo e critico dall'esperienza speculativa che va dal Cogito  di Cartesio alle posizioni più recenti della filosofia contemporanea. Si tratta, in breve, d’inserire l’idealismo tradizio  nale di essenziale ispirazione platonico-agostiniana nel vivo  della problematica della speculazione moderna non per adattarlo ad essa  che sarebbe ucciderlo  ma quale elemento  risolutore della sua dissoluzione e soddisfacente le sue esigenze  critiche. Così, a nostro avviso, la  metafisica della verità ,  propria dell’Idealismo oggettivo, risolve in sè le due opposte  metafisiche  dell'essere  e  del pensiero , conservando al  pensiero e all'essere tutta la loro validità e positività. Con ciò  ritengo di rendere un buon servizio al pensiero moderno e a  quello tradizionale; un buon servizio, quale si addice alla  filosofia, di avanzamento nella via della verità. Evidentemente le pagine qui raccolte non presumono di avere realizzato questo programma, la cui attuazione è solo all’intzio; ma mi pare che in esse l'impostazione vi sia, ed è pure  qualcosa.   Ancora su un altro punto desidero richiamare l’attenzione di chi leggerà questo libro. Spesso i miei precedenti  scritti sono stati accusati (dai tomisti) di esigenzialismo:  esigenza della metafisica e della trascendenza, ma non  .ancora loro  fondazione . Di questa critica ho tenuto conto  perchè ha la sua parte di verità. Credo che ora non mi si  possa più muovere e chi v’insiste (0 v’insistesse) ripete senza  efficacia un luogo comune, perchè mi pare di avere abbandonato la posizione esigenziale ed essere passato alla fondazione razionale della metafisica e della trascendenza, pur  senza sacrificare (al contrario) quell’apporto della vita spirituale nella sua integralità, della quale la ragione è un elemento essenziale ma non il solo, in cui va sempre colta  e da cui non va isolata. Mi sembra che così il pensiero moderno sia invitato ad acquistare consapevolezza di una conclusione che non può più ignorare: la trattazione più  teoretica e critica impone, nella sua razionalità autentica e  concreta, la verità insopprimibile della metafisica e della  trascendenza. In altri termini, chi scrive ha l ambizione di  poter dimostrare che proprio la più rigorosa istanza teoretica  e la più intransigente esigenza critica, se spinte fino in  fondo dalla logica che governa e guida la vita dello spirito,  debbono necessariamente concludere alla fondazione di una  metafisica teistica, la sola vera e perciò la sola autenticamente razionale e critica. Queste nostre conclusioni, per altri  motivi, valgono anche contro quei pensatori contemporanei  cristiani o cattolici che credono di poter accettare con alcune  correnti odierne la svalutazione e quasi la inutilità (quando  non la nocività) della ragione e di salvare ugualmente la validità della ricerca filosofica facendo della filosofia dell’  estgenza , del  cuore , della  fede , del  mistero , del   sentimento  ecc. e riducendo la metafisica alla psicologia  o ad una specie di fenomenologia dell’esistenza. Le stesse  conclusioni valgono ancora contro altri studiosi cristiani 0  cattolici che credono basti contrapporre il pensiero tradizionale a quello moderno e condannare questo per avere  partita vinta e instaurare un nuovo clima speculativo; oppure che, preoccupati della razionalità (innegabile) della  filosofia, sacrificano alla ragione la ricchezza della vita spirituale, finendo così per isterilire le capacità della ragione  stessa. A noi sembra invece che la filosofia vada assunta  in tutta la sua pienezza, che è la stessa della vita dello spirito. Crediamo che queste affermazioni siano sufficienti per  distinguerci dagli esigenzialisti e dai psicologisti (cioè da posizioni di pensatori francesi ed italiani che hanno affinità  innegabili con la nostra), come pure definitivamente da.  ogni forma di immanentismo ed anche, infine, da un razionalismo che impoverisce la stessa ragione con la pretesa di  garantirne la purezza e il primato. Le pagine di questo volume sono dunque impegnative:  chi le ha scritte può chiedere pertanto che chi legge, prima  di accettarle o respingerle, s'impegni a sua volta almeno su  quelle dei saggi della parte centrale, forse le più significative. Chi le ha scritte si è compromesso  e l’ha fatto in  modo di  compromettere  chi le legge. Direi che le pagine  sull’Esistenza di Dio in certi punti siano quasi indiscrete:  vogliono entrare con violenza. E ciò perchè chi le ha pensate e scritte esige da chi legge una risposta. Nell’ordinare le mie  Opere complete  pensavo di ristampare questo lavoro col titolo L'esistenza di Dio e d’inserire i restanti scritti in qualche altro volume della Collana.  Ho dovuto rinunziare al progetto: non si può sopprimere  un libro che ha ormai un suo posto nella filosofia contemporanea ed ha suscitato appassionate, anche se non sempre  intelligenti, discussioni, che hanno dato corpo ad una letteratura critica di mole considerevole, alla quale si sono  aggiunte le traduzioni della parte centrale in spagnolo (La  existencia de Dios, Tucumdn, Richardet), francese  (L’existence de Dicu, Paris, Aubier), Modern Catholic Thinkers, London, Burns and  Oates; ancora in spagnolo degli altri capitoli (La filosofia y el concepto de la filosofia, Buenos Aires, Troquel,  1955, 2° ediz., 1959) e dell’ Ateismo (Madrid, Miracle,  1954), tradotto anche in inglese (Formville, Virginia).   Ma questa seconda edizione non è una ristampa della  prima; infatti, il contenuto è stato riordinato în altro modo:  il breve saggio su Il concetto cattolico di libertà di pensiero  è il solo rimasto nell’Appendice; sono state aggiunte  pagine nuove e il saggio su  L'ateismo , oltre al seguito  della discussione con F. Olgiati, sicchè il libro ha dovuto  essere diviso in due volumi.   L’opera, anche nella veste attuale, non fa parte del corpus  della  Filosofia dell’integralità , ma segna il passaggio dallo spiritualismo cristiano  a quest'ultima posizione, di cui, come è noto, la prima formulazione è L'interiorità oggettiva.  Essa, dunque, da un lato, presenta ancora incertezze ed imprecisioni (1 concetti di persona, interiorità oggettiva, eststenza, realtà ecc. non sono del tutto approfonditi, precisati,  elaborati) e, dall'altro, conserva motivi non criticamente ripensati della posizione precedente, di cui tuttavia è una critica. La sua revisione profonda e lo sviluppo della sua tematica rinnovata ed arricchita st trovano nei volumi posteriori;  pertanto, in questa nuova edizione, a meno di non scrivere  un altro libro, non mi restava che conservare la stesura di  dodici anni fa, limitandomi ad una revisione della forma e  ad un riordinamento delle pagine. Tuttavia, come ho detto,  mi è stato possibile, servendomi di note che risalgono al 1951,  inserire nella terza parte aggiunte e precisazioni senza alterare il contenuto dell’opera, che, com'è, segna una tappa nello  sviluppo interno del mio pensiero. Genova. Griesalp (Svizzera). N.B. La terza edizione, meno qualche ritocco nella forma,  riproduce la seconda, esauritasi in pochi mesi. Introduzione,  Giornale di Metafisica , Filosofia,  Humanitas, Come bisogna concepire la filosofia?, Revue de Synthèse, Humanitas. Filosofia e vita spirituale, relaz. letta al  Congreso de Filosofia Suirez y Balmes  di Barcellona, Actas, Madrid, Instituto  Luis Vives  de  Filosofia, e  Humanitas, La metafisica e i suoi problemi,  Giornale di Metafisica, e  Philosophia, Universidad Nacional de Cuyo, Mendoza. Discussione intorno al concetto di metafisica,  Giorn. di Met., Cultura  e trascendenza, testo francese,  Études philosophiques , numero speciale, 1948; testo italiano,  Humanitas: testo spagnolo,   Revista de Filosofia. Cultura e metafisica,   Humanitas ,Vi è una filosofia della storia?,  Procedings of the tenth International Congress of Philosophy, North Holland, Amsterdam, e  Humanitas,  Esistenza e consistenza,   Giorn. di met., e  Atti del Congresso di  Filosofia , l’Esistenzialismo, Milano, Castellani, L'ateismo, Dio nella ricerca umana, Ricciotti, Roma, Coletti; trad. spagnola, Madrid, Miracle; trad. inglese, Formville (Virginia);  L'esistenza  di Dio,  Giorn. di Met. Il concetto cattolico di libertà di pensiero, San Sebastiin, 1948, a cura del Comitato delle  Conversaciones catélicas  internacionales , e  Humanitas. Ogni guerra, per la nazione che l’ha combattuta, segna.  sempre la fine di qualcosa che era e il cominciamento di  qualcos'altro di nuovo. Quando poi una guerra ha proporzioni gigantesche, scaturisce da situazioni di portata mondiale e si combatte in nome di principii la cui sconfitta  o vittoria importa una nuova epoca del mondo, come quella che da qualche mese si è conclusa ('), essa segna la fine di  ordini e di sistemi politici, sociali ed economici, il crollo di  ideali e di miti e nello stesso tempo l’inizio di nuove forme  di vita nazionali ed internazionali, continentali ed intercontinentali. Anche la filosofia, che è vita concreta dello spirito  (proprio per l’universalità e la necessità della verità non contingente ma superstorica, che è suo oggetto), tutt'altro che  estranea allo scorrere del tempo e alle nuove esigenze che  nascono al posto di altre che declinano o sono sommerse,  si trova di fronte a nuovi compiti. Essa  proprio perchè  sicura che i cangiamenti esteriori sono spesso il segno di  profondi mutamenti spirituali  ha il dovere e il diritto di  insediarsi, pur senza fare della politica o dell’economia, alla  base dei nuovi problemi politico-economico-sociali, anche  contro l’intelligenza di quanti credono che essi siano solo  una pura e semplice questione di politica o di economia.  Perciò la filosofia è chiamata a rimettere sul tappeto della  discussione e della lotta problemi e soluzioni, ipotesi e principii, affinchè l’eterna verità infinita venga più profondamente sondata e più chiaramente configurata in nuove e  sempre parziali prospettive, anch'esse incomplete come le  precedenti, ma di queste meno inadeguate e più comprensive. La storicità della filosofia è figlia della Sofia, che storia non ha: la Sapienza è madre della storia e perciò anche  del filosofare. Non la ricerca o il processo storico condizionano la verità, ma la Verità condiziona e fa che esistano e  la ricerca e il processo.   Una nuova rivista di filosofia (?), nel momento in cui  per l’Italia e il mondo incomincia una nuova epoca, non  ha bisogno di giustificare la propria ragion d'essere; specialmente se si tien conto che, da noi, alcune tra le più  accreditate riviste filosofiche o hanno già da alcuni anni  esaurito la loro funzione e perciò rappresentano un modo  di filosofare ormai al tramonto, difendono posizioni quasi  sorpassate, comunque esprimono quel che alla filosofia e alla cultura in generale è già acquisito e come tale appartenente alla storia; o hanno perduto i Direttori, che ad  esse conferivano con la loro personalità, ben definita e riconosciuta, indirizzo ed autorità.   In questi lunghi ed atroci anni di guerra la filosofia, come qualsiasi altra attività, è stata sospesa all’esito dell’immane conflitto. Non ha sonnecchiato o dormito; ha atteso  trepidante per i destini della vita dello spirito, per l’esistenza stessa del diritto al pensiero, che è essenzialmente  diritto alla libertà. Trepidante, ma fiduciosa nella perennità della vita spirituale, per cui l’uomo è uomo; perciò  ha atteso pensosa e raccolta: non ha disperato e dunque  ha potuto continuare a pensare. Ora la guerra è finita, ma  ha lasciato impressi nei nostri occhi e nel nostro spirito  gli orrori della morte; superstiti di uno sterminio senza  precedenti, siamo quasi increduli di ritrovarci. Però come     Il Giornale di Metafisica  (Torino, Società Editrice Internazionale),  presentato dalle pagine qui ristampate. capita a quanti si ritrovano vivi dopo aver vissuto per anni  sotto l'incubo della morte e tra tanti morti che assiepavano  e rendevano oscura e quasi invisibile la linea della vita, noi  superstiti abbiamo gran desiderio, brama di vivere. Ma, per  vivere veramente da uomini, è necessario che facciamo  violenza a noi stessi, che sottomettiamo ai valori spirituali gli istinti vitali il cui scatenarsi per eccesso di irrazionale valutazione ha portato l’umanità alla guerra di sterminio, all’ebrezza atroce e crudele del sangue, l’ha degradata al livello zoologico. La rivolta oscura delle forze  primitive ed elementari della vita animale ancora oggi,  malgrado tutto, sembra ribellarsi al rispetto dei valori spirituali e alla disciplina di un ordine morale. Perciò noi sosteniamo (e ad oltranza difenderemo questa nostra posizione) che il desiderio di vivere  e con esso il genericissimo  concetto di  vita  venga qualificato come desiderio di  vivere nello e per lo spirito, quasi di spirito; che lo spettacolo orrendo e disumano di un mondo sconvolto dalla  furia, dalla violenza e dall’odio sia al più presto cancellato  dai nostri occhi e soprattutto dai nostri cuori e dalle nostre menti. Innumerevoli, tra i superstiti, le persone colpite,  oltre che dalla guerra, dal cozzo violento e a volte brutale  delle ideologie politiche. Ci sono i martoriati e i giustiziati  di un partito e quelli del partito opposto; i sopravvissuti covano nel loro cuore rancori, odii, propositi tenaci di vendetta; sedimenti si accumulano nelle loro coscienze; la sete  di sangue vendicatore repressa e non sanata aumenta; potrà   di nuovo!  rompere gli argini e provocare nuove guerre  e nuovi sanguinosi e disordinati sconvolgimenti. La corruzione dell’organismo sociale minaccia sempre l’esistenza di  una società. Ogni coscienza che non sa oggi perdonare, che  non lotta contro i suoi impulsi immediati per scoprirsi ed  affermarsi coscienza autentica, per vincere il gelo della vendetta con il fuoco della carità, porta dentro di sé la paurosa responsabilità di un’umanità futura peggiore di quella  di ieri. Avviare le coscienze a trovar pace nel perdono e  conforto nel lavoro e nel bene è uno dei compiti alla realizzazione del quale ogni forma di umana attività deve contribuire e più delle altre la filosofia, che, come abbiamo  detto, è la vita stessa dello spirito. Si tratta di ricostruire,  d’instaurare nelle anime il senso dei valori spirituali sulle  rovine morali e religiose (incommensurabilmente più gravi  di quelle materiali), che ideologie politiche e sociali prima,  durante e con la guerra (*), si sono satanicamente accanite  a seminare a piene mani. In questa santa battaglia di rimarginazione delle ferite spirituali, ciascuno di noi, quale  che sia il suo grado di cultura istruzione capacità, quali  che siano la sua professione e il suo mestiere, i dolori e i  lutti che porta dentro di sè, ha il dovere di prendere e tenere il suo posto, di restarvi fedele come umile combattente  della verità. Combattere per la verità è l’ufficio dell’uomo;  farla trionfare a lui non compete.   Ritrovare noi stessi; aver ragione del nostro individualismo per affermare la nostra vera personalità che è, come  tale, negazione degli egoismi individuali o familiari, di classe o di nazione. La difesa e la garanzia della nostra persona,  prima di reclamarla come un diritto, dobbiamo sentirla come un dovere e perciò come un atto morale; ma non vi  è moralità senza legge, senza una norma universalmente valida. Ubbidire alla legge è costruirsi, affermarsi, consistere  come persona. Solo l’adempimento del dovere conferisce  il diritto di avere dei diritti; il diritto all’esercizio del dovere e la dedizione all'adempimento di esso sono la condizione necessaria e sicura di qualsiasi altro diritto, che, senza  dovere, è il diritto della forza, negatore della persona, esaltatore dell’individualismo titanico, che ogni diritto sommerge  e ogni libertà conculca. Libertà della persona significa libertà  dall'egoismo individuale e sociale dalle mille facce, o non E, purtroppo, bisogna dire anche dopo la guerra. significa niente. Ricostruisce la società chi costruisce la propria persona non solo per sè, ma per tutti. Gli egoismi dividono, la legge unifica; la materia rende impenetrabili, lo spirito ci fa intimi gli uni agli altri, è la via maestra della comunicazione nella verità; le passioni accendono  passioni ed accentuano le distanze, la virtù tempera, contempera ed avvicina; l’interesse cristallizza le menti e raffredda  i cuori, l'amore rinnova, alimenta e riscalda. Tanto sangue  versato per lo scatenarsi dell’odio, della distruzione e dell'ingiustizia non può e non deve essere stato versato per perpetuare questi flagelli, che tutti concordemente ed unanimamente diciamo di condannare e di voler tenere lontani.  Molti giovani oggi tornano dai campi di battaglia o di  concentramento, dalla prigionia o dalle carceri, dai nascondigli e dalle montagne. Quel che hanno visto soffrire e sofferto non lo sapremo mai: il racconto delle sofferenze morali e fisiche ha poco senso per chi non ha sofferto e visto  soffrire, tanta è l’intimità e la personalità del dolore, come  di tutti gli umani sentimenti. Quel che è passato per le loro  menti nei giorni oscuri è loro patrimonio non trasmissibile;  è necessario però che diventi capitale del loro spirito, ricchezza che produca nuova ricchezza. Lo esigono loro stessi,  se è vero che hanno combattuto per un mondo migliore,  se la serietà, la pensosità e spesso la serenità dei loro volti  sono il segno di serietà e serenità interiori; lo esigiamo noi  tutti che con e per loro vogliamo contribuire alla rinascita  della vita spirituale e all’appagamento del bisogno di orientamento in tutti profondo ed urgente; lo esigono soprattutto quanti (quanti!) non sono tornati, quanti nella fossa  hanno seppellito con loro tesori di affetti e di dolori, sconosciuti ed inconoscibili, inespressi ed inesprimibili per il  mondo a cui non appartengono più, per la terra che li copre, ma non li possiede. Chi ha sofferto per il male non  si consola con altro male; chi è caduto non vuole che la sua  morte sia resa sterile da altra morte. Il chicco di grano che cade sulla terra è lieto di sacrificarsi nel suo germoglio; i morti di ieri esigono da noi  e abbiamo il dovere  di rispondere al loro appello  che siano tanti semi di frumento e non di zizzania, da cui dovrà germogliare l’umanità di domani, cioè dello spirito, nostra realtà dignità grandezza, non della materia, che, da sola, è la nostra animalità ed effettuale miseria; esigono cioè che, vittime dell’odio,  della ferocia e della barbarie, loro, che più di tutti avrebbero diritto a non perdonare (ammesso e non concesso che  un simile diritto sia riconoscibile all'uomo), siano i pionieri  di un mondo di pace e lavoro, di un’umanità che sappia  trasformare il bagno di sangue, a cui è stata costretta, in  un lavacro di riscatto e purificazione.   Tornano, dunque, i giovani seri, pensosi e bisognosi di  orientarsi; hanno sete di giornali, riviste, letture, programmi, che, in verità, non si manca di offrir loro, tanto  è in tutti il bisogno di fare e dare alcunchè. Che cosa noi  offriamo loro? Il pensiero, che è tutto il nostro noi migliore,  il noi profondo. Li incitiamo a pensare, che è filosofare,  filosofando noi stessi. Non presentiamo una filosofia bella  e fatta che serve a chi l’ha fatta e non a chi non la fa da  sè, ma un modo di concepirla, un metodo di filosofare, che  valga come metodo di vita e di condotta. Essi tornano non  con problemi astratti, ma, diciamo così, incarnati, fatti di  carne ed ossa, sangue e nervi; non possiamo dare in cambio  formule confezionate in serie, valide per tutti e perciò non  buone in concreto per nessuno. La filosofia, che esprime problemi ed -esigenze nostre, ha il dovere di essere l’espressione dello spirito umano e non di estraniarsi dall’uomo,  che la fa essere ed è la sorgente inestinguibile della sua vita  perenne. Il pensiero, come la ragione, è universale perchè leggi universali governano la sua attività; ma il pensiero e la ragione non esistono come enti impersonali ed  astratti, bensì come pensiero e ragione degli uomini, di  ogni singolo uomo. Il panlogismo astratto ed impersonale è la negazione dell'umanità della ragione e perciò è inumanità e negazione della filosofia, che l’umanità dell'uomo è  chiamata ad esprimere. Chi filosofa veramente impegna non  la sola ragione, quasi staccata dal resto di sè, ma tutto se  stesso; perciò la filosofia, a parte la religione, è il momento  più ricco e fecondo della vita spirituale, la vita stessa dello  spirito. Da essa  col concorso della religione, dove trova  il suo completamento  ci può venire una rigenerazione  verace di tutto l’uomo e un rinnovamento profondo della  vita; da essa, che, quando si scruta fino al midollo e si scopre come fondamentale verità e come apertura al Dio rivelato e incarnato, non è più inutile somma di esperienze  e di fatti scientifici, politici, sociali, economici ecc. ma  loro conversione qualitativa su un piano diverso e ben elevato; dunque, è altresì atto di supremo coraggio, la filosofia. Filosofare è guardare in faccia noi stessi e le cose  per leggervi dentro, l’occhio teso e fisso per non sbagliare,  quel che noi significhiamo e le cose significano; è cercare  e trovare la significanza del creato, il senso assoluto del  suo contingente esistere; perciò è concludere, senza chiudersi in una conclusione definitiva, contro ogni aperta o mascherata inconcludenza del mondo, banale o sublime che sia.   Una filosofia così concepita, che pone in prima linea la  validità della ragione e i diritti del pensiero; che ha come  suo oggetto la verità che non nasce e non muore; che, come  vedremo, è filosofia della trascendenza teologica razionalmente fondata; che propugna un integrale realismo, che è  assoluto spiritualismo, da un lato non teme l’accusa di psicologismo, di riduzione del filosofare a descrizione dei fenomeni psichici e fisici, ad analisi dei sentimenti o ad intimismo soggettivista pre o afilosofico; dall’altro, accetta la  problematica che scaturisce dalla vita vissuta di ogni singolo e  viene incontro a quanti portano come problemi dolori, dubbi,  speranze. Dare anima e volto umano ai problemi ed alla verità, che trascende gli uomini e le età perchè alla contingenza sovrasta, ed illuminare la vita spirituale dei singoli con  la luce inestinguibile del vero; inverare il fatto, affinchè viva  nell’eterna verità ed esistenziare il vero, affinchè si faccia  la nostra verità umanissima: questa è la filosofia.   Se moltissimi hanno lottato e molti sofferto fino al sacrificio significa che, anche nelle ore più oscure, l'umanità  non ha disperato che certi ideali superiori di vita avrebbero  finito per vincere; ma non c’è speranza senza fede; gli uomini, dunque, hanno avuto fede. Anche la filosofia è spe  ranza, quella di trovare la verità che chi filosofa cerca:  chi cerca ha già scoperto la vita spirituale. Non possiede  ancora il vero, ma ne è posseduto fin dall’atto che lo  cerca: chi filosofa è chiamato dalla verità, ne ha la vocazione; non la conosce ma cerca, ha già fede in essa  e nei suoi disegni, anche nonostante tutto. Anzi, proprio  quando il meccanismo delle passioni sembra invincibile, ci  si rifugia nell’ideale con fede profonda. L’utopia, ribellione  meditata alla situazione effettuale e suo superamento, prende  la spinta dal riconoscimento deciso e preciso che solo un  fattore ideale può dar forza e valore ad ogni forma di vita;  è fede nella perenne validità del principio, e questa fede è  la molla del filosofare. Non è credenza, preconcetto e dogmatica affermazione, ma certezza interiore, che si sforza di  comunicarsi attraverso la ricerca per farsi scienza. Senza  di essa la filosofia non sarebbe mai nata: le menti ed i  cuori degli uomini, inerti, si sarebbero estinti nel dubbio, senza speranza. Ragionar molto, è vero; ma anche sentire molto: un pensiero robusto e ferace è ad un tempo  figlio della ragione e della fede. Proprio perchè ricerca e insieme possesso iniziale della verità, la filosofia non è scetticismo ed è vita rinnovatrice e promotrice di nuova vita;  perchè non possesso pieno, non è dommatismo ed intransigenza cieca, ed è amore del vero, aspirazione perenne, dinamismo spirituale sollecitato e mosso dalla verità per la scoperta della verità stessa, grido di eremita che trascina  popoli interi.   Filosofare, dunque, è nutrire sempre più di fede la filosofia, nutrirla d’interiore certezza e di razionale fiducia nell’essere della Verità che è anche di ciascuno di noi, il nostro  immortale Ideale. L'umanità sopravvissuta alla guerra, dopo tanti crolli di idoli e miti, è innanzi tutto bisogno di fede,  sete di credere; perciò anche bisogno di filosofare, di cercare, aspirare. Così è, specie quando circostanze straordinarie pongono di fronte a loro stessi uomini e popoli, li rivelano nella loro interiorità profonda, in quel che è il loro  consistere, che si nasconde, indomabile, al di sotto del loro  fenomenico esistere. È necessario che tanta ansia di ricerca  e così vivo calore di fede siano bene istradati, cioè siano autentico bisogno di filosofare e non vaga e sterile aspirazione,  inconcludente andirivieni, pericolosa imboccatura di vicoli  ciechi; urge mettere a frutto la fede per non sciuparla o inaridirla nella sfiducia, a cui segue l’indifferenza, morte dello  spirito. Metterla a frutto, affinchè non si disperda in lampeggiamenti che abbacinano e stordiscono, nè si offuschi in  un’accensione accecante per il molto fumo, ma si componga.  fiamma limpida e illuminante; affinchè non sia disordinata  crescenza, ma ricchezza fondata su principî e da essi sorretta e  guidata in modo da scongiurare la confusione delle lingue, il  cangiar nome alle cose, il chiamar le virtù vizi e i vizi virtù,  quel gran male con cui Tucidide caratterizza la mutata e  corrotta società di Atene alla fine della guerra del Peloponneso.   Poco p-iù di cento anni fa il Risorgimento intellettuale  e politico d’Italia fu preparato e nutrito da una fede profonda e robusta, che non conobbe scoramenti e disarmò le  smentite; fede saldissima nei destini della Patria divisa ed  oppressa, perchè innanzi tutto fede nei valori invincibili  dello spirito, negli ideali più nobili di una umanità migliore, nella realtà di una legge morale che sovrasta interessi ed egoismi, nella santità e nelle bellezze autentiche  della Chiesa di Roma, nella Verità rivelata da Cristo, fonte  d’ogni progresso e d’ogni civiltà, in quanto sorgente e  legge di salute. Antonio Rosmini e il  Rosminianesimo   (indichiamo con questo nome il movimento dello spiritualismo italiano della prima metà dell’Ottocento, che dal Roveretano ricevette l’impronta profonda) ebbero una gran  fede nella verità; perciò la filosofia fiorì e gli italiani filosofarono. Noi oggi, come i nostri progenitori di ieri, abbiamo  una gran fede nei destini dell’umanità, proprio perchè abbiamo una gran fede nei disegni della Provvidenza, promotrice e fecondatrice del lavoro degli uomini, suoi figli.  L’anima di verità dello spiritualismo italiano dello scorso  secolo non si è esaurita col risorgimento politico d’Italia:  questioni di ordine pratico e non filosofico, l’avvento del  positivismo prima e l’affermarsi del neohegelismo nel primo  quarto del secolo nostro dopo, ne hanno interrotto il processo, anche se alcuni  e positivisti e neohegeliani  abbiano detto o creduto in buona fede di continuarlo.   Oggi è necessario liberare lo spiritualismo da alcune interpretazioni, che riteniamo tendenziose ed erronee e di promuovere nuove vedute di esso; riprendere il filo al punto in  cui fu rotto per riannodarlo ai fili della nostra vita di uomini d’ oggi, non per ripetere o conservare, ma per continuare e rinnovare: a scuola, alla vera scuola, s'impara, non  si ripete. Imparare significa accrescersi ed accrescere, rielaborare e ricreare, rivivere, che è tale quando si continua e  si rinnova la vita degli altri nella e con la nostra propria  vita. La dipendenza spirituale c'impegna dunque dentro i  limiti di un filosofare che è il loro vivente filosofare, in  quanto è anche il nostro nuovo, personale, attuale filosofare;  ci impegna non per quel che il passato ha di caduco ed è  passato con il suo tempo, ma per quel che di perennemente  vivo vi è in ogni filosofare che è stato veramente la passione di  un’anima e, in questo caso, per circa mezzo secolo, di quasi tutta una nazione. La tradizione è indispensabile alla filosofia,  come a qualsiasi altra disciplina scienza istituzione popolo  che abbiano una storia, ma dev'essere lievito, non peso  morto; tradizione rivissuta da noi, in modo che diventi il  nostro noi: noi inseriti in essa ed essa in noi. Ab antiquo la filosofia è definita scienza dell’essere, dell’universale; come scienza, deve essere pura da ogni elemento soggettivo; come avente per oggetto l’essere, rispecchiare l’oggettività di esso, al di sopra di ogni contingenza  di spazio e tempo: la verità nella sua oggettività è comune a tutti gli esseri razionali e per tutti uguale in ogni  epoca e luogo. Dunque, la filosofia, che tale oggettività è  chiamata ad indagare, deve spogliarsi degli elementi soggettivi, elevarsi in un’atmosfera di serenità composta e severa; far tacere tutti quei sentimenti che possono essere anche individualmente certi o quelle soluzioni che si presentano anche belle edificanti confortatrici, ma che non sono, gli uni e le altre, nè razionalmente formulabili nè oggettivamente veri; ha l’obbligo di non mescolare i propri problemi e le proprie soluzioni con le circostanze contingenti di  un determinato momento storico e di non fondarsi su di esse.   C'è molto di vero in questo modo millenario, gloriosissimo e nobilissimo di concepire la filosofia e l’oggetto  della sua indagine. Se anche per noi la filosofia non fosse  scienza dell’essere e la verità oggettiva e realissima, anteriore ad ogni ricerca, Verità, anche se la filosofia non fosse mai nata e l’uomo mai creato; se anche per noi non  esistessero massimi problemi, non avrebbe senso parlare  di filosofia, di metafisica. D'altra parte, per noi, l’oggettività della verità, che è prima dopo e indipendentemente  dal pensiero che la cerca e conosce, non esclude affatto la  personalità del filosofare e della filosofia. È la verità, ma  è l’uomo che la cerca; e non l’uomo in astratto una astrat  34 Filosofia e Metafisica       ta verità, ma il singolo, questo o quel filosofo, cerca le  verità, perchè sia la sug verità. Eliminare la personalità dalla ricerca filosofica o prescinderne è eliminare l’uomo  o prescinderne, cioè essiccare la radice della filosofia. La  pura oggettività ed universalità, che mettono in parentesi il  soggetto che cerca, sente e pensa, non appartengono alla filosofia nè ad altra forma di umana attività. Comnoscere  la verità significa sforzo di penetrazione, scoperta di quel  che è verità, non mero rispecchiamento o copiatura. Lo   specchio  tersissimo è freddo ed inerte, indifferente all’immagine che riflette, al suo riflettersi e al suo sparire;  copiare è lavoro meccanico, che tanto riesce meglio quanto più l’amanuense si estrania da esso e pensa ad altro.  Chi cerca, invece, non è indifferente alla verità  conoscere è  possedere ; non pensa ad altro, ma al contrario, non pensa più a nient'altro. Conoscere la verità è totale partecipazione ad essa; eros profondo e fecondo, irresistibile, amor di  possesso e d’appropriazione, di meità, direi, della verità universale ed oggettiva. Che non è verità perchè mia, nè perchè la scopro e conosco o nell’atto che la conosco; ma  nel momento che la cerco, la amo: amo cercarla e trovarla  e quando la possiedo, la ho come mia verità, come /a verità che è mia e mi costituisce. Una la verità contemporaneamente presente nelle innumerevoli coscienze che furono,  sono e saranno: universalissima e personalissima al tempo  stesso. Non si tratta soltanto di quella soggettività che è  riconosciuta alla filosofia e alle altre scienze, compresa la  matematica (il Poincaré, com’è noto, distingue i matematici  in due tendenze: quelli che, guidati dalla logica, procedono  per lunghe analisi astratte; gli altri che, guidati dall’intuizione, per sintesi intuitive e concrete), consistente nella diversità  dei metodi, dei modi particolari di procedere nella scoperta del  vero e nella sua sistemazione, ma di una soggettività più  profonda, che investe l’essenza stessa del filosofare. Si tratta, infatti, d’intendere la filosofia come assoluta dedizione dell’uomo intero, nell’atto che filosofa, alla verità, per cui  questa  e nel momento della ricerca e in quello della scoperta  aderisce interamente al soggetto filosofante, suona  per la sua mente e per il suo cuore con determinati, particolarissimi accenti e vibrazioni, lo trasfigura, lo esalta, lo  riempie di gioia, lo innova, come dice Agostino. L'uomo apre  un nuovo spiraglio sull’infinita verità; e  come il prigioniero che nella segreta, a un certo punto, inaspettatamente, è rischiarato dal sole  chi vede saluta e sorride alla luce, che è Za Luce, ma è la sua luce, perchè suo  è il lavoro della ricerca, sua la gioia della scoperta, sue le  ansie e le esitazioni, suoi i dubbi e le angosce, sua la prospettiva dalla quale si è posto per cogliere un aspetto dell’infinito vero, oggetto del suo amore. La verità è madre  del filosofare, ma le vedute di e su di essa son geniture dell’umana mente; prodiga nel darsi a chi l’ama, si allegra  d’esser figlia del suo figlio, il pensiero, che certo, non la partorisce, ma, dalla verità fecondato, partorisce; tale gestazione  è appunto il filosofare. E non vi è parto senza dolori e gioie;  perciò il pensiero, che è fecondità fecondata e fecondatrice,  conosce il dubbio e la speranza, il sorriso e il pianto. La verità  sorride e piange con l’uomo che pensa e pensando l’ama e  cerca; assume essa, divina, volto anima espressione umane.  È l’umanità perenne della filosofia, la personalità di cui  essa è gelosa.   Perciò noi, contrari ad ogni forma di soggettivismo, che  vanifica l’essenza stessa della filosofia, ne nega in partenza  l'oggetto, non ci sentiamo di negare quanto di personale vi  è nella ricerca filosofica, per la quale la verità si fa nostra  senza con ciò ridursi al nostro pensiero ed identificarsi con  esso; contrari ad ogni forma d’individualismo siamo per  la personalità della filosofia, in quanto nessuna forma d’impersonalismo riescirà mai ad eliminare la persona, soggetto del filosofare; avversari di ogni riduzione della filosofia a pura descrizione fenomenologica, che nemmeno sfiora il problema ontologico e schierati per la centralità del problema dell’essere, ci opponiamo ad una concezione puramente nozionale dell’essere stesso. Perciò ancora siamo contrari ad ogni forma di svalutazione della ragione e dell’intelletto, alla riduzione del conoscere alla pura intuizione  immediata, ma lo siamo anche ad ogni intellettualismo astratto e geometrico razionalismo, che non tien conto dell’umanità del filosofare, dei diritti del sentimento, delle  ragioni del cuore, di quanto vi è di intuitivo nell’umano  sapere. Difensori della scientificità della filosofia, non tolleriamo alcun tentativo di riduzione di essa ad una qualsiasi scienza particolare, nè ad alcuna forma di scientismo  che precluda l’apertura del filosofare scientifico e razionale  ad una verità metarazionale e superscientifica. La  Scienza , onnipotente ed onniveggente divinità, che tutto risolve  ed ogni mistero svela, è un idolo nefasto, che annulla, con  paurose confusioni e gran danno, le differenze qualitative  tra le varie forme di attività spirituale e sovverte la stessa  natura razionale dell’uomo nel momento stesso che ne decreta la potenza illimitata ed infinita. Lo studio di un aspetto particolare dell’esperienza, isolato dagli altri e non avente  come suo scopo essenziale l’approfondimento dello spirito  nella sua interiorità e nei suoi rapporti con il mondo esterno, è ancora una forma di cosiddetta scientificità della filosofia che non possiamo accettare, in quanto tende a limitare la ricerca al sensibile e alle sue leggi; e la filosofia è  sintesi, non serie di soluzioni, ma soluzione unica. La conoscenza sensibile e la scienza naturale o matematica, che  pur possono rendere segnalati servigi alla speculazione, non  possono assorbire o sostituire la filosofia, il cui compito principale è di far acquistare all'uomo una sempre maggiore  consapevolezza di sè e della  gravità metafisica  della sua  destinazione, il senso della sua esistenza e della sua autonomia, di dare al tempo, alla storia, il carattere di via all’eternità e non d’inabissare lo spirito nel divenire temporale. Soltanto così l’uomo, a mano a mano che sonda le sue profondità, si eleva con tutto se stesso all’Essere, sorgente e  principio dell’intelligibilità e del mistero. Perciò noi, nello  stesso tempo che accettiamo il concetto della filosofia come  scienza razionale e indagine metafisica, secondo una tradizione che ha secoli di autorità e testimonianze antichissime,  e respingiamo le più recenti riduzioni di essa a psicologia, a  gnoseologia pura, a metafisica del pensiero immanente, a  pura descrizione dell’esistenza, a mera problematicità, a metodologia della storia, a vana fisicità, a logicismo, ecc., ci  dichiariamo pronti ad accettare quanto di vero e vitale ha  il pensiero moderno e contemporaneo, solleciti di non far  nostra qualsiasi posizione speculativa che pretenda di portarci indietro di molti secoli verso forme di realismo e d’intellettualismo, che è doveroso e proficuo rivedere  nell’interesse stesso della verità del realismo  spalla a spalla, in  una lotta serrata ma sincera e non ostile, con un pensiero che  da Cartesio in poi ha una tradizione e un'autorità che impongono rispetto e meditazione profonda, scevra da preconcetti e prevenzioni, senza intolleranze premeditate o  dogmatismi precostituiti. Piuttosto che ritornare a quanto  ha di sorpassato il passato, siamo decisi a muoverci incontro a quanto ha di meglio il presente: radicati nella tradizione, vogliamo pensare oggi per il futuro.   Questa nostra maniera di concepire la filosofia ci porta  a cogliere le sue ricerche e i suoi ritrovati nei due aspetti, apparentemente opposti: il personale e il sociale. Non solo  l'intuizione è personale, ma lo è anche il concetto, che è,  diciamo così, la elaborazione scientifica dell’altra. La sua  universalità è veramente tale quando include la concretezza dell’intuizione: universalità, difatti, non significa  affatto astrazione ed impersonalità; la verità concettuale è  anche la mia verità espressa in un concetto universalmente  valido. Concetto significa sintesi, e la sintesi è una veduta  che integra e coordina, non abolisce o nega, le frammentarie vedute individuali. Non vi è pertanto verità sociale, valida per gli altri, che non sia o non sia stata prima verità  intima, personalissima di un uomo. Nè cessa di esserlo   se è davvero verità e coglie ed esprime una nota od un  accento dell’umano pensiero  anche quando diventa sociale; anzi è tale proprio perchè ciascuno di quelli, di tutti,  per cui è verità, la riconosce e rifà sua, intima personale  verità. Altrimenti è formula morta, informazione estrinseca,  curiosità erudita, non elemento di cultura, che è vita spirituale. La verità  pubblica  è davvero tale quando, al tempo stesso, è verità  privata , di ciascuno, quando ogni  singolo la riconquista e possiede e vive come assolutamente sua. L’universalità e l’assolutezza del vero è la presenza dello stesso assoluto vero nelle molteplici coscienze  singole, che è poi un personale esser presente di ciascuna  di esse all’istessa verità. Forse in nessun’anima, come in  quella del pensatore solitario, è tanto presente l’umanità  di ogni tempo; forse niente è più sociale della solitudine pensosa ed operosa; diciamo della solitudine, non dell’isolamento.   L’identica assoluta Verità, ogni qualvolta è riscoperta ed  accettata da un’anima, le dona e l’arricchisce. Solo così c’è  commercio d’idee, progresso, perchè soltanto così ciascuno  di noi, ogni mente, è industria di idee; altrimenti gli uomini commerciano e scambiano parole senza contenuto, formule senza vita. Chi riceve senza dare è improduttivo. Sono  le epoche, cosiddette di decadenza della filosofia o afilosofiche, pigre ed inerti, che vivono di rendita e nulla sanno  mettere a profitto; in esse la verità ha solo l’apparenza della  socialità, perchè le manca l’intima essenza, costituita dall'intimità e dalla personalità del vero nella sua oggettività. Poco più di un anno dopo la fine della guerra ’14-18,  Giovanni Gentile nel  Proemio  premesso al primo fascicolo del  Giornale critico della filosofia italiana  così scriveva: oggi noi vogliamo un idealismo storico o attuale,  uno spiritualismo antiplatonico e immanentista . Molti  giovani, che la guerra avevano fatto e vissuto, sfiduciati dell’ambiente filosofico e culturale del momento, si orientarono  verso la nuova rivista. Durò poco; il  Giornale  continuò a  vivere, ma alcuni, giovani e anziani, cambiarono rotta e  s’'indirizzarono altrove. L’idealismo storico o attuale, antiplatonico e immanentista, non era la filosofia che rispondeva alle loro esigenze; infatti, di tutte le filosofie che hanno reagito al positivismo, è tra quelle che hanno fatto maggiori concessioni alle tendenze naturalistico-empiristiche e  più si è adattata ad esse. Concepisce il mondo come realtà  spirituale, ma, per il suo fondamentale storicismo ed immanentismo, imprigiona, anzi impoverisce lo spirito nelle forme e nei fatti empiricamente dati. Manca ad esso  quel carattere autenticamente metafisico e religioso, essenziale alla filosofia, lo slancio di elevarsi, con un respiro veramente universale e non mozzo, al di sopra di quella generica divinizzazione dell’umanità, a cui in fondo si riduce quel suo concetto di Storia o Cultura o Civiltà, col  quale identifica la totalità del reale.   Altri indirizzi in Italia e fuori sono contemporaneamente sorti ed hanno avuto fortuna; poi di nuovo la guerra ’39-45. Poco meno di sei anni: tutto cambiato. Filosofie  che fino alla vigilia dello scoppio del conflitto e a qualche  anno dopo erano studiate ed appassionatamente discusse,  oggi sembrano lontane e, a volte, estranee a noi, come se  da esse ci dividessero secoli. Morte? No: con esse, compreso l’idealismo storicistico o attuale che sia, dobbiamo ancora fare i conti, se vogliamo proprio dare un nuovo orientamento al filosofare. Misurarsi con gli avversari, con tutto il  rispetto che meritano e che anche noi esigiamo da loro,  è chiarire noi stessi, saggiare la loro e la nostra consistenza.   Diciamo subito, sebbene il lettore abbia già capito, che il nostro spiritualismo è platonico, come può esserlo uno spiritualismo che non intende ignorare il pensiero moderno e  contemporaneo nè da esso straniarsi; ed è trascendentista. Dire per esteso come noi intendiamo il nostro spiritualismo, in  che senso lo denominiamo platonico e trascendentista, qual’è  l'essenza del platonismo antico e cristiano, sarebbe anticipare in questa introduzione molte tra le pagine di questo  libro e quanti volumi formeranno la nostra Filosofia dell’integralità. Come abbiamo scritto altrove:  Noi... capovolgiamo il principio animatore di buona parte del pensiero  moderno e contemporaneo: non conquistare la posizione immanentistica dell’attività creatrice del soggetto, ma conquistare  ed anche questa è dura e aspra conquista  il senso, che è senso della trascendenza, di essere creati, il calore  spirituale di esser parte vivente della creazione. Aver sempre presente alla propria coscienza di essere creature, significa avvertire sempre la propria esistenza come dono, grazia di esistere: il mondo, nella sua totalità, è un dono della  grazia del Creatore. Appunto, per noi, filosofare è pensare  trascendendo il nostro pensiero; è far della storia trascendendo la storia; è tensione dello spirito verso una Realtà  che è in lui senza esser lui, che immane e trascende; è  aspirazione al possesso della Verità, che non ha storia e non  è filosofia, ma che fa e la storia e la filosofia . Platone?  Sì, ma anche Agostino, Pascal, Rosmini, Blondel. Platonismo, che è un aspetto perenne perchè essenziale e invincibile della filosofia di ogni luogo e tempo, dello spirito umano, che è  filosofo , perchè è aspirazione indomabile, eros  inesausto della verità. Perciò la filosofia è costituzionalmente  decisa tendenza alla trascendenza.   Oggi, come nel periodo immediatamente anteriore alla  guerra, vi è, specie nella filosofia francese e italiana, non un  ritorno, ma una ripresa dell’agostinismo perenne; i problemi filosofici, quello religioso e dei suoi rapporti con la filosofia, sono posti, trattati e discussi nei termini della spiritualità agostiniana: questa oggi la nota attuale (che non significa di moda) che riesce a farsi ascoltare. È anche la  nostra nota che non contrasta affatto con la ricchissima spiritualità tomista, di cui è da tenere gran conto, in quanto,  aggiungiamo, è tutt’altro che antiplatonica ed antiagostiniana. Agostinismo significa voler conoscere innanzi tutto  due cose: Dio e l’anima, la mia anima che ama Dio e a  Lui aspira. Dunque, umanesimo o spiritualismo cristiano;  centralità del problema dell’anima umana di fronte a Dio  che in lei parla e della consistenza dell’uomo e delle cose;  senso della creazione, che si coglie come tale nell’aspirazione perenne al Creatore e, dunque, senso profondo, interiore, della trascendenza. Dunque, ancora, pensiero che si  coglie nell’essere, non essere che si coglie nel pensiero;  perciò metafisica dell’Essere. Ma non basta. Da una parte,  la persona umana non è l’individuo, che è ogni ente organico, o l’io empirico, e, dall'altra, il Dio del Cristianesimo non è soltanto impersonale sostanza o mera essenza.  E’ più che sostanza, più che essenza: è Persona, Padre,  Creatore, Provvidenza. La teologia razionale, che tende a  scarnificare Dio, va animata e riscaldata dalla mistica, che  è esperienza interiore e teologia rivelata. Dio non è il residuo logico di un intellettualismo intollerante; non è Oggetto puro, ma Soggetto assoluto e trascendente: tale è per  la mistica che appunto ridona a Dio, come Dio di Gesù,  quella  soggettività  che è Sua  natura . Non si tema  l’immanenza, perchè, se non altro, questa posizione ci mette al di là del dilemma, più artificioso che reale, trascendenza-immanenza; nè l’esperienza mistica fa di Dio un  elemento immanente della vita dell'anima, ma Lo assume e ama come Voce interiore, Norma assoluta e Guida  infallibile: Voce, Norma, Guida, Via trascendenti, che spiritualmente ricreano la creatura. Dio ancora è intelligenza  che attua col pensiero gli intelligibili, ma attuandoli li vuole  liberamente. Anche qui non si tema il volontarismo, per chè siamo al di sopra del dilemma volontarismo-intellettualismo: la nostra posizione non è meramente volontaristica  e meno ancora anti-intellettualistica. L'attività intellettuale   che solo certe forme d’intuizionismo hanno relegato  nel formalismo e nell’astratta schematizzazione, con una restrizione del termine intelletto tanto ingiusta quanto incresciosa  è anch'essa vita intensissima e spirituale sentire,  che si collega con l’attività volontaria. Intelletto e volontà  sono fatti per armonizzare nella distinzione e reciprocamente integrarsi. La riflessa cautela critica dell'intelletto non  smorza, ma disciplina e rende più efficaci gli slanci della  volontà, come la rigorosa obiettività metafisica non si disgiunge dal carattere personale della ricerca filosofica.  Poetico  è l’intelletto, al pari della volontà. Insufficiente il  primo nella sua sfera se non è integrato dall’altra, come  è insufficiente la volontà che pretende di fare a meno  dell’intelletto; sufficiente è la completa e concreta vita umana  naturale nell’integrazione reciproca dell’una e dell’altra forma di attività. Da ultimo, il  complesso dell’uomo  ha il  suo compimento nella spiritualità soprannaturale, che non  altera l’umana natura, ma la solleva ad un più alto stato.   Una metafisica così intesa esaurisce il contenuto della  filosofia: è gnoseologia e morale, è scienza del mondo e  dell’uomo singolo ed associato; è filosofia che ha il profondo  senso morale e religioso di se stessa; perciò cristiana, alla  quale appunto il Cristianesimo dà la consapevolezza dei limiti della conoscenza concettuale e nello stesso tempo, con  la Rivelazione, la soluzione di quel che può solo cercare e  sondare, ma intorno a cui non può e non potrà mai concludere. La filosofia è razionalità, se si vuole,  intransigente  razionalità; ma è atto della ragione autentica riconoscere i suoi propri limiti; atto che include perciò stesso  il riconoscimento del mistero teologico, che non è affatto,  non occorre dirlo, irrazionalità o arazionalità. La ragione, lume naturale, riconosce, con un atto naturale, il lume soprannaturale: si apre alla Rivelazione; la filosofia,  che è indagine razionale, è apertura all’Essere, vocazione  alla trascendenza, che, per noi, è quella teologica. Se così  non fosse, se la filosofia non mettesse le ali allo spirito per  innalzarlo, faticosamente, nel mondo che è spirito e non  materia, che è verità e non illusione, da dove non dimentica  o disprezza il regno terreno, ma lo intende, conosce e valuta  al lume della Verità che lo trascende per indirizzarlo al suo  fine, che è il Creatore, la filosofia sarebbe ozio e concupiscenza dell’intelletto, non vita spirituale, salute dell’anima.  Fede e ragione in stretta ed armonica collaborazione, senza  che si armino i diritti dell’una contro quelli dell’altra; Suona  filosofia, dunque, in umiltà di cuore, semplicità d’intelletto  e rettitudine di volontà.   Di qui scaturiscono conseguenze di vitale importanza.  Innanzi tutto la filosofia è profonda consapevolezza dell’essenziale spiritualità dell’uomo nella sua complessa ricchezza e  dell’ordine del mondo; nell’uno e nell’altro caso, assenso  alla verità di Dio, creatore dei due ordini, provvidenza o  attività perennemente creatrice e conservatrice. Consegue che  la filosofia è riconoscimento dell’essere del creato, di ogni  creatura nel suo grado di essere; in questo senso è  avviamento  all’integrità, che è appunto riconoscimento di ogni  ente nel suo grado di essere, per quel che è e significa;  è  disposizione  (non diciamo realizzazione o compimento)  al ritorno alla creazione genuina, messa in linea per il riscatto totale di essa. Pertanto filosofare è ricreazione interiore della verità, iniziazione religiosa, contemplazione (theoria) che è concentramento della totalità del creato in un  punto del pensiero, da dove più potente ed irresistibile si  fa lo slancio verso il Creatore; è infine  e per tutto ciò   preghiera.   Da ultimo consegue che essa è essenziale moralità. Chi  filosofa si mette in cammino per incontrare la verità; dunque, nell’atto stesso, è chiamato a spogliarsi di quanto ini  44 Filozialmente può essere di ostacolo al raggiungimento del suo  scopo e a liberarsi, a mano a mano che la ricerca procede,  di quanto risulta falso o inadeguato: con ciò stesso riconosce che non la ricerca produce il vero, ma il vero la ricerca. Filosofare è pertanto itinerario di liberazione, di  purificazione: lotta del vero contro il falso, del bene contro  il male; dunque, è assolutamente moralità, che non è un  fatto, ma un dover essere. Nel nostro caso, è la possibilità di riescire a vincere il falso con il vero, il male con  il bene, di riescire al possesso della verità, che è saggezza.  E’ capace l’uomo (il pensiero, la filosofia) di passare dalla  possibilità di vittoria sul male e sul falso, alla reale riescita?  Di trascendere la lotta vero-falso, bene-male? La lotta  è la sua vita morale; la vittoria definitiva ne è l’esito;  poichè l’esito o cessazione della lotta è al di là di essa, la  trascende. Ma trascendere la morale è trascendere il pensiero, cioè il potere dell’uomo; dunque la realizzazione del  fine, per il cui conseguimento l’uomo lotta contro il male,  non è nell’umano potere. La filosofia, intesa come assoluta moralità, è la grande possibilità naturale di cui l’uomo dispone per realizzare il suo fine supremo. Impegnate  tutte le sue forze e fattele fruttare al massimo, il pensiero  si fa disponibile per accogliere dall’Alto, se vengono, le  energie della salvezza: l’essenziale moralità della filosofia  si rivela come essenziale sua religiosità; dunque l’esito della  vita morale (lotta del bene contro il male) non può trovarsi  se non nella religione. In caso contrario, la morale come lotta eterna senza possibilità di risoluzione, come perenne dialettica dei due termini in contrasto, si nega come morale, in  quanto si riduce ad un fatto, al fatto della lotta, che non  può non essere altro e dev'essere quello che è.   E’ la nostra ancora una morale filosofica o razionale?  Crediamo di sì ed aggiungiamo anche che è una morale  autonoma nella sua possibilità di riescire, con la speranza che la riescita che la trascende non le manchi e  venga a colmarla, a liberarla dalla lotta, ad assorbire la  morte in vittoria . La salvezza come fine della moralità  investe nel suo punto cruciale il problema dei rapporti di  filosofia e religione. Secondo la tradizione, Pitagora, quasi indietreggiando  umile di fronte alla maestà della divina Sapienza, per primo si nomò non sapiente ma filosofo: semplicemente amico  della Sapienza, veritatis amicus. La Sofia è scienza di Dio,  la filosofia è scienza dell’uomo. Dio  non è filosofo , dice  Platone, perchè è il Sofo.   Ancor prima di Pitagora e Platone, l’uomo (da Adamo  caduto, primo grido di dolore e primo atto di pentimento  per la verità perduta) ebbe ad accorgersi che l’amore per la  Sapienza costa carissimo. Amare la verità è tendervi, che è  sforzo perenne di ricerca, superamento di limiti, penetrazione  di zone di ombra, vittoria sul dubbio; lo sforzo è dolore.  L’uomo partorisce mella Verità le verità: prima gesta con  cautela e fatica; sorveglia perchè il parto non sia aborto prematuro e il partorito germoglio rachitico e malaticcio; poi  fa forza per rompere l’involucro che l’asconde e vorrebbe  soffocarlo: non si dà alla luce senza dolore. Ed è giusto:  non c’è luce di verità, per l’uomo, senza sacrificio e sofferenza, che fanno pura la gioia del generare. Umanissima la  filosofia: è suggellata dalle note eterne del dolore in letizia;  infatti è  testimonianza  del vero. Ma non si sopportano  sacrifici nè si affrontano martirii senza fede nella verità,  nel dono che farà di se stessa, essa, che è posseduta solo    50 Filosofia e Metafisica       da chi è suo possesso. Filosofo è chi ha fede nel ritrovamento del vero, chi usa il dubbio positivamente, come pedana di lancio o strumento d’acquisto; non dispera, non tentenna: crede, serve e muore. Socrate fu filosofo.   Altro saggio d’antichissima saggezza, Salomone, nell’Ecclesiaste, sottolinea il tormento di spirito, a cui volontariamente si condanna il filosofo per amore del vero: vivere filosofando (non primum e poi deinde, perchè non si  filosofa senza vivere, ma non si vive, in ispirito e verità,  senza filosofare) è lotta perenne, fatta di conquiste e perdite,  di elevazioni e cadute, di realtà ed illusioni deludenti, di  speranze e disinganni. Perchè? Perchè l’uomo, grandezza di pensiero e miseria di peccato, è sempre alle prese  con l’errore, sempre in un’ansia di ricerca che fruga il visibile e l’invisibile: ora cade al livello della carne che agogna delizie di piaceri, ora si slancia alle cime serene e luminose della pura spiritualità; contraddizione vivente di sapienza e stoltezza, di verità ed errore, instancabile ed inquieto viandante, che sorsa a mille sorgenti ed ha sempre  più sete. Alla fine, spossato umiliato confuso confessa la  propria impotenza e grida all’ausilio di una forza superiore alla sua; invoca il vero che tanto ha cercato, affinchè  scenda sul suo cammino e gli venga incontro, mercede di  tanto affanno. Deum time et mandata ejus observa; hoc  est enim omnis homo .   Perchè tanto peregrinare del viandante indomabile? Perchè egli, dice ancora il Saggio, per la verità deve lottare  con se stesso, portare in linea il lume dell’intelletto, che aspira all’invisibile immutabile vero, affinchè vinca il senso  cieco e corruttore, che vagola nell’errore e tenta, esperto  d’inganni e raffinatezze, di sostituire al vero le apparenze  di esso. Così dirà anche Platone, che fu filosofo. La saggezza  testamentaria s'incontra con quella greca nel cercare di definire l’essenza della filosofia e del filosofare.     Eed., XII, 5. Che cos'è in concreto filosofia? È una scienza come le altre? È una scienza sui generis? Ha un suo oggetto e quale?   Filosofia non è scienza come tutte le altre. Non lo è  innanzi tutto perchè, come ben notò Aristotele, si distingue  dalle scienze empiriche: essa, infatti (quando è vera filosofia e non tornaconto di falsi o mezzi-filosofi) non ha  fini utilitari. In questo senso, filosofia, la sapienza desiderata per se stessa e per amore del sapere , è scienza inwtile: non serve a niente di estrinseco o di estraneo alla ricerca della Verità in sè e per sè. Coloro che scherzando dicono che la filosofia è  inutile  non si accorgono di tessere  il suo più bell’elogio: inutile, e perciò libera e liberatrice. E  quando avvenimenti di eccezionale portata scuotono gli uomini nel più profondo della loro profondità e tutto sembra  irreale ed assurdo, il volgo, spregiatore del filosofo, chiede  a lui la parola che illumina e salva e nella filosofia intravvede i calzari con cui l’umanità cammina nel tempo per  secoli e secoli.   Bellamente disinteressata, pura contemplazione, spassionata ricerca della verità va fiera della sua sublime e quasi  divina inutilità. Il filosofo è come il poeta: contempla e canta, adoprando princìpi e formulando giudizi;  fa musica ,  secondo il comando che a Socrate carcerato dava in sogno  la voce misteriosa (7). D'altro non si preoccupa, dice ancora  Aristotele, in quanto ha il fine in se stesso .   Proprio perchè non è scienza empirica, essa è conoscenza  di tutto il reale, dello spirito e delle cose, non nella loro  accidentalità, in quel che hanno di empirico, bensì nei loro  princìpi e nelle loro cause. Ma ogni altra scienza particolare  non cerca pur essa princìpi e cause e leggi? Sì, ma nessuna.  studia l’ente in universale , bensì  dopo averne rescisso     Fedone, 60 e. qualche parte, di questa studia gli accidenti ; solo la filosofia studia l’ente in quanto ente e le sue proprietà essenziali  (*). Scienza dell’universale dunque e, come tale, distinta da ogni altra empirica.   Secondo lo stesso Aristotele, non è la sola che appartenga alle scienze dette  speculative  (distinte dalle  poetiche  e  pratiche ): condivide questa nobiltà con la fisica e la matematica. Ma non allo stesso titolo: occupa il  posto più alto nella gerarchia; e i gradi sono segnati dalla  purezza dell’oggetto: la fisica studia le forme, ma nella  materia; la matematica anch’essa le forme, ma astratte; solo la filosofia le studia pure e concrete (‘). Prima di Aristotele, Platone aveva già stabilito una gerarchia delle scienze  culminante nella filosofia o dialettica, la quale ha come oggetto le Idee in sè e per sè, senza alcun commercio col sensibile (*).   A parte la dottrina aristotelica delle forme e la platonica  delle Idee, proprie dei due filosofi, resta fermo che la filosofia ha come oggetto non alcunchè di empirico o sensibile,  ma il meta-empirico e il soprasensibile; che è scienza disinteressata, speculativa, il cui oggetto è l’universale, ciò che è  e non appare; non è ricerca di una singola verità; non si rivolge ad un oggetto particolare, ma a ciò che è, all’Essere.   Non è scienza come le altre la filosofia anche per un  motivo strettamente connesso a quanto già abbiamo veduto.  Le scienze, certo, son forme dell’attività dello spirito umano, ma nè una nè tutte insieme sono lo spirito. Che la  scienza sia spirito e lo spirito scienza, è solo un’erronea  equazione di certo positivismo o neopositivismo, che non  vide e non vede ancora che tra l’una e l’altra non v'è differenza di quantità, ma di qualità. Nè la filosofia è una  serie o collezione di sintesi (i contributi o i risultati di ogni    (3) Mer., IV, I, 1003.  (4) Met., VI, I, 1025 B.3-1026 a.  (5) Repubblica, 521 c-535 a.    Filosofia e concetto di filosofia 53       singola scienza), perchè è sintesi originalissima, assoluta. Ecco perchè /4 scienza, in fondo, è le scienze, mentre /z filosofia non è le filosofie   Di qui ancora la particolarità delle scienze. Ogni singola scienza conosce secondo un modo suo proprio (Pascal  direbbe un suo espriò) un aspetto del reale; la filosofia invece,  che ha il suo esprit inconfondibile, non s’indirizza ad un  aspetto, ma a tutto il reale. Lo conosce nella sua interezza? No, e qui bisogna intendersi. Vi è la conoscenza  comune, che non è scientifica nè filosofica, quantunque sia  il materiale sul quale lavorano e la filosofia e la scienza;  vi è la conoscenza scientifica che conosce  secondo un  suo metodo, suoi concetti e regole  un aspetto del reale,  astraendo dagli altri; vi è la conoscenza filosofica che tende a conoscere il reale nella sua totalità, cioè se lo pone  intero come oggetto di conoscenza, ma di esso coglie solo  un aspetto, meglio lo vede da un punto di vista, ne ha  una veduta parziale. Per conseguenza le scienze colgono  parzialmente un aspetto parziale del reale; la filosofia coglie parzialmente la totalità di esso. Perciò quelle hanno  un’astrattezza che la filosofia non conosce, senza che ciò  obblighi a concludere che i loro concetti, privi di valore conoscitivo, ne abbiano soltanto uno pratico ed economico.  Per povero che sia, un concetto è sempre una finestra sul  mondo; per limitato che possa essere il conoscere scientifico è sempre una veduta della realtà. Vi è inoltre un  problema fondamentale, in cui scienza e filosofia hanno  sempre collaborato: il problema stesso della scienza.   Per un altro verso le scienze sono astratte: sono conoscenza nel senso più angusto. Lo scienziato applica un metodo di ricerca ad un determinato fenomeno; è guidato solo  dall’osservazione e dalla ragione; il sentimento è escluso.  La filosofia no: è fondamentalmente razionalità concreta,  la razionalità che è l’uomo intero, totale, che è ragione,  volontà, sentimento, cuore. Anche quando la filosofia è puramente nozionale, formula scarnificata, resta sempre alla  pura ragione filosofica una vita che è pur presenza di umanità; anche la saggezza stoica o quella spinoziana sono profonde aspirazioni umane. Non così la scienza che astrae  dal sentimento, dall’umanità dell’uomo, anche da ogni motivo finalistico; perciò la sua necessità è naturale, quasi meccanica: in qualunque caso, anche se indeterministica, prescinde dalla finalità del reale. La filosofia invece è sempre teleologica: non è scienza dei fatti, ma dei valori; dunque la sua essenza è veramente spirituale. Perciò ancora è  libertà. Inoltre, la filosofia, essenziale ricerca della verità  oggettiva, che è prima di essere conosciuta e tale resterebbe anche se mai alcun soggetto pensante la conoscesse  o la cercasse, ha una sua indeclinabile soggettività: la verità  universale ed oggettiva è anche la mia verità, quella che, cercando ed amando, faccio mia. La scienza invece astrae dal  soggetto come tale per garantire quella oggettività impersonale, propria della conoscenza scientifica. Di qui l’ incommensurabile ricchezza della filosofia, quella stessa dello  spirito umano filosofante, cioè amante, con tutte le sue forze e con tutto se stesso, la verità desiderata, alla quale si  offre, dedica, sacrifica; quel senso umanissimo proprio della  pagina filosofica, che spesso, sotto la veste frigida  e il gelo delle formule, ha una vita possente e un’anima intera, la vita e l’anima, inconfondibili, del pensiero speculativo.   Da ultimo, la filosofia è impegnativa. Il filosofo che si  accinge al terribile compito di riflettere sulla conoscenza  comune, di sottoporla ad esame e a critica, di oggettivare  la sua vita per esaminarla profondamente, non più vissuta  nella sua immediatezza, ma posta come problema, il filosofo, dico, s’identifica con la sua filosofia, la verità che  è la sua vita. Ogni filosofo è una formula, ma la sua non  è un’astrazione; è tutta la ricchezza, radicalmente, della sua  esistenza; la formula è la croce, su cui si crocifigge e dalla quale perennemente rinasce. Lo scienziato, invece, pone un'ipotesi: questa può essere dimostrata falsa o vera,  restare semplice ipotesi. Nei tre casi  tranne che l’ipotesi non abbia una portata metafisica e, in tal caso, o fa  della filosofia con esprit filosofico e non più scienza, o fa  della filosofia con esprit scientifico e non più scienza nè  filosofia, ma pseudo-scienza e pseudo-filosofia  Ja sua vita  resta quello che è. Per il filosofo non è così: che Dio  esista o non esista, che il bene sia una realtà o un'illusione,  che il mondo abbia un fine o sia il risultato di combinazioni meccaniche, la verità dell’una o dell’altra di queste  ipotesi, impegna la sua vita interamente, importa vedere  l’universo in un modo radicalmente opposto ad un altro.  Lo scienziato che indaga non scommette se stesso; il filosofo sì, totalmente. Vi è nella filosofia un’essenza di totalità metafisica e insieme religiosa che manca alla scienza.   Si è ancora sostenuto, muovendo dalla pregiudiziale critica, che la filosofia non è la scienza, in quanto questa ha  dei presupposti che accetta senza renderne conto. La filosofia  invece, se vuol essere tale, discute e deve discutere non solo  i presupposti della scienza, ma ogni presupposto, porre in  questione se stessa. Ma la pregiudiziale critica, come qualsiasi altra, è essa stessa un presupposto: la si può discutere  in base ad un altro; e questo in base ad un altro ancora  e così via. La stessa pregiudiziale critica, affinchè abbia  senso e possa essere assunta come punto di partenza del  filosofare, presuppone l’oggetto della ricerca, la verità:  la critica ha senso come giudizio sulla umana conoscenza  della verità, non come dubbio che investa la realtà stessa  del vero, altrimenti essa vien meno al suo compito e  alla sua ragione d’essere, in quanto c’è critica del conoscere  solo rispetto alla verità. Infatti, il problema dei limiti  della conoscenza umana è tale rispetto alla verità ed è  problema della validità -del conoscere solo in quanto c’è  verità. La posizione critica è consapevolmente critica, solo in quanto col e nel suo porsi implica e riconosce la positività del vero. Dunque anche la filosofia ha i suoi  presupposti, quantunque sia meno dommatica della scien Teorie nuove sostituiscono le vecchie, ma nessun matematico, per esempio, pensa di far progressi nella sua scienza  cominciando dal mettere tutto in dubbio, anche che due e  due fan quattro; e se ciò mette in dubbio, non dubita  del numero. Anche lo stesso modo di condurre l’ indagine  filosofica implica dei presupposti. Del resto, non è solo un  limite della filosofia o della scienza; lo è del pensiero umano  in generale, il quale non può rendere conto di tutti i presupposti: gli possono apparire evidenti, ma non perciò sono dimostrabili. Vi è un metodo  scrive Pascal quasi a principio  del frammento sull’Esprit géometrique  più eccellente di  quello della geometria, consistente: a) nel  non usare alcun  termine di cui non sia stato prima spiegato nettamente il  senso ; b) nel  non affermare mai alcuna proposizione che  non sia stata dimostrata con verità già conosciute; cioè, in  breve, nel definire tutti i termini e nel provare tutte le proposizioni . Bellissimo metodo, ma  assolutamente impossibile . Di dimostrazione in dimostrazione  si arriva necessariamente a dei termini primitivi, che non si possono più  definire e a principii così chiari che non se ne trovano altri  che lo siano di più per provarli . Se la filosofia, come ogni  altra umana scienza, potesse spiegare tutti i presupposti  senza presupporne alcuno, non sarebbe più filosofia, ma  Sofia, la Sapienza, di fronte a cui si sgomentò Pitagora; nè  l’uomo sarebbe filosofo, ma Sofo; Sofo è solo Dio, che  non è filosofo. Gli uomini non hanno la capacità (ed è qui  la ragion d’essere della filosofia) di costruire una qualsiasi  scienza di ordine assolutamente perfetto. Dunque, la filosofia è scienza sui generis, ma l’esser tale  non significa affatto che non vi siano altre scienze, come hanno cercato di dimostrare alcuni indirizzi filosofici contemporanei cosiddetti idealisti. Torna il conto soffermarvisi, anche se brevemente.   Per il neohegelismo italiano, per esempio, la filosofia è  scienza speculativa, il cui criterio logico, che è anche principio del reale, è il dialettismo antinomico. Perciò: l’antinomia dialettica è il principio di tutta la realtà; la filosofia ha come criterio logico lo stesso principio; dunque la  filosofia, in quanto dialettica, è scienza del reale. La logica  aristotelica invece (che lo Hegel e gli hegeliani chiamano   astratta  per distinguerla dalla nuova detta concreta )  assume come princìpi logici della speculazione quelli d’identità e non-contraddizione; per conseguenza muove da un criterio logico speculativo diverso da quello  l’opposizione dialettica  che è il principio del reale; dunque non può conoscere il reale, di cui si lascia sfuggire l’essenza. Alla logica  astratta, che procede per esclusione, bisogna sostituire quella concreta, che fa suo il principio del dialettismo antinomico. Così vi è corrispondenza perfetta tra il criterio logico  della speculazione e il principio del reale; anzi il principio 0  la legge del reale (ciò che è reale) è lo stesso criterio logico  o legge del pensiero (ciò che è razionale). La filosofia, scienza  speculativa, è l’espressione perfetta di questa identità, la trasparenza dell’Idea.   Le altre scienze non sono scienza  in quanto assumono  come principii del reale leggi determinate e fisse, che escludono la contraddizione. Dunque non hanno valore conoscitivo; astratte, si lasciano sfuggire la concretezza del reale.  Scienza è solo la filosofia che è l’antinomia, la contraddizione, fattasi realtà; perciò è scienza diversa dalle altre e, come tale, decreta la loro non-scientificità o empiricità, nel  momento stesso che conferma la sua sola legittimità scientifica.   Che la realtà presenti antinomie e contraddizioni, anche  sconcertanti, è vero; ma è proprio la contraddizione che provoca il pensiero a vederci chiaro e a cogliere la radice, dove i  termini opposti s'incontrano. La conoscenza, filosofica o scientifica che sia, è soluzione di contraddizioni, componimento  di antitesi ad un livello più profondo dell’antitesi stessa. Come dice il Rosmini, l’universo è un grande e sacro libro  aperto da Dio davanti agli occhi dell’uomo e scritto tutto di  quesiti e difficoltà, proposte all’umana intelligenza perchè le  risolva. Dio  col permettere che insorgano nella mente dell’uomo delle dubbiezze, o, per dir meglio, delle difficoltà,  ... riscuote l’inerzia di lui e lo provoca alla riflessione ed alla  investigazione del vero. La legge  fissa  non è che  soluzione, diciamo così,  dinamica  della contraddizione,  del dubbio e della difficoltà che han provocato la mente a  comporli. Dunque, anche la legge scientifica, in questo senso,  è sintesi conoscitiva, come lo è il concetto filosofico, ferme  restando le differenze da noi poste sopra tra filosofia e scienza.  Inoltre, se la realtà, almeno come appare, è contraddizione,  ciò non significa affatto che l’essenza del reale sia l’antinomia. Fermarsi ad essa è arrestarsi alla superficie o almeno sull’ultimo gradino rifiutandosi di penetrare nella radice profonda del reale stesso, dove è il componimento di tutte le  antinomie; è indietreggiare di fronte alla metafisica, che è  appunto la filosofia; essere ancora degli empirici; è fare della  filosofia una scienza empirica (sia pure sui generis) come le  altre; è il residuato positivistico che l’idealismo trascendentale non è mai riescito a sciogliere, nonostante i suoi sforzi  metafisici. Nè il principio che sottostà all’antitesi è l’astratto,  ma l’assolutamente concreto. Astratte son le scienze non in  quanto non riconoscono l’antinomia, bensì in quanto non colgono (nè è questo il loro scopo) la soluzione ultima, il concreto assoluto; ed una zona di astrattezza permane, in questo  senso, anche nella filosofia, quantunque essa sia lo sforzo  massimo che l’umano pensiero possa fare verso il concreto  assoluto, che è l’assoluto Essere e l’assoluto Vero. Teodicea, n. 9.  Ancora: considerare l’antinomia come principio del reale  e criterio logico di speculazione è accettare il dato, la contraddizione, quell’immediato che pur l’idealismo trascendentale,  dallo Hegel in poi, combatte e respinge in nome del pensiero che è mediazione. Ciò comprova che esso è ancora al  di qua della filosofia, che è riflessione sul dato, la contraddizione, non accettazione di esso; componimento dell’antinomico nell’identico essenziale, cioè conquista della metafisicità del reale. Con ciò l’idealismo si preclude anche la strada  d’indagare se la soluzione ultima che fonda ed involge le  altre e pur le trascende, che chiude la serie delle antinomie   al di là della stessa conclusione metafisica pur non più bipolarizzata dalla e nell’antitesi ma aderente alla identità dell’essere a se stesso  sia possibile alla filosofia oppure trascenda la sua capacità. Figlio del Kant, respinge proprio il senso  profondo del criticismo; non arriva al limite massimo della  conoscenza filosofica, dove il pensiero si arresta, e acconsentendo, si dispone a ricevere la verità suprema; al punto in cui  la filosofia legittimamente e col suo assenso si apre alla religione. Perciò la filosofia, così come è concepita dall’idealismo, fa sua, oltre che l’empiricità delle scienze, l’immediatezza della conoscenza comune e l’astrattezza, propria anch’essa della scienza, di voler ignorare o risolvere  nel  logo razionale la religione, come se l’uomo non fosse un   animale religioso e la religione suprema verità non riducibile all’ordine di quella filosofica, senza che le contraddica.   Ma l’idealista (anche se non hegeliano ortodosso) ribatte  che la nostra critica è ingiusta, in quanto accettare come criterio logico della speculazione il dialettismo antinomico non  significa affatto fermarsi al dato immediato. L'immediato è  l’antinomia, che la logica astratta esclude in base ai princìpi  d’identità e non-contraddizione, lasciandosi sfuggire la concretezza del reale, che è sintesi degli opposti; la mediazione,  cioè la riflessione filosofica, è la sintesi concreta degli opposti  stessi, che, separati  ogni cosa è identica a se stessa e non può essere diversa da se stessa  sono l’astrattezza imputata alle scienze. Sì, ma la sintesi, rispondiamo, per l’idealismo è sempre un termine posto e considerato dialetticamente,  cioè come elemento dialettico rispetto ad una nuova antitesi;  dunque quel che è reale non è la sintesi ma l’antinomia che  si sposta all’infinito, per cui l’ultimo termine è sempre una  antinomia. Di fronte a ciò che sottostà ad essa (e che è il  vero principio del reale, non più tesi rispetto a un’antitesi e  perciò non più dialettico) l’idealismo si arresta incerto e scornato: o conclude che vi è una sintesi assoluta ed allora il  principio del reale non è più l’antinomia, ma questa sintesi  suprema dove ogni antinomia si risolve, e l’idealismo dialettico nega se stesso; o esclude che vi sia questa sintesi e il  principio del reale ed il criterio logico è la contraddizione,  cioè sempre il dato, anche se retrodatato all’infinito. La mediazione è solo provvisoria ed apparente; la riflessione sulla  contraddizione, che è la filosofia, resta sempre riflessione  sull’antinomia, che è il dato.   Per un altro verso ancora l’idealismo riduce la filosofia  ad astrattezza. Identificato dialetticamente il reale con il  pensiero e questo con il processo logico ( ciò che è reale è  razionale, ciò che è razionale è reale ), consegue che la filosofia è panlogismo, cioè riduzione (o dissoluzione?) di ogni  forma di attività spirituale e della realtà tutta al puro conoscere razionale. Per conseguenza, la filosofia è costretta ad  astrarre da quanto nell’uomo non è ragione o riducibile a  questa, cioè a far propria quell’astrazione che, come abbiamo  detto, va imputata alle scienze.   Da ultimo, l’idealismo trascendentale nei suoi epigoni   che, in verità, l’hanno inteso su molti punti a modo loro   ha voluto essere consequenziario. Spinto dal miraggio dell’assoluta immanenza, risolve l’essere nel pensiero, il pensiero  nel pensare in atto  reale non è l’oggetto del pensiero, ma  il pensiero conoscente l’oggetto  l’attualità del pensiero nel  mio pensiero, che non è il Pensiero ma, d’altra parte, non è una realtà trascendente le singole persone pensanti, e arriva alla conclusione che la filosofia non ha un oggetto e /a  conoscenza è la mia conoscenza. In tal modo, la filosofia,  scienza sui generis, conoscenza per eccellenza e la sola rigorosissima, si fa assoluta soggettività; priva di un’oggettività  propria, svanisce come scienza, essa che si era posta come la sola. Lo storicismo, infatti, conclude che la filosofia  non esiste ed è metodologia della storia:  Un forte avanzamento della cultura filosofica dovrebbe tendere a questo effetto: che tutti gli studiosi delle cose umane [ Aristotele dice  che la filosofia è scienza delle cose divine; ma Aristotele non  ha scritto di storia e dunque ha fatto opera inutile e da nonfilosofo ] giuristi, economisti, moralisti, letterati, ossia tutti  gli studiosi di cose storiche, diventino consapevoli e disciplinati filosofi; e il filosofo, in generale, il purus philosophus,  non trovi più luogo tra le specificazioni professionali del sapere ; l’attualismo afferma che è filosofia ogni forma di  attività spirituale (pedagogia, politica, arte, religione, ecc.),  mentre un seguace di esso, almeno in quell’epoca, sostiene  che non c'è la filosofia come scienza a sè, ma che è la scienza:  la filosofia non è una particolare forma di sapere (filosofia   astrologica ), ma l'universalità di ogni sapere, sicchè non  ha un campo autonomo d’indagine. Così l’idealismo contemporaneo, dalla filosofia come scienza sui generis, autonoma  dalle altre, unica, conclude, in opposizione con le sue premesse, che come scienza a sè non esiste, ma è immanente  ad ogni singola scienza.    4.  La filosofia come ricerca della verità interiore e suo  esito religioso.    Torniamo all’antica definizione della filosofia: amore della sapienza; dunque, ricerca ed aspirazione: la filosofia è  Eros; ed Eros è figlio della Povertà e dell'Abbondanza; divino, perchè è aspirazione al Vero, non è Dio perchè non è possesso della Verità. Platone va integrato con il Cristianesimo; l’amore è sì aspirazione, ma è anche sovrabbondanza e perciò non è imperfezione, ma atto di perfezione:  il Dio greco, perfetto, non ama; se amasse non sarebbe Dio,  in quanto aspirerebbe a qualcosa che non è; il Dio cristiano,  perfettissimo, è essenzialmente Amore.   La perfezione o l’essenza della filosofia è la ricerca, lo  sforzo di riflessione; perciò non è la Sapienza divina:  Dio è la Veritas, la filosofia è il quaerere veritatem (?). Come  tale ha sempre dei limiti: sottintesi, concessioni, presupposti,  ipotesi, ecc., che la riflessione non riesce mai ad esplicare  interamente; perciò non è verità totalmente dispiegata. La  filosofia, che è sforzo, resta sempre aspirazione al di là del  limite; perciò la sua essenza di ricerca ha come oggetto Dio,  l'assoluta Verità. Anche quando riflette su cose o problemi  particolari, la filosofia è sforzo di riflessione su Dio, sua meta  agognata ed irraggiungibile. Ciò non significa che sia solo  aspirazione; è anche produzione di verità; perciò è problema,  ma non lo sarebbe se non fosse, come tale, richiesta di soluzione. Il platonico Eros filosofo, infatti, partorisce nel Bello,  nel Bene, nell’Essere; i suoi parti sono nella verità che il  filosofo, dubitando e cercando, trova, scopre dentro di sè:  verità oggettiva innata. E anche qui Agostino va oltre Platone: la verità abita în interiore homine, non come dato  di cui si risveglia la memoria, ma come presenza perenne, di cui la coscienza non si accorge quando è distratta,  lontana dalla sua voce, che parla dentro ed è presente anche  quando non è ascoltata. Che cosa stimola e guida la ricerca?  La Verità non conosciuta, ma per la quale l’uomo ha la  vocazione; perciò la ricerca è almeno iniziale possesso del  vero, a cui l’anima aspira. Che cosa sono i veri che la  mente trova? Perchè la voce della verità, pur interiore a noi  più di quanto noi non lo siamo a noi stessi, può non essere  ascoltata? E quando lo è?    (7) S. Acostino, De vera religione. I veri che la mente scopre sono le risposte che il filosofo  dà alla verità, testimonianza del suo amore; il loro insieme  è il mondo ideale, il regno dello spirito, il solo veramente  reale. L’unica infinita verità è conosciuta dall’uomo in alcuni  dei suoi infiniti aspetti: l’uomo conosce delle verità, non la  Verità; possiede il lume dell’intelligenza che, illuminandola,  fa la ragione giudice delle cose di esperienza. Ogni singolo  vero è concreto vero, sintesi dell’universalità dei principii e  delle determinazioni di esperienza. A chi obiettasse che i  principii in sè sono astratti, rispondiamo che è astratto e perciò  irreale il puro particolare (almeno dal punto di vista speculativo), mentre è concreto e perciò reale il particolare illuminato dai principii, dove trova appunto la sua verità e con  essa la sua realtà: la rinunzia della filosofia all’universalità è  la rinunzia della filosofia a se stessa, la sua autonegazione.  Evidentemente la determinazione è limitazione e perciò noi  conosciamo i veri, ma non la Verità nella sua pienezza, nè i  veri quali sono nella pienezza della Verità che è. Nè una sola  determinazione, nè tutte insieme possono esaurire l’infinita  possibilità di conoscere che è il pensiero umano; perciò niente  può appagare l’uomo, nessuna cosa, nessun vero, tranne la Verità in sè; dunque, è fatto per Dio, perchè solo Dio, l’unum  necessarium, può appagarlo. La vocazione dell’uomo è la stessa vocazione della filosofia; non per nulla è uomo per il  pensiero. Il lume d’ intelligenza e di ragione, universale e  infinito, è la sua possibilità di conoscere la Verità, ma senza  che egli disponga della capacità di tradurla in atto; l’immagine di quel che è l’assoluto Vero nella sua realtà. Per questo  il filosofare è ricerca e sforzo, non la sapienza a cui aspira.  D'altra parte, partecipando l’uomo della verità, porta connaturata la molla che lo spinge ad essa, conficcata la spina che  lo fa saltare per elevarsi fino a Dio, ma il salto, per altissimo  che sia, è sempre infinitamente corto. È la sua grandezza e la sua miseria; l’umana tristezza, la magnanima nobile angoscia del filosofo e della filosofia, mestizia confortata    64 Filosofia e Metafisica       dalla speranza che non può non nutrire chi veramente ama  il vero ed insita nell’eroico sacrificio della ricerca indomabile. Perciò filosofare è moralità: implica l’impegno iniziale che il filosofo assume di cercare ex veritate; l’umiltà  del soggetto pensante di fronte alla verità che cerca, già  ama e verso la quale volge tutti i suoi sforzi. Una formula  filosofica, un concetto speculativo è opera della mente, che  con esso esprime un valore assoluto; perciò è risposta a Dio,  sorgente di tutte le verità, Verità creatrice dei veri, Libertà  creatrice di libertà. L’essenza di sforzo che è la filosofia è  dunque decisione di diventar buoni, di amare l’essere dovunque s’incontri secondo il suo grado: la legge della ricerca filosofica è la stessa legge della morale.  Non ci par degna del  titolo di Sapienza quella cognizione che nulla opera sul cuore  umano e che, quasi inutile peso, ingombra la mente dell’uomo mortale senza accrescergli i beni, senza diminuirgli i  mali e senza appagare o consolare almeno di non menzognera  speranza, i perpetui suoi desideri  (°).   Se non è così, la filosofia non è più tale: è la caduta del  pensiero, di tutto l’uomo. Perciò la filosofia è ascesi, iniziazione alla verità, come Platone dimostra in più parti dei suoi  dialoghi e soprattutto in alcune pagine immortali e bellissime  del Fedone. Ogni vero trovato è anche acquisto di una virtù  intellettuale o pratica, norma regolatrice del nostro pensare e  del nostro agire. Nè alcun vero si può trovare se lo spirito  non si è disposto a trovarlo, se non è passato attraverso il  difficile esercizio della purificazione. Perciò la filosofia è  perfezionamento della natura umana: mortificazione, non  compressione, delle sue debolezze. Non è contro la natura umana secondo un malinteso misticismo ascetico o un  arido moralismo di astratta ragione, ma contro le sue miserie, affinchè sia autenticamente umana natura, e il filosofo  quel libero uomo, che stupendamente Platone tratteggia nel  Teeteto: libero dalle passioni e dagli inganni sensibili e per  (8) Rosmini, Teodicea, n. 4.    Filosofia e concetto di filosofia 65    ciò riscattato all’autentica sensibilità; libero dalla passione  della ragione, che pretende di essere il vero e si ribella di  esserne scolara e perciò ricco di verace ragione e di profonda  umanità: un0 spirito razionale ragionevole e non un cervello  razionale irragionevole. Gli è dunque essenziale l’umiltà, radice e guida della filosofica ascesi: umiltà di sentirsi creatura  e di amare in sè il Creatore, testimonianza dell’Essere e  del Bene, che cerca ed ama; di amare la propria esistenza  come dono e dunque come atto amoroso. L’umiltà, che è  legge d’amore, rende morali l’intelletto e la volontà ed efficace l'impegno di vincere le nostre passioni e debolezze;  ci dà il senso del sacrificio purificatore a cui siamo chiamati  per ascendere o filosofare. Pertanto è sacrificio che accresce  l’umanità dell’uomo, come la potatura del secco fa adorna  e vigorosa la pianta.   La filosofia è volontà di sacrificio: chi filosofa è consapevole di esser vittima della Verità. Perciò è rinunzia a  quanto ostacola l’amore e il possesso interiore dell’unum necessarium; dolorosa rinunzia, a volte, e dunque ancora umanissima. Provocatrice di essa, la filosofia è choc, scuotimento  di tutto l’essere umano, frattura con quanto non è essenziale  al suo essere o è d’impedimento al raggiungimento della verità. Il suo oggetto è Dio; Lo cerca, vuol conoscerLo, possederLo. La filosofia è charitas naturale, che si esercita col lume  della ragione, datoci da Dio come il solo che ci faccia desiderosi di Lui e sia condizione per conoscerLo. La Grazia, infatti, è data soltanto alla natura intelligente: il lume soprannaturale al lume naturale.   Ma l’uomo da solo, per filosofo che sia, sacerdote e supplice della verità, non riesce ad esserne veramente vittima: le  miserie s’infiltrano sempre. Resta il tipo del saggio, non dell’antico  modello di condotta nella sua superiore e superba .  imperturbabilità  ma del cristiano, coscienza vivente di  dubbi e fede, di amore e speranza, di sacrificio e carità, perennemente insoddisfatto e perennemente in attesa di ricevere il dono che cerca. Egli non impersona nè la sapienza nè  una determinata scienza, ma lo sforzo sublime verso la sapienza, l’appello perenne della creazione. Attesta la realtà  dell'Essere, i limiti del pensiero, il gran benedetto e il gran  maledetto da Dio, il perduto dal peccato e il riscattato dalla  verità, fatto per la verità e che pure è più spesso sofisma e  dubbio, negazione e distruzione. Si sacrifica in una formula,  il filosofo, che può sembrare morta astrazione a chi ignora  quanta vita (tutta la vita) si racchiuda in essa. Sacrificio senza  successo, che non vanta possessi o dominii; silenzioso, perchè cripta che accoglie e conforta di pace la nudità dell’anima; perciò autentico, che non rimpiange le caducità perdute, non attende dagli uomini niente di male o di bene e  conosce solo l’ansia per la verità sofferta. E quando il Bene  tanto desiderato folgora la mente, il filosofo sa che non lo  potrà esprimere; è effabile soltanto lo sforzo di attingerlo, il  sacrificio, l’essere sua vittima; la Sapienza che si dona resta  inedita per tutti, tranne per colui a cui è donata. Vi è  nella filosofia un’interiorità profonda, insondabile, che non  si esprime e non s’insegna; perciò non s'impara come si fa ad  essere filosofo (non è un mestiere): non lo saprà mai chi non  lo esperimenta.    5.  La filosofia come sforzo di  ascesi  ed itinerario a Dio.    Da quanto abbiamo detto filosofia risulta essere: a) amore  per la Verità o per Dio, essenza di sforzo; possesso di veri  parziali; ciascuno dei quali è acquisto di bene morale;  perciò è purificazione ed ascesi, potenziamento non negazione dell’umanità dell’uomo; è riconquistata chiarezza dell’autentico valore della creatura e della creazione. La sua  essenza è dunque morale ed il suo fine è Dio. La filosofia ha  la stessa finalità della religione.   Non s’identifica con essa, ma ne ha bisogno: si ferma  alla porta, bussa e chiede. Platone, forse per primo, nel Fedone, vide esattamente il problema e ne fissò i termini. Filosofia e religione, egli dice, hanno in comune il fine di liberare l’anima dal sensibile e dalla schiavitù delle passioni,  ma mentre la religione  si affida ad una divina rivelazione ,  la filosofia invece segue il raziocinio ed in esso persiste  ininterrottamente, attendendo alla contemplazione del vero,  del divino, di ciò che non è soggetto alle illusioni dei sensi,  e da ciò trae il suo vital nutrimento . Ebbe torto Epicuro di  eliminare dall’ideale della perfezione morale la via religiosa  e di ridurre tutto a filosofia. Certo la via della ricerca è la  ragione, meglio il pensiero che è l’uomo nella sua interezza, ma l’oggetto ultimo della ricerca speculativa è la verità assoluta o Dio; dunque, l’umano pensiero non può mai  perfettamente conoscere, da solo, l'oggetto della sua aspirazione.   La filosofia lo guida fino alle porte di Dio; è sforzo di ascesi  non assunzione alla verità. L'essere assunti è un dono gratuito, che la verità fa di se stessa a chi l’ha interamente amata;  è la charitas soprannaturale che si dona alla charitas naturale,  al filosofare. L’ultimo suo grado non è il possesso di Dio, ma  l'apertura a Lui, come dice il Blondel. Ascendere fino ad  un certo grado è in nostro potere; l'assunzione no; dunque la  ragione è il dono naturale necessario, ma non sufficiente  avente lo scopo preciso (ma quanto defettibile!) di spingerci  alla conoscenza ed al possesso della Verità.   La filosofia,  liberatrice dell’anima  (secondo un’espressione agostiniana) o ascesi, ha come suo fine supremo Dio,  cioè la nostra salvezza; il realizzarlo non dipende da essa: è  Dio che salva; a lei compete soffrire, combattere ed amare,  nutrire speranza, nutrirsi di fede. La soluzione assoluta del  suo problema assoluto è nella religione rivelata, nel gratuito  folgorar della grazia. È la grande verità di Agostino: la filosofia prepara alla salvezza (moralità), non dà la salvezza  (religione). Il problema della morale è filosofico, la sua soluzione è teologica: i due ordini sono immensurabili. La filosofia, autonoma come ricerca  ritrovamento dei veri e  conquista di virtù  non lo è come soluzione finale,  come salvezza, acquisto dell’unum mecessarium, che costituisce la sua essenza di sforzo. Una filosofia assolutamente autonoma è senza salvezza: amore senza speranza e  senza fede; i saggi greci erano  senza speranza , come dice  San Paolo. E questo perchè, scrive Pascal,  la vraie nature  de l’homme, son vrai bien, et la vraie vertu, et la vraie  religion, sont choses dont la connaissance est inséparable .   Significa che la religione neghi la ragione e con essa annulli e snaturi la natura umana? Niente affatto. La fede eleva,  non uccide; Grazia non destruit naturam sed perficit et elevat cam, scrive San Tommaso. E nel Rosmini si legge:  Che  se la ragione scorge l’uomo al limite della fede, essa a questa  ancora il consegna, come a più certa guida e a più sublime  maestra.  Macchè! La fede stessa lo riconduce poscia alla  ragione, che diviene maestra sicura e guida infallibile quando  dalla fede è confortata e sorretta . Evitare i  due eccessi :  esclure la raison, n’admettre que la raison , in quanto  si  on soumet tout à la raison, notre religion n’aura rien de mysterieux et de surnaturel; si on choque les principes de la  raison, notre religion sera absurde et ridicule  (Pascal). La  ragione si dona alla fede, perchè riabbia da essa quel che ha  perduto e non ha più; e la fede è sempre generosa genitrice  d’intelligenza, via di spirituale salute e di eterna beatitudine. Domanda quanto mai imbarazzante, questa. Sì,  concepire  non è propriamente  definire , ma ogni  concezione  porta implicita una  definizione . Ora, è tutt'altro che  facile, ancora oggi, dire  che è filosofia . Il matematico sa  da tempo che è matematica, il biologo che è biologia; noi filosofi non siam così fortunati, se pure quella è una fortuna:  non sappiamo ancora che è filosofia  dico, non lo sappiamo in due parole, alla spiccia, come due più due fan  quattro . Gli scienziati ridono dell’imbarazzo del filosofo, ma hanno torto: la filosofia non può chiudersi in  una formula, in quanto il suo oggetto di ricerca e riflessione è infinito, perchè nessuna formula può esaurirne,  comprenderne , la totalità. Perciò nessuna umana ricerca è tanto perennis ed universale quanto quella filosofica.   La filosofia come scienza del reale nella sua totalità, evidentemente, è scienza sui generis; nell’ordine delle scienze  umane è la sola autonoma: il suo rimando  fondamentale  e non accessorio, intrinseco e non estrinseco  è solo ad un  sapere di ordine non più razionale e naturale, ma super-ra  Il  Centre International de Synthèse  di Parigi ha pubblicato nel fasc.  di luglio-settembre 1947 (Tom. XXI, Nouvelle Série) della  Revue de Synthèse   le risposte a questo tema generale proposto alla discussione, alla quale fummo  gentilmente invitati a partecipare. Il testo italiano che qui si ristampa contiene  qualche pagina in più di quello francese. zionale e soprannaturale. Nessun'altra scienza è autonoma:  la storia, per esempio, ad un certo punto rimanda al problema  del suo significato, dello scopo ultimo delle vicende dei secoli,  ecc.; le scienze naturali pongono invincibilmente numerosi  problemi (che è il mondo? quale la sua origine? ha una finalità ? che sono tempo e spazio?) che non compete ad esse  risolvere. A questi e ad altri interrogativi è chiamato a rispondere il filosofo e, se anche lo storico o lo scienziato, non  in quanto tali, ma in quanto filosofi. In questo senso, si  può dire che la filosofia è l’unità delle singole scienze,  scienza prima e ultima, in confronto alle altre che sono  seconde o penultime. Per la sua stessa natura, la filosofia  è ricerca della verità; se ricerca, non è la verità, l’oggetto che la trascende e guida. D'altra parte, abbiamo detto  che è scienza del reale nella sua totalità; perciò dobbiamo  dire del reale in quanto verità. Ancora: la verità è di ordine  spirituale; dunque la filosofia è scienza dello spirito che cerca   e nella ricerca è impegnato tutto l’uomo  la Verità totale o il Reale in sè, che fonda e fa essere ogni altra verità o  reale finito; è il cammino dell’uomo, che dotato del lume  d’intelligenza e ragione, cerca l’oggetto ad esso adeguato, a  cui perennemente tende, senza che abbia ad osare di pretendervi. Ma è tempo che rispondiamo direttamente a quel che il  Centre ci ha gentilmente domandato: fornire argomenti pro  o contro l'orientamento del pensiero del Cenzre stesso, il quale  sostiene une certaine conception de la philosophie dan ses  rapports avec son histoire et avec la science . Nessuno certo  vorrà negare questi rapporti, ma tutti credo sentiranno il bisogno di precisarne i termini; infatti, è necessario sapere cosa  s'intenda per storia della filosofia per poter poi stabilire i  rapporti tra essa e la filosofia. Precisazione anche opportuna, se si pensa che, in Italia, per esempio, l’idealismo neohegeliano ha identificato filosofia e storia della filosofia al punto  di risolvere l’una nell’altra e tutte e due nella storia della  cultura, onde la filosofia ha finito per essere tutto 0, quel che  è lo stesso, per non esser nulla, per non avere più un oggetto  proprio; se si pensa che, il positivismo, di cui nel mio Paese  ormai non è facile trovar tracce a prima vista riconoscibili  (tanto che qualche volta verrebbe voglia d’inventarsi un positivista per averlo aperto e sincero avversario al posto di altri  che si chiamano impropriamente idealisti e spiritualisti),  ha concepito la storia della filosofia come pura esposizione  oggettiva  di sistemi e di  fatti riguardanti la vita dei  filosofi: ci ha dato compilazioni spesso filologicamente pregevoli, ma aventi il torto di mettere da parte la filosofia.  Similmente, per stabilire i rapporti tra filosofia e scienza è  altrettanto necessario sapere che cosa sono l’una e l’altra e  quali i rispettivi campi di competenza, per evitare che la filosofia non spinga il suo distacco dalla scienza fino al punto  da negare a quest’ultima la qualifica di  scienza ; 0, al contrario, che la scienza non pretenda ridurre la filosofia a semplice registratrice dei risultati scientifici; ad una particolare  scienza, come se la filosofia fosse una qualsiasi specialità; all’insieme delle scienze, come se fosse l’insieme delle specialità;  alla conoscenza della natura fisica, sulla base dei contributi  delle scienze particolari, come se essa dovesse restringere la sua  indagine alle percezioni e alle leggi naturali, dimentica dello  spirito e dei suoi problemi, cioè di se stessa, che, come ricerca  filosofica, è già scoperta della realtà spirituale e, per sua intrinseca necessità, conseguente approfondimento metafisico  del suo destino.   Detto ciò, credo che il nostro punto di vista appaia già  chiaramente molto diverso da quello proposto dal Cenzre, il  quale, a quanto sembra, è per una concezione della filosofia  come  synthèse des connaissances science plénière . Se   sintesi e scienza plenaria qui significano composizione o unione delle conoscenze in un tutto, non possiamo  accettare questa concezione della filosofia, la quale ha problemi propri, estranei alle altre scienze, ad ogni singola come  al loro insieme, anche se per i suoi problemi possa ricevere  lumi ma non soluzioni dai ritrovati scientifici, che, nel loro  complesso  il più completo e sviluppato  non esauriscono  ‘e non esauriranno mai il contenuto della ricerca filosofica, la  plénitude a cui essa aspira e per la realizzazione della quale  tutto l’universo è insufficiente. A noi italiani, il termine  Science con la maiuscola richiama il non lieto ricordo dei  tempi del positivismo, quando si divinizzava la scienza, la si  profetizzava risolutrice di tutti i problemi, anche morali e  religiosi, con grave danno per la serietà della scienza stessa,  fatta idolo da adorare, tanto che le cosidette réveries della metafisica facevano bella figura al confronto con le nuove réveries.... scientifiche. La Science, intesa come sapere assoluto e  totale, non è più tale, ma idolatria e superstizione, fanatismo  della scienza. Il controllo della filosofia fa sì  ed essa è chiamata ad esercitarlo anche sopra ogni vero filosofico pretendente a porsi come verità totale  che ogni verità scientifica e la  scienza in generale acquistino consapevolezza dei loro limiti e  rinunzino ad una pretesa totalitarietà di sapere, che è solo arbitraria extrapolazione e maggiorazione a volte aberrante di una  verità parziale assunta a spiegazione di tutto il reale. Duplice  dommatismo: di estensione  il sapere scientifico è esplicativo  di ogni aspetto della realtà ; e di validità  esso è assoluto.  Il controllo critico della filosofia rileva l’inconsistenza di tale  dogmatismo e svuota il funesto mito illuministico dell’infallibile scienza onnicomprensiva e della coincidenza tra progresso scientifico, progresso culturale e miglioramento spirituale dell'umanità. È ormai un fatto di esperienza che il più  basso livello di cultura e una rudimentale coscienza morale e  religiosa possono coesistere con la tecnica più progredita:  nessuna scoperta o invenzione scientifica ha mai fatto progredire nello spirito un solo uomo e mai ne ha elevato di un solo millimetro la statura morale; anzi la decadenza della  cultura occidentale coincide con lo sviluppo della scienza e  della tecnica moderna e il suo precipitare nel fondo dell’incultura con il loro vertiginoso progredire.   Conveniamo con il Centre che, nella successione delle  filosofie, vi è  une logique interne  e che  dans le retour  méme des doctrines, un progrès s'est accompli . Ma, dire  che il ritorno di dottrine filosofiche segna un progresso  oggi  come domani, si può essere, senza scandalo, platonici o aristotelici, agostiniani o spinoziani, tomisti o hegeliani, mentre  non si può essere più, per esempio, tolemaici dopo Copernico,  Galilei e Keplero  significa affermare inconfutabilmente che  la filosofia è una scienza diversa dalle altre, non riducibile ad  alcuna di esse o al loro insieme, con problemi, soluzioni e verità proprie, per cui non può essere la  science plénière   nel senso di  somma  (quanta meccanicità in questa parola!)  dello scibile. Si è che, tra filosofia e scienza, prima di stabilire un rapporto quale che sia  anzi affinchè esso possa  essere fondatamente stabilito  riteniamo sia necessario  fissare una differenza non di quantità, ma di qualità. La filosofia, infatti, è conversione qualitativa di esperienze e di fatti  quali che siano, trasposizione di essi in un piano diverso, in  un ordine superiore. La filosofia come metafisica. Essenzialità della filosofia  e inessenzialità delle scienze.    Perciò noi non possiamo accettare, anzi siamo costretti a  rovesciarne i termini, la concezione della filosofia proposta  dal Centre e cioè: que la synthèse des connaissances s’est  constituée, et se poursuivra, pour répondre aux questions que  posaient les philosophies, depuis les origines, pour substituer  peu à peu le positif à l'a priori, les vérités de la science aux  imaginations ou aux réveries de la métaphysique . Che è  questa  sintesi delle conoscenze  che si propone rispondere alle questioni che pongono i filosofi  depuis les origines  ?  Per noi è proprio il contrario: sono le conoscenze particolari  delle singole scienze che pongono domande ai filosofi, affinché costoro  da filosofi, con metodo filosofico e con spirito speculativo  rispondano. Non è la scienza chiamata ad esercitare un controllo sulla filosofia (e quando lo  esercita, esso si rivolge alle stravaganze pseudofilosofiche o  ai sofismi che non sono filosofia), ma la filosofia sulla scienza,  i cui principii sottopone a critica. Secondo le parole sopra riferite, sembrerebbe che il compito della scienza, nei confronti della filosofia, sia quello di dimostrare quanto siano  immaginari i filosofemi escogitati dai filosofi e fantastiche le loro costruzioni metafisiche, gli uni e le altre da  sostituire con  verità scientifiche . A parte tutto, è facile  ribattere che le  imaginations  e le  réveries  della scienza,  come comprova la sua storia, non hanno niente da invidiare a quelle di alcuni filosofi: vi sono le  rèveries de la  métaphysique  e le réveries de la science ; ma come si  avrebbe torto a dire che tutta la scienza sia fantasticheria,  così si ha torto ad identificare la metafisica con la stravaganza, quasi si trattasse di una manifestazione patologica  della mente umana. Difendere la metafisica, per noi, è difendere l’essenza stessa della filosofia: se la metafisica fosse  fantasticheria, fantasticheria sarebbe anche la filosofia; ma  si può affermare dogmaticamente che le metafisiche e la  ‘metafisica siano senz'altro fantasticherie? Se così, è fantasticheria la filosofia che, dalle origini ad oggi, è stata sempre metafisica; fantasiosa la ragione umana che pone, come  suo bisogno fondamentale essenziale e naturale, l’esigenza  insopprimibile di un sapere metafisico. Mi faccio forte dell’autorità dello stesso Kant che, nella Prefazione  alla  prima edizione della Critica della Ragion pura rileva come  i  sedicenti indifferenti  per la metafisica  finiscono per  cadere sempre in affermazioni metafisiche ; e ne traggo la  conseguenza legittima ed evidente: essenzialità della filosofia e inessenzialità delle scienze. Il sapere scientifico è informativo; la scienza soddisfa una curiosità intellettuale; il  sapere filosofico è formativo e terribilmente impegnativo:  risponde ad un bisogno totale dell’uomo totale. Si può non  essere scienziati, non si può non esser filosofi: alla filo  sofia non ci si può sottrarre. L'avventura della scienza si  può correre e non correre; l’avventura della filosofia è  obbligatoria per ogni uomo che non voglia sopprimere la  richiesta essenziale della sua umanità profonda. L’uomo è  naturalmente compromesso a percorrere l’itinerario della  filosofia, cioè, a dialogare con la verità, a collocarsi nel momento essenziale della ricerca essenziale. Di qui la serietà  dell’indagine speculativa, l’intransigenza del filosofo.  La filosofia è  molesta  a chi filosofa e soprattutto a quanti  si adagiano nelle consuetudini e negli ordini costituiti; perciò rischia sempre la cicuta, mentre la scienza in ogni epoca  è circondata di rispetto e protezione.   Ancora: che significa  substituer peu à peu le positif  à 1° priori ? Che s'intende per  positivo  e per a priori? Positivi sono i  fatti, dicevano i positivisti; noi, meglio, che reali sono quae facta sunt, ma tra le cose quae  facta sunt vi è anche l’uomo, il pensiero, lo spirito, il quale  è positivo , ma è l’a priori  di ogni fatto; infatti, non  vi è  fatto , almeno nel senso filosofico, che non sia anche  coscienza del fatto. Un fatto positivo, diceva Pascal, sono  anche Dio, la Rivelazione e la Chiesa. Riconoscerebbe il positivismo questi  fatti? A forza di sostituire il positivo  a l’a priori, nel senso in cui i termini sono usati dai positivisti, si finisce nel più piatto e scoraggiante empirismo,  pericoloso all’esistenza stessa della scienza e misconoscitore  dei diritti dello spirito. Non vi è fatto positivo senza esperienza nel senso più esteso della parola, ma non vi è conoscenza intellettiva del positivo  degli enti finiti che costituiscono il reale cosmico  senza un 4 priori; e il reale  finito, per ciò stesso, rimanda al problema dei suoi principii costitutivi, cioè alla metafisica, che nessuna verità scientifica potrà mai sostituire. Dunque, di positivo c’è solo la metafisica, anche se, per sua buona sorte, non è positivistica.    4.  Ancora sulla distinzione fra filosofia e scienza.    Per il Centre, il filosofo è un gran peccatore contro la  filosofia senza essere un penitente. Infatti:  Il explique le  réel par l’imaginaire. Il explique le tout par une partie du  réel. Il fait prédominer la tradition ou le sentiment sur la  raison. Il cerche l’originalité è tout prix. Par une forme  personnelle, il rend la pensée floue ou obscure. Il est poète,  artiste, métaphysicien, ou mage, au lieu d’étre le pur interprète des résultats acquis par l’effort collectif des générations pensantes . Dato il modo come il Centre intende la  filosofia, si può spiegare questa severa requisitoria contro il  povero filosofo; dato il modo come la intendiamo noi sono  necessari chiarimenti e precisazioni.   Innanzi tutto, se è vero che ciascun filosofo o tutti insieme non sono la filosofia (perisca il filosofo, ma viva la  filosofia), è anche vero che, storicamente, i filosofi e i loro  sistemi lo sono; pertanto, i terribili peccati dei filosofi sopra  elencati, sarebbero anche della filosofia. E allora, perchè ce  ne occupiamo, se essa spiega il reale con umagiazio, sacrifica la verità all’originalità ad ogni costo ecc.? Chi potrebbe assolvere il filosofo e la filosofia? Forse la scienza,  che non sarebbe soggetta a questi traviamenti? E perchè,  nonostante tutti i trascorsi della filosofia, gli uomini non ne  hanno mai potuto fare a meno, mentre, come dice ancora  Pascal, possono fare a meno di tutte le scienze? Perchè  quando l’uomo si trova di fronte a se stesso e al problema  della sua consistenza, cioè quando veramente pensa in altezza e profondità (metafisicamente, appunto) non chiede  risposta alla matematica, all’astronomia o ad altra scienza,  ma alla filosofia? La requisitoria di sopra è dunque da rivedere. Se il filosofo  spiega il reale con l’immaginario  è da riprendere  subito; ma se s'intende per immaginario  ogni principio a  priori o metafisico, è da consigliare di spiegare il reale contingente e particolare proprio con i principii necessari ed universali. Se sottomette la ragione alla tradizione e al sentimento è da ammonire che la filosofia è ricerca razionale;  ma anche quelli sono patrimonio spirituale dell’uomo al  pari della ragione. Se è poeta ed artista non è certo filosofo,  ma non è poi sì gran danno poichè anche arte e poesia,  come tali, son verità. Se metafisico, diciamo che è davvero  filosofo; e quanto ad essere  mago , credo che questa parola siastata messa accanto all’altra di  metafisico  solo  per spirito polemico, senza che risponda ad una affermazione positiva che si presti ad essere discussa. Se poi cerca  l'originalità ad ogni costo, invece che la verità, è da condannare senz'altro, ma come  un originale  non come  un  filosofo ; così pure se spiega il tutto con una sola parte del  reale, facendo un'’illegittima maggiorazione d i un principio   arziale; ma anche di ciò, come abbiamo detto, è responsabile la scienza, per esempio, quando presume sostituirsi  alla filosofia e risolvere problemi che non le competono.   Secondo il punto di vista del Centre, affinchè il filosofo  non pecchi, bisogna che sia il puro interprete dei risultati  acquisiti dallo sforzo collettivo delle generazioni pensanti .  In parole mie, questa affermazione significa:  perchè il  filosofo sia filosofo e non erri bisogna che smetta di fare  il filosofo . Una delle due: o egli si limita a registrare i  risultati acquisiti (da chi? dalle scienze?) e non fa filosofia e nemmeno storia della filosofia; o  interpreta  i risultati acquisiti nel senso che li ripensa, li fa propri per acquisire nuovi risultati, che segnano un avanzamento della verità rispetto ai primi, e in tal caso è filosofo, se i suoi  risultati sono filosofici e non puramente scientifici. Peccherei di indelicatezza dicendo che da un pezzo in Italia una tale concezione della filosofia si considera pacificamente sorpassata, se la mia conoscenza, credo sufficiente, della filosofia francese contemporanea non mi autorizzasse a dire  che anche in Francia non pochi e non certo trascurabili pensatori sono del mio stesso parere. Del resto, anche gli stessi  teorici della scienza, universalmente, fondano ormai i rapporti tra scienza e filosofia sulla base di una diversa concezione di quest’ultima.   In due punti il Cenzre insiste sulla concezione della filosofia come  sforzo collettivo , come coopération à un  grand oeuvre collectif ; purtroppo, nemmeno questa volta  posso trovarmi d’accordo. Se scienza e filosofia s’identificassero, niente da dire; ma siccome sono due forme di attività da tenere ben distinte (anche se non separate), ProprlO  questo è uno dei punti di distinzione: la scienza è opera  sforzo collettivo, la filosofia opera di sforzo personale. Mi  spiego: uno o più scienziati iniziano la loro ricerca dal punto  in cui l’hanno lasciata i loro predecessori e la spingono fino  ad un certo grado per lasciarla nelle mani di altri e così  via; nè i successori rimettono tutto in questione, ma accettano, come acquisito, il risultato raggiunto dagli altri. L’ oggettività della verità scientifica è impersonale e perciò la scienza  è sforzo collettivo, opera di collaborazione ed è bene che lo  sia. Non così la verità filosofica: è oggettiva, ma non impersonale; è impegno totale del filosofo, è la sua (personale) verità  oggettiva. Essa non può essere accettata z0ut court da un  altro filosofo, ma ripresa e ripensata, fatta sua; e la decisione  è opera del singolo, non di più uomini. Ciò dimostra non  il soggettivismo o il relativismo della verità filosofica, ma  il maggiore interesse che essa ha per l’uomo rispetto a qualsiasi verità scientifica; prova l’assoluta spiritualità della filosofia, il suo carattere d’interiorità e, diciamolo pure, la sua  capacità creativa: se il poeta, il filosofo, lo scrittore non  cominciano da capo, non usano le parole più comuni come  nuove di zecca, come se mai nessuno prima le avesse usate, non c’è poesia, non arte, non filosofia: non c’è opera di  creazione. Ogni uomo non è la sua scienza, ogni filosofo  è la sua filosofia, in quanto ogni scienza o tutte le scienze  insieme non sono l’umanità o spiritualità dell’uomo; la  filosofia lo è, anche se non può dare la soluzione totale:  al limite massimo si apre ad una verità che non è razionale ma superrazionale, non di ordine umano, ma divino  o soprannaturale.   Ciò chiarito, consentiamo col Centre nel deplorare il soggettivismo radicale di certa filosofia contemporanea che si  perde in puri stati d’animo, in forme morbose e decadenti  di tormento e angoscia, specie di barocco filosofico. Ma non  tutto l’esistenzialismo va condannato (per esempio, alcune  forme di quello francese meritano la più attenta considerazione) e, in qualunque caso, di esso va conservato il senso  della persona umana, il richiamo all'importanza della metafisica che sia tale e non pura descrizione fenomenologica e,  quando ce l’ha, quell’anima religiosa che ha il merito di  aver contribuito a recuperare alla ricerca filosofica.   Ma è tempo che concludiamo senza più oltre abusare  della ospitalità che ci viene concessa. Lo facciamo come noi  possiamo farlo: 4) vi è stata una rivoluzione perenne nella  filosofia dovuta a Platone: non le cose sono reali, ma le  Idee, e non le Idee aspirano al grado di realtà delle cose,  ma queste al grado più alto di realtà delle Idee. Reale e  positivo è lo spirito e la filosofia è scienza dello spirito e  lo spirito è verità. 5) La scoperta platonica è stata inverata  dal Cristianesimo che ai concetti di reale, verità, persona,  Dio ecc. ha dato ben altro significato. c) La filosofia è solo  scienza che è sapere e saggezza; pertanto i  réveils religieux  e le  réveries mystiques , verso cui il Centre sembra  tutt'altro che tenero, sono, i primi quanto mai benefici anche per una maggiore consapevolezza e coscienza critica  della filosofia e le seconde tutt'altro che réveries. Da  ultimo, diciamo che di Scienza con la maiuscola non ne conosciamo nell’ordine umano: vi è solo quella di Dio.  L’uomo, dice Pascal, non è capace di una scienza di ordine  assolutamente perfetto, anche se, direbbe il Blondel, vi aspira necessariamente ed incoercibilmente, ma sempre inefficacemente. Certo, la scienza deve affermare la sua verità, ma  non  sa vérité souveraine , perchè qualcosa la sorpassa infinitamente: se è scienza naturale, la sorpassa quella filosofica;  se filosofia, la Scienza di ordine extra e superfilosofico. Il filosofare implica due termini: la ricerca e la verità,  il soggetto cercante e l'oggetto cercato. Un’analisi del concetto di filosofia s’identifica con quella di questi due termini.   Che è ricerca?   Per definire questo termine è necessario tener presente  anche l’altro con cui è in rapporto intrinseco e necessario;  e la verità, oggetto della ricerca, è assoluta. Chi la cerca  non cerca una cosa qualsiasi, ma ciò che è essenzialmente,  assolutamente, universalmente, necessariamente: chi cerca la  verità cerca l’essere o in una delle sue categorie, assoluta  dentro i suoi limiti, o nella sua pienezza; dunque cerca il  tutto dell’oggetto; non può non cercarlo che con il tutto del  soggetto, il tutto di sè. Ricerca nel senso più pieno, impegno  di tutta la vita spirituale del cercante, che è esso stesso impegnato nel cercato: come realtà spirituale, e per il grado  di verità o di essere che è, egli non è fuori ma dentro  l'oggetto cercato, la verità. Chi cerca, dunque, cerca con’  tutto se stesso: con il corpo e con lo spirito, con i sensi e  con la ragione, con l'intelligenza e con la volontà. Io cerco  il positivo assoluto (l’essere-verità) con tutta la positività di  cui la mia natura umana è capace. Cercare la verità o filosofare è perfecte quaerere: non una astrazione che opero  su di me, ma una concentrazione di tutto il mio essere nell’atto del cercare. Verità è unità; cercarla è orientare verso lo stesso punto tutte le capacità e le risorse del cercante, è  come raccogliere ed unificare tutti i suoi atti; dunque la  filosofia come ricerca della verità è movimento di convergenza integrale dell’uomo totale verso la verità integrale.  Movimento di coesione e compattezza, genera la solidarietà  di tutte le forme della vita spirituale: quale che sia la verità che cerco (il bello, il bene, il vero ecc.), come verità  presenta sempre gli stessi caratteri dell’immutabilità, universalità e necessità; richiede pertanto lo stesso atteggiamento spirituale; e quantunque a ciascuno di questi veri  s'indirizzi una forma particolare di attività  la sensibilità  al bello, la volontà al bene, l’intelligenza al vero ecc.  tutto  lo spirito collabora alla sua conquista e scoperta. La filosofia  come ricerca della verità è dunque la stessa vita spirituale,  impegnata nella ricerca totale della verità totale. Questa la  filosofia 4 parte subiecti; e a parte obsecti?   Lo spirito che cerca la verità, per ciò stesso: 4) è fatto  per la verità; 5) ma non è la verità, che è l’oggezto a cui è  naturalmente indirizzato. Pertanto l’espressione: lo spirito  che cerca la verità cerca se stesso non è affatto vera se  significa identità del soggetto e dell’oggetto; è vera nel senso  che lo spirito trova ed attua tutto se stesso nella verità:  non è vera nel senso dell’ immanenza , bensì in quello dell’ interiorità . Ma ciò conferma l’oggettività, la necessità  e l’universalità del vero e cioè sempre che esso non è lo spirito cercante, ma il suo oggetto, dallo spirito distinto e indipendente. La verità è: l'essere è verità: realtà=verità. Il  reale in quanto reale è verità. Dunque l’oggetto del pensiero è reale, ma non l’ente in senso generico, bensì l’ente  in quanto è suo oggetto e dunque verità. Ma il reale come  verità è il reale come intelligibile, come ciò che è vero; dunque: realtà è verità; verità è ciò che è intelligibile; l’intelligibile è l’oggetto del pensiero. È la verità perenne dell’idealismo oggettivo: l’oggetto concepito in termini di verità 0  realtà intelligibile. Il soggetto non può essere concepito se non in termini di pensiero; il suo oggetto non può essere  pensato e conosciuto se non in termini di verità; dunque, la  filosofia, a parte subiecti e a parte obiecti, si definisce come  la scienza della vita spirituale.   Ma a questo punto è necessario approfondire ancora il  rapporto pensiero-pensante verità-pensata, gerarchico, di di ndenza. Se lo spirito  tende ,  aspira  alla verità, ne  è attratto e dall’interno stimolato ad essa, significa che il suo  oggetto gli è superiore; se è desiderio di verità non è essa,  che è eterna ed immutabile; dunque, lo spirito non eterno nè  immutabile è l’aspirante al possesso del divino, che gli è  interiore come riflesso della Verità in sè che lo trascende.  D'altra parte, se lo spirito la cerca vuol dire che è fatto per  la verità; in questo senso e per questa sua aspirazione è  anch'esso qualcosa di divino: divino eros della divina verità.  Da ciò consegue che non è il pensiero che pensandola la  pone, ma è la verità che pone il pensiero; dunque è prima  ed indipendente da esso, è anche quando non è pensata,  anche se nessun pensiero la pensasse. Infatti, era prima che  le menti umane fossero; e le menti umane non ci sarebbero state se la verità non le avesse create.   Ma com'è possibile una verità non pensata, se non c’è  verità se non per un pensiero che la pensa?   Esatto, e da ciò consegue che se la verità è eterna   madre e non figlia dei singoli veri che pensano le menti  umane  essa è sempre stata, è stata sempre pensata, ma  solo il Pensiero eterno ed immutabile può eternamente pensare l'eterna ed immutabile verità; dunque vi è il Pensiero  eterno ed assoluto con cui s’identifica la Verità eterna ed assoluta; esiste la Mente divina, il cui oggetto eterno ed immutabile è la verità, anzi è essa stessa la Verità eterna ed  immutabile, in quanto in essa il pensiero e il suo oggetto  s’identificano; esiste Dio come verità eterna ed assoluta; Dio  che è la Verità in sè, per essenza: l’Essere è verità, Pensiero,  Mente. La Mente-Verità assoluta crea  la verità è feconda per se  stessa  menti o spiriti fatti per la verità, ma proprio per  questo le menti create non sono la verità: Dio la Mente  pensante, gli spiriti le menti pensate alle quali per natura  è essenziale pensare la verità loro oggetto, cercarla e scoprirla. Nella mente creata la verità non s’identifica con essa;  dunque la verità come è data alla mente creata non è la  Verità come è in sè; è come verità astratta della Verità, immagine reale di essa. Nel mio pensiero leggo la verità, come  nello specchio vedo l’immagine che vi si riflette; immagine  non ombra, verità partecipata e perciò conosciuta da me  in maniera diversa da come è conosciuta dalla Mente divina; ma come verità è anch’essa assoluta.   L'immagine è nello specchio; dunque la verità data alla  mente finita è in essa, ma, a differenza dello specchio, la  mente ha coscienza del vero che intuisce come suo oggetto;  perciò è nella verità che le è interiore e la trascende. Non è  la mente che giudica la verità, ma è la verità che la fa  capace di giudizi veri, cioè necessari ed universali. La verità è sempre divina; umana è la sua scoperta attraverso la  ricerca; umano è il leggere in essa.   Ecco: leggere nella verità, raccoglierla nella mente, fare  che l’una sia presente all’altra; è anche un raccogliersi di  tutto l’uomo, concentrarvisi, convergervi, unificarvisi. Ma raccogliere la verità e raccogliersi in essa è acquistare coscienza di  noi in un duplice senso: 4) che siamo fatti per la verità; 5) che  essa è in noi senza essere noi, pur essendo la profondità  di noi. Dunque leggere che è filosofare: l’umano cercare e  scoprire è leggere dentro, inzus legere o intelligere. La filo  sofia è l'intelligenza della verità, la mente pensante vivente nella sua luce.   La mente non può pensare alcun oggetto se non in termini di verità, di ciò che è intelligibile; dunque, quando  penso secondo intelligenza, penso sempre secondo la ve-.  rità che è in me, e non è la Verità in sè: non posso pensare me stesso nè pensare (conoscere) il mondo se non in termini  di verità. Il pensiero passa sempre per la verità quale che  sia l'oggetto che vuol conoscere: lo coglie nella sua verità,  che è la sua realtà.   Ma allora pensando io penso Dio, sempre, anche quando  non Lo penso, anche quando penso che non esiste; infatti,  quando penso e conosco un vero, penso e conosco quel che  Dio mi ha dato, messo dentro, affinchè la mia mente fosse  mente, cioè capace di pensare e conoscere. Dunque, io penso  perchè Dio esiste e non Dio esiste perchè Lo penso: non  faccio essere la verità, ma essa fa che io sia un essere pensante la verità, quella che a me è consentito pensare e  conoscere, ma sempre tale che la sua presenza mi obbliga 2  trascendermi, a riconoscere che è più di me, non è da me;  è dalla Verità in sè o da Dio, da cui è stata estratta per  essere donata alla mente creata, intermediaria tra la creatura e il Creatore. La verità che è in me è la molla che  mi spinge a trascendermi e a trascendere essa che pur mi  trascende, mi slancia verso il Padre di ogni verità e di ogni  mente, rende insonne la mia ricerca.   Se è così, la filosofia come ricerca della verità è scienza  di me che cerco la Verità o l’Essere assoluto; scienza dell’io  e di Dio, degli spiriti e dello Spirito. Pertanto essa s’identifica con la ricerca sulla vita spirituale finita e creata che,  scoprendo in sè la presenza mediata della Verità assoluta  creante, si volge alla ricerca essenziale e totale dell’Essere  infinito. Una banalità dire che il concetto di metafisica è il più  complesso dei concetti speculativi, se il semplicismo di alcuni  pensatori moderni e contemporanei non avesse disinvoltamente concluso che la metafisica è una pseudoscienza filosofica, ormai invincibilmente demolita dall’imponente escavazione critica che il pensiero, implacabile, ha perseguito  da Cartesio ai nostri giorni. Chi fa questo discorso, definitivo nelle sue conclusioni negative, oltre alla pretesa di aver  concluso un discorso infinito si crede in possesso di una semplificazione estrema del concetto di metafisica e di un approfondimento così totale di esso da poter affermare che  metafisica non è, che è sogno  opprimente o generoso   di un particolare filosofare ormai irreparabilmente tramontato. Se davvero i negatori della metafisica fossero riesciti  a concludere definitivamente il loro discorso, bisognerebbe  considerarli metafisici così consumati da consumare senza  residui la metafisica stessa, da ridurla ad un concetto (o  pseudoconcetto) di sì diafana semplicità da far trasparire  il suo vuoto e il suo nulla: conosciuta e sondata profondamente è risultata nient’altro che una tenace illusione prodotta dal dommatismo razionale. Altri pensatori, meno imprudenti, si sono astenuti o hanno creduto di astenersi  dalla metafisica: non posizione antimetafisica, ma ametafisica, d’indifferenza o di agnosticismo. Ma gli uni e gli  altri si sono addossati la responsabilità  conseguenza invincibile della loro posizione  di considerare il problema  metafisico come non essenziale e necessario  e perciò accidentale e contingente  alla filosofia. Infatti, se è possibile  filosofia senza metafisica, questa non risulta essenziale alla  prima: solo per accidente, contingentemente e quasi per una  sua prolungata immaturità, la filosofia per millenni ha considerato fondamentale e ad essa connaturato il problema  metafisico. Libera ormai di questa pesante ed inutile soprastruttura, ha finalmente scoperto, nella sua piena maturità  critica  e  problematica  che il suo fondamento essenziale è altrove.   Evidentemente per gli anti e gli a-metafisici non si tratta  di affermare che alla filosofia non è essenziale questa o quella  soluzione del problema della metafisica, ma di concludere  che non le è essenziale la metafisica tour court. Alla filosofia  è essenziale, per esempio, il problema politico o quello dell’arte o dell’economia, che l’umanità non potrà non porsi fino  a quando penserà, ma non le è affatto essenziale il problema metafisico. L'uomo può non pensarvi affatto; anzi,  da quando gli si è dimostrato che la metafisica non è, non  è scienza e non è vera filosofia, di diritto e di fatto non ci  dovrebbe pensare più nè ora nè mai. Se ciò non avviene è  perchè egli, oltre che di ragione, è dotato di  immaginazione ; per maturo che sia, conserva sempre un grado irriducibile d’infantilismo o primitivismo; o perchè non riesce  mai a guarire dalla sua tendenza ad astrarre. Ma proprio ciò  prova come la metafisica sia il prodotto di attività inferiori e  come la sua storia si possa identificare con quella degli errori  dell’immaginazione e del dommatismo della ragione astratta,  ridurre magari ad un capitolo della psicopatologia. In breve,  si afferma: a) si può (si deve) porre e risolvere il problema  dell’arte o quello della economia o qualsiasi altro, senza  che sia affatto necessario preoccuparsi della soluzione del problema di quel che è il reale in quanto reale; 2) l’uomo  ha più interesse a sapere quale sia la forma politica più  giusta o meno ingiusta o se l’arte sia un'attività alogica o  logica, anzichè conoscere che cosa egli sia, donde venga,  che ci stia a fare nel mondo, dove vada. Questi sono i problemi inessenziali e non necessari, senza dei quali, e meglio,  si fa  sempre concretamente, seriamente e con mente  sana  della vera filosofia, poniamo, intorno alla repubblica o alla monarchia, all’utile o al piacere! Antimetafisici  e a-metafisici hanno sempre lamentato le aberrazioni della  metafisica e si può dar loro ragione quando si tratta, per  esempio, di certe metafisiche idealistiche o materialistiche,  ma credo che non sia stato deplorato abbastanza il dilettantismo vacuo dell’antimetafisica moderna e contemporanea.   Infatti, solo per aberrazione o errore della mente (da alcuni amato e vagheggiato con lunghi pensieri) si può negare che l’esigenza metafisica sia naturale, essenziale e universale. Già Kant nella Prefazione alla prima edizione della  Critica della ragion pura osserva che i sedicenti indifferenti  finiscono per cadere sempre in affermazioni metafisiche ;  e il Gentile  il solo dei neohegeliani italiani contemporanei  che abbia avuto mente di filosofo  rileva (La riforma della  dialettica hegeliana, Messina, 1923, II edizione, 110) che  c’è un momento immancabile nello sviluppo ideale dello  spirito umano, che potrebbe dirsi il principio eterno della  filosofia: quel momento in cui il contrasto della morte con  la vita, la differenza tra il non essere e l’essere, spinge  l’uomo a proporsi il problema: Che è l’essere? . Questa  domanda, che è la posizione più efficace del problema  metafisico, suona nei secoli, e riassume tutta la storia  del pensiero umano  (ici, 114). Perciò Aristotele, che  di essa ha dato la formulazione più profonda e più semplice, pone a fondamento di tutte le scienze il problema  che si aggira  intorno all’ente in quanto ente (#e9ì 705    4 + ”  ovtos dv). Il problema metafisico si presenta così essenziale al pensiero (e perciò alla filosofia) da fare osservare da qualche  studioso che, in fondo, tutti ammettono un concetto del  reale, anche coloro che negano la metafisica e si dichiarano  antimetafisici: tutti consideriamo realtà, ha scritto recentemente Mons. Olgiati in un articolo chiarificatore (Il concetto di metafisica, in  Riv. di filos. neosc. , fasc. IV, 1945,  p226) quel che è in qualche modo, cioè che non è il puro  nulla; e perciò tutti concordiamo che qualcosa di reale c’è  (ivi, 228). Dunque,  persino i negatori della razionalità  del reale, come altresì i negatori della metafisica, fondano  le loro dottrine, e le vivificano in ogni momento di esse,  su un loro concetto di realtà  (01, 232). Se ogni sistema  ha un suo concetto della realtà in quanto realtà e  non può  non averlo, sotto pena di venire escluso dal mondo filosofico  e se tale concetto lo hanno tutti (chi dice, per esempio,  che la realtà è storia, concepisce la realtà come storia; chi  tutto riduce a problematicità, definisce la realtà come problematicità),  ne risulta che ogni filosofo ha una sua metafisica, non essendo quest’ultima null’altro se non la scienza  che studia la realtà în quanto realtà.   Se fosse vero quello che scrive Mons. Olgiati  e vorremmo che lo fosse  non si dovrebbe parlare, ormai da tempo  non breve, di una crisi della metafisica in generale, nè di posizioni negatrici di essa, ma soltanto della crisi della classica  metafisica dell’essere e del conseguente succedersi di altre  concezioni del reale in quanto reale, cioè di metafisiche  diverse da quella e tra loro. A noi sembra invece che nel  pensiero moderno e contemporaneo vi sia un vero e proprio  rifiuto e mépris della metafisica (non di questa o di quella) e chi nega la metafisica sic et simpliciter e si dichiara  antimetafisico lo sia effettivamente e non che voglia dire  soltanto: io nego la metafisica dell’essere o quella del  pensiero o altra che sia, ma sono ugualmente metafisico, in quanto concepisco la realtà in un certo modo. Chi,  per esempio, dice che il reale è il divenire storico o la pura  problematicità, nega che esiste un principio assoluto, che  al di là del mondo fisico  nel senso di  questo  nostro mondo  vi sia alcunchè, come pure nega che in  questo mondo vi siano enti o sostanze che soztostanno alla  pura fenomenicità. Dal punto di vista dell’Olgiati, invece,  la polemica antimetafisica, dal Kant e dallo Hegel in poi,  sarebbe puramente apparente; in realtà si tratterebbe di una  serrata discussione tra tante metafisiche, cioè tra tanti modi  diversi di concepire la realtà in quanto realtà. Al contrario,  si tratta di posizioni (se siano da considerare filosofiche o  no è altro discorso), le quali negano decisamente ogni principio assoluto, qualcosa al di là del nostro mondo o al di  qua o al di sotto di quel che il divenire manifesta nel suo  divenire; ammesso pure che è, negano che sia conoscibile  e dunque negano la possibilità di una metafisica come scienza, cioè la validità di una risposta filosofica quale che sia  alla domanda di che cosa è il reale in quanto reale. E questo  è negare senz'altro che vi è una metafisica e non un semplice contrasto su che cosa è realtà per il fatto che si nega  l'oggetto del contrasto, cioè il reale quale che sia.   Noi crediamo, dunque, che il problema vada impostato  in altro modo e precisamente: 4) la filosofia come pura problematicità o si risolve nella contraddizione in termini di considerare il problema come soluzione  la soluzione del  problema è porre e chiarire il problema stesso ; o, nel  porre i problemi, porta in sè invincibilmente l’esigenza e  gli elementi reali della soluzione, cioè delle risposte per cui  i problemi han senso e trascendono lo stesso problematizzare. D'altra parte, perchè risposta vi sia non illusoria, è  necessario un principio assoluto, che la ricerca può scoprire  ma non creare; la guida, trascendendola, anche come ricerca dello stesso principio assoluto. In tal modo, la filosofia come problematicità rivela essa stessa, intrinsecamente, l’esigenza metafisica (e non solo l’esigenza) del principio primo ed assoluto del sapere. 5) Similmente la filosofia come  storicismo assoluto o divenire perenne, o si risolve nella  contraddizione in termini di considerare l’essere come divenire, oppure, nel momento stesso di porre il problema del  divenire, sporge all’essere che il divenire fonda e trascende:  fa scaturire irresistibilmente l’esigenza di un principio (e  non solo l’esigenza perchè di esso ne rivela la presenza) del  divenire stesso e della storia, che non è storico nè diveniente. La filosofia del divenire, quale richiesta intrinseca al  suo stesso dinamismo, pone anch'essa l’istanza metafisica.  c) Da ultimo, le filosofie immanentistiche in generale, pur  non potendosi dire tutte anti o ametafisiche, quando hanno  perseguito e sviluppato fino in fondo il principio o demone  dell’immanenza, solo arbitrariamente (e dunque non razionalmente) possono concludere per la sua verità, in quanto  qualunque sforzo, il più impegnato e critico, di autosufficienza della natura e dell’uomo non è sufficiente a vincere la  consapevolezza della nostra insufficienza e della contingenza  del nostro mondo. Solo un depauperamento dell’infinita ricchezza del nostro spirito e una sua detonalizzazione  solo una concezione non razionale e non razionalmente giustificabile dell’uomo, non umana, unilaterale e dunque  astratta  ci possono convincere della nostra autosufficienza  ed adeguazione alla natura, che, a questo prezzo, è la nostra degradazione al finito senza aspirazione d’infinito, ad  un destino puramente terreno, cioè di nulla. È come se per  dimostrare che gli uccelli non son fatti per volare, tagliassimo loro le ali; ma anche in questo caso, l’impedimento innaturale non spengerebbe in essi il desiderio istintivo del volo.  L'esigenza della trascendenza, nell'uomo, è indomabile; in  lui sono tutti i dati sufficienti e necessari per dimostrarne  l’esistenza. Non tener conto di ciò è mettere al posto del.  l’uomo reale e concreto una sua figurazione immaginaria o un’astrazione; infatti l’immanentismo assoluto è proprio esso  frutto della immaginazione e dell’astrazione. In questo senso, conveniamo con mons. Olgiati che anche  soprattutto   l’indagine intorno a che cos'è la realtà in quanto realtà è concreta come ricerca del principio essenziale del reale,  che non può farsi con procedimento astrattivo, nè per enumerazione (229).   Da quanto abbiamo detto possiamo trarre una prima conclusione: non ogni negazione della metafisica, anche la più  decisa, è sempre un’affermazione metafisica, secondo la tesi  dell’Olgiati; ma qualsiasi posizione anti o ametafisica porta  in sè immanente, intrinsecamente, l’esigenza indistruttibile  ed ineliminabile della metafisica; e se non vede gli elementi  validi a soddisfarla, ciò prova che è anti o ametafisica per  difetto di approfondimento critico della natura del pensiero  e del reale. Così non poche posizioni speculative ci si presentano, non come tante diverse antimetafisiche pur metafisiche, bensì come tanti sforzi inani o inefficaci  meglio  come un solo sforzo che muove da diversi punti di vista   di abolire la metafisica, che rinasce, invece, dalla sua stessa  negazione, invincibilmente. I tentativi antimetafisici ci risultano, dunque, essi stessi, tante prove della ineliminabilità  dell'esigenza metafisica e del loro pieno fallimento. L’anti  e l’ametafisica non possono e non potranno mai escludere la  possibilità della metafisica, la quale è possibilità assoluta, il  risultato ultimo della filosofia la più rigorosamente critica.  E ciò per il motivo a cui sopra abbiamo accennato: quando  dite all'uomo: tutto è problema , risponde:  sarà vero,  ma io son fatto per la soluzione ;  tutto è qui , confessa:   ed in me è reale e naturale l’ aspirazione all’al di là ;  tutto l'universo è tuo , aggiunge: ed io sono più dell’universo e vi è troppa dignità in me per potermene accontentare; anche se tutto l’universo fosse mio non basterebbe perchè  fossi me stesso e in me stesso capissi fino in fondo ;  tutto è  relativo , obietta:  ed io sento di esser fatto per l’assoluto,   % so di avere in me stesso una presenza di assoluto ;  tutto  è divenire , protesta: la mia vocazione è l’essere perchè  l’essere è la mia radice, il principio del mio pensare, il destino della mia esistenza . Il discorso sul finito non si conchiude mai su se stesso, ma rompe e dilaga, come la primavera matura, per mille porte e finestre, sull’infinito; persino  il discorso sul Nulla sottintende sempre un silenzioso e perciò interiore, appassionato e cocente discorso sull’Essere: chi  dice:  nulla è di ciò che è , intende dire:  solo l’eterno  è reale . L’assoluto nihilismo è una disperata ma potente  apologia dell'Essere assoluto. Perciò noi, piuttosto che considerare metafisiche anche le filosofie antimetafisiche, preferiamo considerarle tali, negando, per ciò stesso, che siano  nelle loro istanze antimetafisiche delle filosofie, in quanto,  dove manca metafisica, manca filosofia, che è indagine sull’essenza della realtà in quanto realtà, ricerca del principio  assoluto, risposta ai problemi che investono la nostra origine, il senso supremo e autentico della nostra vita, il destino  della nostra esistenza. Questo discorso sottintende una equazione: metafisica  uguale trascendenza, perchè tale è anche la filosofia. Se filosofare è cercare, l'oggetto della ricerca trascende la ricerca  stessa; se filosofia è scoperta del principio assoluto, questo  fonda e condiziona ogni filosofare e perciò trascende il pensiero che indaga e desidera scoprire; se filosofare è inappagamento del dato ed aspirazione a conoscere l’a/ di lè di esso,  è già trascendenza implicita e aspirazione esplicita ad una  realtà da e per cui è tutto ciò che è ('). Perciò alla meta   L. Boctioro (Che cos'è metafisica, in  Salesianum , genn.-marzo 1948)  trova questa mia definizione della metafisica  inadeguata perchè si ferma soltanto  sull’esigenza della trascendenza, la quale costituisce certamente l'elemento risolutivo e il punto di arrivo di ogni metafisica autentica, ma non è tutta la  metafisica . Esatto, purchè si tenga fermo che non vi è metafisica senza tra fisica è intrinseca la distinzione fra la realtà assoluta-universale e una relativa-particolare, di cui la prima è il fondamento. Di qui la distinzione tra il sapere assoluto e un  sapere relativo, il primo condizionante ogni altro sapere,  che da esso dipende. Parmenide per primo ( padre nostro   lo chiama Platone), in maniera chiara ed esplicita, distinse  la realtà assoluta dell’Essere uno da quella relativa degli  enti molteplici, il mondo dell’Essere puro dal nostro contaminato dal non-essere, questo condizionato dall’altro, inferiore. La prima decisa affermazione del reale assoluto comporta, dunque, il  ridimensionamento  del reale relativo, cioè  è nata dalla constatazione della contingenza e perciò della insufficienza di  questo  mondo e dunque dalla necessità del  pensiero di trascendersi in un principio assoluto, fondamento  di ogni reale e di ogni sapere. Parmenide è la prima rivelazione, in sede filosofica, del pensiero a se stesso, l'esplicita  consapevolezza che la filosofia o il pensiero ha come suo  oggetto di naturale aspirazione un oggetto assoluto. Platone  raccolse l’eredità della netta distinzione tra  fisico  e  metafisico , tra il  sensibile  e l’Idea  o forma universale  di ogni realtà particolare, tra le Idee che essenzialmente sono  ( 6vttws dvra ) sempre identiche a se stesse ( dei abtà x27  aòtà pévovta) e i sensibili che sempre divengono e mai non  sono. Stabilì una gerarchia ancora più decisa: il  metafisico  sovrasta il  fisico , come ciò che è assolutamente ciò  che è relativamente e condizionatamente, come l’eterno il  temporale; e sulla base di questa gerarchia fissò il fine dell’anima umana nella  aspirazione  al reale in sè, nell’Eros  per il suo destino ultraterreno, nella contemplazione dell’eterno Essere. Aristotele si propose di stabilire una relazione  ontologica tra i due mondi, ma co nservò il platonismo del  principio assoluto della scienza universale dell'ente in quan  scendenza, se metafisica significa ricerca di ciò che è  al di là della fisica .  In questo senso la trascendenza gon è solo  punto di arrivo , ma è anche  implicita inizialmente nel punto di partenza. to ente, fondamento di ogni particolare sapere. Noi crediamo  che questa distinzione tra il relativo e l’assoluto trascendente sia essenziale ad ogni costruzione filosofica avente un  nucleo metafisico per cui, e solo per esso, merita il nome  di concezione filosofica del reale. Ecco perchè, ad esempio,  quasi a giudizio unanime, le filosofie dette postaristoteliche  segnano la decadenza del pensiero classico: la dualità di   fisico  e metafisico  vi diventa secondaria, la metafisica è fatta rientrare nella fisica e il principio è identificato,  in un monismo opaco, con la realtà naturale. Le ali di Eros  si chiudono sull’afflitta anche se rassegnata saggezza di un  mondo finito, accettato con l’indifferenza che detta l’amor  fati, ma senza la serenità del convincimento persuaso. Per  lo stesso motivo facciamo cominciare col  terminismo   di Occam la decadenza della Scolastica. La carenza metafisica, in qualunque epoca del pensiero, si presenta come il  dissolvente della filosofia, quasi che il sopravvalutare il  sensibile e il bloccarsi nell’esperienza siano i pesi mortificanti  la potenza del pensiero, per sua natura doviziosamente generoso di metafisici slanci. Al contrario consideriamo Plotino  come l’ultima grande affermazione della Grecia immortale  e i grandi pensatori della Patristica e della Scolastica come i  rappresentanti genuini della filosofia cristiana. Le epoche  veramente filosofiche sono quelle dei grandi metafisici. Con  ciò abbiamo segnato la condanna, sia pure parziale, della  speculazione del nostro tempo.   Noi dunque riteniamo che vi sia un platonismo essenziale e perenne che è l’anima stessa di ogni vera metafisica:  l'aspirazione al di lè del fisico (trans-physica), divino Eros,  che è sete d’immortalità dell'anima nella contemplazione  beatificante dell’Essere assoluto eterno; platonismo essenziale che importa distinzione e dualità di mondi:  questo  e  l’altro in un rapporto di relativo e assoluto, di contingente e necessario, di temporale ed eterno. Platonismo, che  è nostro, se trasposto nei termini agostiniani di una metafisica dell'esperienza interiore focalizzata nel dialogo perenne dell’anima con Dio, di tutto l’uomo con la Verità che  è; interiorità che non abolisce il mondo, anzi, dal di dentro,  lo riconquista nella sua verità e realtà, che è l’atto creativo  di Dio, di cui tutte le cose quae facta sunt sono prova e testimonianza. Agostino, dunque, arricchito dalla tradizione del, miglior francescanesimo, il cui genio filosofico resta S. Bonaventura.   A noi sembra che l’istanza agostiniana, in una discussione  intorno al concetto di metafisica coincidente con quello di  filosofia, specie nello stato attuale, sia particolarmente significativa. La metafisica classica, platonica e aristotelica, è ancora cosmologia e con l’idea cosmologica identifica, in fondo, l’idea teologica: il Demiurgo e il Motore immobile  sono i due principii del cosmo fisico, il primo, Artefice divino,  mediatore tra le Idee e la materia, l’altro, Causa prima del  movimento. È una metafisica al servizio della natura fisica e  dell’uomo solo in quanto uno degli enti naturali; metafisica, dunque, come scienza della natura, con cui Aristotele  identifica la realtà in quanto realtà: l’ al di là  del mondo è  sempre un  mondo  e non lo Spirito creante. In esso manca  il problema dell’uomo in quanto uomo, così come lo si concepisce e lo si pone dal Cristianesimo in poi con quell’interesse  quasi totalitario e quella sensibilità acutissima con cui oggi  è vissuto dal mondo moderno e contemporaneo, al quale  nessuno, credo, vorrà negare il diritto di cominciare, come  dice E. Le Roy, il discorso dall’uomo, che è una delle realtà  quae facta sunt. Dall’uomo appunto ha cominciato Agostino  il suo discorso metafisico e si è accorto che, quale che sia il problema, la soluzione si trova sempre nella Verità che è e nell’Essere che è la Verità. Questo senso d’interiorità profondamente umana di ogni problema filosofico non va perduto:  in esso riponiamo principalmente l’avvenire della metafisica.   Anche la storia della filosofia crediamo che su questo  punto ci dia ragione. La metafisica, come scienza prima della natura o ricerca dei principii primi del mondo fisico, fino  alla scoperta della scienza moderna, non distingueva nettamente i due mondi; essa aveva ereditato il carattere naturalistico della metafisica aristotelica, per la quale anche i problemi di Dio (teologia razionale) e dell’immortalità dell’anima (psicologia razionale) si pongono sul terreno della natura  fisica. Di qui gli inevitabili conflitti e i tentativi d’identificare la visione scientifica  con la visione  metafisica   della realtà. La critica kantiana della metafisica è la critica  della concezione scientifico-metafisica del razionalismo da  Cartesio al Wolff e tende a distinguere la  teoria della scienza  (Critica della ragion pura) dalla  teoria della morale   (Critica della ragion pratica), dove è legittimo porsi i problemi della metafisica. La reazione positivistica e neokantiana, contro la metafisica dell’idealismo tedesco del primo  Ottocento, è giustificata dagli arbitri di quella  filosofia  della natura , cioè di una costruzione aprioristica (e in questo senso metafisica) della scienza. La metafisica dell’esperienza interiore, di tipo platonico-agostiniano, a noi sembra  che non si presti a questi equivoci: per essa il principio assoluto o verità assoluta è richiesto dal dinamismo stesso  del pensiero; dall’escavazione dell’uomo nell’uomo; dalla  presenza implicita della verità alla mente; dal conflitto della  vita morale che sta alla base di tutta la nostra vita spirituale  e la cui soluzione rimanda razionalmente alla trascendenza;  dalla costituzione stessa del pensiero che è capace di verità,  in quanto la verità, che lo fonda e trascende, è la sua vita  interiore, senza di cui non sarebbe pensiero e sarebbe morte.  Contro queste istanze metafisiche non c’è scienza o  critica   che valgano, in quanto e la scienza e la critica, le più sviluppate e intransigenti, ne riconoscono la legittimità, che  può essere solo negata  e perciò anche questa negazione è  pur essa conferma  da un atto non razionale e dunque non  scientifico, non critico e, in definitiva, non filosofico.   Si consideri ancora che, da quando scienza e filosofia, fisica e metafisica, pur non ignorandosi, seguono metodi propri e si pongono problemi diversi o almeno da punti di vista differenti, per cui l’oggetto proprio dell’una è diverso da  quello dell’altra, l’attenzione della filosofia si è concentrata  sull’uomo e su quelle che sono le forme della sua attività. La  storia, l’estetica, la politica, l’economia; le scienze morali in  generale, considerate speculativamente, sono oggi i problemi  vivi della filosofia. È vero che essi, proprio perchè posti come  problemi filosofici, importano sempre una visione totale della  realtà, ma il reale fisico, in quanto tale, interessa subordinatamente al reale umano e nei limiti in cui contribuisce alla  soluzione dei problemi dell’uomo. Le costruzioni metafisiche, nel senso di filosofia della natura, si debbono più agli  RASTA che ai filosofi veri e propri. Di questa esigenza, che possiamo chiamare  umanistica , una costruzione metafisica, oggi, non può non tener conto. Non che  il mondo così detto fisico non debba interessarla, quasi fosse  apparenza illusoria ed opaca materia, sorda alla luce del  pensiero; tutt'altro: la metafisica non può non essere che la  scienza di che cosa è la realtà in quanto realtà. Vogliamo  dire che l’uomo interessa all'uomo più di ogni altra cosa e  una presa di contatto della metafisica con il reale-uomo riporta i suoi problemi a quella interiorità, che è sempre stata  l'ispirazione fondamentale della ricerca speculativa, e rende  la metafisica stessa aderente al problema-uomo  ai problemi del donde vengo, chi sono e dove vado  la cui soluzione, in definitiva, sta alla base di quella del significato e  del valore del mondo in generale. Da questo punto di vista  possiamo dare in parte ragione al Carlini, il quale tenendo  presente una determinata concezione della metafisica, considera tutta la metafisica scienza naturalistica che indaga intorno al principio del mondo, quasi una continuazione della fisica, scienza dell’ essere  contrapposto allo  spirito .  Ma questa è una particolare metafisica e non /a metafisica,  come sembra pensare il Carlini, in quanto vi può essere (e vi è nella storia della filosofia) una metafisica dell’esperienza  interiore, dove essere  e  spirito  non si contrappongono, dove resta primo il concetto del cos'è il reale in quanto  reale, ma dove il reale non è più naturalisticamente inteso.  In questa metafisica, che è ancora scienza che non sta contenta al come, il problema del propter quid importa l’impegno totale dell’uomo e la partecipazione sua e delle cose  ad un comune destino, per cui il problema metafisico è  innanzi tutto problema dell’uomo in quanto uomo. L’intus legere (intelligere) che è la filosofia o la metafisica  non è solo un leggere nell’inzus delle cose, ma è  innanzi tutto  un leggere nel nostro intus, in interiore  homine; solo quando questa pagina sarà decifrata e chiara, sarà possibile leggere,  metafisicamente  e non  scientificamente , anche il libro della natura, decifrarlo e  chiarirlo. Possiamo, dunque, convenire anche con lo Heidegger (senza accettare le conseguenze che egli ne trae) che  la metafisica è sì questione sul senso dell’essere  nel suo  insieme e in quanto tale , ma che l’ontologia è vincolata  all’antropologia: l’uomo che indaga è egli stesso oggetto  primo della sua indagine, il ricercatore è incluso nella sua  ricerca.  Ogni domanda metafisica racchiude la problematicità della metafisica nella sua totalità , ma  nessuna domanda metafisica può porsi se non è posto in questione   come tale  colui, che fa la domanda, se non diventa dunque domanda egli stesso . (Was ist Metaphysik?, trad. it.  Milano, Bocca, 1942, 55).   Dunque, anche quei pensatori che, oggi, non sono nè  anti nè a-metafisici e ripongono sul tappeto della più viva  discussione filosofica il problema della metafisica, pur accettando la posizione classica del problema stesso, ne accentuano l’aspetto umano, spirituale, interioristico. Non si tratta  d’indulgere ad una moda, come se quel che è stata verità  una volta non lo sia più, secondo la tesi di un relativismo  storicistico negatore della verità e della filosofia, ma di cogliere quelle esigenze profondamente spirituali, che co-.  stituiscono l’anima dell’indagine metafisica e impediscono  che essa si presenti sotto l’aspetto (che è un aspetto) di scienza  puramente naturalistica, anzichè sotto l’altro, che le è più  proprio ed essenziale, di ricerca interiore dell’! di /à dello  spirito umano, senza di cui non sarebbero nè l’uomo nè le  cose e lo spirito stesso sarebbe materialità, passività e morte.  Perciò noi ci siamo principalmente preoccupati di cogliere  la costante ed insopprimibile esigenza metafisica, anche nei  sistemi anti o ametafisici, sia per provare la essenzialità ed  universalità del problema, costitutivo della stessa filosofia,  sia per dimostrare, conseguentemente, come nessuna negazione della metafisica possa negare se non altro la possibilità  della metafisica stessa, essendo essa il primo iniziale che  muove ogni indagine speculativa e la sua realizzazione la  speranza suprema e dunque il fine del pensiero. Aderire alle  istanze della filosofia moderna e contemporanea ci sembra  una condizione indispensabile di ogni concreto filosofare;  nel nostro caso, per porre concretamente e criticamente il  problema della metafisica. Le critiche e le accuse, quando  non sono dettate da superficialità, incomprensione o sordità  costituzionale per certi problemi, servono a chiarire altri  aspetti della questione e consentono al metafisico di riporsi  il problema con maggiore consapevolezza, di vederlo in quella  complessità di momenti, che impedisce una visione parziale e non integrale di esso e perciò astratta o unilaterale.  L’antimetafisica che quasi senza soste e a volte con accanimento appassionato o passionale si è scatenata dal tempo dell’illuminismo anglo-francese, risponde anch'essa ad un’esigenza del pensiero. Essa impone, da un lato, la difesa ad oltranza della metafisica in nome del diritto alla vita della filosofia e, dall’altro, il dovere, per il metafisico, di  riporsi il problema in modo che l’istanza metafisica  esca vittoriosa dalle apparenti sconfitte, scaturisca dalle  stesse negazioni, chiarita nei suoi molteplici aspetti, sic  104 Filosofia e Metafisica       chè la sua risposta, più ricca e complessa, comprenda in  sè le esigenze che sembrava escludere e che, solo apparentemente, per un errore di prospettiva, si erano poste contro  la metafisica, mentre, in realtà, la loro era opposizione ad  una determinata soluzione del problema metafisico, la quale  trova in quelle critiche non la negazione della sua verità,  ma lo stimolo per arricchirla in una più comprensiva. Quel  che è stato una volta verità, verità sarà sempre, ma è dell'essenza della verità la vita e lo sviluppo fecondo, il crescere continuamente di e su se stessa, in modo da conquistarsi sempre più come verità. Perciò noi accettiamo l’istanza  critica del divenire e dello sviluppo dello spirito, proprio per  dimostrare come non vi è verità che muoia e verità che  nasca per morire ancora, problema che si ponga per restare  sempre problema, esasperatamente tale, ma che vi è verità perenne che perennemente è vera, oggi più comprensiva di ieri, perchè più matura e sviluppata. Ora è evidente che le istanze antimetafisiche dell’empirismo inglese,  la critica kantiana della metafisica del razionalismo moderno, la metafisica cosiddetta del pensiero o della mente dell’idealismo tedesco e del neohegelismo italiano, le molte metafisiche contemporanee dell’intuizione, dell’azione, della volontà, della vita ecc., come pure le stesse negazioni radicali  di ogni metafisica non vanno considerate, tutte, nella loro  sterile (agli effetti dell’avanzamento della questione) polemica contro la classica metafisica dell’essere o della verità  trascendente o dell’oggettivismo o dell’intellettualismo, ma  in quell’aspetto fecondo di positività che esse hanno e cioè:  nell’avere rilevato esigenze nuove, nuove prospettive, di cui  la metafisica, come la scienza del che cos'è la realtà in quanto  realtà, oggi, deve tener conto, affinchè la risposta sia davvero comprensiva, direi, assorbente, di tutte le diverse istanze,  in quel che hanno di vero, e di esse l’inveramento concreto. Di qui la nostra concordia discors (che crediamo sia una forma di colla  borazione feconda nella comune battaglia contro le negazioni della metafisica)  con la Neoscolastica dell’Università Cattolica di Milano e, in special modo, Al principio di questo capitolo abbiamo rilevato la complessità di sensi e problemi del termine metafisica, difficilmente includibili in una veduta comprensiva ed armonizzante di tutti: non di rado si dà la preferenza ad un senso  o ad un altro, ad uno o ad un altro problema. La metafisica è conoscenza astratta, o la più concreta? è opera esclusiva della ragione e perciò pura costruzione 4 priori? è scoperta delle regole fondamentali del pensiero e perciò valide  per ogni scienza sia fisica che morale? E potremmo ancora  continuare. Ma ci sembra che tutti, metafisici e non metafisici, siano d’accordo che essa, come la definì Aristotele, è Za    con Mons. Olgiati. Nella sua prolusione al corso di metafisica dal titolo Come  si pone oggi il problema della metafisica (in Riv. di filos. neosc. , n. 1,  1922) l° Olgiati, in fondo, riafferma che la sola vera è quelia dell'essere nella  forma aristotelico-tomista, la quale, dunque resta come l’unica, intatta ed intangibile. Il lungo discorso della filosofia moderna non la interessa affatto, perchè  questa, fenomenistica, considera fenomeno il reale in quanto reale e non colpisce, in fondo, la concezione del reale in quanto essere; dall’altro, la metafisica del vero ontologico, di stampo platonico, è stata da essa superata. A noi  sembra che, anche ammesso e non concesso che tutto il pensiero da Cartesio  in poi sia fenomenistico, resta sempre la questione, per il problema della metafisica posto  oggi , di vederc quali istanze la metafisica fenomenistica ponga  contro (o a differenza di) quella dell'essere e se questa non sia chiamata a  tenerne conto se vuol parlare un linguaggio significante per la filosofia moderna  e contemporanea.  Tenerne conto  non significa affatto rinunzia a quel che è  la sua verità, ma dimostrazione della sua fecondità e vita perenne nell’unico  modo in cui si può provare: che essa è capace di sviluppo, di dispiegarsi come  verità comprensiva di esigenze diverse, di essere sufficiente a risolverle ed aperta  a nuovi punti di vista che, arricchendola e quasi rivclandola sempre meglio a  se stessa, la confermano come verità di ieri e di oggi e non soltanto di un   ieri , che  oggi  può non interamente soddisfare.   Per quanto qui è detto (e soprattutto per quanto si legge in molti punti  di questo volume) mi sembra assolutamente infondata l’obiezione mossa a  me e agli altri collaboratori del  Giornale di Metafisica , che nessuno di noi   si preoccupa del problema critico, come se la metafisica non fosse mai stata  messa in discussione  ( Rivista di Filosofia , genn. 1948, p, 97). Precisamente il contrario: in tutti noi è vivissima tale preoccupazione e il nostro è  un dialogo costante con il problema critico. Anzi, per quanto mi riguarda, debbo  dire che, se un qualche interesse ha la mia posizione speculativa, è precisamente  quello che cerca di dimostrare come, proprio dalla stessa istanza critica, si arrivi  ad una soluzione positiva e razionale dei problemi della metafisica. quosopia 736, la scienza dei principii primi. Così intesa  ebbe l’ultima grande sistemazione scolastica dal Wolff con  la duplice divisione in metafisica generale od ontologia  (scienza dei principii primi in generale e dell'essere in quanto  essere) e metafisica speciale o scienza degli esseri (scienza  dell'anima  psicologia razionale ; filosofia della natura   cosmologia razionale ; esistenza di Dio e suoi attributi   teologia razionale e teodicea). In verità il problema primo  è proprio l’ultimo in quanto la soluzione di esso, in un  senso o nell’altro, condiziona quella degli altri problemi,  anche quando quello è posto e risolto alla fine: la teoria  della conoscenza (problema del fondamento critico del sapere), la teoria dell’essere, come pure il problema dell’immortalità dell'anima, rimandano al problema dell’Assoluto,  di Dio, principio primo di ogni conoscenza e di ogni essere.  Di fronte a questi problemi quali sono le posizioni fondamentali della filosofia moderna e contemporanea?  Cartesio, da cui si fa comunemente cominciare il pensiero moderno, nella Prefazione ai Principes, la considera  la racine  dell’albero della scienza, avente però come oggetto enti immateriali: la conoscenza di Dio e dell'anima per  mezzo della  ragione naturale  (Méditazions, Epitre dédicatoire). La metafisica si distingue così dalla fisica, dalla matematica ed anche dalla morale e si presenta come teologia  e psicologia razionali. Cartesio, in fondo, rivendica, anche  se ancora non in maniera netta e decisa, l'autonomia delle  scienze fisico-matematiche e quella della morale.  Immateriali  gli oggetti della metafisica: dunque, non spaziali e  non sensibili come dirà Malebranche (Enzréziens, I): c'è,  in fondo, in Cartesio  e di più in alcuni cartesiani   un'istanza platonica. D'altra parte, la certezza interiore del  Cogito è criterio assoluto di verità: realtà spirituale e realtà  naturale restano nettamente distinte e con la dualità sorge  il problema del loro rapporto. Dunque, ancora, platonismo.  Pure sulla linea platonico-agostiniana o neoplatonica è la soluzione del problema testè indicato: la occasionalistica  e la spinoziana, l’una e l’altra però, a differenza di Cartesio, non escludenti l’etica. Si consideri che il problema della  relazione tra le due res è imposto dall’ente-uomo dove si trova  concretamente realizzata. Ormai la metafisica non è più soltanto ontologia e poco si preoccupa del reale fisico o naturale (il mondo, per Malebranche, è quasi superfluo ed è  un’apparenza caduca per lo Spinoza), ma soprattutto conoscenza ed etica, determinazione delle modalità del conoscere  e del volere. Il Leibniz sistemò diverse istanze del razionalismo cartesiano e spinoziano e il Wolff fece di quella metafisica la nota divisione scolastica.   La crisi della metafisica razionalistica comincia con la  critica della conoscenza  con la gnoseologia nel senso  moderno del termine  dell’empirismo inglese. Il bersaglio  è preciso: il principio assoluto del sapere così come il razionalismo lo andava sistemando. La risposta è radicale:  ogni realtà oggettiva o assoluta, che la metafisica presuppone, se non si risolve (dissolve) nell’esperienza sensibile, è  un inconoscibile o una credenza. Leibniz cerca di correre ai  ripari: alla critica lockiana dell’innatismo contrappone il concetto di virtualità, al nominalismo la distinzione tra verità  di ragione e verità di fatto; ma egli deve all’istanza critica  dell’empirismo, se non altro, lo stimolo a costruire una metafisica monadistica. Infatti, ogni forma di empirismo è  sempre rivendicazione del concreto individuale, degli enti  particolari; inoltre, come tale, implica sul terreno gnoseologico la risoluzione di ogni realtà oggettiva nella percezione soggettiva. La realtà si pluralizza in infinite sostanze, in points métaphysiques, in points de substance. Ciò accade non solo per Leibniz, che al posto dell’unica sostanza  dello Spinoza, mette un universo di monadi, ma anche per  Berkeley, per il quale l’universo è costituito di sostanze percepienti. Si consideri che il Berkeley assolve, dentro l’empirismo, la stessa posizione critica assolta dal Leibniz contro di esso, in nome degli stessi interessi: la realtà degli spiriti  e di Dio. Il sostanzialismo spiritualistico del Berkeley s’intende meglio come critica dell’empirismo e in rapporto al  monadismo spiritualistico del Leibniz. Contro l’uno e l’altro, colpendo alla radice il principio del razionalismo (il  cogito), Hume nega che vi sia una sostanza pensante metafisicamente concepita come sostanza in sè sussistente. Così  l’oggetto della metafisica, come mondo naturale e spirituale, come essenza dell’essere e come principio assoluto del  conoscere, si dissolve, attraverso un processo che va dal  Cogito di Cartesio alla percezione dello Hume: la realtà,  tutta la realtà, è soltanto l’attività presente e momentanea  del percepire o dell’apparire.   Quasi contemporaneamente gli ideologi francesi del secolo XVIII ( l’àge barbare de la philosophie , come scrive  il Lachelier) intendono il termine metafisica nel suo signifi  cato deteriore di inutile logomachia, di vano ed oscuro filosofare ( le roman de la nature  come la definisce Voltaire  nell’articolo ironico  Métaphysique  che si legge nel suo  Dictionnaire philosophique). Ignoranti com’erano del Medioevo, coinvolgono nella stessa condanna la grande metafisica  della Scolastica e le sottigliezze fatue della decadenza della  Scolastica stessa e del tardivo aristotelismo averroista, continuando la polemica anti-aristotelica ed antiscolastica che è in  special modo propria dei filosofi-scienziati del secolo XVII  e alla quale erano rimasti tutt'altro che estranei sia il materialista Hobbes che Cartesio e Spinoza. All’antica metafisica  teologica  ed astratta contrappongono la loro, intesa,  in opposizione alla fisica (e qui sono cartesiani) come scienza  dello spirito, delle idee e della loro origine. Così il Condillac  considera (nell’Inzroduction dell’Essai sur l'origine des connaissences humaines) bonne métaphysique  la sua teoria  dell’origine delle idee e dei principi della conoscenza umana;  e il Destutt de Tracy distingue l’ancienne métaphysique  théologique  dalla  moderne métaphysique philosophique ou l’idéologie . Metafisica, in breve, è conoscenza dei principii generali di un'arte (un poeta o un musico, che vogliono  rendersi conto dei principii della loro arte, ne fanno la metafisica) e di una particolare scienza o di quanto non è  oggetto dei sensi esterni come le operazioni e facoltà  dello spirito , quali le sensazioni, la memoria, la volontà,  ecc. D’Alembert, nel celebre Discours préliminaire de l’Encyclopedie, poteva scrivere che Locke créa la métaphysique . Così la definizione cartesiana di metafisica (scienza  degli oggetti immateriali) e l’opposizione di essa alla fisica,  la critica lockiana del concetto di sostanza e la posizione  critica del problema della conoscenza, la negazione humiana  della realtà della sostanza estesa e pensante, l’identificazione del concetto di  natura  con quello di materia, il  senso della concretezza del particolare e della positività della  ricerca scientifica, confermano sempre più la netta distinzione della realtà in due aspetti: quello naturale o fisico,  oggetto della scienza, sistemato nella concezione meccanicistica e deterministica e l’altro umano o  spirituale , 0ggetto della filosofia vera e propria, intesa come analisi delle  facoltà e dei fenomeni psichici, teoria della conoscenza, morale, psicologia. Con tale analisi viene identificata la metafisica,  la quale non si distingue dalla  gnoseologia  o dall’ ideologia , intesa come ricerca sulle facoltà della natura umana , limitata all’indagine dell’origine delle idee, dell’oggetto e dei limiti del conoscere. È superfluo avvertire che  la soluzione del problema gnoseologico condiziona quella  della possibilità della scienza della natura o meglio della  scienza in generale; ma conta notare come l’oggetto della  metafisica sia ormai esclusivamente l’uomo nell’insieme delle  sue facoltà (sensoriali, intellettive e volitive) e come il problema metafisico si ponga non nei termini di che cosa è il  reale in quanto reale, ma in quelli di che cosa è l’incondizionato che tutto condiziona. Kant, quando la lettura dello  Hume lo pose di fronte a questo problema, sospese la metafisica razionalistica leibniziano-wolffiana e si chiese: è possibile una metafisica come scienza? Non vi ha dubbio che Kant, nel porsi questa domanda  intorno al problema che restò centrale in tutti i suoi interessi di pensatore, si proponesse sinceramente di ricostruire  l’edificio della metafisica sulla base dell’esigenza critica ,  che gli aveva fatto sospendere la costruzione  dogmatica   del razionalismo. Così il suo primo problema no-n è quello  di una teoria  della conoscenza, ma della critica  del  conoscere in generale per accertare i mezzi di cui la ragione dispone per costruire la metafisica. L'indagine critica  lo porta a concludere, nella prima Critica, che vi sono due  aspetti della questione da tener distinti: 4) vi è un problema  della metafisica  come filosofia dei fondamenti primi della  conoscenza  che s’identifica con la stessa critica, cioè con la  fondazione assoluta dei mezzi del conoscere e non con quello  della metafisica nel senso tradizionale, per la fondazione  della quale quei fondamenti dovrebbero essere strumenti;  5) vi è un altro problema della metafisica come comprensiva di tutta la conoscenza, vera o apparente, che appartiene  alla Ragione pura e costituisce, non una scienza nel senso  della prima, ma una  scienza dei limiti della ragione umana . Non tener distinti questi due aspetti del problema ed  applicare le forme del conoscere valide per la conoscenza  del sensibile agli oggetti in sè, è mettersi sulla via dell’errore e dei paralogismi creando un sapere illusorio che si  avvolge nelle insolubili antinomie della dialettica. A_ questo  punto, alla domanda,  che cosa è il reale in quanto reale ,  Kant dà una duplice risposta: 4) come reale fenomenico è  il  contenuto  della sintesi 4 priori, di cui le intuizioni dello  spazio e del tempo e le categorie dell'intelletto sono le   forme  trascendentali, valide solo per quel contenuto e  come principii necessari universali e assoluti per costruire  la scienza matematica e fisica. Con questa risposta Kant  vuole risolvere il problema della metafisica intesa come scienza dei principi primi del sapere, dentro i limiti di un  sapere come conoscenza del sensibile e del fenomenico; e con  ciò conclude il problema del valore del pensiero e dell’analisi  della conoscenza umana posto da Cartesio e Locke e lasciato  in eredità a tutto il razionalismo e a tutto l’empirismo  moderno. 3) Come reale assoluto o cosa in sè è il  contenuto  di una forma che non può essere alcuna di quelle  dell’intuizione e dell’intelletto, valide solo per il fenomenico (non ci sembra, dunque, che si possa sostenere che,  per Kant, la realtà sia soltanto fenomeno), ma di un’altra forma valida per un sapere o per una scienza che  non è la matematica e la fisica. Tale scienza è appunto  la morale, di cui i problemi della wolffiana metafisica  speciale o degli esseri sono i postulati indispensabili. Kant,  dunque, non dice che non è possibile una metafisica come scienza in generale, ma solo come scienza nel senso di  quella della natura fisico-fenomenica e ciò vale come Prolegomeni necessari di ogni futura metafisica che si presenti  come scienza  senza escludere, anzi includendo, che è possibile una metafisica sul terreno della morale. Ma egli, legato al concetto di trascendentalità delle forme a priori come  pure funzioni o condizioni del conoscere e preoccupato di  fondare una morale autonoma, non potè dare tale metafisica, ma solo indicare gli oggetti di essa come pure esigenze e postulati. Tuttavia, crediamo non vi sia dubbio che  sia questa l’istanza del Kant, il quale, infatti, non potè mai  scrivere nonostante vi si sia provato  esistono frammenti di  questi tentativi  una metafisica della natura, per il motivo  che questa era già stata risolta nella stessa critica, mentre  potè scrivere la Fondazione della metafisica dei costumi e la  Metafisica dei costumi. Di lui resta l'insegnamento, da mettere a profitto sulla linea della metafisica classica (non intendiamo con questo termine solo le metafisiche di tipo aristotelico), che la metafisica è una scienza indipendente dalle  altre, le cui  Idee  rivelano la loro efficacia, ineliminabile ed insostituibile, n ella costituzione del mondo morale o, come  noi diciamo più comprensivamente ed esattamente, della  vita spirituale ;  Idee  che la  ragione pura , nel senso kantiano, pensa (noumeniche), stabilendo con ciò stesso una distinzione tra il regno dello spirito e quello della natura, alla  cui conoscenza l'intelletto è legato. Kant in questo senso ha  riportato la metafisica al suo oggetto proprio e ha fatto dei  suoi problemi le questioni essenziali e fondamentali dell’uomo. Egli approfondisce (critica ) il senso cartesiano  della metafisica considerandola un modo speciale di pensare: i suoi oggetti sono immateriali  e perciò le eventuali  conoscenze, che di essi la ragione può avere, devono essere  assolutamente 4 priori senza ricorso ai dati della esperienza  nè alle intuizioni spazio-temporali. Tali oggetti così intesi  sono  pensati , ma non conosciuti secondo le categorie della  scienza che è solo scienza (critica della metafisica razionalistica), ma ciò non impedisce che possano, debbano essere  pensati e conosciuti come condizioni indispensabili ed assolute della scienza  dei costumi (f).   L’idealismo trascendentale post-kantiano accolse l’istanza  critica quasi esclusivamente nel senso della metafisica  come  scienza dei fondamenti primi della conoscenza  e considerò  principio assoluto il concetto dell’attività creatrice dello spirito. Di qui una duplice interpretazione  di Kant e un  duplice sviluppo: @) la metafisica s’identifica senz'altro con  la dottrina della scienza; 5) le forme 4 priori non sono soltanto  funzioni con cui il soggetto costruisce  l’esperienza: il  soggetto crea, con la sua attività, forme e contenuto.  Così la metafisica s’identifica con il sapere e il soggetto   funzionale  di Kant si trasforma nel Soggetto come entità metafisica e teologica: l’Ich denke diventa Ichheit. Duplice arbitrio, anche dal punto di vista kantiano. E’ qui   e non nei pensatori anteriori, soprattutto in alcuni razio  (3) Altre considerazioni critiche sul problema della metafisica in Kant si  trovano soprattutto nella Parte III di quest'opera. nalisti  un senso della metafisica opposto a quello di Aristotele: non la scienza dell’ente in quanto ente, ma la scienza  della scienza in quanto scienza. Questo non è più Kant, ma  una forma di kantismo  che riporta il problema della  metafisica alla posizione prekantiana, quale si riscontra nell’empirismo inglese e in alcuni ideologi francesi del secolo  XVIII. A noi sembra che l’idealismo empirico sia il padre  dell’idealismo trascendentale  tramite un’interpretazione  non-kantiana di Kant:  l’esse est percipi è trasformato  nell’esse est percipere, dove il percipere è l’assoluto spirito  che pone se stesso e il non-io. La posizione kantiana di uno  spostamento della metafisica dalla fisica al mondo morale  è di nuovo perduta e la metafisica ritorna ad essere  filosofia della natura , cosmologia, di cui il principio creatore  è l’Io, un Io perduto nel mondo, che si fa natura senza mai  più potersi riconquistare nella sua interiorità spirituale. Il naturalismo neoplatonico (Hegel) e il riscoperto  Spinoza  ritornano nella formula del Deus sive natura, dove Dio è il  trascendentale e la natura la sua posizione, con la quale l’Io  creante s’identifica (immanentismo). Così l’idealismo riporta  lametafisica sul terreno della scienza della natura e costruisce  una nuova metafisica  dogmatica  nel senso kantiano come  quella del razionalismo, con la differenza che in esso l’essere è risolto completamente nel pensiero creatore. Di qui  l'opposizione della metafisica del pensiero alla  metafisica  dell’essere , di una filosofia della verità che è tutta nel suo  processo storico o filosofia dello spirito  dove però lo spirito  non si coglie mai come tale, ma sempre nella sua mediazione con il non-io, cioè nel suo farsi natura, esteriorizzarsi,  non essere se stesso  alla  dogmatica  filosofia della verità  immobile. Il soggetto non è più problema, ma principio assoluto che tutto spiega: resta estraneo alla ricerca metafisica,  che così gli si fa estrinseca,  materiale . La realtà prima  e ultima è il pensiero, che si fa tutto senza essere mai propriamente se stesso, che nega ogni antecedente ontologico  senza riescire a conquistare la sua autentica soggettività.   Compiuto con il Fichte il  salto  dall’Io funzionale all’Io entità metafisica, l’idealismo trascendentale elimina la  distinzione kantiana di fenomeno e cosa in sè, di mondo  della natura e di mondo morale, annullando con ciò stesso i  termini in cui Kant aveva posto il problema della metafisica: cade la distinzione tra scienza dell’assoluto e conoscenza del fenomenico e la metafisica viene identificata  con la stessa teoria critica del conoscere. Razionale e reale  si adeguano: la Ragione ha la capacità di penetrare tutto il  reale, in quanto il reale è lo stesso dispiegarsi della Ragione.  La metafisica della natura s’identifica con quella del pensiero, dato che il principio del dialettismo antinomico è il  fondamento assoluto dell’una e dell’altro. Ogni aspetto del  reale non è che un momento del processo dialettico: i dati  dell’esperienza sono risolti nel divenire dello spirito e questo  è nella concretezza delle sue determinazioni.   Costruzione aprioristica e fantastica della natura, dissoluzione della realtà e degli enti nel processo dialettico  della Ragione e di questa nelle sue transeunti determinazioni, dommatismo e teologismo deteriori determinarono  la decadenza della  metafisica del pensiero  e provocarono  una compatta reazione ad essa. Lo Schopenhauer fa sua  la distinzione kantiana di fisica e metafisica, di fenomeno e  cosa in sè; Kierkegaard, in nome dei diritti della fede e  della religione, rivendica il concetto di esistenza  o di   singolarità  e alla dialettica del passaggio contrappone  quella del  salto , alla  ragione  l° assurdo  della fede;  Feuerbach e Marx rivalutano il concreto, il particolare o  finito e fanno scendere l’idea hegeliana nel mondo dei fatti;  il Neokantismo lancia il grido di Keine Metaphystk mehr  contro la metafisica intesa nel suo senso deteriore e affianca  la posizione positivistica, imbaldanzita dai successi delle scienze sperimentali. Comte considera  abstrait  l’ état métaphysique , ormai definitivamente superato al pari di quello  teologico (naturalmente poi egli fa, per suo conto, della metafisica concependo la filosofia come sistema delle scienze e  della pseudo-teologia), mentre Sully Prudhomme (Que  sais-je?, 51) scrive: Il n'y a de métaphysique dans  l’ètre que l’inconcevable. La métaphysique commence où la  clarté finit . Quando l’idealismo hegeliano ai principi del  secolo rinasce in Italia, la metafisica del pensiero viene  rigettata da un epigono formatosi nell’ambiente positivistico  e negli studi marxisti e accettata dal Gentile, attraverso una   riforma  della dialettica dello Hegel (mediatore lo Spaventa), come metafisica dell’atto del pensiero pensante, antitetica a quella oggettivistica dell’essere.   In tutta questa reazione violenta contro la metafisica,  escluso il Gentile, è necessario notare che: 1) si reagisce contro la metafisica di tipo hegeliano, identificata con la metafisica senz'altro  solo arbitrariamente la condanna è stata  estesa alla metafisica come tale; 2) si rivendica, da un lato,  la realtà, il senso e il valore dell’esistente o singolo contro  la  ragione speculativa  e di fronte all’assurdo e allo  scandalo  della fede religiosa (esistenzialismo teologico e trascendente) o come valore in se stesso, il cui avvenire è nell'umanità (esistenzialismo laico o immanente); 3) e, dall’altro, il concetto di scienza nel senso moderno, costruita  con metodo sperimentale e non aprioristicamente. Purtroppo  l’identificazione della metafisica con quella di tipo idealistico; il prevalere degli interessi pratico-scientifici; l’estensione  arbitraria di metodi e leggi valevoli per il mondo fisico anche alla spiegazione del mondo dello spirito; il convincimento derivante da un’interpretazione unilaterale della Critica che, dopo Kant, non era più possibile  e nemmeno serio!  tentare di ricostruire una metafisica; il perdurare del  senso dispregiativo ormai tradizionale dato a questa parola nel secolo XVII e più ancora nel XVIII contribuirono  a far decretare una condanna della metafisica, che apparentemente  quanta superficialità anche in pensatori di non mediocre levatura!  è potuta sembrare definitiva. Quasi inesistente, d’altra parte, l’influenza della filosofia rosminiana  fuori d’Italia e pure da noi limitata, scarsa di sviluppi speculativi, prima ostacolata per motivi politico-teologici e poi arrestata dal prevalere del positivismo o interpretata kantianamente, idealisticamente e immanentisticamente sia dal primo (Spaventa) che dal secondo (Gentile) hegelismo. Eppure  il Rosmini, antikantiano nel giro dei problemi di Kant, rappresenta ancor oggi  e non solo in Italia  la più vigorosa riscossa della metafisica tradizionale, non ripetuta, ma  ripensata a contatto del pensiero moderno. La sua filosofia  aspetta ancora di entrare nel vivo del pensiero mondiale.   Com'è noto la reazione idealistica contro il positivismo,  altra età barbara della filosofia, fu suscitata dal bisogno di  rivendicare i valori spirituali e di restituire la filosofia ai suoi  problemi e alla sua autonomia. La metafisica si giovò di  questa riscossa, ma non si ebbe un ripensamento sistematico  di quella classica, sia di tipo platonico che aristotelico. Per  il Bergson metafisica è un modo speciale di conoscere e cioè  il mezzo  de posséder une réalité absolument au lieu de la  connaître relativement, de se placer en elle au lieu d’adopter des points de vue sur elle, d’en avoir l’intuition au lieu  d’en faire l’analyse, enfin de la saisir en dehors de toute expression, traduction ou représentation symbolique  (Introduction è la métaphysique, in  Revue de métaph. et de  mor. , I, 1903). In breve, per il Bergson  a parte che egli  attribuisce questa capacità all’intuizione che contrappone al  pensiero discorsivo  la metafisica è conoscenza assoluta,  ultima. Egli riconosce che il suo oggetto è l’essenza interna degli esseri e non le loro manifestazioni sensibili; che  è penetrazione 4/ di là della fisica (per lui delle immobili leggi delle scienze) nell’intimo della creatività  individuale  degli esseri, non dell’essere. Da parte sua il La-.  chelier (Vocabulaire technique et critique de la philos., IV ediz., vol. I, 456) si augura che la metafisica possa ridiventare la science de l’étre, dans le double sens d’existence  en général et de totalité des existences , ma alla  nouvelle  condition  che la chiave di questa scienza sia cercata  dans  la logique interne de la pensée precisando che Dio e il  nostro possibile destino fuori di questo mondo non sono oggetti di scienza, ma di fede. Il Gentile (ocit., p123),  nei primi anni del nostro secolo, può scrivere 2a oggi  i vecchi nemici di essa [ della metafisica ] cercano di scusare  e di attenuare le loro critiche di una volta... Oggi lo storico  della filosofia può parlare della metafisica classica, ossia della  filosofia vera e propria di tutti i tempi, con la certezza di  toccare una corda che risuoni nell’animo dei suoi ascoltatori . E anche per lui metafisica è  spingersi al di là del  fenomeno e fissare l’occhio nel reale. Vi è in questi ed in altri pensatori un’istanza comune:  la metafisica si giustifica come rivendicazione di quei valori  spirituali (conoscitivi, morali ed anche religiosi) che nessuna  scienza sperimentale può mai cogliere. Si tratta di una rivalutazione dei valori umani (tipica della Wertmetaphysik  del Windelband e del Rickert) sul terreno stesso dell’umanità  e della storia, @/ di Îè delle schematizzazioni della scienza  naturalistica. Di qui la netta distinzione tra scienza e metafisica: la prima non può condurre alla seconda e questa,  come scrive il Liard (La science positive et la métaphysique,  III, c. VII),  ne peut fournir à la science un point de  départ et des principes régulateurs .  Après les phénomènes, nous voulons connaître l’absolu; après les conditions  nous demandons la raison de l’existence. La métaphysique  serait la détermination de cet absolu, la découverte de cette  raison  (ivi, Avant propos). Dunque  volontà  e perciò  esigenza di conoscere l’assoluto; domanda, e perciò ancora  esigenza, della ragione dell’esistenza. L’idealismo aveva risposto dopo Kant, ma  interpretandolo , a queste esigenze  con la nuova metafisica del pensiero, sul terreno dell’immanenza assoluta, ma senza appagare quella  volontà  di assoluto nè soddisfare quella  domanda  di ragione dell’esistenza.   Siamo arrivati, ci sembra, al punto cruciale, in seno al  siero moderno e contemporaneo del problema della metafisica. Si riconosce l’insopprimibilità per l’uomo e dunque per  il pensiero dei suoi problemi; per conseguenza che bisogna  rispondere, che non si può non rispondere: rispondere è una   necessità interna del pensiero, direbbe Lachelier. Ora  l’immanentismo, sotto qualunque forma si presenti, è davvero una (/a) risposta a queste esigenze di  assoluto  e di  ragione  dell’esistenza, o non piuttosto l’assolutizzazione  della ragione o del pensiero e la negazione di ogni ragione  dell’esistenza? Nell’ assoluto pensiero  immanente e  perciò circoscritto alla natura c'è una contraddizione nei termini: il pensiero pone, intrinsecamente, l'esigenza dell’assoluto e esso stesso si pone assoluto. O l’esigenza non c’è e  il pensiero è l’assoluto; o l’esigenza c’è, interna al pensiero  e pungolo che lo spinge ad oltrepassarsi, e il pensiero non  è l’assoluto, ma fondamentale, invincibile, universale esigenza dell’assoluto; ed è qui, e non nel pensiero, la  ragione  dell’esistenza. Questo ci sembra il primo risultato  positivo del travaglio della speculazione da Cartesio ai nosti giorni: il riconoscimento razionale  e dunque critico della critica più rigorosa ed intransigente  che l'assoluto oltrepassa il pensiero di cui è pure il fondamento e il fine, la sua  ragione prima ed ultima, la ragione dell’esistenza come tale.  L’immanentismo non è una risposta alla metafisica, ma l’assunzione a principio assoluto di un elemento (il pensiero umano) che è invece richiesta di assoluto e che, solo in quanto tale,  pone il problema di una metafisica come sforzo, dice James,   unusually obstinate  di pensare chiaro e conseguentemente , soprattutto  consistently , come bisogno di una  Durchbildung energica del nostro Lebdenskreis (Eucken).  Dunque, il travaglio del pensiero moderno c’insegna, contro le sue premesse ma in armonia con le sue ultime conclusioni,  che non vi è metafisica autentica dove non vi è trascendenza  (l’al di lè). Per conseguenza: 4) tutti i tentativi odierni di  immanenza e super-immanenza contrastano con le conclusioni stesse di quel pensiero moderno o critico a cui si  richiamano e perciò sono essi delle sopravvivenze; 5) il problema dell’assoluto come fondamento del sapere e del volere si pone innanzi tutto, anche se non esclusivamente,  come problema della ragione dell’esistenza umana, valida  non per l’umanità in generale, bensì per ogni singolo uomo,  cioè come problema dell’altro, ma dell’aliro dell’uomo e non  dell’ altro mondo, come problema dell’a/ di lè dell’uomo  (e perciò anche come suo destino) e non in un senso soltanto  naturalistico dell’al di lì del mondo fisico. Se non vi è una  metafisica cristiana, vi è un modo cristiano d’intendere la  metafisica; il Cristianesimo non è una cosmologia, ma innanzi tutto, civitas hominis, qui, Civitas Dei,  al di là ..  Questo modo d’intendere la metafisica non è soltanto nostro ma predominante da quando la più recente filosofia contemporanea si è posto il problema con insistenza e in termini  espliciti; da quando metafisica ed ontologia non sono più  solo  ricordate  come mere parole cadute in disuso ed archiviate. Un ritorno della metafisica non solo come esigenza  ma come dimostrazione della trascendenza, ricerca di un assoluto come principio dell’esistenza è la posizione più vitale  di una parte del pensiero odierno, che non segna un salto indietro nel processo della filosofia, ma è la continuazione del  pensiero moderno, le cui conclusioni autorizzano la più profonda revisione delle sue premesse. Noi diciamo dunque che  la vera conquista del pensiero moderno, non è il principio  della  creatività  dello spirito e conseguentemente dell’immanenza, ma la riconquista, attraverso il processo critico,  della sua creaturalità  e perciò della trascendenza, riscoperta nel suo autentico significato spirituale datole dal pensiero cristiano, che venne ad arricchire ed anche a trasformare quello cosmologico e naturalistico, proprio della metafisica greca.    4.  Gli esseri e l’Essere. L’ Atto creatore.    La creaturalità  il sentirsi creature  è l’atto primordiale della coscienza: nel momento stesso che avverto anche confusamente di essere, avverto che non sono da me,  che sono esistente , cioè da altri; avverto, dunque, attraverso i limiti del mio essere, che un (/")  essere  non limitato, mi ha fatto esistere . La presenza di me a me stesso  importa la  presenza  mediata analogica in me dell’Essere, senza della quale non avvertirei il mio limite (e dunque l’Essere da cui sono) e nemmeno saprei di essere. Io-sodi-essere (cogito ergo sum) in quanto la presenza dell’essere  in me, l’idea dell’essere, rende possibile che lo sappia; cioè  fa che io sia un essere pensante. Penso perchè mi è data l’idea  dell’essere (non che il pensiero la ricavi per astrazione o per  altro, o la crei), per la quale esso è conoscenza e innanzi  tutto coscienza di sè: non il pensiero fonda l’essere, ma l’essere fonda me pensante, donandosi come idea o oggetto.  Io sono innato a me stesso nel senso che l’idea dell’essere  per cui il pensiero pensa e ad esso è data è quella per cui  acquisto coscienza del mio essere che è dall’Essere: penso  perchè  sono stato pensato ; e siccome non mi è dato  l’essere assoluto  se così fosse, me lo sarei dato io stesso  in quanto è dell’assoluto essere principio di se stesso  con  quella del mio essere, ho coscienza del limite e perciò dell’Essere da cui sono io, essenza spirituale incarnata in un corpo, esistente concretamente, questa essenza qui. Il pensiero  che è  tale per la presenza della verità  avverte una duplice presenza di essere: dell’essere (il mio) contingente, che, come tale, è  dall’Essere necessario che trascende il mio essere come l’assoluto il relativo, e il pensiero come il reale il possibile. L'atto  del pensare importa una duplice ontologia: realtà degli esseri e realtà dell'Essere, come importa l’intuito fondamentale della verità, fondante il pensare. Vi è dunque l’essere  come idea, gli esseri come esistenti, finiti e relativi, l’Essere  come esistente infinito e assoluto: il principio primo del  sapere; gli oggetti reali conoscibili tramite l’esperienza  sensibile, il Soggetto realissimo, fine di ogni conoscenza,  ma, come tale, aspirazione infinita mai appagata nell’ordine  umano e naturale. Ma aspirazione ben fondata, in quanto  l’Essere realissimo non è una possibilità, una pura Idea della  ragione o un dover essere, ma è, esiste, come attestano il  mio esistere e il mio pensare. Infatti, il mio esistere da   la mia creaturalità  importa l’esistenza del 44 cui io sono,  cioè dell'Essere realissimo assoluto; come il mio pensare, che  è tale per la presenza della verità che non è la Verità in sè,  importa l’esistenza dell’Essere-Verità, che la mia mente 207  costruisce; da Lui anzi è stata fatta lume di intelligenza  per mezzo dell’ astrazione originaria  coincidente con l’atto  creativo. D'altra parte, l’essere io come gli altri esseri, una  essenza esistenziata  questa qui  importa che sono un  essere singolo, persona; dunque l’Essere che mi ha creato   mi ha fatto e mi fa esistere  non può essere un gd, un  essere impersonale, ma è anch’Egli Ego, Persona, l’Altro  assoluto, la Persona assoluta da cui sono. Nel momento stesso  che mi so come singolarità, avverto in me la presenza della  Singolarità assoluta da cui sono: sapermi è riconoscere che  Dio è; sapermi è, dunque, cogliere la mia realtà ontologica e con essa la sua radice; è ancora, come atto di  riconoscimento , un sapere che è supremo atto morale. Sapermi  da è volermi per: conosco che esisto da Dio e voglio esistere per Lui: essere da e per l’Essere. Perciò l'oggetto del  mio pensare è infinito come infinita è la presenza della verità in me, che nessun essere creato adegua; del pari infinito  è l’oggetto del mio volere (amare) come infinita è la sua  forma, che nessun essere voluto compie e appaga. Se in ogni  mio atto di pensiero e in ogni volizione io non so che Dio    122 Filosofia e Metafisica       esiste come Esistente supremo e assoluto, creatore di ogni  esistenza, e non lo riconosco o lo amo nè desidero conoscerlo anche quando conosco e desidero altro, non so,  disconosco e dunque igroro. Perduto il senso creaturale, ho  perduto il senso di me stesso e di ogni realtà: è la caduta  del mio essere nel nulla; è l’essermi fatto estrinseco a me stesso e perciò al mio pensiero, per cui la presenza di Dio resta  muta nell’assenza di me a me stesso.   In questa metafisica  di necessità appena accennata   il concetto fondamentale è quello di creazione, non presupposto ma razionalmente dimostrato: ogni cosa che esiste  e non ha in se stessa il principio del suo esistere, rimanda  al principio che l’ha prodotta; siccome le cose create sono  esseri viventi e pensanti secondo un ordine loro intrinseco,  il Principio primo non può che essere l’Intelligenza suprema, la quale  siccome ha voluto creare  è anche  suprema Volontà; dunque, Intelligenza che è Persona. Il  concetto di Ens realissimum non basta per una metafisica  che vuol tener conto della teologia cristiana. La creazione  è dunque l’atto primo assoluto fondante la esistenza degli  esseri, l’atto supremo dell’esistere degli esistenti.   Aristotele ha definito la metafisica ocopia zowtn, la  scienza dell’év n 6v, dell’ente in quanto ente, cioè la scienza  degli elementi e delle condizioni dell’esistenza in generale  (ogni essere è potenza ed atto; è determinato ad esistere dalla  causa efficiente e dalla causa finale), ma l’Essere o Dio è la  condizione suprema dell’esistenza di tutti gli altri (*). Per  Aristotele ancora reali sono gli individui, cioè le essenze Anzi, per Aristotele, l'oggetto della metafisica è soltanto l’ente divino  e perciò la praocopia rpéòrn s’identifica con la puiocopla deodoyix. Ma si  tratta  come ha dimostrato lo Jaeger  di due fasi del suo pensiero. S. Tommaso intende la metafisica (transpàysica) in senso cristiano (Dio primo motore,  fine ultimo, principio e giudice della morale; immortalità dell’anima individuale, ecc.) per cui l'oggetto di essa è identico a quello della teologia (differiscono nel modo di conoscere). Di qui la definizione di S. Tommaso: aliqua  scientia adquisita est circa res divinas scilicet scientia metaphysica (S. T., II,  2, IX, 2 ob. 2). concretamente esistenzi: una data cosa è ( 7: È) ed è  questo ( Tè dì ), quale, quanto ecc. L'essere è ogni cosa,  ma appunto è qualche cosa avente una certa natura, qualità, quantità, ecc. Accettiamo la definizione che il reale individuo è una essenza esistente, cioè avente certi caratteri; ma, come sappiamo, per Aristotele, non vi è scienza  del reale individuale, in quanto la scienza è dell’universale.  La razionalità è dell’essenza desistenzializzata e non dell'essenza esistenziata, per cui alla scienza o conoscenza di  tipo aristotelico l’esistente è indifferente: suo oggetto sono  le pure forme intelligibili. La scienza non può dirmi chi  sono; mi dice qual’è la mia essenza, che è mia e di  altri, ma io non sono pura essenza, bensì essenza mia,  singola, concretamente esistente. La scienza aristotelica trova  nel singolo il suo limite esistenziale, lascia aperto il problema dell’intelligibilità del reale individuale. In fondo, la  metafisica di Aristotele, dei due principi del reale  forma  e materia  guarda più alla prima che alla seconda, all’essenza pura anzichè all’essenza che esiste, meglio, alle singole essenze che esistono; ma a me, essere esistente, importa la mia essenza esistente. Pertanto, il problema della  metafisica come scienza degli esseri, cioè di chi e che cosa è  l’esistente in quanto tale, ci sembra quello del supremo atto di  esistere, del principio primo dell’esistenza individuale, cioè  l’atto di creazione.   Io sono un’essenza-esistente: lio sozo  il fatto che esisto  pone il problema del mio esistere, pone me stesso  come problema. Se sono da Qualcuno, Egli mi 44 pensato;  se mi ha pensato, sono da una sua idea; dunque il Qualcuno  è Intelligenza; se mi ha fatto esistere, mi ha voluto, dunque è Volontà che ha voluto che io esistessi e mi vuole  e mi ama ancora per il fatto che continuo ad esistere. Jo  sono un'idea di Dio, voluta da Dio; tutti gli esseri sono  idee di Dio, volute da Dio: pensate e volute una per  una, singolarmente. Il mondo è un’Idea pensata e voluta da Dio. Il reale in quanto reale è verità (ens e: verum  convertuntur, in un senso qui differentissimo da quello dello  Hegel), secondo l’immortale scoperta di Platone, che abbiamo fatto nostra attraverso la trasposizione di Agostino  e il ripensamento del Rosmini. Idea (verità) qui significa  singolarità: Dio crea i singoli come singoli e ciascuno di essi  conosce e vuole come singolo. Le idee divine non sono i nostri concetti astratti, ma atti creatori, viventi; feconde, factivae rerum. La conoscenza discorsiva 0 per concetti non  esprime questa singolarità, ma solo un elemento dell’esistenza  concreta, la quale è espressa da quelle forme superiori di  conoscenza, che pur la includono, come per esempio l’atto morale, in cui la relazione è da persona a persona, da  esistente ad esistente; che è tale solo per la presenza del  supremo atto di esistere, per cui il singolo è singolo e riconosce l’altro come altro.   Questa consapevolezza non dà però il possesso dell’atto  supremo dell’esistente, trascendente ogni esistere; ne attesta  solo l’esistenza e accende nella creatura il desiderio del possesso: la conoscenza dell’atto supremo di ogni esistente è il  limite assoluto della metafisica. Qui la filosofia si ferma e si  apre alla religione, come quella che ha scoperto l’uomo  all'uomo, gli ha rivelato la radice del suo essere, il  significato del suo vivere, la finalità del suo pensare e  del suo volere. Questa filosofia è metafisica sic et simpliciter, che non contrasta, come crede lo Scheler, con la  religione, ma ne è la preparazione razionale. È vero, come  dice Heidegger, che il limite del mio esistere, dato dal fatto  che l’esistente non trova in sè ma sopra di sè l’atto del suo  esistere, scopre le mie possibilità, il mio destino, ma non  nel senso della finitezza  inesorabile  e della  nullità   (Nichtheit), in cui tutto il mondo resta sprofondato  (herabgesunken), bensì nell’altro della. mia possibilità suprema di poter essere tutto il mio essere nella suprema apertura all’Essere. L’In-der-Welt-scin è essere-nel-mondo, ma per essere-per-Dio. Proprio la finitezza implica il riferimento  all'infinito: non  chiude  ma apre  l’orizzonte. Non dal  nulla nasce l’essere, ma dall’Essere nasce il mio essere, per  cui il problema dell’essere concreto  gettato nel mondo , non pone quello del nulla, ma l’altro dell’Essere assoluto. Freiheit zum Tode: Sein zum Tode, certamente; ma  in quanto la morte, direbbe Platone, è passaggio all’evidenza di quell’ordine (il vero) ontologico, che, qui, l’uomo  non può mai cogliere con le sue sole forze.   Realtà è verità: io sono una verità di Dio e perciò sono qualcuno che è e non nulla. Dio è l’Essere Verità  creante, Logos, e ha fatto che io fossi, pensandomi e  volendomi; Verità illuminante e perciò ha voluto darmi il  lume della intelligenza e della ragione, affinchè di Lui leggessi l’orma in tutte le cose e soprattutto ne ascoltassi la  presenza in me, Lo volessi sempre senza mai interamente possederLo. Non posso strappare il mio essere dalla sua radice,  staccarlo dalla sorgente; dunque sono attratto irresistibilmente 4/ di lè: ogni uomo è per natura metafisico. La verità, dice Agostino (De vera relig., XXX I, n. 66), è quella  quae ostendit quod est: per quel che io sono, sono vero.  La verità assoluta è l’Assoluto Essere, verità creatrice a cui  le cose sono simili: in quantum similia... in tantum sunt (tvî).  Io ho dell’essere o del vero, non sozo l’essere o il vero, ma  appunto perchè ho e non sono, sono per l’Essere o il Vero.  Il possesso della verità non è il mio stato attuale, ma la mia  finalità ultima, che l’intelligenza e la ragione mi indicano,  ma che non bastano per farmela conseguire. Nello stato  attuale debbo cercare o amare  perfecte quaerere  ciò a  cui tendo, ed oltrepassarmi. In un lunghissimo articolo di più che 60 pagine, I! concetto di Metafisica e lo Spiritualismo cristiano, pubblicato  nella  Rivista di filosofia nescolastica  (1, 1949), il Rev.mo  Mons. F. Olgiati, traendo lo spunto dal fascicolo (IV-V,  1947), che questa Rivista ha dedicato alla metafisica, oltre  che da altre pubblicazioni sullo stesso argomento, prende in  esame quell’indirizzo di pensiero ormai noto in Italia e all’Estero sotto il nome, del quale sono responsabile, di  Spiritualismo cristiano .   Naturalmente terrò presenti in questa risposta solo le  obiezioni che mi riguardano direttamente e di esse in special modo quelle che toccano l’essenziale. Debbo ancora  dire che, alcune di esse hanno già avuto risposta, spero  chiaritiva, in molte pagine raccolte in questo volume.  Ciò mi obbliga a non dilungarmi oltre il necessario, sia perchè i punti della discussione si possono precisare e chiarire  brevemente, sia per non ripetermi. Premesso qualche rilievo,  accennerò ad alcune questioni marginali; m’intratterrò da  ultimo su quattro punti essenziali.   Monsignor Olgiati riconosce onestamente che la posizione metafisica che io difendo e sostengo rappresenta  un  così largo e diffuso indirizzo di idee  che, se dovesse valere    Concetto di Metafisica 127  il criterio della maggioranza, Aristotele e S. Tommaso  non  raccoglierebbero oggi se non pochi voti ; e aggiunge:  Fortunatamente nel campo nostro non contano le adesioni, ma  le ragioni  (18). Mi permetto domandare a Mons. Olgiati:  e che pensiamo delle ragioni senza adesioni? fino a che punto  valgono? la verità è sterile o è feconda? le adesioni, guantunque da sole non costituiscano la verità di un principio, non sono indicative della sua presa e della sua forza?  Si aggiunga che queste adesioni non mancano da oggi,  ma ormai da secoli. Quanto nel pensiero moderno, dall’Umanesimo in poi, ancora continua efficacemente il pensiero  tradizionale ed ha avuto influsso nel corso della civiltà, è  platonico-agostiniano: così Ficino ed il neoplatonismo fiorentino, Cusano e Campanella, Malebranche e Pascal, Vico  e Rosmini, Gratry e Blondel ecc. ecc. Si faccia eccezione di  Suarez e di Balmes ed oggi di qualche studioso di primo  piano e mi si dica quale è stata ed è l’influenza feconda  e fecondatrice del tomismo negli ultimi sette secoli del  pensiero occidentale. Ho detto del tomismo, non di S. Tommaso, che è operante anche nella tradizione, diciamo così, agostiniana, come Agostino è profondamente operante  nel pensiero del Santo di Aquino, secondo che hanno dimostrato gli spiritualisti cristiani e non pochi eminenti tomisti. Sarei quasi tentato di dire che il tomismo, almeno  storicamente, sia in buona parte responsabile della poca  efficacia di S. Tommaso. Ecco perchè io non metterei così  insieme, quasi due fratelli siamesi, Aristotele e l’Aquinate  se non altro per non compromettere quest’ultimo addossandogli indiscriminatamente alcune responsabilità non sue. Ed ora qualche accenno a questioni marginali.  a) Mons. Olgiati nel suo articolo ritiene indispensabile  innanzi tutto richiamare il concetto di metafisica  sia come è inteso da Zui secondo i principî della filosofia classica ,  sia come è inteso da me (4). E il mio, che si appoggia  a Platone ed Agostino senza affatto trascurare Aristotele  e S. Tommaso, non è inteso secondo i principî della filosofia classica? o i principî della filosofia classica sono quelli  di Aristotele, soli soli, senza che si possa mutare una virgola, monopolio della Neoscolastica di Milano? Secondo Olgiati, io (e il Blondel) non ho il  concetto del concetto ; ma come avrei potuto formulare  lo stesso tema:  Che cosa è metafisica  (cioè qual'è il concetto della metafisica), se questo ben dell’intelletto mi fosse  mancato? Il concetto del concetto non è mai mancato a  nessun uomo al mondo, anche prima che Socrate scoprisse  il concetto: si tratta solo di intenderlo in maniera astratta  o concreta. Nè io nè Blondel neghiamo il valore della ragione  o dell’intelletto, senza di cui l’uomo cesserebbe di essere  uomo, la filosofia filosofia e il pensiero pensiero. E ciò ho  detto e ridetto in ogni circostanza, perchè questo ritornello  mi è stato cantato altre volte; altrettante è stato da me detto  e ripetuto che dalla ragione non si può prescindere e che  il problema primo è quello della verità senza di cui non  c’è neppure carità. Credo superfluo insistere su questo punto,  non senza però cogliere l’occasione di dire che è mio desiderio che venga tenuta distinta la mia posizione, quale che  sia, da quella del Blondel. Che io abbia simpatia per il pensatore francese è vero; che il Blondel abbia contribuito a  formarmi intellettualmente e da me sia stato difeso a viso aperto da fraintendimenti ed accuse infondate, è anche  vero; ma che io l’accetti in pieno e sia blondeliano è assolutamente gratuito. Perciò non comprendo come l’Olgiati  possa scrivere che rispetto al Blondel io sia ancora nel  periodo del primo entusiasmo  (61). Niente affatto: non   primo  perchè l’influenza diretta ed evidente del Blondel  c'è già nelle Linee di uno spiritualismo critico di tredici  anni or sono (1936); nè  entusiasmo  (ma che Mons. Olgiati pensasse al suo per Aristotele?) perchè non ho entusiasmo per nessuno, ma solo per la Verità e dunque per  ogni pensatore, quale che sia, per quel tanto di verità che  contiene. Ed è per quel tanto di verità in essa contenuta  che ho difeso la filosofia blondeliana in più di una circostanza ed ho polemizzato contro quanti Blondel hanno  spesso criticato senza neppure leggerlo. La verità va rispet  tata dovunque s’incontri per il fatto che è verità. E credo che  Mons. Olgiati avrebbe fatto meglio a mettere in vista quel  poco di verità che contiene lo Spiritualismo cristiano degli  altri e mio, quel minimum comune, fondamento per intenderci anche attraverso la discussione e i dissensi. I casi sono  due: o lo Spiritualismo cristiano ha una sua verità ed è bene  partire da questo consenso fondamentale; o non ne ha alcuna  ed allora è inutile discuterlo.    c) In un punto del suo articolo (38) l’Olgiati scrive che  io posso replicargli che  non afferra  la mia idea precisa  colui che mi muove simili critiche . Sono costretto a dirgli,  dopo aver letto attentamente il suo articolo, che egli ha proprio ragione: le sue critiche mi sembrano provare che non  abbia afferrato la mia idea precisa. E lo dimostrerò replicando sui punti essenziali, oggetto di questo nostro dibattito. Il primo punto di dissenso, pur non così radicale come  crede l’Olgiati, concerne i concetti di filosofia e metafisica.  Per Mons. Olgiati, vi è una metafisica iniziale presente in  ogni filosofia, quale che sia: non c’è filosofo che possa  filosofare senza avere, sia pure implicitamente, una sua concezione del reale, cioè senza avere risposto alla domanda  metafisica di che cosa è la realtà in quanto realtà; ma chi  ha una concezione del reale quale che sia, ha una sua metafisica; dunque non c’è filosofo o filosofia  anche quei filosofi e quelle filosofie che si dicono antimetafisiche  che non nutra nel suo seno una metafisica, altrimenti  non potrebbe  mai aspirare ad una spiegazione filosofica della realtà. Questo il punto di vista di Mons. Olgiati, il quale certamente si meraviglierà che io dica di essere d’accordo con  lui, cioè: è vero, non c'è filosofia che sia tale, la quale  non sia metafisica, come vado ripetendo da anni, dal Programma metafisico, redatto assieme all’Aliotta, della Rivista  Logos del 1937, alla Necessità di una coscienza metafisica, articolo pubblicato nello stesso  Logos (1939) e riprodotto e discusso in quell'epoca da una decina di riviste.  E allora, dov'è il dissenso? Ecco: per me oggi è diffusa,  e purtroppo anche accreditata, la pretesa che si possa fare  filosofia abolendo la metafisica, cioè esimendosi dal rispondere alla domanda considerata inutile o inesistente, di che  cosa è la realtà in quanto realtà. L’Olgiati è pronto a ribattere: ma questa non è filosofia . Appunto: è proprio  quello che ho detto anch'io nell’articolo che si discute come  altrove, e qui ripeto. È proprio qui la crisi della metafisica  o della filosofia: non nell’avere anche inconsapevolmente  una quale che sia concezione della realtà in quanto realtà,  ma nel rinunziare consapevolmente a questo problema e  pretendere di fare ugualmente filosofia e di spacciare per  vera quella che abolisce o ignora il problema metafisico. La  crisi di una disciplina è manifesta quando si nega il suo  oggetto proprio e ad essa essenziale perchè di essa costitutivo e si continua a dire che, anche così negata nella sua essenza, è ancora viva come quella disciplina. Nel caso nostro  si dice che è filosofia  la non filosofia , cioè il suo contrario;  è come dire che è falso il vero ed è vero il falso. Quando  nego che queste  filosofie  hanno una metafisica, contro  l’Olgiati che dal suo punto di vista sostiene il contrario, e  con ciò che siano filosofie, voglio chiarire un equivoco dannosissimo e richiamare l’attenzione di questi cosiddetti filosofi sul punto che sta a cuore all’Olgiati e a me:  prescindete pure dalla metafisica ma non parlate più di filosofia in quanto questa cumincia con la domanda metafisica; voi dovete ancora incominciare a filosofare, anche se vi chiamate  filosofi o anche se la gente ignara e volgare vi considera  tali . Vorrei che Mons. Olgiati fosse d’accordo su questi  punti  e non può non esserlo perchè l’accordo c’è: una pura  descrizione fenomenologica o empiricamente psicologista è  metafisica o filosofia? No di certo, perchè non pone nè  sottintende il problema metafisico; eppure quante di queste  descrizioni oggi si dicono filosofie e passano per tali? Una  pura ricerca metodologica, scientifica o storicista, è metafisica? I metodologi non dicono che il reale, in quanto reale,  è il fatto storico o altro, ma in altro modo e cioè:  noi ci  interessiamo solo del fatto, del fenomeno, dell’evento senza  preoccuparci cosa sia il reale, o se vi sia un reale o no;  ed aggiungono che questa è filosofia. Io dico di no, che non lo  è, appunto perchè manca di una metafisica e non si pone il  problema metafisico. Evidentemente la filosofia incomincia  (e perciò non è scienza, nè storia, nè economia, nè altro,  quantunque questi problemi possano  debbano  essere  posti filosoficamente come problemi del valore e del senso  ultimo  metafisico  della scienza, della storia ecc.), quando  non ci si ferma al fatto e alla descrizione di esso, ma si va  al di là, se ne cerca metafisicamente la intelligibilità profonda, la sua verità nella verità.   Riassumendo: Mons. Olgiati vuole mettere i cosiddetti  anti o ametafisici con le spalle al muro, così: se fate della  filosofia, non potete sfuggire alla domanda metafisica di che  cosa è il reale in quanto reale, perchè tale domanda è essenziale ad ogni filosofare; pertanto, quando negate la metafisica, siete in contraddizione con voi stessi, perchè la filosofia, ogni filosofia, ne contiene una ineliminabile; io invece  voglio dimostrare loro che chiamano filosofia quella che non  è tale. E su questo punto mi pare di aver ragione: a chi  abolisce il problema metafisico e la domanda di che cosa è  la realtà in quanto realtà, non si può dire che sia in con traddizione, ma gli si deve dire: quella che voi chiamate  filosofia non è filosofia, perchè chi fa a meno della metafisica fa a meno della filosofia; voi spacciate per genuina  una merce falsa. Che siano in contraddizione glielo concedono subito all’Olgiati, soddisfattissimi di esserlo. Crede  infatti l’Olgiati che i filosofi  dell’assurdo e del nulla  temano di essere in contraddizione, loro che ormai hanno  paura dell’essere e della verità? Gli dicono che appunto la  loro è una metafisica della contraddizione e del nulla e 1’Olgiati dovrà acconsentire che anche questa è una metafisica,  cioè che è metafisica la negazione dei due elementi essenziali di ogni metafisica: l’essere e la razionalità. L’Olgiati  si meraviglia come non riesca a capacitarmi che  filosofia  senza metafisica è un assurdo  (6); mi consenta che io  mi meravigli come egli non si accorga che sono perfettamente d’accordo con lui. Ma io aggiungo che oggi si pretende di fare filosofia senza metafisica ed ho voluto dimostrare che tante cosiddette  filosofie  odierne, più che contradditorie ed assurde perchè si dicono antimetafisiche mentre una metafisica ce l’hanno, non sono filosofie affatto  perchè di fatto rinunziano ad averne una. Aggiungevo però:  pur privi di una metafisica, come posizioni di un pensiero  quale che sia, portano in loro  immanente, intrinsecamente,  l'esigenza indistruttibile ed ineliminabile della metafisica .  E questo perchè si può sospendere la risposta alla domanda  metafisica, ma, ovunque vi sia un pensiero e un uomo che  pensi, non si può sopprimere la sua esigenza. Mi pare che  la mia critica sia più efficace: negare ad ogni filosofia che  rinunzia al problema metafisico l’usurpato diritto di considerarsi tale e d’altra parte costringerla a riconoscere nello  stesso tempo che pure ad essa, come ad ogni posizione di  pensiero, è intrinseca l’esigenza metafisica, che si può misconoscere solo per difetto di approfondimento critico. Ma  si è che Mons. Olgiati non vuol sentir parlare di  esigenza ,  quasi questa parola sia una sgrammaticatura insopportabile  dalla correttezza dei linguaggio filosofico. Olgiati è rimasto quasi scandalizzato  qualche tomista, com’egli informa, di occhi evidentemente molto delicati,  si è meravigliato come io abbia potuto prendere simili abbagli  della mia affermazione che  metafisica è uguale trascendenza ; d’altra parte, io accetto la definizione aristotelica della metafisica come  scienza di che cosa è la realtà  in quanto realtà . Il mio critico obietta: tra le due tesi  c'è contraddizione (30); poi si avvede che, almeno per  me, contraddizione così grossolana non c’è e si sforza di  intendere meglio il mio punto di vista. Io non vedo, se  mi si fa dire quello che dico, dove sia mai la contraddizione. L'equazione da me affermata e chiarita di metafisica  e trascendenza non può essere intesa alla maniera dell’Olgiati  e cioè: bisognerebbe concludere che la metafisica non è  la scienza dell’ente in quanto ente, perchè non ogni ente è  il Trascendente  (30). E’ evidente; ma con simili interpretazioni la discussione non farà mai un passo apprezzabile. La mia affermazione significa solo questo: se metafisica è scienza di che cosa è la realtà in quanto realtà essa  porta implicito il problema del fondamento primo incondizionato del reale, e dunque è implicitamente trascendenza, in quanto il fondamento del reale non può essere  immanente al reale stesso e della sua stessa natura perchè,  in tal caso, sarebbe ancora un elemento del reale e non il  fondamento primo di esso. Le soluzioni immanentistiche  pertanto sono apparentemente metafisiche, in questo senso:  se il fondamento primo del reale, che è anche la sua finalità  ultima, è immanente e della sua stessa natura, noi ancora ci  poniamo il problema della  fisica  e non quello della  metafisica , che significa transphysica, cioè scienza dell’al di là  della fisica e dunque trascendente il reale dell’ordine naturale. Con ciò volevo dimostrare che le filosofie immanentistiche, appunto perchè tali, quando si pongono il problema  metafisico, in realtà non pongono questo problema, ma, essendo immanentistiche, ripongono come problema metafisico ancora quello  fisico , risolvendo così (cioè dissolvendo, negando) la metafisica nella gnoseologia, nella scienza. Detto ciò, è chiaro che non bisogna ridurre tutta  la metafisica alla trascendenza, nè confondere il concetto  di  filosofia  con quello di  metafisica , ma è anche evidente che non c’è metafisica vera che non concluda razionalmente alla trascendenza del Principio primo della realtà,  nè c’è filosofia ove manchi metafisica, che è la sua essenzialità, in quanto condiziona ogni altro problema filosofico.   Che poi la mia  trascendenza  (32) me la concedono  tutti (da Spinoza a Hegel, ad altri), non ci credo affatto, o  meglio me la concederebbero se essa fosse come la intende  il mio critico, con un fraintendimento che mi ha sorpreso.  Mons. Olgiati mi ammonisce che  per avere una trascendenza compatibile con uno spiritualismo cristiano... occorre  che tale principio assoluto sia essenzialmente diverso dal  dato e dalla totalità del dato stesso  (32). E chi ha mai  detto diversamente? Nel passo che egli cita, infatti, parlo  di oggetto della ricerca che trascende la ricerca stessa e se  la trascende non dipende da essa ed è di altra natura; di  un principio assoluto che fonda e condiziona il mio ed ogni  filosofare e perciò trascende il pensiero e se lo trascende è  di natura diversa dal pensiero e dalla totalità di tutto l’ordine naturale ed umano. Ed è questa la trascendenza  che mi concederebbero Spinoza, Hegel e chi so io? Si è che  l’Olgiati interpreta tutto il mio passo immanentisticamente.  Un momento: non mi ha poco prima, se non ricordo male,  rimproverato che metafisica per me è uguale a trascendenza?  Dunque, secondo il mio illustre contradditore, io dico che  metafisica è trascendenza e poi riduco la trascendenza alla  immanenza. Prego Mons. Olgiati di non muovermi obiezioni tra loro contraddittorie. Chiariti questi punti essenziali, posso risparmiarmi di rispondere alle altre intorno allo stesso  argomento, che ne sono la conseguenza.   A conclusione di questa parte del suo articolo l’Olgiati  mi fa due domande perentorie: 1)  E’ vero o non è vero  che ogni pensatore ha di fatto e non può non avere un  concetto di realtà, il quale influenza ogni concetto del sistema?  (35). Mi pare di aver risposto sopra abbastanza  chiaramente e di aver dimostrato come vi siano delle cosiddette filosofie che di fatto aboliscono il problema della metafisica. 2) E’ vero o non è vero che il problema della  trascendenza non è il prius, ma si collega al problema del  concetto di realtà in quanto realtà?  (36). Ho risposto  già anche a questa domanda, chiarendo in che senso per me  metafisica sia uguale a trascendenza. Non è questione  di prius nè di posterius, ma di insidenza del concetto di  trascendenza nella stessa domanda metafisica. Se metafisica  è, in fin dei conti, ricerca del principio primo del reale,  cioè del suo fondamento primo ed ultimo, in questo senso  la metafisica è implicitamente ricerca del principio trascendente del reale stesso, in quanto l’immanenza del principio  fa di questo un elemento o la totalità degli elementi del reale  naturale e come tale non più transfisico. In questo senso, le  soluzioni immanentistiche del problema essenziale della metafisica, cioè del principio primo, sono metafisiche solo apparentemente, in quanto, se il principio non è transfisico, se  non trascende, non è ancora il cercato principio primo del  reale, ma il reale stesso posto come principio di sè a se  stesso. Soluzione erronea e dunque apparente, perchè l’errore non è reale ed è reale solo la verità. E la verità  della metafisica è la trascendenza, senza che ciò significhi che tutti i problemi della metafisica stessa si riducano a quello della trascendenza, quantunque resti vero e  dimostrato che il problema del principio primo li subordini  tutti.   Quanto all’altro avvertimento di Mons. Olgiati che l’esigenza non basta perchè non è dimostrativa (evidentemente)  ed è necessaria la dimostrazione razionale dell’esistenza di  Dio, mi dispenso dal rispondere: proprio quando egli scriveva queste sue critiche, avevo già redatto il mio studio  sull’Esistenza di Dio, pubblicato poi nel  Giornale di metafisica . Se l’Olgiati avesse tenuto presente, oltre all’articolo sulla metafisica, altri miei lavori, credo che le sue  obiezioni avrebbero avuto un’altra impostazione e parecchie  di esse le avrebbe risparmiate a lui e a me. Più gravi fraintendimenti son costretto a lamentare a  proposito delle obiezioni che Mons. Olgiati muove al concetto di interiorità, considerato in rapporto alla metafisica.  Egli parla di  esigenza  dell’interiorità (p4, 36 e passim);  dell’interiorità come  aspirazione ,  anelito  ecc. (34);  ma l’interiorità è molto di più e di diverso: è presenza e  vita della verità in me.   Evidentemente io parlo di  metafisica dell’esperienza  interiore  nel senso agostiniano dei termini; e dunque qui  non si tratta di origine psicologica della ricerca filosofica  nè di cose simili, bensì di una metafisica che muove dal dato  reale più ricco ed eminente nell’ordine della natura, che è  la vita spirituale; ed è proprio dall’analisi del dato reale-uomo  (o dati reali sono solo le cose? forse l’esperienza interiore  non è altrettanto esperienza e più valida di quella esteriore ?)  che scaturiscono la trascendenza e la dimostrazione dell’esistenza di Dio in termini di assoluto rigore razionale. La metafisica è scienza della realtà in quanto realtà; tra gli enti reali  c'è l’uomo che è spirito e lo spirito è realtà; dunque perchè  non posso prendere le mosse dall’uomo inteso come realtà  spirituale e dallo spirito come interiorità nel senso agostiniano? L’Olgiati non vede come possa conciliare la tesi  metafisica uguale trascendenza con l’altra di una metafisica interiore (ossia di una metafisica uguale immanenza).  Sfido che non lo vede se mi scrive che interiorità è uguale  ad immanenza; ma che colpa ho io se lui non vede? Proprio  l’opposto, infatti: l’immanenza è la negazione dell’interiorità,  la quale, intesa correttamente, importa la trascendenza non  fondata su dati puramente psicologici, ma sul dato reale che  è lo spirito; non sui sassi e le zucche, per usare i termini  adoperati da Mons. Olgiati. Al quale pongo una domanda  precisa: l’interiorità di Agostino è trascendenza o è immanenza? Se è trascendenza, la mia è trascendenza e la sua  obiezione non riguarda il mio modo di concepire l’interiorità; se invece per lui è immanenza, ebbene, con tutto il  rispetto che ho per la sua autorità, resto con Agostino, sicuro di non rischiare l’immanenza e lascio a Mons. Olgiati  la responsabilità delle sue gravi affermazioni. La verità è  che l’Olgiati tiene presente l’interiorità così come è intesa  dal pensiero moderno e contemporaneo. Infatti, a pag. 43  egli scrive:  la metafisica classica, ben lungi dallo svalorizzare l’interiorità o dal trascurarne le esigenze, è la sola che  salva l’una e può appagare le altre mentre, sotto le apparenze mendaci dell’interiorità, la filosofia moderna e contemporanea è orientata verso l’esteriorizzazione . D'accordo:  la filosofia moderna, che ha creduto di approfondire l’interiorità riducendola all’immanenza, ha negato l’interiorità  autentica, la ha esteriorizzata. E non è stato e non è ancora  oggi proprio questo il mio sforzo, quello di recuperare, contro la mendace interiorità del pensiero moderno, la verace  interiorità agostiniana? Proprio su questo punto ho manifestato il mio aperto dissenso con l'illustre amico Carlini, a  proposito di una discussione intorno al Vico tra lui e il professor F. Amerio ( Giornale di metafisica  nn. 5-6, 1948).  Sono costretto a riportare alcuni passi che mi sembrano la  più soddisfacente risposta a quanto mi obietta Mons. Olgiati:  Vi è qui un problema storico e uno teoretico, distinti  evidentemente, ma non separati e separabili: 1) tutto il pen  138 Filosofia e Metafisica       siero medioevale-scolastico è irretito nella metafisica greca  (aristotelica) e nel carattere cosmologico di quest’ultima? Evidentemente no, e il Carlini, maestro di storia della filosofia,  lo sa meglio di noi; nello stesso S. Tommaso vi è più di  Agostino che di Aristotele, più di metafisica cristiana che  greca, più senso d’interiorità di quanto non sembri a prima  vista... 2) Aggiungo ancora  ed il Carlini si scandalizzerà   che il pensiero moderno, pur combattendo la Scolastica, ha  ereditato dalla Scolastica proprio l’aspetto di essa più lontano da quell’interiorità che tanto sta a cuore al Carlini e a  me, cioè il suo cosmologismo... 3) Non abbiamo osservato  tante volte il Carlini ed io (egli prima di me) anche al Gentile che la trascendentalità idealistica è condannata all’esteriorità, a disperdersi nel mondo, a negarsi come interiorità? che lo storicismo idealista è, in ultima analisi, positivismo ed anche empirismo, dove quel che non si salva è  proprio l’interiorità dello spirito ?... È qui il punto della questione: l’idealismo immanentista ha decapitato l’interiorità  cristiana; ne ha accettato il lato, diciamo così, immanentistico, ma l’ha privata della trascendenza che le è essenziale,  del trascende et te ipsum, che è il suo principio e il suo fine  e senza di cui cessa di essere interiorità autentica e si perde  nella scientificità, nella storicità, cioè nell’empiria. Su questo punto noi non possiamo non essere che critici intransigenti del pensiero moderno proprio per recuperare quell’interiorità che esso ha finito per perdere  (S., Il pensiero moderno, Brescia, La Scuola, 1949, pag. 108). Mi permetta ancora l’Olgiati di rimandarlo anche al vol. I del mio  S. Agostino (Brescia, Morcelliana) per risparmiargli la fatica di continuare a portare vasi a Samo.   E giacchè siamo su questo tema, desidero pregarlo di non  rimproverare più, almeno chi scrive, che lo Spiritualismo cristiano si ferma alla pura esigenza. Gli concedo subito che  questa obiezione (parlo sempre soltanto di me), fino a qualche anno fa, mi poteva essere mossa; oggi non più. Se la mia personale posizione, quale che sia la sua minima importanza,  ha un significato nella filosofia contemporanea e soprattutto  dentro lo Spiritualismo cristiano e le correnti ad esso affini,  è precisamente quella di aver tentato di oltrepassare la posizione esigenziale: i miei ultimi scritti credo che non lascino  più dubbi a questo proposito. Desidererei che Mons. Olgiati  o altri ne tenessero conto.   L'ultimo argomento dall’Olgiati discusso riguarda il  progresso a proposito del concetto stesso di metafisica.  A questo proposito possiamo essere brevi. In tutto il mio  studio, come ha rilevato lo stesso Olgiati, ho tenuto fermo  il concetto aristotelico, che è anche platonico, della metafisica  come scienza della realtà in quanto realtà: questo il concetto  di metafisica e non c’è progresso. Aristotele risponde: la realtà  in quanto realtà è l’ente; ma resta da precisare che è l’ente.  Su questo punto l’Olgiati concede (58) che è certo che  nella storia della metafisica classica S. Agostino e S. Tommaso non sono puramente e semplicemente ripetitori di Aristotele, ma lo hanno fatto progredire, ed in qual modo! Chi  non sa che è tollerabile parlare di S. Agostino, come del Platone cristiano, e di S. Tommaso, come dell’Aristotele cristiano, solo a patto di riconoscere nei due nostri pensatori  uno spirito essenzialmente diverso e non paragonabile a  quello dei due pensatori greci? Potrebbe quindi sembrare  che la storia deponga a gran voce contro di me. Anche perchè, prescindendo da ciò che io penso a proposito della interiorità cristiana in metafisica e delle tesi di Armando Carlini, è indubitato che dai principî della metafisica greca i  grandi filosofi cristiani hanno saputo far sgorgare conseguenze, che erano implicite in quei principî, ma che Atene  non vi aveva intuito. Il problema del male e il concetto filosofico di creazione, nel Santo d’Ippona e nell’Aquinate, segnano sviluppi e progressi d’indole metafisica... . Dunque  per la riduzione del concetto di realtà al concetto di ente  progresso c’è stato e ci potrà essere ancora, senza che ciò faccia che non sia verità quello che di verità si è scoperto.  È evidente che questo non significa progresso del concetto  di metafisica, di cui non c’è progresso, come non ce n'è,  per esempio, del principio di contraddizione. Mi pare però  che subito dopo l’Olgiati confonda i due problemi del concetto di metafisica  senza progresso, una volta scoperto  e  della metafisica aristotelica, quando scrive: come non progredisce la definizione di triangolo o di circolo, quando  un matematico scopre un nuovo teorema a proposito dell’uno  o dell’altro, pur essendo tale teorema contenuto nel concetto di quelle due figure geometriche, così non si può parlare di progresso nel concetto di metafisica, quando, ad esempio, si vede che il concetto di ente in quanto ente, nel caso  di un rapporto di non identità tra essenza ed essere, conduce  mediante un ragionamento ad ammettere la creazione...   (58). Che il concetto di creazione non importi progresso.  nel puro concetto della metafisica è vero; ma qui si tratta di  sapere se non ne ha importato nella concezione metafisica  aristotelica. È stata tale rivoluzione il concetto di creazione,  che non si vede affatto come possa reggere l’esempio del  triangolo o del circolo. Teniamo distinti i due problemi ed  il progresso della metafisica da Aristotele a quella di Agostino e Tommaso è innegabile ed immenso. Olgiati a pag. 43 scrive: lo S.... ha raccomandato di non compromettere la realtà spirituale per  amore di una sopravvivenza pagana, per esempio aristotelica, della filosofia come cosmologia, ossia per amore di una  metafisica pagana ed il Carlini aderisce toto corde a tale  preoccupazione. Ma che importa se la scienza dell’ente in  quanto ente è dovuta ad un pagano? Essa nonè nè pagana  nè cristiana; è umana. Che la sua scoperta sia dovuta ad  un pagano nulla toglie al suo valore, il quale non ha nessun rapporto col paganesimo. A noi sembra che non è lecito  qualificare come naturalistica la metafisica aristotelica. Non  ci interessa l’4rimus di Aristotele che certamente non era  quello di un santo medievale come lo era quello di S. Tommaso . Tutto quello che non sembra preoccupare ed interessare Mons. Olgiati a noi preoccupa ed interessa moltissimo. Precisiamo il nostro punto di vista: quando il Carlini ed io parliamo di  metafisica pagana  e qualifichiamo  come  naturalistica  quella di Aristotele, intendiamo dire  che, dopo il Cristianesimo, quella concezione metafisica   non diciamo il concetto di metafisica  va integrata: si tratta  non di abbandonarla, ma di completarla, come ha fatto S.  Tommaso. Evidentemente in questo completamento i termini  assumono un significato che, senza tradire quello che dà ad  essi Aristotele, lo oltrepassano. (Anche il Gilson è di questa  opinione). Per esempio: di fronte al concetto di creazione, che  è il problema esistenziale per eccellenza, l’aristotelismo può  restare aristotelismo nella lettera e nello spirito? Altro esempio: il Dio di Aristotele è fine totale come lo è il Dio creatore del Cristianesimo? Non mi obietti Mons. Olgiati che  qui entriamo nelle verità rivelate e usciamo dal campo  strettamente filosofico; gli rispondo subito (e credo di essere  tomista) che fede e filosofia, senza confondersi, non possono  restare estranee l’una all’altra, almeno per uno spiritualismo  che ci tiene a qualificarsi cristiano.   Il Dio creatore per amore, insegnato dalla fede, è una  verità recuperabile dalla ragione; ed una volta recuperata  porta una rivoluzione metafisica, che è appunto quella apportata prima da Agostino nella metafisica dei cosidetti  Platonici  e poi da S. Tommaso in quella di Aristotele. Ecco perchè il Carlini ed io chiamiamo cosmologica e naturalistica  la metafisica greca di Aristotele come di Platone, e teologica e spiritualistica quella di Agostino e Tommaso (quali  che siano poi le differenze tra i due pensatori) ed ogni altra  che voglia essere metafisica sì, ma anche cristiana. Aggiungo e certamente Mons. Olgiati lo sa meglio di me  che molti  tomisti oggi sono orientati a mettere in luce l’originalità di  S. Tommaso rispetto ad Aristotele, a rilevare più gli approfondimenti e gli avanzamenti anzichè le identità. La Neoscolastica italiana ci tiene proprio tanto a restare ferma ad  un S. Tommaso abbarbicato tutto allo Stagirita e ad addossare al gran Santo le responsabilità della filosofia aristotelica;  a restare in un isolamento  anche rispetto a tutte le altre  correnti di pensiero cristiano-cattolico, tomista o no  che  comincia a diventare molto (troppo) significativo ? Parrebbe  di sì, se Mons. Olgiati, con una espressione che mi ha turbato, arriva a dire che  neppure gli stessi nobilissimi compiti dell’apostolato  (63) smuoveranno la Neoscolastica  che egli rappresenta. E a che cosa la Neoscolastica non vuole  rinunziare? Ecco: al  primato della Luce che è Vita, ma  che è Vita appunto perchè è Verità e Luce. Certo; ma  questa Luce, che è Vita perchè la Vita è Verità e Luce non  è più Aristotele; e se Aristotele leggesse queste parole o le  intenderebbe a modo suo, paganamente e naturalisticamente,  o vi capirebbe poco o nulla. Il pagano cerca Dio solo nella  natura (naturalismo); il cristiano lo cerca e lo trova nella  intimità dell'anima (spiritualismo cristiano), nell’interiorità  dello spirito, senza che ciò significhi abolire la natura,  il concetto, la ragione. Nello spirito la cerca anche S. Tommaso, che è cristiano prima di essere aristotelico.  Concludo con il Gilson: S. Tommaso on l’a beaucoup  commenté, mais fort peu suivi. La seule manière de le suivre  vraiment serait de refaire son oeuvre telle que lui-mème la  ferait aujourd’hui à partir de mémes principes et d’aller plus  loin que lui dans le méme sens et sur la voie mème qu'il a  Jadis ouverte  (Essence et existence, Paris, Vrin, 1948, pagine 321-322). Non è questo un compito molto più proficuo  che ripetere S. Tommaso invece di farlo avanzare e difendere lo spirito cosmologistico e naturalistico della metafisica e del Dio aristotelico? O mandiamo tutti a scuola, Gilson e il Blondel, tomisti come De Finance e tanti altri,  la Neoscolastica di Lovanio e gli spiritualisti cristiani italiani,  tutti a scuola: da chi? Evidentemente alla scuola dei grandi  pensatori classici e cristiani, di Platone e Aristotele, di Agostino e Tommaso ecc., cioè li consigliamo a restare nella  scuola dove già sono stati e nella quale desiderano rimanere. Nel fasc. IV, 1949, della  Rivista di filosofia neoscolastica  (p401-443), Mons. Olgiati replica alle risposte del  Carlini e mia. Lo ringrazio della considerazione in cui ha  voluto tenere le mie pagine e di quanto scrive in questa  sua replica, alla quale rispondo brevemente, evitando ogni  accento polemico e limitandomi ad alcuni chiarimenti e precisazioni.   Riconosco subito, che Mons. Olgiati fa delle concessioni:   E quanto, dal punto di vista storico, si dice che l’amimus  di Aristotele era volto al mondo, all’empiria, alla realtà sperimentale, dalla quale assurgeva, come a spiegazione finalistica, all’Atto puro, da lui riguardato in rapporto col mondo, non c'è se non da sottoscrivere. In questo, sia Carlini,  come lo S., hanno perfettamente ragione.  E aggiunge che questo, più che Aristotele filosofo, è lo  scienziato, quello che  anche quando... parla del mondo  intelligibile, lo fa, volto sempre al mondo sensibile, all’esperienza, ossia, come io direi, con preoccupazioni empiriche   (iv:). Resta da vedere fino a che punto l’Aristotele  scienziato  influenzi Aristotele  filosofo  e lo condizioni; se  il filosofo, almeno un filosofo che oggi si dice  cristiano ,  non debba proprio fare all’inverso, cioè: anche quando parla  del sensibile farlo con l’occhio volto sempre all’intelligibile  e cioè, direi io, con preoccupazioni non empiriche ; così  come fa Platone, che pure non è cristiano, anche se l’Acri  ha voluto farne il pagano profeta di Cristo. Olgiati pensa che Aristotele, partendo dal sensibile,  ci ha invitato a riguardar quella realtà sensibile o sperimentata, ma solo in quanto realtà. Ossia contro tutti coloro  Hume e Kant compresi  che avrebbero dichiarato  l'impossibilità di superare con i nostri concetti l’esperienza,  Aristotele ci ha insegnato  mediante la sua metafisica   concetti e leggi, che, quanto alla loro origine, hanno le radici  nell'esperienza, ma quanto al loro valore si verificano, e  non possono non verificarsi in ogni realtà ed in ogni momento di qualsiasi realtà, anche non sperimentata, nè da  noi sperimentabile  (407). Dubito che, se tutti i concetti  e le leggi hanno, quanto alla loro origine, le radici nella  esperienza, possano poi verificarsi, quanto al valore, in ogni  realtà anche non sperimentata, nè da noi sperimentabile;  credo che Hume e Kant, se tutzi i concetti e le leggi hanno  aristotelicamente le radici nell’esperienza, avrebbero qualcosa da dire proprio intorno alla possibilità di oltrepassare  coi nostri concetti l’esperienza stessa; tranne che non si dimostri che tutta la critica della conoscenza e il concetto  critico di esperienza da Cartesio e Locke ai nostri giorni  stiano a provare soltanto che il pensiero moderno di quella  metafisica ha capito niente o pochissimo; che è come dire  che quattro-cinque secoli di filosofia, su un problema fondamentalissimo, non contano affatto. Credo, invece, che, a  questo proposito, vadano poste due precise domande: 1)  quell’ origine  (l’esperienza sensibile) rende davvero possibile che, in quanto al  valore , concetti e leggi si verifichino universalmente, anche in una realtà insperimentata  ed insperimentabile, oppure proprio qualche principio, che  non ha radice nell’esperienza sensibile, rende proprio esso possibile la formulazione dei concetti e ne garantisce  il valore? 2) La posizione aristotelica, al cui insegnamento Mons. Olgiati ci incita, non è forse almeno in parte  responsabile di quella critica della metafisica, a cui il pensiero moderno è stato gradualmente portato? In altri termini, è da chiedersi se il pensiero moderno non sia un aristotelismo critico, cioè un giudizio su Aristotele o un approfondimento spinto fino alla negazione della possibilità di  una metafisica come scienza, se aristotelicamente impostata.  Oppure ancora così: il razionalismo e l’empirismo moderni come il criticismo kantiano concludono col  sospendere   la metafisica, in quanto si allontanano da Aristotele e l’intendono male o non l’intendono affatto, oppure in quanto  ereditano proprio la mentalità scientifica  del  filosofo Aristotele e sue preoccupazioni empiristiche che,  quanto sembra, non lo abbandonano mai, anche quando  costr uisce la sua metafisica come scienza dei principi primi del mondo fisico, che si continua in quello celeste e culmina nel Motore Immobile?   L’Olgiati riconosce ancora che il Carlini ed io abbiamo  ragione (è verissimo ) di sostenere che S. Tommaso non  è Aristotele, perchè c'è di mezzo il Cristianesimo e  l’utilizzazione di S. Agostino. Son lieto di rilevare quest'altro punto di accordo con il mio illustre contraddittore (stiamo infatti discutendo da circa un anno), il quale così continua:  La creazione implicava per lui [S. Tommaso] l’impossibilità di ripetere a riguardo delle forme la parola citata  dagli  Analitici  res ita est et non potest aliter se habere:  no, avrebbero potuto essere diverse, se Dio, Libertà assoluta,  le avesse create diverse  (407). Mi domando se il concetto di creazione implichi soltanto questo o una vera e  propria rivoluzione metafisica; ma basta solo quel  Dio  Libertà assoluta . Ora, se le cose stanno come anche l’O.  riconosce, che resta della costruzione  metafisica aristotelica? Il concetto di metafisica, scienza della realtà in quanto  realtà? Ma concesso che Aristotele ha detto cos'è metafisica,  resta da vedere se quella che egli costruisce sia vera e fino  a che punto, se identica a quella di S. Tommaso e definitiva. Non mi pare che l’O. stesso sostenga questa tesi, in  quanto ammette tra la metafisica aristotelica e quella tomista differenze profonde. E questo non è progresso?  Perchè allora mi ribatte quando parlo, e non in senso storicistico, di progresso in metafisica? L’O. precisa ancora:   L’animus di S. Tommaso non è più indirizzato verso l’empiria; meglio, studia anche la realtà fisica, ma con ben altra  preoccupazione che non Aristotele, e cioè con un orientamento metafisico. Se l’animus di S. Tommaso non  è più indirizzato verso l’empiria, si ammette che lo sia  quello di Aristotele; se studia la realtà fisica con ben altra  preoccupazione di quella dello Stagirita  e cioè con un orientamento metafisico , significa ancora, proprio secondo l’O.,  che Aristotele la studia con un orientamento che n0n è metafisico, ma, come sosteniamo il Carlini ed io, cosmologico e  naturalistico, cioè scientifico. Dunque, siamo d’accordo, e son  grato a Mons. Olgiati delle differenze che egli segna tra Aristotele e S. Tommaso, le quali confermano autorevolmente il  mio punto di vista. Ma tre righe più sotto si legge:  Fedele ad Aristotele, egli [S. Tommaso] non perde mai il contatto con la realtà: nella realtà sta il suo punto di partenza,  la via da lui percorsa e il punto d’arrivo . Quale realtà?  quella empirica? ed è essa punto di partenza e punto di  arrivo anche per S. Tommaso? Ma allora che vuol dire che  l’animus del grande Dottore non è più indirizzato verso  l’empirico e che egli studia la realtà fisica con orientamento  metafisico? Francamente su questo punto vorrei vederci  chiaro e perciò semplifico la questione: i concetti di  creazione , della realtà come verità, di  spirito , di  libertà ,  ecc. così come sono intesi dal Cristianesimo e utilizzati da  Sant'Agostino, una volta introdotti da S. Tommaso nella  costruzione metafisica di Aristotele, la lasciano sostanzialmente intatta sì o no? Se tali concetti sono operanti nella  metafisica tomista, come in quella di ogni pensatore cristiano, non v'è dubbio che essa non è quella aristotelica  e non lo è sostanzialmente; altrimenti bisogna ammettere  l’O. sembra contrario  che il Cristianesimo e l'utilizzazione di Agostino siano puramente accidentali e  la metafisica di S .Tommaso sostanzialmente identica a quella  di Aristotele. Qui non si fa questione del  concetto  o della  definizione aristotelica della metafisica, ma della metafisica  di Aristotele; infatti, non basta dire che il concetto di metafisica è identico nei due pensatori, nè che vi è accordo  circa il concetto della realtà in quanto ente. È da questo  punto che comincia la questione: che è realtà? che è ente?  Ora i concetti di realtà e di ente che elabora Aristotele sono  quelli di S. Tommaso, cioè, la costruzione metafisica dei due  pensatori è identica o no? i concetti di analogia, potenza,  atto, Motore immobile o Dio sono identici nelle due metafisiche o no? Se l’O. risponde di sì mi permetta di domandargli dove e in che modo S. Tommaso utilizza S. Agostino e il Cristianesimo e quale il gran passo che ha fatto  rispetto allo Stagirita. Se risponde di no deve concedermi  che, pur sulla base del concetto aristotelico di metafisica, la  metafisica cristiana di Agostino e Tommaso è ben altra e  diversissima cosa da quella aristotelica, e che, come sostengo,  è naturalistico-cosmologica e come tale (non se ne scandalizzi) panteistica. Pertanto, potenza ed atto, Motore immobile ecc. in S. Tommaso hanno ben altro senso, sono pregnanti di un arimus che non ha niente a che vedere con  quello della metafisica dello scienziato  Aristotele.   Ma pare che l’O. voglia limitarsi al puro concetto di  metafisica. In tal caso, però, si ferma alla definizione generale senza entrare a considerare una costruzione metafisica  concreta, cioè una concezione del reale e dell’ente ed è  costretto a limitarsi a ripetere (all'infinito?) che il concetto  aristotelico-tomista è della metafisica come scienza della  realtà in quanto realtà. E poi? L’O. mi obietta:  Il Prof.  Carlini è logico perchè mi respinge tale concezione del  reale. Invece il Prof. S. dice di ammetterla e poi mi  ostracizza come naturalistica la metafisica costruita su quelle  fondamenta  (423). Credo di essere  logico  anch'io  non come il diavolo dantesco, spero : accettata quella definizione della realtà in quanto ente, resta da costruire la metafisica  ed io ostracizzo come naturalistica quella aristotelica; altro  è accettare la definizione della metafisica, altro, mi pare, è  (o sbaglio?) accettare una determinata costruzione metafisica.  Non accetto quella aristotelica  e desidererei sapere se S.  Tommaso l’accetta così com'è  appunto perchè naturalistica  e perciò lontana da una metafisica che tenga conto del Cristianesimo ed utilizzi Agostino. Alle domande da me poste  non trovo una sola risposta precisa in tutto l’articolo di  Mons. Olgiati. Infatti, rispondendo al Carlini, egli dice  che S. Tommaso,  qualsiasi questione affrontasse... la prospettava metafisicamente ; e così esemplifica:  discusse  il problema della libertà umana, ma non fu ad un argomento psicologico (l’attestazione della coscienza), nè all’argomento morale (l'impossibilità di un'attività etica qualora  non fossimo autodeterminatori) che egli si rivolge, quanto  alla prova metafisica, sviluppata unicamente in funzione del  concetto di ente. Discusse il problema di Dio: m a non fu  al consenso dei popoli e della storia, non alle aspirazioni dell’animo nostro, alle esigenze proclamate dalla morale od  alla vita che egli si indirizzò per le sue vie, bensì ad un  ente constatato ed alle leggi dell’ente. Persino la teologia di  S. Tommaso da che mai è caratterizzata, se non dall’elaborazione del dato dogmatico in funzione della metafisica  dell’ente?  (409). Mi permetto osservare: ha ragione S.  Tommaso di rivolgersi a prove metafisiche, ma, se mette  da parte l’argomento psicologico, quello morale, le esigenze  della vita ecc. ha torto, perchè anche questi sono argomenti  che hanno il loro peso, e la convergenza degli argomenti è  un argomento probativo; ha ancora torto perchè questi argomenti, se approfonditi, hanno anch'essi una portata metafisica; anche la vita psicologica e morale sono esperienza  (lo è la spiritualità nella sua totalità ed integralità) e vi è metafisica dell’esperienza interiore, dalla quale, a mio avviso, devono passare quelle  vie  che dimostrano l’esistenza di Dio.  Inoltre, concesso che S. Tommaso abbia elaborato tutti i problemi in funzione del concetto di ente e della metafisica dell'ente, resta da precisare se la sua concezione metafisica sia  quella di Aristotele; ammesso che lo sia, da spiegare come  egli abbia fatto a trarre fuori da essa un concetto di libertà , delle prove dell’  esistenza di Dio  e persino una   teologia  che traducono tutta la profondità e l'originalità  di significato che questi termini hanno nel Cristianesimo.  Questo punto non lo vedo chiaro e desidererei precisazioni  ben fondate.   Ancora una domanda: Mons. Olgiati a più riprese, nell’articolo che discutiamo e in quello precedente, dice che  S. Tommaso non rinnega ma completa Agostino (419);  che non si può comprendere il significato della parola essenza, che pure è indispensabile per dichiarare cos'è l’ente,  se non si  esulta  prima dinanzi alla  bellezza fulgente   del concetto agostiniano della realtà come verttas; aggiunge  che S. Tommaso non ripete Aristotele; che utilizza il Cristianesimo (per es. il concetto di creazione ecc.) ed Agostino.  Desidererei che egli mi dicesse non così, in generale, ma concretamente come S. Tommaso completa, senza rinnegarlo,  S. Agostino nelle tesi fondamentali della sua metafisica; se  accetta il concetto agostiniano della realtà come veritas  interiore j che cosa accetta della metafisica di Aristotele e dove la modifica profondamente, cioè in quali tesi non è aristotelico; se la sua metafisica, con la introduzione di concetti  cristiani ed agostiniani, mancanti in Aristotele, si possa  chiamare ancora aristotelica non nell’esteriore ma nel suo  spirito profondo. Credo che un chiarimento preciso su questi punti sarebbe molto utile, soprattutto a me; e lo dico  sinceramente.   Il lettore forse non si sarà ancora accorto che fino ad  ora non ho risposto, tranne che in un punto, alla parte dell’articolo dell'O. che mi riguarda direttamente, bensì all’altra diretta al Carlini; ma i punti toccati interessano anche  me e perciò ho creduto opportuno occuparmene.   D'altra parte, il modo d’intendere e di valutare la metafisica di Aristotele come la questione dei suoi rapporti  con quella di S. Tommaso sono i punti in cui il Carlini ed  io concordiamo quasi del tutto, se si eccettua qualche giudizio carliniano sull’Aquinate; per il resto, Carlini ed io,  in alcuni punti fondamentali, dissentiamo profondamente,  come lo stesso Olgiati ha qua e là rilevato e come si può  vedere dalla stessa risposta del Carlini all’Olgiati, dove il  mio illustre amico ne ha anche per me. Ma è bene che io  qui mi limiti a rispondere solo a Mons. Olgiati, altrimenti  si finisce davvero per confondere le lingue; e poi, contro  due non ce l’ha fatta nemmeno Ercole! All’amico Carlini risponderò a parte nel fascicolo successivo di questa Rivista (‘):  i dissensi in famiglia  e credo che siano forti  è bene che  ce li discutiamo tra noi con il garbo e la serenità che si conviene tra amici e che del resto, malgrado qualche espressione  vivace da ambo le parti, sono stati conservati anche nel dibattito con Mons. Olgiati.   Che il dissenso con il Carlini sia rilevante appare subito  da queste mie affermazioni categoriche: ritengo, anche dopo  la critica del pensiero moderno e anzi proprio spingendo  la critica al massimo delle sue possibilità, 1) che si possa  fondare una metafisica, con cui identifico la filosofia nel  senso più comprensivo e preciso del termine; 2) che questa  metafisica sia quella della verità (dunque punto di partenza  è l’uomo nella sua integralità), di cui Agostino è il maestro,  ma non il solo nè tanto meno il definitivo; 3) che sono nella  linea della metafisica classica. Non esssermi stato riconosciuto  ciò dall’Olgiati è la cosa  lo dico con tutta sincerità  che  più di ogni altra mi è dispiaciuta e mi ha fatto protestare  {non  gridare , come dice l’O.) di essere stato frainteso;  ma torniamo alla discussione vera e propria.     La risposta è stata data indirettamente in altra occasione. Olgiati dubita che io abbia avuto tra mano ( se  il prof. S. prenderà tra le mani 421) il volume  che l’Università Cattolica pubblicò nel ’31 in occasione del  centenario agostiniano. Lo rassicuro subito: nel mio S. Agostino (volume I), da poco pubblicato, lo cito una ventina di  volte; cito anche, quasi sempre concordando, i pregevoli scritti  agostiniani del Masnovo. Dunque, a mia volta, prego io l’Olgiati di  prendere tra le mani  questo mio volume e di leggerlo con un po’ di attenzione. Mi piace aggiungere che nel  Convegno di Gallarate del ’46, come presentatore del tema   Agostinismo e tomismo  sostenni, tenendo presente il Masnovo, la tesi della concordanza o almeno della non antiteticità  dei due grandi pensatori ( Atti del II Convegno dei filosofi  cristiani di Gallarate , Milano, 1947). Ma lasciamo questo  punto secondario anche per evitare di continuare a consigliarci, l’O. a me ed io a lui, la lettura di libri che conosciamo benissimo. Olgiati si mostra ancora preoccupato della mia affermazione: l’ontologia è vincolata all’antropologia , in  quanto crede che essa apra le porte al relativismo; e aggiunge: È il valore di assolutezza della verità  tesi primale  di S. Tommaso, di S. Agostino  che ci sta a cuore  (pag. 423). A me invece, secondo l’O., starebbe a cuore il  soggettivismo e il relativismo della verità; a me che da quasi  quindici anni combatto l’uno e l’altro; distinguo  e ciò  fa arrabbiare persino il mio amico Carlini  tra  idealismo  spurio  (soggettivo) ed idealismo autentico  (oggettivo)  e contrappongo energicamente alla tesi della  verità come  sviluppo  l’altra della verità come scoperta , ecc. Ma  tant'è, a me starebbe a cuore non il valore oggettivo della  verità, ma un assurdo Cristianesimo colorito di relativismo. Se così fosse non avrei capito niente di  Platone, Agostino, Pascal, Rosmini e sarei ancor testa e  piedi nel soggettivismo idealista. Evidentemente le parole  l’ontologia è vincolata all’antropologia  vanno intese diversamente da come le intende l’O. che, chissà perchè, quando  mi fa l’onore di discutermi, interpreta le mie espressioni in  senso idealistico e mi fa dire l’opposto di quello che dico. Ecco,  infatti, come intende quell’affermazione: Il nostro sapere  sarebbe fatalmente relazivo al soggetto; noi non potremmo  conoscere se non ciò che appare all'uomo in quanto uomo;  ossia il relativismo si imporrebbe e non vi sarebbe nessuna  verità di valore assoluto  (423). Questo è inventare e non  criticare, per il gusto di far passare tutti da  fenomenisti ,  tranne Mons. O., unico interprete di S. Tommaso aristotelico.  Io dico perfettamente l’opposto: il valore oggettivo della conoscenza umana non è dato dal soggetto ma dall’oggetto,  cioè dalla verità che è presente (inzeriore) alla mente e perciò è sempre verità di un soggetto pensante, senza che ciò  significhi che è ad esso relativa. Ma il soggetto pensante  è l’uomo; dunque egli è il soggetto del filosofare, avente come oggetto la verità per il cui lume oggettivo è pensante: non  è il pensiero che fa essere (pone) la verità, ma è la verità  che fa che il pensiero pensi. Ora, posto l’uomo come soggetto  della verità, che lo fonda come pensante, e lo oltrepassa,  1) non vedo dove stia il relativismo, in quanto 2) la mia  espressione  l’ontologia è vincolata all’antropologia  significa precisamente: l’ontologia è vincolata all'uomo in quanto soggetto di una verità oggettivamente valida, di cui ha  profonda interiore esperienza. Se noi siamo chiusi nell'antropologia, siamo e resteremo incatenati nella esperienza (425). Desidero (posso sperare di riescirvi?) tranquillizzare l’Olgiati che #07 restiamo chiusi nel carcere dell'antropologia perchè è presente alla mente dell’uomo la verità che lo spinge a trascendersi fino a quando non abbia  trovato pace nella Verità, che è Dio; che mon siamo e 207  resteremo incatenati nell’esperienza appunto perchè quella interiore è esperienza della verità oggettiva. Ho i miei dubbi che  questi pericoli li corra Aristotele con quelle sue preoccupazioni empiriche  e con quel suo star sempre volto al mondo sensibile, all’esperienza , dove concetti e leggi... hanno  le radici ; e con Aristotele Mons. Olgiati. Noi diciamo, invece, che il pensiero umano ha le sue radici  nella verità  che gli è interiore (esperienza, dunque, ma non la sensibile,  almeno in questo caso) e che tale verità ha il suo Principio ultimo, la Radice assoluta, in Dio. Perciò, non è vero,  come dice l’O., che io  protesti di essere nello spirito  dell’aristotelismo e del tomismo, se per tomismo s’intende l’aristoteliimo di Aristotele; al contrario, non vi tengo affatto  ad essere nello  spirito  dell’aristotelismo, e rifiuto il Motore immobile di Aristotele, se lo si vuol far passare per il  Dio creatore cristiano. Desidererei sapere se anche S. Tommaso, per l’O., sia proprio nello  spirito  dell’aristotelismo  e se il suo Dio sia il Motore immobile aristotelico.   Di passaggio rilevo un’altra espressione:  Tuttavia dire  spiritualità è dire, almeno almeno, potenzialità della concettualizzazione  (427); ma la spiritualità, nel senso pregnante e profondo, è una verità cristiana, ignota al pensiero greco. E l’attività dello spirito è solo potenzialità della  concettualizzazione? Per Aristotele sì, ma per la filosofia  cristiana? E poi l’O. si dispiace quando me la piglio con  una scienza puramente nozionale e di astratti ed esangui  rapporti o balletti logici. Se si identifica la spiritualità  con la concettualizzazione o con quella che Platone chiama la È:zvorx, sono costretto a mantenere il mio punto  di vista e a contrapporvi una spiritualità più ricca e concreta, la vénets, che del resto non nega affatto il valore  del concetto ed è sempre molto meno della spiritualità cristiana.   Non credo che sia necessario insistere nel chiarire l’altra  mia espressione  metafisica uguale trascendenza  dopo  quanto ho detto in proposito nelle pagine precedenti; nè mi  sembra che quanto ora aggiunge l’O. mi costringa a ritornare sull’argomento. È vero, egli mi osserva che la mia  posizione non è sufficiente per arrivare alla trascendenza,  come non lo è quella dello Hegel, che resta nell’immanentismo. Debbo anche questa volta ripetere che io sono  ben lontano dalla posizione idealistica, in cui l’O. mi vuol  cacciare a qualunque costo.   Passando ad altro argomento, non credo che io abbia  confuso  (addirittura!) immanenza  con immanentismo  (436), ma ho semplicemente usato il termine immanenza nel senso di immanentismo, come spesso fanno  anche gli immanentisti. Perciò escludo che interiorità sia  uguale ad immanenza e preferisco, appunto per evitare  confusione , parlare di  presenza  od interiorità  della verità, anzichè di immanenza, termine ormai compromesso.  Che sia così, lo dimostra proprio il fatto, ricordato dall’Olgiati, che per avere parlato di  méthode d’immanence  i  filosofi dell’azione, quelli non modernisti, si son visti accusare di immanentismo e si son tirate addosso una sequela di obiezioni e polemiche non di rado ingiuste e  infondate.   Mons. Olgiati osserva ancora: se metafisica significa  scienza della realtà in quanto realtà, la realtà interiore io  non la posso, in un primo momento, riguardare in quanto  interiore, ma solo in quanto realtà ed allora avrà i concetti  e le leggi valide per ogni qualsiasi realtà e non solo per la  realtà interiore. A questa difficoltà il prof. S. non ha  risposto  (437). La risposta, invece, è data da un buon  numero di miei scritti e la dà indirettamente lo stesso O. a  438: E quando il pensatore d’Ippona mi dice che la  realtà è veritas ontologica, è raggio che m’invita a conoscere  il Sole, mi dà un concetto che vale per ogni realtà, anche  per quella che Platone disprezzava come fenomenica, anche per la realtà della natura . Da ultimo l’O. torna ancora sulla questione del  progresso in metafisica ; e, in  fondo, nega che da S. Tommaso in poi ve ne sia stato.  Queste le sue parole: E questo atteggiamento doveroso  ci mostra, sì, in ogni sistema ed in ogni indirizzo una conquista nuova, la quale però mon segna necessariamente un  progresso in metafisica, ma può realizzare progressi in altri  campi, sia della filosofia come della scienza, come della  storia  (439). In tutti i campi, sì, si può parlare di progresso, tranne che in metafisica, la quale si è fermata là, a  san Tommaso, tutta compiuta. Non che la metafisica escluda  come tale il progresso, perchè l’O. lo ammette fino a san  Tommaso, il quale implica e supera le conquiste platoniche ed agostiniane  (424); dopo non più. E perchè?  Perchè mai, se delle conquiste, come quelle precedenti a  S. Tommaso, hanno potuto essere implicate e superate, a  detta dell’O., nella metafisica tomista, le conquiste di questa non possono poi essere ulteriormente implicate e superate? Così quella verità metafisica resta là senza progresso,  come 2+2=4. Philosophia perennis, appunto, come dicono i tomisti, mentre noi diciamo che di perenne vi è  solo il filosofare come progressiva e sempre perenne scoperta della verità inesauribile. Perciò noi ripetiamo all’O.  che non facciamo la glorificazione e l’esaltazione di nessuno,  nè di Platone, nè di Agostino, Pascal, Rosmini, Blondel,  ma solo li consideriamo, pur con le loro differenze (e chi  potrebbe negarle?) uniti in un animus di filosofare affine  al nostro e che non è l’arimus o lo spirito del filosofare  aristotelico per il motivo semplicissimo che è quello cristiano. Io mi sono occupato di questi pensatori e battuto  affinchè siano ben intesi e non fraintesi, senza omettere di  rilevare quelle che a me sono sembrate e sembrano le loro  manchevolezze e insufficienze o punti oscuri da chiarire.  Certo il concetto agostiniano di veritas non è quello blondeliano di vita, ma credo che i due concetti non si escludano: non v'è vita spirituale che non sia vita della e nella verità oggettiva e non si penetra la verità oggettiva, che  è fonte di vita spirituale, se non vivendola. E se l’O. dice  che non è così, mi scusi, ma mi vengono subito in  mente la scienza puramente nozionale  e i balletti logici , a costo di sentirmi ripetere che mi manca il concetto del concetto. Sotto il titolo  A conclusione d’una polemica  ( Riv.  di Filos. neosc. , IV, 1950, p356-364), Mons. Olgiati ha  risposto alla mia ultima nota, concludendo la discussione  (tale per me è stata e non una polemica) che s'è svolta tra  lui da una parte e Carlini e me dall’altra, pur essendo la  posizione carliniana molto distante dalla mia. Anche da me  con queste poche righe la discussione è considerata conclusa.   La risposta dell’Olgiati non risponde affatto alla mia  precedente, ma ripete cose che egli aveva già detto ed io  controbattuto. Gli avevo posto domande precise sui rapporti tra Aristotele e San Tommaso e le loro costruzioni  metafisiche, come su quelli tra Agostino e Tommaso. Mons.  Olgiati ripete ancora che la costruzione metafisica completa è certo diversa in Aristotele e in San Tommaso , ma  non mi dice se, poste queste diversità, per me profonde,  quella tomista si possa dire, e fino a che punto, aristotelica;  ripete che il tomismo completa la definizione platonico-agostiniana del reale, ma non mi dice se con questo completamento siano conservate le tesi essenzialissime per cui l’agostinismo è tale da S. Agostino a S. Bonaventura e a Rosmini; e potrei continuare.   In compenso, oltre a volermi insegnare alcune cose di  cui, per la verità, ho discusso in alcuni mici libri proprio  alla maniera dell’Olgiati anche, se non con la sua competenza  coincidenza di idee che l’O. non sembra gradire   dichiara di aver trovato nella mia risposta la chiave  per spiegare le difficoltà  che c’'impediscono d’intenderci sul  concetto di realtà. Ed eccola, questa chiave: io nasconderei  sotto il mio agostinismo  un concetto di realtà che non è nella  linea della metafisica classica, bensì in quella dell'innatismo razionalista  (361); e per due fittissime pagine continua  a svolgere questa sua interpretazione-chiave per concludere  opponendo la concezione della r'eritas agostiniana alla mia,  che riduce la realtà in quanto realtà al contenuto dell’idea  e va a finire difilato nel  fenomenismo razionalista  (363). Lo dicevo io che, volente o nolente, sarei  dovuto andare nel  fenomenismo , le  malebolge  a cui  l’O. condanna tutti quelli che non la pensano come lui.  In quali miei scritti di questi ultimi anni l’Olgiati abbia  letto queste cose, lo ignoro; il passo che riferisce dalla  mia precedente risposta va inteso all’opposto da come egli  lo intende. Non confuto la sorprendente interpretazione,  come non confuterei un critico che dicesse che io sono  spenceriano, marxista o che so io; d’altra parte, dovrei  riesporre quanto ho già scritto, tra l’altro, nel mio primo  volume su S. Agostino e in Filosofia e metafisica (*), cosa  superflua. Bisogna riconoscere che Mons. Olgiati presenta  la sua interpretazione in forma molto dubitativa:  posso  sbagliarmi... e sono pronto a riconoscere eventualmente, il  mio errore, del quale  4 priori  se fosse tale, chiedo  scusa all’egregio amico  (361). Mi permetto dirgli che si è  proprio sbagliato e sinceramente non riesco a comprendere  come abbia potuto interpretare il mio concetto di realtà, classicamente agostiniano, nella linea dell’innatismo razionalista, da me ripetutamente confutato, e credo in modo che  dovrebbe riscuotere anche l’approvazione dell’Olgiati.  Concludo questa discussione con una battuta scherzosa,  come si conviene tra amici, anche quando non s'intendono:  trà darsi che, come scrive l’Olgiati, vi sia qualcuno che  voglia fare delle nuove scoperte nella conoscenza dell’Africa  svolgendo indagini in America; temo però, da parte mia,  che egli legga alla rovescia quanto vado scrivendo, comin   Quest'opera era stata pubblicata nel lasso di tempo tra le due ultime  battute della discussione. ciando dall’ultima sillaba dell’ultima pagina, come raccontano facesse Pico della Mirandola nel ripetere un testo per  dar prova della sua memoria. Solo così egli può scoprire  in me non so quale innatismo  o  fenomenismo razionalista  e farmi esplorare l’Africa in America. Il problema della cultura e del rispetto delle culture, oggi,  si presenta piuttosto come problema della  crisi , profonda,  della prima e di quella, minacciosa, del rispetto delle culture. A nostro avviso, questa duplice crisi (le culture in crisi  sono sempre intolleranti ed intransigenti: la crisi è un po’  decadenza e il pericolo del crollo rende spesso dommatici),  è la conseguenza di un’altra ben più profonda, di portata  metafisica, della crisi della trascendenza. In altri termini,  la crisi di una cultura è l’aspetto appariscente  ed in questo  senso superficiale  di quella dei suoi radicali fondamenti  metafisici, che spesso si perdono di vista e non si considerano. Per esempio, quella della cultura greca espressa dalla   sofistica  fu indubbiamente la crisi della metafisica cosidetta presocratica e specialmente delle due sue più alte posizioni, di Parmenide ed Eraclito; l’altra, rappresentata dalle  filosofie dette postaristoteliche, fu crisi della metafisica platonica ed aristotelica. La crisi del pensiero moderno, nel  suo ormai secolare sviluppo attraverso molteplici crisi dentro  la crisi, lo è della metafisica cristiana patristico-scolastica.  Se ben si osserva, le tre forme di crisi che abbiamo addotto  ad esempio, pur nelle loro notevolissime differenze e diversità, hanno un carattere comune che sorprende. Infatti, sia  la sofistica come le filosofie postaristoteliche e quelle dal Rinascimento in poi  malgrado, com'è noto, non manchino metafisiche della trascendenza, in questo senso dette  antimoderne , reazionarie, conservatrici o tradizionali  sono  posizioni filosofiche d’immanenza, preoccupate di giustificare  la realtà fisica e quella umana, come anche il loro valore  e significato, immanentisticamente, cioè da e con se stesse,  senza ricorso ad una Realtà trascendente di ordine super fisico e super-umano. Trascendenza significa dualità, immanenza, monismo: la prima fonda questa realtà  gli  uomini e il mondo in cui vivono  su di un’  altra  che  trascende questo mondo; la seconda fonda  questo  nostro  mondo su se stesso, cioè afferma che la realtà umana e  naturale si origina, si regge secondo sue leggi immanenti,  e si giustifica da sè ed in se stessa. La posizione dell’immanenza, anche se si presenta come metafisica, a nostro avviso, è sempre una posizione antimetafisica, oppure, se lo si  preferisce, trova il suo sviluppo coerente ed ultimo nella negazione della metafisica, la quale, infatti, importa, affinchè  sia tale e non pseudo-metafisica, una concezione dualistica  della realtà: questa  (fisica) e un’ altra che la trascende e la fonda. Metafisica significa trans-physica, scienza  dell’2/ di là, che, come tale, trascende quel che è  di qua ;  di un lassù  44/ quale il  quaggiù  dipende e nel quale  ha il suo fondamento, il suo significato e il suo fine. Naturalmente noi, oggi (lo accenniamo di passaggio), dopo il Cristianesimo e lo stesso svolgimento del pensiero moderno,  non possiamo più concepire questo  al di là  in senso puramente o prevalentemente naturalistico o cosmologico, ma  lo pensiamo come l’assoluta Realtà spirituale, da cui la nostra dipende, come l’  Al di là  interiore e trascendente.  Al contrario, per le filosofie immanentistiche  e come tali  non-metafisiche perchè non-dualistiche  quella realtà che è  l’uomo si fonda su se stessa, è fine a se stessa: l’unica umana  è la realtà storica, la cui espressione più alta ed assoluta è  stata, a volta a volta, identificata con l’attività morale (moralismo) o l’artistica (estetismo), con la filosofia (panfilosofismo) o con l’attività politica (politicismo), con quella economica (materialismo storico), con la storia nel suo complesso (storicismo) o con le varie culture (culturalismo); in  qualunque caso con un valore puramente umano, mondano,  terrestre, laico, areligioso, finito e relativo, che in tal modo  è stato assolutizzato. Mondanismo e areligiosità sono appunto i caratteri della  cultura  moderna e contemporanea  in generale, che pertanto, per quel che sopra è stato detto,  si presenta come antimetafisica ed antidualista e perciò antitrascendentista. In questi caratteri va cercata, per noi, la  causa profonda della crisi della cultura del nostro come di  tutti i tempi, che perciò è crisi della metafisica e della trascendenza teologica; in una parola, crisi di fondamento,  di un fondamento assoluto del pensiero, in quanto il pensiero umano, limitato e relativo per sua natura anche se  assoluto nei suoi limiti, non può essere fondamento di se  stesso, non può autofondarsi, perchè non può autoautenticarsi: la sua autenticazione è nel pensiero, nella Verità  assoluta, che lo fonda, gli è interiore, ma, come fondante e  assoluta, lo trascende.   Una delle conseguenze più deprecabili, perchè dannosissima dell’immanentismo della filosofia e della cultura moderna è l’incomprensione e perciò la mancanza di rispetto  tra le varie culture. Negata la Verità assoluta e trascendente   dico una verità oggettiva che misuri il pensiero e non  ne è misurata, produca il pensiero e non ne è prodotta, indipendente ed anteriore e non da esso creata attraverso la ricerca   € fatta la verità di un prodotto e non una scoperta della ricerca stessa, un risultato storico e perciò contingente, non è più  possibile evitare il soggettivismo della verità. Inconsistente la  distinzione tra io empirico » ed  Io trascendentale » : l’Io  trascendentale è sempre il pensiero dell’ordine naturale ed  umano (storico) e perciò mutevole e finito e, come tale, insufficiente a fondare se stesso: considerarlo ingiustificatamente fondamento di se stesso, autosufficiente, è privarlo del suo fondamento assoluto: il soggettivismo e il relativismo risultano ugualmente inevitabili. L’aforisma protagoreo ( l’uomo è la misura di tutte le cose ») inteso, empiricamente, nel senso dell’uomo singolo e particolare, o  idealisticamente, nel senso dell’umanità in universale, non  perde il suo essenziale soggettivismo, perchè è sempre l’assolutizzazione fittizia ed arbitraria di un relativo. Di qui il  carattere prevalentemente soggettivo delle dottrine, la pretesa  di ciascuna d’identificarsi con la verità assoluta, il porsi di  ogni punto di vista, non come una prospettiva parziale, ma  come l’adeguazione della verità totale. Noi non diciamo  che i valori relativi e i punti di vista parziali non abbiano  alcun valore, ma diciamo che, solo arbitrariamente e per irrazionale estrapolazione, possono essere identificati ciascuno  con il valore o con la verità assoluta. In tal caso il rispetto  che si deve a ciascun valore si trasforma, una volta che lo  si assolutizza in fanatismo intollerante. Impossibili, per conseguenza, la cooperazione delle culture e il loro rispetto reciproco come l’avvicinamento, perchè manca il fondamento  comune di una verità oggettiva, la sola che possa rendere  possibile, pur nella diversità dei vari punti di vista, l’incontro  di esse, il loro interpretarsi e penetrarsi vicendevolmente, il  loro cooperare fruttuosamente in vista dell’unica verità. Si  è venuta a creare una miriade di culture, ciascuna  stato a  sè , sovrana, che perseguita l’altra, e la esclude. Ciascun pensatore identifica la verità con se stesso, si fa egli stesso la  verità e da questa condizione di  pontefice massimo  lancia scomuniche contro l’ eretico  che la pensa diversamente.  Così siamo diventati tutti pontefici e tutti eretici nello  stesso tempo: dommatismo assoluto e insieme assoluto  scetticismo. Quando si nega l’esistenza di una verità assoluta  e non è tale se non è trascendente il nostro pensiero   non c'è più possibilità d’intendersi perchè manca un  punto di riferimento assoluto da noi indipendente anche se  a noi interiore, e non vi è più rispetto e tolleranza. È una questione di umiltà: sentirci non i creatori della verità, ma  gli umili servitori di essa, legati dal comune amore per la  verità, fatto di rispetto e obbedienza. Solo in questo amore  comune, unico stimolante ed unico fine, le culture possono  trovare il loro punto d'incontro, la loro compenetrazione,  come tanti punti di vista sollecitati dalla stessa aspirazione,  tendente all’identico scopo. Vi è al fondo un atto di moralità radicale, metafisico anch’esso, ma non vi è moralità  autentica dell’uomo (e dunque anche della cultura che è  mondo umano) senza trascendenza teologica, senza metafisica nel senso di sopra precisato e chiarito. Oltre che di  umiltà, è anche questione di onestà, chiarezza filosofica:  riconoscere che i valori metafisici e la metafisica come tale  non possono essere frammenti di esperienza umana per se  stessi non assoluti, elevati al grado dell’assoluto e con esso  identificabili. In questo senso, pur conservando la profonda  umanità della filosofia e della verità, è necessario correggere  ogni forma di pseudo-metafisica antropomorfica e chiamare  le cose con il loro nome: relativo quel che è relativo, e asso  luto quel che è assoluto.   Non vi è dubbio che cultura è la capacità dell’uomo  alla libera attività: dove manca questa libertà non vi è cultura; decade o isterilisce. Essa è il frutto della libertà spirituale: la schiavitù, come negazione della libertà, trova la  sua condanna nella sua  incultura . Perciò, in questo senso,  è vero che il progresso della cultura è progresso morale, in  quanto la libertà spirituale sta a fondamento dell’uno e dell’altro; ma è anche vero che, sulla base dell’immanenza,  non vi è libertà  e dunque non più moralità e cultura  in  quanto si limita, usandogli violenza, il fine dell’uomo all’angusto spazio terreno e al breve tempo storico (tutto lo  spazio è sempre angusto e tutto il tempo è sempre breve),  snaturando le sue aspirazioni fondamentali, reali, naturali  e sempre attuali; e in quanto si viene a negare il fondamento  stesso della libertà, che è autentica nel riconoscimento dei suoi limiti (della trascendenza che la fonda e garantisce) e  non nell’illimitatezza indefinibile dell’arbitrio, in cui tutto  diventa lecito, perchè manca il limite della trascendenza,  come avviene in ogni filosofia immanentista.   Di qui possiamo trarre due ordini di considerazioni: Non vi è cultura (perchè decade in forme decadentistiche, bizantine ed infeconde) se tutto è limitato al tempo  e alla storia  immanentismo e umanesimo assoluti e come  tali astratti -; se un misticismo eccessivo e perciò nihilista  cancella il tempo e nega la storia (apocalitticismo). In altri  termini, non vi è cultura dove tutto è tempo (negazione dell'eterno o di Dio) o dove si nega il tempo  negazione della  storia e dei valori umani. Per conseguenza, la condizione  della cultura risulta essere ancora la concezione dualistica  di  questo  mondo e dell’ altro , del mondo dell’uomo  e del Regno di Dio. Dove e ogni qualvolta si rompe questo  equilibrio, vien meno la condizione che rende possibile la  cultura e le sue forme. La cultura moderna ha cercato di  abolire l’ultratemporale (il metastorico) ed ha segnato con ciò  la decadenza della cultura occidentale, diventata culturalismo soggettivo, caotico e ormai infecondo. Per un motivo  opposto non vi è stata e non vi è una cultura russa: non vi  è stata per la duplice tendenza apocalittica e nihilista (prima  prevalentemente religiosa ed oggi assolutamente atea), che  porta fatalmente a cancellare la storia e il tempo. Chi è  assorbito nel problema finale del mondo, storico o metastorico che sia, vede nella cultura un ostacolo e non una zia  attraverso cui si conquista il fine ultraterreno, si purifica  e si riscatta l’attività mondana dello spirito. La Russia, in  questo senso, quella religiosa di Dostoewskij o quella atea di  Stalin, è l’anti-Europa, l’anti-Occidente; nell’uno e nell’altro  caso un misticismo apocalittico, che nega il mondo umano.  L’Occidente moderno pecca dell’eccesso opposto: si dimostra  soddisfatto della sola cultura, risolve l’essenza della vita spirituale nella storia: la cultura è la salvezza. Oggi quest’appagamento mondano -immanentista è entrato in crisi e  perciò l'Occidente è malcontento, isterico, decadente, sofistico. Gli è rimasto un simbolismo della cultura, senza una  vera cultura reale, ontologica, metafisica. Ciò è in certo senso  l’autocondanna dell’immanentismo, anima del mondo moderno, e l’indizio dell’ansia di escire dalla zona  mediocre   di una cultura che si è sganciata dall’eterno (da Dio) per  tuffarsi tutta nella storia, cioè per ricadere pesantemente su  se stessa, afflosciandosi e dissolvendosi, senza possibilità di  slanci metafisici. L’Occidente moderno ha voluto risolvere  l’eterno nel tempo, l’essere nel divenire, la trascendenza  nell’immanenza, il metastorico nella storicità; J’Oriente russo,  anticulturalistico, ha preteso negare il tempo, la storia,  l’uomo in una eternità astratta, in un misticismo religioso  antiumano, sia esso di una religiosità teologica o atea. Il  dualismo ontologico è distrutto: assoluto umanesimo è negazione di Dio e perciò anche dell’uomo; assoluto teologismo  è negazione dell’uomo e perciò anche di Dio: due forme  di monismo opposte ma approdanti allo stesso risultato.  Entrambe sono atee e inumane.  L'altra considerazione, non meno rilevante della  prima, riguarda la struttura radicale di quella che comunemente si chiama civiltà occidentale ; radicale   perchè sta proprio alla radice, alle sue origini greco-cristiane.  La concezione greca della vita, quella della migliore ed autentica grecità, è dualistica: vi è una realtà fisica ed una  realtà metafisica che trascende la prima,  questo  mondo e  l’ altro. Platone e il platonismo sono l’espressione più  alta e significativa del mondo classico. Dualistica è anche la  concezione giuridica di Roma antica: il cittadino e lo Stato,  senza che l’uno neghi l’altro ed entrambi reali nel loro intrinseco rapporto. Dualistica è ancora la concezione cristiana: il creato e il Creatore, il mondo e Dio, il mondo dell’uomo e il Regno di Dio,  questa  vita e l’ altra , anzi  questa vita per l’altra, l’uomo per Dio. Concezione dualistica, non solo, ma anche gerarchica: il quaggiù guidato,  orientato, subordinato al lassù : due realtà, l'una dipendente dall’altra. Ciò spiega perchè la Rivelazione cristiana,  pur nella sua assoluta originalità rispetto alla concezione  greca e romana della vita, abbia visto, in un primo tempo,  nel pensiero greco il suo precedente e la sua base naturale  e, in un secondo tempo, abbia potuto realizzare la grandiosa trasposizione in termini di filosofia cristiana prima del  platonismo (Agostino) e poi dell’aristotelismo (S. Tommaso);  così pure ha potuto accogliere nel suo seno il meglio della  concezione giuridica di Roma. Il fondamento dualistico, comune alla verità razionale e alla Verità rivelata, rese  possibile l’incontro e la loro continuità. Grecità, Romanità e  Cristianesimo sono i tre elementi costitutivi della civiltà  occidentale (europea); dunque la struttura autentica, la fisionomia essenziale di essa è dualistica. L'esigenza immanentistica non le è propria, anche se non completamente estranea.   Essa è tipica della civiltà germanica, che non è propriamente una forma di civiltà occidentale: la Germania non  è mai stata profondamente penetrata, fino a farsene la struttura della sua civiltà, dallo spirito della grecità, nè da quello  della romanità e del Cristianesimo; infatti, è la terra del  monismo e del panteismo: monistiche e panteistiche la sua  filosofia, la sua mistica, la sua letteratura. L’immanentismo,  caratteristico del pensiero moderno e contemporaneo, è penetrato anche nella civiltà occidentale, fortemente influenzata dalla cultura tedesca, ne ha alterato la struttura, l’ha  corrotta e messa in crisi; ha sostituito alla trascendenza l’immanenza, al dualismo il monismo, ha gradualmente abolito  Dio: Dio è morto , conclude Nietzsche, e l’abbiamo  ucciso noi . In un primo tempo lo ha surrogato con l’uomo,  capovolgendo i termini del dogma cristologico: non Dio  Uomo, ma l’Uomo-Dio: ha assolutizzato la ragione (Hegel)  o uno dei tanti valori umani: l’arte, la morale, l'economia,  la politica ecc.; in un secondo tempo, ai nostri giorni, peduta la fiducia nell’assolutezza dei valori umani (com’era  inevitabile una volta negata la concezione metafisica dualistica) senza riacquistare la certezza dell’esistenza dell’Assoluto trascendente, ha perduto ogni fiducia ed ha concluso che non esistono valori, dato che non vi è di essi un  fondamento assoluto nè divino nè umano. Fatalmente l’immanentismo, perduto Dio, doveva perdere anche il concetto  dell’uomo come persona (il nazismo o altre forme politiche  simili). I due elementi fondamentali della civiltà occidentale  risultano negati e così con essi la civiltà che avevano prodotto e fecondato .   Di derivazione germanica, immanentista  e non della  genuina civiltà occidentale  è il bolscevismo russo. Il cosiddetto marxismo o materialismo dialettico o storico, importato in Russia, ha subìto una notevole trasformazione a  contatto con l’incultura di quel Paese, cioè con l’opinione negativa che gli scrittori più qualificati avevano sempre  avuto della cultura, come di qualcosa di mediocre, di un  ostacolo alla realizzazione dell’ultramondanismo e alla aspettazione del fine assoluto. Il misticismo russo, con il bolscevismo, da religioso si è fatto ateo, il fine assoluto dal  cielo si è spostato in terra, ma la sua tendenza apocalittica  e nihilista è rimasta intatta. In un certo senso il bolscevismo è la coerenza spietata e brutale dell’immanentismo: è  l’immanentismo fino in fondo. Se non vi è un al di là  e se vi è solo un  quaggiù , se non c’èdualità e trascendenza, l’assolutamente assoluto è il  quaggiù , tanto assoluto da costituire il fine ultimo, di fronte al quale ogni  cultura (in prima linea quella occidentale, dualistica e perciò  nemica), ogni forma di vita diversa da quella della nuova  Dico di passaggio che una cultura, la quale esprime una concezione  immanentistica della vita, è condannata, proprio perchè manca della trascendenza, ad identificarsi con la  politicità  nel senso più vasto del termine e  dunque a materializzarsi e a sboccare nella violenza, che è la negazione della  libertà e perciò della cultura. apocalisse comunista, ogni uomo ed ogni valore devono essere  sacrificati, annullati. Così il nihilismo religioso russo, l’ incultura  e l’ antistoria , che negava il mondo rispetto al  fine (Dio), oggi, sotto l’influenza dell’immanentismo (della  sua antitesi), si è fatto immanentista, restando sempre nihilismo a carattere mistico; assolutizza il mondo al punto da  negarlo come mondo, da proiettarlo in un fine assoluto  che è come un mondo al di là di quello storico e di questo  negatore, nega la cultura da cui è nato nella sua nuova forma  di  incultura . L'immanentismo germanico aveva concluso   Dio è morto , prima che con il Nietzsche con lo Hegel,  il cui Dio è il Gost im Werden, il  Dio che si fa, e Marx  deriva da Hegel;  se Dio è morto , argomenta il bolscevismo, anche  l’uomo è morto , è nulla rispetto al suo fine,  l’Uomo assoluto di domani, l’uomo del millenarismo ateo.   Ci sembra ormai evidente che l’immanentismo, germanico e russo (pur così diversi: l’uno nega Dio per il mondo  e l’altro lo stesso mondo per un mondo nuovo di un domani assoluto), per il fatto che è immanentismo, è la minaccia più grave, la morte, della civiltà occidentale, la cui  radicale struttura, come abbiamo detto, è la dualità, la trascendenza, la metafisica nel senso vero del termine. Naturalmente la crisi ci ha pure insegnato qualcosa: che la  trascendenza è una verità interiore e non di ordine esterno  e naturalistico (l’interiorità della verità è quanto va conservato dell’immanentismo, ma l’interiorità non è immanenza)  e che, d’altra parte, essa non va mondanizzata o annacquata  in un umanesimo troppo umano o in un culturalismo che è  adorazione della cultura; ed è quel che ha di positivo 1° incultura  russa. Non dobbiamo respingere questi insegnamenti, ma farli nostri e trasferirli nel lavoro di recupero  della civiltà occidentale, la quale può superare la crisi e  salvarsi soltanto con la restaurazione di quella metafisica  dualistica o della trascendenza (e la fedeltà ad essa) che costituisce la sua essenza primale. O tale restaurazione e fedeltà saranno il  piano Marshall , ben più importante di quello  economico, della cultura occidentale, o anche per noi,  inevitabilmente, Dio morirà e l’uomo sarà per sempre seppellito. Sarà allora possibile realizzare il più olimpico rispetto delle culture per il semplice motivo che nel mondo  non vi sarà più cultura. Avrei dovuto pur dire qualcosa sulla cultura anglosassone, ma il discorso  sarebbe stato necessariamente troppo lungo e forse più  scandaloso  di quello  che qui ho fatto.La frase, cultura e metafisica, può sembrare curioso; e certo,  di primo acchito, non si vede un nesso preciso tra  cultura    metafisica . Avvertiamo subito che qui il termine  metafisica  è usato nel suo significato più pieno e precisamente di ricerca del principio primo e del fine ultimo di  ciò che è in quanto è. Per conseguenza, tutto quanto è nell'ordine umano e naturale involge il problema metafisico,  in quanto implica quello del suo principio e della sua finalità, dove risiede il suo significato assoluto. Ci sembra,  ‘dunque, manifesto che, in questo senso, vi sia un problema  metafisico della cultura, come di ogni altra forma di attività dello spirito umano.   Vi è per l’uomo un problema massimo che tutti gli altri  condiziona, orienta ed unifica: quello che è l’uomo a se  stesso, il problema di sè che l’uomo pone a se ste sso: della  sua destinazione, del senso totale, integrale ed assoluto della  sua esistenza. Questo problema, sottostante anche se im:  plicitamente ed inconsapevolmente ad ogni ricerca, costituisce l’umanità profonda di tutto ciò che è umano, l’umanità essenziale della scienza e dell’arte, della attività  conoscitiva come di quella morale ecc.; dunque anche della  cultura. La sua presenza conferisce ad ogni atto umano un  valore di immortalità: ne fa un momento, con gli altri  concorrente e solidale, del processo di conquista che l’uomo  fa di se stesso nella realizzazione della sua finalità trascendente il processo stesso. In questo senso tutto ciò che è, è  vero ed è valido di una verità e di una validità sua, ma che  sporge e tende verso il Valore e la Verità che sono il suo  fondamento e il suo fine, e dunque il suo significato ultimo o  metafisico. Il tempo è riscattato nel suo andare all’eterno  e, col tempo, ogni opera e pensiero dell’uomo. E la cultura  è opera dell’uomo; ma egli non ne intende il significato  profondo fino a quando non la giudica per il contributo  che essa porta alla soluzione del problema della sua verità  di uomo, che è presente nella stessa cultura, perchè dove vi  è pensiero ed opera di uomini vi è quel problema, così connaturale ed essenziale allo spirito umano.   Una cultura fine a se stessa  la cultura per la cultura   non è più tale, ma culturalismo: superstizione e mondana idolatria, mito e non realtà; è i! fazto, non il valore  della cultura, che, se si limita al valore o al fine di se stessa,  si assolutizza e con ciò stesso si nega nella sua validità essenziale. Opera dell’uomo, la cultura porta, ad essa immanente,  il problema metafisico dell’uomo stesso. Cioè: è l’uomo principio e fine di se stesso? Rispondere affermativamente (immanentismo) è assolutizzare l’uomo, divinizzarlo; è negarlo,  dire quello che non è; è definire il suo non-essere e negare il  suo essere. Rispondere, invece, che l’uomo è causa di tutto  ciò che pensa e fa e che, in ciò che pensa e fa, attua come  suo fine, tutto l’uomo che è, ma che non è principio primo  e incondizionato di ciò che pensa e fa (del suo essere)  e che, realizzando tutto l’uomo che è, attua un fine che non  è fine a se stesso, ma la condizione affinchè possa realizzare  la sua finalità suprema trascendente l’ordine del tempo, è  dire la verità metafisica dell’uomo, cioè rispondere adeguatamente al problema non solo dell’essere o della verità umana,  ma anche a quello dell’Essere o della Verità che è fondamento e finalità trascendente del suo essere e della sua verità. Assolutizzare l’uomo, fare di lui il principio e il  fine della sua intelligibilità metafisica, è sopprimere il problema metafisico e con esso ridurre, contro l’ordine del pensiero e della natura umana in generale  e dunque con un  atto irrazionale  il problema del suo destino e del significato assoluto della sua vita al problema del suo destino contingente e della sua significanza storica. Ma così non si risolve il problema-uomo, ma si immagina il mito-uomo e  in questa miticità ogni pensiero ed opera sua son mito. Mito  anche la cultura, funesto, in quanto assolutizzata e posta finalità di sè a se stessa, pura temporalità, ogni forma di cultura si pone autonoma incondizionata assoluta e nega le  altre: la collaborazione delle culture si risolve nel conflitto e nell’incomprensione tra le varie culture. La superstizione della cultura, principio e fine a se stessa ed assoluta  come l’uomo che ne è l’artefice, porta inevitabilmente al  fanatismo e con ciò all’urto tra le culture, all’incomunicabilità: cessa il colloquio.   Questa conseguenza è fatale: negare la realtà trascendente del Principio assoluto fondante l’uomo ed ogni ente  e dell’uomo e di ogni ente finalità suprema  cioè il problema primo e ultimo della metafisica, connaturale alla  realtà umana  è negare l’uomo ed ogni cosa e perciò ogni  pensiero ed opera sua; è degradare dall’ordine della ragione  a quello della irrazionalità passionale; negare l’origine divina dell’uomo e la sua finalità soprannaturale e con ciò  stesso fare della realtà spirituale una cosa tra le cose, fuori  del suo ordine, contro il suo ordine, contro ogni ordine.  L’uomo divinizzato è feticcio; ed è primitivismo raffinato  e sottile  direi sofisticato  ogni forma d’immanentismo;  è rinnovata barbarie di fanatici ed idolatri ogni forma di  cultura, per raffinata e scaltrita, che di quell’immanentismo  è espressione. L’uomo rinunzia a conoscere se stesso, a sapere la verità del suo esistere, del suo pensare e volere, e  la cultura si fa l’espressione di questa colpevole inconsapevolezza.   Da quanto abbiamo detto risulta chiaro che, dal nostro punto di vista, non basta dire che cosa è cultura  è  ancora problema di conoscenza  ma è necessario, definitone il concetto, indagare sulla sua verità profonda, cioè  dire qual’è il suo senso ultimo, il fondamento e il fine  assoluto; ed è questo il problema metafisico della cultura.  Ma è evidente che la soluzione di questo problema può  essere data ed è data dalla soluzione del problema-uomo:  risolto il problema del principio e del fine dell’uomo è  implicitamente risolto l’altro del principio e del fine di  tutto ciò che è umano, conformemente, univocamente, alla  soluzione del primo problema. Per conseguenza, il senso  o la verità di tutto ciò che è umano è identico al senso  o alla verità dell’ uomo; e se l’uomo ha il suo senso o la  sua verità nel Principio che lo fonda, lo fa essere, orienta  e stimola e in esso pure il suo fine assoluto, consegue che  ogni cosa dell’uomo ha senso e verità in quel Principio e  in quel Fine.   Il Vico su questo punto vide esattissimo: la verità della  storia (del mondo umano) trascende la storia. Vi è un duplice problema che investe lo stesso oggetto d’indagine:  dell’accertamento del fatto o dell’avvenimento e dell’inveramento di esso: accertare è constatare e documentare; inverare è spiegarne il significato, scire per causas. Ora l’uomo  è causa della storia e perciò di essa ha scienza, ma non è  principio di sè a se stesso; dunque, come egli trova il senso  (la verità) di sè al di là di se stesso, nel Principio assoluto  o Dio che lo crea uomo, così la storia, che è la sua opera o  il suo farsi uomo, ha il suo senso ultimo (la sua verità) al  di là di essa, al di là del tempo e di ogni tempo, nell’ordine  eterno che la fonda e la guida ed essa imperfettamente riproduce affinchè l’uomo, attraverso la storia stessa ma oltre la  storia, realizzi il suo destino, da cui tutto trae senso, superstorico ed extratemporale. In questa metafisicità immanente  in ogni pensiero ed opera umana, che è la metafisicità  immanente e naturale dell’uomo nella pienezza della sua realtà spirituale, è anche il senso profondo della cultura.  Perciò noi nel segnare i limiti del culturalismo (la cultura  fine a se stessa ed essa stessa il tutto) e nel denunziare la  sua insignificanza sostanziale  sono i limiti di un umanesimo che fa della cultura, dell’uomo e della sua opera in  generale l’assoluto dell’uomo stesso, tutta la sua realtà e  finalità  richiamiamo l’attenzione sulla presenza del problema metafisico al problema della cultura (quel problema è presente all'uomo in quanto tale e in ogni forma  della sua attività) e concludiamo che non è possibile porre  il problema della cultura e del suo significato senza porre  l’altro del significato dell’uomo in tutta la sua realtà, che  è, abbiamo visto, il problema metafisico nel senso che noi  diamo a questa parola, cioè della intelligibilità suprema della realtà umana e dunque anche della cultura, che è opera  dell’uomo. Della nostra cultura attuale, nel suo ultimo libro (L'uomo  e la cultura, Firenze,  La Nuova Italia , 1947), Huizinga  scrive:  più ricca e possente che non mai, ma le manca un  genuino stile, le manca una fede unitaria, le manca l’intima  fiducia della sua propria durevolezza, le manca la misura  della sua verità, le manca, infine, l’armonia, la dignità e la  divina quiete . Vi è del vero  e in duplice senso  in  questo giudizio: 4) è vero che la nostra cultura è ricca,  ricchissima di motivi, interessante anche nei suoi aspetti più  sconcertanti, nelle sue contraddizioni, nella sua consapevolezza critica esasperata, nel suo stesso scetticismo; interessante  soprattutto perchè ricca di esperienza di vita, per cui  nelle  sue manifestazioni migliori  non è pura esperienza culturalistica, ma vita vissuta che si esprime in forme culturali;  5) ma è altrettanto vero che le manca una norma interiore,  costitutiva della sua struttura, quasi la sua interna e salda  armatura. Dell’esistenza priva di un senso assoluto e di una  finalità suprema  e perciò dispersa, frammentaria e come sparpagliata  la cultura ripete il frammentarismo e l’insignificanza, la mancanza di fede e della misura della sua  verità. Privata la vita della sua norma, cioè del suo essere  e del suo consistere, anche la cultura è privata di consistenza,  mancante della norma che la orienta ed unifica, la fa convergente verso un fine, la cui realizzazione è la sua verità,  che, misurandola, le dà significato e scopo, appunto perchè  essa può commisurarsi fiduciosa alla verità che le è presente, ma che in essa non si esaurisce. Quando la vita esprime la sua verità, il suo essere, la verità e l’essere che la radicano nella Verità e nell’Essere, anche la cultura è espressione essenziale e sostanziosa, unitaria e vera, della verità e  dell’essere della vita; anche essa si sostanzia della stessa intelligibilità metafisica che chiarifica il destino dell’uomo e il  senso della storia.   Il Medioevo espresse meravigliosamente questo ideale di  vita e di cultura: consapevolezza, in un’armonica ed inscindibile simbiosi di ragione e fede, del destino dell’uomo come  fiduciosa realizzazione di una finalità trascendente, come  convergenza e solidarietà in Dio di tutte le energie della vita  nel loro dinamismo integrale. Il migliore Rinascimento, senza negare questa concezione cristiana dell’esistenza, espresse il  suo ideale di cultura nella serena ed armoniosa operosità  umana tesa a realizzare unitariamente i valori della bellezza,  della dignità della persona, della scienza come conquista  del mondo, per cui quel di divino che l’uomo e la natura  esprimono è come riflesso, guida, richiamo e testimonianza  della loro origine da Dio e della loro finalità in Lui. Il pensiero moderno, sviluppando fermenti ed elementi impliciti  nello stesso Rinascimento, ha rotto questa armonia e del mondo umano e naturale ha fatto tutta la realtà, avente in se  stessa il suo principio e il suo fine e perciò autosufficiente :  fondamento di sè a se stessa; orgogliosa fede nelle possibilità dell’uomo, artefice incondizionato del proprio destino  e del suo mondo. Per circa tre secoli la cultura occidentale ha vissuto di questa fede, perdendo gradatamente il senso  della trascendenza e la coscienza religiosa per conquistare  quello della immanenza e su di esso costruire, al posto della  religione il cui oggetto è Dio, la superstizione dell’uomo assoluto principio e fine di se stesso. Così l’uomo è stato adeguato alla realtà naturale e chiuso nella finitezza dell’esperienza: costretto a porsi esso stesso, come ragione o pensiero,  principio e fine metafisico del reale, ha finito per perdere il  vero concetto di metafisica e rinunziare alla metafisica stessa.  La fede superba ed orgogliosa nelle sue possibilità, attraverso un processo di autocritica, si è gradualmente sfaldata; in  tal modo egli è rimasto privo di una fede e di un destino trascendente, privo di una fede e di un destino immanente. La  perdita della metafisica si è conclusa fatalmente nella perdita della realtà e della verità dell’uomo e, per conseguenza,  nella perdita della fede e della serietà della cultura.   Invano si è cercato trovare la verità dell’uomo e delia  cultura in uno dei valori mondani arbitrariamente assolutizzato (nell’arte, nella scienza, nella storia ecc.); invano il  materialismo storico  ultima e legittima conseguenza dell'immanentismo  cerca di trovare l’unità e la verità dell’uomo e della cultura nel valore economico-politico-sociale.  Quella che oggi si chiama la crisi dell’uomo e della cultura  è la conseguenza del fallimento delle precedenti forme culturali a carattere immanentistico: non è in crisi una forma  culturale immanentista, questa o quella, ma è in crisi l’immanentismo come tale. Perciò qualunque forma culturale immanentista, espressione della fede orgogliosa e superstiziosa  nei poteri dell’uomo, è essa stessa espressione della crisi  e non di essa risolutrice; è ancora, anche se del presente,  espressione di una cultura del passato, che la crisi del presente, che è la sua crisi, nel suo travaglio si sforza di oltrepassare perchè rivelatasi fallace. Similmente l’uomo e la  cultura non possono rinvenire la loro verità nel mito funesto .  ed esclusivista del nazionalismo, dissolvente dei concetti stessi di uomo e cultura e fatalmente avviato all’urto delle culture  nazionaliste, cioè alla guerra. La Kultur tedesca dell’immediato passato e la cultura sovietica dell’oscuro presente  ci sono di ammaestramento e di ammonimento.   Una conclusione scende legittima ed inoppugnabile dalle  nostre premesse ed argomentazioni: l’uomo non è il creatore della sua verità nè l’artefice del suo destino; la verità  e il destino dell’uomo trascendono il mondo umano e naturale, traggono origine e realizzano il loro fine al di là  e al di sopra di esso. Solo in Dio l’uomo autentica la verità  della sua vita; solo nella trascendenza teologica rinviene  l’intelligibilità metafisica del suo essere: qui la sua unità,  la verità della verità che egli è. Solo esprimendo questa realtà  umana la cultura può ritrovare unità e fede, verità e consistenza, cioè la sua norma e il suo significato.   Eliot ha scritto che una cultura presuppone una religione  ed è vera se è vera la religione su cui si fonda. Ora non  vi è religione senza Dio: le religioni del progresso, della  scienza, dell’umanità, della libertà, del collettivismo ecc.,  adorano un Dio che non è tale e perciò son forme di idolatria: il mondo moderno è idolatra, di religioni false e  dunque di false forme di cultura. Religione è fede nell’Essere trascendente e creatore, principio e fine di ogni cosa  esistente. Non solo per l'Occidente, ma per ogni uomo che  ne viene a contatto, questa religione e questa fede non possono non essere che la religione e la fede cristiane, perchè  il Cristianesimo è l’unica religione vera; dunque solo una  cultura cristiana è vera. E se la cultura occidentale ha ancora una sua verità e, tra tanti segni di sbandamento e  disintegrazione, riesce ad avere una sua certa unità e a  valere più di altre forme culturali, lo si deve al fatto innegabile che, pur tra tanto laicismo, è sempre una cultura  cristiana. Ancora oggi i popoli dell’Occidente respirano e vivono in un’atmosfera cristiana, anche se viziata e corrotta.  Nessuno potrebbe parlare di  persona ,  libertà ,  amore e carità se il Cristianesimo non avesse insegnato  questi concetti e se ancora oggi, pur tra tanti travisamenti,  non fossero presenti alla coscienza occidentale.   A questo punto ci sembra che si presenti un dilemma  perentorio: o la cultura esprime la verità dell’uomo, quella da noi sopra indicata: il senso assoluto o la intellegibilità metafisica del suo essere, ed ha la sua verità; o ne è  l’espressione sofisticata e allora, espressione di una falsificazione della natura umana, è altrettanto falsa. Ma una cultura  che esprime la verità dell’uomo è sempre conforme alla verità  cristiana, in quanto la verità dell’uomo è in Dio e nel Dio  del Cristianesimo. La cultura è sempre l’espressione più  alta della civilità e non c'è civiltà più alta di quella cristiana:  quanto non è cristiano, dopo il Cristianesimo, è incivile.  Come segno di una civiltà non esteriore la cultura ha una  funzione altissima e dinamica: informare dei suoi valori  il mondo che necessariamente è fuori di essa; è questa la  sua finalità sociale. Una cultura sociale in senso diverso, nel  senso del collettivismo marxista, è la cultura dell’incultura,  senza senso.  L'espressione  filosofia della storia   e naturalmente  anche il problema  è recente: che io sappia, per primo,  la usò il Voltaire e, successivamente, lo Herder la introdusse in Germania. Ha dunque appena due secoli di vita;  e di vita molto contrastata.   Non è senza significato che si sia cominciato a pensare ad una  filosofia della storia  nell’età dell’Illuminismo, considerata comunemente come l’età dell’anti-storia;  forse proprio perchè antistorico, per primo l’Illuminismo  pensò ad una filosofia della storia. Il secolo dei lumi aveva  un suo programma da realizzare: il regno dell’uomo sulla  terra, da instaurare con la sola ragione, autonoma, assoluta, cioè indipendente da qualsiasi principio superrazionale, trascendente l’ordine della natura umana e fisica. Come  la scienza si era costituita autonoma, così ogni altra forma  di attività (il diritto, la morale, la politica, ecc.) e ogni  altro settore dello scibile dovevano costituirsi separati dalla  religione e, in generale, da ogni teologia, il cui contenuto  non si risolvesse perfettamente nell’ambito dell’umana ragione. Si pensò dunque a una filosofia della storia ,  cioè a una spiegazione puramente razionale del cosmo  umano, a una sistemazione di esso sulla base di un certo  numero di princìpi razionali direttivi ed esplicativi. Non  aveva forse l’ oscurantismo  medioevale accettato la concezione agostiniana della storia, secondo le grandi e maestose linee del De civitate Dei? Ebbene, questa di Agostino  e del pensiero cristiano posteriore non è  filosofia , ma  teologia  della storia, cioè la storia del mondo umano  interpretata e spiegata sui dati della Rivelazione, per cui la   storia terrena  trova la sua spiegazione e il suo significato non in se stessa, ma nella storia sacra e nell’ordine soprannaturale. Anche la storia bisognava separare dalla  religione; dunque non la storia spiegata teologicamente  (super-razionalmente), ma filosoficamente, dentro l’ordine  della ragione. Ma si possono ricondurre i fenomeni storici  ad un piccolo numero di princìpi direttivi essenziali ed  irriducibili? Si può costruire il  sistema della storia? Lo  Illuminismo non sembra che sia stato di questa opinione  e: o condannò la storia mondo oscuro ed irrazionale delle  passioni, o non oltrepassò la concezione di essa come ordine cronologico (d’Alembert). Non così in Germania dove,  a cominciare dallo Herder, fin dagli albori del romanticismo, la filosofia della storia  ebbe ben altra fortuna ed  elaborazione. Nacquero in quel periodo le sue sorelle, le  molte  filosofie : della religione, del diritto, dell’arte ed  ultima, col d’Ampère, delle scienze. È evidente che proprio  la nascita di tante  filosofie  segna l’agonia e poi la morte,  anche se apparente e transitoria, della filosofia . Se la  storia, la religione, il diritto, l’arte, le scienze, ecc. hanno  ciascuna una sua filosofia, che resta alla filosofia come suo  oggetto proprio e problema irriducibile? Il sorgere di tutte  ueste filosofie è l’effetto e insieme la causa della crisi   della filosofia, della sua dissoluzione. Evidentemente per  filosofia cominciava ad intendersi qualcosa di ben diverso  da prima.   Infatti basta porsi il problema di una filosofia della  storia  per ritenere almeno possibile una scienza del particolare, del singolo, del contingente. Tale possibilità è  esclusa dalla filosofia classica, greca e cristiana; perciò il pensiero antico e quello cristiano non si posero mai il problema di una filosofia della storia, quantunque il Cristianesimo abbia posto in prima linea proprio il problema della  storia. Evidentemente grecità e Cristianesimo hanno un concetto di filosofia ed un concetto di storia tali da escludere che  vi possa essere filosofia che sia filosofia della storia e storia  che possa essere tutta esplicata con e in un sistema di principi, di leggi, di categorie. Per Aristotele, infatti, la filosofia  è sapere razionale o scienza (Mez. I, 1; 993 b, 21) avente per  oggetto l’universale e per strumento la ragione; la storia è  invece ammasso di documenti, pura raccolta generale di  fatti da distinguere dal lavoro di spiegazione o di sistemazione e dai trattati teoretici.  Phslosophia individua dimittit , dice F. Bacone (De dignitate et de aug. sc.; II,  I, 4) e come tale essa si oppone alla storia che  proprie  individuorum est, quae circumscribuntur loco et tempore   (ivi, II, 1, 2). La storia è conoscenza dell’individuale ed ha  come strumento essenziale la memoria; la filosofia lo è dell’universale ed ha come strumento specifico la ragione; dunque la filosofia si oppone alla storia; una filosofia della  storia è una contraddizione nei termini, in quanto si assegna  alla filosofia un oggetto che non le è proprio, è l’opposto  (l’individuale) del suo (l’universale), e si applica il suo strumento (la ragione) ad un oggetto per il quale è adatto un  altro (la memoria). La filosofia, continua Bacone (:24, II,  I, 4), neque impressiones primas individuorum, sed noziones ab illis abstractas, complectitur ; la storia invece  è proprio conoscenza delle  impressiones primas individuorum . Dunque il dato storico e il dato teorico, storia e  teoria, si oppongono: la prima ha per oggetto i dati di  fatto nella loro singolarità, particolarità e contingenza; l’altra le relazioni costanti e generali, su cui si applica la ragione. Sono possibili relazioni costanti e generali nei fatti  storici? È possibile una scienza della storia? Alcuni moderni  hanno parlato e parlano ancora di filosofia della storia, ma evidentemente intendono storia e filosofia in maniera, come  dicono,  moderna .   Il pensiero moderno, a differenza di quello greco e medioevale, manifesta uno spiccato e prevalente interesse per il  particolare, il concreto: per il concreto fisico e il concreto  umano; perciò le scienze naturali e la storia sono una sua  conquista; perciò la politica, l’estetica e l’economia, scienze  mondane, hanno avuto nel pensiero moderno un immenso  sviluppo e sono state scientificamente sistemate assieme ‘alla  cosiddetta psicologia sperimentale. L'oggetto del pensiero  moderno è stato ed è ancor oggi prevalentemente  questo  mondo ,  questa terra  ed i loro fatti concreti; non per  nulla con Occam incomincia quella che si chiama la decadenza della Scolastica. È evidente che la filosofia, gradualmente, doveva essere portata o costretta a porsi come suoi  problemi quelli del concreto, cioè dei fatti di questo mondo,  naturali ed umani. E solo dei fatti; dunque non più ricerca  dell’4/ di lè, ma interpretazione del quaggià. Di qui, dapprima, la rivolta contro la metafisica tradizionale e poi contro  la metafisica senz’altro; la sostituzione della  metafisica  dell’essere  con la  metafisica del pensiero  o della mente;  di qui la metafisica del pensiero intesa come costruzione  delle scienze della natura (positivismo). In tal modo, da un  lato, la filosofia è venuta ad identificarsi con le singole  scienze umane o naturali, e, dall’altro, il concetto di storia,  il cui oggetto è il concreto o il particolare per eccellenza, ha  assunto un’importanza quasi assoluta. Di conseguenza la  filosofia ha cessato di essere una scienza autonoma e si è  trasformata in metodologia: o delle scienze (positivismo)  o dell’attività spirituale umana (idealismo) o della storia  senz'altro (storicismo); ha cessato di essere filosofia dal  giorno che la sedusse il demone dell’immanentismo e volle  farsi mondana, antiplatonica, scienza di quaggiù: tradì se  stessa e si snaturò.   Ma anche così, per limitarci al nostro problema, è possibile una filosofia della storia? Non propriamente il Vico  ma lo Hegel credette di sì, di poter dare una spiegazione  razionale totale della storia e dello spirito umano nei momenti del suo divenire: per lo Hegel, la ragione può spiegare (e spiega), sistemare (e sistema) tutto il reale fisico ed  umano, la storia senz’altro, senza residui. Ma la storia  è storia dell’Idea, storia dell’Assoluto: è l’autorivelazione di  esso, che, attraverso il processo dialettico, chiude il circolo su se stesso. Da questa storia resta fuori, al principio e  alla fine del processo, proprio... la storia! La Ragione hegeliana, il Dio immanente creatore, si sostituisce alla creatura  e la nega come tale: la pone e la nega, la risolve (dissolve)  in sè: il concreto, il singolo, il particolare, nel dialettismo  antinomico hegeliano, è il non-reale, il non-razionale, il nonvero, lo strumento caduco di cui l’Idea si serve e che la  stessa Idea sopprime. La storia è la storia dell’Idea, non degli  uomini singoli e delle cose; quella di Hegel è una filosofia  della storia che nega proprio la storia. Ecco perchè il positivismo che, nonostante tutto ebbe vivo il senso della storia, è  stato anti-hegeliano; e un contemporaneo epigono italiano  dello Hegel, rimasto, in fondo, positivista anche lui, ha negato che vi sia una filosofia della storia ed ha identificato con la storia la filosofia. In tal modo, il positivismo e   uesta forma di storicismo empiristico hanno costruito o  una filosofia della storia  senza filosofia (il positivismo)  © una storia che dice di identificarsi con la filosofia solo perchè ha ridotto questa a metodologia dell’altra, cioè perchè  in partenza la nega come filosofia. Già lo Schopenhauer aveva negato che vi possa essere filosofia della storia (!). La storia è una conoscenza senza essere una scienza, in quanto in nessun modo essa conosce il particolare per mezzo dell’universale, ma deve attingere immediatamente il fatto individuale, e, per così dire, è condannata a strisciare sul terreno dell'esperienza... Se la storia non ha propriamente per oggetto  che il particolare, il fatto individuale e lo ritiene la sola realtà, essa è tutto  l'opposto e l’antitesi della filosofia, che considera Je cose dal punto di vista  più generale ed ha per oggetto specifico quei princìpi, sempre identici attraverso  tutti i casi particolari  (Die Welt als Wille und Vorst., vol. II, ca37). Dunque, proprio il fallito tentativo del pensiero moderno  di costruire una filosofia o scienza della storia (cioè il tentativo di spiegare tutto l’uomo senza Dio) dimostra come una  filosofia della storia in questo senso sia impossibile e fa  attuale, esso, antiteologico, la concezione della storia di  Agostino e della filosofia cristiana; attuale, ma dopo la concezione che della storia ha avuto il pensiero moderno, la  quale non va negata ma assunta come problema della filosofia, come il problema dell’uomo, del suo significato e del  suo destino.   Posto ciò, esiste il problema della storia (del singolo, dell’uomo concreto) nel pensiero aristotelico e nell’aristotelismo? Non sembra. Se l’oggetto della storia è il particolare,  il concreto, il contingente non risolvibile, come tale, nelle  leggi che pur lo governano; se i fatti umani sono contingenti in se stessi, cioè di una contingenza obiettiva, assoluta; e se, d’altra parte, l’oggetto della filosofia è l’universale, della storia non c’è filosofia, non c’è scienza. Non c’è  nemmeno problema da questo punto di vista, in quanto non  si può porre il problema di quali siano le leggi razionali,  universali e necessarie di ciò che non è spiegabile con tali  leggi, perchè ad esse non ubbidisce. Infatti, per Aristotele,  come per Platone e per il pensiero greco in generale, della  storia non c’è scienza e non c’è neppure problema speculatuvo: è il mondo del sensibile, del passionale, dell’arazionale.  Il singolo come singolo ed il fatto umano nella sua concretezza non sono oggetto di scienza razionale o di filosofia; il  singolo è inoggettivabile. Perciò nella concezione greca la  storia non ha progresso nè svolgimento: è circolo, eterno  ritorno insignificante. È razionale il mondo delle essenze,  non quello degli individui. Gli uomini tendono a Dio, ma  restano sempre fuori di Lui, come Egli è estraneo a loro  ed alle loro vicende: non sanno perchè vanno e dove vanno;  son mossi dal cieco destino, dal fato, dalla ananche, e precipitano nella notte inesplorabile della morte. Il Cristianesimo gettò luce su questa concezione della vita, serena per la saggezza della disperazione e attaccata alla gioia di vivere per  lo sconsolato convincimento che la vita e la morte non  hanno in loro nulla che veramente persuada, con il concetto di creazione che spiega appunto le origini da Dio della  storia e dell’uomo. E pur essendo il concetto di creazione  anche una verità di ragione, esso entrò nel mondo con la  Parola soprarazionale.   Per la filosofia nasce a questo punto un problema fondamentale: se oggetto della ragione sono le essenze universali  desistenzializzate e non quelle incarnate che sono i singoli  uomini (quell’essenza singola che è ogni singolo), l’uomo e  la sua vicenda  la sua origine, la sua vita, il suo dolore, il  suo bene e il suo male, la sua morte  restano fuori della filosofia, sono il limite della ragione. Accettare questa conclusione sarebbe cancellare la storia e gli uomini, come, in fondo, li cancella il pensiero greco ed ogni filosofia della pura  ragione nozionale, sia il razionalismo di tipo plotiniano o  spinoziano, sia quello di tipo hegeliano. Pertanto, una filosofia che considera razionali solo le essenze universali si  trova di fronte, imponente, ineliminabile ed inesorabile, il  problema della storia, cioè il problema dell’uomo. Può la  filosofia risolverlo?   Lo ha tentato con la filosofia della storia, ma, come abbiamo visto, il tentativo è naufragato: ha soppresso la filosofia (positivismo) o ha soppresso la storia (Hegel) nel momento stesso che tentava di ridurla a razionalità; pertanto  l’uomo o la storia nella sua integralità non può essere spiegato dalla sola filosofia. Ma fino a che punto può essa  spiegarlo ?   Indubbiamente vi è nella storia una relativa razionalità  e precisamente quella che deriva dalle leggi eterne della  matura umana e dalle connessioni causali derivanti dal contatto di questa con l’ambiente che la circonda. Ma, tale  razionalità, ben lungi dal rendere interamente razionale la storia, si lascia ancora sfuggire proprio quel singolare  concreto che esige spiegazione. La storia è veramente comprensibile e persuasivamente spiegata solo quando spiega,  in maniera non contraddicente la ragione e le esigenze fondamentali e sempre attuali dello spirito umano, il significato  ed il destino di ogni singolo uomo e, con esso, quello dell’umanità globale del passato, del presente e del futuro.  Quale dialettica governa il mondo? Quale il piano della  storia? Hegel rispose: è l’autorivelazione dell’Assoluto. Ma  ciò non spiega la storia, bensì afferma che essa è strumento dell’Idea e con ciò le nega ogni significato e realtà;  con ciò si cancellano, senza risolverli, il problema del male,  del dolore, della morte ecc. La  filosofia della storia  non  può dunque pretendere di spiegare il piano della storia stessa.  Ogni tentativo in questo senso è una pretesa infondata della  ragione iperbolica: giustamente A. Franchi (Ultima critica,  p190) chiama la filosofia della storia  vanità della vanità .   Ma il suo fallimento non lo è della filosofia; anzi è il  recupero della sua autenticità. La filosofia si incontra con  il problema dell’uomo, del singolare concreto: il problema  le nasce dal di dentro e le è essenziale. Ma, come abbiamo  accennato, non lo è ad una filosofia delle pure essenze, che  identifica la razionalità con la ragione di tipo aristotelico,  puramente intellettualistica e nozionale. Per una ragione delle  essenze, dell’eidezica, il singolare, la storia, l’uomo in carne  ed ossa, l’esistente, sono indifferenti. Essa si chiude nelle  essenze e chiude in parentesi il concreto. Ma questa ragione  non è tutta la ragione, che non è tutto il pensiero vivente,  l’uomo pensante, realtà spirituale, spirito che è insieme ed  inscindibilmente essere sentire conoscere volere. Per lo spirito concreto la storia è la sua storia; il significato e il destino della storia sono il suo significato e destino. Il problema scaturisce dal suo dinamismo interiore, gli è intero:  è il problema della sua stessa interiorità. Il problema speculativo della verità manifesta la sua solidarietà con quellò pratico del destino umano; nasce il problema ultimo della  loro unità. Può la filosofia risolverlo? No: può solo avviarne la soluzione integrale, che è quella della storia integrale, cioè può cercare a quali condizioni è possibile quella  unità. È il problema dell’adazzamento del nostro essere concreto alla sua finalità interiore e trascendente, che è l’Essere.   Tale adattamento è atto razionale della ragione vivente  e concreta, con cui ricorosce (e dunque è anche atto volontario) che la dinamica del pensiero è orientata all’Essere  che la trascende e che la soluzione del problema della vita  e del destino dell’uomo o della storia trascende l’ordine razionale umano e naturale; dunque l’atto con cui la ragione  riconosce che il piano della storia è divino, è atto razionale  e perciò razionale è il passaggio dalla  filosofia  alla  teologia  della storia. A questo punto si rivela chiara ed evidente alla ragione la convenienza della Rivelazione: il significato della storia è nella Parola rivelata ed incarnata, in  Cristo. È la soluzione di Agostino, la cui teologia della storia, punteggiata dai momenti della creazione, del peccato  originale, dell’Incarnazione, della Redenzione attraverso la  Croce, del dolore come conseguenza del peccato, del gran  Sabato nella fine dei tempi, resta e resterà sempre, nelle  sue linee maestre, la verità perenne sul problema della storia. E, se verità, sempre attuale; più che mai oggi dopo  che il pensiero moderno ci ha educati all’interiorità della  ricerca e della verità. Ma deve essere una interiorità autentica: quella che  attesta  e non che  pone  Dio. Nella  trascendenza teologica è il senso della storia e dell’uomo:   Beau de voir par les yeux de la foi l’histoire d’Hérode, de  César... Qu'il est beau de voir, par les yeux de la foi, Darius  et Cyrus, Alexandre, les Romains, Pompée et Hérode agir,  sans le savoir, pour la gloire de l’Évangile!  (Pascal). Il primo dei due termini è antico quanto la filosofia:  occupa un posto primissimo tra i termini tecnici, già approfondito e direi scavato in mille guise, codificato. Il secondo  non è tecnico, non ha una tradizione speculativa, manca nei  dizionari filosofici più accreditati; forse perchè pone, in sede  filosofica, un problema la cui soluzione totale e unica spetta  alla religione. Il primo ha un antico e glorioso passato, ma  di esso l’altro è la perenne attualità proiettata nel futuro;  infatti, per noi, il problema dell’esistenza trova autentico  chiarimento e soluzione ultima  ad esso interiore ed essenziale  nel determinare quale sia la  consistenza  dell’ esistenza  stessa.   I termini esistere , esistenza, esistente,  esi  stenziale  hanno una risonanza infinita. Che cosa, infatti,  non appartiene all’esistenza? Berdiaeff dice che tutte le filosofie sono state esistenziali: o hanno trattato dell’esistenza  o speculato su di essa, ma proprio questa constatazione, che  del resto va presa entro certi limiti, impone il problema  non della riduzione di tutta la storia del pensiero all’esistenzialismo o quello di una interpretazione unilaterale di essa,  bensì l’altro, meno grossolano in quanto sa distinguere, del  perchè solo da circa un trentennio vi sia una filosofia detta   esistenzialista  o almeno che si dichiara esplicitamente tale. Ciò significa che il problema dell’esistenza, antico  quanto il pensiero, cioè quanto l’uomo, si presenta con una  sua peculiarità in quel che oggi si chiama l’esistenzialismo. Si  tratta evidentemente di una più consapevole esperienza filo  sofica del concetto di esistente, di una filosofia quasi galvanizzata totalmente da questo problema, posto in termini  nuovi; in breve, di un particolar modo di concepire l’esistenza. Il movimento in questione non si caratterizza come  filosofia dell’esistenza, ma come quella determinata concezione di esso, che si chiama appunto esistenzialismo.  L’esistenzialismo è una posizione di pensiero; ogni posizione di pensiero, direbbe Camus, è una rivolta; ogni rivolta  è decisione dichiarata di dire di no a qualcosa o a qualcuno.  Ma è anche dire di sì: il 20 a qualcosa o a qualcuno importa  il sì a qualcos'altro: la negazione di un valore che non si  riconosce più tale è l’affermazione di un altro, considerato  valore. A che l’esistenzialismo dice di no? Alla Conoscenza  onniconoscente, alla Ragione onnicomprensiva di quanto  (che è tutto) la ragione speculativa può conoscere e comprendere, chiudere nell’orizzonte della pura razionalità. E  quel che resta fuori? Il  conoscere oggettivo  e la  ragione  speculativa  o lo negano, o non se ne curano. Comincia l’assedio alla fortezza della razionalità pura; l’esistenza concreta  preme contro i bastioni della filosofia speculativa; preme ed  attacca, pone istanze, formula domande, mette in questione  tutto il formidabile e massiccio castello, pietra per pietra.  L'’esistente che dice di no ed interroga si pronuncia sulla  Conoscenza o Ragione. I termini del rapporto filosofia speculativa-esistente sono capovolti: non si tratta più di sapere  che cosa la Ragione pensi dell’esistenza, ma che cosa l’esistenza della Ragione; anzi, giacchè l’esistenza è ancora un  termine astratto, che cosa l’esistente hic ez nunc pensi della  filosofia speculativa. Non più la ragione rende problematico  l’esistente, ma l’esistente problematica la Ragione; quel che  per quest’ultima era un non-problema  l'esistente, l’accidentale che non importa all'essenza intelligibile  è ora posto come il problema assoluto, che la filosofia speculativa è  costretta a riconoscere come proprio limite. Essa perciò è  chiamata non a risolvere un problema per essa insolubile  perchè non razionale, ma a chiarirlo sempre più come problema, ad esasperarlo quasi scavandone la radicale problematicità insormontabile; e con ciò, in pari tempo, la ragione si fa essa stessa problematica di fronte alla irriducibilità o non razionalità dell’esistente. In questo porre l’esistente come interrogante la Ragione e come colui che dice  quel che ne pensa, credo risieda la caratteristica fondamentale di ogni vera filosofia esistenzialistica, ammesso che sia  possibile una tale  filosofia  nel senso che, come pura filosofia, possa risolvere integralmente il problema, quel complesso di problemi che è l'esistente.   Ens dicitur multipliciter, scrive S. Tommaso sulla scorta  di Aristotele. Vedere l’esperienza molteplice sotto l’aspetto  il più universale significa considerarla sotto la categoria dell’ente, il quale non è solo l’ens rationis, ma precisamente il  quid, essenziale ed ineliminabile, per cui il reale è reale e  senza di cui il reale non è reale. Ente è id cui competit  esse e l’esse compete solo all'Ente in sè, ma ad ogni ente  del mondo dell’esperienza, ad ogni reale, al reale hic es  nunc, che l'Ente fa esistere, pone con una sua essenza.  Fa esistere , pone; dunque all’esse compete anche  l’esistere: l’esse è essenza ed esistenza. Ma è proprio l’esperienza molteplice che sembra smentire l’essere dell’esse o  dell’ente: ogni ente diviene, trapassa da uno stato ad un  altro, in una successione di stati diversi, per cui questo ente  diviene non questo ente. L'esperienza, ha osservato Aristotele, e prima di lui Platone e Parmenide, come divenire da questo a non questo, è esperienza di contrari. Ma non per  ciò è contraddittoria: proprio la presenza dei contrari nell’esperienza è testimonianza della identità dell’ente a se  stesso, in quanto non vi potrebbe essere movimento da questo  ente a non questo ente senza l’unità e la permanenza dell’ente, cioè se l’ente non restasse identico a se stesso. È questo  ente che è contrario al ron questo ente, ma l’ente, sia del  questo che non questo, è sempre lo stesso identico ente. Se  l’ente potesse divenire il non-ente, ogni ente diverrebbe la  negazione di se stesso e non vi sarebbero più nè enti nè questo ente che diviene non questo ente. Se tra ente e non-ente  vi fosse rapporto dialettico (nel senso di una dialetticità che  investe la stessa essenza dell’ente per cui l’antitesi s’irradica  nella sua essenzialità) non vi sarebbe più possibilità di stabilire i termini di una qualsiasi antitesi; infatti è possibile  un'esperienza di contrari e un rapporto dialettico tra questo  ente e non questo ente in quanto permane l’ente, sempre  identico a se stesso, che da questo diviene non questo. In  altri termini, il principio di identità, piuttosto che negare il  divenire dell’esperienza molteplice, è quello che ne giustifica  e ne spiega il dinamismo, facendo che i contrari siano momenti dell’ente, senza che la contraddizione infirmi l’ente  in se stesso, cioè quella sua positività essenziale e permanente, la quale sola rende possibile il divenire e nello stesso.  tempo fa che esso sia incontraddittorio, non negativo. Ciò  che diviene, mentre diviene, è lo stesso ente uno e ciò che diviene dell'ente uno è quel che può diventare o disparire  ( cupBeBnxés), senza distruzione del soggetto ( xwpic tic 70ò  broxerpevov 0I0PÀg ).   Non sempre noi facciamo un uso preciso dei termini  esistenza  ed esistente , anzi tendiamo spesso ad identificarli; ma è fondamentale tenerli distinti. L'esistenza come  tale non è oggetto di esperienza sensibile: proprietà comune a tutti gli esseri, è una nozione astratta. L'esistenza  non esiste; esistono gli esistenti, cioè quanti esseri hanno l'esistenza a tutti comune dal loro atto di esistere o atto  per il quale un essere è, atto assolutamente primitivo e fondamentale, come scrive il Gilson (Les limites existentielles de  la philosophie), a cui tutto va rapportato e condizionato,  non solo ciò che un essere è o fa, ma anche tutta la conoscenza  che possiamo averne. L'atto di esistere fa che ogni essere  sia e, per il fatto che è, sia conosciuto; non è una proprietà  dell’essere, ma tutte le trascende in quanto tutte le condiziona. L'essere è ciò che è significa che l’essere esiste per  il suo atto di esistere, dove l’esistere non è una delle tante  sue proprietà, ma la dimensione immensurabile per cui l’essere che è, è ciò che è. La definizione dell’essere così formulata implica due elementi logicamente distinguibili, ma  metafisicamente indissolubili. Vi è una ontologia e vi è  un’eidetica dell’essere: per l’ontologia l’essere è ciò #1 quale  è , ciò che, per il suo atto esistenziale, esiste; per la eidetica  l’essere non è ciò il quale è, ma oggetto da conoscere,  cioè nella eidetica l’essere è considerato come quello di cui  è da dire che cosa è, di cui va definita l’essenza. Ora, per  tale definizione, la riflessione filosofica prescinde dall’atto  esistenziale e considera la nozione dell’essere in quanto essere e delle sue proprietà in quanto essere. L'esistenza o la  non esistenza di un essere o dell’essere in generale lascia  indifferente la eidetica, in quanto l’essere concettuale, a prescindere che l’essere esista o no, è solo la sua essenzialità.  L'essere è considerato nella sua possibilità pura di cui l’esistenza non è una necessità intrinseca, ma come un complementum, superfluo per definirla, anzi ostacolo alla sua trasparente intelligibilità.   La filosofia non è forse filosofia prima o metafisica,  scienza dell’essere in quanto essere?   Certamente, ma dell’essere dell’ontologia e non solo di  quello dell’eidetica. Ora l’essere in senso ontologico è l’essere che è, che esiste in virtù del suo atto esistenziale, l’essere reale (non l’essere possibile), il cui fondamento assolutò l’atto dell’esistere; precisamente l’oggetto della metafisica  l’essere reale, l’essenza esistenzializzata, il cui esserci c'è  per l’atto di esistere fondante assolutamente l’essere. Ma c’è  scienza dell’esistere come tale? Non c’è di esso scienza eidetica, in quanto l’atto per cui un ente è o esiste non è oggetto  concettuale; l’esistente in questo senso è inoggettivabile. L’essere in senso ontologico è soggetto (oggetto è il concetto o la  forma o l’essenza), il quale non si oggettiva, se oggetti  vato cessa di essere soggetto; come soggetto, è eideticamente inassimilabile. D'altra parte, il ciò che è o ente, è   ciò #1 guale è  come un che cosa che è: l’esistere non è  l’insignificante esistenza di nulla, ma il significante esistere  di qualcosa, l’esistenziarsi di un’essenza; perciò il problema  dell’esistere non va posto come problema della pura esistenza,  ma dell’esistenza di un quid. Dunque ciò il quale è , è  ed esiste come qualcosa che fruisce dell’esistere: non vi è esistente che non sia l’esistere o l’esistenziarsi di una essenza.  L’essere in senso ontologico è l’essere che è esistente ed è  l'oggetto della metafisica. L’esse, nel suo senso più pieno,  è sintesi di essenza ed esistenza, è l’essenza concretamente  attualizzata, l’essenza che è wn essere. L’esistente finito è  particolare e contingente, ma con una sua essenziale struttura, senza della quale sarebbe impossibile ogni riduzione  cidetica, la quale ne coglie l’essenza desistenzializzata e fa  che il reale sia concettualizzabile. In questo senso l’eidetica è  la verità del reale, quella che lo definisce nella sua essenza, lo  raccoglie  nel suo ordine, lo fa oggetto di ragione e dunque di conoscenza filosofica. La definizione aristotelica della  metafisica come scienza dell'ente in quanto ente  dove  scienza significa intelligibilità dell’ente stesso o definizione  della sua essenza desistenzializzata  può, su questo punto,  concordare con l’altra platonica della metafisica come scienza  dell'ente in quanto verità, cioè di quel che può essere ed è  oggetto dell’intelletto. Ma nè la definizione di Aristotele nè  quella di Platone esauriscono il problema della metafisica, in quanto l’oggetto di essa non è l’essenza, ma l’essenza-esistente, non il concetto oggettivabile, ma il soggetto come  soggetto, cioè come essenza esistente, inoggettivabile in quanto esistente, includente l’atto di esistere, fondamento assoluto di ogni essere reale. Evidentemente la posizione di Aristotele va integrata e sorpassata: è vero che lo Stagirita sembra interessarsi, a differenza di Platone, di ciò che esiste,  ma in realtà la sua metafisica si comporta come se il problema dell’esistenza di ciò che esiste non si abbia a porre.  Naturalista, Aristotele parte dal concreto; metafisico, sembra  dimenticarsi della pluralità degli individui viventi e divenienti e rifugiarsi nell’essenza immutabile, una ed identica  a se stessa. Ma vi è in questa posizione essenzialista una verità  che non va perduta, comune a Platone e ad Aristotele: una  inclinazione naturale spinge il pensiero a ciò che è puro e  semplice, al di sopra della molteplicità e della mutabilità  delle cose, al distacco dall’accidentale diveniente, condizione  per cogliere ed intendere ciò che ogni ente è. L'esigenza è  platonica ed è aristotelica, ma in Platone ha un senso speculativo che manca o almeno è diverso in Aristotele: intendere ciò che una cosa è, coglierne l’essenza, è penetrare  la sua intimità, la verità definitiva che l’esistenza manifesta.  Se poi questo linguaggio platonico lo traduciamo in quello  del platonismo cristiano di Agostino, in cui la intimità si  traduce nei termini della interiorità e la verità in quelli del  vero come forza operante, attiva e creatrice e ancora unificante, il concetto di essenza si arricchisce di un significato  dinamico e, come verità, si traduce nei termini della spiritualità. L’essere concreto è determinazione esistenziale della  sua unità vivente nella sua unità reale.   Ma a questo punto si può domandare: il problema della  metafisica è l’esistente hic et nunc, il contingente e non il  necessario, l’accidentale e non l’essenziale? Chi formula questa domanda dimentica che l’atto di esistere fonda ogni  essere reale e che l’esistente non è solo contingenza ed accidente, ma è l’esistere di una essenza. Il reale mi si presenta  come insieme di soggetti, cioè di essenze universali determinate in esistenze particolari. L'oggetto della metafisica è  l’esistente nella pienezza dei suoi elementi, di cui l’essenza  è intelligibile; dunque, una metafisica che, per intenderci,  possiamo chiamare esistenziale, non può non porsi questo  problema, in quanto il problema dell’eidetica o dell’essenza  porta immanente, costitutivo ed essenziale, l’altro dell’atto  di esistere, per il quale è tutto ciò che è. Questo discorso,  condotto con un uso di termini che riteniamo tecnico, è tuttavia bisognoso di ulteriori precisazioni.   Esistere è manifestarsi, esserci, ma è presenza di qualche  cosa, di una srruttura, di un ordine. Con l’esistere l’essenza entra nel mondo, si consolida, per dir così, in un hic et nunc, i  cui mutamenti sono non nell’essenza, ma dell’essenza. Perciò,  se è vero che l'esistente o il soggettivo è l’ incarnazione   di un'essenza, è anche vero che fo non sono il mio corpo,  in quanto esso ritiene l'essenza, ma non la esaurisce. Dunque  io che esisto, mi manifesto, per il corpo, sono più del mio  corpo, più del mio esistere, perchè sono essenza che esiste. In questo senso l’esistente, non l’esistenza, che è una  notazione universale, si distingue dall’essenza, che è concettuale e non sensibile e a cui si unisce qualcosa che la determina. L’essenza senza esistenza è universale, l'esistente è particolare; l'essenza è quod quid est, l’esistenza è quo quid est: il  nunc diveniente non ci sarebbe senza il nunc permanente, che,  a sua volta, pur essendo in sè quel che è, è reale per l’atto di  esistere. Ciò prova, non solo che il divenire postula l’essere,  ma che il divenire stesso ha un suo essere formale per cui  è-essere-diveniente. Dunque: l’esistente è un essere determinato, ma, perchè vi sia la determinazione, è necessaria l’essenza da determinare e perchè l’essenza non sia puro possibile, è necessaria la determinazione esistenziale. Ciò non  dovrebbe dimenticare nessuna filosofia che si dice esistenzialista od esistenziale (due cose molto diverse) la quale, quando si pone l’esistente come problema e lo contrappone alla pura  essenza, dovrebbe ricordarsi del nunc permanente che sottostà al r4nc diveniente e porsi dunque sempre come ontologia e non come pura descrittiva degli elementi esistenziali, quasi che l’esistente sia pura particolarità senza universalità. Una filosofia del solo esistente, cioè del solo aspetto  particolare dell’ente, non ha senso, non è filosofia (sarà descrizione empirica o fenomenistica o anche fenomenologica)  e non è nemmeno riflessione sull’esistente reale in quanto  astrae dall’essenza per cui l’esistente è. In questo senso fa  dell’esistente un’astrazione.   L'espressione di Heidegger che l’essenza della realtà umana consiste nella sua esistenza (das Wesen des Daseins ltegt  in seiner Existenz), intesa nel senso che l’esistenza è priva  di essenza, non ha senso; e non lo ha perchè non si capisce  più che cosa esista: l’esistenza senza essenza vanisce, è una  pura  possibilità , un’astrazione. Il suo manifestarsi è il  manifestarsi del suo nulla e, come tale, un niente di manifestazione e dunque anche un niente di esistenza. Gli esistenzialisti dicono che è pura libertà e temporalità, intesa la prima come l’atto della pura costituzione dell’essere dell’esistenza. La libertà, in tal modo, non  appartiene  all’esistente,  lo  costituisce : è della libertà dare la propria natura a se  stessa e con ciò farsi essenza. Dunque, precede l’essenza: noi  stessi costituiamo il nostro essere, siamo come ci affermiamo.  Qui c'è un'equazione: l’esistenza come pura possibilità è pura  libertà; ma la libertà come pura possibilità è libertà di niente perchè è il nulla di libertà. Concediamo che sia e che  siamo come noi stessi ci affermiamo. Ebbene, che significa io   sono  come mi affermo,  mi do un’essenza  ? che sono io  a farmi uomo, liberamente? che potrei anche non farmi  uomo? Parole senza senso. Se mi potessi liberamente fare  uomo, non mi farei uomo per il semplice fatto che sarei  Dio! E neppure Dio, dato che posso anche farmi  liberamente  non-uomo; e Dio non può fare che un uomo non sia uomo, appunto perchè è libertà autentica e non l’Assurdo. Esistenza e libertà, come sono concepite dall’esistenzialismo, sono esistenza assurda e libertà assurda. Inoltre, se  noi  siamo come ci affermiamo  significa che l’esistenza come  possibilità o libertà dà a se stessa le sue specificazioni, cioè  la sua essenza, qui  essenza  evidentemente vuol dire altro  da quel che è il senso tecnico del termine e cioè: l’esistenza  ora si dà una determinazione, ora un’altra essendo infinita  possibilità. In tal modo, l’essenza è essa il particolare, la determinazione, e l’esistenza, possibilità infinita, l’universale:  si sono cambiate le carte in tavola e si crede di aver vinto la  partita. Ma ogni determinazione è contingente; come tale  non è essenza; per conseguenza l’esistenza, anche determinandosi, non si essenzializza e dunque resta vuota; si nega  sempre come esistenza, non esiste perchè non è. E che sia  così appare chiaro dall’altra equazione esistenzialista di esistenza e temporalità: il divenire temporale s’identifica con  l’esistenza, che non è altro che il suo processo temporale; dunque l’essenza dell’esistenza è la temporalità, che è come dire:  l'essenza dell’esistenza e la sua contingenza, cioè il suo stesso  esistere! Fenomenismo assoluto e inconcludente. E così torniamo sempre allo stesso punto dell’esistenza che non è, che è il  nulla di essere. Giustamente osserva il Maritain nel suo Court  traité de l’existence et de l’existant (12): se voi  supprimez l’essence, ou ce que pose l’esse, vous supprimez du  méme coup l’existence ou l’esse, ces deux notions sont corrélatives et inséparables, et un tel existentialisme se dévore  lui-méme. Esasperare l’antinomia di essenza ed esistenza, al punto da rendere l’una esclusiva dell’altra, è ste   Nella stessa pagina il Maritain distingue tra  esistenzialismo autentico ,  che  affirme la primauté de l’existence, mais comme impliquant et sauvant  les essences ou natures, et comme manifestant une supréme victoire de l’intelligence et de l’intelligibilité ; ed esistenzialiimo apocrifo , quello di  oggi, il quale  affirme la primauté de l'existence, mais comme détruisant ou  supprimant les essences ou natures, et comme manifestant une supréme défaite  de l’intelligence et de l’intelligibilité . Un’ontologia completa, osserva il Girson rilizzarle entrambe senza risolvere niente. L’esistenza di Kierkegaard, a volte, è l’astrazione di un’astrazione.   A chiarire meglio questo punto soccorre la considerazione  dei termini nel loro rapporto e distinti nel loro uso metafisico e logico.   L'essenza (0dcia ) è ciò per cui un essere è quello che  è. Metafisicamente è ciò che forma il fondo dell’essere; logicamente o concettualmente è l’insieme delle determinazioni che definiscono un oggetto di pensiero (Ar., Met., VII,  7, 1032b). Ci sembra evidente che il significato metafisico non  esclude l’esistenzialità dell’essenza, tanto è vero che essa,  così intesa, da alcuni pensatori è posta nell’universale, da  altri nell’individuale. Infatti, l’essenza come ciò che è il  fondo dell’essere, per ciò stesso, non è tutto l’essere sia  perchè esclude gli accidenti, sia  e questo è più importante  perchè l’essere metafisico importa l’atto di esistere, è l’essere che è. In questo senso l’essere è il fatto  di essere o esistenza: esiste  altrimenti non potrebbe esistere un solo momento  per l’essere, ma è un fatto di  essere in quanto è atto di esistere . Evidentemente l’ente  finito riceve tutto quello che ha di reale e di vero dell’Ens  reale, dell'Essere perfetto ed infinito, il solo la cui essenza  implica necessariamente l’esistenza: Ens ex cujus essentia  sequitur existentia, secondo la definizione che il Leibniz ha  dato di Dio. (Perciò, a rigor di termini, solo l’Ens reglissimum è l’Ente concreto, essendo gli altri esseri  astratti   da Lui e postulanti il principio che li fa essere, per cui di  ogni altro ente si può dire: ens ex cujus existentia sequitur  essentia). In breve, non vi è essere reale che non sia esistente: esistente da sè, Dio, l’Ens realissimum, o esistente da  altro, gli esseri finiti; ma nell’uno e nell’altro caso l’essere e    (L'étre et l’essence, Paris, Vrin, 1948, 234) non può concepire l'esistenza  come tale, nè eliminarla.  Une philosophie qui ne renonce pas au titre de sagesse devrait occuper à la fois ces deux plans, celui de l’abstraction, et celui .  de la réalité  (ivi). l’esistenza sono il fatto di essere, dove essere ed esistere non  si oppongono. A definir l’esistenza non basta la sua astualità, ma è necessaria la permanenza, in quanto nel passaggio, come abbiamo detto, da questo ente  a  nonquesto ente  permane l’essenza. Perciò essere-esistenza, come il fatto di essere, non solo si oppongono all’essenza (come il fatto di essere alla natura dell'essere), ma anche  (nota il Vocabulaire del Lalande alla voce Existence) al  nulla, come l’affermazione alla negazione. Infatti, se affermo che un essere è, non posso nello stesso tempo affermare che non è. È, come sappiamo, l’identità, scaturiente dagli stessi contrari dell’esperienza.   Da quanto abbiamo detto si conclude: 4) l'esistente non  è il mero particolare, ma è l’essere determinato e, come tale,  reale, in quanto l’atto di esistere lo fa reale; 4) come essere  determinato è universale esistente e dunque permanente  nelle sue mutazioni; c) come ente che è, importa l’esistenza,  in sè e da sè (Dio), da altro (enti finiti); 4) l’ente così concepito (essere esistente o essenza determinata) è l’oggetto  della metafisica, la quale, da un lato lo intende come essenza  o concetto (eidetica), non più come esistente bensì come essenza desistenzializzata e, dall’altro, risale dall’ente che è  all'atto di esistere, fondamento assoluto di ogni essere reale;  e) di fronte a questo problema, la metafisica non cerca più  di definire il reale, di coglierne l’essenza o il concetto, per  cui il reale è giudicato, compito assolto dall’eidetica, ma  si sforza di cogliere il reale che è insieme nunc permanente e nunc diveniente, essere esistenziale; f) in quest’ultimo punto la metafisica si pone il problema supremo  dell’atto dell’esistere, il problema della  consistenza  dell’esistenza ed è metafisica esistenziale, cioè che non si appaga  più della razionalità della pura forma, ma, senza prescindere  da essa, si sforza di cogliere l’essere come reale, di rispondere non più alle esigenze della sola ragione, ma a  quelle dell’esistenza concreta, alle istanze che l’essere esistente  in quanto essere e in quanto esistente  pone come universalità determinata o come particolare esistere di  un'essenza universale; cioè pone come soggetto integrale,  completo. Può rispondere la metafisica a questo problema?  Cosa importa l’inoggettivabilità irriducibile del soggetto?  Col problema dell’esistenza, così impostato, in che rapporto  sta quello che oggi si chiama l’esistenzialismo ? Contro quale  concezione dell’esistenza o filosofia esso protesta? Cerchiamo  prima di rispondere a queste ultime domande. L'’esistenzialismo  quali che siano le sue forme  è  una filosofia dell’esistenza o meglio dell’esistente e vuol essere  una metafisica esistenziale, cioè si pone come problema non  l’essere in quanto essenza od oggetto, ma in quanto soggetto, singolarità e soggettività; per contro non è una filosofia della pura forma, dell’essenza desistenzializzata, oggettiva e concettuale. Esso dunque, contrappone la filosofia  detta  esistenziale  a quella detta  speculativa  o  essenzialista  come contrapposizione dell’essenza all’esistente, dell’oggetto al soggetto, dell’universale astratto al singolare concreto. In questa contrapposizione chiede alla filosofia speculativa o concettuale di dare una risposta  se può  alle  istanze del soggetto, al grido del singolo, come oggi si dice  per drammatizzare il problema e colorirlo con il linguaggio  della poesia. Perciò l’esistenzialismo è la rivolta contro la  filosofia dell’essenza, del concetto trasparente, della ragione  cristallina che ordina e sistema forme, contro l’eidetica e qualsiasi aspetto della realtà spirituale che si presenti nei termini della razionalità pura, conclusa, definitiva e definiti  vamente definiente.   È contro la scienza che, pur definendosi conoscenza del  fatto concreto, prescinde, come pura conoscenza scientifica,  dall’esistenza di un mondo esteriore, tanto che si può avere una descrizione scientifica della natura, senza che mai si  ponga, dice Eddington, la questione di attribuire all’universo  fisico quella proprietà misteriosa che si chiama  esistenza ;  d’altra parte, si costruiscono ontologie, senza che il concetto  di esistenza vi abbia importanza alcuna. Sembra che corrisponda ad una esigenza naturale e spontanea della ragione  assimilare le essenze e classificarle, eliminare l’esistenza, ostacolo alla concettualizzazione del reale. Da Parmenide in  poi, ogni filosofia è come se abbia avuto sempre inizio dalla  paura dell’esistenza e riposto la saggezza nella liberazione  da essa: riposare nella pura essenza, in un cielo immobile  di forme assolute nella dimenticanza totale dell’esistenza  inintelligibile. La filosofia è nata come svalutazione dell’esistente molteplice contingente e rifugio nella contemplazione  dell'essere in sè. L’esistente è il non-essere; l’esistente, per  la ragione, non è. In questo senso, la filosofia si è preoccupata più della felicità della ragione che di quella dell’uomo  pretendendo, nello stesso tempo, di far coincidere perfettamente la felicità di quest’ultimo con quella della prima.  Ma, intelligibile o no (ed è qui una delle ragioni dell’esistenzialismo) l’ineliminabile problema dell’esistenza s’impone in ogni forma di attività spirituale, scientifica od artistica, filosofica o religiosa; soprattutto s'impone per la meta-.  fisica, in quanto s'inserisce profondamente nella sua stessa  struttura. La metafisica come eidetica non può non seguire  l'inclinazione naturale della ragione di stabilire, in base al  principio di contraddizione, rapporti tra le essenze e le loro.  proprietà; non può non desistenzializzare l’essere, renderlo  esistenzialmente neutro al punto che sia indifferente al suo  concetto l’esistere o il non esistere, tanto da definirlo come  ciò che è identico a se stesso. Ma d’altra parte non può non  tener conto degli esistenti, della relazione tra un esistente e  un altro, non più trasparente, come nel caso delle essenze,  in quanto, nelle questioni di fatto, è possibile il contrario.  senza che implichi contraddizione, a differenza che nelle relazioni tra le idee, .che il solo principio di contraddizione  basta a giustificare; e soprattutto non tener conto del problema fondamentale dell’esistere per cui l’esistente è tale.  Tra l’essere come pura essenza e l’essere esistenziale non solo  sembra stabilirsi un’opposizione, ma addirittura instaurarsi  un conflitto: l’uno diventa la negazione dell’altro. È l’astrattezza di una metafisica come pura eidetica, o di una filosofia che riduce l’essere alla sola esistenza.   Infatti nel primo caso, la metafisica non può definire  nemmeno l’essere come essere. Platone avvertì chiaramente la  difficoltà nella teorica dei Generi supremi del Sofista (come  nel Parmenide aveva avvertito le aporie del rapporto tra  l’év e i ro), dove rileva che il Medesimo (taòdtov) è anche il Diverso (èresov ) in quanto, proprio perchè è il  medesimo , è diverso da ogni altra cosa. D'altra parte,  come osserva ancora acutamente il Gilson, l’étre ne peut  se réduire à l’identique sans se dévolouer lui méme en tant  qu’étre, car è partir du moment où cette réduction s’opère,  il dépend du mèéme comme de sa condition, et, par conséquent, il s’y subordonne comme la conséquence au principe . L'essere non è più la nozione prima, ma come principio intelligibile si subordina ad un altro anteriore che intelligibile non è. Plotino, infatti, colloca l’Uno al di là dell’essere (come Platone vi aveva posto il Bene), al di sopra  di ogni razionalità, trascendente ogni forma di conoscenza;  in tal modo l’essere soffre esso stesso della inconcettualizzabilità dell’esistenza. Sono i limiti esistenziali che l’esistenzialismo pone alla filosofia della pura essenza o dell’essere  identico a se stesso.   Tali limiti, fin dalle origini, l’esistenzialismo fece valere  contro la Ragione hegeliana, contro la dialettica dei tre  stomaci , come dice Kierkegaard. Non che lo Hegel abbia  trascurato di interessarsi dell’esistenza; anzi il Dasein è per  lui un momento ideale della dialettica, la quarta categoria  della logica dopo l'essere, il non-essere e il divenire; ma per Kierkegaard è proprio nell’onnivora dialettica il peccato  d’origine della hegeliana filosofia speculativa. Niente, per  lo Hegel, è al di sopra o al di fuori della Ragione universale, la quale adegua interamente e perfettamente il reale.  La conoscenza è la Ragione, che è il Sapere, il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male (come scrive  lo stesso Hegel nei Vorlesungen tiber die Geschichte der  Philosophie), il principio generale di ogni filosofia. La legge  della hegeliana Ragione è quella del serpente, che provocò  la caduta di Adamo: tutta la sua realtà è la storia. La ragione  non è fatta per servire l’uomo, ma per assoggettarlo, come  la Storia non è fatta per l’uomo, ma l’uomo per la Storia.  Anche nei contemporanei epigoni dello storicismo questo  concetto negatore della persona è stato gelosamente conservato, anzi  umanisticamente  perfezionato. Lo Hegel parla  spesso di esistenza (Dascin) ed anche di esistente (Seiende),  proprio negli stessi termini in cui oggi, per esempio, ne parla  Heidegger, cioè di un essere finito, gettato, abbandonato,  ma gli nega qualunque diritto in sede filosofica: la filosofia  dell’Idea, come tale, non riconosce il  finito come essere  vero . I lamenti e le grida dell’io sono sterili pianti sentimentali, di cui l’Io non può tener conto se non come del  negativo, di fronte a cui lo Spirito non indietreggia, anzi vi  s’installa dentro, in quanto conquista la sua verità proprio  nell’assoluta negatività, la sua vita inserendosi dentro la  irrealità  della morte. Lo Spirito che si colloca nel negativo,  come si legge nelle prime pagine della Phénomenologie des  Geistes  trasforma il nulla in essere . È precisamente contro questo  potere magico  (Zauderkraft) di risolvere violentemente  e dunque di dissolverlo  l’esistente-negativo  nello Spirito-Positivo che si ribella la filosofia esistenziale.  Essa protesta che non vi è risoluzione dell’esistente nel Positivo assoluto, che l’esistente ha il diritto d’interrogare la  filosofia speculativa e di gridarle in faccia le sue sofferenze;  che non vi sono  passaggi  dialettici, ma  salti  scandalizzanti la ragione. L’infelicità e il dolore dei personaggi della tragedia greca non sono intelligibili , come dice lo  Hegel, in quanto la necessità di ciò che loro accade appare come la razionalità assoluta, ma, contro e al di sopra di ogni  razionalità, permangono infelicità e dolore incomprensibili  per la ragione, per essa  non veri , ma non perciò  non  reali . Di qui la rivolta di Kierkegaard, la rivolta dell’ angoscia  contro la  ragione speculativa , il mo dell’esistente  contro il sì assorbente dell’Idea. L’esistente mette in discussione la filosofia e cita in giudizio l’onnicomprensiva  conoscenza razionale, affinchè si rassegni ad ascoltare che  cosa pensi di essa, per dirle che si rifiuta d’  immaginarsi felice  come richiede la Ragione universale; che non  intende, imaginandosi tale, di diventare un mito; che si  appella, malgrado la ragione, all’Assurdo. Obiezione fondamentale questa dell’esistente: la ragione non si trova sulla  stessa linea della realtà, costruisce un uomo che non è l’uomo, per cui la categoria del pensare risulta diversa da quella  del vivere. Per la ragione è un mito l’esistente finito ed  implorante; per il singolo è un mito la ragione universale  e soddisfatta. È un mito la Ragione  l’Idea o l’Essenza   o è un mito l’esistenza, il mondo delle cose e degli uomini?  Una risposta che riconoscesse la miticità di uno di questi  due mondi non sarebbe tale, ma la catastrofe definitiva, un  decreto oscuro e silenzioso di morte.   In questo conflitto tra filosofia speculativa ed esistenziale, che abbiamo colto all’origine (quantunque esso non  nasca con la polemica anti-hegeliana di Kierkegaard, ma  abbia natali più vetusti e non meno nobili, almeno nella polemica Abelardo-S. Bernardo  dei dialettici e degli antidialettici  e poi in quella Pascal-Descartes e, sotto certi  aspetti, nelle altre Illuminismo-Rousseau, Kant-Hamann e  Jacobi, ecc.) la filosofia esistenziale pone delle istanze che  meritano la migliore attenzione, anche perchè esse servono  a riportare in primo piano quella metafisica che sembrava morta e sepolta e lo sembra ancora oggi ad alcuni superficiali pseudo-filosofi italiani e anglo-americani; a ridare dignità filosofica e senso teologico a quella trascendenza che  l'immanentismo aveva creduto di aver definitivamente dissolto; a chiarire, su basi rinnovate, i rapporti tra filosofia e  religione e a cercare nella morale  che è pratica ed è teoria,  azione e pensiero  la soluzione dei problemi della metafisica  stessa. Perciò noi che abbiamo criticato, a volte anche aspramente e continueremo a criticare certi atteggiamenti sterili,  di maniera, pseudo-filosofici e decadentisti di cui abbonda la  letteratura esistenzialista, siamo pronti a riconoscere l’importanza che ha l’esistenzialismo come momento della filosofia  contemporanea; ma prima di accennare al nostro punto di  vista sul tema del nostro discorso, riteniamo necessario precisare alcuni punti dentro l’esistenzialismo stesso.   Innanzi tutto esso deve decidersi se vuole essere una filosofia dell’esistente o una filosofia dell’esistenza. Il Berdiaeff,  nelle Cinque meditazioni, ha già osservato che, a differenza  della kierkegaardiana, quelle di Heidegger e di Jaspers sono filosofie della o sull'esistenza; la Bespaloff (Cheminements et Carrefours) lamenta che la fenomenologia esistenziale  sous la responsabilité d’un Gabriel Marcel, d’un Heidegger, d’un Jaspers, opère insidieusement une manoeuvre   ui lui rend la terre ferme: l’existant s’efface et cède la place  à l’Existence ; più recentemente il Fondane (Le lundi existentiel et le dimanche de l’histoire) afferma che una filosofia dell’ Esistenza non è e non sarà mai una filosofia esistenziale, car c’est précisément è l’existant seul  qu'il appartient de faire connaître son point de vue; à lui de  decider ce qui est negatif et ce qui est positif... . La distinzione è esatta e fondamentale: una filosofia dell’Esistenza non è una filosofia esistenziale, in quanto l’esistenza  è ancora un astratto, una nozione concettuale; una filosofia  esistenziale non può non essere che filosofia dell’esistente.  Resta a vedere fino a che punto essa sia possibile, in quanto filosofia; se quella che la Bespaloff giudica una  manovra   insidiosa della fenomenologia esistenziale di Marcel, Heidegger e Jaspers, non sia invece una necessità intrinseca alla  filosofia, che, in quanto tale, è bisognosa della  terre ferme . Resta confermato, per ora, che una filosofia esistenziale non può essere che filosofia dell’esistente, ma permane ancora aperto il problema se non sia costretta ad oltrepassare se stessa.   Già come ausilio alla risposta ci soccorre la seguente considerazione. Filosofia dell’esistente, colto soltanto nella sua  finitudine, sofferenza e contraddittorietà? Ma l’esistente così  concepito è ancora il negativo, il nulla? È il niente che  pone  il positivo? In tal caso, si è negata la positività dell'esistente; e del 24//a non vi è problema nè soluzione. La  stessa obiezione che si può muovere allo Hegel  il NonEssere come Non-Essere non può costituire termine di antitesi (se ne accorse Platone nel Sofista, dove stabilì la  zoweviz tra l’Essere e il Non-Essere)  si può ritorcere  contro l’esistenzialismo: dell’esistente come negativo non c’è  discorso, per il fatto che è negativo. Di qui la necessità di  tener fermo quanto abbiamo chiarito precedentemente: l’esistere è l’esistenzialità di un’essenza: dalla ontologia non si  può prescindere, altrimenti si prescinde... dall’esistente stesso! Di qui l’altra necessità di non poter fare a meno della  filosofia speculativa, anche se questa non può bastare. Kierkegaard alla dialettica hegeliana, la quale conclude al  non  riconoscimento del finito come essere vero , oppone l’angoscia e dice che essa precede la logica, il particolare l’universale, l’esistente l’Esistenza. Ma a chi si appella l’angoscia  se la ragion vien dopo o non viene mai o è venuta prima  e non ha saputo rispondere? A chi grida? L’esistente interroga la ragione e dice quel che pensa di essa: benissimo;  ma con che cosa l’esistente interroga la ragione e dice quel  che ne pensa, se non... con la ragione? Dunque è la ragione  che interroga se stessa intorno al problema dell’esistente. Scartata la ragione, la filosofia non è più tenuta a rispondere ed è inutile quanto ingiusto protestare contro di essa.  Non la ragione deve. pronunziarsi sull’esistente, ma l’esistente sulla ragione, dicono gli esistenzialisti. Per dire che  cosa? Che la ragione non deve sopprimere l’esistente, non  assoggettarlo, non imporgli d’  imaginarsi felice ? Queste  giuste richieste possono significare solo due cose: @) porre  un limite alla ragione; 5) svalutare fino alla negazione la ragione stessa. Nel primo caso, non c’è da porre un limite  alla ragione, in quanto è essa stessa che riconosce il suo limite esistenziale e tale atto di riconoscimento è sempre razionale. Dunque, non si tratta di una presa di posizione  contro la ragione, ma di una posizione della ragione di  fronte all’ esistente, di un suo atto di sufficienza (positivo  e razionale) non autosufficiente. Non reazione dell’ esistente alla ragione, ma presa di posizione originale dell’esistente, che è ancora presa di posizione della ragione di fronte  ad un problema che non le contraddice e reclama risposta.  Nel secondo caso, così frequente in quelle forme di esistenzialismo esasperatamente irrazionalista, pronunziato il giudizio il più negativo sulla ragione, che resta da fare all’esistente? Non ha più nemmeno la soddisfazione di disperarsi, perchè niente ha più senso. Si pone come problema  eterno eternamente insolubile, che ne accumula altri infiniti,  tutti del pari eterni ed insolubili; la problematicità assoluta  adegua così l’umano sapere. Ma il senso della filosofia ha  perduto ogni senso: all’inizio non è più il problema (ammesso e non concesso che all’inizio non sia la verità, oscura  quanto si voglia, per cui è vero, come dice Agostino, che  ogni uomo cerca quel che sa) e alla fine la soluzione, ma  il problema è all’inizio e alla fine, alla fine più chiarito  come problema, per cui il compito della ricerca è quello di  concludere  ad un problema che, nella conclusione, è  più problema, più problematico di quanto non lo fosse in  principio. Ma questo è dare il problema per soluzione, confondere le lingue, anche se a volte con una perspicacia c  un impegno degni di miglior causa. Così l’ultima parola  della filosofia sarebbe la problematicità per la problematicità, che, ad esser chiari anche se non perspicaci, significa  l’inconcludenza per l’inconcludenza. Chestov, il misologo  per eccellenza, non risparmia alcuna critica rimprovero condanna alla  iniqua logica , alla  pigra e vile  ragione, a  quanti si sottomettono alla sua  ontosa schiavitù . Ma, a  questo punto, la ragione e la logica possono tranquillamente obiettare: se come voi dite (Exercitia spiritualia)  quel che più importa si ritrova al di là del limite del comprensibile e dell’esplicabile, vale a dire al di là dei limiti  di ciò che può essere comunicato con la parola, perchè ci  rimproverate? Quel che voi cercate non ci appartiene; ci  rivolgete una domanda che dovreste indirizzare ad altri.  Potete farlo, ma solo in quanto la vile ragione e la iniqua logica vi autorizzano a ciò ; ma l’esistenzialismo irrazionalista respinge proprio questa autorizzazione. Non gli  resta che il fideismo assoluto, una posizione che non è filosofica nè religiosa; o l’assoluto scetticismo, non come posizione speculativa, ma come puro stato psicologico, tanto  angosciante quanto sterile. Oppure, accettata la frattura fra  il momento morale e quello teoretico, concludere che la  logica non è essenziale alla filosofia, che deve  attraversarla ; che la filosofia è  edificante  e non vi sono di valide che le filosofie edificanti; ma edificano solo le filosofie  edificate sulla e con la ragione, anche se non soltanto su e  con essa.   Kierkegaard dice che l’angoscia rivela il nulla dell’esistente; dunque non lo rivela, tranne che l’esistente non s’identifichi col nulla e allora non c’è problema: l'angoscia che  rivela il nulla rivela anche il nulla di questo nulla. Interrogata, non potrebbe dare altra risposta; interrogante, non  ha senso che interroghi sulla negatività dell’esistente: solo  l'esistente come positivo reclama spiegazione. Quando l’angoscia svela il nulla dell’esistente, che la ragione dissimula (l’imaginarsi felice ) non pone un problema o un  limite alla ragione, ma... dà ragione alla ragione di disinteressarsi di lui. Il niente esistenziale se si pone come niente  dell’esistente è la soppressione più rigorosa del singolo che  mai ha neppur tentato alcuna filosofia speculativa. Non allora il nulla dell'esistente, ma il nulla wmell’esistente, la  félure, direbbe Le Senne; ma il nulla mell’esistente implica la sua positività, allo stesso modo che il male, come  negatività o privazione, è concepibile rispetto a qualcosa  che è. Positivo è l’essere, guesto essere, il cui  nulla   la privazione di un grado più pieno di realtà; dunque l’esistente è, è un essere, il cui non-essere o nulla è la mancanza di quel che non ha. Evidentemente la sua insufficienza gli pone il problema (di qui l’ irrequietezza  e l’ inquietudine ) della sua sufficienza, la sua incompiutezza l’esigenza naturale essenziale ed universale della sua compiutezza. Questa negatività ha un senso in quanto è l’aspirazione di una positività al suo compimento, ad un più di  essere del suo stesso essere  non ad essere un altro essere   ricerca della consistenza dell’esistente. Non si vede perchè  quest’ultimo, che tale esigenza ha avvertito più o meno  chiaramente da quando la filosofia è filosofia, debba sciogliersi in lacrime, affliggersi in interminabili ed angoscianti  lai, piuttosto che riflettere seriamente su se stesso secondo le  buone regole del pensiero e della ricerca speculativa: oggi  certo esistenzialismo è diventato una specie di nevrastenia  filosofica. O forse si vede, ma per motivi che contraddicono  all’esistenzialismo stesso: perchè posto l’esistente come negativo o votato al destino del nulla, implicitamente l’esistenzialismo accetta la posizione hegeliana del non riconoscimento del finito come essere vero; e perchè la filosofia, in  un’epoca come la nostra di spiriti decadenti, ha amato compromettersi con un linguaggio pseudo-poetico, già per se  stesso compromesso e forse ormai di maniera. Ciò non nega, anzi conferma, il merito dell’esistenzialismo di avere richiamato l’attenzione sul problema dell’esistente, interno ed essenziale alla ricerca filosofica. L’idealismo, se, da un lato dissolve il singolo nell’onnivoro Scggetto  trascendentale o nella Storia, dall’altro, pone il soggetto  stesso come principio di spiegazione e non come problema,  ma con ciò sopprime ab initio il problema dell'esistente.  Alla radice, l’idealismo è una evasione dal limite esistenziale; perciò è anche un’evasione dall’interiorità: il soggetto è sempre cacciato fuori di sè, all’esterno (la trascendentalità idealistica è essenzialmente mediazione); perciò  l’idealismo è immanenza. Dato per risolto il problema dell’esistente, posto il soggetto come principio di spiegazione e  non come esso stesso problema,  mostro  direbbe Pascal,  tutto è risolto e pacificamente spiegato. Il limite della ragione  è soppresso alla radice: tutto è incluso nella trasparenza della  Idea e nel cerchio magico della dialettica infallibile. Non c’è  motivo che il soggetto si trascenda: risolto il problema che  l’uomo è a se stesso, che bisogno c'è di Dio? (Resta ancora  la natura, ma l’uomo interessa infinitamente più all’uomo).  Dio è Ragione, Dio è il Progresso, Dio è la Scienza, Dio  è la Storia, ecc. Ponete, invece, il soggetto, il singolo, l’esistente, l’uomo, l’insufficiente, inquieto e irrequieto uomo  come problema e la trascendenza scoppia fuori come la farfalla dalla crisalide. L’esistenzialismo, contro una tradizione  filosofica imponente e agguerrita, l’ha posto; e la trascendenza è stata richiamata dall’esilio. Ma esso non ha dimenticato di essere, malgrado tutto, figlio dell’idealismo trascendentale e di Nietzsche ed ha finito almeno una parte di  esso, quella meno direttamente figlia di Agostino, Pascal,  Kierkegaard, Dostojewski, con il laicizzare la trascendenza,  col porla come un limite immanente posto dal soggetto stesso,  non accorgendosi che così dà per risolto il problema del  soggetto, dell’esistente, e ricade nella stessa posizione dell’hegelismo. Recentemente il Camus (Remarque sur la  révolte) ha distinto la sua trascendenza orizzontale  da  quella  verticale  o di Dio, che egli esclude; vedremo tra  non molto come un esistenzialismo che si rifiuti di aprirsi  alla trascendenza teologica non abbia significato. Nella rivolta contro la Ragione, ammesso per un momento e non  concesso che sia necessaria questa ribellione, c'è indubbia   Bisogna tener presente che Îla protesta kierkegaardiana in nome dell'esistente o del singolo contro la Ragione universale dello Hegel, non restò,  fin d'allora, isolata. Contro l’Idea hegeliana, la concreta realtà della natura (gli  uomini e le cose, gli esistenti particolari) è rivendicata dal Feuerbach e dal  Marx. Le istanze kierkegaardiane, mosse da esigenze etico-religiose, sono la protesta della trascendenza nei riguardi dell’immanenza; quelle del Feuerbach e  del Marx, mosse da bisogni di ordine naturalistico-economico, in nome di un  umanesimo depotenziato a felicità terrena, sono la protesta del contingente per  un immanentismo più integrale e aderente alla realtà storica dei fatti. Le due  forme principali di esistenzialismo  teologico e laico  che oggi si riscontrano  nella filosofia contemporanea si ritrovano alle origini della polemica antihegeliana,  o più esattamente di hegeliani che sviluppano alcuni aspetti dello hegelismo in  opposizione ad altri. Hanno in comune l’istanza della rivalutazione dell’esistente o del particolare; si dividono sulla questione del fine da assegnargli, cioè  sul problema della consistenza. Ciò importa fin dalle origini un rapporto equivoco  tra marxismo ed esistenzialismo, oggi diventato abbastanza palese. La questione  è complessa e non è qui il luogo di trattarla adeguatamente; ma è opportuno,  anche nei limiti del nostro tema, qualche chiarimento.   Porre il problema dell’esistente è porre il problema della trascendenza: il  soggetto posto di fronte a se stesso come un problema da spiegare, rimanda ad  altro, pone l’esigenza dell’altro. Di fronte a questo problema l’esistenzialismo ha  assunto due posizioni fondamentali: 4) l’altro è Dio, è l’Altro, l'assoluto Altro  (trascendenza teologica): 5) /’altro è il trascendente, che non è il Dio della  religione, ma il limite dell’esistente, posto dall’esistente stesso, dalla sua finitudine (trascendenza esistenziale). Per il marxismo l’altro dall’esistente è l’altro  uomo: l'uomo si sacrifica all'uomo. L'uomo, per Feuerbach, è fine a se stesso  e il suo fine è la propria felicità; ma l’io può realizzare il suo fine in quanto  ha un #, un d/tro con cui entra in rapporto acquistando coscienza della propria umanità: l’io è tanto più se stesso quanto più partecipa, nel rapporto con  l'altro, dell'umanità che è presente in lui. Anche per il Marx l'altro dall’io è  l’altro uomo: l’uomo è l'avvenire dell’uomo, come ha scritto un poeta marxista  francese contemporaneo. La solidarietà dei lavoratori è l'umanità di Marx:  ogni lavoratore è tanto più se stesso quanto più aderisce, si assimila alla  classe , alla  massa  dei  compagni . Il  rovesciamento della prassi , con la conseguente eliminazione del capitale privato e l'avvento dello Stato socialista, renderà  reale quella condizione di  felicità collettiva  nella quale l’uomo è tutto per l’uomo. La struttura economica, la sola che meriti questo nome, creerà (si tratta,  per Marx, come è noto, non di intendere il processo storico, ma di cambiarlo  con la rivoluzione : la filosofia non deve più limitarsi ad interpretare il  mondo ;  ora si tratta di cambiarlo ) la nuova società non più afflitta dalle mente la consapevolezza di una totalità, di un Assoluto nella  cui aspirazione l’esistente consiste , in cui si riassume,  si ricapitola in una presenza totale. Di fronte a questa consapevolezza :/ resto è un niente, che l’esistente può, si sente  di sacrificare; ma c’è il sacrificio del resto, solo in quanto  bb ® . c'è il Tutto che chiama. Bisogna vedere le cose alla luce  della morte, come dice Platone; ma la morte non è la notte    sovrastrutture della morale e della religione borghesi.  Nella prima posizione  esistenzialista c'è una trascendenza autentica; nella seconda una pseudo-trascendenza; nella posizione marxista l’immanenza assoluta. La prima e l’ultima  sono, da questo aspetto, incommensurabili; la seconda c la terza differiscono  in quanto l’una si rifiuta di ridurre tutti i valori a quello economico e s’illude di  poter salvare ancora i valori morali e una certa vaga religiosità. Nel loro rapporto vi è un duplice equivoco: 4) da parte del marxismo quello di credere di  poter risolvere il problema dell'esistente (e gli infiniti problemi che pone l’esistente-uomo in quanto tale) solo con la  giustizia sociale  identificata con la  struttura economica, senza tener conto dell’infinita ricchezza delle esigenze dello  spirito, per soddisfare una sola delle quali ogni uomo, se veramente posto di  fronte a se stesso, sarebbe disposto ad accettare la più pesante schiavitù economica; è) da parte dell'esistenzialismo laico l’altro d’illudersi di avere rotto il  cerchio della dialettica hegeliana conservando la pregiudiziale immanentista e di  salvare quei valori che il marxismo rigetta accettando la stessa pregiudiziale.  Indubbiamente il marxismo è più coerente: se c’è immanenza, sia radicale;   liberiamo  l’uomo da ogni norma che lo trascende e soprattutto da Dio. E’  evidente che l’esistenzialismo della trascendenza non teologica lo è a metà:  porta in prima linea il problema dell'esistente e poi si rifiuta di seguire il filo  della ricerca fino al punto a cui mette capo, cioè alla trascendenza teologica.  Permane però il pericolo di approdare. Di ciò si sono già accorti i marxisti  integrali e denunziano (vedi la costante polemica nella rivista comunista francese La Pensèc) l'equivoco di un esistenzialismo marxista: l’esistenzialismo, anche  se si proclama ateo, è sempre un forma di misticismo: gli appelli della ‘persona  umana fanno pensare, quasi istintivamente, ad un qualunque Dio che li possa  ricevere; dunque esso non può essere marxista, in quanto non guarisce, anzi le  alimenta, le  superstizioni  religiose, le evasioni illudenti dal terreno mondo  degli uomini. Il marxismo, invece, è il vero  umanesimo , anzi è il solo che sia  tale, perchè il solo che punta sull’esistente, lo completa nella legge umana del  lavoro e l’appaga nella felicità terrena.   Ma è proprio qui che si rivela l’equivoco di un marxismo come filosofia  dell'esistente. E' esistente l’uomo depauperato delle cosiddette sovrastrutture e  ridotto alla sola struttura economica? E, a parte questa detonalizzazione (immiserimento) della persona umana, l’esistente così concepito costituisce un problema? Perchè l’uomo diventi problema  insieme di problemi  fino al punto  da mettere la ragione in stato d’accusa e di gridare in faccia alla logica che  egli ha dei problemi che essa da sola è inetta a risolvere, deve porre delle istanze  che lo oltrepassano  che oltrepassano l’uomo in generale  che, dunque, si  pongono al di là e al di sopra della società, della storia, dell'economia, della  terra. Se i problemi del soggetto avessero potuto essere risolti nell’ambito del’  soggetto stesso o della classe, non sarebbe mai sorto un problema dell'esistente oscura senza fondo solo in quanto la illumina la speranza  dell’ immortalità e la gloria in Dio. Il sacrificio  del resto  per l’ Eterno è il disincanto dal contingente molteplice, la garanzia assoluta dalle illusioni deludenti. Nella  negazione del resto è implicata l’affermazione di un  Valore assoluto, la trascendenza al soggetto, quella  verticale , la sola per cui trascendo la piccola grande storia della    x    così com’è posto dall’esistenzialismo contemporaneo e come è stato sempre posto  nei suoi remoti o prossimi antecedenti storici. L’economismo e l’immanentismo  marxista sopprimono alla radice il problema della persona e la persona come  problema; tutto vi è risolto come nella dialettica dello Hegel.   Sopprimono la persona senz'altro. E qui è necessaria un’altra considerazione.  L’esistenzialismo si proclama filosofia dell'esistente, ma lo coglie nella sua negatività, in quel che ha di non-essere, quando non lo identifica addirittura col  nulla; esso strappa l’esistente alle fauci della dialettica della Ragione universale  per porlo di fronte al suo nulla, mutolo nell’angoscia di un peso enorme di  problemi. In questo senso, l’esistenzialiimo è la filosofia del non-esistente, in  quanto l'esistente è positività, sostanza; è la filosofia del fallimento dell’uomo.  Il mondo moderno, così impregnato di umanesimo laico e cristiano, non si rassegnerà mai a questa svalutazione della persona, alla sconfitta dell’uomo e in  partenza vi si oppone. Da questo punto di vista l’esistenzialismo è  anti-moderno , anche se dopo tante esaltazioni della mondanità e della vita esso sia  stato buon correttivo, quasi il conficcarsi nelle nostre floride carni del dente  avvelenato dell’ironia; il ripiegamento sul momento della riflessione sia pure  smorzata da un permanente stato  poetico . Il marxismo, da parte sua, filosofia dell'uomo per l’uomo, dell’uomo che si colma sulla terra, spinto dalla  logica inesorabile del materialismo dialettico, conclude all’annullamento della  persona nella opacità compatta e spessa della  massa  e nell’onnipresenza dello  Stato. Conserva la più rigorosa  mondanità , ma proprio perchè rigorosa, dimezzata dell’altra metà, da quella che sporge fuori e al di sopra di questo  mondo. Due filosofie dell’esistente che concludono alla sua nientificazione, che  colgono l’esistente nella sua negatività, nell’involucro esterno e vuoto perchè  mancante del pieno della  consistenza .  Contemporaneo , invece, il Cristianesimo, non contraddice alle esigenze fondamentali dello spirito: positività questa  vita, positivo l’esistente tanto che si salva nell'altra vita. E' la sola  mondanità   significante. Vi è nell’esistenzialismo un aristotelismo alla rovescia: quel che  conta è l’esistente, l’individuo, ma l'esistente non è reale, è il negativo. E’ un  agostinismo antiagostiniano: l’uomo è finito, misero, infelice, ma senza speranza: non si redime, accetta il suo destino. Aristotelismo antiaristotelico e platonismo antiplatonico il marxismo: reale è l'individuo, ma è reale nella compattezza della massa, quale dente della macchina statale o del Partito. La cordizione presente dell’uomo è proiettata in quel che sarà, la sua felicità è in un  futuro immancabile, ma questo futuro e questa felicità non sono in un dltro  mondo. Conobbe ed insegnò la verità S. Francesco nella lode di tutte le creature, beni positivi in quanto creature dell'Amore divino e assetate d’amore per  il Creatore. L'alternativa immanentistica, o Dio o io, o c'è Dio e io sono nulla  o non c’è Dio ed io sono tutto, si compone nell’altra: io sono perchè Dio è;  io sono innovatore perchè in Lui m’innovo. mia anima, tutta la storia. Dopo tanta orgia di immanenza,  dopo tante norme esteriori ed esteriorizzanti e perciò sterilizzanti della vita spirituale, dopo tanti universali mondani   dell’economia e dell’arte, della storia e della politica   la trascendenza  e la solitudine  esistenzialista sono  state, se non altro, un energico richiamo e un salutare risveglio. Ma niente più di questo, in quanto l’uomo non è  soltanto singolarità, ma anche universalità di essenza, di ragione, di verità. Prima di essere singolo è uomo e non è  singolo se non è uomo. La sua verità è anche verità degli  altri, deve esserlo: è la sua responsabilità suprema; e la  verità è ricchezza e la ricchezza del signore è generosa ed  umile: accetta i doni e li ricambia. Nella verità, che è mia  perchè di altri, gli uomini realizzano l’unica consistente ed  indissolubile solidarietà. L'affermazione di un valore non è  mai individuale: chi si sacrifica per esso, si sacrifica per  l'umanità intera. Nell’essenza della singolarità e di essa  costitutive vi sono una universalità ed una solidarietà metafisiche. Al punto in cui abbiamo condotto il nostro discorso, una  prima conclusione appare evidente: non si tratta di negare  la filosofia  o è anche razionalità o non è  ma di  vedere come essa possa e debba giustificare l’ esistente, se  e come possa avviare il problema alla sua adeguata soluzione. Anticipiamo quella che sarà la conclusione di que  ste pagine: il punto di partenza della filosofia non può essere che la ricerca razionale ed è esigenza naturale della  ragione e dunque dell’uomo cogliere la razionalità del reale;  e la razionalità filosofica, il conoscere, è il concetto, l’universale. Basta all’uomo la razionalità? Meglio: esaurisce essa  la problematica filosofica? No, tranne che per un razionalismo assorbente, astrattizzante, cieco di un occhio. Pascal. lo obiettò a Cartesio (se a torto o a ragione qui non importa stabilire): il cuore ha delle ragioni, che la ragione  non conosce ;  l’ultimo atto della ragione è di riconoscere  che molte cose la oltrepassano . Non ho accostati a caso i  due frammenti, ma in quanto l’uno non può stare senza  l’altro: la ragione non conosce le ragioni del cuore, ma  conosce ( riconosce ) che ci sono e la oltrepassano. Il problema delle ragioni del cuore è posto dunque dalla stessa  ragione, è razionale come problema, anche se la soluzione è  super-razionale, e, come tale, non irrazionale, non contraddicente la ragione. Le pascaliane ragioni del cuore prima  che pascaliane, agostiniane, e dopo rosminiane e oggi blondeliane  sono le ragioni dell’esistente, del singolo, del soggetto hic et nunc. Esse sorgono, dunque, indomabili senza  che il conoscere razionale possa pienamente rispondere, ma  senza poter fare a meno di esso e sulla base di questo stesso  conoscere; irrompono assetate di risposta, quando ogni insegnamento è finito, ma sempre dalle pagine del libro aperto  della ragione. Il problema dell’esistente nel suo significato  integrale e nel suo destino assoluto si pone al limite della  filosofia e come suo limite, ma non contro la filosofia; si  pone e con sè pone la filosofia come  apertura  alla religione. Vi è allora una filosofia esistenziale ? Sì, come  problema dell’esistente ed avviamento alla soluzione di esso;  no, come soluzione integrale, totalitaria e unitaria: filosofia  esistenziale, ma il cui fondamento, iniziale e finale, è teologico, perchè teologica è la soluzione assoluta del problema  dell’esistente. Nato dalla ricerca filosofica, sulla guida di essa  e del sapere speculativo, illuminato dall’intelligenza e dalla  ragione, per cui l’uomo è uomo, esso non può sommergermi  nella disperazione e nell’angoscia infeconde ed incomprensibili, bensì m’immerge nell’interiorità di me stesso, nel  senso autentico della mia esistenza; al di sopra di me stesso,  scopre la mia consistenza. Nato dalle viscere più profonde  della ragione e dell’intelligenza non mi getta a morire nel nulla, ma mi raccoglie integralmente nella realtà della mia  vita. Pascal all’abisso preferì la Chiesa. Cerchiamo ora di  approfondire queste anticipate, ma non inaspettate conclusioni.   Io ho quel che sono: l'avere adegua la mia esistenza e  l’essere la mia consistenza. Non posso avere senza essere, non  posso essere soggetto senza avere; e 4 chi ha sarà dato. Significa che ho bisogno di altri, che un altro mi dia; che il mio  essere è fatto da e per l’Essere, che la mia positività limitata, che in questo limite o mancanza è negatività, tende  alla Positività assoluta. È in ciascuno di noi una realtà essenziale; di essa abbiamo coscienza, che è la nostra autocoscienza. Consapevolezza di consistere, oltre che di esistere,  coscienza che siamo una realtà distinta dai nostri atti, che  la persona non è soltanto le sue azioni o le sue cognizioni.  L’agostiniano e tomistico intelligimus nos intelligere non  prova soltanto che il realismo dei due pensatori è tutt'altro  che ingenuo, ma che intelligiamo  il nostro stesso inzelligere; lo penetriamo così profondamente al punto da comprendere che il nostro comprendere (conoscere) non comprende ( non conclude ) tutta l’essenzialità del roi e sfocia  nell’interiore sapere; che il Sapere assoluto ci origina, ci  guida, ci conclude e sempre ci oltrepassa. L’autocoscienza è  censapevolezza del limite, ma come consapevolezza è già  al di là di esso. Il problema di Dio è di diritto quello dell’ultimo fine: la scienza è tendenzialmente sapienza: intenzionalmente il problema dell’universo è considerato sempre in  vista del problema della vita. Smarrire il senso del fine è  votarsi al non-senso della fine, è rinunziare alla  consistenza  per consegnare l’ esistenza  alla morte. Sed ego conabar ad te et repellebar ab te, ut saperem mortem. Tendere  a Dio è sapere la vita, per Agostino; essere allontanati da  Lui o allontanarsene è sapere la morte. Ut saperem mortem,  affinchè conoscessi la morte, perdessi la mia consistenza, facessi esperienza del nulla del mio esistere una volta privato del mio consistere, che è durare perenne, durare, senza riposo  o stanchezza, nel tendere all’Essere per cui esisto e sono;  è la libertà della mia vocazione essenziale; il mio volere totale, il senso assoluto del mio. contingente esistere. L’esistente esiste el tempo, ma non è del tempo: re-siste al giorno  che passa e alla notte che copre le cose del giorno (oppone  il suo consistere); per-siste, a causa del suo consistere e perchè  il suo stare è garantito e sorretto da un fine; per cui la temporancità si conserva nella temporalità e il tempo volge alla  eternità intemporale. L’esistente è persistente ed è persona   questa e non un’altra  perchè persiste; e persiste in  quanto consiste. Il mutamento di questo ente  in  non  questo ente  è il manifestarsi di un ente, la temporaneità di  una sostanza che dura nella temporalità, la contradditorietà  che è possibile per la identità non contraddittoria dell’essere  permanente. Il durare dell’esistente implica, dunque, successione, sviluppo. L’esistente non è perfetto ma perfettibile, dunque è incompleto in ogni stato o grado della sua  attuazione. La sua incompiutezza pone il problema del suo  compimento e nello stesso tempo attesta l’Incondizionato  (omne quod movetur ab alio movetur, secondo la formula  che è comune ad Agostino e a Tommaso). L’esistente è in  ogni momento la sua consistenza, ma in ogni momento, n07  è mai tutta la sua consistenza: la sua è un’aspirazione infinita, perchè è un’aspirazione totale. Interiorità di sè a sè,  come tale, .è interiorità di qualche cos'altro, dell'Altro, perenne sforzo d’interiorizzazione, di conquista di sè nell’Altro. La soggettività profonda non è un dato, ma il realizzarsi di se stessa, la conquista di sè nell’abbandono a Dio.  La povertà del soggetto, infinitamente arricchentesi ed infinitamente povera, è la sua ricchezza autentica. L'atto di esistere è inoggettivabile; al di là dell’essere, è  tuttavia nella linea dell’essere ed omogeneo con esso. L'’esistere, infatti, è l’atto proprio  di ciò che è; è la radice dell’essere.  Le nom méme d’essenzia que dérive de  l’esse, traduit le fait que l’essence constitue le point d’effleurement, sur le plan de l’étre objectif et concevable, de l’acte  premier en vertu duquel ce qui est, est, ou existe . Così  ancora il Gilson da noi seguito su questo punto, che ha  posto bene in luce i limiti esistenziali della filosofia, facendo, tra l’altro, notare come le nozioni di causa finale ed  anche di causa efficiente si rendono indispensabili allorchè  si pongono i problemi di esistenza. Infatti, in un certo senso,  il punto di vista della finalità resta esteriore all’ordine della  chiarificazione razionale dell’essenza, ma è, d’altra parte,  il solo che spieghi il senso di un essere e di ogni essere. Similmente nella causalità efficiente, la natura della causa  spiega l’essenza del suo effetto, ma non la sua esistenza.  Il pensiero analitico non può non spiegare da questo esistente l’apparizione di un altro esistente: se l’effetto fosse  identico alla causa, non se ne distinguerebbe e non sarebbe.  Dalla causa all’effetto vi è sempre una specie di creazione  ex nihilo,  dove qualcosa sembra sorgere spontaneamente  dal nulla . Problemi interni al pensiero filosofico; problemi  ineliminabili ed improrogabili in quanto investono le questioni della provenienza (donde viene) e della destinazione  (dove va) dell’uomo.   È necessario che, a questo punto, la filosofia entri in  conflitto con l’esistente che le pone dei problemi non rientranti nell’ordine della pura conoscenza scientifica o razionale? Il conflitto c’è stato tante volte: la filosofia ha  negato l’esistente e i suoi diritti; o l’esistente ha giudicato  in blocco la filosofia come non degna di un’ora di fatica . Conflitto che, in verità, non ha ragione di essere  e porta in sè gli elementi per essere composto. Infatti, nè  l’esistente può fare a meno della filosofia, nè la ragione  speculativa può sopprimere l’esistente, in quanto il soggetto  indomabile sbuca sempre fuori anche dal più fitto tessuto di sillogismi e dalla più rigorosa ed indifferente analisi di  essenze concettuali. La filosofia non può comportarsi come  se l’esistente non esistesse per i problemi interni che esso  le pone e per gli ostacoli che incontra nell’esplicazione della  nozione pura dell’essere. D'altra parte, l’esistente, se non  può vivere con la sola filosofia, non può del pari vivere senza  di essa. Le istanze che egli pone alla ragione e gli appelli  che le indirizza sono, in fondo, le istanze che la ragione  pone a se stessa. Dunque, vani ed ingiustificati i rimproveri rivolti ad una ragione, la quale riconosce i suoi limiti esistenziali. È la ragione stessa che guida l’ esistente, che al punto  limite lo convince a mettersi assieme in cammino per un’altra via, non contraddicente la ragione, ma che la oltrepassa e  segue metodi che non sono più quelli della pura ricerca  razionale. Al punto in cui dovrebbe sorgere il conflitto tra  la ragione e l’esistente, la buona ragione e l'esistente che non  rinuncia al lume che lo costituisce, si uniscono nell’apertura  alla religione. La problematica dell’esistente è, in definitiva,  una problematica religiosa; una fenomenologia esistenzialista  è, costitutivamente, di carattere religioso. Pertanto, a nostro  avviso, un esistenzialismo, che rigetta in partenza la risposta  religiosa che il Cristianesimo dà del problema dell’esistenza, è  senza senso, estremamente bisognoso di chiarirsi ulteriormente  a se stesso. Si tenga presente che ogni qual volta la filosofia  speculativa ha cercato o preteso di dare da sola una risposta all'esistente e ai suoi problemi, ha concluso, inesorabile, per la  loro soppressione. I tipi di saggezza platonico, anche se fino  ad un certo punto, epicureo, stoico, neoplatonico, spinoziano ecc., concludono tutti che è saggezza la liberazione  dall'esistenza: è saggio chi  ascende , dalla zona dell’esistere, all'ordine chiaro, terso e tranquillo della ragione. Risponde invece diversamente una filosofia della persona la  quale non può essere che cristiana: non sopprimendo questi  problemi, ma autenticandoli.   Essere non è solo l’essenza, anche se il termine è spesso    220 Filosofia e Metafisica       usato per indicare l’essenza; essere è essenza ed esistenza.  Identificare l’essere con la sola esistenza esclusiva dell’essenza, o con la sola essenza esclusiva dell’esistenza, è negarlo.  Una filosofia puramente essenzialista deve concludere che  l'essenza non esiste e dunque negare il reale (è la conclusione di un platonismo spinto agli estremi, alla quale non  sfugge, malgrado tutto, Aristotele); allo stesso modo una  filosofia puramente esistenzialista, ridotta l’esistenza ad una  possibilità vuota, deve concludere con la negazione dell’esistenza stessa. L’originalità del reale o dell'essere è precisamente nella unione di essenza ed esistenza: non il puro concetto nè il puro esistere sono l’equivalente del reale. L’esistenzialismo ha fatto ben comprendere l’insufficienza del puro essenzialismo, ma, l'insufficienza dello stesso esistenzialismo ci  ha fatto ancor più avvertiti che non si può prescindere dall’essenza: essenza ed esistenza costituiscono la struttura del  reale. L'esistenza è l’attualità dell’essenza (il possibile), che  pertanto va ricavata dall’esse; di qui il primato dell’esistenza  non sull’essere, ma sull'essenza zmell’essere.   Evidentemente qui sorge un altro problema: l’eidetica,  scienza del concetto o dell’essenza, come tale, riconosce che,  al di là dell’essenza, vi è l’atto di esistere inconcettualizzabile. Per conseguenza, per cogliere il reale, non si può  partire dalla pura ragione; è necessario muovere dall’uomo,  che è già cogliere il reale immediatamente, cogliere me  reale nell’atto di acquistarne coscienza. L’autocoscienza in  questo senso è giudizio esistenziale immediato, l’atto sintetico che coglie unitariamente la dualità interna della  struttura del reale. Ma ecco dal dato reale, che è il mio  essere, nascere un altro problema: quello dell’esistere del mio  essere. Qui il problema dell’atto di esistere (actus essendi)  si pone come richiesta di sapere se io sono il principio di  esso, cioè come problema del suo fondamento assoluto. Se  fossi il principio del mio esistere, sarei il creatore del mio  essere e l’atto di esistere del mio essere s’identificherebbe con l’Atto assoluto dell’esistere che fa essere ogni ente che  è: la mia essenza sarebbe identica alla mia esistenza. Ma  io non sono il creatore di me stesso; dunque l’atto autocosciente con cui colgo immediatamente il mio essere nella  sua struttura di esistenza ed essenza, pone il problema del  principio del mio essere stesso: è il problema assoluto della  metafisica, il problema teologico o dell’esistenza di Dio, il  supremo Esistente. Il principio della Creazione è indispensabile all’ontologia, che dall’interno è orientata verso la  teologia. Su questo punto la metafisica non essenzialista di  S. Tommaso sopravanza infinitamente quella essenzialista di  Aristotele. Bisogna pertanto distinguere il problema degli  esseri già costituiti (come sono) dal problema della loro  origine primale o della loro costituzione stessa, che è il  problema dell’esistenza di Dio o del principio assoluto  del reale, della sua suprema intelligibilità metafisica. Dio  l’Ipsum esse subsistens, creando, fa che l’esistenza sia nell'essenza. La metafisica di Aristotele ignorò questo problema; la metafisica cristiana, in questo senso, è una  rivoluzione  rispetto a quella aristotelica. Questo punto è fondamentale: per una metafisica dell’essenza, il problema dell’esistenza del reale non si pone; non ha senso porlo; e  perciò non ha senso porre neppure il problema dell’esistenza di Dio. L’ontologismo, a rigor di termini, non lo  pone: vedere le idee in Dio rende superfluo il mondo reale.  Questa posizione si può spingere a conclusioni che, in fondo,  le si oppongono ma da essa derivano: l’esistenza non è perfezione e non aggiunge niente all’essenza; dunque, non  solo dall’essenza di Dio non si può ricavare l’esistenza, ma  Dio basta soltanto pensarlo. È la posizione kantiana dell’agnosticismo metafisico e della pura noumenicità della  Cosa in sè (l’ontologismo critico del Carabellese è la formulazione rigorosa di essa). L’esistenzialismo immanentista,  figlio dell’idealismo trascendentale, ha eliminato il problema  metafisico dell’Atto supremo di esistere ed ha considerato l’esistenza come pura possibilità o libertà; così l’ha privata anche dell’essenza. La conclusione è inevitabile; l’esistenza resta sospesa a se stessa, senza fondamento, vuota  nel vuoto, insignificante nulla. Tali affermazioni assurde  confermano che il problema del reale va posto come problema del reale autentico che è essenza ed esistenza, il quale pone, per la spiegazione metafisica, il principio del suo  esistere, cioè il problema teologico.   E la soluzione teologica del problema dell'esistente la filosofia se la trova interna e ad essa essenziale. Metafisica per  definizione  per sua natura  la filosofia non può essere  che scienza dell’essere o della verità, nel senso più estensivo ed universale del termine. Ma, come abbiamo già accennato col Gilson, ogni essenza è l’essenza di un atto, dell’atto dell’esistere; d’altra parte, è evidente che, senza l’essenza, l’esistenza mancherebbe della sua razionalità; dunque, in  una ontologia esistenziale l’essenza è il supremo intelligibile,  il possibile che è per l’atto dell’esistere. (Un esame della dottrina del Rosmini della insessione delle forme dell’essere sarebbe quanto mai chiaritivo delle esigenze di una ontologia  esistenziale). Ma gli esistenzialisti, ad eccezione di Gabriel  Marcel, non sembra vogliano saperne di ontologia, quantunque facciano molto uso del termine; si fermano al di qua  dell’essere, alla descrizione dell’esistenza e si rifiutano di  obbiettivare l’essere, come se ciò compromettesse la sua  esistenzialità. Non comprendiamo perchè mai l’esistenzialismo debba rifiutare un’ontologia esistenziale, la quale riconosce il primato dell’esistere e, per un'esigenza interna  della filosofia e perchè l’esistere stesso possa avere un significato comprensibile sia pure come problema, accetta l’essenza come costitutiva dell’esistenza. Un esistenzialismo che  rigetta questa conclusione conserva ancora una nozione  negativa dell’esistente e distrugge in partenza il problema che lo giustifica come posizione di pensiero. L'atto di.  esistere non può essere considerato fuori dell’ordine dell’es  Concetto di metafisica 223       senza che lo determina; d'altra parte di un’ontologia esistenziale, di un universo di atti di esistere, la sola filosofia è insufficiente a risolvere tutti i problemi esistenziali che essa   ne. Una filosofia che reclama questa pretesa è la pseudo-filosofia della ragione non autentica, e tale in quanto si arroga  compiti che la sorpassano; è la filosofia del razionalismo  assoluto, della religione della ragione, cioè una pseudo-religione. L’esistente nella sua originarietà resta il problema interno della filosofia, quello che la apre alla trascendenza; un  universo di atti di esistere è già, come tale, dipendente dal  supremo Esistente. L’esistere, come abbiamo visto, importa  sempre un qualcosa di nuovo, una creazione ex mnihilo, il  cui esserci è l’evidenza sensibile  del Creatore. Filosofia  e religione, come scrive il Masnovo (La filosofia verso la  religione), non hanno lo stesso oggetto gnoseologico, ma lo  stesso termine reale di conoscenza  l’Essere unico, sorgente  di tutte le cose  il cui svolgimento è diverso nella ragione e  nell’atto di fede, senza che l’una contraddica all’altro. Il Cristianesimo rivelò l’esistente a se stesso, la persona  alla persona. I concetti dell’uomo figlio di Dio, creatura;  della dignità non-abdicabile ed insopprimibile del singolo;  del conflitto morale tra il bene e il male, al cui esito è legata  la perdizione o la salvezza; della libertà e del peccato, diedero  un senso dell’esistenza che  se il pensiero greco aveva  in parte preparato  giungeva del tutto nuovo. La vita  come dramma interiore, attrice di una lotta morale impegnativa di tutta la persona, è scoperta del Cristianesimo;  nessuna concezione incentra la riflessione filosofica sull’esistente e i problemi esistenziali quanto quella cristiana.  Tutta la filosofia agostiniana punta diritta sull’esistente e  i suoi problemi: pochi pensatori hanno problematizzato come Agostino l’esistente e vissuto con tanta intensità il dramma interiore dell’uomo. Se in S. Tommaso il senso della interiorità è men vivo, il dramma della persona è vissuto altrettanto intensamente e la sua soluzione non è diversa.  Il Rosmini, approfondendo il pensiero dei due grandi,  ha scoperto nella forma morale dell’essere il punto di  unione dell’essere possibile indeterminato con l’essere reale  determinato; la morale rosminiana è una soluzione da tener  presente dei problemi dell’ontologia esistenziale, la cui conclusione è ancora quella di Agostino e Tommaso. Oggi la  concezione dell’uomo come dramma, del soggetto come problema da spiegare e non come principio di spiegazione, è  tornata alla ribalta della discussione filosofica; al dramma  si è cercato di togliere ogni carattere teologico e si è tentato risolverlo nell’ambito dell’ordine umano: l’uomo pone  il suo problema e lo risolve da sè; ogni altra soluzione è  fittizia ed illusoria. È la conclusione di ogni forma d’immanentismo, il dogma della filosofia marxista. L’uomo il suo  problema lo risolve da sè: non c’è posto per il superfluo,  l'inutile della trascendenza. L’uomo deve sacrificarsi all’uomo (individuo, famiglia, società, Stato): è contrario alla sua  natura sacrificarsi a qualcosa che non sia umano, che lo  trascenda. L’immanentismo, di qualsiasi specie o sottospecie,  si rivolta a Dio, gli dice di no. Dunque dice di no a Qualcuno: altrimenti a chi direbbe di no e a chi si ribellerebbe?  Ribellarsi è ribellarsi a Qualcuno. L’atto di ribellione di una  parte cospicua del pensiero moderno, la sua alta protesta contro Dio, è un’affermazione di Dio. I Titani che si ribellarono a Giove, nell’atto stesso, riconobbero la esistenza di  Giove, tanto da tentarne l’offesa e da sperimentare la potenza della sua ira. Il titanismo moderno non è stato da meno,  ma siccome si è rivoltato al Dio di Cristo, ha sperimentato  l’infinità del suo Amore. La rivolta contro la metafisica,  portata alle sue ultime conseguenze critiche e corretta dalle  deviazioni acritiche, non può non risolversi che in una consapevolezza invincibile dell’esistenza di Dio, la quale è insita al dramma interiore che è l’uomo, l’esistente che, al  vertice del conoscere razionale, pone ancora il suo problema, quello della sua destinazione. Con esso è tutto il conoscere razionale che chiede la sua autenticazione in un  sapere che trascende la ragione senza contrastarle. L’esistente scopre la sua consistenza: l’esistenza degli esseri rimanda all’Essere, la radice di ogni essere, perchè radicato  nell’Essere. Vi è in tutti gli esseri una contingenza iniziale , come dice il Blondel, che li accompagna nel loro  processo evolutivo e costitutivo. Cercare la loro consistenza in  quel che hanno di fatto in un dato momento è cercarla  per  mai trovarla  nel loro aspetto esterno e non nel loro ordine  interno, nella zorma interna che li trascende, la quale  costituisce la vivente e secreta armatura degli esseri in cerca della  loro vera e completa realizzazione  (L'’Etre et les étres). L'essere-persona è capace di autosufficienza, di realizzazione completa e totale? Può erigersi ad Assoluto come singolo o come  collettività? L’esistente è tale per l’Esistente; conoscente e capace di conoscere, al limite del suo conoscere, pone se stesso  come problema; ed è questo l’atto ultimo della ragione, contenente tutti i dati per la soluzione del problema dell’esistenza dell’Esistente assoluto. All’estremo di tutte le sue  possibilità, al massimo della soddisfazione dei suoi bisogni,  è ancora bisogno, grida, come dice Hello, io ho bisogno .  Ha quel che è, ma non è tutto e dunque non ha tutto. Scopre al limite di ogni possibile ricerca, con la convalida e la  garanzia di tutto il suo conoscere e sapere, di avere un fine  che lo trascende, di tendere ad un perfezionamento che lo  oltrepassa. Il ne varietur della religione costituisce la pedana  di lancio nella possibilità della fede; non nell’ignoto, perchè la fede religiosa non è cieca, nè è un’avventura da anima  romantica. Senza essere una passione inutile , come lo  definisce banalmente Sartre, l’uomo è amore per l’Esistente, l'Altro incommensurabile. Ogni progetto di essere per  sè è perpetuo progetto di fondarsi da sè ed è perpetuo fal  226 Filosofia e Metafisica limento di esso, perchè è progetto contro la consistenza  dell’uomo, congiura che egli ordisce ai danni di se stesso,  della sua vocazione naturale, essenziale ed universale. La  tendenza all’Altro è invincibile ed è tendenza a Dio. L’esistere nel mondo non è il fine, ma la prova: Dio è il fine  di ogni soggetto. La consistenza della persona è nel rapporto con l’Essere assoluto. Aspirazione a Dio con tutti noi  stessi è consapevolezza, con tutti noi stessi, di essere incapaci da soli di attingerLo; la nostra  generosità  autentica,   coraggiosa ed insaziabile , come la chiama il Blondel, che  l’iniziativa di Dio, nella sua infinita carità e bontà, vorrà  premiare. Ma dipende da noi farci simili al cristallo, secondo  la magnifica espressione di Caterina Mansfield, affinchè la  luce di Cristo brilli attraverso di noi.  Dio si conosce meglio ignorandolo , secondo la formula della teologia mistica fatta propria da S. Tommaso, ma inconosciuto nella  sua essenza, è da noi conosciuto come e in quanto incognito.   La consistenza degli esseri ci è dunque risultata risiedere, seguendo il dinamismo interno del pensiero e senza  rinunziare o condannare il conoscere razionale, nel loro rapporto con Dio, al limite dei limiti, in un fine senza fine.  L'ultima parola della ragione è la prima della religione:  l'estremo appello dell’esistente-consistente non va rivolto alla  ragione, ma, sul fondamento della ragione, a Dio. Dunque,  a rigor di termini, non vi è una filosofia esistenzialista ,  nel senso di una filosofia della pura esistenza, ma una filosofia, come tale razionale, che pone il problema dell’esistente a faccia a faccia con la soluzione teistica, che apre  alla fede religiosa; una filosofia, che, perchè tale, è metafisica. L’esistente, nell’atto stesso d’interrogare la ragione e  problematizzarla, riceve da essa l’indicazione della via da  seguire. Non c’è materia per drammatizzare o vilipenderla;  c'è il più saldo fondamento per sperare con il suo assenso.  L'esistenzialismo è ingiusto verso la ragione per due motivi: 4) perchè essa indica la strada per la soluzione del problema dell’esistente; 4) perchè una volta che esso pone la  ragione stessa come problema, dato che la filosofia è per  sua natura imprescindibile razionalità, invano si arrovella  a mettere insieme una filosofia  esistenziale. (Ecco perchè gli esistenzialisti son capaci di profonde e sottili analisi  psicologiche   moralisti , ma non di indagini filosofiche vere e proprie). L’esistenzialismo è la crisi della  filosofia. Le sue richieste deve rivolgerle altrove, all’Altro,  che è il Qui, che la ragione stessa riconosce al suo limite;  l'istanza esistenziale ritorna sempre come istanza religiosa.  L’interrogazione dell’esistente è quella che la ragione fa  a se stessa di fronte al problema esistenziale, il suo  convergere  in Dio; dunque ancora filosofia con soluzione teistica. La inoggettivabilità dell’atto di esistere, se non rende  estranea la ragione al problema dell’esistente, la fa convinta  dell’impossibilità di risolverlo, senza che ciò contrasti con  la natura della ragione stessa. L’esistente  inesistente  nell’ordine del conoscere razionale, ma esistente  come problema-limite della ragione,  inesiste  come soluzione nell’ordine teologico, in quanto la spiegazione e la autenticazione di ogni atto di esistere è nel supremo Esistente. La  ragione non spiega tutto l’esistente, ma gli spiega come e  dove spiegarsi: è sempre la luce dell’esistente, la sua intelligenza, che l’avvia alla chiarezza totale, a Dio. Cervello  ed umanità, l’uomo: è suprema saggezza mettere il cervello al  servizio della nostra umanità la più profonda ed essenziale. Amore in una breve nota pubblicata nella rivista  Sapienza   (n. 1, 1948, 132), a proposito di queste pagine, mi osserva che, senza riescirvi,  io mi sforzo  di completare la Metafisica degli antichi Scolastici con... un po’  di esistenzialismo, cioè con il problema posto dagli esistenzialisti, non con la  soluzione che essi danno . E aggiunge:  Egli crede che il problema dell’esistenza com’è posto e risolto da Aristotele e da S. Tommaso sia di natura totalmente astratta e resti nel puro campo dell’astrazione, della essenza o concetto  dell’ente come ente, formando così una eidetica, una metafisica cioè delle pure  essenze . Francamente non riesco a spiegarmi come D'Amore, pur sempre  attento e, verso di me, benevolo lettore, abbia potuto farmi questi rilievi.  Sarebbe da parte mia uno sforzo davvero inintelligente quello di e completare  la metafisica degli antichi Scolastici con... un po’ di esistenzialismo , in quanto questo problema non avrebbe senso e perchè la metafisica della migliore scolastica per me pone il problema dell’esistenza in termini più veri e speculativamente più vigorosi che non l’esistenzialismo. La mia posizione è chiara: l’essere  non è riducibile nè alla pura essenza nè alla pura esistenza, in quanto la sua  struttura è duplice. Inoltre io non dico affatto che quella di S. Tommaso è una  metafisica delle pure essenze; anzi proprio il contrario: è una metafisica  dell’esistenza; e su questo punto ho insistito nel distinguere la metafisica aristotelica da quella tomista; o forse D'Amore vuole identificare S. Tommaso con  Aristotele, a tutto svantaggio del primo? I due volumi di Filosofia e Metafisica raccolgono le pagine più impegnate e profonde che lo S. ha scritto tra il 1945 e il 1950 e segnano il passaggio dallo Spiritualismo cristiano alla Filosofia dell’integralità. In essi si possono leggere saggi di rilevante interesse teoretico come quelli sul concetto di metafisica e sull’ateismo, oltre all’altro sull’esistenza di Dio, che ormai si allinea tra i testi classici della filosofia contemporanea. Lo stile avvincente e chiaro, il vigore del pensiero insieme profondo e cristallino, l’unità dell’ispirazione, il modo proprio dell’ Autore di rendere attuali e vivi problemi di sempre, fanno che quest'opera, sistematica senza pesantezza, sta una lettura appassionante e proficua. Zursaran S. Tommaso visita S. Bonaventura. OPERE COMPLETE DI MICHELE F. S. Volumi pubblicati: 2. 3. 4. 5. L'interiorità oggettiva, III Come si vince a Waterloo, Interpretazioni rosminiane, L'uomo, questo squilibrato  Atto ed essere,  La filosofia oggi, La filosofia morale di A. Rosmini, Morte ed immortalità, II edizione, riveduta, pag. 383, L. 3500. La clessidra (Il mio itinerario a Cristo), In Spirito e Verità, Dall Attualismo allo Spiritualismo critico, Filosofia e Metafisica, Pascal, V edizione riveduta e aumentata, pag. 252, L. 2000. 16. Dialogo con Blondel, Così mi parlano le cose mute, Kierkegaard e il  malessere  della cristianità,  La filosofia italiana, Il tempo e la libertà. Il momento estetico e il valore ontologico della fantasia, Platone, Studi sulla filosofia antica, II edizione. Chiesa cattolica e mondo moderno, II edizione. Il pensiero italiano nell'età del Risorgimento, II edizione. 27-28. Il pensiero occidentale nel suo sviluppo storico. 29. Studi sulla filosofia moderna, INI edizione. 30. Le mense di Cristo. MARZORATI MILANO  via Borromei. L' illustrazione è opera del pittore fiorentino Primo Conti. La caravella dalle vele crociate, che attraversa le Colonne d’ Ercole, simboleggia l’aspetto essenziale della filosofia dello S.: non vi sono ostacoli per il pensiero umano, nè barriere invalicabili, se esso cammina e procede sorretto dalla fede nella verità di Cristo. Una mattina, il re Gerone domandò a Simonide che gli dicesse chi fosse Dio; Simonide gli chiese un giorno di tempo per pensarci sopra; l'indomani, a corto di una risposta soddisfacente, gliene chiese due, poi quattro e così di seguito. Alle meraviglie del re per il moltiplicarsi continuo dei giorni, Simonide rispose che più ci pensava, più il problema gli sembrava oscuro. Le pagine che seguono si propongono di vagliare le risposte di quanti, a differenza di Simonide, affermano in vario modo che Dio non è, cioè vogliono essere un breve esame storico-critico delle forme più significative di ateismo, un’analisi e valutazione delle dottrine che implicitamente o apertamente si dicono atee ( #Seos= senza Dio). Problema difficile e complesso, non solo per le sfumature che presenta, ma anche perchè quanti son atei spesso negano di esserlo o, ammettendolo, parlano di un’altra cosa (!). Avevo sentito dire molte cose di lui già in passato, e fra (I) Per esempio, il Comre (Système de polit. pos., t. I, 48) scrive che l’ateismo è una cosa rara ; il Renouvier (Derniers Entrétiens, Paris, 102) che il n’y a que très peu d’athées ; lo stesso Le DantEc non si considera ateo (L’Athfisme, Paris, 1906, 56) e aggiunge che la gran maggioranza degli uomini  est imbue de l’idée de Dieu  (19); da parte sua il Blondel afferma che l’ateismo è  une thèse verbale, une interprétation ou, mieux, une finction notionnelle, mais non une position réelle ni une attitude naturelle: on peut dire qu'il y a ou des anti-théistes ou des idolàtres, à defaut de croyants du vrai Dieu, il n’y a pas d’athées; car, pour nier Dieu, on est forcé de passer d’abord par l’affir8 Filosofia e Metafisica l’altro che era ateo: è un uomo realmente molto istruito, e mi rallegrai di poter parlare con un vero scienziato. Oltre a ciò, è un uomo di educazione rara, sicchè parlava con me proprio come a persona del tutto uguale a lui per cultura e intelligenza. Non crede in Dio; tuttavia una cosa mi colpì: che in tutto quel tempo avesse l’aria di parlare di tutt'altra cosa, e appunto mi colpì perchè anche in precedenza, per quanti miscredenti avessi incontrato e per quanti libri del genere avessi letto, mi era sempre sembrato che parlassero e scrivessero cose del tutto diverse, sebbene in apparenza fosse il contrario. Allora glielo dissi, ma, si vede, non in modo chiaro, oppure non seppi esprimermi, perchè non capì nulla... Senti, Parfén, poco fa tu mi hai fatto una domanda, eccoti la mia risposta: l’essenza del sentimento religioso sfugge a qualsiasi colpa o delitto, a qualsiasi ateismo; c’è in esso qualcosa di inafferrabile e ci sarà eternamente, c’è in esso qualcosa su cui sorvoleranno sempre gli atei, che parleranno eternamente di tutt’altra cosa . Così il principe Myskin nell’Idiozz di Dostoevskij} non senza una sottile ironia verso il vero scienziato   molto istruito  e dall’ educazione rara , il quale crede di negare Dio e parla  di tutt’altra cosa : la sua  cultura  e  intelligenza  hanno come limite l'ignoranza di ciò che negano; conosce tante cose ma non la sola necessaria per essere veramente sapiente. Nè si tratta dell’ignoranza dell’ateismo volgare: vi sono atei che filano le prove classiche dell’esistenza di Dio meglio di tanti credenti; le ripetono anche a se stessi, e non se ne convincono. Evidentemente, oltre che ad insufmation au moins implicite, mais inéluctable d’un ’’super-immanent’’ (La querelle de l'athéisme, Séance du 24 mars 1928 de la  Société frangaise de Philosophie , nel vol. di BrunscHvice, La vraie et la fausse conversion, Paris, Presses Universitaires de France, 1951, p212-213). Anche S. Agostino scrive:  Si tale. hoc hominum genus est, non multos parturimus; quantum videtur occurrere cogitationibus nostris, perpauci sunt, et difficile est ut incurramus in hominem qui dicat ir corde suo, non est Deus...  (Enarr. in Psalm. 52, 2). E aggiunge:  Dio è così naturalmente presente al cuore dell’uomo che solo i corrotti e i perduti nel vizio possono negarlo  (Enarr. in Psalm. 13; In Joan. Evang. tr. 106, c. 17, n. 4). L'ateismo 9 ficienza della volontà e al profitto o al  piacere di non convincersene, intervengono errori o fuorviamenti intellettuali, di cui il principale è appunto che, parlando di Dio e negandolo, parlano di un’altra cosa. Similmente, come abbiamo accennato, altri protestano di non essere atei; tuttavia, lo sono, in quanto Lo concepiscono in maniera inadeguata o contrastante la sua essenza.  Nessuno, in fondo, è ateo se non a parole ; al contrario, secondo Bayle, è possibile una  società di atei; ai nostri giorni si parla di  ateismo di massa e non più di una élite (ateismo individuale o di setta) e alcuni stati e governi si proclamano  ufficialmente  atei e areligiosi; non manca chi ha creduto di dimostrare, come il Rensi nella sua superficiale Apologia dell’ateismo, che è razionale  negare l’esistenza di Dio, anche se l’ha fatto con una passione da  credente senza Dio , spiegabile solo con un sotterraneo e invincibile sentimento religioso. Problema dunque complesso, soprattutto se considerato nel pensiero moderno e contemporaneo, che va trattato con un interesse pari alla sua importanza, anche se, come vedremo, l’ateismo, sotto qualsiasi forma si presenti, non è razionale perchè intrinsecamente contraddittorio ed è una violenza dell’uomo alla sua stessa natura (?). 2.  Abuso del termine ateismo . E’ necessario distinguere ateismo in senso assoluto e in senso relativo: nel primo caso si nega Dio in qualsiasi modo lo si concepisce; nel secondo si giudicano atee alcune parti Ciò è confermato anche dai cosiddetti  fatti  tanto importanti per gli empirici, i materialisti e gli evoluzionisti; infatti, le forme più primitive di religione sono monoteiste e il politeismo, il feticismo, ecc. sono forme derivate di corruzione o degenerazione. D'altra parte, l’ateismo in quanto tale non è originario: come momento negativo, presuppone quello positivo, l’affermazione di Dio, cioè nasce dal fatto che l’uomo è per essenza religioso: c’è l’ateo perchè c'è il credente, il  positivo , che può stare senza il  negativo , che, invece, non è senza l’altro. 10 Filosofia e Metafisica colari maniere di concepire la divinità, o si dissente su particolari questioni di culto e di carattere religioso-teologico. Per esempio, per i pagani sono atei i cristiani e per i cristiani i pagani; per i protestanti i cattolici e per i cattolici i protestanti, ecc. Samuel Parker, protestante del XVII secolo, s'affanna a provare (*) che tutti gli scolastici sono stati assolutamente atei; da parte sua, il gesuita Hardouin, nel libro Azhei detecti (4), accusa di ateismo Descartes, Arnauld, Pascal, Malebranche, ecc. In altri termini, per ciascuna religione positiva sono atee tutte le altre concezioni di Dio da essa disformi. Per conseguenza, secondo alcuni, la definizione del termine  ateismo  è puramente verbale, in quanto il contenuto del concetto di ateo varia secondo le diverse concezioni di Dio e del suo modo di esistere (°). A_ volte basta dissentire dalle opinioni dominanti o ufficiali di una determinata epoca, per grossolane ed empie che siano, per essere accusati di ateismo e condannati. Celebri, in questo senso, nell’antichità, il processo e la condanna di Socrate; notissimo il racconto dell’Euzifrone platonico dove l’ateo di fronte alla religione ufficiale è Socrate, sostenitore di una concezione della divinità più conforme al suo concetto, e credente l’indovino Eutifrone, che attribuisce agli dèi ogni specie di malefatta e se li rappresenta in maniera empia e volgare in conformità con le credenze popolari ufficialmente accettate (9). Qui vi è un abuso della parola ateo dettato quasi sempre da conformismo opportunistico o da una politica di tornaconto, e un’errata impostazione del problema. L’abu(3) Cfr. Disputationes de Deo et Providentia divina, Londra, 1678, dis2, ca2. (4) Opera varia, Amsterdam, 1719. (5) Vocabulaire technique et critique de la philos., IV ediz., Paris, 1938, vol. I, 73. (6) In questi casi, l’ ateo  è il vero credente, colui che protesta contro le concezioni volgari o superstiziose e le pratiche sconvenienti, si mette  contro l'opinione comune  (il  paradossale ), che offende Dio e il suo culto. L'’ateismo (3 so, già molte volte rilevato e criticato da scrittori di varia tendenza ("), si può riassumere, per quanto riguarda la pratica religiosa, in questi termini: è ateo chi non è rigidamente conformista al culto ufficiale di un paese in una determinata epoca. Ma qui non si tratta più di un problema teoretico o speculativo, ma di una questione di prassi, tipica, per esempio, della Grecia antica, il cui politeismo, privo di dogmi e di una vera e propria teologia, era quasi soltanto culto controllato dallo Stato. Roma, cue per mancanza di autentico spirito religioso e opportunismo politico era tollerante con tutti i culti, li reprimeva sotto l’accusa di ateismo, quando contrastavano con le direttive politiche e l'autorità statale. In questi casi non c’è ateismo teoretico in quanto non si nega l’esistenza di Dio, nè pratico perchè non si vive come se Dio non esistesse; si fa questione intorno alla prassi religiosa e per motivi ad essa estranei. Così i pagani chiamavano atei gli Ebrei (*) ed anche i cristiani perchè si rifiutavano di praticare il loro culto; con l’editto imperiale del 380, invece, furono definite atee tutte le religioni non cristiane (sacrilegium = &3ed7ns). Altra la questione riguardante il diverso modo di concepire Dio: se si tratta di controversie dogmatiche si può parlare solo di non ortodossia (per esempio, i protestanti si possono dire eterodossi, ma non atei); se della concezione di Dio in generale, bisogna distinguere: a) non sono atee le concezioni primitive e rudimentali in quanto manca la coscienza critica e dunque il problema stesso dell’ateismo; b) lo sono, invece, quelle che negano Dio, o chiamano con questo nome un ente che non lo è (la Natura, il Cosmo, ecc.). Ma nei due casi si tratta sempre di  insipienza ; infatti, 1r51piens  pronunzia la parola e pensa ad altro  non è solo chi nega Dio, ma anche colui che Lo concepisce in modo soi (7) Cfr., per esempio, Vottatre, Dict. philos., Paris, Flammarion, s. a., voce  Athée, Athéisme , p35 e ss.; Franck, Dict. des sciences philos., sub. V. (8) Jos. Frav., Contra Apion., II, 16. 12 Filosofia e Metafisica stanzialmente sconveniente alla sua essenza. Anzi quest’ultima forma di ateismo, non soltanto Lo offende, ma ostacola la conoscenza del Dio vero: rispetto ad essa l’ ateo  ha la funzione benefica, anche se negativa, di demolire gli  dèi falsi e bugiardi . 4 Non tengono conto di queste necessarie distinzioni quanti concludono che il termine ateo non ha alcun significato teoretico definitivo o definibile, ma solo un eglore storico da determinare caso per caso secondo i diversi culti e le particolari rappresentazioni di Dio. Così non solo si nega ogni forma di ateismo  tutto si ridurrebbe a reciproche accuse tra sistemi teologici e culti diversi, a chiamare atee forme di religione rudimentali o meno progredite  ma che teismo ed ateismo, in quanto temi di polemiche religiose, siano problemi appartenenti alle discussioni filosofiche; in altri termini, si nega che l’esistenza di Dio sia un problema teoretico e lo si relega tra le controversie intorno al culto. Affermazione insostenibile, storicamente e teoreticamente, la quale non distingue il problema del domma e del culto da quello filosofico vero e proprio. Infatti, dal punto di vista storico è facile constatare che, in ogni epoca, tutti i grandi sistemi speculativi hanno affrontato come questione filosofica e da un punto di vista teoretico il problema dell’esistenza e della concezione di Dio; anzi non c’è stata e non c’è filosofia che non si sia posto il problema, così intrinseco alla stessa ricerca da definirsi, secondo la risposta affermativa o negativa, teistica, agnostica, atea, ecc. Possibile che una questione la quale ha occupato la mente degli uomini in tutti i luoghi e tempi ed è stata sempre intrinseca alla ricerca razionale, non abbia in sè alcun senso filosofico, al punto da far dire che il termine  ateismo  non ha un significato teoretico definitivo, è privo di un suo contenuto e appartiene solo alle controversie sul culto o tende decisamente a ridurvisi? L'ateismo 13 Dal punto di vista teoretico, come giustamente osserva il Lachelier (9), ce qui varie est moins le contenu philosophique  dell'idea di ateismo  que l’emploi plus ou moins malveillant  che si fa del termine contro una particolare dottrina o una determinata persona. Altro è il contenuto filosofico pressochè invariabile, altro l’uso pratico del termine; dunque, il senso storico o pratico variabile va distinto da quello teoretico immutabile. Chi nega che i termini ateismo  e  teismo  abbiano un senso speculativo e pretende con ciò di negar loro diritto di cittadinanza nelle ricerche e nelle discussioni filosofiche per affidarli soltanto alle controversie religiose, muove da una posizione di pensiero, da un presupposto che ha già concluso per suo conto che il tema dell’esistenza di Dio è del tutto estraneo alla filosofia o alla ricerca razionale e perciò non costituisce un problema speculativo; dunque, da un sistema costruito in modo da non far posto all'idea di Dio e, in questo senso, da una filosofia atea. Per conseguenza, la sua affermazione che il termine ateismo non ha un contenuto teoretico definibile ma solo un valore storico e pratico, è presupposta, senza essere dimostrata, nella sua iniziale posizione filosofica che, in partenza e aprioristicamente, esclude dal campo dell'indagine razionale il problema teologico, per relegarlo in quello delle questioni religiose, solo in quanto il sistema non ne tollera  la presenza: ci troviamo di fronte ad uno scoperto e filosoficamente intollerabile :dolum theazri. Chi dice in partenza, confondendo l’uso pratico del termine ateismo con il suo contenuto, che quello dell’esistenza o non esistenza di Dio non è un problema filosofico ha già deciso; per lui, la ragione, come ragione filosofica, è atea o almeno agnostica. Ma questa affermazione è una soluzione del problema in questione, non un’argomentazione valida per dimostrare che quello teologico non ha un significato teoretico; (9) Vocabulaire ccc., cit., 72. 14 Filosofia e Metafisica anzi per il fatto che dà già una soluzione, vera o falsa che sia, prova con ciò stesso che il problema appartiene all’indagine filosofica e non soltanto alle controversie religiose. Dunque esso va riportato in sede speculativa come quello che, non solo appartiene alla ricerca razionale, ma è il problema primo della metafisica e perciò intrinseco ed essenziale alla filosofia come tale. Ma daccapo: quando l’ateo dice  Dio non esiste , quale Dio nega? Pensa veramente a Dio? Ne nega l’esistenza senz’altro, o nega quella di un Dio immaginato in una determinata maniera? Si è teisti soltanto se si ammette l’esistenza di Dio concepito nell'unica maniera vera e atei quando, pur non negandolo senz’altro, se ne concepisce uno in un modo diverso dall’unico per cui ci si possa dire teisti, in quanto il solo concepirlo diversamente ne implica la negazione? Problemi, questi ed altri, da tener presenti in una valutazione filosofica dell’ateismo, ma tutti riducibili a quello di una ragione atea ; dunque, ai fini della validità dell’ateismo stesso la domanda decisiva è una sola: è razionale una ragione atea? L'’ateismo pratico non è autonomo e originario ma dipendente e derivato: ogni sua forma ne presuppone una di ateismo teoretico: la volontà atea, sia pure implicitamente, è conseguenza della ragione atea. Perciò la sua validità dipende da quella dell’ateismo teoretico, la cui confutazione implica inappellabilmente l’altra dell’ateismo pratico. Vi è un ateismo, scrive Bossuet,  caché dans tous les coeurs, qui se répand dans toutes les actions: on compte Dieu pour rien  ('). È l’attitudine di quanti vivono e organizzano la propria vita come se Dio non esistesse; e non se ne  preoccupano  (”). Non ne negano in modo esplicito l’esistenza; vivono e agiscono senza tenerne conto, cioè negano che Dio, esista o no, possa avere una qualsiasi efficacia valida sulla nostra condotta e aiutarci nella soluzione dei problemi che c’interessano. Alla base di questo comportamento sottostà una tacita convinzione: niente nel mondo cambie Pensées détachées, II.  E’ più una questione di indifferenza che d’ignoranza; a volte di pigrizia, d’insensibilità, di ottusità spirituale; infatti, di Dio sentono parlare e ne parlano, ma vivono egualmente come se non esistesse. Non si tratta soltanto di essere sopraffatti dalle passioni terrene o dall’urgenza della vita  il lasciarsene sopraffare indica già che è debolissimo il richiamo dei valori religiosi  nè dall’influenza dell'ambiente o dell'educazione: il fatto che se ne lasciano assimilare è prova che mancano di una vera esigenza religiosa ed implica una accettazione che è sempre, almeno implicitamente, frutto di una sia pure elementare riflessione e di un atto volontario sia esso di mera acquiescenza. 16 Filosofia e Metafisica rebbe in bene o in male anche se Dio non esistesse; la vita, la morte e tutto il corso dell’umana esistenza non muterebbero di segno: dunque che vale ammetterlo o preoccuparsi di risolvere il problema della sua esistenza? Ma chi ragiona in questo modo, di quale Dio non si preoccupa sapere se esista o no ed agisce, in privato ed in pubblico, come se non esistesse? Di un Dio la cui esistenza non avrebbe alcuna efficacia sulla nostra condotta e il senso della vita; che è dire di un Dio che non è tale, anzi che è meno dell’uomo, il quale in un certo modo riesce ad influire sulle sue azioni e a dare una risposta a certi problemi. È evidente che tale ateismo pratico è la conseguenza di uno teoretico, cioè del concepire Dio come non Dio, che è negarne l’esistenza; dunque, affinchè esso possa giustificarsi deve prima provare la validità razionale della negazione teoretica su cui si fonda e da cui deriva. Vi è una forma di ateismo pratico più radicale ed oggi di moda: la vita non ha senso, è assurda; dunque Dio non esiste; ma chi dice che la vita non ha senso per ciò stesso presuppone che Dio non esiste. Infatti, è contraddittorio negare ogni senso alla vita e nello stesso tempo ammettere che Dio esiste  in tal caso si pensa ancora all'esistenza di un Dio che non è tale ; come non si può ammettere l’esistenza del vero Dio senza dare alla vita un senso preciso e assoluto. La negazione non è una conseguenza del fatto che la vita non ha senso, ma la premessa teoretica da cui scaturisce l’ateismo pratico. Chi nega un senso alla vita non deduce da questa affermazione l’inesistenza di Dio; al contrario, dice che la vita non ha senso proprio perchè in cuor suo Lo ha già negato.  Dio non esiste  è la premessa, anche se taciuta od omessa, dell’altra proposizione la vita non ha senso, dalla quale non consegue la negazione di Dio; quando la si pronuncia si è già negato Dio, anzi la si formula solo in quanto si è negato. L'ateismo 17 L’ateismo pratico, anche in questo caso, è conseguenza di quello teoretico; dunque non è valido fino a quando non si sarà razionalmente dimostrata la validità di quest’ultimo. Del resto, è nota la critica di Sartre all’ ateismo assurdista  del Camus: l’assurdismo elevato a sistema si autonega, in quanto è sistema ben ordinato del disordine, una specie di razionalizzazione dell’assurdo perfettamente sistemato; piuttosto che negare l’Assoluto lo implica senza spiegarlo. Ma questa critica vale anche contro l’ateismo del Sartre. Se il male e i cattivi sono premiati a che giova credere nell’esistenza degli dèi e adorarli? Si potrebbe credervi se attraverso il trionfo del giusto si manifestasse la loro giustizia; ma nelle cose del mondo avviene proprio il contrario. Questa forma di ateismo pratico, presente in tutti i tempi (*) e presso tutte le società, può così riassumersi: se l'ingiustizia fosse punita e il male vinto, non si potrebbe non credere nell’esistenza degli dèi o di un Dio; invece, l’ingiustizia è premiata e il bene sconfitto, dunque non esiste la divinità, o almeno tutto sta a provare il contrario; ammesso che esista, è impotente o malvagia. Questa forma di ateismo pratico è la semplificazione empirica di un problema metafisico di grande portata e precisamente di quello del male e della sua origine: Si Deus est, unde malum? La presenza del male nel mondo è una delle cause principali dell’ateismo, come ci attesta la dolorosa esperienza del nostro e di tutti i tempi. La stessa missione di Cristo è stata interpretata in questo senso: il Getsemani, la cattura, il processo, il supplizio e la morte starebbero a testimoniare come il giusto soccomba e il bene sia sempre sconfitto dal male trionfante. (3) Se si onorano le azioni cattive ed ingiuste, a che adorare gli dèi  tl del pe xopesetv  ? (SorocLe, Edipo re, 895); se l'ingiustizia è più potente della giustizia non si può credere agli dèi (EuriPIpE, Elettra, 583). La stessa tesi è sostenuta dai sofisti (PLatonE, Repubblica, soprattutto i libri I e IM). 18 Filosofia e Metafisica Ma in che senso si dice che il male vince ed è premiato e, dunque, Dio non esiste? Evidentemente nel senso che in questo mondo, su questa terra, il bene non è vittorioso ed è perseguitato. In altri termini, si esige che la giustizia divina si avveri in questa vita, qui si puniscano i cattivi e si premiino i buoni, qui si compia il destino dell’uomo; che questa vita non sia prova, ma compimento pieno dell’esistenza nell’episodio mondano, con cui viene in tal modo ad identificarsi tutta. Ma ciò implica la negazione di un’altra vita, dove si attua la piena giustizia divina, e la identificazione di tutto l’essere con la realtà mondana; cioè presuppone la negazione teoretica di Dio e di un Regno divino, del resto superflui una volta che nel mondo può trionfare la perfetta giustizia e l’uomo avere felicità eterna. Infatti, se si ammette che Dio esiste come Provvidenza e giustizia assoluta, è contraddittorio affermare che il male trionfa sempre ed è premiato; bisogna dire invece che, anche quel che sembra male è a fin di bene e la giustizia, anche se sconfitta e punita in questa vita, sarà vittoriosa e premiata nell’altra; cioè, che la vera si attua in un altro mondo. Il fatto che il male trionfa sulla terra e il giusto vi è perseguitato e punito non autorizza la conclusione negativa dell’esistenza di Dio, anzi è uno degli aspetti della vicenda storica dell’uomo che acutizza il problema, fa riflettere sul significato dell’esistenza e stimola al convincimento positivo. Pertanto, la vera forma del ragionamento ateo non è: vi è il male vittorioso nel mondo e il bene sconfitto, dunque Dio non esiste , ma quest'altra:  Dio non esiste e non vi è una giustizia divina ultramondana, dunque il male è definitivamente vittorioso nel mondo e il bene sconfitto . L’ateismo pratico presuppone sempre quello teoretico. Il problema: si Deus est, unde malum?, per chi in partenza non ha negato Dio, si pone in questi termini:  ammesso Dio, come si spiega il male?; per chi Lo ha già negato, in questi alL'ateismo 19 tri: se nel mondo c’è il male trionfante, Dio non esiste . La conclusione solo in apparenza è tale; in realtà è la premessa:  Dio non esiste, dunque nel mondo c’è il male, e vi trionfa . Infatti, se si nega un regno ultramondano ed ultraumano, il male è invincibile ed impossibile una giustizia perfetta; ma proprio perchè già... si è negato Dio! Da ultimo, negare Dio perchè nel mondo il male ha successo e il bene è perseguitato, è dare eccessiva importanza al giudizio degli uomini e attribuire valore assoluto a quel che il mondo può darci, altrimenti non si potrebbe concludere a quella negazione, contraddittoria con la relatività dell'umano giudizio e dei riconoscimenti che crediamo spettarci; ma sopravvalutare la giustizia e l’ingiustizia terrene e i beni che possono dispensare o interdire, è già negare Dio. Basta convincersi che, meno le essenzialissime, le cose hanno solo l’importanza che attribuiamo loro, per non disperare di fronte al male premiato o al bene perseguitato e per rimettere ogni giudizio, con l’anima in pace, alla giustizia divina. Invece, la forma di ateismo pratico che stiamo discutendo importa la negazione radicale del cristiano Regnum Dei, della verità delle parole di Cristo:  Il mio Regno non è di questo mondo . Conseguenza pratica di una posizione teoretica immanentistica  non vi è un al di là trascendente, l’unica realtà è questo mondo  afferma che v'è solo il regnum hominis, dove si attua il cosiddetto Regnum Dei. Ma è un umanesimo ateo  disincantato ; non crede nella potenza dell’uomo che da solo si costruisce il suo regno di felicità e dalla negazione teoretica di Dio conclude all’invincibilità del male e al suo trionfo tra gli uomini. Ciò prova indirettamente come, negato Dio, perdano ogni validità anche i valori morali, tutti relativi alle situazioni contingenti, e non abbia più senso nemmeno essere onesti per sentirsi in pace con la coscienza. Su questa radicale negazione della concezione cristiana. 20 Filosofia Metafisica dell’esistenza si fonda l’interpretazione, sopra accennata, della vita di Cristo come esempio della sconfitta del bene e della vittoria del male. Se la si accetta per vera, se Cristo sta a provare che il male è assolutamente invincibile e il bene soccombente e crocifisso, non si sfugge a questa conclusione: Cristo sta a dirci che Dio non esiste, che non è Suo Figlio, nè è venuto a testimoniare del Padre; abbandonato perseguitato crocifisso, è la prova che non vi è alcuna giustizia, nè Dio, convalida l’ateismo; Egli stesso, in fondo al cuore, nonostante le cose che ha detto del Padre, è stato un ateo tristissimo e sconsolato! Tali le conseguenze assurde di questo ateismo pratico che possiamo chiamare anche dell’insuccesso: il bene è sempre in perdita, il male sempre in vincita, dunque Dio non esiste. Ma, daccapo, proprio perchè si è negata l’esistenza di Dio si conclude che il male vince e il bene perde; altrimenti, se quella negazione non fosse presupposta, dall’insuccesso mondano e contingente del bene si ricaverebbe quest'altra conclusione: quando il bene si purifica attraverso la rinunzia, la sofferenza e la sconfitta terrena, quando sfida il martirio, si assicura la vittoria, vince con e nel sacrificio di chi gli si sacrifica, gli rende testimonianza. Invece, il male, apparentemente vittorioso, perde terribilmente nel momento che uccide il giusto, perchè vince come male, perchè costretto a commettere ingiustizia: è sconfitto proprio per il suo successo. La punizione della legge ingiusta, come dice Gandhi, sta nell’obbligarla ad essere applicata al giusto, nelle sue ingiustizie e nelle sue vittime (*). Bruto che, dopo la sconfitta di Filippi, giudica la virtù un nome vano  e si uccide, non aveva mai creduto nella verità di essa e ne aveva sempre misurato il valore e il significato dall’eventuale insuccesso o successo, anzi dal suo personale. (4) Per un approfondimento di questi temi cfr. il nostro volume Come si vince a Waterloo, Milano, Marzorati, 3* ediz., 1962, Il* delle  Opere complete . L'ateismo 21 Vi è in quest’ateismo pratico anche un fondo di superbia satanica: la pretesa che l’uomo faccia trionfare il bene e la giustizia con la sua opera, come se fosse egli il creatore e il garante dei valori.  Noi facciamo sempre come se avessimo il compito di far trionfare la verità, mentre abbiamo solamente quello di combattere per essa (Pascal). Similmente il nostro dovere è di essere giusti al servizio della giustizia: combattere per essa, senza pretendere di farla trionfare, perchè non ci spetta. Chi si arroga quest’ultimo compito è già ateo: affida a sè il trionfo del bene, non ce la fa, e conclude che se il bene perde e il male vince, non c'è bene in questo mondo e dunque... Dio non esiste. Un  dunque  apparente perchè non è tale, ma la premessa dell’assurda pretesa di far trionfare il bene, di misurarne la vittoria o la sconfitta dal suo terreno successo o insuccesso, di pretendere che l’ordine divino si attui nel mondo e si identifichi con quello umano, anzi sia lo stesso nostro ordine. Da ultimo, non vogliamo tacere di una forma molto diffusa di ateismo pratico, quello di quanti dicono di credere in Dio e ne negano l’esistenza in ogni loro azione, cioè agiscono come se non Gli credessero, o non esistesse. Affermano di credere in Dio ma adorano il mondo, il potere, il denaro; immersi nelle cose, la loro credenza religiosa è solo una specie di polizza di assicurazione, pagata con il tributo del culto esteriore, sicuri, con questo supplemento di comodità, di star bene in questa vita e meglio nell’altra. È l’ateismo pratico della Messa della domenica e del segno della Croce, magari, per non sciupare quel frammento di tempo, pensando a qualche  buon affare . Anche in questo caso, l’ateismo pratico presuppone quello teoretico, in quanto la  fede  di questi cosiddetti credenti non è una dimensione interiore e manca di ogni fondamento razionale; è pura consuetudine alimentata dal timore del  non si sa mai . Vi è l’angoscia bruciante e tormentata dei  buoni  atei; vi è l’ateismo sostanziale dei cattivi credenti. 22 Filosofia e Metafisica 2.  Inconsistenza dell’ateismo pratico. Come abbiamo detto, l’ateismo pratico non prova la negazione di Dio, ma la presuppone: apparentemente dal momento pratico trae la conseguenza teoretica che Dio non esistes in realtà quest’ultima è presupposta. Per esempio: nel mondo vince il male e perde il bene, dunque Dio non esiste, ma la prima proposizione è essa la conseguenza e non la premessa della negazione dell’esistenza di Dio; il dolore e il male sono inspiegabili, dunque non c’è un Dio, ma sono inspiegabili appunto perchè Dio si è negato. Leopardi esorta gli uomini a prendersi per mano per meglio sopportare il peso della vita di cui nessuno si cura; ma gli uomini sentono la vita come un peso assurdo solo se si presuppone che nessuno si cura di loro, cioè se si è già atei. Vana illusione il conforto della solidarietà nel comune dolore: una comunità di disperati non può dare speranza ad un solo uomo! È evidente il sofisma dell’ateismo pratico: da una valutazione negativa del mondo conclude che Dio non esiste, ma la prima proposizione è essa la conseguenza della seconda. La conclusione (Dio non esiste) dalla premessa (se il mondo è fatto così) è in realtà la premessa di cui l’altra è la conseguenza. D’altra parte, come abbiamo accennato, se il male potesse essere sconfitto definitivamente in questo mondo e l’uomo realizzarvi la felicità perfetta, sarebbero inutili Dio e una superiore giustizia divina: il conflitto tra il male e il bene sarebbe risolto in questa vita e l’esito immanente della lotta, tutto in potere dell’uomo, renderebbe superfluo quello al di là di essa e dipendente da un intervento, che s'inserisce nella lotta dell’uomo, ma non gli appartiene. Da questo punto di vista, all'opposto di come argomenta l’ateismo pratico, proprio gli insuccessi del bene e l’incertezza dell’esito definitivo del conflitto, sempre sospeso tra il bene e il male, fanno evidente la convenienza razionale di una Giustizia L'ateismo 23 divina trascendente e di una Provvidenza regolatrice della vita di ogni singolo e dell’ordine universale. L’ateismo pratico, inoltre, arriva a conclusioni opposte, ora ottimiste, ora pessimiste: dalla negazione dell’esistenza di Dio e di una giustizia superiore conclude, come alcune odierne forme di esistenzialismo, che nel mondo vince il male e la vita è miseria, assurdo, nulla; d’altro lato, dalle stesse negazioni, che, proprio liberandosi da quelle  superstizioni , l’uomo realizza in terra la giustizia e la felicità perfette. Questo mito alimentò l’età dell’Illuminismo: abbattere il vecchio edificio, demolire le illusorie speranze di una esistenza ultraterrena e ricostruire una società nuova, fiduciosa nelle sue sole forze razionali, che, immancabilmente, per mezzo dell’onnipotente scienza, conquisterà per ogni uomo la più perfetta felicità; il mitico cristiano Regno di Dio si attuerà su questa terra in un futuro immancabile, di cui artefice è e sarà soltanto l’uomo (5). Il mito illuministico si è ripresentato, con il marxismo, sotto altra forma e la spinta di nuovi problemi, come mito della futura  società omogenea , instauratrice del  nuovo  uomo marxista e del nuovo  umanesimo senza Dio. È facile che tale ottimi(5) Il d’HotsacH fa consistere la felicità nell’ateismo; il BavLE ne fa quasi la glorificazione: vi sono atei più virtuosi dei cristiani, capaci di macchiarsi dei più turpi vizi; una società di atei, non solo è concepibile, ma sarebbe superiore ad una cristiana; anche l’ateismo ha avuto i suoi eroi ed i suoi martiri. L'Ottocento, a sua volta, crea il mito dell’ateo, modello di onestà, saldezza e coerenza morale, quasi una prova apologetica della verità dell’ateismo. Essere atei e onestissimi diventò una specie di srob, una patente, oltre che di alte virtù civili  e ciò fino ad un certo punto è vero , anche di grande nobile coraggio morale, quello di sfidare il nulla della morte e di sapersi reggere, torre che non crolla, sulle sole leggi immanenti della coscienza; e ciò non manca del ridicolo che accompagna ogni bravura, oltre che di un buon grado di infantile superbia ed ingenuità, quella di chi crede che, negato Dio, vi possa essere un'assoluta legge morale. Ottimistico ateismo  borghese  che il pessimistico ateismo  antiborghese  del ’900 ha distrutto con spietata coerenza, anche se è riescito a mettere al suo posto soltanto il nulla. Ma già nell’antichità Epicuro ritiene indispensabile alla tranquillità e felicità del saggio il liberarsi dalla credenza nell’immortalità dell’anima, dalle preoccupazioni dell’oltretomba e di una Provvidenza divina. Non nega l’esistenza degli dèi; li relega tra gli intermundi, modelli ideali di quella saggezza a cui l’uomo deve tendere. 24 Filosofia e Metafisica smo, una volta affidato all’uomo il compito di realizzare quello che non gli compete e di fronte all’impossibilità di tradurre in atto le sue  disumane  aspirazioni, ritorni alla posizione dell’ateismo pratico pessimista. E° il destino di tutte le concezioni edoniste (9), le quali assolutizzano il relativo  il piacere o l’utile economico,  che, come tale, può essere assoluto solo per un’arbitraria ed ingiustificata estrapolazione e per un depauperamento al minimo delle finalità dell’uomo. (6) Com'è noto, l’edonismo della Scuola cirenaica in alcuni suoi seguaci sbocca in un sostanziale pessimismo; così in Egesia, detto il  persuaditor di morte  (merarddvatoc). Alla stessa dialettica ubbidiscono alcune teorie del  piacere  e del  dolore  del secolo XVIII. L’ateismo teoretico, presupposto da quello pratico, è un giudizio negativo, diretto o indiretto, sull’esistenza di Dio; dunque dovrebbe essere la conclusione di un processo razionale da certe premesse. Possiamo distinguere: a) ateismo dommatico o negazione pura e semplice dell’esistenza di Dio; b) ateismo scettico-agnostico, provvisorio o definitivo, il quale nega all’uomo la capacità di concepire Dio e di provarne comunque l’esistenza: ogni qualvolta ci si pone il problema dell’esistenza di Dio, dice Bayle, ci si imbatte in mille difficoltà insolubili, come la realtà del male e del dolore, per cui, quando si crede di averlo risolto, non si è risolto niente (!); c) ateismo critico o confutazione delle possibili prove razionali dell’esistenza di Dio  la posizione di Kant nella Critica della Ragione pura  che tuttavia non è negata (ateismo attenuato), anzi la si ammette per esigenze morali: forma di fideismo, non religioso, ma come atto di fede razionale; d) concezioni improprie di Dio o dottrine come il deismo, il panteismo, il materialismo, che, pur non negandone l’esistenza, sono considerate atee per il modo come Lo concepiscono. Certo, se come sostengono alcuni non può dirsi ateo chi ammette una realtà assoluta comunque concepita, non  Réponse aux questions d'un provincial, 1706, t. III, caLXXIV. 26 Filosofia e Metafisica vi è forse pensatore che lo sia; ma, in tal caso, il concetto di Dio risulta puramente verbale, cioè mancante di un contenuto proprio e avente quello che ogni filosofia gli attribuisce. D'altra parte, l’ Assoluto come è concepito da alcuni filosofi non sempre è veramente tale, nè basta il termine per qualificare l’idea di Dio. Si può dire che è Dio la Materia o l'Energia cosmica intese come principio assoluto? l’hegeliano Assoluto  che si fa , o un Dio limitato? Inoltre, la nozione di Dio, come quella che non appartiene solo al pensiero filosofico ma anche e soprattutto alla coscienza religiosa, deve soddisfare le esigenze della ragione e della fede. e) Ateismo come negazione dell’altenazione religiosa o liberazione definitiva dall’idea di Dio e riconquista dei diritti e dei poteri integrali dell’uomo. 2.  L'’ateismo assoluto o dommatico. L’ateismo assoluto, negazione vera e propria dell’esistenza di Dio, ha scarsissimo interesse storico e nessun valore teoretico. I filosofi atei in tal senso sono pochissimi (7), anzi l’ateismo, in questa accezione, è combattuto... proprio dagli atei, come quello che è una mera credenza: credo ferma Nella Grecia antica sono considerati atei sotto questo aspetto alcuni sofisti; Crizia, per esempio (frammento del dramma satiresco Sisyphos, SExT., Emir. IX, 54, in Diets, Fragm. der Vorsokratiker, Il, fr. 25, 319 della IV ediz.) sostiene che gli dèi sono una pura invenzione. Atei, oltre a Teodoro, Epicuro e Crizia, già ricordati, sono detti per tradizione Diogene di Apollonia, Diagora di Melo, Evemero, secondo il quale gli dèi non sono che antichi re o potenti, cioè uomini divinizzati. Nei tempi moderni, più che veri e propri teorici dell’ateismo, vi sono agnostici e scettici; oppure dommatici negatori di Dio che non si son mai posto speculativamente il problema; o ancora sostenitori di dottrine materialistiche che lo sopprimono fin dall’inizio, muovendo da un ateismo preconcetto. Ai nostri giorni non mancano ritorni alla forma dommatica di rifiuto radicale dell'idea di Dio, la cui esistenza è ritenuta  impensabile ,  impossibile : non si criticano le prove, si passa oltre, come di un problema che non ha senso logico nè interesse. Questo ateismo si può riportare a quello psicologico di tipo dommatico (per esempio, di Le Dantec): insensibilità per il problema e inconcepibilità dell'idea di Dio. Più che di una teoria filosofica si tratta di una situazione psicologica; perciò di un caso  da trattare in altra sede e non di un problema da discutere filosoficamente. L'ateismo 27 mente che Dio non esiste . Di fronte ad una simile affermazione dommatica e  fideistica  non c’è che da scrollare le spalle fino a quando non venga trasformata in problema, in un interrogativo su cui portare la discussione. Le si può contrapporre, senza che l’ateo abbia il diritto di protestare, quella del teista dommatico: La mia impossibilità di provare che non c’è Dio, mi svela la sua esistenza (La Bruyère). Per Voltaire questo ateismo è una forma di dommatismo quasi sempre fatale alla virtù  al pari del fanatismo (*). In questo senso, ha a suo modo un'anima religiosa, quella propria dell’ateo che vive intensamente il suo problema religioso, antitesi dell’ indifferente , che appartiene ad altra forma di ateismo. Bayle fu prima protestante, poi cattolico, di nuovo protestante e difensore dell’ateismo: il problema religioso lo interessò sempre profondamente. Come dice il Rensi, che dell’ateismo ha scritto l’apologia, c'è  maggiore affinità di spirito fra un religioso fervente e un ateo il quale viva appassionatamente la sua negazione o rassegnata o disperata, che non tra il primo e un credente per consuetudine... (‘); lo stesso autore si considera ateo per religione : ...solo l’ateismo è puro e pio, solo l’ateismo è la grande vera religione  (*), quella del Nulla, atteggiamento mistico che si spinge fino alla negazione di Dio. Come tale, a parte quanto vi può essere di positivo in un’anima sinceramente tormentata, non è una posizione filosofica da discutere, ma uno stato d’animo irrazionale ed angoscioso, il quale, più che essere confutato, va  smontato  come ogni  passione , dimostrando razionalmente vera la tesi teistica, che è riportare l’ateo allo stato di ragione. Si noti che egli non dimo(3) Dictionnaire philosophique, Paris, Flammarion, s. a., 45. Rensi, Apologia dell’ateismo, 98. (5) Ivi, 101. (6) Anche nell’India moderna (prima metà del sec. XIX) abbiamo un esempio di ateismo assoluto, quello di BakHravar, autore del Sunisar ( Essenza del vuoto ), dove è esposta la  dottrina del vuoto  (sinyavada) o del Nulla. 28 Filosofia e Metafisica stra che Dio non esiste, ha fede soltanto nel suo ateismo A gr: ì puro, che è una specie di idolatria par choc en retour. Intatti, chi crede nel proprio ateismo finisce sempre per adorare e temere qualche altra cosa, una forza della natura o la materia, un ente occulto o un valore umano divinizzato, lo stesso male (?). Ciò prova indirettamente che nell’uomo il sentimento religioso può deviare ma non si può estirpare e come, più che sull'esistenza di Dio, vi sia questione sul modo di pensare tale esistenza e Dio stesso senza contraddizione, cioè in maniera idonea e non sconveniente. C'è una forma di ateismo assoluto non nuova, ma oggi di moda a causa della fortuna di un certo esistenzialismo che offende anche il più elementare buon senso; vi abbiamo accennato, ma l’aspetto che qui consideriamo si distingue sottilmente dall’ateismo assurdista del Camus. Il mondo è assurdo; se si potesse provare che Dio esiste, avrebbe un senso; ma Dio è indimostrabile; dunque il mondo è assurdo. Ateismo dommatico: muove dal presupposto che il mondo è assurdo e pretende contraddittoriamente che solo l’esistenza di Dio potrebbe dargli un senso; senza badare che quel presupposto implica, comporta e presuppone la sua negazione. Infatti, un mondo assurdo ne esclude l’esistenza, perchè è contraddittorio ammettere Dio come suo autore, a meno di non concepirLo come l’Assurdo, che è parlare non di Lui ma di un’altra cosa, cioè avere una concezione assurda di (7) In questo senso, la superstizione è la vendetta della religione: gli atei, i più spregiudicati, sono superstiziosissimi. Ritengono Dio una fantasticheria da donnicciuole, la dommatica un prodotto dell’immaginazione  fabulatrice » di menti bambine e immature, ma credono fino a torcersi le budella dalla paura che il gatto nero che attraversa la strada fa romper loro l’osso del collo. Nella coscienza primitiva la religione si manifesta in forme elementari o popolari e perciò anche superstiziose; nell’ateo, invece, che della religione nega il contenuto, resta la superstizione pura e semplice: l’ateo è un primitivo addottrinato. Nel primo caso la religione assume forme elementari adeguate alla coscienza primitiva (ciascuno crede, in buona fede, come può secondo il suo sviluppo mentale), nel secondo l’indomabile sentimento religioso, conculcato dall’ateismo, trova il surrogato nella pura superstizione. In tal modo l’ateo, per la fede cieca nel suo ateismo, calunnia la grandezza e la dignità dell’uomo, che sono anche le sue. L’ateismo 29 Dio e, come tale, atea. Inoltre, se il mondo è assurdo, come si può concepire la stessa possibilità di provare Dio? Anche essa bisogna dirla assurda; la stessa eventuale prova lo sarebbe. Ma evidentemente chi dice che, se si potesse provare l’esistenza di Dio, il mondo non sarebbe assurdo, ammette almeno ipoteticamente che questa ipotesi non è assurda, altrimenti non la porrebbe neppure; dunque nega, con ciò stesso, che il mondo è assurdo. Ma tant'è, l’esistenzialista ateo si fa un idolo del suo mondo senza senso, vi si crogiola dentro, felicemente confortato di tanta disperata infelicità; si perde nell’idolatria di un feticcio concettuale, l’Assurdo. 3.  L’'agnosticismo. Nel pensiero moderno, specie con il positivismo e attraverso le interpretazioni empiristiche e positiviste di Kant, l’agnosticismo, parola usata per la prima volta da Huxley nel 1869 e di cui l’inglese Leslie Stephen nel 1876 pubblicò l’apologia (An Agnostic’ Apology) (*) è una delle forme più diffuse di ateismo. Huxley coniò il termine in opposizione a gnosi:  non saper nulla  intorno ad un argomento e trovarsi di fronte ad un problema insolubile. Più esplicitamente lo Stephen: la conoscenza umana ha dei limiti e quando si occupa di argomenti che sono al di là di essi costruisce un sapere fantastico; la teologia è al di là dei limiti dell’umana conoscenza; dunque è un tessuto di chimere. Ma è necessario precisare quali sono questi limiti  per un positivista sono diversi da quelli segnati da un idealista e i limiti di entrambi differenti da quelli di uno scettico ; se la negazione o l’affermazione dell’esistenza di Dio cade dentro o al di fuori di essi; che cosa s'intende con la parola  teologia , dato che ve n’è una naturale o razionale e un’altra rivelata o dommatica. Lo Stephen non sembra (8) Ma l’agnosticismo è antico; notissimo un frammento di Protagora:  quanto agli dèi, ignoro se sono o se non sono e quale aspetto abbiano  (Dros., IX, 51). 30 Filosofia e Metafisica fare queste distinzioni e perciò confonde ordine religioso ed ordine filosofico. Nessun filosofo teista ha contestato i limiti della conoscenza umana in materia di teologia e quasi tutti concordano nell’affermare che l’uomo non ha cognizione diretta della essenza di Dio; ma il problema che qui si discute non è quello dell’essenza, bensì l’altro della Sua esistenza che non è solo di fede ma anche di ragione. L’agnostico esclude che tale problema sia razionalmente solubile perchè muove da un suo modo di concepire i limiti della conoscenza; dunque la sua conclusione agnostica è un idolum theatri inerente al suo sistema: il problema dell’esistenza di Dio non è insolubile in se stesso e in qualunque caso, ma lo è solo rispetto alla sua teoria della conoscenza, cioè è una questione interna della sua filosofia. Perciò è arbitrario dalla proposizione,  la conoscenza umana ha dei limiti , dedurre la conseguenza,  dunque non sappiamo se Dio esiste , in quanto: 1) si limita la conoscenza umana al di qua dei suoi stessi limiti, cioè alla pura esperienza dei fatti o dei fenomeni sensibili; 2) si fa dell’esistenza di Dio un problema di pura fede; 3) si nega la possibilità di una conoscenza diversa da quella dei fatti e perciò di un sapere poetico, morale, ecc.; della metafisica in quanto tale e, con ciò stesso, di un sapere filosofico. L’agnosticismo in questo senso è la negazione della stessa filosofia che, depauperata e depotenziata, è ridotta alla pura conoscenza scientifica o dei fatti fisici, o alla pura conoscenza storica o dei fatti umani. Quantunque l’agnosticismo non sia ateismo (Locke, Hamilton, Mansel, ecc., fondatori di quello moderno, non si possono dire atei), molti che si dicono agnostici lo sono, come Hume, d’Holbach e altri; d’altra parte, è facile da esso passare all’ateismo per affinità tra le due attitudini. L'affermazione,  al di là dei dati della nostra esperienza non sappiamo nulla , può trasformarsi facilmente, anche se L’ateismo 3 si dice cosa molta diversa, nell’altra;  al di là dei fatti della nostra esperienza ron esiste nulla  ("). In tal caso l’agnosticismo diventa ateismo dommatico e contraddice se stesso, in quanto, negando Dio, oltrepassa quei limiti che segna alla conoscenza umana e si spinge ad un’affermazione ripugnante alla sua natura. L’agnostico, dalla pretesa impossibilità di dimostrare l’esistenza di Dio, non può concludere, senza contraddirsi, alla sua negazione esplicita ('°). D'altra parte, egli non può, proprio perchè agnostico, controbattere le critiche di quanti pretendono dimostrare la contraddittorietà dell’esistenza di Dio in se stessa e ?n rapporto con la concezione che se ne ha; per esempio, non può opporre nulla a chi sostiene (Strauss) che se Dio è infinito non può essere personale, perchè infinità e personalità si contraddicono; a chi afferma (Stuart Mill) che se fosse onnipotente e buono non dovrebbe esistere il male; a chi dice (Vacherot) che i due concetti di infinità e perfezione escludono l’esistenza, la quale non si addice a Dio, che è solo (9) E. Navitce, Philosophies négatives, Paris, 1900, 85. (10) Di ciò, in verità, l’agnosticismo ha piena coscienza: quello che hanno scritto coloro che credono di aver dimostrato l'esistenza di Dio, scrive HuxLFy (Essay, London, 1898, t. I, 245) sarebbe il peggio, se non fosse sorpassato dalle assurdità ancora più grandi dei filosofi che cercano di provafe che Dio non esiste . La filosofia positiva niente nega © niente afferma, perchè negare o affermare è oltrepassare il dato; perciò essa respinge l’ateismo, in quanto l’ateo  n'est point un esprit véritablement émancipé; c'est encore, à sa manière, un théologien; il a son explication sur l’essence des choses...  (E. Littré, Paroles de philosophie positive, p31-32). L’agnosticismo ha la sua formulazione chiara e rigida nell’inglese H. L., per il quale Dio non è assolutamente concepibile come assoluto e infinito, in quanto l’ Assoluto non può essere concepito né come cosciente, né come incosciente, né come complesso né come semplice; non può essere definito né per mezzo di differenze, né per mezzo della loro assenza; non può essere identificato con l’universo, né può essere distinto  (The Limits of rel. Thougt, 30). Ma tutto ciò riguarda l’essenza e non l’esistenza di Dio; infatti, il Mansel aggiunge, per influenza del Reid e del Kant, che la costituzione stessa del nostro spirito ci costringe a credere nell'esistenza dell’ Essere assoluto e che tale credenza, oltre che sulla nostra natura, si fonda sulla rivelazione. Il Mansel dall’inconoscibilità dell'essenza ricava quella dell'esistenza, confondendo due problemi diversi; il suo agnosticismo, spinto a questo punto, è scetticismo della ragione e fideismo puro; in definitiva, ateismo. 32 Filosofia e Metafisica un’Idea ("!); tesi quest’ultima sviluppata e approfondita ai nostri giorni dal Carabellese, che identifica Dio con l’Oggetto puro della coscienza e taccia di ateismo coloro che lo considerano esistente. Di fronte a questi sofismi o ad usi errati del termine esistenza attribuito a Dio l’agnostico è disarmato ed il suo agnosticismo a mal partito. Se egli, pur razionalmente agnostico, ha fede nell’esistenza di Dio viene a trovarsi nell’insostenibile condizione di credere nell’Essere di cui non può dimostrare che l’esistenza non implica contraddizione: come fa a credere ancora stando in questo dubbio, quasi contro la ragione, o almeno senza che questa porti il più piccolo aiuto alla sua fede? Se non crede, il problema dell’esistenza di Dio e Dio stesso gli diventano indifferenti e tacitamente opera dentro di sè il  salto dogmatico dal  non so nulla  al  non esiste nulla  al di là dei dati dell’esperienza, spingendosi a un tacito ateismo teoretico e a un manifesto ateismo pratico. Sono possibili anche un agnosticismo teoretico (non so se Dio esiste) e un ateismo pratico (mi comporto come se non esistesse); o un (11) Il perfetto non esiste ; questa la tesi del VacHEROT nell’opera La métaphysique et la science (Paris, 1858), dove non si trova più il monismo evolutivo di derivazione hegeliana sostenuto nell’Histoire critique de l'École d’ Alexandrie del 46: l'evoluzione di Dio nel mondo è  progrès. continu de l’étre infime dà l'étre par excellence, de la matière è l’esprit pur, à l’intelligence  (t. III, 328). Ne La métaphysique et la science egli mette la teologia di fronte a un aut-aut perentorio: 0 un  Dieu parfait , 0 un Dieu réel.  Le Dieu parfait n’est qu’un idéal; mais c'est encore, comme tel, le plus digne objet de la théologie: car, qui dit idéal, dit la plus haute et la plus pure vérité. Quant à Dieu réel, il vit, il se développe dans l’immensité de l'espace et dans l’éternité du temps; il nous apparaît sous la variété infinie des formes qui le manifestent: c'est le Cosmos  (t. II, 544). Successivamente (Nouveau spiritualisme, Paris, 1884) ammette un solo Dio reale, Essere universale e necessario, Causa prima e Fine ultimo del mondo, ma appunto perchè reale, non perfetto, in quanto perfezione e realtà implicano contraddizione: l’idea dell’Essere perfetto è solo un'idea, la più alta della mente umana. Ma il Vacherot non è mai riescito a dimostrare la contraddittorietà tra perfezione ed esistenza, mentre è facile provare che proprio questa presunta contraddittorietà contraddice alla ragione. Infatti, egli cerca di dimostrare la sua tesi fondandosi sul fatto di esperienza che tutta la realtà conosciuta è imperfetta; ma come potrebbe essere diversamente quando identifica  toute réalité  o tutto ciò che esiste con il  phénomène qui passe ? Dà una definizione empirica dell’esistenza in ogni ac<ezione e poi trova che è incompatibile con la perfezione di Dio! L'ateismo 33 agnosticismo teoretico e, diciamo così, un teismo pratico: non so se Dio esiste, ma vivo come se esistesse. Quest'ultimo è il caso di chi ha fede nell’esistenza di Dio e agisce in conseguenza; o anche di chi non ha fede in alcun Dio, ma in alcuni valori morali, a cui uniforma la sua condotta, affermati oggettivamente validi (rigorismo morale dogmatico e ateo), o rigorosamente rispettati pur nel convincimento che la loro validità oggettiva è indimostrabile (scetticismo con rigorosa eticità laica) (12). Vi è un agnosticismo (Hamilton, Mansel) che, non solo crede nell’esistenza di Dio, ma accetta anche la Rivelazione, alla quale però dà soltanto un valore prammatistico o regolativo, come alcuni modernisti, per esempio il Le Roy. L’agnostico non sa niente di Dio e nulla può dire di Lui; d’altra parte legge che Dio  vuole  che si creda che è Padre onnipotente, Provvidenza onnisciente ecc., e crede tutto ciò. Evidente contraddizione: l’agnostico dice di non sapere niente di Dio e nello stesso tempo ammette che è  volontà , cioè persona; quando afferma Dio vuole che... non è più agnostico tranne che non ammetta anche questo per pura fede. Ma perchè crede a queste proposizioni e non ad altre che magari affermano l’opposto? Se niente la ragione può dire di Dio, il contenuto di qualsiasi formula teologica gli dovrebbe essere indifferente; se invece crede in una proposizione piuttosto che in un’altra, significa che una delle due la trova più conveniente; ma così oltrepassa l’agnosticismo, in quanto ammette un fondamento razionale della fede. Più coerente Kant (La religione dentro i limiti della sola ragione) che non accetta la rivelazione e dà delle sue formule un’interpretazione puramente morale. L’agnostico, che afferma di non sapere niente di Dio  se esiste, o se non esiste  e nello stesso tempo Gli crede per fede, riduce la fede stessa ad un puro stato d’animo e (12) Aporro Levi, Sceptica, Firenze, La Nuova Italia, 2* ediz., 1959. 34 Filosofia e Metafisica la religione ad un sentimento soggettivo di vaga religiosità. Ma non c’è fede senza un contenuto oggettivo; la mera religiosità può riempirsi indifferentemente di qualsiasi contenuto, di Giove o di Cristo. L’agnostico, se non vuol contraddirsi, deve mettere tutte le religioni sullo stesso piano: negata ogni convenienza razionale in base alla quale credere ad una piuttosto che a un’altra, non gli resta che il fatto soggettivo del credere. D'altra parte, non può tener ferma neanche questa posizione ed è costretto a contraddirsi. Infatti, implicitamente e contraddittoriamente ammette di sapere chi è colui della cui esistenza non sa, cioè ha, comunque, un'idea di Dio; ma se ne ha l’idea, sia pure negativamente, sa qualcosa di Lui in contraddizione con il suo agnosticismo. Anzi, stranamente, non è più agnostico circa il problema del  che cosa è  Dio (quid sit) e continua ad esserlo circa l’altro del se è (an sit). In altri termini, è costretto a ragionare così:  Se potessi dimostrare che Dio esiste, saprei. razionalmente che esiste l’Essere perfettissimo, ecc. , cioè ad ammettere che ha l’idea di Dio e, nello stesso tempo, a dire che non sa niente di Lui e della sua esistenza! Il solo pensarLo è già non essere agnostici; una volta pensato (l’agnostico teista lo pensa come l’Essere perfettissimo; cristiano, nei termini della Rivelazione), la questione non è se sia impossibile o contraddittorio ammettere l’esistenza di Dio, ma se sia contraddittorio pensarLo senza ammetterLo esistente, cioè se il fatto che Lo si pensa non sia già prova della sua esistenza per necessità razionale. A questo punto e prima di proseguire è opportuno precisare le tesi fondamentali dell’agnosticismo: 1) impossibile provare l’esistenza o la non-esistenza di Dio, in quanto la conoscenza umana è limitata ai fenomeni di esperienza; 2) a fortiori nulla si può dire intorno alla Sua natura intrinseca; 3) dunque i problemi dell’esistenza e natura di Dio, dato che Egli non è un fatto fisico nè un personaggio stoL'ateismo 35 rico, non sono oggetto della scienza e della storia, che si occupano solo di questi fatti e delle loro leggi; 4) Dio non ha un posto nel sapere umano in generale ed è oggetto della pura fede, il cui contenuto ha solo una validità pratica o regolativa. Ma escludere Dio dalla scienza e dalla storia, da ogni attività umana, significa pretendere che l’uomo possa attuare se stesso, il suo sapere e la sua vita morale, facendo a meno di Lui, anzi senza mai pensarci e sentire il bisogno di ricorrere a questa ipotesi , sicuro di realizzare il suo ordine fino al compimento perfetto. Ma così l’agnosticismo contraddice se stesso e precisamente la sua tesi fondamentale che la nostra conoscenza in ogni forma e grado ha dei limiti. Una delle due: o ha questi limiti e perciò stesso, insufficiente ad appagare l’uomo e le esigenze intrinseche al suo ordine, rimanda ad una Intelligenza assoluta della quale non può fare a meno; o non li ha ed è autosufficiente, tanto da estraneare Dio dalla scienza e dalla condotta umana, e resta contraddetta la posizione dell’agnosticismo. Pertanto, muovendo dalla tesi agnostica, si può arrivare alla conclusione opposta: proprio perchè la conoscenza umana ha dei limiti, pone il problema della Verità assoluta, di Dio. Infatti, se fosse perfetta, Dio sarebbe superfluo; nè quei limiti impediscono di provare la Sua esistenza, in quanto non sono affatto segnati dall’esperienza sensoriale come l’agnosticismo pretende. D’altra parte, se per Dio non c’è posto nell’umano conoscere e fare, l’agnosticismo è ateismo in partenza, in quanto il tentativo di costruire una scienza senza Dio Lo esclude fin dall’inizio: ateismo dommatico anche se mascherato. Più coerenti coloro che, come il Croce e il Brunschvicg, escluso Dio dalla natura e dalla storia, concludono che il suo è un pseudo-problema e la religione frutto dell’ immaginazione , anche se il loro ateismo iniziale è solo presupposto e non dimostrato. 3% Filosofia e Metafisica In fondo, l’agnostico esclude Dio perchè il principio su cui fonda il sapere non gli consente di ammetterLo se non come qualcosa di estraneo ad esso, come l’Ente che è solo oggetto di fede e di cui è possibile avere soltanto una qualche rappresentazione simbolica. Ma c’è conoscenza solo dei fenomeni e delle loro leggi? Può identificarsi con essa tutto il sapere, anche quello filosofico? La fisica o altra scienza naturale hanno come oggetto i fenomeni e le loro leggi, ma ciò non significa che ogni altra forma di conoscenza  morale, artistica, filosofica  debba ridursi a questo modello, secondo l’affermazione arbitraria del positivismo e dello scientismo. L’agnosticismo metafisico e religioso è una conseguenza del metodo e del sistema scientista: la scienza positiva, che ha come suoi oggetti i fenomeni naturali e le loro leggi, è l’unica conoscenza di cui l’uomo è capace; Dio non è qualcosa di cui si possa avere esperienza positiva; dunque niente si può dire di Lui, nè che è nè che non è, nè che cosa è. Ma è arbitrario ridurre ogni forma di sapere alla conoscenza dei fenomeni di esperienza sensoriale, almeno fino a quando non si sarà dimostrata la verità del sistema. Ancora una volta ci troviamo di fronte ad un idolum theatri: il sistema non consente che si ponga il problema di Dio, dunque non si può porre. Sì, in quel sistema e relativamente ad esso; no, in un altro che riconosce i diritti e l’autonomia della ricerca filosofica e si rifiuta di identificare l’essere con i fenomeni di esperienza sensoriale. L’agnostico, in questo caso positivista  nel duplice senso di positivismo scientista o dei fatti fisici e di positivismo storicista o dei fatti umani  non riconosce i limiti del sistema; vittima del suo amor per esso, che non gli consente di dimostrare o negare l’esistenza di Dio ed averne una qualsiasi concezione non puramente simbolica o immaginaria, conclude che la sua esistenza è indimostrabile e Dio l’assolutamente inconoscibile. Ma chi ha dimostrato l’assoluta verità del sistema? Ammettiamo che qual-. L’ateismo 37 cuno l’abbia fatto; bene: in tal caso, non c’è più agnosticismo! Nonostante le sue proteste, l’agnosticismo positivista  senza o con il  neo  è ateismo vero e proprio, almeno in pratica. Dall’ ignorare  se Dio esiste ricava la norma:  agisci come se non esistesse . Dio è inconoscibile e inverificabile  scientificamente ; alla sua idea non corrisponde alcuna realtà oggettiva; nei rapporti con l’ambiente naturale e sociale non ha alcuna importanza porsene il problema, perchè il suo accantonamento  non arreca impedimento alcuno all’ organizzazione  della nostra vita nel mondo  anzi la facilita  per la quale valgono solo  strumenti  e tecniche , non interessa neppure se vere (altro problema questo della verità da mettere da parte), purchè più valide rispetto ad altre, più efficacemente  operative  e idonee ad una vita sempre più tecnicamente organizzata, socialmente progredita e comoda; dunque organizza e regola la tua vita intellettuale e morale, privata e pubblica, come se Dio non esistesse, senza pensarvi. In breve: ometti l’idea di Dio . Per Comte, l’idea di  Umanità  col tempo eliminerà  irrevocabilmente  quella di Dio: per altri tale eliminazione sarà operata dalla Scienza e dal Progresso, dalla futura  società comunista  ecc.; naturalmente, sempre e in ogni caso, con gran vantaggio degli uomini, che conseguiranno la vera felicità sulla terra. Ma quello teologico non è problema di felicità terrena; Dio non è chiamato a soddisfare bisogni materiali, ma ad appagare profonde esigenze spirituali; il suo problema si pone al di là di ogni possibile soddisfazione di tutti i possibili bisogni terreni. Per accantonarne il pensiero o soffocarlo si è costretti a sostenere che non ha importanza sapere se vi è una verità che dà senso alla vita dell’uomo e merita di essere servita, ma che interessa conoscere soltanto strumenti che hanno efficacia pratica per problemi solo mondani, economici, sociali, politici, ecc.; che la logica vale nella 38 Filosofia e Metafisica misura in cui è una tecnica, tante  tecniche  capaci di organizzare fenomeni psicologici, sociali, giuridici, senza preoccuparsi se vi è un’anima personale, una verità comune accomunante, un diritto perenne, ecc. D'altra parte, si afferma che tutto ciò non cambia niente, è un’acquisizione della nostra maturità intellettuale, è semplicemente trascrivere in termini  antropologici  e scientifici  i  miti di Dio e di una beatitudine celeste. Dunque, da un lato, più che abolire l’idea di Dio, la si sostituisce con altri valori e, dall’altro, questi ultimi sono intesi in modo da soddisfare la umana esigenza religiosa. Ma con ciò si riconosce l’insopprimibilità di quest’ultima e si creano idoli e miti, si fa della pseudo-teologia. Così questo agnosticismo, intransigente verso Dio e apostolo di un totale ateismo pratico, si presenta come idolatria e mitologia dell'Umanità, della Scienza, del Progresso, della  Società  sempre migliore con questa o quella  democrazia ; alla teologia sostituisce un deteriore teologismo laicista. A questo punto non è più serio discuterlo. Persino Bayle, il formulatore del  paradoxe , così lo chiama Voltaire ('*), che può esistere una società di atei, crede con Plutarco che è meglio non avere alcuna opinione di Dio che averne una cattiva ed errata (!*); infatti, non c’è peggiore  religione  di quella che divinizza valori mondani per fini terreni, in quanto si risolve sempre in una diabolica e rovinosa divinizzazione dell’umano o dell’infraumano e scatena il fanatismo. 4.  Il fideismo come forma di agnosticismo. Non vi sono prove razionali od oggettive dell’esistenza di Dio, ma Gli si crede solo per fede; questo il fideismo, forma di agnosticismo non laico ma religioso. Tipico del (13) VoLtAIRE, ocit., 39. (14) Barie, Pensées diverses écrites è un docteur de la Sorbonne è l’occasion de la cométe qui part au mois de décembre 1670, Rotterdam, 1721, $ 118 della. Continuation. L'ateismo 39 protestantesimo, è anch’esso molto diffuso, conseguenza di più di un secolo di agnosticismo filosofico e del convincimento che non è possibile una metafisica come scienza razionale. Il fideista crede nel Dio di cui la ragione non può dimostrare l’esistenza, del quale, anzi, può essere anche la negazione; in quest’ultimo caso continua a credere contro, nonostante la ragione dica il contrario! Fideismo disperato, fede a qualunque costo: credo nell’esistenza di Dio, malgrado la ragione sia atea; irrazionale ed assurdo come quello di molte pagine di Unamuno e di Chestov: pascalianesimo barocco e antipascaliano, razionalmente infondato almeno quanto l’ateismo dove rischia di sboccare, perchè è molto difficile conservare la fede senza o contro la ragione e, se la si perde, dato che la credenza di Dio poggia solo su di essa, non soltanto si cessa di essere cristiani, ma si diventa senz'altro atei. Il fideista confonde due questioni che vanno tenute ben distinte: le ragioni o le prove razionali dell’esistenza di Dio e la fede propriamente detta, cioè l’adesione intellettuale e libera al contenuto della Rivelazione. Egli riduce tutto alla fede e nega a tal punto la capacità della ragione (quando addirittura non gliela contrappone quale nemica, come per esempio il Chestov) da non poter dare alla prima alcun fondamento razionale; in questo senso è un ateo credente contro tutto e se stesso. Ridurre tutto alla fede è contrario alla sua stessa essenza, come non è razionale ridurre tutto alla ragione: fideismo assoluto e assoluto razionalismo sono antitetici, ma hanno in comune la ragione atea, che è contraddittoria. Religione e filosofia devono temere ugualmente l’assolutizzazione della ragione e la sua totale svalutazione, l’una e l’altra negazione della natura dell’uomo e dei suoi poteri conoscitivi: l’ordine della fede è assicurato solo se  l’ordine della ragione è conservato  (9). Il fideismo si dibatte in (15) L. OLLé LarrunE, Ce qu'on va chercher è Rome, Paris 1895, 30. 40 Filosofia e Metafisica una contraddizione teoretica, e anche vitale: è ateismo teoretico e teismo pratico; come dire, l’uomo diviso in due. Vi è ancora un fideismo non propriamente di carattere religioso (non fa dell’esistenza di Dio un atto di fede), non laico, nè riducibile senz’altro all’agnosticismo. Esso si fonda su una specie di senso interiore di Dio, tanto forte, universale e naturale da costituire una prova della sua esistenza, superiore, secondo i suoi sostenitori, a quelle razionali, che sono pressochè superflue esercitazioni logiche; per questo  senso  l’uomo è chiamato irresistibilmente a Dio.  Io sento che Dio c’è, e non sento affatto che non c’è. Tanto mi basta; ogni ragionamento è superfluo. Concludo che Dio esiste. Questa conclusione è inscritta nella mia natura  (!9). Così lo formula il La Bruyère, secondo il quale Dio è una presenza, un’evidenza:  ...l’esistenza di Dio l’ho approfondita; non posso essere ateo, e perciò sono ricondotto e trascinato nella mia religione, irrecusabilmente  (!?). Tesi d’ispirazione agostiniano-pascaliana, ma non di Agostino e neppure di Pascal, in quanto nel primo vi è questo e molto di più, come di più, anche se meno di quanto è in Agostino, è in Pascal. Certo, questo senso interiore di Dio è estremamente indicativo e attesta una disposizione ontologica, e non puramente psicologica, dell’uomo verso l’Essere supremo; ma da solo non è dimostrativo, nè rende superflua la prova razionale, anzi la esige proprio per la sua forza. In altri termini, non basta il senso interiore di Dio per provarne oggettivamente l’esistenza, in quanto da solo resta un dato soggettivo; è necessario approfondire la natura dell’uomo per vedere se esso s’inscrive in un elemento oggettivo anch'esso interiore, fondamento, radice e origine di quel sentimento. In tal caso, l’esistenza di Dio è provata oggettivamente, non dal senso di Dio stesso, ma da quell’ele(16) Moralisti francesi, Milano, 1943, 67. Questa forma di fideismo ha avuto le sue espressioni più significative nel pensiero filosofico-religioso francese. (17) Ivi, 69. L’ateismo 4} mento oggettivo che lo spiega e giustifica, il quale, a sua volta, non è un puro dato nozionale, ma un’Idea, direi, vitalizzata, vissuta nell’interiorità di quel senso interiore, da essa illuminato. Perciò, han torto il razionalismo, che, per una esagerata nociva ingiustificata esigenza di salvare la forza della ragione, prescinde dall’interiormente vissuto, e l’interiorismo che, forte del senso interno, vuol fare a meno della forza del ragionamento. Invece, è autenticamente agostiniana, perfettamente rispondente a quella del Rosmini e, dentro certi limiti e con alcune riserve, all’altra di Pascal, la posizione che esistenzia l’Idea nella concretezza della vita spirituale e illumina questa nella luce dell’Idea. Ma, anche presa da sola, la tesi dell’esistenza di Dio come evidenza dal senso interiore non può dirsi atea, tranne che non degeneri nell’ontologismo o nel panteismo. Invece, pur non potendo essere ridotta all’agnosticismo laico 0 ateo per certe sfumature a cui non vogliamo rinunziare, è più pericolosa l’altra tesi, propria di Kant, che ammette l’esistenza di Dio, razionalmente indimostrabile, per pure esigenze della volontà: la ragione teoretica è agnostica;. tuttavia, per esigenze morali, bisogna agire come se Dio esistesse; la ragione pratica crede per fede razionale. In altri termini: l’esistenza di Dio è un atto soggettivo» della volontà rispondente alle sue esigenze profonde, ma non è una verità  oggettivamente » valida. Questa posizione kantiana, ancora largamente diffusa, è stata estesa anche ai valori morali; ma così l’agnosticismo, oltre che la metafisica, mette in pericolo anche i valori spirituali (19). 5.  Il deismo.  Un deista è un uomo che non ha avuto ancora il tempodi diventare ateo ». Così il De Bonald, e fino ad un certo (18) Per una più ampia ed approfondita discussione della posizione kantiana, come di altre in queste pagine appena accennate, cfr. la Parte Terza, Sezione II di quest'opera. 42 Filosofia e Metafisica punto ha ragione, perchè il deista, in fondo, è un ateo che non vuol dirsi tale. D'origine italiana, il deismo, dopo essere passato in Francia, si trapiantò in Inghilterra, dove trovò il clima che gli si addiceva (!9), per poi essere accolto di nuovo in suolo trancese e celebrare il suo trionfo nel secolo XVIII. Si può chiamare deista, attraverso le forme molteplici che il deismo presenta nella storia del pensiero, la dottrina che nega ogni religione positiva e rivelata e fa di Dio un puro ente di ragione, quasi sempre identificato con l’Ordine della natura o con la Natura stessa (in questo caso non si distingue dal panteismo), con il Principio o la Causa che regge e governa il mondo. In tal senso, si possono dire deisti nell’antichità Aristotele e Plotino, nei tempi moderni Spinoza, ai nostri giorni il Martinetti, oltre a quelli veri e propri come E. Herbert di Chirbury, Toland, Voltaire, Rousseau, lo stesso Kant, ecc. Nel secolo che fu il suo, il deismo è la manifestazione più significativa, anche se non la più audace, dello spirito antireligioso e dell’esaltazione della libera e onnipotente ragione; infatti, polemizza contro ogni religione positiva (cattolica, protestante, ebraica), contro ogni forma di culto, il dogma e il soprannaturale. E’ chiamato anche religione naturale », ma in più sensi: in quanto 2) ammette solo quelle verità che si possono attingere e dimostrare con la sola ragione (esistenza di Dio, immortalità dell'anima, ecc.); 5) ha il culto della natura, madre benigna, dove tutto è bene ed accade secondo la legge del bene che viene ad identificarsi con Dio; c) è una religione spontanea, istintiva, senza costrizioni e comandamenti. Religione, in un certo senso, facile, a cui la ragione aderisce senza sforzo, senza un superiore atto di fede, culti speciali, mortificazioni e digiuni, anzi compiaciuta di vedervi confermata la (19) Hazarp, La crisi della coscienza europea, Torino. propria onnipotenza; rassicurante, in quanto fa che Dio, pur così vicino alla natura, intervenga il meno possibile nel corso delle cose naturali e umane; serenatrice delle coscienze, liberatrice dall’ inquietudine del peccato, dall’ attesa della grazia, dall’incertezza della salvezza, da un giudizio divino. In breve, la religione deistica è la negazione del Cristianesimo: di Dio Padre, della caduta dell’uomo, dell’Incarnazione, del riscatto. Religione di un Dio lontano, che interviene raramente, fa comodo alla ragione, a cui serve per meglio assicurare la libertà e la potenza senza esserle mai d’impaccio o di limite. Il deismo è la negazione del Dio della fede: attenua Dio, ma non lo nega», come osserva il Bayle;  la differenza tra gli atei e deisti è quasi nulla » (?9). Esso s'inserisce in quel processo di autonomia dalla religione di ogni forma di attività umana, caratteristico dei secoli XVII e XVIII, allo scopo di liberare l’uomo dalla soggezione della Verità rivelata e della Chiesa. La scienza con Galilei e Newton, la politica con Machiavelli, il diritto con il giusnaturalismo, la filosofia e la morale con il razionalismo, l’empirismo e Kant, si costituiscono separate dalla religione, tenuta lontana da ogni forma di attività umana, che si pone autonoma, opera soltanto dell’uomo. Così si viene a negare la religione, meglio se ne costruisce una ...senza religione, soltanto umana, razionale, naturale, che non menoma l’autonomia dell’uomo, anzi la conferma e completa: liberare la religione dalla religione, che comporta o la sua negazione, o la sua affermazione... contraddittoria (7). (20) Hazarp, ocit., p274; 275. (21) Molti elementi, di cui è necessario tener conto, concorsero al nascere e al fiorire del deismo, a definirne il contenuto: ) la già detta tendenza di emancipare l’uomo da ogni religione positiva e dalla Chiesa; 4) la reazione al giansenismo che assoggettava, fino a negarla, la volontà umana, colpita dal peccato e decaduta, alla grazia soprannaturale, imponeva un rigorismo esagerato e la rinunzia al mondo, una concezione cupa della vita: c) il desiderio di far cessare le lotte religiose, che avevano insanguinato l’Europa, eliminando quanto (il loro contenuto religioso) poteva dividere ed armare l'una contro l’altra le varie confessioni, donde il farsi strada del nuovo concetto di  tolleranza e la polemica contro il  fanatismo (il VoLtarrE, ocit., 45, lo considera più funesto dell’ateismo); d) motivi politici, cioè, lo sforzo del potere laico di ridurre al mi44 Filosofia e Metafisica Da un punto di vista teoretico il deismo si rifà alla concezione che della Natura e della Legge universale ebbero la scienza e la filosofia dei secoli XVII e XVIII: Dio Causa, Dio-Legge dell’ Universo, che governa e regge, DioOrdine della Natura sostituiscono il Dio cristiano rivelato, Padre, Creatore, Amore. La natura sostituisce anche Cristo; è la  mediatrice che, con la sua bontà, le sue provvidenze e il suo ordine perfetto, rivela Dio agli uomini; ma siccome Dio è la Natura eterna, questa si autorivela attraverso l’uomo, quello del razionalismo moderno e dell’Illuminismo, scienziato-filosofo, che di essa scopre le leggi, l’ordine e le provvidenze, rapisce i segreti affinchè l’umanità sia felice in un regno di felicità, tutto costruito esclusivamente dagli uomini. Così il deismo si trasforma in panteismo cosmico (divinizzazione della Natura), che, in ultima analisi, è divinizzazione dell’uomo, rivelatore dell’ordine e delle leggi che governano la Natura stessa, della quale, d’altra parte, conoscendola, s’impossessa per farla servire al suo fine supremo: la costruzione del Regnum hominis, luogo dell’unica sua felicità perfetta. Una religione senza misteri per un'esistenza senza enigmi: questo il deismo. Una religione, dunque, che non è nimo l’ingerenza della Chiesa, limitatrice dell'autorità assoluta del Principe. Non è, del resto, questa la prima volta nè l’ultima che l’attività politica della Chiesa. come stato è motivo concorrente di scismi, eresie ed anche di ateismo. Vanno aggiunti anche elementi occasionali come i viaggi, che, facendo conoscere nuovi costumi e tradizioni, mettono in dubbio l’universalità di alcune credenze e generano scetticismo: tutto è relativo ai luoghi, ai tempi, ai climi. Si immaginano terre fantastiche per dimostrare che il Cristianesimo è assurdo; si esaltano: repubbliche senza preti e chiese; si tenta persino di provare con il calcolo che la resurrezione della carne è impossibile, ecc. Così si dubita di tutto, meno di quel che si vede e si può sperimentare; l’empirismo del Locke è il sistema adatto. alla bisogna (cfr. Hazarp, ocit., p1} e sgg.; 21 e sgg.). Gli empiristi e i materialisti francesi, non solo rigettano il teismo cristiano, ma anche la religione naturale del deismo inglese: i sensi bastano all’umano. sapere; non è conoscibile nè importa conoscere tutto ciò che oltrepassa i dati dell'esperienza sensoriale ( affinchè io creda nell’esistenza di Dio, lasciatemi toccarlo!dice Diderot); l'elemento primario del reale è la materia e la coscienza uno. secondario da essa derivato; materia e senso; dunque, solo la scienza ci può. far conoscere la natura e i suoi fenomeni. L'ateismo 45 tale, ma è filosofia atea al servizio di una vita facile, arbitra di sè, desiderosa di non indagarsi a fondo, di non porsi problemi tormentosi e metafisici, di non avere eccessive preoccupazioni religiose, di essere felice in questo mondo. Il deismo, in fondo, è più ateo dell’ateismo dichiarato: lo ateo nega Dio, ma ne ha fame, il deista Lo ammette per identificarLo con l’ordine della natura e in definitiva con il sapere umano; l’ateo Lo nega e vede ovunque oscurità, mistero, dolore e male inspiegabili, il deista per ogni dove vede chiarezza ed evidenza razionali, felicità e bene; l’ateo è infelice e, nonostante tutto, religioso, il deista è un contento diabolico, che si crede in possesso di Dio e della sapienza divina: quel che può sembrare un mistero, per lui, è soltanto una difficoltà provvisoria, che il progresso irresistibile della scienza supererà. Deisti ante litteram furono i  libertini », sempre pronti ad assimilare posizioni filosofiche anticristiane, e a divulgarle: spiriti superficiali, ribelli, epicurei, fatti per diluire le filosofie, per gettarsi a capofitto nelle novità, tranquillamente scettici e calcolatamente edonisti, privi di senso metafisico, pronti a non prendere in considerazione i problemi difficili, ostici per la loro cultura da raffinati. Diventati deisti, si chiamano per eccellenza gli esprits forts (?), ma non cessano di essere superficiali, anche se alimentati ed incoraggiati dall’ ateismo », di ben altra tempra, dello Spinoza (*). Il Settecento deista e  razionale è ingenuamente convinto che ilpassato sia un cumulo di assurdità e compito del nuovo secolo dei lumi quello di  scoprirne gli errori »; (22) Bavyce Pensées sur la Cométe, cit., par. CXXXIX. (23) Esempio vistoso della fatuità di pensiero di alcuni tra i più rinomati deisti è John Toland, sul quale cfr. le belle pagine che gli ha dedicato l’Hazarp nell’ocit., p154-159; la superficialità vacua di Herbert di Chirbury è stata egregiamente dimostrata da M. M. Rosst nella monumentale opera in tre voll.: La vita, le opere e i tempi di E. Herbert di Chirbury, Firenze, Sansoni, 1947. Ci sembrano opportune e da meditare le parole che DostoevsKiy mette in bocca al vecchio Karamàzov:  sappi, imbecille, che noi tutti qui è solo per frivolezza che non crediamo, perchè ce ne manca il tempo... (I fratelli Karamdzov, Milano, Corticelli, 1944, 147). 46 Filosofia e Metafisica errore principe da denunziare e abolire la religione cristiana e il suo Dio, sostegno della tirannide e strumento di oppressione dei popoli,  superstizione che ha impedito allo uomo di conoscere e mettere in opera le sue immense possibilità per il progresso individuale e sociale. Deisti e  liberi pensatori non si domandano mai perchè per secoli e secoli gli uomini abbiano creduto e la filosofia si sia sforzata di attingere una verità razionale non disforme da quella religiosa: per loro tutto ciò è pregiudizio e superstizione. Orgogliosi, i  razionali disprezzano i religionari(i due termini sono del Bayle), come il sapiente l’ignorante testardo ed incorreggibile (**). Loro sanno tutto: che non vi è rivelazione e non ve n’è bisogno; che nessuna fede religiosa è veritiera e necessaria; che Dio è lo stesso ordine della natura conoscibile pienamente dalla ragione, che in certo qual modo lo fa essere. In una parola, hanno scoperto la verità totale, costruito la scienza perfetta, dispensatrice agli uomini di felicità e liberatrice da ogni oscurità ed errore, dalle imposture dei frati. Così negano Dio senza nemmeno porsene seriamente il problema, e divinizzano l’uomo:  seguendo la ragione  scrive uno dei razionali noi dipendiamo soltanto da noi stessi e diventiamo così in qualche modo degli dèi(?); con la ragione e l’esperienza si scopre il  meccanismo della natura e ci s’impossessa d’ogni segreto e mistero, dell’essenza stessa di Dio (?). Questi liberi pensatori », incapaci di essere uomini che pensano in altezza e in profondità, si credono dèi. (24) Il Votare (0cit., 45), che pur riconosce alla religione positiva un valore sociale, la considera adatta per i bambini: un catéchiste annonce Dieu aux enfants, et Newton le démonstre aux sages ». (25) Giusert, Histoire de Caléjava ... (1700), p 57 (cit. da Hazarp, ocit., 161). (26) Una pagina del Maritain (I/ significato dell’ateismo contemporanco, Brescia, Morcelliana, 1950, p26-27) ben chiarisce il concetto di Dio del deismo, molto affine al panteismo:  Supponete ora una nozione puramente naturale di Dio, che conoscendo l’esistenza dell'Essere supremo, misconoscesse al tempo stesso ciò che S. Paolo chiamava la sua gloria, negasse l'abisso di libertà signi. L’ateismo 47 Il deismo, frutto di un atteggiamento mentale spietatamente spregiudicato e scettico tanto da mettere in dubbio tutta la tradizione e qualsiasi autorità, è il trionfo del più acritico dommatismo razionale, della superficialità sistematica, della più ingenua fiducia nei poteri della conoscenza umana e nelle possibilità assolute della scienza.  Età barbara della filosofia », l’ Illuminismo non ebbe in generale sensibilità per i problemi religiosi e per la filosofia intesa come indagine profonda della vita spirituale. Contro ragione, afferma l’assolutezza della ragione, molto facile a difendere una volta che tutto il sapere è limitato a quello scientifico e i problemi essenziali messi da parte; formula un concetto mitico della  libertà e si crea la superstizione della scienza (?’). Oggi, l’umanità sta vivendo in un’epoca di Nec-illuficato dalla sua trascendenza e incatenasse Lui stesso al mondo da Lui creato; supponete una nozione puramente razionale  e buffa  di Dio, che sia chiusa al soprannaturale e che renda impossibili i misteri nascosti nell'amore di Dio, nella sua libertà e nella sua vita incomunicabile. Avremmo allora il falso Dio dei filosofi, il Giove di tutti i falsi dèi. Immaginate un Dio che sia legato alordine della natura e che non sia che una suprema garanzia e giustificazione di questo ordine, un Dio che sia responsabile di questo mondo senza poter redimerlo, e la cui inflessibile volontà, che nessuna preghiera può raggiungere, si compiaccia e dia la sua cosacrazione a tutto il male come a tutto il bene del mondo, a tutte le furfanterie e crudeltà come a tutte le generosità che operano nella natura, un Dio che benedica l’iniquità, la schiavitù e la miseria e che sacrifichi l'uomo al cosmo, un Dio che delle lacrime dei fanciulli e dell’agonia degli innocenti faccia un coefficiente senza alcun compenso delle necessità sacre dei cieli eterni o dell'evoluzione. Un tale Dio sarebbe, sì, 1’ Essere supremo, ma cambiato in idolo, il Dio matwralista della natura, il Giove di questo mondo, il grande Dio degli idolatri, dei potenti sui loro seggi, dei ricchi nella loro gloria terrestre, del successo senza legge. Tale, mi pare, è stato il Dio della nostra filosofia razionalista moderna, il Dio forse di Leibniz e di Spinoza, sicuramente il Dio di Hegel ». (27) Il deismo, strettamente legato alla massoneria per il suo atteggiamento anticlericale, antichiesastico e individualista, assume come suoi dogmi indiscutibili il principio del libero pensiero e la fede nella ragione, emancipata dai legami della tradizione e da ogni autorità non liberamente riconosciuta, regola assoluta della vita (ateismo pratico). Siccome la libertà di ciascuno e di tutti va rispettata e, d'altra parte, le  ragioni individuali sono spesso discordi, la verità di un punto di vista va stabilita ed accettata secondo il parere della maggioranza. Democrazia e  sacra libertà della coscienza governata dall’intelligenza, che è  sacrilegio anche limitare,  culto della ragione umana che s’inchina solo a se stessa, questa 48 Filosofia e Metafisica minismo pretenzioso e dilagante, superficiale e saccente, più grossolano di quello settecentesco; neo-positivismo di diverse tendenze, marxismo ortodosso e eretico, neo-empirismo e pragmatismo di vario colore, neo-materialismo, tutti si rifanno ai temi e soprattutto all’4r5ms dell’ Illuminismo, ne rinnovano la barbarie filosofica in un mondo che va verso la  civilizzazione assoluta dell’uomo senza  umanità e, dunque, senza  cultura ». 6.  Monismo e panteismo. a) Il monismo. La forma di ateismo più dotta, filosofica e fino ad un certo punto più critica è il panteismo, dottrina antica e moderna, quantunque l’introduzione e lo la nuova religione capace di rigenerare l’umanità per il  razionalismo del Settecento e poi per il laicismo posteriore dell’epoca del positivismo. La ragione è Dio, la libertà dell’uomo un assioma; è  obbligatoria (l’uomo ha il dovere di essere libero), com'è obbligatorio il culto della ragione che non s’inchina a dogmi o a principî 4 priori, religiosi o filosofici, anche se essa stessa ne riconosce la convenienza o la verità: salvare il postulato dell’assoluta libertà dell’assoluta ragione (e dire che i positivisti erano quasi tutti deterministi!) anche contro la ragione e l'evidenza. Per il laicismo massonico-positivista, di origini deiste e illuministe,  le bien inestimable da custodire, conquistato dall'uomo contro i pregiudizi e attraverso sofferenze e lotte,  c'est cette idée qu'il n'y a pas de vérité sacrée, c'est à dire interdite è la pleine investigation de l’homme, c’est que ce qu'il a de plus grand dans le monde c'est la liberté souveraine de l'esprit... c'est que toute vérité que nous vient pas de nous est un mensonge... ». Anche se si facesse visibile,  si Dieu lui méme se dressait devant les multitudes sous une forme palpable, le premier devoir de l'homme serait de refuser l’obéissance et de le considérer comme l’égal avec qui l’on discute, non comme le maître que l'on subit ». (J. Jaurès, Discours è la Chambre des Députés, 11 févr. 1895, cit. in Diction. Apologétique de la foi Cathol., Paris, 1924, IV ediz., vol. II, coll. 1781-1782). La letteratura e i discorsi del tempo sul culto della libertà e sulla religione della ragione abbondano di simili sciocche doutades di una ingenuità acritica e afilosofica veramente scoraggiante. Il laicismo dimostra spesso rispetto per Dio, ma non per l’ Essere assoluto trascendente creatore, bensì per l’idea che l’uomo se ne fa: essa merita rispetto come tutto quanto appartiene all'uomo, il quale, ospitando Dio nel santuario della coscienza, ne rende rispettabile il nome. La nuova religione laica è la  religione dell’irreligione », secondo una felice espressione del Guyau. Forme di laicismo positivista sono il cosiddetto  monismo umanitario », a cui abbiamo accennato a proposito della  religion de l’humanité del Comte (e anche del Saint-Simon, del Fourier, del Proudhon, ecc.), che dovrebbe sostituire l'adorazione del Dio personale; e il  monismo sociologico del Durkheim. L'’ateismo 49 uso del termine siano relativamente recenti (28). Non è facile distinguere il panteismo dal monismo; tuttavia, nei limiti del nostro argomento, li trattiamo distintamente. Il panteismo filosofico ha due aspetti fondamentali: @) riduzione di Dio al mondo, il solo reale: Dio è l’unità di ciò che esiste, la somma delle parti; £) del mondo a Dio, del quale il primo è un insieme di manifestazioni o di emanazioni senza realtà permanente, mancanti di una loro sostanza distinta da quella divina. Nel primo caso, si nega Dio nel mondo, nel secondo il mondo in Dio. Il primo possiamo chiamarlo cosmismo, che è quasi sempre materialismo; il secondo acosmismo, che può essere intellettualista (Spinoza), dialettico (Hegel), ecc.; il primo può identificarsi con il monismo, il secondo con il panteismo vero e proprio, che, sostanzialmente, tende sempre al monismo. L’uno e l’altro rispondono ad un'esigenza fondamentale: ridurre tutti gli esseri all'identità assoluta non solo logica ma anche ontologica; oppure: riportare la molteplicità degli enti alla unità ontologica, per cui Dio e il mondo non sono due realtà di diversa natura, ma una sola: l’essere del mondo è identico all’essere di Dio. Così l’esigenza legittima di unificare il molteplice riportandolo a un unico principio, spinta oltre il limite della constatazione dell’ordine delle cose, per cui la molteplicità forma un cosmo», conclude all’unità sostanziale delle cose stesse e del loro principio, senza più distinguere tra identità e analogia. Per il panteismo che riconduce Dio alla natura, la realtà è l’universo sensibile con cui Dio stesso s’identifica; anche se è detto spirito, lo è come spirito del mondo, energia vitale o animata e perciò sempre di natura materiale. Tale panteismo, che nega Dio come essere spirituale e. chiama (28) Come ha notato l’Eucken, il Toland usò per primo (1705) la parola Panteist; il Fay introdusse (1709) l’altra Panzeism. Si noti che i termini panteismo »,  monismo (coniato dal Wolff),  agnosticismo appartengono tutti al vocabolario filosofico moderno. 50 Filosofia e Metafisica Dio lo stesso universo, s’identifica con il monismo naturalista o materialista ed è senz’altro ateismo; infatti, dire che Dio è l’universo materiale è negare che esista e continuare ad usare un termine che non ha più alcun senso; è chiamare una realtà con un nome che ne significa un’altra. Nell’antichità è monismo materialista il panteismo stoico (?°) e nei tempi moderni, sotto l’influsso della teoria dell’evoluzione, quello biologico del Moleschott, Huxley, Biichner e, più fansioso di tutti, di Haeckel ecc.; monismo naturalista si può chiamare quello di alcuni positivisti, quali Du Bois Reymond, Spencer, Ardigò ecc. Per il panteismo cosmico, che identifica Dio con il mondo ed è il vero monismo assolutamente ateo, l’unica realtà è la natura o universo, per se stesso esistente e avente in sè la ragione ultima di tutto, di ogni suo grado come di ogni ente particolare: non vi è l’Essere da cui deriva o procede il mondo, ma vi è il Mondo, l’Essere unico che si pone, si svolge e si spiega da, in e per se stesso; si fa Dio, è esso stesso Dio. Ma è evidente che il termine qui non significa nulla: Dio non c’è, c'è solo il mondo; in definitiva, la materia o qualcosa di materiale, originario e dotato di energia vitale, che evolve da se stesso e per leggi proprie. Ateismo puro che ha la pretesa di essere scientifico e, in realtà, non ha alcun fondamento scientifico e tanto meno filosofico. Infatti, presupposto un principio eterno e necessario, da cui per evoluzione tutte le cose derivano, consegue: 4) vi è una certa distinzione tra le cose e il loro principio unico, ma solo fenomenica e non di sostanza; 5) la sostanza o natura delle cose è una ed identica; c) la spiegazione ultima del(29) Il cosmo è composto di materia, finita e piena, penetrata dalla Ragione, di natura ignea, forza immanente, Dio, che è insieme l’ordine che tiene unite le parti e la loro somma. Per Zenone,  l’universo ha due principi: uno passivo, la sostanza informe, la materia; l’altro attivo, la mente di Dio. Quest'ultimo penetra nella materia, produce i quattro elementi ed è artefice di tutte le cose (1 frammenti degli stoici antichi, a cura di N. Festa, vol. 1, Zenone, Bari, Laterza, 1932, 80). i L'ateismo 51 l’esistenza, del significato del processo e della diversità delle cose è nelle cose stesse, cioè nel loro principio e nelle leggi che governano l’evoluzione; 4) dunque, per Dio non c’è posto e non vi è traccia di divino nel mondo: l’Essere è ontologicamente uno e si svolge per evoluzione progressiva. Ma che cos'è quest’Essere uno originario necessario? Un embrione informe del mondo, una specie di materia-madre che i monisti chiamano in vari modi: omogeneo(Spencer), indistinto (Ardigò), sostanza primitiva(Haeckel); ma si tratta di nomi, di ipotesi non accertate e non accertabili, di parole che vorrebbero sostituire Dio. Il monismo materialista, come quello dello Haeckel, è una contaminazione grossolana di materialismo evoluzionista e di spinozismo. Anche l’esperienza è contro l’ipotesi monista: la nostra coscienza ci attesta direttamente che almeno le sostanze intelligenti sono fondamentalmente irriducibili; dunque, il pluralismo degli enti non è solo fenomenico, ma sostanziale. Con ciò ci testimonia: 4) che l’ipotesi dell’unità ontologica dell’essere non ha fondamento obiettivo e dunque non vi è una realtà primitiva materiale da cui tutto procede per evoluzione; 5) che, rivelatasi inesistente tale realtà primitiva, resta aperta la possibilità di provare razionalmente che il mondo è stato creato da un Essere assoluto, il cui essere è di altra natura da quello delle cose da Lui create; c) che, per conseguenza, non c'è un’unica realtà, ma due di diversa natura, la creata dipendente dalla creante: l’essere di Dio e quello del mondo. Ma l’esistenza di Dio e la creazione, a differenza dell’ipotesi monista, si possono provare razionalmente; dunque, giacchè è vera la dottrina contraria, il monismo risulta un'ipotesi falsa, nata da un passaggio erroneo: dall’esigenza legittima di ridurre la molteplicità delle cose all'unità concettuale dell’idea, passa illegittimamente all’unità 52 Filosofia e Metafisica ontologica dell’essere reale (*°). D'altra parte, il materialismo o il naturalismo evoluzionista non possono e non potranno mai spiegarci come dalla materia primitiva, la si nomini come si voglia, nasca lo spirito ed entri nel mondo il pensiero: mistero inspiegabile. Dire che derivano per evoluzione dalla materia o che sono suoi epifenomeni (Marx) è non dir niente, è presentare la difficoltà insoluta... come soluzione! Non per nulla il panteismo vero e proprio si presenta meno grossolanamente acritico del monismo materialista, ateo per affermazione dommatica e, nello stesso tempo, incapace di dare al suo ateismo un fondamento scientifico e una spiegazione razionale. Dopo il tanto rumore della seconda metà del secolo XIX e dei primi anni del nostro e la diffusione attraverso la stampa divulgativa e pseudoscientifica, è considerato definitivamente morto anche da scienziati e filosofi che non hanno preoccupazioni religiose. Morto come istanza filosofica, è diffuso in forma rinnovata e aggiornata tra le masse attraverso il comunismo, non perchè abbia una benchè minima forza speculativa, ma in quanto son vivi i problemi di ordine economico-sociale ai quali viene agganciato. In altri termini, è soltanto l’aspetto sociale del marxismo che conferisce forza ed attualità alle sue grossolane teorie  filosofiche ». Da ultimo, l’espressione  tutto è Dio non ha più senso quando si ammette, come nel caso del monismo materialista e naturalista, soltanto l’esistenza di esseri fisici o di un essere materiale embrionale, indistinto, omogeneo che sia. Il panteismo, per il significato essenziale del termine, importa sì l’Essere uno, ma lo concepisce come Spirito o Ragione, anche se privo di coscienza ed impersonale, tanto è vero che fa del pensiero e della coscienza la rivelazione dell’ Essere a se stesso. D'altra parte, l’Assoluto di cui parla il panteista, pur non essendo il vero Dio, suscita ammirazione ed amo(30) Cfr. Dict. apol. de la foi cathol. cit., vol. IMI, p918-922. L'ateismo 53 re, sia anche solo intellettuale »; dà l’ebrezza del divino immanente (Spinoza). Tutto ciò manca nel monismo materialista o naturalista, dove Dio è una pura espressione verbale:  tutto è Dio viene ad identificarsi, perdendo il suo sostanziale significato, con l’espressione  tutto è materia (5). b) Vi è una forma antichissima di panteismo ricorrente e presente in tutte le epoche e presso tutte le genti. Alludiamo a quel panteismo prefilosofico, primitivo, proprio di popoli agli inizi della speculazione, o di nature poetiche e mistiche abbandonate al fascino dell’immediato, alla suggestione delle forze della natura senza mediazione razionale, riflessione concettuale ed elaborazione critica. La Grecia prefilosofica è in questo senso panteista: le forze cosmiche sono divinizzate, fatte oggetto di culto; nel politeismo già evoluto di Eschilo, Sofocle, Pin (31) Si noti che nel materialismo dialettico (incontro dell’evoluzionismo e del dialettismo hegeliano) i concetti di monismo e panteismo subiscono una trasformazione profonda al punto che non vi sono reperibili. Infatti, il materialismo dialettico nega che vi sia comunque un'essenza di uomo o di altro, un ordine immutabile, una  materia nel senso tradizionale: tutto è il risultato di situazioni storiche, rispondenti ad un grado del divenire; tutto nel futuro potrà essere diverso, perchè non vi sono sostanze. Ora è esigenza del panteismo l'unificazione del molteplice, suoi presupposti l’ordine cosmico e, in comune con il monismo, l’unità sostanziale degli enti. Pertanto, rigettato il concetto di ente e quelli di sostanzialità ed ordine, l’evoluzionismo dialettico e materialista non può dirsi nè monista nè panteista, anzi del monismo e del panteismo è come la critica; in questo senso, è l’esito ultimo dell’uno e dell’altro. Per meglio far risaltare come nel monismo materialista, negati Dio e ogni realtà spirituale, la vita perda ogni significato che non sia quello biologico o economico, tutti i valori umani siano negati e l’esistenza diventi assurda, riportiamo l’efficace descrizione che F. Acri (Della relazione tra anima e corpo) fa dei funerali del  filosofo Spencer.  Ecco: io dico quel che ho letto. Morto lui, il suo corpo è portato, su un carro, in un luogo tra campi solitari, al settentrione di Londra, lì dove era un nuovo forno crematorio; ed era un mattino di dicembre, e tra gli umidi vapori splendeva il sole. Su quel carro non erano fiori, ma neanche alcun panno nero: e quelle duecento persone ch’erano lì ad aspettarlo non erano vestite a nero, e neanche ghirlanda alcuna avevano in mano. Venuto il carro, quelle si levano su in piedi riverenti e silenziose; e la cassa è deposta in una sala terrena, di contro a una porta. E uno fra loro leva la mano in segno di voler parlare; e parlò, e disse della vita di lui, delle opere di lui, insomma del passato di lui; del futuro di lui nè affermò nè negò nulla. Finito ch’ebbe, la cassa è sospinta contro la docile porta, giù per un’aperta di muro, entro il luogo del fuoco; e la porta sovra di lui si chiuse ». 54 Filosofia e Metafisica daro, ecc., la distinzione tra le varie divinità, identificate con le forze naturali, si affievolisce; la molteplicità è gerarchizzata e unificata in un Dio supremo (Zeus  testa del mondo »). L’orfismo, con i suoi culti, le sue credenze nell’oltretomba e nella metempsicosi, è anch’esso una forma di panteismo primitivo e tende a cancellare, riducendola ad apparenza, la individualità sostanziale della persona umana; l’invasato dalla divinità, attraverso l’ispirazione ed il rito, si sente così posseduto dal Dio da immedesimarsi con lui. Le forze vitali e le loro manifestazioni, gli elementi della natura diventano, per l'immaginazione robusta e per la ragione ancora debole e fanciulla, potenti divinità, buone o cattive, da propiziarsi con riti, culti, preghiere, sacrifici. L'unità ontologica del tutto, vissuta immediatamente e con sentimento spontaneo, è ancora nella fase dell’intuizione poetica o dell'abbandono mistico; il senso profondo della natura e della immedesimazione con le sue forze è ebrezza del divino, sentimento vitale di comunione dell’uomo con la divinità e della divinità con l’uomo. Questa forma di panteismo, che non è pensiero riflesso ma esperienza immediata, trova le sue espressioni più spontanee e turgide nel primitivismo di popoli non ancora intellettualmente evoluti, o in quello di forti temperamenti mistici e poetici, che hanno esuberante il senso della natura e il culto della vita. I mistici tedeschi non cattolici, Goethe e quasi tutta la poesia del romanticismo germanico, alcuni scrittori contemporanei, soprattutto modernissimi, vibrano di potenti accenti panteistici, si sentono come immersi nella natura divinizzata. È quello che possiamo chiamare panteismo estetico: culto della  gran madre Natura », che è bellaanche quando è orrida », Dio vivente di tutta la potenza delle sue forze attive, ora paurosamente terrifico (la tempesta, il terremoto, ecc.), ora maestosamente rasserenatore in una pace solenne, infinita, immobile (il cielo stellato, l'orizzonte immenso e limpido . L'ateismo 55 da una vetta alpina ecc.). Ma questo panteismo, appunto perchè prefilosofico e quasi inconsapevole o solamente poetico, non può essere oggetto del nostro discorso. Il panteismo che riconduce la natura a Dio non parte dal mondo, ma dall’Essere uno e necessario, che chiama Dio, Infinito, Assoluto, Io; ma, in ogni caso, lo concepisce come Pensiero o Spirito, da cui deduce il mondo per emanazione (Plotino), per deduzione necessaria e razionale (Spinoza), per posizione (Fichte), per movimento dialettico (Hegel), ecc. In tutte queste teorie, il mondo è identificato con Dio, per cui realmente esiste solo Dio, di cui il mondo stesso è una manifestazione. Virtualmente la sua realtà è negata; meglio, dovrebbe esserlo, se il panteista non avvertisse tale difficoltà e le contraddizioni insite nel sistema. Questa ed altre forme di panteismo hanno in comune due tesi che è opportuno indicare: 4) riduzione della molteplicità degli esseri all’unità ontologica di un unico ed identico Essere, per cui l’essere del mondo, emanante o procedente da Dio, è lo stesso essere di Dio; 2) che è dunque  incatenato al mondo, il solo possibile, che da lui emana eternamente e necessariamente e a lui torna per identificarvisi, come le gocce d’acqua che, lasciate temporaneamente sulla spiaggia dal flusso dell’onda, vengono riassorbite nella successiva (3°). Il mondo s’identifica con Dio, da cui emana o procede; dunque l’essere del mondo è lo stesso di quello divino; d’al(32) Nota ed espressiva l’immagine dell’albero: fusto, rami, foglie tutto trae vita dallo stesso seme e dalla stessa linfa, che si rinnova identica a se stessa nell’unità della sostanza dal seme ai frutti. Essa è frequente nelle Enneadi ed ha avuto fortuna nella poesia romantica di Schlegel, Schiller, Novalis, ecc.:  S'immagini la vita di un albero, grandissimo; trascorre in esso, rimanendo il suo principio, immobile, senza disperdersi per l’albero, poichè risiede nelle radici (Ern., I,8, 10). 56 Filosofia e Metafisica tra parte, il panteismo non nega che il mondo è anche materia o qualcosa che, non essendo spirito, non è della stessa natura spirituale di Dio; consegue che, se si mantiene il principio della identità del mondo con Dio, bisogna affermare l’identità dei contrari, che logicamente è non affermare nulla. È la difficoltà in cui sembra incorrere il panteismo dello Spinoza: l’estensione (materia) e il pensiero (spirito) sono due degli attributi dell’ rica Sostanza o Dio o Natura; se la dualità è anche in Dio non c’è l’unica realtà eterna (la Sostanza), ma due, irriducibili all’unità della Sostanza stessa; se questa è una, materia e spirito vi s'identificano e si afferma l’identità dei contrari, cioè si nega la realtà dell’uno e dell’altro. Lo Spinoza e altri panteisti (Bruno, Fichte, Hegel, ecc.; Plotino identifica la materia con il  non-essere », cioè con la zona oscura dove si spenge l’emanazione dell’Uno), consapevoli della difficoltà, distinguono tra natura emanata o posta (razura naturata) e la Sostanza o Io o Spirito emanante o ponente (natura naturans). Ma daccapo: 4) o Dio e il mondo sono realmente distinti, due realtà, due nature, e non c’è panteismo; 2) o il mondo non si distingue realmente da Dio e, in tal caso, c’è panteismo, ma la difficoltà sopra notata ne fa una dottrina contraddittoria. In altri termini, o la distinzione Dio-mondo è reale (analogia dell’essere) e bisogna abbandonare la dottrina dell'Essere unico in cui esiste tutto ciò che esiste; o la distinzione non è reale (univocità dell’essere) e allora: o si conclude che il mondo è pura apparenza; o, se gli si vuol concedere un certo grado di realtà  concessione necessaria in ogni sistema panteista affinchè sia reale lo stesso Assoluto o Dio , dato che esso non è solo spirito, bisogna identificare il suo carattere materiale con quello spirituale di Dio, cioè due contrari, identificazione che, oltre al resto, riesce ugualmente L’ateismo 57 alla negazione della realtà del mondo (*). Ma cerchiamo di approfondire meglio l’argomento (#). Posta la tesi fondamentale: l’urità dell’idea dell’essere imrta la unicità dell’Essere stesso, consegue che il molteplice (gli enti particolari e finiti) o è l’Essere, o non è; dunque, solo apparentemente, nella sua fenomenicità, si distingue dall’Essere; in realtà è lo stesso Essere e non è come distinto da esso. Parmenide per primo dà una soluzione netta ed estrema del problema: l’Essere è, il Non-essere [il molteplice ] non è »; Platone, nel Parmenide, mette in evidenza le insolubili aporie cui va incontro una dottrina dell’Uno che nega i Molti, come quelle della tesi opposta dei Molti che negano l’Uno; da parte sua, contro la tesi panteista, ammette la realtà degli enti finiti che hanno dell’Essere senza essere l’Essere. Negare la realtà del finito è affermare senza dimostrarla l’unicità ontologica dell’essere; al contrario si dimostra, contro il panteismo, che tra l’Essere e il Non-essere è possibile la realtà di enti molteplici particolari e contingenti, che come enti sono e come finiti non sono l’Essere, senza perciò essere il Non-essere e senza (33) Tipico il panteismo dello Spinoza. L'unica sostanza  Dio-Natura  consta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime la sua essenza eterna ed infinita. Come la Sostanza non esiste che nei suoi attributi, così questi (pensiero ed estensione sono i due che noi conosciamo) non esistono che nei loro modi infiniti; perciò Dio esiste solo nelle cose come loro essenza universale e le cose sono in lui come modi della sua essenza. Dio è natura maturans in quanto essenza universale del mondo; natura naturata in quanto totalità delle cose, in cui la sua essenza si realizza; dunque non è diverso dai suoi effetti ed esiste solo in essi. Questo il panteismo nella sua forma più tipica: non creazione del mondo, ma sua derivazione necessaria dall’essenza divina. La dipendenza del mondo da Dio non è di causa efficiente ad effetto, ma di seguenza o di conseguenza; il mondo segue da Dio allo stesso modo che dalla definizione del triangolo segue che la somma degli angoli è uguale a due reti. In breve, il rapporto causale è concepito dallo Spinoza come rapporto logico-matematico di principio e di conseguenza. Nulla può essere diverso da quello che è: non c’è posto per il caso nè per la libertà. Conoscere questa universale necessità è la beatitudine suprema dell'anima (amor Dei intellectualis). (34) Questa e altre tesi panteiste sono esaminate con fine acutezza da A. VaLENSIN nel Dict. apol. de la foi cathol., vol. III, p1332 c ss., che in qualche punto teniamo presente. 55 Filosofia e Metafisica che la loro molteplicità ontologica neghi l’unità dell’idea dell’essere. Dio non si può concepire senza il mondo, dicono ancora i panteisti, in quanto sarebbe incosciente: coscienza, infatti, è alterità, il distinguersi da qualcosa che è e le si oppone; dunque il mondo è necessario a Dio, il quale si fa, diviene, si rivela a se stesso, prende coscienza di sè attraverso di esso. Questa tesi, tipica dell’idealismo trascendentale tedesco, trasforma il panteismo in ateismo. Un Dio che si fa (il Got im Werden dello Hegel) non è Dio, non è Spirito infinito, che è Atto puro; qui si nega Dio e si chiama col suo nome un’altra cosa. Infatti, quando il panteista afferma che Dio senza il mondo sarebbe incosciente perchè la coscienza per cogliersi ha bisogno dell’altro da sè, non parla di Dio Coscienza assoluta, ma della coscienza finita dell’uomo, che non è puro spirito come Dio, il quale, come tale, è sempre Coscienza in atto e perciò non necessita dell’altro. Similmente Egli è spirito perfetto senza bisogno di diventarlo, di farsi: se si facesse, sarebbe sempre spirito in fieri e perciò mai perfetto. Un Dio che diviene non è mai Dio in nessun momento del suo divenire e dunque non esisterà come Dio; perciò è come dire che non è. È la conclusione a cui arriva Nietzsche nel notissimo passo della Gaia Scienza:  Dov'è Dio? Voglio dirvelo! L’abbiamo ucciso, voi ed io... Dio è morto! Dio resterà morto! E noi l’abbiamo ucciso... ». Da ultimo, non si parla di Dio ma di altro quando si argomenta che, se è infinito, non può essere che impersonale: chi dice persona dice limite e finitezza, ma Dio è infinito e senza limiti; dunque Dio è impersonale. Osserviamo che la conclusione non dimostra la sua impersonalità; semplicemente Lo nega, in quanto un Dio impersonale è un’astrazione (la Natura, l’Umanità ecc.). D'altra parte, la premessa è esatta se s'intende la persona finita, ma il conL'’ateismo 59 cetto di persona umana non è l’unico possibile : Dio è persona in maniera diversa da come lo siamo noi, ma lo è in modo analogo al nostro (#). Si noti che in quest’ultima sua tesi il panteismo considera l’infinità di Dio in un senso che Gli si addice veramente; infatti, concependo la persona solo secondo quella umana limitata, esclude che Egli possa esserlo. Ma qui nasce un dilemma: o Dio è infinito senza alcuna limitazione, e cadono le due prime tesi panteiste del Dio che si fa e a cui è necessario il mondo per acquistare coscienza di sè, in quanto un simile Dio non è perfetto e infinito in atto ma limitato nel divenire altro e nell’autorivelarsi a se stesso; o Dio non è infinito e perfetto in atto e allora, se tale, anche secondo l’uso ristretto che il panteismo fa del termine, si può dire persona, e cade la tesi panteista della sua impersonalità. Ma perchè vi sia panteismo non in contraddizione con se stesso e dunque sostenibile razionalmente, è necessario mantenere e giustificare tutte e tre le tesi. Impossibile: o Dio è l’Infinito in atto e non Gli è necessario il farsi nel mondo e il mondo stesso, e con ciò vien meno l’essenza metafisica del panteismo (il mondo è Dio e Gli è necessario); o non è l’Infinito in atto e allora, anche nell’accezione panteista, si può concepirLo esistente come persona, e vien meno l’altra tesi essenziale al panteismo della sua impersonalità. In qualunque forma, il panteismo presenta invincibili contraddizioni interne; come tale, è razionalmente insostenibile (*). (35) Invece, così ragionano quanti negano a Dio la personalità: voi chiamate personalità e coscienza ciò che avete imparato a conoscere in voi stessi con questi nomi; ma sapete anche che non vi è personalità e coscienza senza limitazione e finitudine; perciò attribuendo a Dio quei predicati, fate di lui un essere finito, uguale a voi e non avete pensato a Dio, ma moltiplicato voi stessi nel pensiero. Questo ragionamento del Fichte, il quale riduce il teismo ad antropomorfismo, critica un modo di chiamare Dio personale diverso da quello del testa; perciò non interessa il vero teismo e non ha alcuna validità contro di esso. (36) Osserviamo ancora che, anche ad accettarla per un momento, la tesi panteista che il mondo è necessario a Dio, risulta contraddittoria in se stessa. Se il mondo è necessario a Dio, bisogna pure che abbia una sua realtà: se è pura 60 Filosofia e Metafisica 7.  L’umanesimo ateo. Con l’umanesimo assoluto o ateo, proprio di quelle filosofie che si dicono atee perchè umaniste, entriamo nel vivo dell’ateismo contemporaneo nelle sue molteplici forme di derivazione materialista, illuminista e idealista, soprattutto hegeliana. Secondo i suoi teorici, la religione (e perciò l’idea di Dio) aliena l’uomo in un Essere assoluto e trascendente, gli ta perdere il possesso di ciò che gli appartiene, gli impone un Altro; un maestro che gli insegna, o un rivale che gli contende. Di qui l’antitesi teismo-umanesimo: Dio è la negazione dei diritti dell’uomo, che, adorando un Ente Supremo, frutto della sua immaginazione condizionata da situazioni storiche, aliena in lui quel che invece gli appartiene. Pertanto un umanesimo integrale ed autentico è possibile solo se l'uomo cessa dall’alienazione religiosa e riconquista i suoi diritti e poteri, cioè se attraverso l’evoluzione storica elimina il momento religioso della rinunzia a ciò che gli spetta e attribuisce a Dio. Questa forma di ateismo non è una novità del marxismo; apparenza, è assurdo dire che Dio esiste per un’apparenza, anzi dire che esiste; infatti, se il mondo è apparenza, siccome Gli è necessario per esistere, anche Dio è apparenza! Dunque, il panteista deve concedere al mondo una sua realtà, non diversa però da quella di Dio, altrimenti vien meno il principio dell’unicità dell'essere e con esso l'essenza del panteismo; ma se a Dio è necessaria per csistere la realtà del mondo e questa è della sua stessa natura, consegue che per esistere Gli è necessario... Dio stesso! Sì, può obiettare il panteista, gli è necessaria la sua realtà non più in sè, ma fuori di sè, nel suo farsi per acquistare coscienza di sè. Benissimo; ma allora Dio in sè non è coscienza; se non è coscienza, non è soggetto; se non è soggetto, è oggetto,  materia ». Come nasce la coscienza? Si riproduce dentro il panteismo la difficoltà insormontabile del monismo materialista. Non conta che ci soffermiamo su quel misto di panteismo, deismo, emanazionismo che è la cosiddetta teosofia, che non è filosofia nè teologia nè scienza, per la quale sembra abbiano un debole le signore; i due autori più noti, infatti, sono due donne, la Blavatsky e Annie Besant. Le loro tesi sono quelle già da noi confutate: 4) Dio è impersonale (un Dio personale è antropomorfico); in realtà, per la Blavatsky, Dio è onnipotente, onnisciente, ecc. (The Key to Theosophy, London, 1893, 44), ma solo Dio sa, se è tale, come può dirsi impersonale; 5)  Dio è tutto e tutto è Dio », scrive la Besant (WAy I became a theosophist, London, 1891, 18) confondendo le due forme di panteismo, che noi, meno frettolosi, abbiamo distinto e discusso separatamente, i L'ateismo 61 già matura nell’Illuminismo, rappresenta solo una fase di quel processo di divinizzazione dell’umano, proprio del pensiero moderno: l’uomo può fare da sè quello che, attraverso l’alienazione religiosa, crede possa fare solo Dio. Il progresso e l’evoluzione storica dell'umanità risiedono precisamente nella graduale liberazione dalla  superstizione religiosa, infanzia della ragione, nella sempre più matura consapevolezza che noi acquistiamo dei nostri poteri. Per l’idealismo trascendentale, da Fichte a Gentile, l’uomo realizza la sua umanità piena nel pensiero che, attraverso il dialettistmo che gli è immanente ed essenziale, perviene alla risoluzione del momento religioso in quello filosofico e all’attuazione di quella assolutezza dalla religione attribuita a Dio e che, invece, è il pensiero stesso nel suo perenne divenire, nella conquistata consapevolezza di sè. Con il positivismo del Comte, il materialismo del Feuerbach e l’economismo del Marx, la religione dell’ umanità sostituisce quella di Dio. Così l’umanesimo ateo assume uno spiccato carattere sociale: l’uomo acquista coscienza di sè nella società, nel lavoro inteso come vincolo di  fraternità », strumento di dominio della natura, potenziato dal progresso scientifico e tecnico. Nella storia l’uomo realizza tutto se stesso; nella società giusta attua quella perfezione assoluta che l’alienazione religiosa gli fa attribuire a Dio. Al contrario, secondo un’altra forma di umanesimo ateo antisociale anarchico individualista, ma di un individualismo antiborghese, l’evoluzione storica raggiunge la sua maturità con il tipo dell’uomo selezionato, eccezionale, eroe e tiranno, crudele e despota, di cui unica legge è l’arbitrio e tutto è sua  proprietà ». L’umanità esprime la sua potenza intera nell’ unico (Stirner) o nel superuomo (Nietzsche), cioè quando oltrepassa se stessa, si pone al di là della  mediocrità delle leggi, dello Stato, della morale ecc.; la pienezza dell’uomo è nella negazione dell’umano nel superumano del superuomo, usurpatore di tutto, con62 Filosofia e Metafisica quistatore dei suoi supremi diritti contro Dio, di cui decreta la morte cancellando al tempo stesso l’alienazione religiosa, vergogna del  gregge dei deboli. Queste forme di ateismo, imperniate sul concetto di alienazione, nonostante le differenze a volte rilevanti, hanno in comune alcuni presupposti dogmaticamente assunti: 4) la religione è un grado, inferiore rispetto ai successivi, dell’evoluzione dell’umanità, corrispondente al momento in cui l’uomo non ha ancora piena coscienza di se stesso ed attribuisce a Dio quello che gli appartiene e attuerà in una fase più progredita della sua evoluzione; è) essa, per conseguenza, grado transitorio del divenire storico, è destinata a scomparire quando tutti gli uomini, e non soltanto i più evoluti, avranno acquistato consapevolezza di sè, cioè quando vi sarà un’umanità o una società nella piena maturità della sua evoluzione; c) pertanto, quel che si adora come Dio non è che l’ideale umanità futura, che l’uomo per il momento proietta fuori di sè ed entifica in un Ente supremo e domani invece vedrà realizzato in se stesso con e nella sua opera; 4) fino a quando egli adora un Dio e si aliena in lui, è indizio che l’evoluzione storica non ha raggiunto la sua completa attuazione e ancora vi è nella società un residuo d’infantilismo. Sul fondo comune della divinizzazione dell’umano  l’uomo al posto di Dio, l’ usurpatore temporaneo destinato ad essere spodestato  l’umanesimo ateo si differenzia in forme diverse quando si tratta di stabilire in quale delle sue attività l’uomo realizza il suo compimento: il Progresso, la Scienza, la Filosofia, l’Umanità, la Società omogenea, ecc. a volta a volta sono state additate come le nuove divinità della nuova religione umanistica », la cui realizzazione farà sparire, relitto del passato, la  religione teologica ». La forma più vistosa, anche se teoreticamente meno consistente, è quella marxista, sulla quale insistiamo in modo particolare per la sua diffusione e perchè espressione L’ateismo 63 di ateismo integrale che pretende di oltrepassare anche se stesso, sforzo poderoso di costruire l’umanità intera contro Dio e di rivoluzionare dalle fondamenta la scala dei valori. Mai ateismo è stato più negativo ed assoluto, apocalittico e messianico; mai, come ora col marxismo, è stato forma di vita. La cosidetta  sinistra hegeliana », pur accettando il dialettismo, opera un rovesciamento di Hegel: i fatti non sono un’estrinsecazione dell’Idea, ma la sola e vera realtà, di cui l’Idea è solo un'immagine; perciò reale è l’uomo non come puro pensante, ma come istinto, senso, corpo: l’uomo è un corpo cosciente », dice Feuerbach; ed è bisogno, insieme di bisogni, che vuol soddisfare per realizzare la propria felicità. Nel rapporto sociale egli acquista coscienza della sua umanità ed è tanto più se stesso quanto più attua questa coscienza. Come nasce nell’uomo così concepito l’esigenza religiosa? Questa la domanda alla quale Feuerbach risponde ne L'essenza del Cristianesimo (1841). Hegel identifica Dio con il processo storico, con l’uomo infinitizzato; dunque, quando parla di Dio, parla dell’uomo; basta scrivere uomodove scrive  Dioper restituire all'uomo stesso il suo autentico essere; pertanto,  il problema di Dio è il problema dell’uomo »; il segreto della teologia è l’antropologia ». Così Feuerbach opera la  trasformazione del sacro già implicita nel pensiero illuminista e quasi esplicita nel Fichte e nello Hegel. La religione è un prodotto puramente umano: non potendo l’uomo soddisfare tutti i suoi bisogni, cioè liberarsi dal bisogno, postula o pone un Essere illusorio, proiezione di se stesso come vorrebbe essere. La teologia non è che antropologia; l'Assoluto filosofico e religioso, estrapolazione dell'immaginazione, è l’uomo stesso, il suo essere come specie. 64 Filosofia e Metafisica Così nasce l’alienazione religiosa o l’atto di abbandonare ad un altro la realizzazione dei valori, di scaricarsi di un compito. Se l’uomo acquista coscienza che quando pensa l’Infinito pensa e attesta l’infinito del suo pensiero, e quando lo sente, sente e attesta l’infinito del suo sentimento; se si fa consapevole che  nell’essere e nella coscienza della religione non vi è niente di diverso da quel che c’è nel suo essere e nella sua coscienza »; in breve, se si convince che egli inconsapevolmente e involontariamente crea Dio secondo la propria immagine », si riprende quel che ha alienato e acquista coscienza che tutto il discorso su Dio non è che discorso sull’uomo, che lo ha creato a sua immagine e somiglianza. In altri termini: se il fatto religioso dipende da una particolare situazione umana e dura fino a quando essa non evolve, cessata o trasformatasi, l’uomo cessa di pensare a Dio e di essere religioso. Feuerbach, nonostante tutto, resta legato al vecchio materialismo; il reale per lui è ancora l’ oggetto sensibile, come gli obietta Marx, che pur riconosce quanto deve al suo predecessore. In breve, conserva residui intellettualistici, che Marx elimina con la riduzione del reale all’ attività sensibile umana intesa come prassi: il rapporto uomo-natura è dialettico e non vi è altra dialettica che quella uomo sensibile-realtà sensibile in funzione del lavoro umano; pertanto, la dialettica deve scendere dal piano teoretico-ideistico (Hegel) a quello pratico o  economico », anzi l’ economico », il  materiale », è l’unica  struttura del processo, di cui le altre (morale, religione, arte, ecc.) sono solo  soprastrutture ». La proprietà privata, autoalienazione dell’uomo, è una usurpazione o appropriazione della sua essenza da parte di un altro; la sua soppressione positiva coincide, da un lato, con la soppressione positiva della vita umana alienata e di ogni altra alienazione conseguenza della prima come la religione, la morale, la famiglia, lo Stato, il diL'’ateismo 65 ritto, ecc.j dall’altro, con il ritorno all’uomo come essere sociale », con la riconquista del suo vero essere originario: l’essere dell’uomo si attua nella natura, ma questa ha essenza umana solo per l’uomo sociale, in quanto soltanto nella società diventa legame che unisce gli uomini tra loro. In quest’ultima si compie l’integrale naturalismo dell’uomo e l’integrale umanesimo della natura: non la dialettica hegeliana dell’Idea, ma quella uomo-natura, singolo-società. La storia non è il divenire dell’Idea o della Ragione, ma quello della natura attraverso il lavoro dell’uomo; non la dialettica di compimento dello Spirito assoluto nella Filosofia, ma quella di compimento dell’uomo-natura nella Società socialista. Ciò posto, se non ci sono che l’uomo e la natura in rapporto dialettico e la religione appartiene al momento dell’alienazione o della proprietà privata, realizzata l’unità dell’uomo con la natura nella società ed eliminata l’alienazione, la religione scompare da sola: l’ateismo è una constatazione, è o sarà un  fatto della nuova società socialista. Amano a mano che l’uomo andrà costruendola e conquistando la sua libertà, sua opera esclusiva perchè la storia è soltanto opera dell’uomo che in essa ha tutto il suo senso, andrà sparendo, anche senza combatterla, la credenza nell’esistenza di Dio, soprastruttura dell’alienazione.  Dal momento che la essenzialità dell’uomo e della natura diventa praticamente sensibile nel rapporto dialettico uomo-natura, diventa praticamente impossibile anche il problema di un'essenza estranea superiore alla natura e all’uomo implicante l’ammissione della loro inessenzialità.  L’ateismo come negazione di questa inessenzialità non ha alcun senso, poichè esso è una negazione di Dio e pone con essa l’esistenza dell’uomo ». Dunque, non c’è più bisogno della negazione di Dio e della religione, l’ateismo diventa superfluo: l’autocoscienza positiva acquistata dall’uomo nella società socialista è la negazione 66 Filosofia e Metafisica della negazione, cioè dell’ateismo: non si tratta di sopprimere la religione, perchè è già sparita, come non si tratta di sopprimere la proprietà privata, già eliminata. In altri termini, la negazione di Dio e della proprietà privata rappresentano solo un momento necessario del processo di emancipazione dell’uomo alienato, della conquista della sua libertà, ma non il fine della società umana, che è l’attuazione della libertà dell’umanità. Questi e altri discorsi poggiano sul presupposto dommatico di Feuerbach che la materia è il primo ontologico, a cui Marx applica il metodo dialettico che lo Hegel riserva allo spirito. Così Marx riforma contemporaneamente la dialettica hegeliana e il concetto feuerbachiano di materia, ma la duplice operazione lascia intatto il presupposto materialistico, anche se egli identifica la materia con la realtà economica, cioè la sostituisce così intesa, ma senza giustifica zione alcuna, allo spirito. Certo, l’economia, come ogni altra attività umana è dialettica, ma è tale in quanto attività spirituale che, pur interessando il corpo, risponde sempre ad un bisogno dello spirito unito al suo corpo; dunque interessa la persona nella sua integralità spirituale e corporea. Ma, a parte ciò, da un lato resta da dimostrare che la materia o l’economico sia il primum o il principioassoluto fondante tutta la realtà umana e non essa fondata da un altro principio, altrimenti si fa un’affermazione dommatica, come tale gratuita e filosoficamente ingiustificata; dall’altro, è da vedere come il marxismo intende lo spirito, il pensiero, la coscienza. Ora è noto che, per Marx e i neomarxisti russi o di loro ispirazione,  materia non è soltanto la realtà economica, lo è l’universo tutto nella sua essenza; di essa, dato oggettivo indipendente dalla coscienza, quest'ultima è solo un elemento secondario derivato »; il pensiero è un prodotto del cervello, che a sua volta lo è dell’evoluzione della materia, per cui la dualità materia-spirito è una mera astrazione metafisica. Se è così, l’attività econoL'ateismo 67 mica, primum assoluto, è soltanto ed esclusivamente materiale, dato che la cosidetta coscienza o spirito è un elemento secondario derivato dalla materia oggettiva, madre di essa e di tutta la realtà naturale; dunque, monismo materialista in edizione aggiornata, ma più scorretta di quella del vecchio materialismo, in quanto il neo-materialismo pretende di essere  dialettico », ragione di quello storico », come se si potesse parlare di  dialetticadove tutto è materia e niente spirito. L'espressione  materialismo dialettico è una contraddizione nei termini e non è ragione di alcun  materialismo storico », per il motivo inconfutabile che non c’è dialettica dove non c’è spirito e dove esso è concepito come un elemento derivato dalla materia oggettiva; c’è solo quest’ultima che è puro accadere naturale senza dialettica. Certo, l’ateismo in una concezione monistica diventa una constatazione di fatto, ma non per le ragioni che adduce Marx, bensì perchè, se la materia è il primum, non c’è nient'altro, nè coscienza derivata, nè realtà economica, nè storia; non c'è l’uomo nè Dio, non c’è lo stesso ateismo. Tutto diventa un dato inspiegato ed inspiegabile, gratuito; non resta che riporsi tutti i problemi senza tener conto dell’assurdo iniziale monismo materialistico. D'altra parte, che senso ha parlare di uguaglianza e fraternità tra gli uomini in una concezione in cui la persona è un puro prodotto naturale della materia, la risultante dell'evoluzione materiale ed è per essenza tutta ‘e solo sociale, senza diritti extrasociali o anteriori alla società stessa? Marx ammazza la persona tre volte: nella materia, nella realtà economica e nella società; poi fa la peregrina scoperta che non c’è più bisogno di parlare di Dio e della religione! Ha  alienato la persona nella materia, negato lo spirito nella realtà economica e nella società e dice di aver riscattato l’uomo dall’alienazione religiosa. A parte ciò, come si fa a dire che l’idea di Dio e la religione sono la conseguenza della 68 Filosofia e Metafisica proprietà privata e dell’alienazione del lavoro, pronte a scomparire, incubo plurimillenario, con la cessazione della causa materiale che le ha prodotte? Ma che aveva in testa l'insiptens Marx e che vi hanno gli insipientes che l’han perfezionato su questo punto quando pensano a Dio? Superfluo insistere nel criticare una dottrina che, sotto l’aspetto filosofico  a parte la questione sociale  è così puerile e grossolana da non potersi chiamare nemmeno assurda; infatti, nessuno taccia di assurdità un bambino il uale dice che il manico di scopa che cavalca è uno dei cavalli del Re d’Inghilterra. È quel che capita al marxismo quando sostiene che gli uomini pensano a Dio perchè defraudati da una parte di quanto producono con il loro lavoro e che cesseranno dal pensarvi dal momento in cui, sparita la proprietà privata e la defraudazione del lavoro altrui, si sarà pienamente realizzata la libertà dal bisogno, l’ideale perseguito dall’inizio dei tempi e proiettato in un immaginario Dio. Ma è opportuno osservare che l’umanesimo assoluto marxista, come quello che si fonda sull’autosufficienza umana, rientra nel quadro più vasto del pensiero moderno laicista; non per nulla è figlio dello Hegel. Variano i modi di divinizzazione dell’uomo: attraverso la Scienza, l'Arte, il Pensiero ecc., ma l’esito è identico; perciò la puerilità del marxismo non sfigura gran che al confronto di quella di altre dottrine. Solo che esso, invece di affidare il compito di costruire l’Uomo-Dio a forme di attività nobili o dotte, lo ha affidato ad una più rozza, l'economia; ma non è poi questo gran male, perchè l’esito è sempre lo stesso. Gli altri ateismi o laicismi non hanno da protestare contro il marxismo e da darsi una superiorità che è solo sciocca arroganza. Non è il caso d’insistere, perchè già incluse nella nostra esposizione critica, su altre teorie di alienazione religiosa, su quelle che dicono in generale: l’uomo che crede in Dio L'ateismo 69 aliena se stesso, abdica; dunque un vero umanesimo non può non essere ateo. Nietzsche vien subito alla mente, ma le citazioni potrebbero essere numerosissime. Per esempio, il Brunschvicg; il quale non nega il valore trascendentale del pensiero, ma lo intende in senso idealistico: non Pensiero in atto (Dio), bensì quello che è infinito progresso creativo; Dio s’identifica con la Ragione immanente. Se, invece, l’uomo ammette con la pura  immaginazione un Dio trascendente aliena in Lui i poteri del pensiero, che è l’Assoluto. Anche per Sartre un Assoluto in sè è assurdo: l’idea di Dio è la proiezione all’infinito di un impossibile sogno dell’uomo, un'illusione fondamentale, il tentativo fantastico di fare coincidere la riflessione (il powr-Soî) con l'essere (l’enSoi); è precisamente l’impossibile tentativo o di annullare l'oggetto nel puro soggetto o il soggetto nella pura oggettività. L'uomo vuole essere Dio e non potrà mai esserlo perchè Dio è assurdo; l’uomo è  una passione inutile ». Queste teorie concepiscono Dio come negazione dell’uomo; ma Dio non nega, eleva la natura umana ad un destino soprannaturale; dunque, da questo punto di vista, la sua idea non è alienazione, ma inglienazione. I filosofi dell’alienazione religiosa  s’immaginano un Dio alienante e poi concludono che l’uomo, pensandovi, si aliena in Lui. Ma, in definitiva, cosa aliena? Quello che compete alla sua natura, o quel che non gli appartiene? Secondo i teorici dell'alienazione, proprio quello che non gli appartiene, essere Dio. In altri termini, se si attribuisce all’uomo quello che spetta a Dio, chiaro, se vi pensa e lo ammette, si aliena.... ma come Dio, non come uomo. Non vi è, dunque, alienazione religiosa nè l’esistenza di Dio la comporta, se l’uomo si attribuisce quel che appartiene alla sua umanità e non quello che non gli spetta. Proprio chi divinizza l’uomo, lo aliena, lo fa escire fuori di sè, lo rende ridicolo, caricatura di se stesso.La breve indagine storico-critica sull’ateismo e le sue forme fondamentali, condotta con animo aperto e dal punto di vista più favorevole, ci porta a concludere che, sia quello vero e proprio come l’altro che non si dice esplicitamente tale o non lo è in apparenza, non vanno oltre affermazioni dommatiche o razionalmente contraddittorie. Infatti, l’ateismo assoluto, che nega senz'altro l’esistenza di Dio in qualsiasi modo Lo si concepisce, quando pretende ad un qualche significato filosofico, esprime la fiducia che la ragione umana abbia la capacità di provare la sua affermazione; ma nessun ateo, che si sappia, ha dato una simile prova razionale inconfutabile. Gli agnostici giustamente gli rimproverano questo suo dommatismo, di non porsi il problema pregiudiziale se la ragione abbia il potere di dimostrare vero il suo ateismo. Non solo, ma l’ateo non si chiede neppure se alla ragione, schietta e naturale, non ripugni una simile negazione proprio in quanto è naturalmente indirizzata all’Essere, origine e fondamento di ogni verità e dello stesso lume razionale; l’ateismo dommatico, in questo senso, è contro la natura dell’uomo, contro la ragione. Per conseguenza, l’affermazione atea è irrazionale, dettata dalla  passione »; è lo stato dell’insipiens, di colui che non sa L'ateismo ZI quel che dice, proprio perchè la sua ragione è in cattività ; condizione psicologica non avente alcun valore oggettivo e dunque filosofico. D’altra parte, l’ateismo dommatico non trova aiuti o sostegni nella scienza che non oltrepassa arbitrariamente i suoi limiti  ma in tal caso gli aiuti sono apparenti perchè forniti da una scienza  apparente in quanto a nessuna contraddice l’esistenza di Dio, neanche quella del Dio personale. Nessuna psicologia scientifica può distruggere la superiorità della coscienza e del pensiero e la loro inderivabilità dalla materia; l’esistenza di Dio-Volontà non contraddice all’ordine delle leggi fisiche; anzi proprio la scienza, se non premeditata e consapevole del suo oggetto e dei suoi limiti, può riconoscere la convenienza razionale del Dio-Persona. In conclusione, una ragione atea non è razionale nè ragionevole. Ma proprio quella convenienza nega l’agnostico, il quale dà torto all’ateo che pretende di  sapere che Dio non esiste, ma lo dà anche al teista che presume di provarne l’esistenza; egli così non incorre nè nel possibile errore del primo, nè in quello pure possibile del credente che, dal fatto soggettivo del credere, conclude affermativamente. Lo agnostico non nega e non afferma l’esistenza di Dio; /a ignora, perchè i mezzi conoscitivi di cui l’uomo dispone non hanno la capacità di spingersi fino all’affermazione o alla negazione. Infatti, essi hanno validità conoscitiva solo se applicati a ciò di cui l’uomo può avere esperienza; ma dello Essere in sè non c’è esperienza e v'è solo  pensabilità »; dunque non c’è possibilità di pronunziarsi con un certo fondamento razionale sulla sua esistenza. Come abbiamo osservato, la verità della conclusione è legata a quella del sistema, il quale non comporta che si affermi o si neghi l’esistenza di Dio; ma è vero il sistema? (I) L’ateo non ubbidisce alla ragione, ma la sottomette al suo ateismo, meglio ai motivi passionali che lo fanno ateo. Non lo convincono ma l’ateismo gli è comodo:  vuole essere ateo; ha paura di Dio e Lo nega. 72 Filosofia e Metafisica E’ inconfutabilmente dimostrato che la conoscenza umana è limitata solo al mondo fenomenico (7)? Lo si afferma perchè, in partenza, si assegna alla filosofia come suo oggetto proprio il fenomeno o il fatto e non il valore e l’atto; si riduce tutta l’esperienza valida a quella sensoriale ignorando che ve n°è una spirituale più profonda e vera, che, quando non s’identifica superficialmente con i fenomeni psichici, attinge profondità metafisiche che danno evidenza razionale al problema di Dio e della sua esistenza. Ma assegnare alla filosofia come suo oggetto il fatto fisico e umano, è negare che ne abbia uno proprio, ridurla alla scienza o alla storia, di cui diventa una metodologia; dunque, si nega che l’esistenza di Dio è problema filosofico, perchè si nega che vi sono filosofia e problemi propriamente filosofici! In altri termini, il sistema che limita la conoscibilità al fatto e al fenomeno è una filosofia che si ferma al di quadella filosofia vera e propria, al punto in cui si arresta la scienza; cioè è una filosofia che deve ancora cominciare a filosofare sull’esistenza di Dio e gli altri problemi! Non nego e non affermo; ignoro se Dio esiste ». Lo agnostico che dice di  ignorare Dio è ateo  di fatto lo è chi lo ignora  ma dice d’ignorarlo perchè il sistema esige di fermarsi al fenomeno di esperienza; dunque perchè si ferma ad un certo punto. L’agnosticismo ateo è la rinunzia a pensare fino in fondo, il fermarsi alle cause penultime (scienza) senza spingersi fino al Principio primo (metafisica). Può essere timidezza, ma anche timore (*); teoreticamente  Per citare un esempio recente, anche se di scarsa consistenza speculativa, il Rensi, nella citata Apologia dell’ateismo, poggia tutta la sua argomentazione su una concezione materialistica dell’essere, ricavata da un’insostenibile interpretazione materialistica di Kant:  è soltanto ciò che può essere visto, toccato, percepito (15); Dio non può essere visto, toccato, percepito; Dio non è e pensare diversamente è  alienazione mentale (35). (3) In chi nega Dio o dice di ignorare se esiste, non di rado ha una influenza decisiva un motivo psicologico di ordine pratico: giustificare la propria condotta di vita. Gli  spiriti forti sono spesso di una estrema debolezza:  fanno i bravi con Dio », secondo un'espressione di Pascal, per l'incapacità di libeL'ateismo 73 è il non osare, mancanza di vera vocazione filosofica, rinunzia alla bellezza del  rischio metafisico; è un  fermarsi », in contraddizione con la spinta della ragione e perciò non razionale. Bacone l’attribuisce a superficialità (*); Pascal al non pensare fino in fondo   Athéisme. marque de force d’esprit, mais jusqu’à un certain degré seulement a metà: Les athées doivent dire des choses parfaitement claires. Ma proprio di chiarezza mancano: presentano come chiara una conclusione che non lo è, per esaurito e definitivo un discorso che è infinito, e, quasi timorosi di convincersi dell’esistenza di Dio, cercano sempre qualche difficoltà per persuadersi del contrario ("). La ragione può rifiutarsi di andare fino in fondo solo facendo violenza a se stessa, facendosi schiava di interessi non razionali, mistificandosi, autocontraddicendosi (°). Tuttavia, a parte queste obiezioni, resta valida la pregiudiziale  critica sulla capacità della ragione di fondare rarsi da una passione anche volgare! Spesso, sotto l’apparenza di crisi spirituali, della coerenza di vita e pensiero, dell’onestà intellettuale, si nasconde l’attaccamento ad una passione: pur di non rinunziarvi si mette la ragione a servizio di essa, la si costringe a sottolizzare, a trovar pretesti e scuse fino a quando non l’abbia giustificata. In tal caso, l’ateismo e l’agnosticismo ateo ( si vuole ignorare Dio perchè fa comodo) scaturiscono da un fondo di immoralità. Certo non sono mancati e non mancano atei onesti e modelli di virtù morali; ma non di rado l’onestà di questi  galantuomini dai costumi impeccabili è satanica: virtuosi per la superbia di esserlo, identificano i valori con la loro stessa persona, ne fanno una  posizione dell’io da mantenere e rispettare anche fino al sacrificio di sè... a se stessi. (4) F. Bacone, De dignit. et aug. scient., 1, I, c. I, $ 5;  Certissimum est, atque experientia comprobatum, leves gustus in philosophia movére fortasse in atheismum, sed pleniores haustus ad religionem reducere ». (5) Pensées, Sect. III, 225, ed. Brunschvicg.(6) Ivi, Sect. HI, 221. (7) Come è stato osservato (Piar, in  Revue pratique d’apologétique », 15 gennaio 1907, 451), se a cercare Dio si fosse impiegato un decimo dell’energia spesa per avvolgerlo di nubi, l’umanità avrebbe già posseduto la più ampia, precisa e solida delle teodicee. (8) VoLtaire (ocit., 43), non certo sospetto di eccessiva pietà religiosa, scrive:  les athées sont pour la plupart des savants... qui raisonnent mal »; e gli  ambiziosi », i  voluptueux », aggiunge argutamente,  n’ont guére le temps de raisonner... ». 74 Filosofia e Metafisica una teodicea e di risolvere il problema teologico; ma farla valere non significa affatto giustificare innanzi tutto se ha il diritto di oltrepassare l’esperienza sensoriale, ma provare che questa esperienza, alla quale la si vuol costringere e limitare, è inspiegabile senza oltrepassarla. Tale istanza non può essere ignorata dall’agnosticismo e dal criticismo, appunto perchè spinge la critica al limite del suo sviluppo più esigente. Ma ammettere razionalmente l’esistenza di Dio non implica di necessità concepirlo come l’Essere trascendente e personale, obiettano deisti e panteisti. Abbiamo già discusso e confutato le dottrine che concepiscono Dio come Ente impersonale e dimostrato la loro contraddittorietà : hanno il torto di chiamare Dio quel che non lo è, ma è  Forza »,  Causa »,  Legge naturale »,  Natura : in questi casi Dio è una parola senza contenuto, o con uno diverso. Ma ciò è lo stesso che negarLo e perciò il deismo e il panteismo sono atei: teismo verbale (uso della parola Dio) e ateismo sostanziale (chiamare Dio un’altra cosa). In breve, o si nega Dio e si abbia la franchezza di dirlo accettando l’assurdità dell’affermazione; o non Lo si nega e allora si parli di Lui e non di altro: Natura, Legge, Divenire, Idea, Inconscio, ecc. Un Dio impersonale non è Dio,  ma solo una parola mal adoperata, un non-concetto, una contradictio in adjecto », dice lo Schopenhauer. Se si riconosce la necessità razionale del teismo, questo esige che Dio sia lo Essere intelligente e volente, Persona, con cui gli enti creati sono in rapporto di analogia e non di univocità o identità. Questo indica il termine; qualsiasi altro uso è spurio e fa che il teismo diventi puramente verbale. Da ultimo, notiamo che Dio, oltre che una verità razionale, è innanzi tutto una verità religiosa, rispondente a una esigenza precisa dello spirito umano; dunque, la ragione è chiamata a provare non un ente qualsiasi, sia pure il Tutto L'ateismo 75 o l’Assoluto, bensì l’Essere, assoluto sì, ma trascendente e personale. Dire che Dio è verità razionale non deve significare depauperazione della Sua idea al punto di farne una pura nozione concettuale esprimente l’esigenza dell'Unità o dell’Assoluto, della Legge di natura o della Causa fisica, in quanto la ragione è chiamata a dare fondamento razionale al Dio della religione, non a dimostrare l’esistenza di un ente, che soddisfa solo pure esigenze intellettuali della ragione stessa con la pretesa di ridurre ad esse quelle religiose, magari dicendo che, in tal modo, queste ultime, dallo stato ingenuo o d’immaginazione, vengono elevate a quello critico o di scientificità. Visto così il problema, quanti dicono che Dio è il Divenire o la Natura, l’impulso morale o l’Inconscio non parlano del Dio che gli uomini pregano, adorano, amano. D'altra parte, se diamo a quello che chiamano Dio il senso vero che ha la parola, con tutto il rispetto per pensatori insigni, scoppia il ridicolo a pensare che si possa adorare, pregare, invocare, amare l’Idea che si dialettizza, l’Umanità, il Progresso, l’Inconscio, la Storia, ecc.; scoppia perchè si fa rappresentare a questi concetti una parte che non si addice loro, e al tempo stesso si rifiuta la religione per accettare l’idolatria. Non è stato forse ridicolo il Comte con la sua religione dell'Umanità »; chi si è fatto sacerdote della religione della libertà »; quel tale adoratore della Dea-Ragione che, al tempo della Rivoluzione dell’ 89 dichiarò di essere l’ennemi personnel de Jesus Christ»? Ed è ridicolo oggi chi afferma che la verità è il Partitoe basti realizzare una società socialmente ed economicamente perfetta perchè si estingua nel cuore dello uomo l’esigenza religiosa nella riconquistata coscienza che Dio è una sua creazione. Queste forme di ateismo aperto o mascherato, sotto l'apparenza dotta, sono forse tra le più 76 Filosofia e Metafisica grossolane ed ingenue e dell’ateismo vero e proprio non hanno il senso di angosciosa sofferenza e di disperazione sincera, che meritano comprensione e rispetto (7). (9) Nota bibliografica: Bayle, Pensées diverses écrites è un docteur de Sorbonne è l’occasion de la comète qui part au moins de décembre 1680, Rotterdam, 1721, voll. 4; VoLtarre, Dictionnaire philosophique, Paris, Flammarion, s. a., p35-45; L. SrerHen, An Agnostic’s Apology, London, 1876; Huxrey, Essays, London, 1898; F. Le Dantec, L’Athéisme, Paris, 1907; F. MANTHNER, Der Atheismus und seine Geschichte in Abendlande, Stoccarda e Berlino, 1922-23, voll. 4; G. Richarp, L’athéisme dogmatique, Paris, 1923; R. Fuint, Antitheistic Theories, Edimburgo, 1917, IX ediz.; A. B. DrocHmann, Atheism in Pagan Antiquity, London, 1922; G. 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Assumiamo l’esistenza di Dio come un'ipotesi, ma, anche a partire da questo minimum, due questioni pregiudiziali simpongono: 4) che cosa s'intende per Dio; 5) se è razionalmente fondata l’ipotesi . Quale la definizione nominale di Dio? Ogni parola, perchè tale, esprime qualcosa, è usata con un senso; dunque, quando gli uomini pensano pronunziano scrivono il termine Diogli danno un certo significato, anche se con sfumature diverse e con un senso ammettiamo pure non sempre univoco. Tuttavia, quale che sia il grado di equivocità  Tale enunciazione rigidamente scientifica del problema sconcerterà quanti, ricchi d’intensa vita religiosa e di robusta fede, contestano che si possa persino parlare di  problema dell’esistenza di Dio, tanto per loro tale verità è fuori discussione. Osservo: 4) non tutti gli uomini si trovano in questa condizione; 5) l’esistenza di Dio per noi non è, di primo acchito, un’evidenza; c) la fede non è del tutto oggettivabile, vale per chi la possiede, ma da sola non è un argomento per convincere chi ne è privo che Dio esiste; pertanto, a chi non crede nella Sua esistenza è necessario, anche se non sufficiente, provare che l'affermazione  Dio esiste è una verità, cioè una proposizione valida per ogni essere razionale. D'altra parte, come ho accennato sopra, la fede ha un grado non trascurabile di oggettivabilità; infatti, chi ha fede in Dio, una fede serie, un’interiore ed intensa vita religiosa, è portatore  agito ed agente ad un tempo  di questa verità; in tal senso, con il suo pensiero e la sua azione, con la  parola e le opere, ne è la  testimonianza ». La potenza penetrante del suo  esempio », che incarna una verità e la esprime, ha una indubbia forza indicativa e comunica80 Filosofia e Metafisica nell’uso del termine, chi afferma o chi nega che esiste Dio, come chi dice di non saperlo, in un certo modo, sa di che cosa afferma, nega, ignora l’esistenza; d’altra parte, la formulazione di un'ipotesi è possibile sulla base di alcuni dati reali che si cerca di spiegare, ma che non lo sono ancora: appunto si pone l’ipotesi come possibile spiegazione; se provata, si assume come verità oggettivamente valida. Quali sono i dati reali che autorizzano l’essere razionale a porre l’ipotesi  Dio »? L’uomo e il mondo, la realtà esistente, in cui gli uomini vivono, pensano, operano. Se porto la riflessione sull’ente esistente che sono, mi avverto inserito in un universo di altri enti materiali, di organismi fisici; di altri enti che, come me, oltre alla vita organica, ne hanno una morale, cioè la libertà di orientare con responsabilità la propria condotta; dunque, sul piano fisico e su quello morale, mi avverto in relazione con tutti gli enti dell’universo, da essi influenzato e su di essi influente. Queste prime riflessioni mi pongono di fronte ad un groviglio di problemi essenziali. So di non essere sempre esistito, almeno nel modo in cui esisto e posso esistere nel mondo; di avere pertanto un principio al pari di ogni cosa in esso esistente; dunque, tutte le cose che sono non sono sempre state, nè saranno sempre: domani non sarò, tutti gli estiva, un potere indiscusso di stimolare la riflessione, suscitare il problema, sbloccare il pensiero, mettere in moto la volontà e attizzarne lo slancio, spingere la ragione a realizzare tutta la sua forza normale, cioè a porsi all’ altezza di dimostrare. Non dà convincimento razionale, ma genera una condizione psicologica, che è più di una semplice  situazione »: stimola a chiamare a raccolta tutte le energie spirituali, affinchè costituiscano quella  forza che  dà forza alla ragione, o meglio la mette nella condizione di sviluppare la sua forza totale. Pertanto, l'impostazione scientifica data al problema non significa che esso sia puramente di tale natura, ma soltanto che vogliamo concedere il massimo all’istanza critica; anche lo stesso termine  problema è da noi inteso in un senso particolare. Per cvitare equivoci diciamo fin d’ora che non c'è ragione al livello normale, totale o integrale, senza fede e non c'è fede senza ragione; dunque, escludiamo il puro razionalismo, che è una ragione ancora al di sotto delle sue capacità e della sua profondità, comc il puro fideismo, in quanto senza la ragione non si salva la fede, che, come fede di un essere razionale, non può essere dalla ragione disgiunta, nè la ragione negare. L'esistenza di Dio 81 seri, che oggi sono, domani non saranno; ho, ciascuna cosa ha, un principio; ho, ciascuna cosa ha, una fine. La contingenza e la temporalità della mia esistenza e di ogni esistente in questo mondo è un fatto di esperienza; inizio e limite nel tempo: entro e passo, ogni essere passa. E allora, donde vengo? qual’è il principio del mio esistere? Passo; dove vado? Finisce tutto là, preda di rapaci o in una fossa? o passosoltanto, transito, per una destinazione che è la finalità suprema della mia esistenza? Sono contingenza e limite e morte, miseria e dolore, ma la coscienza di esserlo mi fa superiore a quanti esseri non lo sanno; tuttavia, anche se mi eleva, non fa che sia esente da miseria e dolore. D'altra parte, proprio l’essere un ente cosciente, pensante e volente, mi pone altri problemi: se sono coscienza, donde la coscienza e il pensiero? Non la materia può essere principio di quel che materia non è e di cui essa è priva, nè ha alcun fondamento l’ipotesi della sua evoluzione, perchè non può mai spiegare il nascere dell’attività pensante e riflessiva. Donde la sua presenza in me, e dunque nel mondo? Se penso, penso pure qualcosa, oggetto del mio pensiero; dunque penso qualcosa che è vero, in quanto pensiero non sarei se verità non fosse. Donde la verità? Son io, contingente e finito, la fonte creatrice di essa, che era prima che entrassi nel mondo e lo sarà anche quando ne sarò escito? Nella natura vi è un ordine intrinseco cui ubbidisce l’evoluzione o il divenire naturale, ma che non riesco mai a penetrare fino in fondo, a cogliere nella sua totalità; vi è come un segreto nelle cose che mi meraviglia e stupisce. Nè la mia volontà è arbitrio cieco: mi conduco nella vita secondo norme, a cui riconosco, anche quando ad esse mi sottraggo, validità, forza obbligante. Donde queste norme? Della mia condotta mi sento responsabile, anche quando sembra che l’ambiente mi domini fino al punto da fare apparire la mia azione la risultante necessaria della sua influenza 82 Filosofia e Metafisica determinante; responsabile appunto di non avere saputo reagire ad esso, di non averlo trasformato. Donde la mia libertà ? In breve, l’esistente contingente limitato finito è consapevole, in quanto essere razionale, che vi è nel mondo naturale un ordine che lo governa e in lui un ordine di pensiero o di verità e uno morale o di bene non contingenti e non precari, indipendenti dall’inizio e dalla fine della sua esistenza; dunque, io contingente e finito  ed ogni cosa  esisto in quanto partecipo dell’ essere », perchè  sono in questa partecipazione, altrimenti non sarei affatto. A_ questo punto: 4) ogni esistente contingente e finito non è il  principio di se stesso, quantunque sia la  causa di ogni atto della sua vita; 5) non è principio di quanto è di non-contingente in lui contingente, quantunque sia la causa di quanto pensi ed operi in conformità di esso. Tali riflessioni sono sufficienti per formulare la seguente ipotesi: esiste un Essere o un Principio intelligente  altrimenti non potrebbe essere principio di me  persona », soggetto intelligente e volente e di quante persone sono state, sono e saranno ; trascendente  se no sarebbe natura ocosmo ; esistente da sè  altrimenti sarebbe un ente contingente, 46 aglio , cioè ipsum esse subsistens, e perciò perfettissimo, Principio assoluto di tutte le cose, dell’ordine del pensiero e della volontà come di quello della natura, sorgente di ogni esistenza e Provvidenza governante quanto fa esistere? È l'ipotesi Dio. Vi è dunque una reale condizione umana, e del mondo su cui l’uomo riflette, che autorizza l’ipotesi dell’esistenza dell’Essere intelligente, trascendente, esistente da sè e provvidente, a cui si dà il nome di Dio; eliminabile solo nel caso che fosse possibile dimostrare la non-contingenza di ogni singolo ente esistente e del mondo nella sua totalità, dare una spiegazione completa ed esaustiva della realtà umana e fisica da renderla  superflua »; in altri termini, solo se si L'esistenza di Dio 83 dimostra razionalmente che il nostro mondo basta a se stesso, è autosufficiente, metafisicamente autonomo ed indipendente, fondamento assoluto di sè a se stesso. Ma se così fosse  il fatto che dei filosofi lo abbiano immaginato non è una soluzione razionalmente valida  l’ipotesi  Dionon sarebbe mai nata. Si può anche  sospendere 0 metterla da parte assieme ai problemi che sempre la fanno e la faranno nascere, ma ciò comporta la rinunzia alla suprema conoscenza metafisica, ad una soluzione adeguata dei problemi radicali non solo della filosofia, ma anche della più ingenua coscienza umana e direi del più elementare senso comune, dove pure quei problemi sono presenti. Posizione, dunque, insufficientemente filosofica o prefilosofica o afilosofica, quale è quella di un sapere puramente empirico ed anche scientifico nel senso delle scienze naturali; positivismo, quali che siano le sue sfumature o camuffamenti, anche quando si chiama  filosofia dello spirito 0  storicismo », pretesa risoluzione o dissoluzione della filosofia nelle scienze, del valorenei  fattio nelle opere », del  perchè nel come ». Ma la ricerca speculativa comincia precisamente dall’insufficienza di fronte ai massimi problemi del sapere scientifico e di quello storico, i quali, pertanto, sono ben lungi dal poter risolvere in sè la filosofia, che li oltrepassa e nella quale, da ultimo, trova fondamento la  Risulta senza fondamento l’ipotesi secondo la quale ogni singola cosa esistente è contingente e temporanea, mentre il mondo in sè e nella sua totalità è necessario ed eterno, non svente un principio e una fine: è sempre stato € sempre sarà così com'è, pur divenendo  nascono, crescono e muoiono  gli esseri particolari. Chi così pensa resta sul piano naturalistico, e costruisce una metafisica puramente naturalistica; fa della cosmologia e non si pone ancora il problema  primo della  filosofia prima ». Infatti, cerca e stabilisce le  cause del divenire », ma non si pone la questione del suo  principio e delle sue stesse cause immanenti; oppure confonde la  sufficienza del mondo  ha in se stesso le cause che lo governano  con la sua  autosufficienza »: ha in sè il principio da cui è. In tal caso, il mondo si assolutizza e l’ipotesi  Dio diventa superflua; ma tale  irreale assolutizzazione è un'estrapolazione arbitraria del concetto di sufficienza del mondo, o una limitazione del problema al naturalistico e scientifico come », che non è ancora il problema metafisico e filosofico del  perchè ». 84 Filosofia e Metafisica loro stessa validità conosativa. Per conseguenza, anche la più embrionale posizione filosofica non può evitare l’ipotesi  Dio », che pertanto risulta ineliminabile e razionalmente possibile, conveniente e fondata, ancor prima che razionalmente provata. Se l’ipotesi  Dio non è eliminabile, in quanto ogni ente e il mondo nella sua totalità non risultano metafisicamente autosufficienti, consegue che ha origine dalla coscienza dei nostri limiti e della nostra insufficienza. Non che nasca dalla  mancanza », da ciò che  non siamo », quasi dal nostro  non-essere », in quanto ciò che non è non è e non pone problemi; nasce da quel che siamo, dal nostro  essere », cioè dalla nostra realtà relativa e contingente, ma sempre  realtà »; dalla nostra condizione di esseri reali, sufficienti nei limiti del nostro essere umano, ma non autosufficienti; dunque dal senso radicale (metafisico) di dipendenza di una realtà  noi e il mondo  da un'altra Realtà  possibile fino a quando siamo ancora nell’ipotesi; in breve, dal fatto che abbiamo coscienza di essere e perciò di partecipare dell’essere. Una  filosofia dell’esistenza », nella quale quest’ultima è una  possibilità fuori dell’essere, è semplicemente una filosofia del nulla e il nulla della filosofia. 2.  Di quale Essere si vuole dimostrare l'esistenza quando si pone l'ipotesi  Dio ». Non di un essere  qualunque », in quanto i dati reali da cui sorge l’ipotesi esigono la dimostrazione dell’esistenza di un essere adeguato alla soluzione dei problemi posti: (3) Sospendere l’ipotesi  Dio », come vedremo a suo luogo, è proiettare ogni ente, e l’esistenza in generale, al di fuori dell'essere, gettarli nella pura empiricità, privarli della loro onticità; è fermarsi al mero fenomenico, alla esistenzialità priva di essere, che è il nulla; ma l’esistenza, appunto perchè tale, implica l’essere, senza di cui non è. Pertanto, il problema di Dio è interno, non esterno, all’ente pensante; anche quando lo si pone come ipotesi, è già molto, di più. L'esistenza di Dio 85 a) origine del mondo e del suo ordine; è) dello spirito, essenza dell’uomo, e dunque dell’ordine di verità e di bene che è in lui e lo rende capace di conoscere e volere, di pensare il vero e di agire secondo una legge morale, di libertà e responsabilità; c) finalità dell’universo, dell’azione di ogni singolo essere spirituale e del significato dell’umana istoria. Meraviglia e stupore l’ordine dell’universo, che non riesciamo interamente a  comprendere nell’orizzonte della nostra mente; stupore una mente che pensa, la complessità della più semplice sensazione, la capacità di scoprire una verità, di agire liberamente secondo una legge; meraviglia e stupore l’enigma che è ogni essere vivente, il  mostro uomo, il filo d’erba. Dunque l’Essere che poniamo come ipotesi, esplicativo di tutta la realtà, non possiamo pensarlo se non incondizionatamente ed immensurabilmente superiore a quanto è chiamato a spiegare, altrimenti apparterrebbe all’ordine umano e naturale, sarebbe una realtà da spiegare come le altre e non spiegante tutte le altre; ma se ci oltrepassano per la loro enigmaticità il mondo umano e quello naturale, che pur non bastano a se stessi e dunque mancano di realtà piena, a maggior ragione ci oltrepassa infinitamente l’Essere che per ipotesi poniamo come esplicativo di tutto e che non può non essere di ordine diverso. Di un ordine appunto trascendente e soprannaturale e perciò impossibile, per la nostra mente, nell’ordine naturale, a penetrarsi nella sua essenza: ogni conoscenza di Dio è conoscenza per mezzo di Dio; non la creatura Lo conosce, ma Egli si fa conoscere rivelandosi. L’enigma del mondo naturale ed umano rimanda al Mistero Divino. D'altra parte, la definizione nominale di Dio come Essere intelligente, trascendente, esistente da sè e provvidente, infinito, onnisciente, ci fa acquistare una più netta coscienza della finitezza nostra e di ogni cosa, dei nostri limiti e della nostra insufficienza; in breve, della nostra dipendenza essenziale dall’Essere per ora ipote86 Filosofia e Metafisica ticamente posto. Di fronte a Dio, infatti, la creatura si sente  niente »; l’immensurabilità con l’Essere la spinge ad annichilirsi, senza che tuttavia perda la consapevolezza inequivocabile che anch’essa è essere che vive, sente, pensa e vuole nell’essere. Così l’ente finito, imbevuto dell’Essere, secondo un'espressione di Giovanni di S. Tommaso, avverte centuplicate le sue forze ed irresistibile il bisogno di espandersi nell'azione operosa e molteplice. Appare evidente che il  problema umano di una possibile esistenza di Dio e la sua trascrizione in termini di  problema filosofico nascente dalla riflessione sulla condizione dell’uomo e del mondo, non discordano da quelli in cui si esprime la  coscienza religiosa quando onora, prega, adora Dio. Vi è una convergenza di sensi, solo apparentemente diversi, nell’unico dato alla parola  Dio », che univocamente esprime la posizione umana del problema, la riflessione filosofica su di esso e l’esperienza o la vita religiosa. Pertanto la. dimostrazione razionale, se possibile, dell’ipotesi  Dio », deve tener conto della realtà umano-naturale, dei suoi problemi reali, da cui l’ipotesi nasce, e dell’esperienza religiosa di cui Dio è fondamento e oggetto assoluto; sarà tale, cioè, che dimostri realmente quello che s'intende con la parola Dio. In breve: la riflessione filosofica, chiamata a precisare le formule e a dare possibilmente la giustificazione razionale dell’ipotesi dimostrandola verità universalmente e necessariamente valida, deve rispondere a suzta la domanda da cui l’ipotesi nasce, cioè alla condizione umana nella sua totalità e, per conseguenza, anche alla coscienza religiosa, a cui appartiene in proprio il termine Dio. Oltre a ciò, la forza normale della dimostrazione si misura sull’uso del termine Dio in maniera rispondente a come esso è presentato dalla condizione umano-naturale e religiosa; altrimenti, alla fine del discorso, pur dicendo di avere o no provato la verità dell'ipotesi, si è in effetti provata o non provata altra cosa. L'esistenza di Dio 87 La risposta filosofica, chiamata ad adeguare la integralità della realtà da cui sorge l’ipotesi  Dio », deve essere soluzione integrale della filosofia integrale. L’ipotesi va posta in discussione, così come essa è, affinchè la filosofia indaghi se sia possibile dimostrarla razionalmente così come essa è, se  razionale e  ragionevole »; in caso affermativo, la realtà ha la sua spiegazione integrale e la religione la garanzia del fondamento razionale (“). L’ipotesi  Dionasce da una reale problematica umana; la ricerca razionale è impegnata a confermarla o a smentirla, a dire se e fino a che punto l’esistenza dell’Essere intelligente e trascendente, creatore e provvidente, sia verità razionalmente provata e perciò oggettivamente valida, o una pura verità di fede, o un mero flatus vocis. 3.  L'esistenza di Dio non ci è nota  quoad nos ». Come abbiamo detto, l’ipotesi  Dio » nasce dall’esistenza degli enti contingenti e finiti, come tali non principio di se stessi; per conseguenza la prova della verità, o non, dell'ipotesi non può avere altro punto di partenza che il mondo :1mano e naturale. Ciò esclude che vi sia un’intuizione o conoscenza immediata dell’essere di Dio, che, secondo la religione cristiana, è di ordine soprannaturale e non possibile per sua natura ad un'intelligenza finita quale quella umana, i cui oggetti devono essere ad essa proporzionati. Dunque, la mente  supposta la dimostrazione della ipotesi  non può conoscere Dio direttamente e in ciò che lo costi(4) La definizione nominale del termine Dio, necessaria per sapere di che cosa si vuol dimostrare l’esistenza e se l'ipotesi sia razionalmente fondata, non pregiudica in alcun modo la soluzione del problema. Si tratta di una semplice ipotesi di lavoro: la risposta può essere totalmente o parzialmente negativa o positiva, come potrà anche arricchire di nuovi elementi la definizione nominale o respingere alcuni di quelli in essa contenuti. Per l'impostazione del problema dell’esistenza di Dio e limitatamente ad essa abbiamo tenuto presente in qualche punto lo studio di F. Van SreeNnsERGHEN, Le problème philosophique de l’existence de Dieu,  Revue philosophique de Louvain », nn. 5, 6, 7, 8, 1947. 88 Filosofia e Metafisica tuisce (quidditative), ma solo indirettamente per cognizione mediata ed analogica (°). Se l’esistenza di Dio fosse per sè nota quoad nos (6) non vi sarebbe problema nè bisogno di dimostrazione razionale, ma solo una verità evidente per se stessa. Invece vi è proprio problema, anche se quanti hanno fede non sentono necessità di alcuna dimostrazione tanta è la forza del loro credo, anche se il problema si chiarisse, poi, come esplicitazione di un implicito originario e la dimostrazione come consapevolezza di una presenza. Ma evidentemente, altro è l’esperienza vissuta, altro la dimostrazione razionale, anche se quest’ultima non può e non deve eliminare o abolire la prima, dalla quale pur restando (come deve) distinta, può ricevere e riceve forza. Dunque necessità della dimostrazione, dato che Dio non è per sè noto rispetto a noi; ma necessità anche di far convergere ed operare in essa quanti elementi legittimi in noi e nelle cose possano concorrere a renderla più efficace e completa. In altri termini, non dobbiamo privarci di nulla di quanto è a nostra disposizione e il cui uso è razionalmente consentito. 4.  Da quale dato reale è conveniente partire per provare la verità dell'ipotesi  Dio ». È vero che di Dio non vi è intuizione immediata e vi è problema della sua esistenza, e possibile dimostrazione il cui punto di partenza sono le cose dell’ordine naturale, oggetto proporzionato alla nostra mente; ma l’espressione  realtà naturale non comporta, anzi esclude, un significato restrittivo quale quello di cose materiali od oggetti del mondo esterno. Tra gli enti dell’ordine naturale vi è anche l’uomo, realtà spirituale, che è intelligenza e volontà, avente un ordine di verità e di bene secondo cui ha l’obbligo di regolare il pensiero e l’azione. La mente umana, nella sua condi(5) S. Tommaso, S. TA., Ia, q. 12, a. 4. (6) Ivi, Ia, 2, 1; Quaest. disput. de veritate, 10, 12 L'esistenza di Dio 89 zione finita e mutevole, conosce solo cose dell’ordine naturale, ma, da un lato, ha una naturale aspirazione all’in-finito e all’immutabile che non potrebbe avere se, in qualche modo, non avesse di esso una certa nozione, sia pure oscurissima e confusa; dall’altro, per quanto è capace di verità intellettuale e morale, manifesta qualcosa dî necessario ed immutabile, dato che son questi gli attributi convenienti all’essenza della verità; che, se è, non può essere contingente e mutevole. Conveniamo che la verità di cui l’uomo è capace e la sua mente scopre non è la Verità in sè, bensì quella confacente alla natura dell’uomo, ma essa: a) non è contingente e mutevole; 5) è fecondatrice della mente; c) per la sua validità universale, nel suo grado è assoluta. Lo spirito e il suo contenuto di verità, se vi è verità, sono dunque dati reali diversi dagli altri; se sono superiori ad ogni altro dell’ordine naturale, sono le massime condizioni reali che danno origine all’ipotesi  Dio ». Infatti, se l’uomo desse a se stesso le verità fondamentali secondo cui giudica e i princìpi morali secondo cui liberamente agisce, non sarebbe più finito e contingente, nè la sua mente mutevole e limitata; dunque, è contraddittorio che un essere siffatto sia autore di principî necessari e universali quali appunto quelli del pensiero e dell’azione. Se si dimostrasse che l’uomo (la mente umana in generale) è autore dell'ordine della verità e della legislazione morale, sarebbe egli l’essere infinito, necessario e assoluto; l'ipotesi  Dio non si affaccerebbe alla nostra mente, venute meno le condizioni che la fanno nascere. Dunque l’uomo sa che: 4) non è il principio che fa esistere le cose naturali e le governa secondo un ordine; 5) non è principio di se stesso, della vita organica e spirituale, della sua intelligenza e volontà come dell’ordine che le informa. Sa, in breve, che egli e le cose sono dati reali, e che quanto di universale e necessario è capace di scoprire e conoscere è anch’esso un dato 90 Filosofia e Metafisica reale; son proprio questi dati che pongono il problema del loro principio, cioè fanno nascere l’ipotesi  Dio nel senso sopra definito. Dunque, se il punto di partenza è dai dati reali, si può partire da uno quale che sia, ma ci sembra opportuno: 4) muovere da quello più idoneo per la prova dell’ipotesi, che, presentando maggiore ricchezza e complessità, accrescerà la forza della dimostrazione; £) senza escludere gli altri possibili punti di partenza, in modo che le eventuali prove si potenzino reciprocamente e conferiscano alla dimostrazione tutta la sua forza normale. D'altra parte, se dei dati reali scelgo come punto di partenza le cose materiali è evidente che, perchè nasca il problema della loro contingenza ed origine e da esso l’ipotesi  Dio », è necessario che rifletta su di esse, mi ponga il problema della loro ragion d’essere e significato, cioè che trascriva il mondo esterno in termini mentali o di pensiero; ma porselo come problema è già trascriverlo in questi termini. Pertanto non sono le cose come tali che pongono il problema della loro origine e spiegazione e con esso l’ipotesi  Dio », ma il mondo esterno fatto oggetto di riflessione; anche in questo caso, la prova non può non passare dal pensiero, come meglio sarà chiarito in seguito. Posto ciò, possiamo anche accettare la nota tesi tomista che l’esistenza di Dio probari debet a posteriori, ma a patto che ci si intenda sul significato dei termini. Se 4 posteriori significa che non vi è intuizione diretta ed immediata di Dio, concordiamo perfettamente che la Sua esistenza va provata 4 posteriori e che di Dio c’è solo conoscenza mediata e analogica. Se, invece, s'intende che bisogna partire dalla natura fisica per scoprire la causa non causata del suo esistere e che non vi è nessun dato nell’uomo, nella vita dello spirito e la stessa vita dello spirito, da cui è possibile partire, anche prescindendo dal mondo esterno, respingiamo tale significato dell’ posteriori, pericolosamente restrittivo in quanto per il suo esclusivismo, già come punto L'esistenza di Dio 9I di partenza, è insufficiente a dimostrare, nel caso che la ragione umana lo possa, la verità dell’ipotesi, contenente una ricchezza di elementi da esso inadeguabili. Non si tratta solo di dimostrare se il mondo abbia un Architetto, una Causa prima, una Legge incondizionata, concetti inadeguati ad esprimere quanto è incluso nella definizione nominale di Dio. Inadeguati anche i concetti di  Essere supremo e di  Ente realissimo », che, pur entrando nella definizione e nella rappresentazione di Dio al pari déi precedenti se bene intesi, indicano solo un Ente che può essere l’ Atto puro e immutabile di Aristotele, la  Sostanza unica e infinita di Spinoza, il  Legislatore dell’universo degli Illuministi ecc.; termini tutti inadeguati ad esprimere il contenuto -di quel che s'intende quando si dice  Dio », la cui esistenza qui si cerca dimostrare. Nessuno di questi concetti Lo indica come l’Essere personale creatore e provvidente, cioè contiene quegli attributi che la coscienza religiosa od anche la semplice condizione umana gli attribuiscono. Ora, come sopra abbiamo chiarito, l’ipotesi  Dio nasce proprio dalla condizione umana, che Dio definisce in termini non dissimili da quelli della coscienza religiosa, ed è proposta alla ragione speculativa in tw4ta la ricchezza del suo contenuto. Pertanto la dimostrazione richiesta è di un Dio che soddisfi tutta la problematica della realtà umana  della vita spirituale e la stessa vita spirituale, come la sua esperienza religiosa  oltre a quella della realtà fisica. Non si può monopolizzare il problema dell’esistenza di Dio; è necessario che la dimostrazione sia tentata con la presenza operante di tutti gli elementi e di tutti gli strumenti possibili, affinchè abbia tutta la sua forza e, nello stesso tempo, soddisfi tutti i problemi e i dati reali che l’hanno sollecitata. Si tratta di un problema che interessa il fondamento assoluto della realtà: come totale è la sua portata, così totale devono essere l’impegno e la possibile soluzione. Sarà razionale e dunque lo92 Filosofia e Metafisica gica; ma la logica che esige, affinchè tutto il reale vi sia presente e tutti i sensi del problema vi si trovino concorrenti e solidali nella loro concretezza, è la logica dell’ integrazione », di cui quella dell’ esclusione è solo un momento nella prima contenuto. Pertanto a noi sembra che non siano da trascurare tutti quei dati psicologici che, senza essere la prova, ne sono i preliminari: le  disposizioni dello spirito nel loro insieme fanno parte dei  prolegomeni di una dimostrazione concreta dell’ipotesi  Dio». Evidentemente non si tratta di  metterle al posto dell’argomentazione razionale, ma di giovarsi delle migliori o più favorevoli condizioni perchè la stessa forza della ragione possa esplicare tutta la sua capacità. Per esempio, liberarsi da alcuni pregiudizi  e il pregiudizio è di natura psicologica  è una specie di purificazione che agevola l’intrapresa della ragione; riconoscere che alcuni impedimenti sono apparenti o illogici  quali la pretesa che di Dio si abbia percezione immediata in modo da coglierne l’essenza senz'ombra di oscurità e mistero, o che la metafisica possa sottostare al metodo sperimentale, ecc.  è già un buon avvio. Così pure acquistar coscienza dell’estrema importanza del problema, rendersi conto che dalla risposta positiva o negativa dipendono l’orientamento, il valore e il significato della nostra come di ogni altra esistenza, è una disposizione non accessoria, in quanto rende cautissimi nell’argomentare e concludere, estremamente vigili e tesi sì da potenziare al massimo del loro rendimento tutte le risorse spirituali ed intellettuali: l’attenzione si fa attentissima, intensa, concentrata. Queste disposizioni hanno un valore più che psicologico: comportano la rettitudine della coscienza. Nè è da trascurare  anche se non deve soL'esistenza di Dio 93 stituire la dimostrazione  l’esperienza religiosa sia comune che privilegiata, quella delle grandi umili anime mistiche e dei grandi spiriti religiosi, esempio dell’alta tensione operante esigita da una questione della portata di quella che qui si discute. Son tutte forze concorrenti, anche se non determinanti in sede filosofica, alla realizzazione di quel clima spirituale », intellettuale e morale insieme, confacente ad un problema quale è quello dell’esistenza di Dio. In breve, crediamo che, per scoprire e penetrare tutta la verità della prova e poterle aderire, sia necessario conquistare la pienezza del nostro essere e ad essa affidarci. Ciò non significa che l’adesione alla prova dipenda senz’altro dalla nostra accettazione volontaria o dal rifiuto, come se essa fosse priva di verità  attraente », ma che tale condizione è elemento essenziale per cogliere tutta la sua forza razionale. Chi più ama, più conosce; non che l’amore faccia essere la verità di ciò che è vero, ma dà maggior penetrazione alla mente e contribuisce a farle scoprire ed intendere la verità. Sempre dal punto di vista dei dati psicologici, l’odierno clima esistenzialista », quando non è deteriore retorica o decadentismo e maniera, come presa di coscienza della  condizione umana, senso dell’indigenza, del peccato, della morte ecc. ha la sua importanza in sede di preparazione alla prova (7), anche se da solo insufficientissimo, in quanto l’aspetto essenziale di tale preparazione è proprio il senso della positività del nostro essere, senza della quale la (7) L'esistenzialismo, infatti, ha riportato sul tappeto della discussione, anche se spesso con travisamenti notevoli, la metafisica e i suoi problemi e ha contribuito a richiamare l’attenzione sull'esperienza e i valori religiosi. In qualche modo, anche se entro certi limiti e in maniera molto discutibile, ha come  smondanizzato », esso mondano, Ja filosofia riconferendole un certo carattere teologico. Ciò spiega, perchè i cosidetti sostenitori del  nuovo razionalismo marxista e di tanti  nuovi umanesimi assoluti combattono anche le forme atee di esistenzialismo, preoccupati che questo  stato d’animo », per sua natura, alimenti sotto le ceneri del  finito un’esigenza religiosa e trascendentistica. Spiega ancora perchè qualche inguaribile cultore di  scienze mondane abbia sprezzantemente qualificato la filosofia di un pensatore di rilievo una specie di  praefatio ad missam ». 94 Filosofia e Metafisica condizione umana sarebbe pura possibilità, illusione, niente: non vi sarebbe problema dell’uomo e della sua indigenza, nè di Dio (*). Ma anche nella sua pienezza, la preparazione psicologica non è la soluzione del problema, non data esclusivamente da un'esperienza di tal natura nè solo da quella religiosa, come sostiene il Bergson; è come dire che non vi è prova razionale oggettivamente valida dell’esistenza di Dio. D'altra parte, come ancora dice il Bergson, con un significato che non è precisamente il nostro, la soluzione va posta ed affrontata  sperimentalmente », cioè tenendo conto di tutti i fazt1, anche di quelli di natura psicologica, in quanto la vita stessa dello spirito è un fatto, la più alta realtà data alla nostra esperienza. Perciò come metodi e dati psicologici non debbono escludere od ostacolare metodi e dati razionali, allo stesso modo questi ultimi non debbono fare a meno dei primi, quasi il problema dell’esistenza di Dio fosse una questione di ragione astratta, di pura logica formale, di geometrica razionalità e fosse possibile operare un’astrazione dell’uomo concreto, quando, come abbiamo visto, dalla sua vita integrale nasce l’ipotesi  Dio ». Non comprendiamo perchè nessuno pretende di  liberare il poeta, l’artista, lo scienziato da quelle condizioni preliminari che favoriscono la risposta al bello o al vero e perchè invece si vuol pretendere (8) L'esistenza come pura  possibilità non è, è la non esistenza, cioè un non-senso. Non c’è dramma nè tragedia nè angoscia, in quanto fin dall’inizio ci si colloca nel nulla; si ha la certezza che la partita è perduta in partenza, dunque il giuoco è fatto. Ecco perchè l’esistenzialista s’inebria del nulla e dell’assurdo dell’esistenza: non c’è più rischio, la catastrofe è scontata in anticipo; la tragedia, nel suo stesso porsi, si tramuta in farsa. Lo stesso si può dire del dialettismo dello Hegel; l’antinomismo dialettico, identificato con l’essenza stessa del reale e del pensiero,  divora l'essere dall'interno e divorandolo lo alimenta. Per conseguenza la tragedia del Reale, che è quella della Ragione, s’identifica col modo con cui la Ragione tesse il suo idillio eterno. Tutto il senso tragico dell’antinomismo svanisce una volta che il male e l'errore, le cadute e le colpe sono necessarie alla vita della Ragione assoluta e al suo perenne conquistarsi: tutto è perfettamente ordinato, pacifico. Una volta che il nulla e la contraddizione si assumono al posto dell’essere, si accetta la negatività pura: non c’è più problema nè dell’esistenza nè del reale e perciò non c’è problema di Dio: c’'è_ l'assurdo all'inizio e alla fine. L'esistenza di Dio 95 che il filosofo, il quale si accinge a provare, con le armi della ragione la più rigorosa ed intransigente, l’ipotesi  Dio nascente dalla totalità del reale che da questa soluzione aspetta intelligibilità profonda, abbia a prescindere da tutti quei dati psicologici che fanno parte della concreta vita spirituale, la più impegnata nell’esito della ricerca. Infatti, la questione che si pone col problema dell’esistenza di Dio, è di sapere se i dati reali della nostra esperienza siano o no metafisicamente intelligibili, in quanto tale intelligibilità dipende appunto dall’esistenza, o non, dell'Essere personale e trascendente, creatore e provvidente, principio esplicativo di ogni fatto 4/ di là di tutta la serie dei fatti. 6.  La pregiudiziale critica da cui muove il problema dell’esistenza di Dio. Notiamo a questo punto che il problema dell’esistenza di Dio e della metafisica in generale muove da una pregiudiziale critica, non da quella, propria di Kant, di saggiare, prima di affrontare il problema, le capacità della ragione  farla giudice di se stessa: imputata e giudice insieme  per accertare se abbia o no il diritto di oltrepassare l’esperienza, bensì dall’altra che l’esperienza stessa e quanto in essa è dato, approfonditi criticamente, restano metafisicamente inintelligibili, se quel problema non si pone e non si risolve. Per conseguenza il problema dell’esistenza di Dio s'inserisce alla radice stessa del problema critico. Ma ciò non deve indurci, senza sufficienti prove razionali, ad ammettere ugualmente che Dio esiste (conclusione  edificante », ma non filosofica) per il timore che altrimenti tutto sarebbe inintelligibile. D'altra parte, proprio l’esperienza della nostra finitezza e di ogni cosa esistente, tutta l’esperienza non bastante a sè stessa e perciò incapace di autospiegarsi, pone il problema della sua intelligibilità e con esso fa nascere l’ipotesi  Dio come possibile soluzione: il finito come tale esige il che % Filosofia e Metafisica cosa lo spieghi e giustifichi. Che non può essere pure un finito, in quanto ancora problema e non soluzione; dunque, se è, dev'essere  qualcosa che esiste da sè », che, principio di se stesso, può rendere conto definitivo ed ultimo di quante cose esistono  non da sè ». Non è neppure un qualcosa ma un Chi, Ego, in quanto non una Cosa può essere il Principio delle cose tutte, ma il Soggetto assoluto, l’Intelligenza suprema. È precisamente l’ipotesi dell’esistenza di Dio. 7.  La realtà spirituale punto di partenza della dimostrazione dell'ipotesi Dio”. Prima di procedere fissiamo qualche conclusione utile a precisare i termini della questione: 4) il problema dell’esistenza di Dio è posto da dati reali, dalla condizione di reale finito del mondo umano e naturale; 5) questo, come finito, non può avere in se stesso il suo principio e pone il problema della sua origine e della sua suprema intelligibilità; c) per conseguenza, la dimostrazione della verità o no della ipotesi  Dio », non può non partire dalla realtà finita che la fa nascere e la presenta alla riflessione: dall’esistenza di esseri limitati, dal fatto che degli enti sono, senza essere il principio di se stessi. Mettiamo da parte inizialmente, salvo a saggiarne in seguito la validità e a recuperare il recuperabile, la prova che muovendo dall’Idea di Dio, 4 priori, attraverso l’analisi del contenuto dell’Idea stessa, ne deduce l’esistenza. Accettato come punto di partenza il reale contingente finito, ci sembra quanto mai conveniente ed anche necessario muovere da quell’ente che presenta una maggiore complessità e ricchezza di contenuto e ne è il grado più alto, tanto da non essere una parte tra le altre dell’universo, ma come il centro e la sintesi; e più ancora, in quanto il compimento della vita spirituale di un solo uomo trascende l’universo intero. L’uomo non è soltanto un reale finito, ma è il solo L'esistenza di Dio 97 dotato di pensiero, capace di volere e conoscere razionalmente, di riflettere. Solo egli, infatti, tra gli enti finiti di cui abbiamo esperienza, si pone il problema dell’intelligibilità metafisica della sua esistenza e con esso l’ipotesi  Dio ». D'altra parte, anche se scegliamo come punto di partenza quel reale finito che è il mondo detto materiale, o un suo particolare aspetto, siamo sempre costretti, come già accennato, a porlo come oggetto di pensiero, cioè a considerarlo per quanto ha di intelligibile: perciò l’oggetto del nostro pensiero non è il mondo materiale come tale, ma i suoi elementi concettuali. Il punto di partenza, anche in questo caso, è sempre l’uomo soggetto pensante e capace di conoscenza razionale, cioè sono i dati mentali che non sono le cose materiali, ma il risultato della riflessione su di esse. D'altra parte, l’uomo non potrebbe pensare se non fosse e non vivesse, se non fosse un essere vivente, ma l’essere e il vivere non implicano necessariamente il pensare. Infatti, si può essere senza vivere e pensare (una pietra), ma non si può vivere senza essere (il vivere importa necessariamente l’essere); però si può vivere senza pensare (una pianta, un cane), mentre non si può pensare senza essere e vivere, almeno nella condizione terrena degli esseri pensanti: dunque il pensare implica l’essere e il vivere (*). Di qui: 4) il pensare è superiore all’essere e al vivere: non si può pensare senza essere e vivere, ma il pensare non è attributo essenziale di ogni essere e di ogni vivente, bensì di una specie di esseri viventi e dunque è è più del puro essere e del puro vivere in quanto coscienza di essere e di vivere e, posto, implica gli altri due; 5) il soggetto pensante, che come tale implica nell’ordine naturale l’essere e il vivere, è quel dato reale che, nella sua interezza di organismo e pensiero, di materia e spirito, è ciò che sono le altre cose non pensanti, essere e vita, più quello che non sono, pensiero. Dunque, nella sua interezza, pos(9) S. Agostino, De libero arbitrio, L. Il, c. 3, n. 7. 98 Filosofia e Metafisica siede, in questo senso, tutti gli elementi essenziali della realtà finita. Dovendo partire per la dimostrazione dell’ipotesi Dio dai reali finiti, mi pare estremamente conveniente scegliere come punto di partenza quello che è (come sono tutti gli esseri), vive (come quanti di essi sono organismi) e pensa (come solo a lui è concesso); che dunque assomma in sè tutte le categorie essenziali del reale. Ma è solo conveniente, o anche necessario? Abbiamo detto che, tra tutti gli enti finiti, l’ipotesi Dionasce nell’uomo, sia dalla riflessione sul mondo fisico come indica la semplice domanda: chi ha mai fatto tutte queste cose? », sia da quella su se stesso. E’ su quest’ultima che dobbiamo portare la nostra attenzione al fine di ricavarne quanti elementi preliminari ci è consentito dal rigore della ricerca e dall'obbligo di non pregiudicare la dimostrazione. Come abbiamo già detto, l’uomo ha coscienza della sua finitezza e contingenza, che è però anche e innanzi tutto consapevolezza di essere, della miseria del dolore e della morte, di quanto lo fa consapevole che non basta a se stesso, 20 è da sè. La consapevolezza di tale condizione è propria dell’uomo: è dell’infelice e solitario pastore errante dell’Asia non del gregge pago del suo stato perchè inconsapevole. Dunque, l’ipotesi  Dio è posta e la sua dimostrazione richiesta dall’uomo per l’uomo, quasi appello della sua condizione affinchè tenti di capire veramente qualcosa di essenziale e definitivo della propria esistenza e del suo significato. In altri termini, l'ipotesi  Dio non nasce dal dato contingente come tale, pura empiricità, ma dalla coscienza o dalla consapevolezza della sua contingenza, cioè da un elemento spirituale; non dal puro fatto  a cui si ferma la mentalità positivista, che perciò fa a meno di Dio e, neppure sfiora il problema dell’intelligibilità metafisica del reale  ma dalla coscienza del fatto, che importa già una valutazione di esso e un passaggio dal piano empirico a quello ontico o dell’essere. L'esistenza di Dio 99 del dato stesso. Questo, il dato da cui nasce l’ipotesi  Dio e da cui bisogna partire. Abbiamo anche accennato all’aspetto religioso del problema: alla essenzialità di Dio per l’esperienza religiosa, all’importanza che essa ha per una possibile dimostrazione razionale (!9). Non si dimentichi che il problema filosofico dell’esistenza di Dio si pone quale indagine razionale intorno al termine così come è definito sulla base della condizione umana e creduto dalla fede religiosa; alla ragione si chiede di dimostrare la verità di quel che si crede affinchè l’uomo  sappia che è vero quello che crede ». Chi rinunzia a partire dall’uomo, si priva in partenza dell’esperienza umana e religiosa, a cui il problema appartiene e che lo presenta all’esame della ragione, lo depaupera, quasi lo appiattisce. Dal filo d’erba non ci sembra si possa arrivare al Dio dell’esperienza umana in tutta la sua pienezza e della coscienza religiosa; d’altra parte, niente autorizza od obbliga la ricerca a prescindere dall’uomo, che quel problema vede nascere dalla sua condizione. Ammettiamo che ogni ente di natura abbia una finalità, cioè che la sua vita si esplichi attraverso mezzi necessari disposti e combinati in modo da raggiungere il fine che le è proprio e precede e domina la disposizione e la combinazione dei mezzi stessi (!!). E’ evidente che esso: 2) non ha la conoscenza del fine; 3) non si da sè la capacità di disporre e combinare i mezzi per il suo raggiungimento; dunque, conclude, la finalità naturale presuppone un’Intelligenza che non è nelle stesse energie vitali ma ad esse s'impone. Ciò im(10) Giustamente è stato notato (H. De Lusac, De /a connaissance de Dieu, Éditions du Temoignage chretien, 1941, 54) che la nostra epoca ha perduto, almeno temporaneamente,  il gusto di Dio »; se questo gusto tornasse, le prove riapparirebbero  plus claires que le jour ». (11) Com'è noto, la biologia ammette con fondatezza una finalità degli organismi viventi, una specie di loro  pensiero embrionale o di orientamento delle forme della loro attività vitale verso una unità di realizzazione quasi che tale attività sia dotata di una specie di  potere sintetico ». 100 Filosofia e Metafisicaporta: ) dell’intelligenza che il mondo fisico presuppone c'è conoscenza mediata, mentre l’uomo ha esperienza immediata di essa in quanto ne è dotato, egli stesso  fatto sperimentale della presenza dell’intelligenza; 4) le cose non hanno consapevolezza del fine a cui sono ordinate, nè sanno che il loro ordine presuppone un'intelligenza, mentre l’uomo ha consapevolezza del suo fine, esperimenta direttamente in sè l’intelligenza, sa che non si è autoposto come essere intelligente; dunque sa che il suo essere ente intelligente pone il problema della sua origine come tale. In breve, il problema del rimando dalla finalità delle cose all’Intelligenza da cui sono state ordinate non nasce direttamente e direi spontaneamente come quello del rimando dall’uomo-ente intelligente all’Intelligenza da cui è intelligente; l’esperienza immediata che l’uomo ha di se stesso come ente intelligente fa che sia più diretta efficace sicura la via dall'uomo a Dio, mentre l’altra dalle cose (in questo caso dalla loro finalità) è indiretta e si considera in un secondo tempo. Senza dire che la vita dell’ente intelligente comporta tale ricchezza di esperienza e di valori co‘ noscitivi, morali, estetici, religiosi da far sembrare ben povera cosa la finalità inconsapevole del mondo fisico. Un'altra considerazione ci sembra decisiva per accettare il reale-uomo come punto di partenza della dimostrazione dell’esistenza di Dio. Più di ogni altra cosa e della sua stessa esistenza all’uomo interessa sapere che cosa sia vero di quanto conosce e bene di quanto vuole, cioè se è capace di conoscere la verità a cui è obbligato ad uniformare la propria condotta. D'altra parte, se l’uomo non fosse capace di giudizi veri, non potrebbe niente dimostrare e non penserebbe neppure; se ragiona, discorre, dimostra lo fa in base a norme che considera vere, cioè oggettivamente valide e tali da garantire la veridicità dei suoi giudizi e delle sue dimostrazioni. Per conseguenza, quando, stimolato dalla sua condizione, considera l’ipotesi  Dio e ne tenta la dimostrazione, si consiL'esistenza di Dio 101 dera già in possesso di alcune verità che rendono validi i suoi giudizi. Ma qui sorge un problema, quello del fondamento metafisico della conoscenza: le verità fondamentali e primali, senza cui non vi sarebbe discorso e dimostrazione, sono il prodotto della mente, poste da essa, o sono alla mente  presenti e da essa soltanto  scoperte »? Nel primo caso la loro validità si presenta notevolmente sospetta, in quanto il prodotto della mente mutevole, capace di errore, di un essere finito e contingente non dà alcuna garanzia di universalità, immutabilità e necessità, cioè di possedere gli attributi essenziali alla verità. D'altra parte, la nostra stessa contingenza e finitezza ci lascia perplessi nè ci convince di essere noi i  creatori della verità; se non altro lascia in dubbio e induce a pensare che se mai siamo  portatori attivi di essa, che in questo caso è oggetto della nostra mente e, come tale, da essa conosciuta ma non creata. Ma se è così, la presenza oggettiva della verità alla mente, da essa conosciuta o scoperta, pone il problema della sua origine e del come ne siamo in possesso, cioè del da dove sia entrata in noi. Problema che l’uomo non può lasciare sospeso o trascurare, in quanto si tratta di sapere qual’è la provenienza di quell’ordine di verità intellettuali e morali in base a cui pensa ed agisce, attua la sua vita spirituale; è il problema della intelligibilità profonda del reale non solo umano ma anche naturale, in quanto le cose sono intelligibili per il loro ordine, da cui, come sappiamo, nasce, quale eventuale soluzione, l’ipotesi  Dio ». Ammettiamo pure provvisoriamente che sia conveniente e necessario partire dalle cose del mondo esterno invece che dalla realtà-uomo, disposti anche a sacrificare l'apporto della vita spirituale mobilitata in tutta la sua pienezza. Evidentemente la dimostrazione o la catena dei ragionamenti si serve di norme o principî che considera veri, cioè oggettivamente validi (per esempio, il principio di causalità), tali da 102 Filosofia e Metafisica garantire la veridicità del discorso. Ma il servirsi di essi imrta già avere risolto il problema, da noi posto sopra, dell'origine della verità di cui la mente umana è capace, se suo prodotto o suo oggetto e, in quest’ultimo caso, del come ne sia in possesso. Dunque il punto di partenza dalle cose materiali presuppone quello da noi scelto, dall’ente razionale, il solo capace di un ordine di verità, ed in esso resta incluso. Se si dice che nell’uomo non vi è nulla di necessario e immutabile, in tal caso: @) si nega che egli possieda verità e con ciò stesso che possa provare l’ipotesi  Dio »; 5) non si spiega come avverta la sua contingenza e finitezza nè quella delle altre cose, avvertibili solo se ha una certa nozione di ciò che è necessario e infinito, cioè se sa cosa significhi la parola  verità ». Ma il solo sapere che è verità è già una verità e, come tale, qualcosa di immutabile e necessario, che appunto consente all'uomo di conoscere che lui e tutte le cose finite sono contingenti e mutevoli. Ed ecco che questa condizione di un contingente in cui è in certo modo presente un che di immutabile, infinito e necessario pone il problema della propria intelligibilità e con esso l’ipotesi  Dio ». Da qualunque punto di vista si consideri la questione, il problema dell’esistenza di Dio si presenta come essenzialmente antropologico e solo subordinatamente cosmologico. Non problema posto da qualcosa di astrattamente concettuale nè dalle cose materiali, ma che interessa la realtà umana integrale, considerata nella sintesi dinamica e nella compresenzialità di tutti gli elementi che la costituiscono, desiderosa d’intelligibilità totale e perciò nello stazo reale di aspirazione al possesso della suprema verità metafisica, fondamento e principio dell’intelligibilità della vita spirituale. L'ipotesi  Dio è suscitata dal bisogno di una conoscenza radicale del reale finito, dall’urgenza di sapere se gli esseri contingenti abbiano o no un senso assoluto. Si tratta di un'esigenza, e dalla sola esigenza non si può. L'esistenza di Dio 103 concludere all’affermazione; tuttavia, non si può negare che essa, non dimostrativa per se stessa, è almeno indicativa. Nel nostro caso, indica una condizione reale della vita dello spirito e precisamente quella di conoscere la verità della sua verità di se stesso e della realtà finita in generale. In questo la verità che vuol conoscere, anche la più elementare e povera, ha sempre come scopo ultimo, anche senza esplicita consapevolezza, di acquistare una maggiore conoscenza della verità di se stesso e della realtà finita in generale. In questo senso, sia pure oscuramente, anche inconsapevolmente, cercare è cercare il senso assoluto dell’esistenza, la sua intelligibilità metafisica; ma è questo il problema donde nasce l’ipotesi  Dio »; dunque cercare è sempre porsi, anche indirettamente, il problema dell’esistenza di Dio, dell'Essere personale e trascendente. Vi è nello spirito, per il fatto che si avverte finito, un senso immanente dell’Essere che l’oltrepassa (!); c'è una nozione oscura, implicito originario, di quella che poi l'indagine speculativa chiarisce e precisa come Idea di Dio. Il problema dell’uomo, quello detto psicologico-antropologico, è intimamente legato al problema dell’esistenza di Dio; porsi l’uno è porsi anche l’altro. Le realtà psicologiche pongono l’ipotesi  Dio (psicologismo che non è affatto soggettivismo) la cui dimostrazione investe il loro significato totale ‘e assoluto, la loro intelligibilità (teocentrismo). Reali, dunque, i dati da spiegare, realista il metodo della ricerca; la finitezza dell’ente contingente e aspirante a sapersi fino in fondo è un fatto, come è un fatto la sua aspirazione all’Assoluto. D'altra parte, non vi sarebbe quest’ultima se nello spirito finito non fosse presente una certa nozione dell’assoluto infinito, oscura e confusa quanto si voglia. (12) Non si fraintenda: non immanenza della trascendenza nell’ente finito come quella che è  posta dallo stesso ente finito, per cui la trascendenza si risolve nell’immanenza dell'atto che la pone o in una condizione dell’esistente  pseudo-trascendenza di alcune forme di idealismo immanentista e di esistenzialismo  ma presenza della trascendenza all’ente finito come presenza dell’Essere che l’uomo non pone e dal quale è posto e oltrepassato. 104 Filosofia e Metafisica Il dato uomo è costituito da un insieme di dati, di cui deve tener conto, proprio per rigore e scientificità d’indagine, qualunque tentativo di dimostrazione dell’ipotesi  Dioper saggiarne l’importanza, la portata e quel che significa o indica la loro presenza. Cogito, ergo sum; ma nè il cogitare, nè il mio esse si spiegano da se stessi non essendo assoluti ed infiniti. La celebre formula cartesiana, che qui non discutiamo, non dà dunque la soluzione del problema di me ente finito, bensì indica solo la mia condizione di essere pensante. Ma proprio questa condizione pone il problema di se stessa o se stessa come problema; pensiero ed essere sì, ma finiti; dunque il mio essere come il mio pensiero sono dati; ma donde sono essere e pensiero o n essere che pensa? È evidente che il cogito, ergo sum suscita il problema del da chi sono stato pensato e sono pensato per esistere come essere finito pensante. Fino a quando non l’avrò risolto non possiederò l’intelligibilità piena del mio essere e ignorerò le radici del mio pensare e conoscere. Qual’è il principio che fa essere me cogitante? Pongo l’ipotesi  Dio ». Nel caso che riescirò a provarla, concluderò che l’Essere personale e trascendente mi ha fatto e mi fa essere un ente pensante; pertanto, non dirò più Cogito, ergo sum, ma in maniera completa e più vera: Cogitatus sum et cogitor, ergo sum ens cogitans. Questa formula non esprime più soltanto, come quella di Cartesio, il dato di fatto della mia realtà, la coscienza che ho del mio esistere, ma anche e, in primo'luogo, la intelligibilità radicale e profonda di me. Per la soluzione del problema metafisico che comporta, essa fa che io contingente e finito mi avverta ormai bastevole a me stesso nella conoscenza della radice metafisica del mio essere, del mio vivere e del mio pensare, nella spiegazione e giustificazione del senso assoluto della mia esistenza e della mia vita, del mio conoscere e volere. Non è forse superfluo avvertire, ad evitare interpretazioL'esistenza di Dio 105 ni errate, che qui non si sostiene affatto la tesi di un universo: in sè assurdo, il quale acquista senso intelligibile solo se si ammette l’esistenza di Dio. Infatti l'affermazione,  l’universo è in sè assurdo », non comporta neppure la formulazione dell’ipotesi, che non ha senso quando si è già concluso che l’universo è assurdo; anzi si può pensare assurdo solo perchè in partenza è escluso che Dio esiste. Quell’affermazione è conclusiva; perciò non ha senso dire che solo ammettendo. l’esistenza di Dio l’universo acquista un senso. Pertanto, per il fatto stesso che l’ente pensante si pone il problema dell’esistenza di Dio, almeno non si può escludere a priori che l’universo abbia un senso; ma, se è così, risulta senza senso la tesi di un fideismo aberrante: l’universo in sè è assurdo, ma ciononostante ammetto l’esistenza di Dio e dunque tutto mi diventa comprensibile. Tutto, tranne che esista Dio, se l’universo è assurdo.  Non è Dio che non accetto, comprendi », dice l’ateo Ivan nei Karamézov,  ma il mondo da lui creato; è il mondo di Dio che non accetto e non posso risolvermi ad accettare ». Già, perchè assurdo o tutto negativo; dunque non può accettare neppure Dio. Qui si annida anche un sofisma: se tutto nell’universo è assurdo, è anche assurda l’affermazione che tutto è assurdo, ma chi conclude che tutto nell’universo è assurdo, ritiene vera, non assurda, questa conclusione: dunque non tutto è assurdo in quanto ammettere che una cosa è vera è ammettere un pensiero capace di verità. Qui appunto nasce il problema: perchè nel mondo c’è il pensiero? perchè ci sono io che penso? donde sono? Ciò pone l’ipotesi  Dio e fa che sia  ragionevole », conveniente senza limitazioni alla ragione, e sia  assurdo il non porla o rigettarla senza previa discussione impegnatissima. Da ciò consegue che il senso assoluto del reale che cerchiamo scoprire non può essere immanente alla stessa realtà finita. Se così fosse, non penserei all’ipotesi  Dio in quanto. l'oggetto della mia ricerca continuerebbe ad essere la realtà 106 Filosofia e Metafisica mondana; dunque, il solo porre l’ipotesi già orienta in altra direzione, in quella dell’esistenza dell'Essere  trascendente. Per conseguenza la posizione razionale del problema sembra essere la seguente: 4) esiste la realtà finita e contingente; 5) come tale, mi suggerisce l'ipotesi dell’esistenza dell'Essere da sè esistente e di essa principio; c) dunque, l’Essere esistente da sè non posso cercarlo tra gli enti finiti, nessuno dei quali è assoluto ed incondizionato, e neppure nell’unità o totalità (nel  mondo ») degli enti finiti  Dio come unità impersonale è la più povera ed inerte delle finzioni ; d) i quali, tutti contingenti, attestano una dipendenza comune. Provare la verità dell’ipotesi  Diosignifica scoprire se esiste l’Essere incondizionato autosufficiente da cui tutto dipende e a cui tutto tende, consapevolmente o inconsapevolmente. Da quanto abbiamo detto risulta che la nostra integrazione del Cogito cartesiano è di fondamentale importanza. Essa porta implicita questa affermazione: io sono coscienza pensante perchè l’Essere che è il Pensiero mi ha fatto e mi fa essere, mi ha pensato, mi pensa e mi penserà. Ciò significa che il mio pensiero  come quello di ogni ente pensante e di tutti, il pensiero umano o dell’ordine naturale in generale non è principio di se stesso, non il Primo metafisico, anche se causa di ciò che pensa; rimanda al suo Principio, è pensiero dal e per il Pensiero: è ed è pensante perchè è stato pensato. Qui la differenza radicale (metafisica) tra l’idealismo trascendentista-teologico-teocentrico e l’idealismo trascendentale-mondano-antropocentrico, che è egocentrismo ed egotismo anche quando è etica del dovere; scettici smo, anche quando è panlogismo o sistema della scienza assoluta. Il primo è idealismo del pensiero che rimanda al Pensiero, dell’essere che si abbevera, si innova, si arricchisce e si compie nell’Essere; l’altro è idealismo del pensiero umano o naturale  tutto immanente al  mondo con cui si identifica e perciò cosmico o cosmologico e non vera vita spirituale  assolutizzato con un atto irrazionale, che, facendone il Primo metafisico, lo chiude in se stesso, lo re108 Filosofia e Metafisica cide, appassisce, essicca, in quanto lo strappa al Pensiero, fonte di ogni pensiero, all’Essere da cui deriva il suo essere, per farne il Tutto, la cui condanna è il suo nulla, il Nulla. Il dilemma dei due idealismi è il dilemma dell’uomo, della realtà, della verità: o l’uomo, il reale, il vero sono da Dio e l’uomo è uomo, il reale è reale e il vero è vero; o l’uomo, la ragione naturale, il mondo e le verità umane sono essi stessi l'Assoluto, il Primo, e questo tutto, fatto irragionevolmente i/ Tutto, precipita nel Nulla. O l’idealismo del Pensiero e degli enti pensanti, quello del cogitazus sum et cogitor, o l’idealismo del pensiero immanente che si autopone (e perciò si autonega) come Pensiero assoluto, quello che, da Cartesio, gradualmente, ha penetrato il pensiero moderno e si è sviluppato fino a culminare nello Hegel; dopo lo Hegel, precipitosamente, è sboccato, con rigorosa consequenzialità, nelle odierne filosofie del  Nulla », del  problema », delle  convenzioni », della pura  metodologia ». Era necessario, affinchè fosse chiara la posizione dei due idealismi, anticipare queste affermazioni, che il seguito del nostro discorso cercherà di approfondire. Il problema che poniamo è quello della verità della mia esistenza e di quella di ogni ente finito. In altri termini: io sono l’assoluta verità di me stesso, o sono dalla e per la Verità? Il problema dell’esistenza di Dio è quello della verità o dell’essere di ogni ente, dell’ intelligibilità metafisica del reale o del senso assoluto dell’ente finito. Indagare se Dio esiste è sondare se vi è la verità della verità di ogni ente creato e della verità che è in ciascun ente pensante. Se il problema è quello della verità degli enti, ancora una volta risulta necessario muovere dall’uomo, il solo, tra gli enti finiti, che concepisce il suo esistere in termini di verità o d'’intelligibilità. Infatti, non la pura sensazione immediata fa sorgere in noi il problema dell’esistenza di Dio, ma la riflessione sulle cose. E riflessione significa mediazione, giudizio; ma L'esistenza di Dio 109 non c’è giudizio senza l’applicazione o l’uso di principi in base a cui si giudica. D'altra parte, se dall’ordine delle cose materiali finite e contingenti, come dal fatto che sono dotate di movimento, si argomenta intorno all’esistenza di Dio, si fa uso di alcuni principi, per esempio di quello di causalità. In tal caso, l’argomentazione a favore dell’esistenza di Dio dal mondo esterno si fonda sulla validità oggettiva di quel principio, cioè su una verità; pertanto il problema primo è di sapere se la mente umana sia capace di verità, come si trovino in essa o in qual modo le acquisti. Senza verità universalmente valida nessun giudizio e nessuna argomentazione oggettiva sono possibili; similmente non nascerebbe il problema dell’esistenza di Dio, se mancassimo completamente della nozione di una realtà non contingente e assoluta, se non fosse in noi una presenza oscura ed operante di quel che cerchiamo; se non fossimo in qualche modo nell’essere, cioè se non ne partecipassimo analogicamente; dalla totale contingenza e relatività non nasce il problema del necessario e dell’assoluto. La dimostrazione dell’esistenza di Dio non può partire che dalla verità; ma essa è per sua natura intelligibile, oggetto di un pensiero; dunque la prova non può partire, tra tutti gli enti finiti e contingenti, che dall’ente che è mente, pensiero, spirito: dall'uomo o dalla vita spirituale. La posizione del problema si va sempre più precisando: a) dagli enti finiti e contingenti; è) da quelli di essi che sono menti o spiriti c) dall’oggezto delle menti; cioè dalla verità non contingente e non finita di cui sono capaci, dato che la verità non può essere che oggetto o contenuto di una mente. Se si prova che la mente finita è capace di verità e dalla presenza di essa alla mente l’esistenza di Dio, l’argomentazione può muovere anche partendo dalle cose materiali, in quanto sappiamo che c’è verità e siamo capaci di conoscerla, che la validità dei nostri giudizi è garantita dalla oggettività di alcuni principi; non è una nuova dimostrazione, bensì un’applicazione di quella dalla vita dello spirito, giacchè la verità della seconda prova è condizionata, dipendente, da quella della prima, che la include, come include le altre; di qui la sua superiorità, tanto da essere l’unica prova dell’esistenza di Dio, fondamento di tutte. Così impostata, la questione si presenta sotto forma di dilemma: o vi è verità e la mente umana ne partecipa, e vi è problema e dimostrazione dell’esistenza di Dio; o verità non è, o, se è, la mente umana non ne partecipa affatto, e non vi è problema nè dimostrazione. Il nihilismo, lo scetticismo, l’agnosticismo, il relativismo assoluti, negando che vi è o si possa conoscere una verità necessaria universale immutabile, negano con ciò stesso il problema e l’esistenza di Dio: per loro essenza, come pensiero sono atei. Resta da dimostrare però che non vi è verità e, se vi è, la mente umana non ne partecipa; cioè se tali affermazioni sono razionali, abbiano un senso comprensibile. Nè si dica che vi è verità, sì, ma tutta umana, del solo ordine naturale o della sola universale ragione e ad essa immanente, perchè se la ragione si fa creatrice di verità assoluta, si divinizza contro ragione: mutevole e finita, è capace di  scoprire verità assolute e non di crearle ». Se si nega la trascendenza della Verità, non si può ammettere nè dimostrare  ragionevolmente ammettere e razionalmente dimostrare  che la ragione conosca verità assolute, per il semplice fatto che si è negata la verità nel momento stesso che la si fa figlia della ragione naturale finita e mutevole: o verità non è, ma se è, la ragione oltrepassa in quanto è alla ragione data e non da essa posta. In altri termini: o non è verità e si arriva alla conclusione assurda e contraddittoria che  è vero che niente è vero »; 0 è verità, e c'è un dl di là dalla ragione; se non c’è, di nuovo, c’è il niente di verità. L'esistenza di Dio 116 2.  Gli element: del giudizio e il problema della sua valsdità. Affinchè sia un giudizio sono indispensabili: 4) un soggetto razionale pensante e giudicante; 5) un dato da giudicare; c) delle norme o principi in base a cui giudica. Attività giudicante, nell’ordine della natura, è soltanto l’uomo; in quanto ente razionale giudica, gli altri enti sono giudicati. Ma l’ente giudica sulla base di alcuni principî di giudizio, non solo le cose, ma anche se stesso e gli altri enti pensanti, e ogni singolo ente pensante se stesso e gli altri. Da ciò consegue che, per quanto poco conto possa fare delle umane facoltà razionali, so che la conoscenza sensoriale nella sua pura empiricità, è un grado conoscitivo inferiore a quella concettuale. Infatti, anche quando giudicassi che nessun concetto o giudizio è vero e che la verità è nella sola e pura sensazione, sarebbe sempre un giudizio quello con cui considero vera la sensazione e falso il concetto; ma il giudizio con cui giudico vera la sensazione non è dovuto alla mia attività sensitiva nè da essa derivato, bensì alla mia attività razionale; anche in questo caso, è quest’ultima a pronunziare un giudizio di veridicità della conoscenza sensoriale e di erroneità di quella concettuale; ma il giudizio con cui giudico vera la prima e falsa la seconda è una conoscenza concettuale, la quale, proprio per il fatto che si esprime in un giudizio, è superiore ad ogni conoscenza sensoriale, di cui, contraddittoriamente, le si vuole contrapporre la superiorità. Ora è evidente: se la ragione giudica la sensazione non può essere da essa giudicata; ma la giudica in quanto fa uso di principî, senza di cui non potrebbe formulare giudizi. Per conseguenza: se non c’è giudizio senza il soggetto giudicante secondo i principî del giudizio, la verità di ogni giudizio non risiede nel soggetto giudicante contingente e finito  o nella ragione per se stessa, anch'essa finita e mutevole  nè nella cosa sottoposta a giudizio, anch’essa contingente, finita ed inferiore allo stesso soggetto pensante per il fatto che è giudicata e incapace di giudicare e giudicarsi, ma nei prinpi secondo cui il soggetto giudica (!). Dunque vi è giudizio vero, oggettivamente valido, in quanto la ragione nel giudicare si serve di regole, di principî necessari, immutabili, universali, assolutamente validi. Non sono pure  condizionidel conoscere in sè vuote come le  forme a priori kantiane, ma conoscenze primali, originarie, fondamento di ogni conoscenza vera. Che l’uomo sia capace di giudizi veri ci risulta dall’aver prima dimostrato che nessuna forma di scetticismo, com'è provato dallo stesso argomento dello scettico, può negare che l’uomo sia capace di verità; ma basta che egli lo sia anche di una sola, perchè consegua: 4) che è capace di giudizi veri; 4) che sono presenti alla sua mente alcuni principî, fondamento della veridicità di ogni giudizio vero. Infatti, chi dubita conosce qualcosa di vero, se non altro che dubita ed esiste come ente che dubita e s’inganna (si fallor, sum). Ma, come rileva Agostino (De vera religione, c. XXXIX), chi conosce qualcosa di vero lo conosce per la verità, dato che  tutto ciò che è vero, è vero per la verità ». La profondità di questa argomentazione non risiede nel provare che l’uomo conosce alcune verità, tra cui prima quella di non poter dubitare dell’esistenza di se stesso come dubitante ed ingannantesi, ma nel rilevare che la presenza in noi di un solo vero sarebbe impossibile senza la presenza del lume della verità: se siamo capaci di una sola verità, c’è in noi la verità. Da ciò consegue: 4) ogni particolare verità, compresa quella della coscienza che ogni singolo ha di esistere, presuppone  altrimenti non sarebbe  una verità primale,  Un giudizio può essere  formalmente corretto e sostanzialmente erroneo. Ciò non significa che i principî del giudizio siano o possano essere erronei, in quanto l’errore non è in essi. Il giudizio è vero quando la relazione che enuncia è vera: falso quando è falsa, ma nell’uno e nell’altro caso i princìpi sono sempre veri; infatti, il giudizio errato si corregge adoperando sempre gli stessi princìpi. L'esistenza di Dio 113 di cui è una determinazione; 5) l’uomo è l’artefice di tutte le verità (l’umano sapere), ma non è il creatore della verità che è in lui e di cui tutto l'umano sapere è una specificazione; c) le verità dell’uomo non sarebbero se non fosse in lui la verità che fa la mente capace di conoscenze vere, ma la verità, fonte di ogni umano vero, è da sè, anche se ogni umana scienza non fosse; 4) la coscienza di me esistente, cogito, ergo sum, è la prima verità nell’ordine di quelle di cui sono artefice, ma non è la verità prima, della quale la coscienza di me è solo la prima determinazione, ma la verità prima e in quanto oggetto di una mente; e) dunque, il soggetto pensante  ma solo esso e non le verità che egli formula sul fondamento di essa  le è necessario senza che ciò implichi che ne è il creatore: il lume di verità è oggetto interiore della mente; f) per conseguenza, la coscienza di me, il Cogito, prima verità di cui sono l’artefice, non s’identifica con la verità prima, che la rende possibile e che, interiore alla mente, non è la mente nè è da essa prodotta; g) perciò, appartenenza dell’uomo ma non dall’uomo, madre di ogni umana verità compresa quella dell’autocoscienza, non è umana, ma divina: 4) dunque, la presenza nell’uomo di verità attesta l’altra del lume di verità da e per cui è capace di verità, ma questa seconda presenza, la verità-oggetto interiore, in lui, ma non da lui, pone il problema di se stessa: principio di ogni vero del quale l’uomo è artefice, pone il problema del suo principio, che è il problema del Principio primo, della Verità o dell’Essere. Identificare il problema del conoscere o gnoseologico con quello del suo fondamento o principio  problema ontologico-metafisico  e rinunziare a chiarire e ad approfondire, per superficiale acrisia, il problema critico della conoscenza. La capacità umana di formulare giudizi veri  verità prodotta dall'uomo  è soluzione del problema gnoseologico, ma è essa stessa problema, che porta implicito l’altro del prin114 Filosofia e Metafisica cipio per cui ogni giudizio vero è tale; ma il problema del principio del conoscere non è più gnoseologico, in quanto è problema della verità, fonte di ogni vero, cioè della verità oggetto della mente e non suo prodotto; come tale, di ordine ontologico », non  gnoseologico ». È essa che fa nascere il problema dell’esistenza di Dio o del suo Principio assoluto; dunque l’ontologicità della verità  la verità è l’essere  pone il problema metafisico del Principio: gnoseologia o dottrina del giudizio; ontologia o dottrina della verità prima interiore all’ente pensante; metafisica o dottrina del Principio assoluto, che è la Verità in sè: dall’umano al divino nell’uomo e dall’uomo a Dio. Questo discorso significa: 4) vi è una verità ontologica anteriore ad ogni particolare conoscenza vera; 5) l’atto con cui so di esistere, non solo mi dà la prima verità oggettiva, ma, quel che più conta, mi attesta la presenza di un lume oggettivo di verità, di cui l’autocoscienza è solo una determinazione, anche se la prima e la sola essenziale. Dunque, verità primale e fondante in interiore homine, come oggetto della mente, madre dello stesso pensare, per la quale il soggetto è pensante ed ha coscienza di esistere come tale; la mente non adegua il suo lume di verità, l’autocoscienza non esaurisce l’interiorità; la verità in inzeriore homine per la sua stessa presenza, stimola, slancia, obbliga l’uomo a trascendere ez se ipsum. Autocoscienza è coscienza di sè e di altro da sè; come autocoscienza pura, l’ altro da sè è l’oggetto o Idea, la verità interiore, che il soggetto coglie nell’atto che ha coscienza di sè come ente pensante; anzi ha coscienza di sè perchè ha coscienza dell’altro, l’oggetto interiore o il lume di verità, che lo fa essere coscienza di sè e dell’oggetto stesso. L’interiorità fonda l’autocoscienza trascendendola; dunque non l’autocoscienza come coscienza di me soggetto pensante, ma l’autocoscienza come atto primo o prima specificazione dell’interiore verità pone il problema dell’esistenza di Dio, nè. L'esistenza di Dio 15 può non porlo; le è necessariamente intrinseco: in quanto partecipe dell’infinito della verità non può non porsi il problema dell’Infinito in sè. L’idealismo trascendentale e qualsiasi filosofia dell’immanenza sono al di qua di questa problematica, nell’anticamera dell’ontologia e della metafisica, che si rifiutano di riceverli fino a quando si ostinano a fare filosofia della natura etichettata fraudolentemente per filosofia dello spirito. 3.  I principî del giudizio non sono  posti dalla ragione, nè indotti dall'esperienza esterna. In quanto abbiamo detto ci sembra implicitamente risolta, nella parte negativa, anche la questione dell’origine dei princìpi del giudizio. Infatti, se sono le norme assolute ed immutabili con cui la ragione giudica ogni cosa, consegue: 1) la ragione non può sottoporre le norme a giudizio, in quanto, se la norma stessa fosse passibile di giudizio, cesserebbe di essere norma ingiudicabile per esserlo quella o quelle che la giudicano: o la norma è norma di giudizio e allora essa che giudica tutto non può essere da nulla giudicata; o è da sottoporre a giudizio e non è essa la norma di giudizio, bensì quella che la giudica. 2) Se la ragione non può giudicare le norme secondo cui giudica, essa stessa ne è giudicata: il giudizio errato, conseguenza della finitezza della ragione umana, è riconosciuto per tale e corretto in base alle norme con cui la ragione giudica; dunque sono esse che giudicano l’operato della ragione, se i giudizi che essa formula siano veri od erronei. 3) Da ciò consegue che le norme sono indipendenti dalla ragione, da essa non prodotte ma ad essa daze e, come tali, superiori, in quanto, secondo una celebre espressione di Agostino, non vi è dubbio che qui iudicat, co de quo sudicat esse 116 Filosofia e Metafisica meltorem (*). In breve, ie norme del giudizio o le verità che lo fondano non sono un prodotto dell’attività razionale, in quanto, se tali, essendo la ragione mutevole e finita, sarebbero anch’esse mutevoli e finite; dunque, son esse che rendono possibili i giudizi e l’attività della ragione e non viceversa: non vi sono norme vere perchè vi sono giudizi veri, ma vi sono giudizi veri in quanto la ragione può disporre di norme vere, in base a cui giudica e dalle quali è essa stessa giudicata. La ragione non è madre ma figlia della verità, e, perchè tale, madre a sua volta di verità; dunque l’origine delle verità che la fanno vera non è da cercare in essa. Pertanto altro è il problema della verità, altro il problema del conoscere razionale. Torto dell’idealismo panlogistico di Hegel, di alcuni suoi epigoni e di quanti non distinguono i due problemi, è di ridurre la metafisica a gnoseologia, identificando il problema metafisico con quello gnoseologico e dissolvendo quello del principio-fondamento del conoscere nell’altro del conoscere, principio e fondamento di se stesso. Il conoscere, assolutizzato, si chiude in se stesso, verità di sè a sè, si autopone, consumando la soppressione violenta ed arbitraria del problema della verità o della intelligibilità metafisica del conoscere razionale. È la sopraffazione che la ragione perpetra contro la verità illuminante; il sovvertimento per cui essa, fondata dalla verità, si pone come fondante la verità stessa. La distinzione, in seno all’idealismo di Hegel e all’hegelismo, rinasce nella forma della dualità dialettica del pensiero pensante e del pensiero pensato, nel dialettismo dell’autoposizione e dell’autonegazione del pensiero; e non può non rinascere in quanto il conoscere razionale va in cerca del suo fondamento, del suo principio che è la verità. Dissolto il paralogismo e con esso la soluzione illusoria del problema nella dialettica del pensiero, il problema del fondamento del (2) Il lettore si sarà già accorto come l’argomentazione dalla verità, che stiamo svolgendo per provare l’esistenza di Dio, sia di ispirazione agostiniana.: Il testo più completo a questo proposito è il De libero arbitrio L. Il.  conoscere rinasce imperiosamente e si pone come problema ontologico della verità o dell’essere fondante ogni conoscere, e il pensare come tale, e come problema metafisico del Principio assoluto, cioè della intelligibilità della verità dello stesso conoscere razionale e del senso e del fine dell’uomo nella sua integralità. Il problema dell’esistenza di Dio non nasce nè può nascere in una filosofia come sistema dell’assoluta scienza razionale in quanto in essa è dissolto il problema della verità; nasce invece all’interno della ricerca del fondamento assoluto o del Principio primo della veridicità delle norme del conoscere razionale, cioè in una filosofia che indaga sul donde quest’ultimo deriva la sua validità. // problema dell'esistenza di Dio è il problema della verità, che è l’oggetto primo ed interno della filosofia; prima di essere problema della ragione o del giudizio sulle cose, è problema della intelligenza, dell’intuizione fondamentale della verità, lume della ragione. 4) D'altra parte, se le cose sono giudicate dalla ragione secondo i princìpi del giudizio, non possono esse  contingenti, mutevoli, finite e inferiori alla stessa ragione  essere produttrici di tali verità; le cose posseggono un grado di verità o di essere (sono, per es., più o meno belle), ma non la norma universale, con cui la ragione giudica del loro grado di essere o di verità, e che pertanto è indipendente dalle cose stesse e preesiste al giudizio che per mezzo suo la ragione pronunzia sulle cose. Voler ricavare dall’esperienza sensoriale i princìpi del giudizio è rischiare, senza venire a capo della questione, conclusioni scettiche, a cui, prima o poi, arriva ogni forma di empirismo. Il mutevole e contingente non può essere fonte dell’immutabile e necessario; il grado di verità che riscontriamo nelle cose contingenti non solo non adegua la verità conosciuta con la mente, ma è conosciuto e giudicato in quanto nella mente preesistono le norme oggettive del giudizio. Per conseguenza i princìpi immutabili, fondanti la veridicità dei giudizi, non sono deducibili 118 Filosofia e Metafisica a priori dalla ragione per analisi, nè sono un prodotto della sua attività; non inducibili 4 posteriori nel senso di contenuti enucleati da una forma qualsiasi di esperienza sensoriale. Donde, allora, questi princìpi? 4.  Ragione ed intelligenza: l'intuito fondamentale dei principi del giudizio. Prima di rispondere a questa domanda, è opportuno chiarire un altro aspetto della questione. I princìpi del giudizio sono noti alla ragione, che di essi si giova per giudicare; la sua attività è discorsiva: stabilisce nessi e rapporti, formula giudizi e costruisce il discorso. La ragione pertanto applica i i princìpi, li media, non ne ha conoscenza diretta: essi sono conosciuti direttamente dall'intelligenza e applicati dalla ragione, ia quale più che l’attività intuente i princìpi è quella, diciamo così, che li adopera (*). Per conseguenza le verità sono oggetto della intelligenza, ad essa presenti; la mente le vede in se stessa, le scopre dentro di sè. Per l’intelligenza le norme sono illuminanti, le danno la visione diretta della verità non com'è in sè ma come è alla mente presente nell’ordine naturale; per la ragione sono, sì il suo lume, ma lume giudicante, ne mettono in moto la capacità di formulare giudizi e le danno la conoscenza mediata o indiretta della verità. Non abbiamo ancora detto l’origine di queste verità, ma soltanto dimostrato che non le produce la mente umana che pur ne è illuminata e costituita, nè la ragione, che pur di esse si giova per giudicare, nè derivano dai contenuti dell’esperienza sensoriale ai quali li ap(3) Si può osservare che i princìpi si colgono nel momento che sono applicati, non prima nè fuori della concretezza della esperienza. Rispondiamo che ciò non mette in questione l’intuito fondamentale dei princìpi, in quanto l’esperienza e i giudizi della ragione sono possibili proprio per i princìpi, i quali, presenti nell’esperienza non sono elementi derivabili da essa, che anzi li presuppone. D'altra parte la distinzione intelligenza-ragione va sempre considerata nell’unità concreta della vita spirituale. ” L'esistenza di Dio 119 plica: constatiamo che sono in not, presenti alla nostra mente, da essa direttamente intuite, suo oggetto intelligibile. Sono, dunque, innate? Non nel senso dell’innatismo platonico, ma in quello dell’interiorità agostiniana: presenza illuminante ed operante della verità in interiore homine; presenti anche quando la ragione erra, perchè non è la verità che è assente a noi, ma noi ad essa. Se per ipotesi assurda, la nostra mente fosse privata di questi princìpi, non solo sarebbe incapace di verità, ma l’uomo, come spirito e anche come corpo, sarebbe annientato. Questa presenza enigmatica della verità in noi, non proveniente da noi nè dalle cose, e di cui pur partecipiamo, pone il problema della sua origine; dunque, ci autorizza a porre l’ipotesi  Dio come possibile soluzione del problema dell'origine della verità dalla nostra mente intuita e di quello dell’intelligibilità di ogni esistente. Meraviglioso già che enti finiti e contingenti siano capaci di verità immutabile e necessaria; che le cose abbiano un grado di essere o verità e nel loro divenire un ordine che non passa, le regola e orienta. Qualcuno potrebbe osservare: i principî, come dite, giudicano la ragione e non questa li giudica anche se giudica secondo essi; ma chi riconosce veri i princìpi è la ragione; dunque, sia pure per dire che son veri, essa li giudica. Esatto, ma l’atto con cui la ragione dice che i princìpi son veri non è un giudizio, bensì una constatazione: la ragione, giudicando veridicamente, testimonia della loro verità; d'altra parte, i princìpi non sono oggetto immediato della ragione, ma della mente a cui sono presenti. In altri termini, il cosiddetto giudizio con cui la ragione riconosce la verità dei princìpi non fonda la validità dei princìpi stessi, ma è l’atto con cui la ragione si costituisce come capace di giudizi veri sul fondamento della loro verità fondante. 120 Filosofia e Metafisica 5.  Il problema dell'origine dei princìpi del giudizio: tre risposte fondamentali. Degli elementi che compongono il giudizio  il soggetto pensante, un dato da giudicare e le norme in base a cui la ragione giudica  c’interessa quest’ultimo come quello che pone il problema della verità oggettiva dei princìpi secondo cui la ragione giudica. Il problema del conoscere è fondamentalmente quello della formazione dei concetti; il problema della verità quello della origine dei princìpi, la cui  profondità »:è tale da convincere che essa oltrepassa le possibilità dell’uomo. Prendiamo in considerazione tre risposte, corrispondenti a tre diverse concezioni metafisiche e gnoseologiche: in esse è contenuta quasi tutta la storia della filosofia. Prima risposta. Non vi sono nella mente umana princìpi del giudizio, in quanto tutto nella conoscenza deriva dall’esperienza sensoriale. È la risposta dell’empirismo la quale, a rigore, non è tale per il semplice motivo che non risolve ma sopprime il problema; infatti, dall’esperienza sensoriale non possiamo indurre alcun principio assoluto e universalmente valido. Non per nulla l’empirismo, dalle sue origini occamiste a Locke, Hume e fino ai nostri giorni, è nominalista, agnostico, scettico. Se e quando non è tale, è contraddittorio: voler derivare dall’esperienza sensoriale i princìpi con cui la ragione giudica l’esperienza stessa, è come dire che i princìpi sono anch'essi  cose ». Ma i princìpi del giudizio non son cose  e come non-cose sono ininduttibili dall’esperienza sensoriale  nè, d’altra parte, sono conoscenze @ priori; consegue che l’empirismo è costretto a negare la validità oggettiva dei princìpi e con essi la veridicità dei giudizi. Con ciò nega la verità ed il problema della verità del conoscere razionale rchè inizialmente, anche se implicitamente, fa della verità, realtà intelligibile,  cosa tra cose. Assimilati alle quali . L'esistenza di Dio 121 MERE i pira : : i princìpi del giudizio, l’empirismo ne riduce a due gli elementi; ma, come vedremo tra poco, neppure a due. Seconda risposta. I princìpi del giudizio sono a priori: innati nella mente umana (Razionalismo cartesiano-leibniziano) o prodotti dall'attività del soggetto pensante (Criticismo e Idealismo trascendentale). Nel primo caso sono conoscenze assolute, nel secondo soltanto  condizioni assolute del conoscere. Il razionalismo innatista già comincia a non distinguere tra problema della verità e problema del conoscere razionale. Di qui il suo andare ai due estremi: da un lato, ammessa l’intuizione diretta dell'essere, nega il conoscere razionale e, per conseguenza non può giustificare la ragion d’essere del mondo (Malebranche); dall’altra, nega l’intuito della verità e riduce la conoscenza alla pura razionalità con uguale conseguente negazione del mondo (panteismo acosmico dello Spinoza). Ad eccezione del Malebranche, il razionalismo moderno perde a poco a poco il senso dell’origine trascendente della verità e instaura l’autonomia della ragione senza distinguere tra problema della conoscenza e problema del fondamento del conoscere; d’altro lato, si avvia al filosofismo illuminista che non distingue più tra filosofia e scienza e separa nettamente il problema filosofico da quello teologico. Così è preparato il terreno al Criticismo e all’Idealismo trascendentale, che segnano il passaggio dall’ innatismo all’immanentismo della verità: i princìpi del giudizio sono forme 4 priori immanenti dell’attività del soggetto pensante. Per conseguenza il problema della verità s’identifica con quello del conoscere razionale: non vi è un principio della sua assolutezza (Hegel), non esigenza di assoluto, ma l’assoluto, essa, verità di e @ se stessa: il razionale adegua il reale e il reale il razionale. Pertanto il problema dell’intelligibilità metafisica della conoscenza non può avere più posto nell’idealismo trascendentale, in quanto il sapere razionale 122 Filosofia e Metafisica è tutta l’intelligibilità metafisica: la gnoseologia è essa la metafisica, la sola possibile. Il problema dell'essere della verità del giudizio è risolto nell’altro della verità immanente allo stesso soggetto pensante: metafisica del pensiero e non dell’Essere o della Verità che fonda il pensiero. In altri termini, il pensiero stesso è verità, padre e fondamento della veridicità di ogni conoscenza vera o razionale, con cui s’identificano pensiero e reale. Anche questa volta i tre elementi del giudizio sono ridotti a due; anzi, anche questa volta, neppure a due. Infatti, l’idealismo trascendentale risolve e nega il reale ed ogni ente nel Soggetto unico assoluto che è oggetto a se stesso; anzi  con il Gentile  nell’Azto del pensare o nel Pensiero pensante, unico, ineffabile, puntuale. Allo stesso modo l’empirismo, diventato positivismo, risolve il reale ed ogni ente nella Cose unica, alla quale assimila il pensiero, che ne è un epifenomeno,  cosa dalle stesse leggi delle cose governata. Ma il positivismo non è solo sviluppo dell’empirismo, bensì risultato della collusione di quest’ultimo e dell’idealismo trascendentale attraverso il criticismo di Kant: se da un lato può sembrare rinunzia al panlogismo dello Hegel, dall’altro, ne è uno sviluppo. Infatti, se la ragione è tutta immanente al mondo ed il processo dell’uno è quello dell’altra; se vi è adeguazione perfetta tra reale-cosmo e razionale, consegue che assoluto filosofare è assoluto scientizzare: la filosofia si risolve nella scienza e vi s’identifica; lo Assoluto è la Scienza, la filosofia ne è la  metodologia ». La metafisica cosmologico-gnoseologista dal razionalismo ad Hegel ha nel positivismo uno dei suoi sviluppi coerenti: posto il conoscere razionale come fondante se stesso; negato il problema ontologico-metafisico della verità e per conseguenza una verità oggetto della mente; identificato il sistema del  sapere con quello del  mondo », consegue che tutto il pensiero è ragione, che l’oggetto unico della ragione sono le cose e i princìpi del conoscere, cose essi stessi, o schemi, L'esistenza di Dio 123 categorie in cui ordinare i fatti dell’esperienza. Non più i princìpi, ma  divino è il fatto, come dice Ardigò, quasi i fatti fossero essi ad illuminare la mente. Così, per l’idealismo trascendentale, posto che i princìpi del giudizio sono il prodotto dell’attività del soggetto pensante, divino, anzi Dio stesso, è il Pensiero e non più la verità che lo illumina; ma siccome il Pensiero è tutto immanente nelle cose e nel mondo  dire che il mondo è immanente al Pensiero è dire la stessissima cosa che il mondo adegua, immanentisticamente, il Pensiero stesso  la divinità di quest'ultimo è divinità delle cose. Perciò a un epigono di un Hegel pensato, o meglio spensato, con mentalità afilosofica è stato facile ridurre la filosofia a  metodologia della storia », cioè dei fatti umani, forma di positivismo umanistizzante che, nel fondo, non differisce da quello naturalistico, che riduce la filosofia a metodologia delle scienze o dei fatti naturali. Infatti, se questo positivismo assolutizza la scienza, l’altro assolutizza la storia. Così la Ragione-Dio dello Hegel si precisa, senza che vi sia opposizione sostanziale, come Storia-Dio e Scienza-Dio.  Ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale »; consegue che se Dio non è razionale, non riducibile alla Ragione immanente, se non è la stessa Ragione immanente, non è reale. Ma Dio identificato con la Ragione immanente non è più Dio, è il Cosmo; e se il Cosmo è Dio, Dio non esiste. In conclusione: 4) il problema della verità, fondante la veridicità del conoscere, risulta soppresso e con esso la verità, la luce che fa intelligente la mente e la ragione capace di conoscenza oggettiva: non sono possibili giudizi veri senza l’oggettività dei princìpi del giudizio; 4) questi cessano di essere oggettivi nel momento stesso che si riducono a  funzioni trascendentali del Pensiero o della Trascendentalità, principio creatore della verità, luce a se stesso e fondante da sè la propria assolutezza: il conoscere razionale è tutto e l’assoluto sapere; c) ma esso è giudizio sulle cose, dunque, tutto il sapere è sapere le cose, e niente le oltrepassa; 124 Filosofia e Metafisica d) tutto è cosa: cose spirituali o umane, ma sempre cose o fatti: idealisti, spiritualisti, positivisti o come si chiamano sono in ogni caso fondamentalmente e sempre materialisti (perciò il marxismo ha oggi tanto da dire, a prescindere dalle contingenze politico-sociali); e) così come sono negatori della essenza della filosofia, fatta necessariamente pura metodologia, in quanto le si nega l’oggetto interno  il problema della verità  quello che la costituisce autonoma e la fa metafisica dell’essere che è verità e della verità che è l'essere. Ma non basta: posto che l’unico sapere è quello razionale o  mondano  giudizio sulle cose per stabilire nessi e rapporti tra i dati dell’esperienza sensoriale  sapere assoluto in quanto ha il suo fondamento in se stesso, consegue che, proprio perchè la ragione si pone come essa stessa principio dell’oggettività, quel sapere e ogni sapere è privo di fondamento: la filosofia dallo Hegel in poi è, infatti, processo di  sfasciamento del sistema della Ragione. Essa ha accolto dapprima la conclusione del criticismo kantiano, convergenza del razionalismo e dell’empirismo, che l’4 priori è  funzione del soggetto pensante e l’esistenza di Dio per conseguenza non è razionalmente dimostrabile; e successivamente l’altra, che la Trascendentalità è essa stessa l’essere tutto e che non c’è problema dell’esistenza di Dio perchè Dio è lo stesso Logo immanente nel suo eterno divenire dialettico (Hegel). Ma quest’ultima conclusione è stata spinta fino a negare la  teologicità della Ragione hegeliana e a concludere, come il pensiero più recente, che, se Dio non esiste e l’uomo non è Dio, niente ha più senso e tutto è assurdo. La filosofia moderna, come filosofia della sola  ragione », è filosofia senza intelligenza »; perciò ha perduto Dio e l’uomo. Terza risposta.  I princìpi del giudizio sono presenti alla mente, che ne ha l'intuizione. L'esistenza di Dio 125 Questa l’inzelligenza costituita dalla verità interiore, luce che illumina la ragione, che, illuminata, getta luce sulle cose, le giudica, e giudicandole le vede nella loro intelligibilità o loro grado di essere. E’ la risposta dell’idealismo trascendentista, di derivazione e tradizione platonica, il solo idealismo autentico e, come tale, il solo vero realismo. I due idealismi concordano sull’apriorismo dei princìpi del giudizio, ma discordano radicalmente sul modo d’intenderli. L’idealismo trascendentale fa dei princìpi del giudizio un prodotto del pensiero naturale e le condizioni categoriali della conoscenza, identificando, come già detto, il problema della verità come quello del conoscere razionale; l’idealismo trascendentista, invece, distingue tra sapere intuitivo e  conoscere razionale, tra presenza immediata della verità a//a mente e presenza riflessa della verità nella ragione; pertanto, per esso, i princìpi del giudizio sono verità interiori alla mente, luce di essa, da cui la ragione è illuminata. La inzelligentia è il fondamento della razio, che cerca l’intelligenza, la luce con cui, giudicando, illumina le cose e le conosce: le  conosce in quanto le  vede nella luce della verità alla mente presente. Ma /a presenza della verità oggettiva alla mente, appunto perchè interiorità, esclude l'’immanenza della verità stessa ed importa la sua trascendenza rispetto alla mente. La verità, presente alla mente, è più di essa: nel mio pensare e conoscere vi è qualcosa che trascende l’atto del mio pensare e conoscere, verità che è mia, zon da me, più di me. Per essa son vere tutte le cose vere, ogni ente è verità, il pensiero capace di verità e la ragion di giudizio vero; ma essa non è le cose vere, nè ogni ente vero, nè il mio pensiero, nè i miei giudizi: è ciò che fonda i singoli veri e li trascende. Per conseguenza, la presenza della verità alla mente è insieme trascendenza, in quanto alla mente è presente qualcosa che non è prodotto da essa. Donde questa presenza? Quale il Principio assoluto della verità che illumina la mia mente, per cui sono capace di giudizi veri? E’ questo il problema dell’intelligibilità metafisica del conoscere ed è appunto il problema dell’esistenza di Dio. 6.  Indubitabilità ed indistruttibilità della verità dei princìpi del giudizio. Irrazionale e ridevole qualsiasi tentativo di mettere in dubbio la verità dei princìpi del giudizio; infatti, esso si configura come pretesa di giudicare intorno alla loro veridicità fondandosi proprio... sulla loro verità! Ma, se i princìpi del giudizio sono  al di làdel dubbio, consegue che l’intelligenza che li intuisce è  fuori del dubbio e dell’errore: il dubbio è della ragione e del conoscere razionale non della intelligenza e del sapere intuitivo; l’errore è nei nessi e rapporti che la ragione stabilisce ed essa stessa corregge, non nei princìpi del giudizio e nell’atto intellettivo che li intuisce. L'intelligenza o intuito della verità è sempre nella verità; la mia mente e ogni mente umana, in questo senso, è la libera prigioniera della verità. Anche se in odio ad essa volesse scacciarla non potrebbe: vi abita ed è in casa sua; neanche il pazzo perde la verità, che resta presente alla sua intelligenza. Infatti, il pazzo è uno  sconnesso », ragiona male o non ragiona affatto, come si dice, pensa ed agisce con nessi mal combinati, ma non potrebbe sragionare o sconnettere, senza i principi del giudizio presenti alla sua mente: se ne fosse privo non penserebbe affatto, nè male nè bene, non sragionerebbe. Pietre, piante, animali non sono pazzi. Dunue anche nel pazzo c’è l’uomo essenziale e profondo, la presenza della verità: la ragione sopraffatta lo ha abbandonato, la verità no, e fa che egli, sragionante, sia sempre uomo, soggetto spirituale. D’altra parte, anche ammesso, a detta di alcune teste scientifiche di pseudofilosofi di moda, che tutto il conoscere razionale sia  convenzionale nel metodo, nelle premesse e L'esistenza di Dio 127 nelle conclusioni, ciò non scalfisce minimamente il nostro discorso: è possibile il convenzionalismo della conoscenza razionale, proprio in quanto vi sono princìpi non convenzionali che lo rendono possibile. Dire che anche essi sono convenzionali è giudicare i princìpi in base a cui si giudica e che non possono essere giudicati. Domando: in base a quali altri princìpi si giudicano convenzionali i princìpi? Una delle due: o non ve ne sono altri e non potete giudicarli convenzionali; o ve ne sono altri, e allora sono essi i principi non convenzionali. Anche se tutto il conoscere fosse convenzionale non potrebbero essere convenzionali i princìpi in base a cui giudico che tutto è convenzionale; se lo fossero, bene, in tal caso niente sarebbe convenzionale. Non vi è giudizio con cui io possa distruggere la verità; se non altro non potrei distruggere la verità del giudizio con cui pretendessi distruggerla! Non posso annientare la mia mente, l’uomo profondo in me, anche se posso distruggere la mia ragione: non la distruggono nè la pazzia, nè la scemenza, nè la violenza scatenata delle passioni, anche se sconvolgono o annientano la mia ragione. Il mio io profondo,. perenne, immortale come perenne ed eterna è la verità  non è l’io razionale propriamente detto, ma l’io intelligente, che è oltre la ragione e perciò oltre la scienza, la pazzia, la morte. Anche nel naufragio totale di un’anima, superstite la presenza della verità, sopravvive il meglio di lei, in lei il più di lei. Perciò anche l’uomo più reietto è capace di affermazioni vere, di slanci di bene; le profondità del suo essere restano sempre orientate verso Dio. Se i sotterranei della sua coscienza, sia pure per un attimo, sono rischiarati consapevolmente dalla luce della verità, quel lampo può essere decisivo, operare una trasformazione radicale: il reietto può diventare lume di verità e fuoco di carità, potenza di santità. La verità, ogni verità, per piccola che sia, è eterna; perciò va riconosciuta, rispettata, amata: è divina; in questo 128 Filosofia e Metafisica senso, è divino l’uomo nel suo ordine, e ogni cosa per il suo grado di essere. Dunque, l’uomo va sempre rispettato ed amato: avanzo dolorante di miseria o rudere di mille delitti, in lui abita ancora e sempre la verità, che è divina (‘). Essa, non privilegio di alcuni ma bene a tutti comune, inerisce alla natura di ogni ente pensante in quanto tale: lume dell’intelligenza, è dell’uomo, di ogni uomo, del povero e del ricco, del venturoso e del percosso dalla sfortuna. E’ la riflessione scientifica o tecnica, la elaborazione dotta e concettuale che è solo di alcuni uomini; ma l’uomo essenziale, radicale, è nell’intelligenza della verità primale, fondamento di ogni elaborazione razionale e scientifica; in essa la sostanziosa e sostanziale sostanza umana. Togliere, per ipotesi, all'uomo la verità e dargli tutto il benessere possibile e l’universo, è un’operazione somigliante a quella di un assassino che, dopo aver ucciso, adorna splendidamente con meticolosa cura il cadavere della vittima. Chi è nella verità, chi sa, può sempre arricchirsi di conoscenza, perchè quel lume è il principio che fonda la veridicità di ogni conoscere. Non è divino il pensiero (idealismo trascendentale), non il fatto o la cosa (empirismo e positivismo), è divina la verità in noi, madre di ogni verità razionale e figlia della Verità che la oltrepassa e ci oltrepassa immensurabilmente. 7.  Elementi e formulazione della prova  dalla verità ». Dopo questo lungo discorso necessario e chiaritivo dell’essenza della prova, raccogliamo tutti gli elementi che la ricerca ha messo a nostra disposizione. (4) Quanto sopra è detto previene un'eventuale obiezione: la vita concreta dello spirito non è solo verità e bene, ma anche errore e male; è da questa reale dialetticità che si ascende a Dio e non dalla sola intuizione della verità. Certo, la vita spirituale è conflitto di verità ed errore, di bene e male, ma tale conflitto non vi sarebbe senza la presenza della verità alla mente. Ora è proprio questa presenza il fondamento dell’argomentazione dell’esistenza di Dio. L'esistenza di Dio 129 1) La verità è un'entità intelligibile, oggetto di un pensiero o di una intelligenza: non vi è verità senza un pensiero che la pensa, un'intelligenza che la intellige. Nel caso della mente umana finita, ciò non significa che la mente faccia essere la verità, la ponga», ma solo che la scopre in sè, la intuisce; dunque, la verità che l’umana mente intuisce è da essa indipendente. D'altra parte, come verità non di ieri o di oggi, ma di sempre, è necessaria, eterna; era verità prima che mente umana la pensasse e lo sarà anche se nessuna mente umana esistesse. Ma se è verità, oggetto d’intelligenza, non può essere senza un'intelligenza che la pensi, nè può non essere, appunto perchè eterna; dunque vi è la Mente o il Pensiero che la pensa, eterno come essa. Ma se Pensiero eterno, è della stessa natura della Verità; il Pensiero eterno ed assoluto è la Verità eterna ed assoluta, a differenza della mente umana finita che ne partecipa soltanto. Dunque esiste la Mente assoluta infinita che è la Verità in sè assoluta e infinita, da cui è ogni verità: è la Verità creatrice. Si potrebbe obiettare: concediamo che la mente umana intuisce verità immutabili e necessarie, ma ciò non basta a provare che esiste Dio come Verità assoluta, in quanto le verità dalla mente intuite, proprio perchè intelligibili, appartengono all’ordine della mente o del pensiero non a quello della realtà; dunque non è ancora spiegato il passaggio dal‘l’ordine del pensiero all’ordine del reale. Chi così obiettasse dimostrerebbe di essere affetto dal più grossolano empirismo, in quanto: 4) da un lato, identifica il reale con l’empirico, cioè con il grado più povero della realtà; 5) dall’altro, non tien conto che noi argomentiamo dalla presenza della verità alla mente, cioè non da un possibile o pensabile, ma dall’erze pensante, dall'uomo alla cui mente è presente la verità, e l’ente pensante appartiene all’ordine dell’esistenza, non del possibile; c) nè tiene conto che, se per l’essere finito la verità intuita è solo dell’ordine 130 Filosofia e Metafisica del pensiero perchè egli per la sua finitezza non può essere il soggetto sussistente ad essa adeguato (se il pensiero umano adeguasse la verità infinita sarebbe esso Dio e per ciò stesso insensatamente ateo), per la Mente infinita, invece, la verità è lo stesso ordine dell’Essere. La Verità in sè non è un’entità di ordine ideale, ma è Dio, l’Essere con cui s'identifica. In altri termini, la distinzione tra i due ordini, per cui non è logicamente corretto dedurre dal pensabile la sua esistenza, è valida per il finito e non per l’Essere infinito o Dio. Su questo punto ha ragione S. Anselmo e non Gaunilone; e, posteriormente, il paralogismo è di Kant, non del Santo di Aosta. Questa precisazione significa ancora ben altro: la verità è oggetto nell’uomo, perchè non può identificarsi con il soggetto, ente finito, ma come Verità in sè è soggetto, è il Soggetto infinito e assoluto; dunque Dio, che è la Verità, non è l’Oggetto impersonale, ma il Soggetto. Questa precisazione è valida contro chi obiettasse che io faccio di Dio l’Oggetto o la Sostanza assoluta, al pari dello Spinoza o del Carabellese. 2) Si arriva alla stessa conclusione secondo un altro ordine di considerazioni: la verità che la mente umana intuisce e di cui la ragione si serve per formulare giudizi validi, ha i caratteri dell’immutabilità, necessità, universalità, i quali ci obbligano a riconoscere che è, sì, nella mente umana, ma non dall’uomo creata; i caratteri essenziali della verità sono gli stessi della definizione nominale di Dio; dunque, la verità presente nella mente umana non può essere che di origine divina: esiste Dio, Mente o Verità assoluta, che gliene ha fatto dono. Di qui ancora la necessità di tener distinte l’inzelligenza e la ragione di Dio: non vi può essere ragione di Dio senza intelligenza di Dio, mentre, anche quando non vi è o viene a mancare la prima, resta la intelligenza di Lui, inesprimibile perchè la ragione ne è impedita come nel caso del pazzo, dell’idiota, dell’ateo: niente può strappare la verità L'esistenza di Dio 131 dalla mente e la mente dalla verità, che è divina, più dell’uomo e all’uomo donata. Anche nella mente del pazzo o dell’idiota, del malvagio o dell’ateo c’è perennemente la presenza di Dio come presenza della verità data all’intelligenza. Per conseguenza, da un lato, la ragione che nega Dio è la ratio nemica di se stessa, ribelle all’inzellectus, fuori dell’intelligenza, insensata: dall’altro, la ratio che argomenta dalla presenza della verità all’inzellectus l’esistenza di Dio, dimostra conformemente all’intelligenza, non la fa essere: la ratio chiede all’intellectus la ragione di se stessa. Perciò, da questo punto di vista, la razio è un potere conoscitivo inferiore all’inzellectus da cui dipende. Il dubbio e l’errore possono trovarsi nella ragione non conforme al vero, non nell’intuito fondamentale della verità. 3) Tutti i caratteri che analogicamente attribuiamo a Dio sono contenuti nella verità dalla nostra mente intuita: 1) la verità rispetto alla mente è incondizionata; Dio, l’Essere che è principio di se stesso; 2) la verità è necessaria ed immutabile; Dio, l’Essere necessario ed immutabile; 3) la verità oltrepassa e trascende la mente umana; Dio, l’Essere trascendente; 4) la verità è creatrice di giudizi veri; Dio, l’Essere creatore; 5) la verità è ordine e perfezione; Dio, l’Ordine e la Perfezione assoluti; 6) la verità è essere, ciò che di essere è nella mente e nelle cose; Dio, l’Essere realissimo; 7) la verità guida la mente alla conoscenza vera, suo fine e perfezione; Dio, l’Essere intelligente che ordina a un fine; 8) la verità è l'oggetto di un soggetto pensante; Dio, che è la Verità, il Soggetto intelligente infinito. 4) Ormai possiamo dare alla prova la sua formulazione recisa: l'ente intelligente intuisce verità necessarie, immutabili, assolute; l'ente intelligente, contingente e finito, non può creare nè ricevere dalle cose per mezzo dei sensi le verità che intuisce; dunque esiste la Verità in sè necessaria, immutabile, assoluta che è Dio. Oppure sotto altra forma più propriamente agostiniana: nulla vi è nell'uomo di superiore 132 Filosofia e Metafisica alla mente; ma la mente intuisce verità immutabili ed assolute, che sono ad essa superiori; dunque esiste la Verità immutabile, assoluta, trascendente che è Dio. La ragione giudica secondo i princìpi intuiti dall’intelligenza senza che possa giudicarli; pertanto essa non può mettere in discussione, pretendere di dimostrare, la verità di quelle verità, fondamento della veridicità dei suoi giudizi. Intuite dalla mente, sono applicate dalla ragione; non ha senso domandarsi perchè è così o se potrebbe o avrebbe potuto essere diversamente, in quanto non ha senso pretendere la dimostrazione di quelle verità, fondamento della veridicità di ogni dimostrazione: sono fuori discussione, al di sopra della dimostrazione razionale. Nè dimostrare l’esistenza di Dio  dalla verità significa porre in discussione i princìpi, punto di partenza fuori discussione. Per conseguenza, nell’intuizione delle verità immutabili e necessarie è implicata l’esistenza di Dio, in quanto la loro presenza è già presenza in immagine di Dio stesso. In questo senso si può dire che ogni qual volta la mente è presente alla verità che è in lei e di cui la ragione fa uso, è presente a Dio; dunque, pensare è pensare Dio senza che Egli sia l’oggetto diretto ed immediato del nostro pensiero: Dio è l'al di là interiore, il Trascendente. Non il ragionamento o la dimostrazione fa che Dio esista, ma semplicemente constata che esiste: 2+2 è uguale a 4 non che deve esserlo; Dio esiste, non che deve esistere. Più brevemente si può dire che dimostrare l’esistenza di Dio è acquistare piena consapevolezza della nostra vita spirituale, dalla quale infatti muove l’argomentazione, la cui forza è nella proposizione è presente alla mente umana qualcosa che è superiore ad essa, e alla ragione »; da qui la ragione argomenta. Dunque il processo razionale va dall’esistenza degli spiriti finiti e contingenti all’esistenza dello Spirito infinito e necessario; oppure dal soggetto pensante nell’oggettiva verità che gli è interiore e lo costituisce pensante, alla Mente infinita che è la Verità. Pertanto non si tratta L'esistenza di Dio 133 di procedimento dall’idea all’esistenza di Dio, ma dall’ente nsante finito e contingente all’Esistente assoluto e necessario che lo fa essere ente pensante. D'altra parte, l’uomo pensa per la verità, oggetto naturale del pensiero, che è tale solo per essa: la verità presente al pensiero è presenza del pensiero, lo costituisce. Per conseguenza, la  presenza del pensiero è  compresenza della verità; dove c’è pensiero c’è verità e viceversa; dove c’è pensiero c'è dualità, il pensiero, che è tale perchè si illumina alla verità, e la verità, che gli è presente e fa che esso sia. La prima alba del pensiero è la prima luce della verità, l’inizio dell’esplicitazione dell’implicito originario, di quell’unità primale, per cui anche la notte più densa della coscienza è sempre quella nella quale veglia la presenza di Dio. La notte si ta giorno, ma solo perchè s’illumina alla verità che dal di dentro illumina: l’oscura primitiva presenza si fa sempre più chiara e si rivela come presenza di Dio. C'è l’ente pensante, dunque c'è Dio: basta che vi sia un pensiero perchè sia implicata, come scrive Campanella, l’esistenza dell’ Assoluto. In questo senso possiamo dire che c’è necessario pensiero di Dio (per il fatto che esistono enti pensanti, Dio esiste) e possibile consapevolezza di Lui, effettiva, ogni qual volta il pensiero acquista coscienza di sè, cioè conquista la verità di se stesso, il senso della sua dipendenza dall’Essere creatore. Consapevolezza di Dio, affinchè l’argomentazione abbia rigore stringente e avvincente, è recupero integrale del sensus sui, del momento della robusta coscienza genuina, ignuda, pura di sofismi, vergine di menzogna: intelligenza della verità, che è senso dell’essere, il costituirsi dell’uomo nella sua genuina umana sostanza!  Chi pensa, pensa Dio»: al contrario  chi non pensa Dio, non pensaperchè è assente all’oggetto naturale del pensiero, la verità. Non avremmo coscienza del nostro essere, se l’essere non fosse presente alla nostra coscienza; del nostro pensare, se la verità non fosse presente al pensiero; del no134 Filosofia e-Metafisica stro volere, se il bene non fosse presente alla volontà: noi siamo, pensiamo, vogliamo nell’essere o nella verità. Solo chi si pone da questo punto di vita  cioè si colloca sul piano dell’essere  ha oltrepassato la posizione empirica e positivistica, scientifica o storicistica, che sia, ed è già ben saldo in quella metafisica e della vita spirituale. Insistiamo: altro è l’inzelligentia, altro la ratio di Dio, cose distinte anche se non discordanti. Sapere Dio è conquistare l'intelligenza di Lui, che è prima della razio e anche senza di essa: la ratio trascrive in termini concettuali, traduce in discorso, che è appunto dimostrare sul fondamento dell’intelligentia. Il pensiero moderno ha voluto fare dell’esistenza di Dio un problema di pura ragione; ed ha perduto Dio: ne ha fatto un problema di  scienza », di conoscenza  scientifica », non uno di vita spirituale, d’ intelligenza », di verità. Dio per la pura ragione  quella del calcolo, dei nessi e rapporti  è un ente di ragione: il Dio del deismo è Ente razionale, in definitiva, la stessa Natura (Deus sive natura, dice Spinoza); quello del meccanicismo di Newton è Legge o Causa del mondo, l’Architetto dell’universo degli illuministi; fino a quando, con lo Hegel, si risolve nel divenire stesso della vita della Ragione, che è tutto il Reale come spirito e come natura, per cui vita spirituale e realtà naturale si adeguano perfettamente in un cosmismo assoluto. Così Dio è perduto nè poteva non perdersi: la ragione, fatta essa tutta la verità, è priva dell’intelligenza di essa, veicolo a Dio. La ragione è giudizio delle cose, suo oggetto è il mondo dell’esperienza; attinge dall ‘intelligenza i princìpi, ma li applica alle cose di cui giudica: la ragione è  scientifica », esteriorizzante. Affinchè non sia solo questo è necessario Ché resti sempre unita all’intelligenza, imbevuta della luce della verità, in modo che con un occhio guardi nel mondo, e l’altro lo ficchi a fondo nella sorgente che la illumina e tutto illumina. Il problema di una filosofia che voglia essere revisione critica del pensiero moderno, è quello del recupero delL'esistenza di Dio 135 l’intelligenza, dell’intuito della verità che fa vera la ragione e ne è al di là»; in altri termini, è il problema di oltrepassare la pura scienza, del riscatto dell’interiorità, della profondità metafisica della mente. Bisogno di Dio è bisogno di un al di là del mondo, cioè di un al di là della ragione; è risveglio dell’intelligenza che penetra oltre nessi e rapporti, luce di verità, sete di acqua sorgiva limpida e fresca: l’intelligenza è sempre più giovane della ragione. Perciò la piena intelligenza di Dio è del mistico, dell’asceta, del santo, che, folgorato dalla luce della verità, sente tutta la sua persona  carne e ossa e sangue € spirito  come fusa in una unità incandescente e dinamica, che è slancio di azione, fecondità di pensiero, accensione perenne dell’intelletto al fuoco della verità. Ragione sì, anche; ma riempita d’intelligenza. 8.  In interiore homine habitat veritas. Presenza, non immanenza della verità alla mente; se immane alla mente, nel senso proprio della filosofia moderna, la verità diventa un suo prodotto e non pone il problema dell’esistenza della Mente assoluta, in cui il pensiero e il suo oggetto (la Verità) s’identificano, a differenza che nella mente finita: la mente umana si fa Dio essa stessa e perciò mente atea. Ma la riduzione della presenza ad immanenza della verità implica contraddizione, quella dell’idealismo trascendentale, specie della forma più matura e coerente di esso, che è l’attualismo del Gentile. Se presenza è immanenza, verità e pensiero s’identificano: l’oggetto del pensiero è lo stesso soggetto pensante nell’4to che pensa; il pensiero pensa se stesso. L’attualismo dice invece che pensare è mediare, ma la dialettica di pensiero pensante e di pensiero pensato 0 è un artificio, o è una contraddizione; infatti, o il pensiero pensante adegua il pensiero pensato e c'è immanenza, non mediazione, o non l’adegua e c’è trascendenza, non più immanenza. 136 Filosofia e Metafisica Presenza della verità alla mente dunque, e, nello stesso tempo, trascendenza, in quanto presenza è sempre dualità di pensiero e del suo oggetto intuito. Ora, se intuire la verità che è in noi è partecipare di qualcosa che ha caratteri divini, consegue che ogni qualvolta la mente cerca la verità, in fondo cerca Dio e quando scopre un vero, scopre in esso e dentro di sè un’immagine divina. D'altra parte, se la verità è interiore alla mente, in questo senso si può dire che Dio è in noi, che è in noi quella che è stata detta, forse imprecisamente, l’idea di Dio: alla nostra mente è presente un’immagine di Lui, cioè la verità illuminante ed operante. Che non è Dio; e perciò la sua presenza accende il desiderio di Lui, Verità in sè che non conosciamo, stimola al possesso del Bene sommo, cioè all’unione con Dio. Infatti, il bene della mente è la conoscenza della verità: Dio è la verità assoluta; dunque alla mente adherere Deo bonum est (°). La presenza della verità in noi non è dato inerte, ma forza operante, stimolante, potenziatrice di tutta la vita dello spirito; orientatrice e unificatrice: l’oscura nozione della verità è il presentimento di Dio; la stessa esigenza di verità è esigenza di Lui, come la prima verità scoperta è implicitamente la prima scoperta della Sua esistenza. La verità in noi è l’intermediario, le milieu, tra la mente finita creata e la Mente infinita creante: l’uomo è unito alla verità che è in lui ed è perciò naturalmente, ma indirettamente, unito a Dio. Questa la sua condizione naturale. Da ciò consegue ancora: dato che oggetto e fine della mente è la conoscenza della verità, tutto il processo conoscitivo, dall’infimo grado al più elevato, anche quando l’uomo tende ad altro, è orientato a Dio, converge nella  scoperta della verità, che coincide con la  scoperta dell’esistenza di Dio, punto assoluto di conver Acosrino, De diversis quaestionibus 83, q. 54. E' evidente che il nostro processo 720 è dall’immanenza alla trascendenza. Dio non è nè una produzione ideale nè un essere tra gli altri; la sua trascendenza è assoluta e non relativa; Egli è  Colui che è e gli altri esseri sono per suo libero atto creativo. L'esistenza di Dio 137 genza di tutta l’attività conoscitiva dell’ente pensante. O unica filosofia è quella scettica  e perciò un’insormontabile e assurda contraddizione  o essa è capace di una sola verità e allora /a filosofia è sempre teistica, perchè teistica è l'intelligenza umana, la cui vita autentica è amore, attraverso la presenza della verità, della Verità in sè. Vi è in ogni ente pensante un teismo embrionale, in quanto gli è presente la verità, sia pure involuta o nascosta; vi è come un  pensiero compendiato », che si fa sempre più esplicito a mano a mano che lo spirito acquista coscienza della verità ad esso interiore, quantunque, nello stato attuale, non avrà mai la conoscenza piena della Verità assoluta, oggetto della sua suprema aspirazione ma sempre rivestito di sacro mistero »; la Sapienza divina è mistero per la filosofia, non è filosofia. L’infinito di verità che alla mente manca, anche all’estremo confine della conoscenza, può esserle dato solo dalla Rivelazione e dalla fede (6). L’uomo non è soltanto un essere razionale, ma intelligente e razionale; come intelligenza è naturaliter teista. (6) F. BonatELLI, Pensiero e conoscenza, Bologna. Vi sono verità che in nessun modo possiamo pensare che non siano vere: questa proposizione è il fondamento della prova, meglio di quell’aspetto di essa che sopra abbiamo sviluppato. Il fatto che la ragione, malgrado la loro presenza, possa errare ed erri, non solo non prova nulla contro di esse, ma anzi le conferma; infatti, se quelle verità non fossero, non si potrebbe dire che la ragione sia capace di errore. Chi dice: la ragione umana erra, s’inganna », sottintende:  perchè ha deviato dalla verità, se ne è allontanata »; dunque ammette la verità e, solo in quanto essa c’è, può rilevare che la ragione erra. L'affermazione: la ragione umana erra e s'inganna, perchè tutto è errore ed inganno », non ha alcun senso: è soltanto uno sfogo passionale, un’insensatezza che, come tale, non interessa la ricerca filosofica. Essa significa: l’uomo non può pensare altro che l’errore e l’inganno, cioè il nulla di verità »; ma pensare il nulla di verità è non pensare, e se l’uomo non pensa non C'è più questione di errore, nè di verità.  Pensare il nulla », l’assurdo », il puro errore», conoscere l’errore », ecc. sono espressioni senza senso, suoni verbali che non significano niente. D'altra parte, il fatto che la ragione possa errare e l’ente pensante in ogni sua parte è contingente e finito, conferma L'esistenza di Dio 139 che la verità, della cui conoscenza è capace, non è sua fattura: è stata data a lui, fatto capace di conoscerla. L'ente pensante è un dato; la verità che egli, contingente e finito, non può creare, è anch’essa un dato; ma se la verità in interiore homine è prodotta, consegue: 4) che non è la verità in sè, il Primo Vero assoluto; 5) che è dal Primo Vero Assoluto o Dio; c) che di essa è il Principio: dalla verità creata in me alla Verità creante in sè; dal dato al Principio efficiente creatore: dalla mente finita alla Mente infinita; dall’uomo a Dio. Questa si può considerare un’altra formulazione della stessa prova. Qui il termine principio ha il duplice senso di Principio esemplare e di Principio efficiente. La mia mente intuisce delle verità, che sono un’immagine vera e reale del Modello verissimo e realissimo o della Verità prima assoluta, ma non si tratta di un rispecchiarsi meccanico (l’immagine dell’albero che si riflette nello specchio d’acqua), bensì di un atto creativo efficiente che lascia nella creatura un’orma di sè, viva, operante ed illuminante, produttrice dell’attività razionale, cioè di verità seconde (i giudizi) che nascono dalle verità prime, date all'uomo e da lui non create. L'immagine in me della Verità in sè non è rappresentativa bensì presentativa di Dio, non com'è nella Sua essenza, ma come può essere presente all’ente creato nello stato naturale. È invece rappresentativa la conoscenza razionale in quanto lo è delle cose, rappresenta la loro essenza e i rapporti in termini concettuali: è conoscenza spettacolare, di ciò che sta fuori di me. Il sapere intuitivo, invece, è presentativo: l'intelligenza non si rappresenta la verità, è presente alla verità e la verità ad essa: dunque inzeriorità. Il rapporto non è di rappresentazione di qualcosa che sta fuori di me, ma di partecipazione a e di qualcosa che è dentro di me. La prova si fa sempre più chiara, ma nello stesso tempo più complessa; conta che ci fermiamo ancora a considerarla. 140 Filosofia e Metafisica 2.  Il principio di causa e le due forme di astrazione. Nella formulazione data testè della prova abbiamo fatto uso del principio di causa, ormai legittimamente in quanto si è dimostrato che l’ente pensante finito è capace di conoscere verità oggettive, una delle quali è appunto il suddetto principio, che, come ogni altro fondamentale del giudizio, è vero per se stesso e fonte di verità razionali (!). Come tale è già una presenza, per se stesso una attestazione, una testimonianza dell’esistenza di Dio; come principio di giudizio garantisce, solo perchè in sè vero, la veridicità di ogni dimostrazione razionale che su di esso si fonda e dunque anche di quella dell’esistenza di Dio. Ma nel contesto del nostro discorso il principio di causa ha un significato particolare.  Interiorità »,  presenza della verità alla mente, implicita ed oscura quanto si voglia, significa sentirsi dentro la verità che è in noi, viverla come vita e luce della nostra mente, esserne presi ed esser liberi nella sua presa. Partecipare consapevolmente di questa presenza è acquistare coscienza dell’esistenza di Dio, in quanto la consapevolezza della verità è già coscienza che vi è nella mente qualcosa di superiore ad essa: la verità è di per se stessa testimoniante. Pertanto il rapporto di causalità tra la Verità in noi e la Verità in sè, stabilito dalla ragione, è dimostrativo dell’esistenza di Dio, ma sulla base della capacità  presentativa di Dio stesso che ha la verità in noi. In altri termini, il rapporto di causalità di ordine razionale si esplica e riceve verità e forza dall’intelligenza, di cui fa parte, come verità originaria, lo stesso principio di causalità; l’argomen(I) Resta da esaminare e provare se i princìpi fondamentali non siano implicati in un'unica intuizione primitiva. Tale approfondimento sarà fatto in altra sede, ma fin d'ora possiamo dire che i princìpi del giudizio sono impliciti nell’intuito fondamentale dell’Idea dell’essere, che intendiamo in un modo che non è più quello del Rosmini, anche se da lui ispirato. Successivamente alla prima edizione della presente opera abbiamo svolto questi punti nei seguenti volumi: L’interiorità oggettiva, L’uomo, questo squilibrato, Atto ed Essere, Morte e immortalità, rispettivamente I, IV, V, IX delle Opere complete. L'esistenza di Dio 141 tazione in base al suddetto principio dà forma razionale e dimostrativa al momento interioristico della presenza della verità alla mente,  presentativa dell’esistenza di Dio. Perciò nella prova vi sono due momenti solidali e convergenti: a) prova come esperienza della presenza della verità, che è acquistare consapevolezza esplicita dell’ ospite celato e presente », come dice il Blondel; 5) e prora come argomentazione dalla nostra realtà spirituale all’esistenza di Dio. Il principio di causa è 4 priori, non nel senso che ha per Kant, ma nell’altro che, come tutte le verità o princìpi primi, è interiore a noi, intuito dalla nostra mente; dunque è già una conoscenza, sia pure inizialmente compendiata o implicita, una verità oggettiva e non una pura condizione soggettiva, anche se l’ priori di Kant è preteso come oggettivamente valido. Se è così, il principio di causa, come ogni altro fondamentale, non è il prodotto dell’astrazione ideologica o ascendente, cioè astratto dalle percezioni sensoriali, in quanto ogni astrazione che l’uomo fa da queste presuppone proprio i princìpi fondamentali come strumento di astrazione, dai contingenti finiti, di quanto hanno di universale ed oggettivo. Tale astrazione ascendente, dai particolari a quel che le cose hanno di universale, non forma le verità prime e non potrebbe mai formarle  tanto è vero che ogni posizione empiristica prima o poi conclude al nominalismo, all’agnosticismo, al fenomenismo  ma le trova formate e ne fa uso nel procedimento astrattivo. D'altra parte, esse sono prodotte e non dall'uomo, veri derivati e non il Vero assoluto, da cui sono, immagine del Modello eterno. Dunque astratti sì, ma non dalle cose, bensì da Dio stesso: sono il prodotto, come ha dimostrato il Rosmini, non dell’astrazione ideologica ascendente, ma dell’astrazione divina discendente (*). La verità non sale a noi dalle cose, ma di(2) A. Rosmini, Teosofia, 1185; 1405 e passim. Il Rosmini dice precisamente  astrazione teosofica », espressione che noi non adoperiamo. Si potrebbe anche dire: astrazione logica ascendente e astrazione ontologica discendente. 142 Filosofia e Metafisica scende in noi da Dio (*), altrimenti: 4) non vi sarebbe in interiore homine una presenza della Verità, ma la stessa Verità, non il divino, ma Dio stesso: il rapporto tra la verità e la sua immagine non sarebbe analogico ma univoco; 5) l’uomo sarebbe egli il Soggetto infinito della verità infinita, cioè Dio. Con l’astrazione discendente si spiega l’origine non umana delle verità primali che sono presenti alla nostra mente; con l’astrazione ascendente e sulla base di queste verità si conoscono le cose e si giudica della loro realtà o verità. Perciò noi non respingiamo quest’ultima, ma diciamo che essa, da un lato, presuppone l’astrazione discendente e, dall’altro, ha il suo campo di applicazione limitatamente al mondo esterno, cioè a quanto è oggetto di esperienza sensoriale. Ma quel che importa è recuperare e far nostro il concetto di astrazione perchè è garanzia del rapporto analogico tra Dio e la mente finita e dunque baluardo contro l’ontologismo e il panteismo. 3.  La verità presente alla mente è appartenenza di Dio senza essere Dio. Ogni cosa esistente è per quanto, e sempre parzialmente, contiene di quelle verità che intuiamo nella loro pienezza ideale, dunque sempre mancanti della sussistenza reale. Perciò noi misuriamo,  giudichiamo la verità o il grado di realtà di ogni ente finito, senza che nessuno e tutti insieme adeguino la verità che è in noi; dunque, la verità dalla mente intuita non trova in nessuna cosa esistente la sua adeguata sussistenza e resta sempre un oggetto ideale astratto. Ma se c’è nella mente creata una presenza della verità assoluta e necessaria senza che alcuna cosa esistente, l’uomo compreso, perchè contingente e finita, possa essere la sua sussi(3) Evidentemente si parla di  astrazione da parte di Dio in senso analogico: qui il termine non vuol significare l’operazione propria dell’uomo  assurda se attribuita a Dio  di astrarre l’universale dal particolare, ma l'atto creativo con cui Dio dà all'uomo la verità primale, che, perchè creata, non è più la verità come è in Lui, anzi la Verità che Egli è. L'esistenza di Dio 143 stenza, consegue che esiste un Essere assoluto che, come tale, è il Soggetto della Verità assoluta. In questo senso le verità primali che la mente intuisce sono un’appartenenza di Dio, il  divino nell'uomo (*)», ma non Dio, quantunque opera dell’Intelligenza divina. Non Dio, assolutamente: la Verità in sè contiene infinitamente più perfezioni di quante possiamo attribuire alla verità che è in noi e le stesse perfezioni da noi conosciute le contiene senza limitazioni, distinzioni e in grado eminente. Noi non possiamo conoscere di Dio, se non per mezzo della Rivelazione, più diquanto ci fa conoscere la verità intuita: gli attributi di questa, per analogia, li predichiamo anche dell’Essere assoluto (°). Noi sappiamo di Dio quanto Egli stesso ci ha concesso di sapere e per quanto ha voluto che fosse presente alla nostra mente. În questo senso, ripetiamo, si può dire che l’Idea di Dio è in noi €, se in noi non fosse, non ci potrebbe mai venire dal di fuori; è in noi perchè in noi è la verità, immagine della Verità in sè, intermediario che ci unisce a Lui. L’idea di Dio è in noi come derivata da Dio stesso, che è dire: le verità prime sono in noi come derivate dalla Verità assoluta, che è Dio. Tale cognizione, oscura implicata involuta quanto si voglia, è interiore alla mente, perchè interiore le è la verità che la illumina, la fa pensare, conoscere e giudicare di ogni cosa. Pertanto la proposizione, (4) Se qualcuno obiettasse che in tal modo si unisce il soprannaturale alla natura umana, dimostrerebbe, come è avvenuto a proposito del Rosmini, di non capire o di non voler capire. (5) Dio, la Perfezione assoluta, possiamo definirLo solo negativamente. Omnis determinatio negatio est; dunque Dio, assoluta Perfezione, è al di là dell’atto definitorio della iogica della determinazione astratta o del definire escludendo. In questo senso, come scrive Spinoza, si deve negare di Lui tutto ciò che si predica del finito (Età. I, Prop. XVI Scol.). Ma bisogna chiarire subito che Egli è l’indeterminato per eccesso e non per difetto: essere infinito e perfettissimo, è l’Essere, non, però, un'astrazione o una pura idea. Dunque Dio è fuori della serie degli esseri, non è analogo nell’analogia dell’essere: è  l’analoguant createur (N. I. I. BartHasar, Mon moi dans l'étre, Louvain, 1946, p. IX). E’ l'Ipse suus actus essendi irreceptus, cioè non ricevuto in una essenza specifica; la sua essenza è l'atto di essere e dunque ia sua perfezione non ha limiti: indeterminato perchè senza limitazioni, perchè è tutta la perfezione. 144 Filosofia e Metafisica nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, è valida per tutte quelle conoscenze che non possiamo avere senza il concorso di similitudini sensibili, non per quelle verità primali che intuiamo direttamente e che, se non fossero in noi, non potremmo mai ricevere da alcuna specie sensibile. Per conoscere un oggetto particolare è necessaria l’esperienza sensoriale; per giudicare di questa o quella cosa è necessario ancora che preceda l’esperienza della cosa giudicanda; ma per conoscere i princìpi primi, che fondano la validità di ogni giudizio e rendono possibile la conoscenza riflessa delle cose particolari, non è necessaria esperienza alcuna, in quanto sono interiori alla mente, da essa intuiti, di essa lume; meglio è necessaria l’esperienza interiore. Ora è proprio questo lume di ogni conoscenza, fondamento di ogni altra verità, questo naturale iudicatorium, che si dice presenza di Dio nell’uomo, legame che a Lui unisce sine ad4miniculo sensuum exteriorum (°). 4.  Critica costruttiva del principio di causa. Da questa conclusione possiamo trarre lumi per ulterioriconsiderazioni sul principio di causa. E’ stato obiettato dallo Schopenhauer che coloro i quali si servono del principio di causa  da un effetto alla sua causa fino alla causa ultima non causata  fanno come quel tale che va in giro tutto il giorno con una vettura da nolo e poi, alla sera, giunto a casa, la licenzia sulla soglia. Secondo l’arguta osservazione, chi conclude ad una causa non causata si serve del principio di causa fino ad un certo punto, poi lo abbandona, come chi licenzia la vettura sulla porta. In altri termini, il principio di causa è valido fino a quando si risale da effetto a causa, ma non quando si arriva (o si postula) ad una causa che non rimanda ad altro; cioè è valido per il mondo dell’esperienza e non per ciò (Dio) (6) S. Bonaventura, Commento alle Sentenze, vol. II, d. 39, a. I, q. IL L'esistenza di Dio 145 che trascende l’esperienza. Sotto l’obiezione dello Schopenhauer c’è la critica di Kant all’argomento cosmologico. Tale osservazione ha per noi scarsa importanza, dopo il chiarimento dato sopra dei due momenti solidali e convergenti della prova e dell’uso che facciamo del principio di causa. Qui non si licenzia la vettura, del resto non presa a nolo, sulla soglia di casa, ma si entra in casa con essa, anzi si è già in casa, in quanto l’effetto è presenza del Principio da cui è. L’esemplarismo ci consente di scoprire nella realtà spirituale l’immagine (effetto) del Principio primo; perciò conoscere me è conoscere Dio come posso conoscerlo nel mio stato attuale: zoverim me, noverim te, dice Agostino. Ma anche questo punto va ulteriormente precisato. Quando diciamo che la dimostrazione dell’esistenza di Dio muove dalla vita dello spirito (di cui fino ad ora abbiamo considerato solo l’aspetto intellettivo) intendiamo dire da quell’essere contingente che è l’ente pensante finito avente un contenuto, oggetto d’intuizione, di verità immutabili e necessarie. L’intuito o l’intelligenza di queste verità, che non sono perchè io le penso, ma, al contrario, io penso perchè esse sono e mi illuminano; la coscienza di questo contenuto del mio pensiero, per il quale ho certezza della mia stessa esistenza, non da esso posto o creato e perciò suo oggetto, questo è il punto da cui muove la dimostrazione dell’esistenza di Dio  dalla verità ». Non dunque solo dal mio pensiero contingente e mutevole, ma da esso avente un contenuto di verità immutabili ed assolute, che, come finito, non si può dare da sè; dall’ente  pensante », ma che è tale in quanto intuisce un  pensato oggettivamente valido, che egli non crea e non giudica, ma da cui è come creato quale pensiero; dunque la prova muove  dalla vita dello spirito nella sua pienezza, che governa secondo verità immutabili ed universali la sua attività intellettiva e morale. L’obiezione dello Schopenhauer ha un fondo di verità se mossa ad un determinato uso del principio di causa e preci146 Filosofia e Metafisica samente a quello che chiamiamo cosmologico o anche  scientifico »; infatti, la causalità in questo senso è uno dei princìpi di cui la ragione si serve per intendere (giudicare) e unificare il mondo dell’esperienza. Come verità oggettiva, invece, al pari delle altre primali, essa è una presenza in noi della verità e, come tale, valida come punto di partenza per dimostrare l’esistenza di Dio. Allora non il processo causale, applicazione che la ragione fa di esso ai fenomeni di esperienza, per se stesso porta a Dio  in tal caso è valida l’obiezione dello Schopenhauer , ma il principio di causa in se stesso, come puro principio, presenza di verità in noi. Bisogna distinguere tra il principio di causa in se stesso e la sua applicazione. In altri termini, il processo causale è un nesso di causa-effetto tra fenomeni ed è limitato all’esperienza; il principio di causa in se stesso, invece, è un dato intuito, la cui presenza è presenza di verità in noi: come tale  e come ogni altra verità primale  è punto di partenza per dimostrare l’esistenza di Dio. Kant, che ne fa una pura condizione del conoscere, deve necessariamente limitarne la validità all’esperienza e negare per conseguenza che esso sia applicabile al di là di essa e dunque valido per dimostrare l’esistenza di Dio. Ma in questo modo Kant, come lo Schopenhauer,  criticano soltanto l’uso che la ragione fa del principio di causalità negando che possa essere esteso al di là dei dati dell’esperienza sensoriale. Certo, se il principio di causa è inteso nel suo primo significato fisico o naturalistico, Kant ha ragione: causa in questo senso è un fenomeno che precede e condiziona un altro fenomeno che è a sua volta preceduto e condizionato da un altro ancora; è di questa causalità che lo Hume aveva negato la oggettività. Ma Dio è l’Essere assoluto e necessario da nulla preceduto e condizionato, cioè è fuori della serie dei fenomeni e di ogni serie, fuori dello spazio e del tempo; perciò in questo senso non è causa dell’Universo, ma Principio assoluto, diverso dalle cause del mondo fenomenico, cause a L'esistenza di Dio 147 loro volta causate. Resta l’altro problema del principio di causa in se stesso, cioè della  verità oggettiva di esso, che la criticaignorò per difetto di critica. Ora proprio la  verità del principio in sè  non la sola sua applicazione o il processo di unificazione dei fenomeni  pone il problema dell’esistenza di Dio ed è punto di partenza della sua soluzione. A Kant resta il merito di aver dimostrato, contro, la metafisica scientista e geometrizzante del razionalismo moderno, che il principio di causa, considerato nel suo uso scientifico o cosmologico, non può servire a dimostrare l’esistenza di Dio, in quanto o Dio resta inserito nella serie dei fenomeni e non è più Dio, o ne è fuori e non si dimostra con il solo uso del principio che viene infatti, come dice lo Schopenhauer, licenziato sulla soglia di casa. Si è che il problema di Dio non è affatto quello dell’unità dell’esperienza, che è problema puramente gnoseologico : Dio è al di là della unità dell'esperienza. Se noi Lo identifichiamo con il tutto dell’esperienza cadiamo in una forma di panteismo o di deismo e, in qualunque caso, di ateismo. E° l’errore della metafisica razionalistica (nel pensiero greco di Aristotele e degli stoici) da Cartesio a Wolff: Dio principio unificante la esperienza, architetto del  mondo ». Di qui la identificazione di Dio con la Causa o la Legge, con la Ragione universale; ma questo è il problema della causa cosmologica non quello del Principio teologico. Dal nostro punto di vista, la questione s'imposta diversamente: non dal processo causale (di causa in causa) a Dio Causa prima, ma dal principio in sè di causa, verità direttamente intuita, a Dio. La consapevolezza della presenza della verità è chiarimento dello spirito a se stesso, è toccare la sua interiorità profonda, che, conquistata, è è testimonianza di Dio, del Principio di verità e di ogni verità; poi la ragione argomenta e rende esplicito il rapporto di causalità, e la presenzialità si fa dimostrazione. Ma qui la causalità ha senso diverso da quello che ha come legge dei fenomeni. Per con148 Filosofia e-Metafisica seguenza crediamo che l’espressione  Dio-Causa prima sia impropria e generi equivoci; meglio dire  Dio-Principio ». Dio non è causa, ma Principio anche del principio di causa,  verità dalla mente intuita, come è Principio dell’ordine di causalità che regola i fenomeni di esperienza (7). Il mondo, più che effetto, è creatura di Dio; il concetto di effetto non traduce affatto la pregnanza di significato di quello di creatura, come il concetto di causa, così legato all’altro di serie, non adegua quello di Dio come Principio di tutto ciò che è nell’ordine dell’essere limitato o creato. Dire che Dio è Causa di se stesso importa la difficoltà di concepire una Causa in sè, indipendentemente dall’effetto e da ogni effetto, tranne che non si stabilisca un rapporto necessario tra DioCausa e il mondo-effetto; ma questo è panteismo. Ciò ci consente di porre l’esistenza di Dio come problema di ordine metafisico, al di là del piano delle scienze sperimentali e matematiche. Dio non è causa esplicativa del mondo, sia pure causa ultima o prima spiegante il movimento o altro, quasi integrazione o prolungamento della conoscenza scientifica; è solo il Principio (e la ragione anche) di ciò che esiste: ciò che esiste si svolge nel suo ordine come se Dio non esistesse, ma non potrebbe esistere se Dio non fosse; infatti, esiste in quanto è il Principio creatore di tutto ciò che esiste. In breve, il concetto di causa appartiene all’ordine dei fenomeni: Dio invece è l’Essere, la ragion d’essere creatrice di tutto ciò che è. Il progresso della scienza, da questo punto di vista, non interessa il problema dell’esistenza di Dio, nè questa rende superflua o sostituisce la spiegazione scientifica; il metodo e (7) Perciò abbiamo evitato studiatamente di parlare di Dio Causa prima non causata, anche a costo di scostarci dall'uso tradizionale dei termini. Per evitare equivoci non diciamo neppure che Dio è causa sui, in quanto ciò potrebbe importare in Lui un assurdo  prima e  poi. Dio è Principio assoluto e solo per analogia può chiamarsi anche Causa non causata. Cfr. la comunicazione di G. ‘Capone Braca nel vol. Ricostruzione metafisica, Atti del IV Convegno di Studî Cristiani di Gallarate, Padova, Liviana, 1949, pp. 188-193. L'esistenza di Dio 149 l’oggetto della metafisica non sono quelli della scienza e viceversa. La preoccupazione di tanti volonterosi di  armonizzare metafisica e scienza  e, peggio, fede e scienza  è una forma di irenismo senza senso e pericolosa. Dal nostro punto di vista il principio di causa, più che risolutore del problema dell’esistenza di Dio, è esso stesso un dato che pone il problema dell’origine di se stesso come verità primale presente alla mente; ma, appunto perchè tale, esso è un dato che attesta l’esistenza della Verità in sè; d’altra parte, serve alla ragione per argomentare dalla verità presente alla mente all’esistenza della Verità in sè. In altri termini, la ragione dimostra l’esistenza di Dio in quanto lo spirito è capace di Dio: la mente che intuisce la verità attesta e desidera Dio. L'amore di sì come mente nella verità e l’amore di Dio come Verità assoluta non sono esteriori, ma l’uno all’altro interiori. 5.  Il non senso dell’ateismo. Se così, è possibile affermare razionalmente che Dio non esiste ? Affermare razionalmente significa giustificare secondo ragione: si può giustificare l’affermazione  Dio non esiste ? Se la domanda ha un senso non può significare che questo: l’affermazione  Dio non esiste è un giudizio oggettivamente valido. Come sappiamo, non ci sono giudizi oggettivamente validi senza princìpi assoluti su cui si fonda la loro validità oggettiva; ma la presenza di questi princìpi è proprio il fondamento della dimostrazione dell’esistenza di Dio; dunque, dire che il giudizio  Dio non esiste è oggettivamente valido è una contraddizione nei termini, in quanto se la ragione è capace di un solo giudizio di tal fatta, ciò basta perchè argomenti l’esistenza di Dio e non possa più negarla. Esattamente S. Bonaventura osserva (*) che, anche la (8) Commento alle Sentenze, d. VII, p. I, a. I, q. II. 150 Filosofia e Metafisica negazione di ogni verità faugualmente impensabile la negazione dell’esistenza di Dio. Infatti, chi dice  non esiste verità pone come assolutamente vera questa affermazione e dunque ammette qualcosa di oggettivamente vero; ma non vi può essere un solo giudizio vero e una sola verità senza che si ammetta esistente la Verità in sè, in quanto ogni vero è tale per la verità. Chi dice  Dio non esiste e considera quest’affermazione come assolutamente vera, con ciò stesso afferma l’esistenza di Dio: anche chi nega che Dio esiste afferma Dio. Ma egli è convinto di essere ateo; benissimo: non vede la contraddizione, non si accorge che la sua negazione è l’affermazione senza senso di pensare l’impensabile: s’illude di pensarlo; l’ateo appunto è l’instpiens, colui che non sa quel che dice, l’insensato. Dio è presente alla nostra mente, interiore alla nostra vita spirituale: negare la sua esistenza è atto irrazionale, in quanto la ragione attua la sua capacità conoscitiva e giudicatrice perchè la verità è presente alla mente, cioè proprio per la presenza di Dio in noi; dunque, non può  razionalmente dubitare di ciò che la rende capace di giudizi veri e la libera dal dubbio. Assurda la sua pretesa di giudicare la verità, fondamento di ogni suo giudizio vero e dunque quella che la giudica e non viceversa: alla ragione non spetta giudicare se i veri intuiti dalla mente siano tali, ma solo usarne per pronunciare giudizi veri. Come già abbiamo detto, dimostrare Dio non significa farlo esistere, ma semplicemente passare dal sapere originario alla conoscenza discorsiva propria della riflessione. La ragione che nega Dio si mette contro la verità intuita, cioè contro il fondamento di ogni giudizio vero, contro se stessa, si contraddice; non nega Dio, nega se stessa nell’errore: insipientia. In breve, non è ragionevole negare l’esistenza di Dio; anche se la ragione costruisce un discorso negativo in tal senL'esistenza di Dio 151 so, la forza di tale ragionamento è nulla, puramente apparente: la coerenza formale è vuota della verità che sostanzia ogni vero procedimento logico. La sua apparente logicità è sostanzialmente irragionevole; discorso che, mancando di razionalità intrinseca, è intrinseca irragionevolezza, solo estrinsecamente o verbalmente razionale: l’ateismo non volgare è insensatezza sottile. Spesso si nega l’esistenza di Dio perchè non si riesce a penetrarne l’essenza, quasi per uno stolto ed irragionevole  dispetto della ragione diabolicamente superba: Tu sei l’Impenetrabile, l’Oscuro, ed io ti nego; dico che, siccome non ti posso ridurre alla mia misura, Tu non esisti». Lo stesso atteggiamento può determinare il fideismo assoluto:  Tu sei l’Oscuro e l’Assurdo e perciò credo che tu esisti ». È la conclusione di un razionalismo irrazionale che spinge la ragione, uccidendola, a compiere lo sforzo innaturale di rendere lucido l’oscuro, di misurare lo smisurato. Così l’innaturale maggiorazione della ragione si risolve nel suo accorciamento sterilizzante, nella sua distruzione. Allora, non ci dovrebbero essere atei? Ci sono, ma non sanno quello che dicono. L’ateo è colui che pensando che Dio non esiste, in realtà non pensa: fa uso dei princìpi di verità senza consapevolezza alcuna della loro profondità metafisica. La sua è affermazione puramente verbale: egli pronuncia parole che non hanno senso e di cui non si rende conto; le dice, ma ad esse non può dare il suo assenso, in quanto non può assentire alla contraddizione e all’assurdo: il «sì», non dettato dalla volontà libera ma dall’arbitrio, è anch'esso verbale. « Sarei molto curioso di vedere qualcuno che fosse persuaso che Dio non c’è: almeno mi direbbe la ragione invincibile che l’ha saputo convincere (La Bruyère). L’ateo si trova in una strana situazione: afferma che Dio non esiste e non può dare un ragionevole assenso a questa affermazione. Si può dire che la superstite  « ragionevo152 Filosofia e Metafisica lezza del negare l’assenso lo salva in parte dall’assurda «razionalità irragionevole del suo ateismo (7). L’ateo, l’insensato che fa la ragione giudice della verità invece di usarla per giudicare secondo verità, capovolge lo ordine del pensiero, sottomette la verità alla ragione; una volta che lo schiavo crede di essere diventato padrone non sa più dove vada: perduto il criterio del giudizio, si perde nell’errore e nell’insensatezza. Conclusione: se Dio non esistesse l’uomo non potrebbe neppur pensare che non esiste, in quanto non penserebbe nulla. In questo senso pensare è pensare che Dio esiste;  io penso, dunque Dio esiste », scrive ancora La Bruyère, in quanto la mente pensa perchè Dio esiste (!9). Da quanto abbiamo detto risulta che la dimostrazione dell’esistenza di Dio o la sua negazione è questione, dal punto di vista logico, di uniformità o disformità della ragione alla o dalla verità; la verità regola il buon uso della ragione, non viceversa. Nella ricerca, guidata dalla verità, (9) J. Lacneav, nei frammenti raccolti sotto il titolo Existence de Dieu (Paris, 1910), nota acutamente che quelli che sono o credono di essere atei testimoniano in favore dell’esistenza di Dio; infatti, ci aiutano a rendere sempre più pura la nostra concezione di Lui, a liberarci delle rappresentazioni grossolane o infedeli: Ces douteurs ont frayé la route Et sont si grands sous le ciel bleu Que, désormais, gràce è leurs doutes, On peut enfin affirmer Dieu. (10) Con la prova da noi sostenuta, di evidente ispirazione agostiniana, ha punti di contatto quella del Rosmini: l’idea dell’essere illimitato ed immutabile, intuita dalla mente limitata e mutevole, non può essere prodotta dalla mente stessa, la riceve come l’oggetto primo che la fa intelligente; vi è pertanto in noi un effetto non prodotto da noi nè da alcuna causa finita; dunque esiste una Mente infinita, necessaria ed eterna. (Nuovo Saggio, n. 1456 sgg.; Teos., 797). Rosmini argomenta così perchè la sua idea dell'essere non è la forma a priori di Kant. Conoscere è giudicare, anche per lui: ma vi è un sapere intuitivo fondamentale che non è giudizio, e garantisce la validità di ogni conoscere giudicativo. Nei nostri scritti successivi, già citati, abbiamo fuso la prova agostiniana’ con. quella del Rosmini attraverso un approfondimento del  principio di verità e di quello dell’ essere come Idea », per cui è necessario integrare quanto si legge in queste pagine con quanto abbiamo scritto soprattutto in Atto ed essere, III ediz., pp. 124-134. L'esistenza di Dio 153 la presenza di questa è presenza dell'immagine di Dio, cioè di un dato che testimonia del suo principio: nella stessa dimostrazione dell’esistenza di Dio è presente quella verità la cui presenza rimanda al suo principio. Si può dire che la dimostrazione scaturisca da tutto il processo del pensiero, da ogni momento del suo svolgimento. Se conoscere significa acquistare una sempre più chiara consapevolezza del grado di verità di cui la mente umana è capace, il processo del pensiero è processo di consapevolezza dell’esistenza di Dio: ogni verità scoperta è aztestazione della sua esistenza e punto di partenza per la dimostrazione razionale. La originaria oscura nozione di Dio si fa sempre più chiara a mano a mano che il pensiero acquista coscienza della verità e ad essa uniforma l’attività intellettiva: il suo destino di verità si precisa sempre più nettamente come desiderio di Dio. La vita intellettiva dell’ente creato e finito è itinerario dalla verità in noi alla Verità in sè, da Dio in noi a Dio in sè. La presenza dell’uomo a se stesso lo è dell’uomo alla verità che gli è interiore ed infinitamente lo trascende. Vi è in lui il segno di qualcosa che è più di lui e perciò l’uomo più di ogni altro ente porta in sè i segni manifesti del suo Principio. 6.  La presenza di Dio e il dinamismo del pensiero.  Veritas e ratio ». L’internità della verità alla mente al tempo stesso che garantisce la validità oggettiva della prova dell’esistenza di Dio precisa nettamente i compiti e i limiti della ragione, che non  pone la verità, ma argomenta sulla base della verità  posta »,  data alla mente: giudica di ogni cosa con cui l’esperienza la mette in contatto, in quanto le sono dati i mezzi per conoscere e giudicare secondo verità. Vi è un nucleo essenziale di verità che l’uomo non si dà da sè e che, illuminandolo e facendolo ente intelligente, lo fa ca154 Filosofia e Metafisica pace di conoscere quanto appartiene all’ordine della realtà creata e finita. Vi è, d’altra parte, una verità opera dell’uomo, la conoscenza del mondo dell’esperienza, che la ragione è capace di costruire solo perchè poggia su un fondamento che la trascende. Tale verità essenziale, originaria ed orientatrice di tutta la vita intellettiva dell’ente razionale creato, è presente alla mente e direttamente intuita da essa, che ne ha inzelligenza; è in noi la presenza illuminante ed operante di Dio. Per conseguenza, la verità intuita, fondamento di ogni conoscenza riflessa o di ogni giudizio, è indipendente dalla ragione ed anteriore alle sue dimostrazioni. Senza la sua presenza, che è presenza indiretta di Dio, il movimento stesso del pensiero sarebbe incomprensibile ed inspiegabile: esso è originariamente mosso dalla verità che è in lui verso la Verità che lo trascende. La ragione è chiamata a seguire questo movimento intellettivo dalla presenza interiore della verità alla Verità in sè, a inserirsi nella verità che fonda i suoi giudizi, ma appunto perchè li fonda, è ad essi e alla ragione anteriore: la presenza indiretta di Dio in noi è prima della dimostrazione della sua esistenza per concatenazione di concetti. Lo spirito tende alla Verità in sè sollecitato dalla verità in lui presente; tende a Dio che è in lui, ma che non gli è noto e perciò Lo cerca e ne dimostra l’esistenza: ma la dimostrazione è possibile perchè nello spirito è presente tutto ciò che la rende possibile, ciò di cui la ragione si serve per argomentare rettamente. È evidente che i due termini veritas e ratio vanno tenuti ben distinti: la veritas è l’insieme dei principi intelligibili dalla mente intuiti; la ratio è l’attività che, sul fondamento di questi princìpi che la trascendono, stabilisce nessi e relazioni. La ragione è il lume delle cose in quanto è essa che le giudica, ma è /ume illuminato dalle verità intelligibili, che le consentono appunto di illuminare e giudicare ogni cosa (di fare che il mondo sia  esperienza »), tranne gli intelligibili stessi. Lume della ragione, la quale è lume del senso, L'esistenza di Dio 155 è la verità che la trascende e la mette in grado di stabilire relazioni e nessi; la ragione cerca l’intelligenza della verità. Pertanto: 4) essa non potrebbe niente dimostrare  e dunque neppure l’esistenza di Dio  se nulla di vero o di intelligibile la illuminasse: 5) è capace di conoscenze riflesse perchè la verità, indipendente da essa e dalla quale essa dipende, la illumina; c) dunque, la ragione non fa esistere Dio, ma solo dimostra che non può non esistere, in quanto è assolutamente irragionevole che non esista e assolutamente ragionevole che esista. Per conseguenza anche se la dimostrazione risultasse imperfetta a causa della ragione mutevole e finita, ciò non infirmerebbe la verità dell’esistenza di Dio. La concatenazione dei concetti può essere incompleta ed imrfetta, perchè tale è l’umana ragione, ma non può mettere in dubbio l’esistenza di Dio, per il semplice motivo che la stessa dimostrazione imperfetta  ma sempre contenente una qualche verità  non vi sarebbe se Dio non esistesse e non illuminasse. Rosmini, che indubbiamente tiene presente S. Agostino, distingue tra  ragione e lume della ragione »: la prima è l’attività che ha come oggetto l’idea dell’essere, che è appunto suo lume. Questa distinzione va approfondita (l’approfondimento è nostro e non va attribuito al Roveretano) perchè chiarisce, ci sembra, un punto fondamentale del nostro discorso. Comunemente diciamo, retaggio dell’intellettualismo greco e del razionalismo moderno, che il  senso è del particolare e la  ragione dell’universale »; il  senso è del contingente e la  ragione del necessario », ecc. Queste espressioni non significano affatto che il senso è particolare e la ragione universale: non solo quest’ultima, ma anche il senso è la cosa meglio distribuita »; non solo la facoltà di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso (che è propriamente quel che si chiama buon senso o ragione) è naturalmente uguale in tutti gli uomini (Descartes, Discours de 156 Filosofia e Metafisica la méthode, p. I), ma lo è anche la facoltà di sentire, anch’essa naturalmente uguale in tutti gli uomini. Da questo punto di vista, il senso, come facoltà comune a tutti gli uomini, è altrettanto universale come la ragione o l’intelligenza. Per conseguenza, la particolarità e la contingenza della sensazione e l’universalità e la necessità del giudizio non dipendono dal senso o dalla ragione in quanto tali, ma dal diverso oggetto che è proprio di ciascuna delle due fa coltà; in altri termini la ragione è universale, capace di giudizi universalmente validi, perchè l’oggetto che le è proprio la fa tale, cioè perchè illuminata dalla verità. Dunque, la universalità e la necessità del conoscere razionale non sono date dalla ragione, ma dal suo lume, dalla verità che è suo oggetto; nel caso in cui la ragione fosse privata (o si privasse da se stessa) del suo lume, cesserebbe di essere universale e necessaria come organo conoscitivo. Non vi è un rapporto gerarchico tra senso e ragione, questa superiore all’altro, ma vi è tra quel che è oggetto del senso e quel che è oggetto della ragione. Da ciò consegue che nella concretezza e sinteticità dell’atto spirituale dove sono presenti, entrambi si coordinano e si subordinano alla verità illuminante. Non la ragione, ma il suo oggetto è vero. Da ultimo se la ragione producesse essa la verità, non vi sarebbe piùverità, sarebbe essa stessa lume e, come tale, mutevole e soggettiva al pari del senso, pur restando la cosa meglio distribuita ». Ciò spiega perchè l’idealismo trascendentale si può sempre convertire in forme estreme di empirismo e scetticismo. 7.  Partecipazione iniziale e finale. Vi è una verità primale presenze all’intelligenza fondante la veridicità dei giudizi della ragione; dunque l’uomo è creato con e per la verità, dove il conindica la partecipazione iniziale  è dalla verità  e il  peril fine: L'esistenza di Dio 157 cercare la verità nella vita temporale per fruirne nella vita eterna; dunque, la verità guida il pensiero e, guidandolo, fa che esso la trovi e trovi, salvi, se stesso: itinerario filosofico con meta religiosa. Vi è dunque una partecipazione iniziale ed una partecipazione finale dell'ente intelligente creato dalla e per la Verità creante; vi è una sua contingenza essenziale per il fatto stesso che è partecipante della verità, ma non è /a Verità, la contingenza della mente creata, che è per la Mente assoluta increata. Non una soltanto di ordine, diciamo così, gnoseologico o del nostro conoscere, ma anche e innanzitutto di ordine ontologico, del nostro essere: siamo enti perchè l'Ente ci fa essere. Ci pensa e ci fa essere; come esseri e per quanto abbiamo di essere abbiamo di verità, e la verità che siamo è il nostro grado di essere: ciò che è vero È, e ciò che è, è vero (!!). La coscienza di me come essere principiato implica l’esistenza di Dio. Ma io posso pensare di non-essere e il Non-essere, ed identificare Essere e Nulla. Posso; però nell’atto che penso il Non-essere e il mio non-essere è implicato il mio essere, altrimenti non potrei pensare il Non-essere e me come nonessente; dunque, in quell’atto è dato il mio essere, un essere, ed è implicata l’esistenza dell’Essere: giacchè qualcosa esiste, esiste l’Essere assoluto indipendente. Infatti, o l’ente è indipendente e allora ogni ente è #n essere assoluto indipendente, ciò che è assurdo perchè non ci sono più esseri assoluti indipendenti, ma /’Essere assoluto indipendente; o l’ente dipende da altro per esistere e allora, basta che esista l’ente finito, perchè esista Dio come Essere assoluto indipendente. Il problema dell’esistenza di Dio è dunque interiore, intrinseco, non solo al nostro conoscere, ma a zutto il nostro essere: l’uomo può scartarlo o evitarlo solo evitando o scartando se stesso, tanto tale problema è radicato in lui ed egli in esso. Ora, se la parte Superfluo avvertire che questa espressione è differentissima dall’altra hegeliana:  ciò che è razionale è reale e ciò che è reale è razionale », del resto già da noi criticata. cipazione iniziale e finale all’Essere fa che l’ente creato non sia l’Essere ma dal e per l’Essere, fa anche che esso non sia estraneo alla Verità o all’Essere nè l’Essere a lui, ma si avverta nell’Essere, avvertendo, nello stesso tempo, che vi è incommensurabilità e solo analogia tra l’ente partecipante dell’Essere e l’Essere stesso. Il concetto di partecipazione, nel senso da noi usato, importa contemporaneamente attrazione e repulsa; l’ente finito è come attratto e respinto dall’Essere infinito: attratto perchè è 44 e per l’Essere, respinto perchè non è l’Essere. Partecipazione significa distinzione e diversità da ciò di cui si partecipa: in pari tempo, l’ente finito diverso da Dio, è perchè è da Dio: l’abisso che lo divide è contemporaneamente il ponte che lo unisce a Lui. Ma allora il problema dell’esistenza di Dio non è tanto quello di conoscere se Dio esiste, quanto l’altro di sapere che l’uomo esiste e conosce, perchè Dio esiste e solo perchè esiste. Le due formule sono ben diverse: la prima   conoscere se Dio esiste  implica la possibilità del conoscere anche se Dio non esistesse, come se Egli fosse un qualsiasi ente, di fronte al quale la ragione si pone giudicante come di fronte ad una cosa di esperienza: è la posizione dell’estrinsecismo razionalistico o scientificodei razionali non ragionevoli ». L’altra formula, la nostra  sapere che l’uomo esiste e conosce, perchè Dio esiste e solo perchè esiste importa invece: 4) un sapere», che è più del puro conoscere, in quanto è coscienza piena e completa di tutto l’uomo; ) una dipendenza iniziale e finale dell’ente integrale che sa di pensare ed essere perchè Dio esiste; c) l’impossibilità di esistere e pensare un solo istante se Dio non esistesse; d) la partecipazione dell’ente creato all’Essere in sè, per cui non è di fronte a Dio, ma, come può esserlo l’ente finito, in Dio ed Egli in lui. Per conseguenza, il problema dell’esistenza di Dio non è di conoscere se », ma di  sapere che », cioè di acquistare consapevolezza della dipendenza iniziale e finale, della partecipazione interiore, per cui L'esistenza di Dio 159 si è in Dio: siconoscono le cose esterne, fuori di noi; si sanno le cose che sono in noi e noi in esse: perciò si sa che Dio esiste.  Essere in Dio non significa, evidentemente, identificarsi con Lui o essere della Sua stessa natura, ma sapere di essere perchè Dio l’ha voluto e lo vuole, e che si sa perchè Dio ha illuminato ed illumina. Dimostrare la sua esistenza significa, dunque, acquistare coscienza della nostra dipendenza ontologica, sapere che noi siamo, viviamo, pensiamo e vogliamo in Dio, anche quando siamo assenti a Lui. La dimostrazione non ci sta davanti, ma noi le siamo dentro, poichè siamo la verità da cui essa muove e la testimonianza vivente di quell’esistenza. Gli uomini sono esistenti in questa verità che li unifica: sono reali, frammentariamente, nell’esperienza fenomenica. Io sono reale nella scienza, ma  sono esistente nella mezafisica e soltanto nella metafisica. Pertanto, l’esistenza di Dio è un  problema solo fino a quando l’uomo non conquista la piena consapevolezza di sè e del suo essere, non è presente a se stesso, che è essere presente a Dio, sempre presente; se lo è, non è più problema, ma evidenza. Non inizialmente e perciò dapprima è problema; provvisorio, fino a quando il pensiero non dissipa l’oscurità che avvolge la verità originaria, non acquista consapevolezza di se stesso. L'esistenza di Dio non s'impone alla mente con evidenza immediata, in modo da metterla nell'impossibilità di dubitarne; è una verità che va cercata, ma, conquistata, è un’evidenza. La conoscenza di sè lo è di sè principiato dal Principio; dunque, il pensiero che conosce se stesso, sa che Dio esiste e, sapendolo, si sa da Dio: /eggendosi, legge Dio. In breve: se c'è l’uomo, c'è Dio: chi nega Dio, nega l’uomo che è, non si conosce. L’ateismo è una questione di analfabetismo; ignoranza dell’intelligibilità metafisica di se stessi, perchè ignoranza della dipendenza essenziale da Dio e della essenziale finalità in Lui. Basta l’esistenza di un ente pensante 160 Filosofia e Metafisica perchè sia implicata quella del Pensiero assoluto: se un ente è, è l’Essere assoluto. Le incertezze sono nel processo della ricerca, non nella verità che lo guida. Questo processo si attua attraverso due momenti di trascendimento: 4) della ragione, di cui oggetto di giudizio sono le cose, il  mondo visibile di Platone, per elevarsi all’intelligenza della verità; 4) di questa o della verità in noi, r elevarsi a Dio, la Verità in sè. Dunque, trascendimento dell’esteriorità (mondo della scienza o della ragione) e dell’interiorità (mondo della sapienza o dell’intelligenza); cioè ancora del momento gnoseologico (ragione) e di quello intuitivo (intelligenza). Trascendimento che non è negazione; è interiorizzazione di noi a noi stessi, salita dalla profondità di noi e delle cose alla Profondità misteriosa e sacra che sovrasta ogni cosa e la fa essere. A questo punto, l’evidenza dell’Esistenza di Dio, Mistero che solve ogni enigma, dà all’uomo il presentimento (ma solo questo e, in questa vita, sempre oscuro) di come egli sarà, penserà e vivrà nella visione ultraterrena di Dio, quando, sciolto dai legami delle cose, dal discorrere ormai superfluo della ragione, sarà tutto l’uomo, l’uomo assoluto, non come specie, ma come singolo ente spirituale. Nell’ordine naturale, se non a tanto, si arriva a riconoscere la dipendenza iniziale e finale da Dio, la nostra grandezza. La ragione nel campo della sua attività è autonoma: giudica di ogni cosa del mondo senza essere giudicata da nessuna; ma il mondo è piccolo e l’umana autonomia della ragione più piccola della piccolezza del  visibile. Quando Bacone, esaltato dai progressi della scienza, esigeva un metodo (con lui, Cartesio e Galilei) che consentisse all'uomo di farsi padrone della natura, di dominarla conoscendola, evidentemente non rifletteva abbastanza che la grandezza umana era in tal modo assoggettata ai limiti della natura stessa: l’uomo abdicava all’infinito della sua intelligenza per incoronarsi piccolo re delle piccole cose, oggetto del conoscere razionale. La scienza è la L'esistenza di Dio 161 grandezza dell’uomo razionale, la sua cosmicità, ma è proprio essa la sua piccolezza; l’inzelligenza, invece, con cui avverte la sua dipendenza da Dio, la sua piccolezza, è essa la sua vera grandezza, la sua spiritualità. Come filosofò Cusano, l’uomo è piccolo nella sua grandezza, la scienza del mondo; è grande nella sua piccolezza, la dipendenza da Dio e la nonconoscenza di Lui. L'uomo è in questo mistero: di fronte al mondo si tratta per lui di conoscere; di fronte a Dio di essere. Il pensiero moderno ha identificato l’uomo con il suo conoscere ed ha perduto l’intelligenza dell’uomo, cioè il problema del suo essere, del  consistere del suo  esistere ». Come abbiamo detto, non può essere pensato l’ente avente un certo grado di essere senza che si pensi implicitamente all’Essere che è l’Esistente, da cui dipende ogni esistente e ogni grado di essere; ma la consapevolezza dell’ente finito di partecipare e dipendere dall’Essere lo ordina a Lui. La partecipazione iniziale lo spinge ed orienta a quella finale, all’Essere in sè, l’oggetto adeguato dalla sua interiorità; il pensiero è perenne ricerca dell’Essere, il pellegrino di Dio. In questo senso, è come specificato dall’Essere a cui tende: la verità presente alla mente preforma l’intelligenza e la dirige verso Dio  è il senso profondo dell’idea dell’essere del Rosmini, che ha il suo oggetto adeguato solo nell’Essere ; la partecipazione manifesta la sua profondità nella finalità” ultima dell’intelligenza. Ma se è così, nell’intelligenza, il cui fine è Dio, troviamo una solidarietà con la volontà: la partecipazione finale si chiarisce come la finalità suprema dello spirito nella sua totalità di vita. CapitoLo IV LE IDEE I.  Le Idee come oggetto della mente. Critica dell’a priori di Kant. Tanta vis in eis (ideis) constituitur, ut nisi his intellectis sapiens esse nemo possit. Quattordici secoli dopo, con ben altro orientamento di pensiero, Leopardi annotava (18 luglio 1824) nello Zibaldone:  Certo è che, distrutte le forme platoniche preesistenti alle cose, è distrutto Dio(?). Queste due profonde osservazioni di uomini così diversi e lontani nel tempo, per la loro perfetta coincidenza, sono estremamente significative. Per il santo dei primi secoli, come per l’ ateo dell’800, di formazione illuministica, negare le idee come conoscenze in sè, anteriori alle cose e misura oggettiva per giudicarle, è irreparabilmente negare Dio: o nella mente umana vi è una verità che non deriva dalle cose nè pone essa stessa e allora per questa presenza di qualcosa di immutabile e necessario, di illuminante e fecondo, ci si convince razionalmente che Dio esiste ed è irrazionale dire il contrario, o si nega che vi è una verità di tal natura e con essa la presenza di Dio e non è più possibile pensare o provare l’esistenza dell’Essere trascendente, creatore e provvidente. Se tutto nell’uomo è umano, da lui prodotto e creato senza traccia orma immagine vestigio divino, è impossibile dargli la nozione di Dio: egli è stato privato di quanto gli Acosrino, De diversis quaestionibus 83, q. 46, n. 1. (2) G. Ltoparni, Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Firenze, Le Monnier, 1931, vol. II, p. 110. ° L'esistenza di Dio 163 è indispensabile per poterlo trovare e provare, del lume della ragione, dell’oggetto che fa intelligente la sua intelligenza. Dio avrebbe creato l’uomo non per Lui, ma per l’uomo stesso, non per cercarLo, amarLo e pregarLo, ma perchè si perdesse nella finitezza e contingenza sua e del mondo, cosa tra le cose. Perciò Platone, il metafisico delle Idee, è il padre della metafisica della verità, essenzialmente teistica: se esiste la verità, esiste Dio; la verità esiste, dunque Dio esiste. Bandire le Idee come oggetto immutabile della mente, è bandire Dio dal pensiero. Se la mente non conosce nulla di immutabile e necessario, niente vi è per essa d’intelligibile o di vero: non vi è Dio. Ma siccome qualcosa di assolutamente vero è conosciuto dalla mente  insopprimibilità delle verità che fa contraddittorio lo scetticismo  l’intelligibile è, e Dio è. Se non s’intelligono le Idee sapiens esse nemo possit; cioè: chi non è presente alla verità che è in lui è insipiens,e l’ateo è l’insipiens, colui che non sa quel che dice, non sa niente di sè, signora e perciò è ignorante dei motivi oggettivi, che rendono impossibile negare l’esistenza di Dio; chiuso al lume dell’intelligenza, è ottenebrato dalla duplice concupiscenza del senso e della ragione: un irragionevole raziocinante. Alla base dell’ateismo, o c’è la caduta volgare nella schiavitù delle passioni, o la caduta diabolica, da qualche tempo qualificata  nobileed eroica», nella passione o superbia della ragione, quella che sta alla base della negazione cosidetta  scientifica o  filosofica dell’esistenza di Dio: rifiuto di conoscersi, negarsi della ragione a se stessa. Il suo limite non è l’impossibilità di trascendere l’esperienza, ma il rifiuto di trascenderla, l’ignorare che in essa è presente qualcosa che la trascende. Ragione critica non è quella che si autonega la capacità di oltrepassare l’esperienza, ma la ragione che sa che non può non oltrepassare l’esperienza e se stessa, in quanto cosciente di possedere una luce,la verità, secondo la quale giudica, che è più di essa ed ha dun164 Filosofia e Metafisica que al di là della sua mutevolezza il Principio creatore. Solo se la ragione conosce che la verità è più e non meno di essa, ritrova se stessa e Dio. Perciò il problema dell’esistenza di Dio non si aggiunge all’esperienza quasi dall’esterno, ma è implicito nel problema dell’esperienza e nella esperienza stessa, che, in questo caso, è testimoniante: per il fatto che io ci sono e il mondo c’è, Dio esiste. Prima che per inferenza esplicita, l’esistenza di Dio è data implicitamente dal dato che l’attesta. Kant ha il torto di considerare l’esperienza sensoriale il limite della ragione, affermazione che consegue dalla riduzione delle Idee o verità prime, intuite dalla mente e fondamento della veridicità di ogni giudizio, a forme  priori, a pure condizioni della conoscenza. Qui il punto della questione: le Idee per l’idealismo ontologico sono verità, conoscenze prime, oggetto interiore della mente; sulla base di esse la ragione giudica di ogni cosa, cioè conosce secondo verità le cose date dall’esperienza, ma non giudica le Idee primali, che l’oltrepassano. Di qui la conclusione; esiste una verità che è data ed è più dell’io; dunque esiste Dio, la Verità in sè donante, illuminante, creante. Per Kant, le forme a priori, quel che nella conoscenza è prima dell’esperienza e da essa non derivato, non sono date all’intelletto, ma son funzioni di esso, forme dell’attività sintetica del pensiero; non verità o conoscenze, ma pure condizioni del conoscere e perciò vote: il contenuto lo riceviamo dall’esperienza, 4 posteriori. Per conseguenza, dato che in se stesse son vuote, la loro validità, pur essendo 4 priori, è limitata al mondo dell’esperienza; dunque valgono solo a costruire e sistemare contenuti empirici. È evidente che, svuotate le Idee del loro contenuto di verità e fatte condizioni della conoscenza delle cose, non possono più trascendere l’esperienza dalla quale restano bloccate; dunque, non è più possibile una metafisica come scienza, tra l’altro, una dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio, in quanto le verità, secondo cui la ragione L'esistenza di Dio 165 giudica dell’esperienza, non sono più tali, ma pure condizioni di essa; le forme a priori non trascendono la ragione, ma ne sono funzioni immanenti, nè l’esperienza, pur non derivando da essa, alla quale soltanto si applicano. Conoscenza valida è solo quella razionale e tutto il sapere è identificato con la conoscenza scientifica. Kant nega il sapere intuitivo dell’intelligenza e perciò deve negare che si possa dimostrare l’esistenza di Dio: limitato l’uomo alla sua cosmicità lo si fa prigioniero del conoscere razionale e lo si priva di Dio, che non è problema della ragione, se prima non è problema dell’intelligenza. Così è distrutta qualsiasi possibilità di dimostrare Dio perchè sono state distrutte le Idee. Chi ha parlato di  veleno kantiano », da questo punto di vista, ha avuto ragione, anche se egli, se tosse vivo, ci darebbe torto, ma non a ragione, per il tipo di apriorismo non kantiano qui sostenuto. In breve, Kant nega l’onticità dell’Idea e un sapere intuitivo: limite della forma 4 priori è l’esperienza sensoriale; perciò limite dell’uomo è la sua impossibilità a trascendere l’esperienza, cioè è il  cosmo, la scienza. Il concetto critico dell’4 priori, che ha il suo limite di funzionalità nell’esperienza, e il concetto critico dell’esperienza che ha il suo limite nell’4 priori che la organizza, sono critici a metà: sono critici del concetto di scienza, non del concetto di metafisica. Secondo Kant, la struttura del pensiero, la sua preformazione è tale da avere il suo oggetto adeguato nel mondo fisico, in quanto l’esperienza fenomenica adegua la forma: il pensiero è ordinato al mondo, che è la sua finalità. Ciò nega implicitamente la partecipazione iniziale all’Essere e rende inutilizzabile filosoficamente il concetto di creazione; infatti, se è posta la partecipazione iniziale, risulta contraddittorio negare quella finale, cioè ammettere che l’Essere creatore abbia preformato l’ente creato 166 Filosofia e Metafisica in maniera da non essere ordinato a Lui, ma da avere la sua adeguazione nel mondo. In altri termini, se la creatura è dal Creatore, non può non essere stata creata in modo da essergli ordinata; dunque la partecipazione iniziale implica necessariamente quella finale. Per Kant, invece, l’4 priori ha la sua adeguazione nel mondo  nell'ordine naturale: il cielo stellatoe la legge morale per conseguenza il mondo è la sua finalità suprema, e dunque anche il primo iniziale. Basta: Dio è eliminato dall’ordine del pensiero e da quello della realtà; non si spiega più neppure come possano nascere l’esigenza di Dio e le Idee della ragione, che non si giustificano, dentro il sistema kantiano, neanche come postulati della ragione pratica; Kant ve li introduce, ma restano estranei alla Critica com'è intesa da lui, la quale si risolve nel sistema della  cosmicità ». La Critica non è tanto critica da approfondire l’interiorità del pensiero, da sondare le profondità dell’intelligenza: le manca l'intelligenza dell’intelligenza, e non s’accorge che esigenze e postulati non potrebbero essere le une sentite e gli altri pensati se lo spirito non portasse nella sua struttura i segni indelebili e perenni di Chi lo ha creato spirito, di Chi, facendo l’uomo ente pensante, gli diede il lume della verità e la verità come oggetto del pensiero. Se ne accorse il Rosmini, la cui idea dell’essere (altro che riducibile all’a priori kantiano!), oggetto intuìto dal pensiero, è presenza analogica di Dio in noi (partecipazione iniziale) e preforma il pensiero stesso in modo che ad esso è impossibile invenire in alcuno dei contenuti di esperienza, o in tutta l’esperienza, il suo oggetto adeguato, per cui essa risulta ordinata, in solidarietà con la volontà, con l’atto morale sintetico dell’ideale e del reale, all’Essere, che, come tale, è la sua finalità assoluta, convogliante, come letto d’immenso fiume, le innumerevoli sorgenti della vita, la totalità del creato. L'esistenza di Dio 167 2.  L'Idea nell’'empirismo inglese. Kant deriva il suo  criticismo dal Locke, dallo Hume e dalla barbarie filosofica dell’Illuminismo, di cui è il più grande rappresentante. Locke è il primo consapevole e sistematico distruttore dell’Idea nel senso dell’idealismo oggettivo. Infatti, con la parola idea indica sensazioni, immagini, percezioni, ecc., quanto è contenuto della coscienza: l’idea non è più l’oggetto intelligibile, immagine  priori dell’Intelligibile in sè, ma immagine del sensibile: l’anima, white paper, acquista le idee, puro contenuto della coscienza soggettiva, from experience. D'altra parte, anche per il Locke, funzione della ragione è di stabilire nessi e relazioni, ma solo tra le idee-immagini sensibili; per conseguenza, la verità è  unione o separazione di segni (joining or separating ofsigns), cioè di quelli impressi dalla esperienza sensoriale: il valore oggettivo dell’idea è distrutto e con esso quello della verità. Consegue: 4) la sostanza è un’idea o impressione sensibile complessa, cioè una somma di qualità prive di vincolo reale; è  coesistenza continua di alcune idee semplici,  considerate (considered), per tale continuità di esistenza, unite in una cosa ed indicate con un  nome »; 5) l’identità della persona non viene da una sostanza permanente e perseverante al di sotto del suo divenire, ma semplicemente dalla continuità della coscienza: la mia identità arriva fin dove arriva la mia memoria; c) se gli enti esistenti, di cui si conoscono solo le qualità, abbiano un  sostegno », un'entità reale € che cosa essa sia, l’uomo non lo sa: Io non so cosa sia (I dont know what). Conclusione: l’idea è d'origine empirica, un puro nome, un contenuto della coscienza soggettiva; non esiste un correlato oggettivo del pensiero; la ragione unisce e divide  segni che, soggettivi, non garantiscono l’oggettività dei giudizi; dunque, non esiste una verità intelligibile, l’Idea come oggetto della mente, non prodotta ma solo intuita da essa, nè ricavata dall’esperienza. Per l’ideali168 Filosofia e Metafisica smo oggettivo gli intelligibili sono, come Verità in sè, il contenuto della Mente assoluta; come presenza della Verità in sè, l'oggetto d’ intuizione delle menti finite e fondamento oggettivo dei loro giudizi; ancora sono realizzate imperfettamente nelle cose, di cui costituiscono l’essere o il grado di verità. In altri termini, sono il Primo Vero da cui deriva ogni verità; Vero creatore e vivente, fecondo di quanto vi è di vero, vita della mente e di ogni cosa: voytà Zé, così Platone nel Timeo chiama le Idee. Per Locke, invece, esse non sono il prototipo o l’esemplare intelligibile, ma pure immagini di origine sensibile: quanto noi conosciamo della realtà è quanto di  idee o immagini ci forniscono i sensi; il reale conosciuto s’identifica con il contenuto della nostra coscienza empirica. Com'è noto, lo Hume, con maggiore coerenza del Locke e attraverso un approfondimento critico dei presupposti dell’empirismo, non dice di  non sapere cosa sia la sostanza, ma che non vi sono sostanze: la realtà, spirituale e materiale, s’identifica tutta (nè vi è una Realtà in sè trascendente) con le  impressioni e le  idee ». Ma, per lo Hume, tra le une e le altre non vi è differenza di origine  le prime sono  copie di nostre impressioni(copies of our impressions)  bensì d’intensità, le idee sono  percezioni più deboli (more fleeble perceptions); per conseguenza, di fronte ad un'idea, bisogna chiedersi di quale impressione sensibile sia la copia. Non vi sono sostanze »: quella che così si chiama è un insieme di percezioni che si assomigliano; non vi è un vincolo causale necessario ed oggettivo, ma solo I’  attesa che al fatto 4 segua il fatto d: è l’ abitudine (custom) che fa nascere questa attesa; non vi sono nessi tra le idee se non per  somiglianze (resemblance), per  contiguità tempo- rale o locale (contiguity in thime or place), per causa ed effetto, cioè seguenza accidentale di due fatti. Ecco: negato il valore oggettivo dell’Idea e la sua presenza L'esistenza di Dio 169 alla mente indipendentemente dall'esperienza sensoriale, non è più possibile un criterio valido di giudizio, un fondamento della conoscenza e della realtà; vien meno ogni regola della vita intellettiva e morale, ogni sostegno delle cose. Distrutte le Idee, non vi è più alcuna ragione che le cose siano come sono e non diversamente, che la ragione giudichi in un modo o in un altro e la volontà agisca così e non altrimenti, per il fatto che non vi sono più princìpi necessari, immutabili ed universali (*). Ciò prova come il punto cruciale del proble- ma dell’esistenza di Dio, come di ogni altro metafisico, sia la questione della verità: se vi è verità e fino a che punto e come la mente umana ne partecipi. Se tale verità si nega, come fa lo Hume, cade la validità oggettiva di ogni prin- cipio e qualunque dimostrazione è impossibile 4 priori ed 4 posteriori. La validità razionale delle prove 4 posteriori, in- fatti, dipende da quella dei princìpi secondo cui la ragione argomenta; dunque dal problema della verità: secondo che questo è risolto positivamente o negativamente anch'esse sono valide o no. Ma se è risolto positivamente è già dimostrata l’esistenza di Dio; se negativamente, impossibile qualsiasi altra dimostrazione. In ogni caso le prove 4 posteriori sono (3) Ancora una volta il Leopardi, con chiara intuizione (lo cito perchè non filosofo nel senso tecnico del termine, e perchè imbevuto di empirismo e sen- sismo), scrive il 17 luglio 1821 (op. cit., vol. III, pagine 99-100):  Quindi è chiaro che la distruzione [per un errore di stampa nel testo si legge  distinzione »] delle idee innate distrugge il principio della bontà, bellezza, perfezione assoluta e de’ loro contrari. Vale a dire di una perfezione ecc., la quale abbia un fonda- mento, una ragione, una forma anteriore alla esistenza dei soggetti che la con- tengono, e quindi eterna, immutabile, necessaria, primordiale ed esistente prima dei detti soggetti e indipendente da loro. Or dov’esiste questa ragione, questa forma? e in che consiste? e come la possiamo noi conoscere o sapere, se ogni idea ci deriva dalle sensazioni relative ai soli oggetti esistenti? Supporre il bello e il buono assoluto è tornare alle idee di Platone e risuscitare le idee innate dopo averle distrutte, giacchè tolte queste, non v'è altra possibile (1341) ragione per cui le cose debbano assolutamente e astrattamente e necessariamente essere così 0 così, buone queste e cattive quelle, indipendentemente da ogni volontà, da ogni accidente, da ogni cosa di fatto, che in rcaltà è la sola ragione del tutto, e quindi sempre e solamente relativa, e quindi tutto non è buono, bello, vero, cattivo, brutto, falso, se non relativamente; e quindi la convenienza delle cose tra loro è relativa, se così posso dire, assolutamente ». 170 Filosofia e Metafisica legate alla sorte di quella  dalla verità », da cui dipendono, di cui sono una applicazione e in cui restano incluse. Hume è una buona lezione; negata l’oggettività dell’Idea è negato Dio; niente più regge, non lo spirito nè le cose, non la filosofia nè la scienza. In questo senso l’ultrailluminista Hume, che sviluppa fino in fondo il principio ateo del- l’uomo fonda l’uomo e il suo regno », è la crisi del mito illuminista, in quanto rappresenta la vanificazione del reale ‘spirituale e corporeo e di ogni categoria del reale, la banca- rotta del razionalismo e dello scientismo illuministici. 3.  Ancora di Kant e Rosmini. Sinteticità del conoscere e validità del giudizio. Kant si accorse della rovina della conoscenza oggettiva e della metafisica come scienza, conseguenza della negazione delle Idee; se ne accorse perfettamente anche il Rosmini. Ed ecco i due pensatori porsi gli stessi problemi: 4) dell’oggetti- vità del conoscere; 4) della restaurazione della metafisica co- me sapere razionale. La risposta di Kant è nota: i princìpi del conoscere non possono essere ricavati dall’esperienza sensoriale; sono forme 4 priori della mente, oggettive ed universalmente valide, con cui lo spirito, mercè l’attività sintetica, costruisce l’esperienza, che alle forme fornisce il contenuto. Ma, per Kant, come abbiamo detto, le forme @ priori non sono conoscenze, ma pure (vuote ») condizioni della conoscenza: per lui non vi sono verità 4 priori, interiori alla mente e da essa intuite, ma di 4 priori c'è solo la  forma del conoscere. Per conseguen- za, egli nega che vi siano verità intelligibili, oggetto dell’in- telligenza, cioè è d’ accordo con gli empiristi nel rigettare 1’ idea com'è concepita dall’idealismo oggettivo. Per con- seguenza, quando affronta il problema della metafisica come scienza non può non rispondere negativamente: le forme 4 priori, pur essendo indipendenti dall'esperienza, come sue L'esistenza di Dio IZI pure condizioni, al di fuori e al di là di essa non hanno al- cuna validità conoscitiva: 4 priori, ma bloccate nella e dalla esperienza. Prodotto dell’attività dello spirito e prive di un contenuto proprio, non verità o oggetti intelligibili, ma semplicemente condizioni di conoscenza dei fenomeni, possono  giudicare solo le cose di esperienza sensoriale. Ogni metafisica come scienza razionale risulta impossibile, come ogni prova dell’esistenza di Dio. In breve, Kant nega un sapere intuitivo, nega l’intelligenza e perciò l’intuizione dell’intelligibile, la presenza alla mente della verità: la forma più alta di sapere è per lui il conoscere razionale o scientifico, la matematica e la fisica come scienze. Kant  critico non è  platonico », è  aristotelico ». L’intelletto e le sue forme  priori (le  categorie ») non sono attualità di conoscenza, ma potenzialità di conoscere: quello kantiano è un intelletto possibile», in quanto le forme non sono conoscenze o intuizioni originarie, ma pure condizioni del conoscere e condannate a restare tali fino a quando non vengono  riempite dal contenuto dell’esperienza; senza di esso, l’intelletto, in sè, è privo di conoscenza, è pura possibilità di conoscere. Per conseguenza esso, che non è in sè attualità, può conoscere soltanto quanto è oggetto di esperienza, le cose sensibili nella loro fenomenicità. La conoscenza di tipo scientifico o razionale diventa così il modello del sapere e l’unico sapere umano. Kant critico  almento il Kant della Ragione pura  è più  illuminista del Kant  precritico »: è il filosofo della ragione senza intelligenza, della razionalità impersonale e non dell’ uomo concreto. Ma egli vide chiarissimo un aspetto del problema di Dio: che la prova cosmologica, come ogni altra, in fondo dipende da quella ontologica, che non è da identificare con la prova  dalla verità o  dalla vita dello spirito », anzi la presuppone e in essa s'inserisce; vide che il nodo della questione è 172 Filosofia e Metafisica sempre lì: se esiste una verità intelligibile data alla mente. Fino a quando Kant fu  platonico  o come si dice  precritico considerò valida la prova ontologica; diventato critico la rifiutò, perchè, negate le verità primali date alla mente ed ammessa la sola apriorità delle vuote condizioni del conoscere, gli era preclusa la possibilità di dimostrare razionalmente l’esistenza di Dio 4 priori e conseguentemente 4 posteriori. Ancora: col riconoscere la importanza primaria, rispetto a quella cosmologica, della prova ontologica, Kant si avvide che il problema dell’esistenza di Dio inerisce alla vita dell’ente spirituale più che a quella del mondo fisico; perciò egli, dopo aver creduto di aver colpito al tallone l’Achille della metafisica, riprese il problema in sede morale, cioè a proposito di un altro aspetto della vita dello spirito. Così egli distinse nettamente l’  idea cosmologica dall’  idea teologica facendo di quest’ ultima un problema di pertinenza dell’attività morale. Ma, per lui, l’Idea è sempre una forma  vuota », che aspetta di ricevere il contenuto dall’esperienza sensibile: la restaurazione della metafisica gli risulta impossibile; l’Idea resta ingiustificata nel suo sistema. Se Dio fosse solo un’Idea della ragione nel senso kantiano, sarebbe un puro possibile; ma se Dio è solo possibile, Dio è impossibile; e tutto ciò che è diventa di colpo impossibile ed inesplicabile. L’idealismo trascendentale salta il fosso della pura  noumenicità dell’idea teologica, come dell’idea cosmologica e di quella psicologica; rovescia il fondamento metafisico dell’idealismo oggettivo (la verità è principio del pensiero) e fa il pensiero umano principio della verità: non è  percettivo ma di essa  costitutivo »; pensandola la fa essere. Così l’immanentistica metafisica del Pensiero assoluto è antitetica alla trascendentistica metafisica della Verità; l’idealismo trascendentale o spurio è l’antitesi dell’idealismo trascendentista o autentico. Hegel è implacabile contro l’  immediato », cioè L'esistenza di Dio 173 contro il  sapere intuitivo o dell’intelligenza che, come implicante la Trascendenza, è l’ostacolo maggiore alla riduzione di tutto il sapere al mediato conoscere razionale. La metafisica della verità è negata in quella del Pensiero o della Ragione assoluta, cioè nella metafisica dell’assoluta irragionevolezza, e l’uomo decapitato come singolo. La metafisica è perduta, ma resta il problema kantiano della sua restaurazione. Essa fu possibile al Rosmini, il quale dalla critica dell’empirismo moderno non concluse alla forma 4 priori come pura condizione del conoscere, ma all’Idea come oggetto intuìto dalla mente. Egli riprende l’Idea dell’idealismo oggettivo, verità intuita dalla mente, ad essa data e di essa lume; restaura la verità primale come fondamento di ogni giudizio e su questa base ricostruisce la metafisica. Rosmini comprese benissimo che per arrivare a Dio, o si passa dalla verità a noi interiore e trascendente, o non si passa e non si arriva, tanto da distinguere, a proposito del problema delle idee, l’ aspetto ideologico da quello che chiama  teosofico ». Il problema metafisico vero e proprio è quest’ultimo: origine da Dio dell’Idea dell’essere, oggetto intuìto dalla mente senza che esso sia Dio. Qui la soluzione del problema ideologico: le altre idee sono  figlie dell’idea  madre dell’essere, cioè giudizi sulle cose che ci presenta l’ esperienza. Noi non accettiamo alla lettera questa dottrina, ma facciamo nostra la sua anima di verità: vi sono verità seconde (i giudizi sulle cose) per le quali è necessaria l’esperienza e sono dunque 4 posteriori, ma vi è in esse un elemento 4 priori, una verità prima  e non kantianamente pura condizione del conoscere  che le rende possibili, la quale non viene da nessuna esperienza nè è creata dalla mente; viene da Dio ed è alla mente data. Così è restaurata l’Idea nel senso dell’idealismo oggettivo e, con essa, ricostituito il fondamento per la dimostrazione razionale dell’esi174 Filosofia e Metafisica stenza di Dio; ripristinato il concetto della partecipazione iniziale e finale all’Essere. Da Cartesio a Hume due esigenze fondamentali dividono il pensiero moderno intorno al problema della verità: l’esigenza razionalista e quella empirista. Il razionalismo approfondisce un problema che non va perduto di vista: se non vi è una verità prima indipendentemente dall’esperienza è impossibile una conoscenza oggettivamente valida; le conclusioni dell’empirista Hume confermano la veridicità dell’istanza razionalista. L’empirismo da parte sua, contro l’apriori(4) Nel grande dialogo della filosofia moderna e soprattutto in seno all’empirismo inglese, occupa una posizione particolare il Berkeley. Grossolana e senza fondamento l’interpretazione di un Berkeley che nega la realtà del mondo; infatti, a parte quanto vi è di empiristico, fenomenistico e nominalistico, resta in lui un nucleo speculativo che s'inserisce nella linea dell’idealismo oggettivo, Il Berkeley non nega la realtà del mondo esterno; dice soltanto che è, e non può non essere, in rapporto costante con uno spirito che se lo  rappresenta ». Questa affermazione può essere intesa in due sensi: 2%) il mondo è la rappresentazione soggettiva di uno spirito  e non si sfugge al fenomenismo ; il mondo è reale per quanto partecipa dell’Idea, la quale, come oggetto intelligibile, non può non essere senza una mente che la pensi. Forse il Berkeley si presta ad entrambe le interpretazioni, dato l’uso equivoco che fa del termine idea », ma la più rispondente al suo pensiero metafisico è la seconda. Nei Dialoghi tra Hylas e Philonous, scrive testualmente: dal fatto che il mondo esiste in quanto vi è uno spirito che se lo rappresenta,  io non deduco che le cose non esistono realmente », ma  siccome non dipendono dall'essere percepite da me ed esistono indipendentemente dalla mia percezione   concludo che deve esistere un altro spirito nel quale esistono ». Dunque, per il Berkeley a) le cose esistono realmente; £) non esistono perchè io o un’altra coscienza finita ce le rappresentiamo; c) siccome però non possono esistere da sole per la loro finitezza e contingenza, esistono per uno Spirito infinito ed assoluto, cioè in quanto Dio le fa essere; d) ma Dio fa essere le cose pensandole, cioè secondo un esemplare di verità; e) dunque le cose sono in quanto Dio (la Mente) le pensa. Interpretato così  le idee hanno un valore oggettivo di esemplari eterni della Mente creatrice  è sulla linea dell’idealismo oggettivo. Dio non conosce questo mondo perchè esiste, ma questo mondo esiste perchè Dio lo conosce; e S. Tommaso: Universas creaturas non quia sunt, ideo movit Deus, sed ideo sunt quia movit. Che sia così lo prova anche il celebre esse est peraipi: l'essere delle cose non è nel  percepirle (in tal caso la loro realtà sarebbe  posta dal soggetto come per altre forme di idealismo), ma nell’ essere percepite », cioè nell’ essere pensate come idee da una Mente. Infatti, il mondo è in quanto Dio l’ha creato, cioè lo ha pensato nel suo ordine o nella sua verità. Berkeley più che gnoseologo è metafisico: tema primo della sua speculazione è la teologia naturale, esistenza di Dio e degli spiriti finiti. Egli con la sua metafisica interiorista c non cosmologica e gnoseologista, s'inserisce nella linea platonica; meglio, per restare più vicini al suo tempo, in quella pascaliana e non nella cartesiana. L'esistenza di Dio 175 stico razionalismo deduttivista, pone l’istanza del concreto, rivendica il valore dell’esperienza e della singolarità degli enti, il fatto o il dato dell’esistenza. Le due istanze vanno conservate e perciò pongono il problema della loro sintesi. Il vichiano  giudizio storico », sintesi di  filologia e  filosofia », è il primo tentativo in tal senso: Vico, da questo punto di vista, oltrepassa la filosofia europea del suo tempo. La  sintesi a priori di Kant e la  percezione intellettiva del Rosmini sono la maturità del problema e le sue due soluzioni. Dunque, dopo Vico Kant Rosmini, non c’è più questione sulla sinteticità dell’atto del conoscere, ma c’è, capitale e decisiva, sulla natura della forma o del principio della validità del conoscere stesso. Le forme o i princìpi sono: 4) funzioni del pensiero, o 5) sua attività creatrice, o c) dati al pensiero, suo oggetto, sapere originario? Questa la gran questione: la prima risposta differenzia Kant dall’idealismo trascendentale (seconda risposta) e la terza oppone Rosmini a Kant e all’idealismo. Come si vede, è in questione il problema della validità del giudizio: l’4 priori è oggetto della mente, o suo prodotto? Torna in discussione, in piena maturità del pensiero moderno, il problema centrale della teoria della conoscenza di S. Agostino. Le risposte kantiana ed idealistica, anche se in diversa maniera, fanno il pensiero umano creatore della verità, fondamento a se stesso: il primo ontologico è il primo conoscitivo. La risposta rosminiana, conforme nello spirito a quella di S. Agostino e della tradizione platonica, fa della verità primale il lume dell’intelletto, dono di Dio, una Sua presenza alla mente. La verità, così intesa, implica l’esistenza di Dio ed è il fondamento dell’argomentazione razionale che la dimostra. La prima risposta dice: l’uomo dà la verità a se stesso », e con ciò divinizza l’uomo e nega Dio: è la risposta atea; la seconda: l’uomo riceve la verità da Dio », e con ciò stabilisce un rapporto di dipendenza essenziale tra l’uomo e Dio: è la risposta teista. Ma la prima risposta, dopo Hegel, avanza verso uno sviluppo fa176 a Filosofia e Metafisica tale: se l’uomo dà la verità a se stesso, la verità è tutta umana »; dunque, deteologizzazione dell’uomo e della sua verità. Lo scetticismo è inevitabile e, con esso, il nullismo. Lo sviluppo è coerente: dalla negazione di Dio alla divinizzazione dell’uomo; dalla deteologizzazione dell’uomo alla sua negazione, al nulla. La parabola dell’immanentismo si conclude nell’assurdo; e la verità del teismo riemerge nella sua indistruttibilità. Non ci meraviglierebbe che qualche Don Abbondio, molto superficialmente, ci accusasse di ontologismo e pensasse a chi sa quali lontani pericoli ». È necessario intenderci sulla questione, anche perchè non ci sembra onesto che l’accusa sia lanciata, com’è stato fatto, a chi dall’errore è immune. C'è conoscenza mediata di Dio quando: @) obiectum se reddit cognoscibile per aliam realitatem quae illi est quodammodo similis; b) res cognoscitur per speciem alterius rei (cognitio rei per speciem relucentem in speculo, v. g. sensitiva). Crediamo che quanto abbiamo detto a proposito della dimostrazione dell’esistenza di Dio risponda perfettamente alle due proposizioni: a) la verità che la mente umana intuisce non è la Verità in sè o Dio, quantunque ad essa simile; 5) conosciamo Dio per l’immagine di Lui riflessa nello specchio della nostra anima senza che ci sia nota la Sua intima essenza. Immagine di Dio, dunque, che non è Dio; essa fa che Lui, pur essendo la sua natura diversa da quella della creatura, non sia un fine separato dall’uomo, come pensano anche S. Agostino e il Rosmini, ma comunicabile, per opera di Dio stesso, alla sua intelligenza e alla sua volontà, per cui l’uomo, tornando al Creatore attraverso la Sua presenza in lui, opera di Dio stesso, compie un atto che ha con Dio una relazione essenziale. Nella nostra mente 178 Filosofia e Metafisica vi è una verità primale che viene da Dio e dunque qualcosa di divino, per cui l’ente pensante è unito al Creatore attraverso l’intermediario della verità. Consegue che lo spirito che cerca la verità cerca Dio: chi pensa la verità e nella verità pensa Dio ed ha Lui come fine. In questo senso abbiamo detto che il pensiero umano è per sua natura teistico. In altri termini: la presenza immediata della verità alla mente non significa presenza immediata di Dio, intuizione della Sua essenza o contatto diretto della mente; significa solo presenza immediata della verità com’è data alla mente da Dio, e non della Verità com'è in Lui, cioè di Dio stesso. Se qualcuno ci accusasse ancora di ontologismo gli domanderemmo se esclude qualsiasi rapporto tra l’uomo e Dio, qualsiasi forma di unione, sia pure indiretta, di partecipazione, sia pure mediata. Se così, gli obietteremmo che ha separato il Creatore dalla creatura e che non incontrerà mai Dio col pensiero: se per noi il pensiero è teistico, per lui è ateistico. Certo, non vi è visione immediata di Dio nè conoscenza, nell’ordine naturale, della Sua essenza ed è errore l’ontologismo inteso come cognizione diretta di Dio; ma vi è un tipo di ontologismo  sfido l’uso della parola compromessa  diverso dall’altro, anzi di esso la confutazione, il quale non esclude l’intuizione di verità intelligibili, interiori alla mente umana, anche se in maniera oscura e confusa e poi sempre più chiara e distinta. Non si tratta d’innatismo, come abbiamo sopra chiarito, ma d’inzeriorità, di presenzialità della verità in noi e a noi, non di dato inerte gettato nell'anima come in un pozzo, bensì di energia operante, di presenza attiva e attivante il dinamismo del pensiero, da essa orientato e guidato e senza di essa inesplicabile ed incomprensibile. E interiorità della verità significa trascendenza della verità stessa. Ora, se per ontologismo s'intende intuizione o visione immediata e diretta di Dio, il nostro, ripetiamo, non lo è affatto; se, invece, si considera impropriamente e a torto on. L'esistenza di Dio 179 tologista ogni posizione filosofica che ammette verità anteriori all'esperienza e interiori alla mente che le intuisce, allora anche il nostro è ontologismo, che però non ha niente da spartire con l’altro. Infatti, per noi, di Dio vi è solo conoscenza mediata ed indiretta, per partecipazione e analogia; dunque, l’impropria qualifica ci lascia perfettamente tranquilli, perchè confortati dalla solidarietà anche di chi ci chiama ontologisti, tranne che, illuministicamente, non sostenga che l’uomo sia del tutto separato da Dio. E che noi parliamo di analogia e non di univocità nessun lettore di buona volontà può metterlo in dubbio.  Vedere »,  intuire la verità che è in noi, non è affatto  vedere »,  intuire Dio: non conosciamo la Verità in sè, ma quanto di essa è riflesso nello  specchio della nostra anima: videmus per speculum. Tra la verità in noi e la Verità in sè vi è  somiglianza»: dunque rapporto di  analogia », che esclude l’identità o l’univocità delle due nature. La mente  partecipa » della divina Verità non direttamente, ma mediatamente, attraverso l’intermediario della verità riflessavi, per cui la verità in essa non è come è in Dio: è riflesso divino senza essere Dio, che, non ora, ma d/lora vedremo facie ad faciem (!). La verità, lume e vita dell’umana mente, ha i caratteri divini della immutabilità e dell’assolutezza, ma non è Dio: è il più splendido riflesso » di Lui (?). In questo riflesso la mente vede ciò che conosce assolutamente e ciò si dice omnia in divina veritate vel rationibus acternitatis videre et secundum cas de omnibus iudicare (*). Così S. Tommaso interpreta rettamente  non ontologisticamente nè aristotelicamente  S. Agostino: l’analogia da noi stabilita tra Dio-Verità e la verità in noi è identica a quella tomista tra l’essere riferito a Dio e l’essere riferito a noi.  S. Agostino, De Trinitate, 1. XV, c. 8, n. 14. (2) S. Acosrino, De Gen. ad litteram, 1. X, c. 24, n. 40. (3) S. Tommaso, Summa contra Gentes, l. Ill, c. XLVII. 180 Filosofia e Metafisica 2.  Conoscersi ed essere conosciuti. Essenziale il problema del conoscere, ma più, quello dell’essere conosciuti; infatti, l'indagine sul fondamento metafisico della conoscenza ha rivelato che l’uomo conosce ed è capace di verità in quanto è conosciuto. Il socratico  conosci te stesso », al pari del cartesiano Cogito, va anch'esso integrato:  Conosci te stesso e saprai che sei conosciuto »; conosci te stesso e dentro di te troverai la presenza di Dio; non avrai conosciuto te stesso fino a quando non avrai trovato questa presenza. La scoperta della verità in noi, il passaggio dal suo stato implicito e oscuro, avvertito quasi come un lontano presentimento, allo stato d’intuizione chiara ed esplicita è una folgorazione, come se un fascio di luce investisse di colpo e improvvisamente la mente umana. Perciò l’intuizione della verità ci dà ad un tempo gioia e sgomento, senso di possesso e di ossequio: scopriamo in noi qualcosa che è più di noi. Nel momento che l’intelligenza è folgorata, quello della scoperta, una ricchezza la riempie e la fa folgorante: ricchezza e povertà, quella di chi è ricco per avere ricevuto in dono la ricchezza per cui è ricco ed insieme povero, in quanto è solo minimo anticipo per guadagnarsi la vera Ricchezza. Umiltà ed entusiasmo: umiltà di fronte alla verità che è divina; entusiasmo chè essa, che è più di noi, è in noi. La verità intuita è indissolubilmente della nostra mente: figlia della verità, perchè tale, la mente è partorita madre di verità, creatrice di molteplici veri. L'intelligenza è poessca; creatrice di bellezza, di bene, di giudizi veri in forme sempre nuove ed infinite. Una verità scoperta è il motivo centrale che ritorna, come in una sinfonia, variamente orchestrato nei veri che produce; c’è armonia, profonda, della intelligenza, del senso e della ragione; c’è l’unità concreta dello spirito nella luce della verità, il quale vede chiaro dove prima era buio, ha potere penetrativo e dimostrativo. La scoperta, che L'esistenza di Dio 188 è nostra, della verità ci eleva al di sopra di noi in una zona di luce, al di là della quale permane il sacro mistero di Dio: la verità che ci sovrasta rimanda ad un Mistero che ci sommerge; ma nel suo abisso presentiamo che sarà la nostra chiarezza totale e definitiva, alla quale tende la mente, dal mistero sgomenta ma dal presentimento esaltata. È il limite della filosofia totale dell’uomo integrale, quella che è mania: meraviglia, entusiasmo, follia. La verità in noi stimola, percuote, pungola, sferza, fa di chi la ama un  genio di verità . La preghiera del filosofo alla verità che lo genera e lo fa padre di veri è una sola, semplice e vera:  Signore, che sei la Verità, fa che io, nella umiltà della mia piccolezza e nell'amore per la Tua grandezza, possa essere il più pazzo dei saggi . I risultati, a cui fino ad ora la nostra ricerca ha approdato, possono essere così riassunti: 4) la mente creata e finita conosce verità immutabili e necessarie, di cui, per quanto oscura e confusa, ha intuizione originaria: le sono presenti, interiori; 2) di esse la ragione si serve per giudicare di ogni cosa; c) son queste verità che ci insegnano, quasi  maestro interiore , la presenza di Dio in noi; d) esiste la Verità, dunque, esiste Dio. Se non esistesse non esisteremmo noi stessi e non potremmo neppur dire che Dio esiste, in quanto mancheremmo di intelligenza. Degli scettici del suo tempo Aristotele scrive: somigliano più a delle piante che a degli uomini  (4); lo scetticismo, in qualunque tempo, prima o poi, finisce fatalmente per abbassare l’uomo al puro livello biologico. L'osservazione di Aristotele, profondissima, merita un breve commento. Lo scettico nega che il pensiero umano sia capace di conoscere la verità che gli compete: fatto per la verità, non la conosce; dunque il suo valore e il suo essere sono nulli. Ma l’uomo è uomo per il pensiero (intelli(I) ArisroreLE, Met., l. IV, c. 3. L'esistenza di Dio 183 genza e ragione): negare l’uno è negare l’altro, è fare che l’uomo somigli più a delle piante che all'uomo che è. Oppure: il pensiero, senza il suo oggetto naturale che è la verità, è il non-pensiero; l’uomo, che è non-pensiero, è non-uomo: un puro vegetale o un puro animale (livello biologico). Qualsiasi questione sull’uomo non ha più senso, ma appunto per ciò, non ha senso lo scetticismo, che, nel suo stesso porsi, è contraddittorio: si autonega. Non solo lo scetticismo, ma ogni posizione filosofica che nega una verità oggettiva è negazione del pensiero e dunque dell’uomo; lo è l’idealismo storicista e dialettico. Se la verità e la sua validità sono storiche, consegue che il pensiero greco è la verità  storica  dell’antichità, quello cristiano la verità  storica  del mondo moderno, ecc. Ciò significa semplicemente che l’uomo non è capace di verità e non vi è verità, perchè verità significa verità e nient'altro: nè antica nè medioevale nè moderna, ma verità  scoperta nell’antichità o nel medioevo, da greci o da italiani  valida per ogni ente pensante, una volta scoperta e acquisita al pensiero. Se la verità è dialettica e la dialetticità è l’essenza del reale, consegue ancora che niente ha essere e nulla è vero: la realtà o la verità di ciascun ente è in  rapporto al  suo contrario dove si nega e si conserva dialetticamente. Nessun ente è quello che è: è nel suo conservarsi distruggendosi; nessun ente ha una sua realtà o essenza e la verità non è tale. Noi abbiamo difeso la presenza oggettiva della verità alla mente, perchè solo così si può difendere la validità del pensiero e con essa l’uomo: perdere la verità è perdere il pensiero, è svuotare l’uomo di se stesso, della sua natura, farlo somigliante, come dice Aristotele, alle piante e alle bestie. D'altra parte, se si nega validità oggettiva al sapere umano, si nega il fondamento naturale di quello rivelato, cioè la base della fede. A chi avrebbe parlato Dio se l’ente pensante non avesse lume oggettivo d’intelletto e discorsivo potere di ra184 Filosofia e Metafisica gione ? Il suo discorso agli uomini avrebbe, in tal caso, lo stesso senso, cioè nessuno, che per le piante e le fiere; o tanti sensi mutevoli quante sarebbero le contingenti posizioni  storiche  del pensiero, o le autonegantesi sue posizioni  dialettiche j cioè ancora alcun senso sensato. 2.  La prova dalla vita morale. Fino ad ora abbiamo insistito sull’attività intellettiva, affinchè la prova non sembrasse pregiudicata da altri elementi, e soprattutto perchè qualsiasi altra possibile dell’esistenza di Dio, a nostro avviso, presuppone quella  dalla verità . Ma ora è necessario analizzare gli altri aspetti della vita dello spirito, affinchè la prova manifesti tutta la sua aderenza all’uomo nella pienezza della sua integralità e riveli intera la sua forza normale. La verità originaria presente alla mente non interessa solo la vita intellettiva, ma ogni forma della nostra attività. Anche la vita morale ha il suo fondamento nei princìpi originari che guidano, orientano e informano ogni azione, quantunque nessuna li adegui: ne sono la misura senz’essere da essa misurati. L'azione  buona  o quella  doverosa  non fanno essere bontà e dovere, anzi non vi sarebbero senza la bontà e il dovere, che invece sarebbero ugualmente anche se nel mondo non fosse e non fosse mai stata alcuna azione buona e doverosa. Possiamo concludere: non vi sono i valori morali perchè esistono le azioni che li esprimono, ma queste in quanto esistono quelli, preesistono a tutte le azioni e ne sono indipendenti. I valori morali sono innanzi tutto verità oggettive, intuite dalla mente; in questo senso, anche se  pratici , sono teoretici, regole della volontà che ad essi è obbligata a subordinarsi, e ai quali si subordina e uniforma ogni qualvolta ne  riconosce  la verità ed il pregio: è la volontà volente secondo l’ordine morale. La ragione speculativa giudica di ogni L'esistenza di Dio 185. cosa secondo i princìpi primali del giudizio; la ragione pratica di ogni azione secondo i valori morali, i quali sono verità (e come tali teoretici ) regolatrici della volontà e della nostra condotta e perciò aventi un uso pratico. Per conseguenza, come alla mente sono dati i princìpi fondamentali del conoscere, così le sono dati quelli del volere; dalla presenza in noi di verità speculative si argomenta l’esistenza di Dio come Verità in sè; dalla presenza in noi dei valori morali si argomenta l’esistenza di Dio come Valore assoluto, Bene sommo. L’argomentazione è identica a quella fatta a proposito della prova  dalla verità : la mente umana è capace di conoscere valori morali assoluti che sono la vita, la forza e l’efficacia della volontà che di essi è come la rivelatrice; essi non sono creati dalla mente o dalla volontà, nè indotti a posteriori dall’esperienza, la quale anzi li presuppone; dunque esiste Dio come Valore assoluto o assoluta Volontà creatrice di tutti i valori, di essi fondamento e sostegno. Il bene morale è anche attrattivo ; la sua  attrazione  conferisce alla prova una nuova sfumatura e rivela tutta la sua potenza dinamica. Oggetto naturale della volontà è il bene, sua verità; essa ne è attratta, anche quando lo misconosce e gli si pone contro: il pentimento del male fatto, rivincita del bene, è opera della sua forza di attrazione. Il bene è il principio motore della volontà e l’elemento informatore delle volizioni. Non c’è felicità senza bene; il suo possesso è la felicità di ogni ente spirituale; dunque il bene è il principio di ogni nostra azione. Vi è una intuizione intellettiva di esso, una presenza, che è presenza di Dio come Bene sommo; non intuizione, ma ancora immagine reale di Lui e pertanto il rapporto tra il bene intuito e Dio come Bene Sommo è sempre analogico. Intuizione operante, creatrice: conoscere il bene e volerlo è amarlo, esserne attratti; esso genera il movimento della volontà e ne concentra gli sforzi verso lo stesso fine, che non è solo il bene che l’ente 486 Filosofia e Metafisica finito può conoscere e praticare, ma, attraverso questo, è il Bene Sommo, che trascende ogni bene e lo fonda. Amare il bene è operare nel bene, che si possiede in esso operando; le azioni buone sono le risposte veraci che noi diamo all’oggetto della nostra suprema aspirazione. Solo quando il bene diventa regola costante e continua della condotta, l’ente razionale, stimolato interiormente dall’attrazione del Bene sommo, cammina e si approssima sempre più alla meta. È la saggezza, ma saggezza mossa, inquieta ed attiva, ricca ed indigente, suscitatrice di sempre nuove risposte secondo la norma regolatrice ed orientatrice. Il Bene Sommo, lume della mente e della volontà, illuminando, ama: Dio illumina ed il suo lume è amore; noi, gli illuminati, ci illuminiamo amandoci ed amando gli altri enti creati. L'amore è l’attrazione del bene; Dio è l’attrazione assoluta del Bene assoluto. Il dinamismo della volontà, alla quale è presente il bene, è originariamente orientato verso il Bene Sommo o Dio, Centro assoluto di attrazione, unificatore di tutti i suoi sforzi, che, altrimenti, sarebbero inspiegabili, inintelligibili. L’ente spirituale finito ha dunque il desiderio naturale del Bene Sommo, assolutamente ed infinitamente perfetto. 3.  La prova dal desiderio naturale di beatitudine. L’ultima proposizione è la  maggiore , se alla dimostrazione si dà la forma sillogistica, di un 'altra prova dell’esistenza di Dio, la quale si fonda pur essa su quella  dalla verità . Infatti, la proposizione  tutti gli uomini desiderano naturalmente il Bene sommo, infinitamente perfetto   non sarebbe formulabile se non avessimo la nozione del bene oggettivo; ma tale nozione non potremmo avere  non la crea la mente altrimenti l’uomo sarebbe Dio, nè si può indurre dall’esperienza la quale, al contrario, la presuppone  se non ci fosse data originariamente come oggetto intuito. Per conseguenza: ) gli uomini desiderano natural. L'esistenza di Dio 187 mente il Bene sommo solo in quanto vi è in loro la sua presenza indiretta, ma attiva ed operante; 5) il desiderio del Bene sommo presuppone dunque la nozione di esso, cioè un principio di verità. Ciò rileva  diciamo fugacemente  quanto sia errata l’interpretazione modernista di tale argomento, la quale si fonda su un presupposto agnosticismo che distrugge fin dall’inizio il fondamento oggettivo della prova; come pure quella pragmatistica, che, negato il suo valore teoretico, limita la forza dell’argomento alla sua portata pratica e volontaristica. «Tutti gli uomini cercano di essere felici; senza eccezione. Quali che siano i differenti mezzi che adoperino, tendono a questo scopo... La volontà non muove mai il più piccolo passo se non verso questo oggetto. È esso il motivo di tutte le azioni di tutti gli uomini, financo di quelli che si vogliono perdere... ; così Pascal in una delle sue Pensées. Questo desiderio di felicità, naturale ed irresistibile, è il movente della volontà che, spinta di volizione in volizione, non sa e non può arrestare il suo dinamismo se non quando fruisce del Bene infinitamente perfetto. Ma nessun bene finito può adeguare le tendenze e i desideri della volontà, il suo desiderio intimo e profondo del Bene assoluto, anzi il possesso dei beni finiti lo accresce sempre di più: la « volontà voluta  non adegua la « volontà volente , che vuole ancora e vorrà sempre fino a quando non possiederà l'oggetto della sua suprema aspirazione, come scrive il Blondel. Ma se è così, se gli uomini, anche quando si perdono, vogliono la felicità piena  quella che non rinvia  è evidente che la loro volontà è originariamente orientata verso il suo fine assoluto, cioè che è in essa la presenza di quel Bene sommo a cui aspira. Si può dire con Agostino: qualsiasi cosa l’uomo cerchi e voglia, cerca e vuole Dio. C’è al fondo del desiderio naturale di beatitudine il bisogno di fedeltà ad un bene a cui si può restare sempre fedeli perchè assoluto: l’infinita capacità di 188 Filosofia e Metafisica volere trova in esso il suo oggetto adeguato, la volontà realizza il piano di se stessa. Venir meno a questa fedeltà è la caduta dell’uomo al disotto dell’uomo. Vi è un dramma essenziale alla radice della volontà: vuole con tutta se stessa il Bene assoluto e sa che anche la fedeltà e l'impegno al massimo della loro forza normale non la garantiscono dalla caduta, nè bastano ad ottenere da soli la beatitudine; ma sono la condizione indispensabile perchè essa resti conforme alla sua norma e non evada dalla sua partecipazione finale. Infatti, orientare tutta la capacità della volontà volente verso un voluto finito è atto innaturale, è la guerra della volontà contro se stessa, contro il suo desiderio naturale del Bene infinito; è il male, in quanto, dato che il desiderio di infinito è indistruttibile, l’infinita capacità di volere, concentrandosi in un finito, lo assolutizza, non lo riconosce per quello che è. Così l’aspirazione all’infinito, teista e religiosa, degrada in idolatria e fanatismo. È il sovvertimento: dir vero al falso per aver detto falso vero. L'autenticità della natura umana è perduta fino a quando, caduto l’idolo, l’orientamento genuino della volontà non riprende il suo corso naturale e non si eleva al vero livello umano di desiderio naturale di beatitudine in Dio. Ma l’esigenza, come la pura esperienza vissuta, non basta e, se puramente psicologica, non è dimostrativa. Rispondiamo: 4) qui si tratta di un’esigenza naturale, essenziale ed universale dello spirito e, come tale, dell’essere umano; 5) i dati psicologici non sono illusioni ma realtà psicologiche; c) l’esperienza interiore, per il fatto che è tale, è più vera di qualsiasi esperienza esteriore; d) non ci troviamo di fronte al puro dato psicologico nel senso ristretto e soggettivistico del termine, ma alla vita dello spirito, che è un dato reale e all’intuito fondamentale del bene, oggetto della mente. Ora, il dato psicologico che qui consideriamo  tutti gli uomini desiderano la felicità piena e dunque tutti aspirano al Bene L'esistenza di Dio 189 sommo, il solo che possa appagare questo loro naturale desiderio o essenziale esigenza  oltre che indicativo di una condizione reale, è anche aztestativo o testimoniante, in quanto quella condizione sarebbe inesplicabile senza la nozione o la presenza interiore del Bene sommo, inquietudine e movimento della volontà, verso cui è attratta in un dinamismo che in questo scopo unico ed assoluto trova la sua direttrice essenziale e la sua unità totale. Ma proprio nella indicatività e attestazione della condizione reale è il fondamento della dimostrazione razionale che giustamente si esige; non vi potrebbe essere nella volontà la presenza creatrice di tanta vita spirituale ed orientatrice di ogni desiderio ed azione, se non esistesse il Bene sommo, a cui la volontà stessa aspira. In breve: non vi sarebbe nell’uomo desiderio di Dio, se Dio non esistesse. L’ indicatività  dell’esigenza, chiarita, approfondita e colta nella condizione naturale dell’ uomo, si rivela fondamento oggettivo della dimostrazione razionale. Ma se è così, anche se il desiderio di Dio si manifesta per ultimo, anche nel caso che non si manifestasse affatto, esso è ugualmente il motore interiore di tutto il dinamismo della vita spirituale: senza questa originaria  presenza della trascendenza  (dell’Al di là interiore e trascendente) l’uomo sarebbe privo di ogni segno di Dio perchè da nient'altro potrebbe riceverlo o ricavarlo. Giustamente San Tommaso nota che il desiderio naturale e necessario del fine ultimo o del Bene sommo non è una inclinazione incosciente, contingente e transitoria della volontà, ma un’inclinazione consapevole, che ci porta verso il bene, non della sola volontà, ma di tutto l’uomo (7). Gli altri desideri non sono che in funzione dell’appagamento del desiderio essenziale e fondamentale della beatitudine, cioè del possesso del Bene sommo (5); dunque, (2) S. Tommaso, De veritate, 22, 3, ad 5 m. (3) Qui non si confondono affatto Bene e felicità, Valore e beatitudine: l'aspirazione alla felicità non significa volere il Benc per la felicità. Se fosse possibile pensarlo senza contraddizione, si potrebbe dire ed è stato detto dai mistici, 190 Filosofia e Metafisica la spiegazione di tutto il movimento della volontà va cercata in questo  implicito essenziale , sua unità primitiva, di cui le singole azioni non sono che l’esplicazione parziale e a cui tendono tutte come alla suprema unità finale. Il bene infinito a cui la volontà tende è la ragione per cui vuole gli altri beni: come l’oggetto della intelligenzaè il Vero assoluto, così l'oggetto della volontà è il Bene sommo. L'ente spirituale è capace di desiderare l’Infinito e perciò è vita perenne e dinamismo ascendente. Dinamismo verticale e non orizzontale, che è di ordine fisico o biologico e non di natura spirituale; la dinamica dello spirito è processo di trascendenza reale e non apparente o spuria, quello che si mantiene sempre allo stesso livello, e non ascende, che guarda  avanti  e non in alto , avanza ctelluricamente  verso ciò che è più ir /è e non sale  iperuraniamente  verso quello che è 42 di lè. Noi abbiamo perduto il senso profondo ed autentico dei termini più pregnanti e perciò più ricchi ed espressivi della nostra vita spirituale, quali quelli di dinamismo, ascesi, trascendenza, ecc., corrotti dall’uso immanentistico, e perciò naturalistico, che li ha depauperati, depotenziati, detonalizzati. Un dinamismo che non è mosso ed alimentato da un fine che lo trascende è agitazione inconcludente ed arrovellamento disperato; una trascendenza come posizione provvisoria di un che che sarà immanentizzato è appiattimento dello spirito nell’orizzontalità del livello terrestre e perciò negazione del suo slancio ascendente alla trascendenza vera. Chi dice che noi, tendendo all’infinito, lo  realizziamo  nel nostro stesso tendere e lo  coe come espressione mistica non è contraddittoria) che la creatura è disposta a soffrire tutte le pene anche eterne, in vita e dopo la morte, pur di fruire del Bene sommo. Pertanto il desiderio di beatitudine Jo è del Bene assoluto in sè, anche se tale possesso dovesse comportare l'eterno dolore; ma, senza che la creatura si preoccupi della propria felicità, il Bene sommo per se stesso voluto è già tutta la beatitudine dell’ente creato. In altri termini, il desiderio naturale di beatitudine, se il possesso del Bene esigesse tutta la nostra infelicità possibile, sarebbe ugualmente desiderio di beatitudine e felicità. L'esistenza di Dio 198 struiamo  nel nostro divenire, dice cosa che non ha alcun senso e, degradando l’infinito alla nostra finitezza, degrada noi al livello della fisicità e ci assimila alle cose. Il Gott-imwerden di Hegel è un'espressione senza senso, in quanto usa il termine Dio e dice di Lui cosa che Lo nega, contraria alla Sua natura. Dio non è un fine che  produce  l’uomo  ed è ridicolo che lo possa produrre  ma un fine a cui l’uomo  tende  e può  attingere ; e ogni fine a cui  si tende  e che si vuole  attingere  presuppone precisamente l’esistenza del fine desiderato. Dio, dunque, a cui ogni uomo tende, è la Mente che è Verità, la Volontà che è Bene assoluto: è la Persona assoluta, fondamento di ogni vero e di ogni bene e perciò essenzialmente e perennemente creatrice. Il Bene sommo trascendente è appunto il fine adeguato dell'umano naturale desiderio di beatitudine. Sia, tutti gli uomini desiderano naturalmente il Bene sommo; ma potrebbe darsi che, desiderandoio, tendano a qualcosa di inesistente e impossibile. Abbiamo già risposto a questa obiezione, la cui forza è puramente apparente, in quanto, dimostrato che tutti gli uomini desiderano naturalmente il Bene sommo, è provato anche che il loro desiderio naturale non può essere vano, proprio perchè naturale. Omne agens agit propter finem (*), e non vi è desiderio naturale che sia privo del suo oggetto, in quanto un desiderio naturale senza l’esistenza dell'oggetto proporzionato sarebbe contraddittorio ed inintelligibile: una potenza senza il suo atto, nel linguaggio tomista. Per conseguenza, come argomenta Campanella, se Dio non fosse, l’uomo non potrebbe avere il desiderio dell’Infinito, in quanto la mente finita non potrebbe eccedere il mondo nelle sue appetizioni; se lo eccede è perchè l’Essere infinito dà fondamento a questo suo desiderio; dunque esiste il Bene sommo, infinitamente per- fetto, nostro fine supremo e beatitudine. Il bene per sua (4) S. Tommaso, Summa contra gentes, }. III, c. 2. 192 Filosofia e Metafisica natura tende a comunicarsi; Dio, Bene sommo, è massima- mente diffusivo, Attività creatrice, da e per cui è ogni bene creato, di Lui debole immagine. Ma per quel che è di bene è reale, ordinato ad un fine, che è il principio ed il fine del suo movimento (7). Ma anche la prova dal desiderio naturale di beatitudine ‘presuppone l’altra  dalla verità , senza l’intuizione della quale non vi sarebbe in noi il desiderio del Bene sommo, in quanto l’uomo non sarebbe creatura intelligente. Dio, creandomi ente intelligente, mi dà quanto è necessario che io abbia per essere tale; la verità a me interiore fa che la mia vitaintellettiva resti sempre sotto la dipendenza divina: cammino sulle orme di Lui e dunque su una via già se- gnata ed orientata; perciò Dio è anche il fine ultimo della mia volontà. Nessuna verità finita può soddisfare la mia intelligenza e nessun bene creato il desiderio infinito della mia volontà; io ho avuto quanto basta affinchè la nostalgia della  patria  sia invincibilmente impressa nella mia vita spirituale e ne segni la  via : et irrequietum est cor nostrum donec requiescat in te (6). L’autocoscienza o la consapevolez- za di quel che sono è insieme coscienza di me o dell’io e di Chi o del Tx che trascende; sapere me è sapere che Dio è; ed è amarLo. L’autocoscienza profonda, sapersi fino in fondo, involge la coscienza dell’esistenza dell’ente finito e quella dell’Essere infinito. L’autocoscienza kantiana ed idealistica, invece, è coscienza di me come trascendentalità o unità delle forme trascen- dentali. Per conseguenza: è coscienza di me vuoto (le forme a priori in sè sono vuote) o di me piero, ma del contenuto dell’esperienza, delle cose, a cui è limitata l'applicazione va- lida delle forme. La trascendentalità, com’è definita da Kant, (5) Il desiderio naturale di beatitudine, come scrive il Blondel, sebbene spesso ciò si dimentichi,  sostiene e comanda ogni speculazione filosofica sul mondo, sull’umanità e sul loro destino  (Le problème de la philosophie catho- lique, Paris, 1928, p. 161). (6) S. Acostino, Confess., L I, c. 6, n. 1. L'esistenza di Dio 193 non può mai riempirsi di Dio e perciò l’autocoscienza tra- scendentale non può mai trascendere il mondo, non è mai coscienza di me e di Chi mi trascende. L’idealismo trasforma l’Io trascendentale kantiano in entità metafisica per cui, da un lato, elimina il concetto di noumenicità (non vi è la cosa in sè come pensabile), e dall’altro, dato che l’As- soluto è lo stesso Io trascendentale, lo identifica coerente- mente con l’unità del mondo. Così l’autocoscienza resta pri- gioniera della trascendentalità e lo spirito, tutto, si assimila alla natura: l’immanentismo è cosmismo assoluto. L'uomo muore nella trascendentalità: il suo desiderio naturale di beatitudine è compresso e soffocato; il suo fine ultimo è il mondo, il suo unico amore la terra. Dio è morto e, con Lui, l’uomo. Da quanto abbiamo detto, appare evidente che la prova  dalla vita dello spirito  non è riducibile nè a quella onto- logica nella forma di Sant’ Anselmo e nelle altre che ha rice- vuto nel corso della storia della filosofia, nè alla prova cosmologica, di cui la più chiara ed esatta formulazione sono le  cinque vie  di S. Tommaso. Non è riducibile, ma non ne esclude alcuna, anzi le include e, a nostro avviso, dà loro più forza, perchè di esse è il fondamento. Sarebbe quanto mai opportuno, ma non rientra nei limiti della nostra indagine, un esame approfondito delle due prove ontologica e cosmo- logica, nelle diverse e pur simili formulazioni che hanno avuto, in rapporto a quella da noi sostenuta; mostrerebbe come esse, in molti punti concordanti e convergenti, sono riducibili in fondo ad una sola. Qui ci limitiamo a qualche osservazione, che giova a chiarire quanto abbiamo scritto.  La prova ontologica. È la più accanitamente difesa e combattuta, ma resiste sempre; non si tratta di respingerla o accettarla integralmen- te, ma di bene intenderla e soprattutto di integrarla. Infatti, se essa presuppone la prova  dalla verità , tipica di S. Ago- stino, ci sembra impossibile non riconoscerla vera, in quanto, in tal caso, muovendo dalla realtà della vita spirituale, vien meno la forza della principale obiezione: impossibilità L'esistenza di Dio 195 di dedurre dall’idea di Dio la sua esistenza, di passare dal- l’ordine del pensiero a quello della realtà. A nostro avviso, l'argomento di Anselmo presuppone la dottrina agostiniana della verità e va inteso all’interno di tutto il suo pensiero. I sostenitori della prova ontologica, S. Anselmo e S. Bo- naventura sicuramente, sono preoccupati del fatto che, se la nozione di Dio non è in noi, non può in alcun modo essere indotta dall’esperienza delle cose finite. Ciò significa: se non è presente alla mente e da essa interiormente intuita la ve- rità, fondamento di ogni vero particolare e modo come Dio può essere in noi, non è possibile all'uomo partecipare del suo Principio: senza una verità originaria che illumina la mente, egli non è capace di verità e di argomentare secondo verità; di pensare e pensare Dio. Ma ciò più che dall’Idea di Dio, come chiariremo tra poco, è partire dal fatto del pensare: è un fazto che la mente conosce verità aventi i caratteri divini della necessità, dell’immutabilità e dell’assolutezza; un fazto che essa non le crea e non le riceve dalle cose finite e contingenti; dunque esiste Dio come Verità in sè, da cui deriva la verità che è in noi. Intuire l’idea di Dio è possibile in quanto si intuisce la verità in noi, quella di cui Egli ci ha fatto partecipi e che è presenza di Lui; verità illuminante e operante, tanto è vero che le operazioni della ragione (il giudizio e la dimostrazione) sono possibili in quanto presuppongono quel lume di verità che è anche lume di bene, che alimenta il movimento della volontà e fa che sia desiderio ed amore del Bene sommo. Se teniamo presente la formulazione agostiniana della prova  dalla verità  nella forma sillogistica in cui l'abbiamo enunciata, la minore  la mente umana intuisce verità immutabili e assolute, ad essa superiori   implica l’esistenza di Dio, cioè della Verità in sè: non vi potrebbe essere verità presente alla mente e ad essa superiore se non esistesse la Verità. Abbiamo avuto cura di dimostrare che non c’è verità semza un pensiero che la pensa e che, d’altra parte, 19% Filosofia e Metafisica non c’è pensiero senza verità: nell’uomo vi è verità, dunque egli è un ente pensante; privo della verità cesserebbe di esserlo. Per conseguenza: esiste un pensante, dunque, esiste Dio, Pensiero assoluto creatore di ogni ente pensante. Certo, per analisi, posso distinguere e distinguo tra il pensare e la verità oggetto della mia mente, ma, in concreto, il pensare, perchè tale, involge già la verità e questa il pensiero di cui è oggetto; dunque concretamente io esisto come essere pensante la verità e pensante per la verità: l’una aderisce all’altro e sono inscindibili. Perciò la prova  dalla verità  non muove da un possibile, ma dall’ente pensante, dall’uomo. D'altra parte, la verità oggetto della mente e per cui la mente è mente, non ha la sua sussistenza nell’ente pensante che la pensa, in quanto questo è finito e contingente e quella infinita e necessaria; dunque, pensata dalla mente, le è superiore. Di qui la necessità che esista il Pensiero infinito, necessario e assoluto, Soggetto sussistente della Verità, che con esso s’identifica. Nell’ente creato la verità non scindibile dalla mente è suo oggetto, da nessuna cosu creata adeguato; perciò l’unità non significa anche identità; nell’Ente increato Pensiero e Verità s’identificano. A noi sembra che l’argomento ontologico di S. Anselmo vada inteso tenendo presente quanto già detto. Egli muove dall’idea di Dio come  l’essere di cui non si può pensare nulla di maggiore ; tale idea importa innanzi tutto che sia pensata, cioè che vi sia una mente che pensa; ma non vi può essere pensiero senza presenza di verità; dunque l’idea di Dio importa l’esistenza di un ente pensante e, come tale, dotato di verità. Per conseguenza, la presenza alla mente dell’idea di Dio presuppone l’esistenza dell’ente che è pensiero ed è tale perchè in lui è presente la verità; l'argomento ontologico presuppone la prova  dalla verità . Una sarebbe la difficoltà, che non è alcuna di quelle prospettate da Gaunilone, S. Tommaso e Kant: come fa l’uomo a pensare Dio? ad averne un’idea vera? In fondo, l’ateo nega Dio per-. L'esistenza di Dio 197 chè nega che si possa averne un’idea vera; se lo si convince che l’idea di Dio è presente alla mente e che perciò negarne l’esistenza è contraddittorio, si arrende 0, se non altro, si dispone a ragionare secondo verità. Dunque, superata la difficoltà di come l’uomo abbia l’idea di Dio, la prova è imbattibile, in quanto basta pensare Dio per pensarlo esistente. L’alternativa che pone l’argomento ontologico è la seguente: o si pensa Dio o non Lo si pensa; se lo si pensa, Dio esiste. L’ateo Lo nega perchè non pensa a Dio nel momento che Lo nega: la sua mente è fuori di se stessa. Dunque, ripetiamo, se Dio si pensa, esiste; ma per il fatto che la mente Lo pensa, le è presente la verità e con essa l’idea di Dio. Ancora: se Dio è l’essere di cui non si può pensare nulla di superiore, la mente, nell’atto che Lo pensa, riconosce che le è presente qualcosa che è superiore ad essa, e ad ogni cosa esistente o pensabile; per conseguenza conclude (l’argomentazione è identica a quella della prova  dalla verità ) che esiste l’Essere assoluto. La verità presente alla mente le aderisce, come già detto, per cui non c’è mente senza verità e verità che non sia oggetto di una mente. L’idea di Dio, in S. Anselmo, va intesa allo stesso modo: in concreto, c'è l’uomo pensante Dio e l’idea gli appartiene come qualcosa che fa parte della sua natura; non il pensiero e l’idea di Dio, ma il pensiero che pensa Dio. Così intesa, la prova perde quel carattere concettuale ed astratto che, a prima vista, presenta e acquista tutta la sua concretezza: non muove dall’idea di Dio, ma dall’ente pensante Dio, dal pensiero cui aderisce la verità, connaturata, nell’atto creativo, alla creatura umana. Bisogna ancora notare che nei sostenitori dell’argomento ontologico c'è un’altra preoccupazione legittima, quella di dimostrare l’esistenza di Dio, ma del Dio cristiano, cioè dell’Essere che è Pensiero e Volontà, Verità e Bene creatore, Verità illuminante ed Amore. In altri termini, il Dio di cui 198 Filosofia e Metafisica si dà la prova deve soddisfare non solo le esigenze della ragione ma anche quelle della fede, dato che Egli è l'oggetto proprio della religione e della coscienza religiosa. Per il filosofo cristiano, il problema dell’esistenza di Dio si pone in questi termini: è razionalmente dimostrabile l’esistenza del Dio a cui si crede per fede? Quale il fondamento razionale della fede in Dio Padre, Creatore, Amore, Provvidenza? Per lui, senza che la fede abbia a pregiudicare la razionalità della dimostrazione, non si tratta solo della ragione, ma del suo uso cristiano, cioè della ragione posta a servizio della fede; dunque di dimostrare non l’esistenza di un Dio Causa prima non causata del divenire, Legge dell’Universo, come quello aristotelico, ma di Dio Padre Creatore ecc., Spirito o Persona Assoluta. Posto così il problema, il punto di partenza dell’argomentazione ha una grande importanza: bisogna partire da un ente che contenga tutti gli elementi per concludere a Dio come è creduto per fede e poi anche conosciuto esistente per ragione. Sant'Anselmo su questo punto è molto esplicito, all’inizio: Ergo, Domine, qui das fidei intellectum, da mihi, ut quantum scis expedire intelligam, quia es sicut credimus, et hoc es quod credimus (Proslogion, c. II); e nella conclusione della sua dimostrazione: Gratias tibi, bone Domine, gratias tibi quia quod prius credidi te donante, iam sic intelligo te illuminante, ut si te esse nolim credere, non possim non intelligere (Proslogion, c. IV). È qui il punto: la mente intende Dio perchè Egli, la Verità, la illumina facendola partecipe di verità, di quelle che rendono valida la discorsività razionale. In questo senso è vero che, se Dio non fosse originariamente a noi interiore, non potremmo mai dimostrarne l’esistenza, non saremmo neppure enti intelligenti e per conseguenza neanche razionali. Ma, oltre a ciò, ripeto, resta l’altra preoccupazione testè notata: chi parte dal mondo fisico rischia di non incontrare il vero Dio  quello in cui si possa credere, che si possa L'esistenza di Dio 199 pregare, adorare, sentire vivente nel cuore di ogni uomo  ma un Principio impersonale, una Causa cosmica, una Legge suprema della natura, come capitò ad Aristotele, il filosofo di un deismo ante litteram e non del teismo. Ciò spiega perchè San Tommaso, filosofo cristiano, pur essendo aristotelico, ha trasposto il pensiero del filosofo pagano in termini di pensiero cristiano; e perciò, nello spirito, non è aristotelico. Di qui il pericolo, se ci si ferma alla scorza aristotelica del suo pensiero e non se ne rivive la profonda ispirazione cristiana di origine agostiniana, di essere cristiani di fede, ma aristotelici  e dunque non cristiani  di -pensiero, cioè dei piissimi... atei. Invece, chi muove dalla vita dello spirito nella sua integralità, se riesce nella prova, dimostra il Dio che è Mente e Volontà creatrici di spiriti e di menti, Verità e Libertà creatrici di verità e di libertà a loro volta creatrici; questo Dio si può pregare, adorare, sentire nel cuore. D'accordo: si tratta di partire da un dato positivo di esperienza su cui esercitare la riflessione; perchè non può essere la nostra vita spirituale? la nostra esperienza interiore più ricca di ogni altra? Forse lo spirito e l’esperienza interiore, la realtà umana, non sono dati positivi? Ma proprio l’esperienza interiore e la vita tutta dello spirito sono intelligibili per il lume interiore di intelligibilità che le fa tali, per la verità presente alla mente, immagine di Dio, da Lui data. Da e per questa, e solo in quanto essa c'è, la ragione argomenta che Dio esiste; rapporto di somiglianza e analogia, razionalmente corretto e perfettamente ortodosso. Se l'argomento ontologico è inteso nel suo nucleo di verità ed in stretto legame con la prova  dalla verità , da esso presupposta, perde le sue apparenze di astrattezza e di argomentazione dal puro dato concettuale. Inserito nella realtà della vita spirituale non è più raggiunto dalle obiezioni di Gaunilone o di S. Tommaso, il quale non nega la presenza in noi delle verità prime che, anche se è necessaria l’esperienza per acquistarne consapevolezza (vengono 200 Filosofia e Metafisica dopo cronologicamente ), non sono date dall’esperienza sensoriale. Così impostato, l'argomento ontologico è di un’evidenza fuori discussione derivantegli dall’identità in Dio di essenza ed esistenza (!). La stessa affermazione che nell’essenza di Dio è contenuta l’esistenza ha un significato più che altro chiaritivo ed esplicativo; in effetti, non è che nell’essenza di Dio è contenuta la Sua esistenza, bensì che la Sua essenza è necessariamente la Sua esistenza. Non essendo Dio ricevuto in alcuna essenza specifica, come abbiamo detto sulla scorta di Tommaso, perchè la Sua stessa essenza è l’atto di essere  o il suo atto di essere è costitutivo dell’essenza  consegue ancora la identità perfetta di essenza ed esistenza. Dire che a Dio è necessaria l’esistenza significa che l’esistenza è identica alla Sua essenza, che non è alcuna specifica essenza; in breve, Egli è la Verità che è Verità, l’Essere che è l’Essere e non può non essere l’Essere: è l’Esistente. Chiaro che l’identità di essenza ed esistenza vale soltanto per Dio e non per l’isola beata  di Gaunilone o per i cento talleri di Kant; isola beata, talleri e ogni altra cosa non possiedono l’esistenza in e da sè e perciò dipendono dall’Essere che è l’Esistenza, da Dio l’Esistente assoluto. La derivazione, nell’argomento ontologico, dell’esistenza dall’essenza serve per convincere la nostra mente, a cui Dio non è evidente per se stesso, con la forza del ragionamento;DI cioè è necessaria per la nostra mente finita, ma in Dio (I) Com'è noto, pur ammettendo l’identità in Dio di essenza ed esistenza, S. Tommaso critica l'argomento ontologico anselmiano: accetta le premesse, ma nega la conclusione, non accorgendosi che è impossibile perchè contraddittorio. S. Tommaso concede che l’Essere perfettissimo non può essere concepito senza essere concepito esistente, ma aggiunge che ciò significa che esiste solo in intellectu e non in rerum natura. L’obiezione non ha alcuna forza: l’Essere perfettissimo, che non può non essere concepito che come esistente, per ciò solo esiste. Il passaggio dall’ordine dell’idea a quello dell’esistenza è richiesto da tutte le altre cose, che possono essere concepite esistenti e non esistere affatto în rerum natura perchè non perfettissime, tranne che da Dio, in quanto solo in Lui, come S. Tommaso ammette, essenza ed esistenza s’identificano. L'esistenza di Dio 201 non si può parlare di derivazione alcuna per la identità di essenza ed esistenza. Se c’è identità, come si dice che dalla essenza deriva necessariamente l’esistenza  e per la mente finita non può essere diversamente in quanto nello stato naturale non le è presente Dio com'è in sè  così si può. dire, ma non più rispetto a noi, che dall’esistenza deriva la Sua essenza. In verità, non c’è derivazione: Dio è lo Essere che è l’Essere, identità assoluta di essenza ed esistenza come di esistenza ed essenza. Ciò posto, possiamo dire che per Dio dall’essenza segue l’esistenza; per ogni altro ente dall'esistenza segue l’essenza, ma tutti gli enti che non sono Dio ricevono l’esistenza, non la  pongono , non esistono da sè. Solo in Dio, posta l’essenza, segue l’esistenza; meglio, posta l’essenza, è posta con essa l’esistenza, perchè Egli è atto di se stesso; dunque non Lo si può concepire senza concepirLo esistente: l’esistenza non si aggiunge, è nella Sua essenza. Ma, se è necessario per Dio che dall’essenza segua l’esistenza, è necessario per ogni altro ente che dall’esistenza segua l’essenza, cioè non può concepirsi esistente senza concepirlo con una sua essenza. È qui la forza della prova cosmologica: partendo dalle cose, non possiamo non muovere dalla loro esistenza, cioè da ciò che non è contenuto nella loro essenza; ma appunto perchè non sono atto di se stesse, pongono il problema del principio del loro esistere. D'altra parte, non la sola loro esistenza lo pone, ma l’esistenza contenente una essenza, un ordine, una  verità ; dunque, pongono il problema del loro principio non in quanto soltanto esistenti, ma in quanto esistenti con un'essenza o essenze esistenziate. Per conseguenza, l'argomento dalle cose contingenti si riallaccia a quello  dalla verità , come, del resto, l’argomento ontologico, il quale, a differenza di quello cosmologico, che non può non partire dall’esistenza delle cose, non può muovere che dall’essenza o idea di Dio, la sola che contiene necessariamente l’esistenza. Da ultimo notiamo che l’argomento anselmiano con202 Filosofia e Metafisica tiene un altro elemento di verità, del resto, già da noi evidenziato: mettere l’ateo di fronte al senso dell’affermazione Dio non esiste . Che Dio non esiste si può dire e l’ateo lo  dice ; ma ha un senso questa espressione verbale e le si può dare l’assenso? S. Anselmo dimostra che quel che dice l’ateo non ha senso, e per questo è insipiens, non sa quello che dice : parla di Dio, ma  pensa  ad altro, manca della vera nozione. Non perchè non ce l’abbia, ma perchè egli non è presente a se stesso, è fuori della sua vita spirituale e perciò della verità: i suoi giudizi non possono essere che da insipiens, della ragione sensitiva non della ragione intellettiva. Che Dio non esista non si può neppure pensare (Proslogion, cap. III), perchè non ha senso pensare come non esistente l’Essere di cui non si può pensare nulla di maggiore, perchè pensandolo non esistente mon si pensa più a Lui, ma ad un qualsiasi altro ente che si può pensare senza pensarlo esistente appunto perchè non è l’Essere di cui non si può pensare nulla di maggiore. L’ateo, in realtà, nel momento che nega Dio, pensa a un altro ente. Ciò prova ancora che l’esistenza di Dio non è una verità immediata nota a noi per se stessa e perciò è bisognosa di dimostrazione, ma non perchè manchi in noi la nozione primitiva di Dio {e dunque l’appoggio della dimostrazione debba essere cercato nel dato sensibile), ma perchè possiamo allontanarci da noi stessi e dalla luce interiore, essere assenti a noi,  fuori di noi , lontani dal sapere intellettivo ed immersi nel conoscere sensitivo. La dimostrazione occorre non perchè manchi in noi la presenza di Dio, ma perchè non c’è immediata nè sempre attuale consapevolezza di Lui. Se l’ateo riflettesse su quello che  dice  non potrebbe  pensare  che Dio non esiste nè assentire  alla sua affermazione negativa, in quanto, incontrandosi con se stesso e con la verità che è in lui, si incontra con Dio. L'argomento ontologico manifesta chiaramente la sua origine agostiniana, da dove trae forza. Esso è anche valido negativamente: dimostra assurda. la negazione dell’esistenza di Dio, cioè nega che abbia valore L'esistenza di Dio 203 razionale la proposizione  Dio non esiste , che l’insipiens pronunzia in cuor suo (?). 2.  La prova cosmologica. Ci siamo più di una volta richiamati alla prova (alle prove) cosmologica o a posteriori dell’esistenza di Dio, anch’essa vera se riportata a quella  dalla verità . L’argomentazione  vi è il moto nelle cose; ciò che è mosso è mosso da altro (quidguid movetur ab alio movetur); la serie causale non può procedere all’infinito; dunque esiste un Primo Motore, qui ipse est immobilis  prima che di S. Tommaso (I via) è di S. Agostino, il quale a più riprese formula l’argomento cosmologico. Ma lo stesso Agostino la riduce a quella  dalla verità  per il motivo che la prova, la quale parte dai dati sensibili, dipende da alcuni elementi intelligibili non derivati e non derivabili dall’esperienza, quelli che le conferiscono validità oggettiva; dunque, non (2) E’ nota la critica di Kant all'argomento ontologico: 4) l’idea di un oggetto non contiene la sua esistenza; essa dice solo che esso è possibile, perchè non implica contraddizione; £) l'esistenza può essere aggiunta solo dalla esperienza, cioè 4 posteriori (sinteticamente) ed è indeducibile dall’essenza (analiticamente); c) perciò, se l’esistenza, anche nel caso dell'idea di Dio, va aggiunta dall'esperienza, consegue che essa non fa parte dell'essenza o idea; dunque toglierla o aggiungerla non diminuisce nè accresce il contenuto dell’essenza; d) pertanto, anche negandogli l’esistenza, l’idea o l'essenza di Dio non perde alcuna perfezione. In altri termini, l’esistenza non è un predicato e dunque il contenuto del concetto di un oggetto resta quello che è sia che esista o non esista. Ciò conferma che l'esistenza di un oggetto pensato non può essere dedotta dalla sua essenza, ma è aggiunta dall'esperienza nel caso che questa la fornisca; ma l’esperienza non fornisce affatto l’esistenza di Dio e pertanto non è possibile dimostrare che Egli esiste fondandosi sui princìpi speculativi della ragione, senza che ciò impedisca che Dio venga pensato come l'Essere perfetto di cui non si può pensare nulla di maggiore, appunto perchè, avere o non avere l’esistenza niente aggiunge e toglie all'idea di un oggetto. Kant considera Dio alla stessa stregua degli enti finiti per i quali vale la distinzione di essenza ed esistenza, senza senso per Dio, che è identità di essenza ed esistenza; infatti, l'affermazione di Anselmo, che l’idea di Dio involve necessariamente l'esistenza vale solo per Lui, per l’ente di cui non si può pensare nulla di più grande. Kant non si accorge (il paralogismo è suo) che quando afferma che dall’idea di Dio non si può dedurre l’esistenza, la quale dunque dovrebb'essere aggiunta, non parla più di Dio, in quanto non parla dell’essere di cui non si può pensare nulla di più grande: quando critica l’argomento onto204 Filosofia e Metafisica possiamo ascendere dalle cose sensibili a Dio senza appoggiarci alla Verità interiore. Esatta l’affermazione di S. Tommaso che la prova deve avere il suo punto di appoggio in un dato reale e non in una pura entità concettuale, ma il dato reale primo non è il sensibile, bensì la realtà spirituale e quanto in essa è implicitamente presente. Per esempio: esistono cose che hanno un certo grado di perfezione; ciò indica che esiste il perfetto del quale partecipano le perfezioni finite; dunque esiste Dio Perfezione assoluta (IV via). Esatto, ma come può il soggetto conoscere, misurare, il grado di perfezione delle cose, se non intuisce la perfezione, se non ha in sè la misura con cui misura? In altri termini: non potrei dire questa cosa ha un grado di perfezione  se non fossi illuminato dalla perfezione, cioè se non fosse interiore alla mia mente una nozione di essa, che le cose possono anche esplicitare, ma non mi possono dare. La proposizione le cose hanno un grado di perfezione  è un giulogico non pensa a Dio, e perciò è insipiens, non sa quello che dice. L'idea di Dio è qualcosa che non posso dire soltanto presente in me senza contraddire a quello che penso; secondo un’espressione del Bertini, il concetto di Dio è un concetto reale, cioè implicante la realtà del suo oggettoTutta l’argomentazione di Kant è errata sostanzialmente. La sua affermazione: sia che Dio esista o no, nulla si toglie o si aggiunge alla sua perfezione, vale per l’ente finito, ma non ha alcun senso per Dio, in quanto, data l'identità di essenza ed esistenza, non ha senso parlare di togliere o di aggiungere a Diol’esistenza. Ne ha solo uno: togliere a Dio l’esistenza non significa lasciargli tutta la sua perfezione, ma negarlo senz’altro, in quanto l’esistenza è la sua stessa essenza; dunque, negata la prima, è distrutta l’altra e anche l’idea. Così resta confermato che se Dio non esistesse l’uomo non potrebbe pensarLo e lo stesso ateo che  pensa  di negare Dio, può farlo perchè Egli esiste. Negare Dio è ancora negare l’uomo come ente pensante; ma l’ente pensante esiste e pensa Dio, dunque Dio esiste. Ma le critiche che Kant muove all’argomento ontologico e agli altri hanno, in fondo, un'importanza secondaria nel suo sistema, cosa a cui forse non si è badato abbastanza. Ci spieghiamo: è l’impostazione della Critica che in partenza nega l’esistenza di Dio o almeno non può più giustificarla; le obiezioni alleprove tradizionali, tutte paralogismi, sono chiamate a coonestare i presupposti del sistema. Quando Kant ha ammesso che le forme valgono solo nei limiti della esperienza c pertanto il pensiero trova il suo oggetto adeguato nei contenuti finiti dell'esperienza stessa o in quel contenuto finito che è il reale nella sua totalità, e che le idee  non sono conoscenze ma pure  condizioni  del conoscere il. % cui contenuto dovrebbero ricevere dall’esperienza (e Dio non è oggetto di espeL'esistenza di Dio 205 dizio: come potrei giudicare se non possedessi i princìpi del giudizio a cui conformare ogni giudizio? Ma con ciò oltrepasso i corpi e anche me stesso, in quanto quella verità primale è più di me, misura anche la mia ragione e la mia intelligenza. Scoperta essa, ho scoperto che Dio esiste non  dalle cose , ma in quanto mi sono elevato da esse alla verità che è in me e da questa a Dio: dall’esteriore all’interiore e dall’interiore al Superiore. Quella cosmologica è una via anch'essa, ma più lunga; l’altra  dalla verità  più breve: dalla verità in me (interiore) alla Verità in sè (al Superiore). Entrambe si fondano sulla dipendenza essenziale dell’ente finito dall’Essere che lo pone, ma nella prima il rapporto è diretto: lo spirito conosce se stesso e in questo atto intuisce la verità che in lui è presente e lo illumina; di qui argomenta che, partecipato, esiste l’Essere di cui partecipa, il Principio da cui è. Pertanto l’autocoscienza implica la presenza a se stessa del Principio creante: avverrienza) e se non lo ricevono sono  vuote , egli ha escluso non solo la soluzione del problema dell’esistenza di Dio, ma Dio stesso dalla concreta vita dello spirito: ha decapitato l'uomo affinchè con la testa non sovrastasse di un infinitesimo il livello delle cose o del mondo. Quando Kant dice che non vi è altra verità ncll'uomo oltre quella che egli stesso si costituisce col processo sintetico del conoscere, ne fa il legislatore della natura (cioè gli attribuisce il potere che spetta a Dio), ma nello stesso tempo, mondanizzandolo, lo immondanizza, lo pone al di sotto di se stesso, al livello dell’empirico. L'esigenza della metafisica e i postulati della ragione pratica sono pure sovrastrutture che la Critica non sopporta se non contraddicendosi. Essa nella sua impostazione iniziale non è orientata verso la teologia, bensì verso la cosmologia intesa come conoscenza critica del fenomenico. Non possiamo non accennare, a proposito dell’esistenza di Dio, all’ontologismo critico del Carabellese, derivante da un ripensamento di Spinoza attraverso un'elaborazione critica del Criticismo di Kant. Per il Carabellese, Dio è 1’ Oggetto puro assoluto immanente alle singole coscienze, dunque non esiste; infatti, l’esistenza è soggettività ed alterità ed è dei soggetti singoli; Dio, l'Assoluto, non è soggettività nè alterità e perciò non gli compete l’esistenza: dire che esiste è fare di Lui un soggetto singolo tra singoli, cioè négarLo. L'argomento ontologico dev'essere pertanto abbandonato così come è nella sua forma tradizionale e accettato solo nel punto di partenza, l’ Idea: Dio è 1’ Oggetto o l' Idea assoluta, pura, oggettiva immanente allé singole coscienze: l’ Unico nei singoli e non uno dei singoli, come sarebbe se si ammettesse esistente. Così inteso, Dio non si può negare con il pensiero, pérchè sarebbe negare l’oggettività del pensiero stesso con un atto di pensiero e ciò è contraddittorio. /o penso, dunque affermo Dio; se tu neghi Dio, non pensi. Ecco l'argomento ontologico nella sua forma positiva 206 Filosofia e Metafisica tirsi, è avvertirsi dipendenti da Dio. In breve, se esiste l’uomo, esiste Dio; l’uomo esiste, dunque Dio esiste: basta che esista un pensiero, perchè sia implicata l’esistenza del Pensiero assoluto. Infatti, dato un pensiero, come abbiamo detto, è dato un essere pensante e se è dato un essere, esiste l’Essere assoluto. Dall’ente pensante all’Essere pensante, dalla verità-uomo, la verità che ogni uomo è, alla Verità in sè, di cui ogni uomo partecipa per una dipendenza essenziale iniziale e finale. Attraverso di essa, se vuole esser valida, è costretta a passare la via cosmologica per il motivo che sono i princìpi primi o le verità primali che rendono possibile il giudizio vero, la conoscenza delle cose sensibili, e con ciò fanno che sia valida ogni argomentazione dalle cose finite e conungenti a Dio essere infinito e necessario. Ogni regola di giue in quella negativa  (P. CaraseLLEsE, 1 problema teologico come filosofia, Roma, 1930, pp. 181-183). Ma quale argomento ontologico? Qui non c'è più argomento di sorta: c’è solo l’affermazione che io penso con la quale è identificato Dio. Altro è dire  io penso, dunque affermo Dio ; altro io penso, dunque Dio esiste . Le due formule sono antitetiche: la prima nega Dio e, contraddittoriamente, afferma il pensiero; la seconda dimostra l’esistenza di Dio dalla realtà del pensiero, che c'è perchè Dio esiste. S. Anselmo muove dall'idea di Dio e ne argomenta l’esistenza; il Carabellese dice che Dio è Idea, solo Idea, pura Idea immanente e ne nega l’esistenza. Altro che argomento ontologico! Idea di chi? delle coscienze singole e dunque immanente e, come tale, adeguata da quel finito che è il mondo; ma se Di è tutto immanente, è finito come il mondo a cui è immanente, e ad esso relativo. Non la trascendenza, e perciò l’esistenza, nega Dio come assoluto; è l’immanenza che lo risolve e lo nega nella finitezza, singolare o globale, delle singole coscienze, di cui è l’Oggetto unico. E Dio è l'Unico proprio in quanto esiste, perchè è l’unico Esistente assoluto, in cui coincidono essenza ed esistenza. Questa, in fondo, la posizione del Carabellese: accetta il concetto panteistico spinoziano di Dio, lo ripensa utilizzando quello kantiano di Idea o noumenicità pura e a questo assimila, contro la lettera e lo spirito della sua filosofia, l’idea dell’essere del Rosmini. Da ciò trae le conseguenze estreme: se Dio è pura nou-menicità o Idea e questa non è che l’oggetto di una coscienza pensante, Egli è l’Oggetto puro immanente alle singole coscienze pensanti. Così il Carabellese all’immanenza idealistica, con la quale ha polemizzato efficacemente tutta Ja vita, sostituisce l’immazenza ontologica, dell’Idea od Oggetto assoluto nei soggetti singoli. A noi qui non interessa l’importanza polemica di questa posizione nei confronti dell’idealismo trascendentale, ma la sua validità ai fini del problema dell’esistenza di Dio; e non ne ha alcuna. Il Carabellese ha ripetuto anche lui l’errore di distinguere in Dio essenza ed esistenza e non si è accorto che, negare l'esistenza, è negare anche l'essenza, cioè l'Idea; in fondo, ipostatizza la rosmiL'esistenza di Dio 207 dizio lo è innanzi tutto del nostro pensiero; dunque tutte le possibili prove cosmologiche dipendono da quella  dalla verità . Le due forme di argomentazione  a) esiste qualcosa di contingente e finito, dunque esiste l’Essere necessario ed infinito; 5) è presente alla mente una verità che le è superiore; dunque esiste la Verità in sè  nella loro profondità si riportano allo stesso principio di verità, da cui ricevono la loro forza. Infatti, partendo pure dalle cose sensibili, l’argomentazione non può non seguire questo procedimento: le cose sono contingenti e mutevoli e, come tali, non possono avere in se stesse la loro ragion d’essere: bisogna  trascenderle  per cogliere il Principio da cui derivano quanto hanno di ordine, di perfezione e di essere; al di sopra dell’ordine e della perfezione delle cose vi sono l’ordine e la perfezione del nostro pensiero, con cui conosciamo,  giudichiamo  e  misuriamo  quelli delle cose; la verità che è in niana idea dell'essere, lume di ragione e oggetto della mente, e ne fa l' Idea assoluta avente valore di Oggetto unico immanente. Il Carabellese, a cui importa il problema dell’unità del molteplice come già al suo maestro Varisco, identifica Dio con l’unità ideale o con l’ Idea pura; ma il problema dell'unità del molteplice è ben diverso da quello di Dio e l’unità ideale non è l’unità reale. Per la critica dell'immanenza ontologica cfr. le osservazioni di G. Zamsoni nell’ Itinerario filosofico, (Verona, 1949, p. 118), che abbiamo tenuto presenti. Per altre nostre osservazioni al pensiero del Carabellese su questo punto cfr. 1! Secolo XX, Milano; Il problema di Dio e della religione nella filosofia attuale, Brescia, 19533, pp. 120-122. D'altra parte, è errato affermare che l'esistenza non è una perfezione e non aggiunge nulla all'essere pensato, in quanto l’ente che esiste nel solo pensiero e non anche nella realtà è inferiore a quello che esiste nel pensiero e nella realtà, come nota S. Anselmo (Proslogion, c. Il); lo è in quanto l’essere che esiste solo nel pensiero ne dipende: esiste perchè il pensiero lo pensa e soltanto come essere pensato. Pertanto dire che l’esistenza non aggiunge nulla alla perfezione dell'idea di Dio è dire che Egli è relativo al pensiero umano, è puro oggetto pensato ed è solo in quanto il pensiero lo pensa. Perfettamente il contrario: io penso in quanto in me è presente la verità che è presenza di Dio e dunque in quanto la stessa idea di Dio è luce del mio pensiero. Ma Kant, tornando a lui, nega che esistano nello spirito conoscenze primarie ed intuitivé e dunque una verità originaria; consegue che non c'è altra verità nell'uomo oltre quella che egli stesso si costruisce con la sintesi della forma 4 priori e del contenuto a posteriori: Dio è escluso dal processo della vita dello spirito. Le obiezioni di Kant all'argomento ontologico provengono dalla corruzione del significato del termine idea  operata dagli empiristi inglesi ec mirano molto lontano: c'è già in nuce l’idealismo trascendentale, che è la riduzione dell’essere all’immanenza del pensiero. 208 Filosofia e Metafisica noi ci è data, dunque, il ragionamento ci porta a trascendere noi stessi, a risalire dalla verità-data alla Verità-Principio, a Dio. In altri termini: il pensiero discende dalle verità primali intuite per conoscere e giudicare secondo queste verità le cose sensibili; da queste ascende alle verità che sono in lui, inferiori alle cose, e da esse a Dio, l’Essere perfettissimo, che ogni cosa ed ogni verità trascende. Per conseguenza, l'ordine e la perfezione del mondo non si conoscono con i sensi ma con la ragione, cioè misurandole con la verità che è in noi: il fondamento della loro conoscenza è l’intuizione primitiva della verità; dunque le prove 4 contingentia mundi passano dalla vita dello spirito. È vero quanto scrive il salmista (XIX, Vulg. XVIII): coelì enarrant gloriam Dei, et opera manuum cius enuntiat firmamentum; ma nulla mi direbbero e mi indicherebbero, se in me non lucesse la luce della verità. Così impostata, la prova cosmologica è inconfutabile; non si può negare Dio senza spingersi ad affermazioni assurde come questa: è contraddittorio concepire l’Essere assoluto ed ammettere l’esistenza, per poi attribuire l’eternità e l’assolutezza alla materia e al mondo che sono contingenti e finiti! La prova cosmologica non solo suppone quella  dalla verità  ma è riducibile, come osservò Kant, alla prova ontologica: Dio, Principio assoluto, ha la ragione della sua esistenza nella sua stessa essenza; perciò in Lui essenza ed esistenza s’identificano; ma è questo, come sappiamo, il fondamento dell’argomento ontologico (*). (3) Com'è noto, all'argomento cosmologico, così come lo riceve attraverso il razionalismo cartesiano-leibniziano, Kant muove un’obiezione: non è possibile applicare all’Essere trascendente la categoria della causalità, valida solo nei limiti dell'esperienza, dove non si trova un ente incondizionato e dove, invece, ogni causa è a sua volta causata; dunque la categoria della causalità, fuori della esperienza, è una forma vuota, senza oggetto. Abbiamo già evidenziato i limiti di questa critica kantiana del principio di causa, la quale, del resto non infirma la validità dell'argomento. Cfr. pp. 144-149 di questo Il volume. G. BontapinI nel vol. Ricostruzione metafisica (Atti del IV Congresso di Studi filosofici cristiani, cit., p. 379) d'accordo con me afferma che la filosofia non x persegue la ricerca di un Dio qualunque, ma di quello che è indicato dalla coL'esistenza di Dio 209 D'altra parte, la formulazione della prova  esiste qualcosa che non è da sè, dunque esiste Dio  è insufficiente a dimostrare l’esistenza dell’Essere creatore e trascendente, Intelligenza e Volontà; infatti, il puro Ens realissimum può essere una causa o un principio impersonale, una legge cosmica ordinatrice. Non basta che esista qualcosa, ma è necessario che esistano degli effetti tali, da cui si può argomentare per analogia l’esistenza dell'Essere creatore, trascendente ecc., cioè di Dio, quale Lo crede per fede la coscienza religiosa. L’Ens di ragione, causa dell’origine del mondo, è un’idea cosmologica, che non è Dio, quantunque Egli sia scienza religiosa; che, perciò, essa non parte dalla (mera) esperienza sensibile, ma dalla coscienza cristiana (la quale rientra nella unità dell'esperienza); che la più ricca delle cose reali di cui abbiamo certezza è l’uomo; che Dio si dimostra con tutto l'uomo; che la metafisica, come voleva S. Agostino, è metafisica della verità, la quale si coglie in interiore homine . Successivamente aggiunge:  con questo si dice che l’essere, che è oggetto della metafisica, non è fuori dal pensiero (per questa non estraneità dell’essere al pensiero è possibile la metafisica stessa come scienza). Ma con questo è altresì chiaro che non è da opporre la metafisica dell'essere a quella della verità: si tratta di aspetti di una medesima posizione . Certamente, una volta che il Bontadini mi concede che l'essere non è estraneo al pensiero, cioè gli è interno originariamente come idea; del resto, non ho mai opposto la metafisica della verità a quella dell'essere se ben intesa, nè Agostino e Rosmini a S. Tommaso, anzi ho sempre sostenuto il contrario. Proprio la Neoscolastica italiana, invece, trova opposizione, o tutto vuol ridurre al suo tomismo; perciò il problema dell’opposizione è affar suo e non mio. Secondo Bontadini io ho sottoscritta  (nel vol. 17 problema di Dio e della religione nella filos. attuale, cit.)  la prova tomistica, soltanto spiritwalizzandola, appunto con quel riferimento a ’’tutto l’uomo’  e anche qui si dichiara d’accordo; ma, come per me va intesa la prova tomistica, appare chiaro da tutto il presente scritto. Da ultimo il Bontadini mi ascrive tra i  personalisti concilianti ; invece, io non concilio niente, perchè non c'è niente da conciliare. Il conciliare presuppone due punti di vista opposti o una lite; e qui non c’è opposizione o ite; è sempre smorzare e attenuare e qui marco i concetti e li approfondisco come posso e so. La parte del paciere in filosofia non ha senso o è posticcia. Successivamente il Bontadini ha avuto modo, a proposito di non so qual Convegno francescano, di occuparsi di me e, a quanto sembra, in particolar modo della prosa contenuta in questo volume. Quel che in tale occasione egli ebbe a dire e pubblicare (Spiritualismo cristiano e metafisica classica,  Giorn. crit. d. filos. ital., I, 1955) dimostra semplicemente che ha orecchiato senza leggere e  criticato  sulla base di preconcetti e luoghi comuni; ma la maldicenza, anche se  neo-scolastica  non è oggetto di discussione. Del resto, il superamento della fase esigenzialistico-fideistica e l'inserimento del mio spiritualismo nella linea della metafisica classica è stato ampiamente vagliato e riconosciuto dalla più autorevole critica mondiale, compresi i più accreditati tomisti e neotomisti. 210 Filosofia e Metafisica l’Ente assoluto; di qui ancora la necessità di partire  dalla vita dello spirito  che è intelligenza di verità, volontà morale ecc., effetti da cui si argomenta per analogia l’esistenza di Dio essere creatore, Mente e Verità assolute, Volontà, Perfezione infinita. Quale cosa del mondo fisico potrebbe mai farmi pensare che Dio è Libertà e Persona? Non lo pensò Aristotele, che cercava appunto un Dio Primo Motore Immobile, principio del movimento o del divenire, non potenza ma Atto puro; ma quale abisso tra il Dio au quel pense la plupart des hommes e questo Dio filosofico que les hommes n’ont jamais songé è invoquer!. È il Dio di una filosofia ma di nessuna religione e non può esserlo di una filosofia cristiana. Non diciamo che il Dio della religione (e della cristiana) non si possa chiamare anche Primo Motore immobile o Atto puro, ma che questa terminologia va trasposta in senso cristiano. Pertanto è necessario non solo integrare Aristotele, ma trasporlo come ha fatto S. Tommaso, la cui metafisica, che utilizza filosoficamente il concetto di creazione, non culmina nell’aristotelico Motore Immobile, ma in quello cristiano, che è l’Essere creatore, infinito e provvidente, cioè il Dio che tutti gli uomini invocano. Non basta partire dal reale finito e diveniente per arrivare a Dio; è necessaria una critica  dell’ente finito e diveniente in quanto tale, in modo da stabilire quali elementi contenga e se tali da farci concludere non ad una o più cause immutabili del divenire, ma al Principio creatore e provvidente. Daccapo: non è possibile alcuna critica dell’ente finito, cioè alcun giudizio oggettivamente vero, se non è presente alla mente la verità che è fondamento di ogni giudizio e della ragione giudicante; ma se è presente la verità, esiste Dio, che è la Verità, il Lume eterno e trascendente, che illumina la mente e riscalda il cuore delle creature. (4) H. Bercson, Les deux sources de la morale et de la religion, Paris, 1946, pp. 256 segg. ° L'esistenza di Dio 211 Da ultimo, la prova cosmologica dev'essere spogliata di quel suo carattere puramente razionalistico e gnoseologico, più della tradizione tomista che di S. Tommaso. Il problema, infatti, più che nei termini gnoseologistici di intelletto conoscente ed oggetto conosciuto, di Causa prima ed effetto, s'imposta in quelli ontologici di ciò che è empirico e contingente e di ciò che è metafisico e necessario; altrimenti, se il metafisico (l’essere) non precede l’empirico (le cose), è impossibile da questo arrivare all’essere. Dopo quanto abbiamo detto, le tre prove  dalla verità, che include anche quella ontolcgica, dalla vita morale, legata all’altra del desiderio di beatitudine e cosmologica  si presentano concorrenti e solidali: tutto il creato, nel suo ordine o nel suo essere o nella sua verità, con una voce sola, attesta la sua dipendenza da Dio e in Lui, e solo in Lui, cerca ed attua la sua finalità suprema (5). (5) Credo che ciò possa tranquillizzare L. BogLioLo (Che cos'è metafisica,  Salesiamum , I, 1948, p. 64), il quale esige da me e da altri  una interiorità più robusta che non avesse timore della materia nè la fuggisse , cioè un'interiorità profonda, universale e totale. Ci sembra che la nostra abbia una tale robustezza: come una a filosofia dell’integralità  potrebbe aver timore della materia e del mondo, e fuggirli? La nostra indagine, muovendo dall’ipotesi  Dio, ha dimostrato che è razionale porla; la ricerca ha provato la sua verità oggettiva e necessaria. A questo punto è opportuno domandarsi se è possibile porre l’ipotesi opposta,  Dio non esiste  e, se porla, sia razionale. La si può porre, ma con un atto non razionale; dunque, non è razionale porla, come del resto abbiamo chiarito a proposito dell’ateo che è insipiens. Se fosse razionale porre, al pari dell’ipotesi  Dio esiste , l’altra  Dio non esiste , le due ipotesi si distruggerebbero e bisognerebbe, come lo scettico antico,  sospendere  il giudizio e con esso la filosofia. Se è razionale porre l'ipotesi  Dio non è razionale porre quella opposta. Qui non siamo sul terreno dell’empirico accadere: è possibile che domani sia una bella giornata com'è possibile che sia brutta; invece, non è razionalmente possibile che Dio esista ed altrettanto razionalmente possibile che non esista. Per porre una ipotesi è necessario che sia razionalmente possibile che possa essere dimostrata vera; non posso porre come ipotesi da dimostrare una tesi destituita di qualsiasi fondamento razionale, fantastica o assurda. Posso anche farlo ma ragionando per assurdo, cioè per dimostrare indirettamente la verità della tesi opposta. Se così, l’ateo non pensa,  vocia ; non è consapevole dell’assurdità della sua negazione: la sua non è una conclusione critica, ma un’affermazione dommatica; non il risultato di una riflessione esauriente, ma uno stato passionale che sottigliezze e sofismi s’incaricano di fare, L'esistenza di Dio 213 apparire logico .  Dio non esiste  è l’ipotesi proibita, l’impossibile razionale. Non si tratta di ammettere l’esistenza di Dio perchè soddisfa un mio desiderio ed è consolante, ma perchè tale affermazione risponde all’ordine della ragione e di tutta la realtà umana. Se l’ipotesi  Dio  non fosse razionale  e lo fosse quella opposta  tutto l’uomo e l’universo sarebbero un falso incomprensibile ed assurdo. Ma non è razionale che sia razionale l’ipotesi  Dio non esiste , appunto perchè l’uomo  in ogni forma della sua attività e in tutte convergenti e unificate, la pienezza sua nel suo ordine e in ogni grado della sua normatività, attestante la razionalità dell’ipotesi  Dio   sarebbe sostanzialmente contraddittorio e assurdo, nel caso che l’ipotesi opposta, anche come ipotesi, si ponesse razionale e dimostrabile. L’ipotesi teista inerisce alla natura dell’uomo e all’ordine della ragione; se quella ateista v’inerisse ugualmente, col solo porla come razionale, si distruggerebbe l’uomo nella sua essenza. È contraddittorio che alla stessa razionalità umana inerisca l’ipotesi  Dio esiste  e l’opposta; perciò  Dio non esiste  è l'ipotesi proibita perchè contraria alla ragione e alla natura dell’uomo. Mi sembra che qui vadano cercate la forza e la verità della pascaliana prova  della scommessa  e non nel suo presunto carattere pragmatistico e volontaristico, che è solo una interpretazione scorretta o insufficiente. Pascal, posto che è impossibile la neutralità di fronte al problema, vuol dimostrare e dimostra che non si può non scommettere a favore dell’ipotesi  Dio esiste , perchè non si può scommettere a favore dell’opposta, in quanto è irrazionale, contrario, non ad una pura esigenza, ma a tutto l’uomo nel suo ordine. Scommettere per l’ipotesi  Dio non esiste  è implicitamente puntare per il mondo, cioè per un bene finito; scommettere per l’altra  Dio esiste  lo è per il bene infinito, senza scommettere contro il mondo. Ma, una volta che si tratta dell’Infinito, il giuoco è fatto, dice Pascal: non si può non scommettere per Dio. Non perchè sia più conveniente e con214 Filosofia e Metafisica fortevole scommettere per un ipotetico bene infinito anzichè per un reale bene finito, ma semplicemente perchè il reale bene finito (il mondo) non si spiega più come sia un bene se Dio non esiste: o si considera un nulla, ed è assurdo scommettere per il nulla; o reale e positivo nel suo ordine, ma basta che sia tale, perchè la realtà e positività del mondo comporti l’esistenza di Dio; nè, ancora, si può scommettere per l’ipotesi ateista perchè l’ordine della ragione giudica razionale e ad esso conforme l’ipotesi teista e per conseguenza irrazionale e disforme la sua opposta. Perciò la scelta, secondo Pascal e secondo noi, non è tra due ipotesi, ma tra la ragionevolezza dell’una e l’irragionevolezza dell’altra, tra il seguire la pienezza della ragione e l’abbandonarsi all’insensatezza della passione sofisticata; non è tra due condizioni reali dell’uomo, ma tra la sua condizione reale e la negazione insensata ed assurda di essa. L’ateo prima di essere contro Dio è contro se stesso: si nega come uomo e nega Dio; non passa da sè perchè ha negato Dio, attraverso cui l’uomo coglie la profondità di sè e il suo ordine; dunque, la sua è l’ipotesi proibita. Da ultimo: anche in chi nega Dio o Lo dimentica per attaccamento al mondo o a sua cosa (ateismo pratico) vi è sempre la presenza di Lui, perchè l’atto con cui si attacca alle cose è pur atto di pensiero; e non c’è pensiero senza Dio. C'è e non Lo riconosce; dice di no al suo sì profondo ed indistruttibile: offendendo Dio offende se stesso, si degrada al di sotto della razionalità. Nè di ciò è incolpevole: certo, se ha dimenticato Dio per il mondo, non ha più coscienza di Lui, ma è responsabile di essersi attaccato alle cose fino alla dimenticanza di Dio, alla negazione pratica della Sua esistenza, che è negazione della sua natura umana e della finalità che le è propria e non è il mondo. Ipotesi proibita è il  dubbio iperbolico  di Cartesio, che, perchè iperbolico anche se metodico, sospende tutto, anche Dio, tanto da ammettere l’ipotesi di un  Genio maligno .. L'esistenza di Dio 215 Ma il dubbio spinto al massimo, fino a negare Dio, distrugge se stesso, perchè distrugge il pensiero: se davvero fosse possibile bloccare la mente nel dubbio assoluto, nel momento stesso, cesserebbe il pensiero e dal dubbio non nascerebbe mai il Cogito; infatti, è contraddittorio pensare e nello stesso tempo annullare il pensiero con un atto del pensiero quale è il dubbio assoluto. Chi dubita pensa e, se pensa, anche nel grado più negativo del dubbio, non può dubitare di pensare; ma basta che vi sia un pensiero, anche come pensiero del dubbio, perchè sia implicata l’esistenza di Dio; dunque il dubbio iperbolico è impossibile, in quanto, negando sia pure come momento metodologico, l’esistenza di Dio, si nega il pensiero e anche quell’atto di pensiero che è il dubbio iperbolico  e con esso l’ipotesi ateista.  Metodo  significa  via; ma il pensiero per trovare la verità non può seguire la  via  che lo porta alla negazione di se stesso nel dubbio assoluto che comporta la  sospensione  dell’esistenza di Dio. Dunque, è irrazionale ed assurda anche l'ipotesi del  Genio maligno , che implica, sia pure provvisoriamente, la possibilità di concepire razionalmente ciò che non è razionalmente concepibile, cioè che tutto sia assurdo stupido insignificante, al punto che un tal Genio avrebbe potuto aver fatta la testa degli uomini in modo da far loro sembrare evidente e vero quel che è sostanzialmente falso. Ma è precisamente questa l’ipotesi proibita perchè assurda; dunque impossibile ed irreale, informulabile nell’ordine razionale come ad esso contraddicente. Non per seguire un metodo che porta alla verità, ma contro ogni metodo confacente alla ragione, Cartesio si è potuto spingere, sia pure provvisoriamente, al dubbio iperbolico e alla ipotesi del  Genio maligno  ().  Lo stesso discorso vale per la  Volontà  cieca ed irrazionale dello Schopenhauer, altra specie di Genio malefico, tanto è vero che, irrazionale quanto si voglia, in fondo, pensa e delibera se, come dice il filosofo, crea illusioni cd allettamenti per alimentare negli uomini la volontà di vivere; dunque pensa e delibera l’assurdo; ma è assurda una pura volontà dell'assurdo. 216 Filosofia e Metafisica Proprio alle origini del razionalismo moderno, nella sua stessa posizione, c'è insito un elemento d’irrazionalità: l’atto irrazionale con cui la ragione presume di poter ancora esser tale negando la trascendenza della verità e con essa l’esistenza di Dio, autosufficienza del pensiero, il quale, nell’atto che si autopone, si autonega: è l’elemento dissolvente immanente alla stessa filosofia moderna. Concludiamo che il dubbio sull’esistenza di Dio si può spingere al punto da esigere una prova razionale, da discutere questa o quella prova, ma non fino a negare la razionalità dell’ipotesi  Dio esiste  e ad ammettere quella dell’ipotesi opposta, la quale, se posta, distrugge lo stesso dubbio e lo stesso pensiero: se l’ipotesi  Dio non esiste  fosse razionale, tutto sarebbe falso, e dunque anche l’ipotesi stessa; perciò impossibile che sia vera e formularla razionalmente perchè assurda. Un dubbio che si spinge fino a quella ipotesi varca i confini della razionalità e della ragionevolezza, si pone fuori dell’una e dell’altra, del pensiero e dell’uomo, nell’irreale. L’ateismo è lo stato irreale dell’uomo, è di chi è fuori del pensiero, della sua natura di uomo, di se stesso; è dell’insipiens. Il razionalismo moderno, fin dal suo inizio cartesiano, contiene un elemento di  insensatezza: ammettere la razionalità e la verità del pensare anche se Dio non esistesse; e ciò è contraddittorio. Secondo Kant, è  pensabile  che Dio esiste, anzi è solo  pensabile , perchè non implica contraddizione. Egli esclude il dubbio iperbolico e l’ipotesi del  Genio maligno , ma non che sia razionalmente possibile e dunque  pensabile  l’altra ipotesi  Dio non esiste ; se così non fosse, le  antinomie  o i  conflitti  della ragione pura non sarebbero possibili. Infatti, i due corni dell’antinomia, la tesi e l’antitesi, propri della dialettica dell'idea cosmologica, sottintendono il primo che Dio esiste e l’altro che non esiste: il mondo ha un cominciamento nel tempo e, per lo spazio, è chiuso dentro limiti , dunque Dio esiste;  il mondo non ha cominciamento nè limiti spaziali, ma è infinito sia rispetto al tempo come rispetto allo spazio , dunque Dio non esiste; la causalità secondo le leggi della natura non è la sola da cui si possano derivare tutti i fenomeni del mondo e perciò è necessario ammettere per spiegazione di essi anche una causalità per libertà , dunque Dio esiste;  non c’è nessuna libertà, ma tutto nel mondo accade universalmente secondo leggi della natura , dunque Dio non esiste ecc. Come sappiamo e lo stesso Kant ammette, è pensabile, perchè non contraddittorio, che Dio esiste e dunque è pensabile la serie delle tesi; ma, come abbiamo dimostrato, non è pensabile razionalmente che Dio non esiste e dunque non è razionalmente pensabile la serie delle antitesi; se è contraddittorio pensare quest’ultima, una volta che è razionale pensare quella delle tesi, cessa l’antinomismo della ragione pura. In breve: è pensabile che Dio esiste, non che Dio non esiste; dunque non è pensabile la serie delle antitesi che si fonda sulla pensabilità della ipotesi  Dio non esiste ; perciò non vi sono antinomie o conflitti della ragione pura, in quanto la pensabilità della serie delle tesi non consente razionalmente la pensabilità e dunque la razionalità di quella delle antitesi. Se l’ipotesi  Dio non esiste  è impensabile, anche la serie delle antitesi, che si fonda sulla pensabilità di questa ipotesi, risulta impensabile; con ciò cessa l’antinomismo e il conflitto, restando compatibili con l’ordine della ragione solo l'ipotesi della esistenza di Dio e, con essa, soltanto la serie delle tesi. Possiamo aggiungere che neppure secondo un convenzionalismo logico sia razionalmente possibile porre l’ipotesi ateista, in quanto non ha senso porsi come ipotesi di lavoro un dato convenzionale intrinsecamente assurdo. Dunque non c’è il dilemma  o  Dio esiste , 0  Dio non esiste   perchè il secondo corno è assurdo, infondabile razionalmente anche come ipotesi: nell’ordine razionale manca l’alternativa di questo 44 aut. Non c’è scelta se non tra ciò che è pensa218 Filosofia e Metafisica bile, rispondente a tutta la natura dell’uomo e ciò che è impensabile, perchè in sè assurdo; dunque razionalmente è formulabile solo l'ipotesi dell’esistenza di Dio, la sola pensabile. L’ateismo non è neanche un problema perchè non è un problema sensato. Indubbiamente la psicologia dell’ateo è molto più complessa di quel che risulta da quanto sopra si è detto limitatamente all’ateismo considerato come posizione speculativa. Abbiamo trascurato tutti gli elementi che formano lo  stato d'animo  dell’ateo, interessantissimi ma marginali per un metafisico che non desidera farsi sopraffare dalla psicologia e dal sentimento. Tuttavia nell’ateismo  filosofico  vi è un aspetto sul quale vale la pena d’insistere ancora. L’ateo  ‘egli come individuo o la ragione umana in generale, fa lo stesso  vuole essere Dio senza Dio: è qui la contraddizione costitutiva dell'essenza stessa dell’ateismo, in quanto nessuno penserebbe di essere Dio senza l’idea di Dio, cioè... se Dio non esistesse! Ancora: egli nega che Dio esiste non perchè sia impossibile che esista l’Essere assoluto o perchè riconosca che non merita di esistere, tanto è vero che identifica con Dio qualcosa che non lo è ed egli stesso vuole essere Dio. L’ateismo filosofico è l’autodeificazione dell’uomo e della ragione, idolatria; ma anche in tanta assurdità c'è una conferma dell’esistenza di Dio: l’ateo non potrebbe autodeificarsi se non avesse ricevuto come ente pensante la vocazione ad aspirare all'adozione divina. Egli devia irrazionalmente questo dono di Dio, invece di indirizzarlo a Dio stesso, ma non riesce ad annientarlo, altrimenti non potrebbe autodeificarsi. Il suicidio metafisico della sua umanità profonda gli è impossibile: la sua insensatezza non sopprime l’eterna coscienza della sua aspirazione (M. BLonpeL, La philosophie et l'esprit chrétien), tanto che egli, in fondo, tende a realizzare la sua unione con Dio, anche sotto la forma mostruosa di una unione con se stesso divinizzato. L'orientamento primitivo e radicale del pensiero umano verso Dio  non è sterminabile . Lo si può tradire; e l’ateismo ne è un tradimento, è dire di no a Dio; ma l’ateo, come tale, dice di no anche a se stesso, all'uomo che è. Non lo neghiamo: vi è nel cuore dell’ateo serio una sofferenza, che merita tutta la nostra simpatia umana, e si può guadagnare dalla misericordia di Dio la  chiamata . La sua condizione è quella di chi ad ogni momento si rifiuta  ad una  chiamata  interiore, generosamente cd instancabilmente insistente. A proposito dell'argomento ontologico abbiamo notato che S. Anselmo si propone dimostrare che esiste il Dio a cui si crede per fede e quale la fede Lo indica; anche noi teniamo fermo questo punto: non si tratta di dimostrare l’esistenza di un Dio quale che sia, ma del Dio, a cui si crede per fede. Ciò non significa nè che la ragione penetri la sua essenza (!), nè che la fede sia il fondamento della dimostrazione della Sua esistenza, la quale, verità di fede e verità di ragione insieme, interessa la filosofia e la religione. Certo, esse vanno distinte e la via per cui la ragione arriva a Dio è diversa da quella per la quale vi arriva la fede, ma le due vie devono concludere allo stesso concetto di Dio, in modo che la ragione sia una conferma della fede: conosco razionalmente che esiste il Dio a cui credo per fede. Così impostato il problema, la fede non solo non è un ostacolo, ma è anzi un aiuto per la ragione e nulla toglie alla forza razionale della dimostrazione; anzi, in un certo senso, gliene conferisce, in quanto fa che la ragione dimostri il Dio di cui si cerca sapere anche razionalmente se esiste, Quello che l’uomo prega, invoca, adora ed in cui crede e spera.  Evidentemente il fatto che la ragione non penetri l’essenza di Dio non infirma l’argomento ontologico nel senso che, se la ragione ignora Dio nella sua essenza, non si comprende come dall’essenza o idea possa dedurre l’esistenza. E' chiaro che, quale che sia Dio nella sua essenza, questa s'identifica sempre con l’esistenza. 220 Filosofia e Metafisica Impostare la questione in questi termini ci sembra estremamente importante per oltrepassare l’apparente antitesi, tanto rovinosa quanto inconsistente, tra il  Dio della fede  e il  Dio della ragione , il Dio d’Isacco e di Giacobbe e il Dio dei filosofi, la quale oppone fede a ragione, verità a verità, cioè stabilisce un’antinomia senza senso. Da un lato, un fideismo che, per il fatto che nega la ragione, non salva la fede, la quale non dev'essere invocata per provare l’esistenza di Dio; dall’altro, un razionalismo che, negando la fede, di essa non è più una conferma e se anche dimostra Dio, egli non è quelio della coscienza religiosa, ma una causa cosmica, una legge della natura. È necessario, invece, conservare nella sua interezza il contributo della ragione e del pensiero critico-dimostrativo (altrimenti s’impoverisce  sia detto per i volontaristi ed i pragmatisti  proprio la ricchezza di quella vita spirituale che credono difendere contro il razionalismo astratto), senza separare la ragione dalla fede. Se separata, non sa precisamente che cosa si proponga di dimostrare; disincarnata, la sua dimostrazione, risultato di un'’astratta concatenazione concettuale e priva di quella forza reale che può attingere solo dalla pienezza e dalla concretezza della vita spirituale, è di un Dio che non è quello dell’esperienza religiosa ed umana. Teniamo fermo il punto centrale della questione: l’esistenza di Dio si dimostra razionalmente, dunque è una verità di ragione; ma la ragione è chiamata a dimostrare, senza fondarsi sulla fede, il Dio della coscienza religiosa, Quello che gli uomini invocano ed adorano, e, per una filosofia cristiana, il Dio della Rivelazione. La fede non interviene e non deve nella dimostrazione, ma è lì presente ad indicare alla ragione qual’è il Dio di cui è chiamata a dimostrare l’esistenza; è indicativa della meta da raggiungere e, dunque, in certo senso, orientativa: è l’assente presente. L’esistenza di Dio, dunque, è verità di ragione e anche di fede. Ma il fideismo, oggi più pericoloso che mai dopo quasi tre secoli di accanita corrosione della metafisica, è tentatore e non risparmia neppure la coscienza comune. Infatti, quasi sempre si dice:  io credo o non credo nell’esistenza di Dio  facendo di essa, implicitamente e spesso inconsapevolmente, una questione di pura fede. Il pensiero speculativo moderno, quando non è ateo o indifferente, è prevalentemente fideista ed afferma che l’esistenza di Dio, di cui si riconosce l’esi-genza, non è dimostrabile razionalmente: è una credenza, un bisogno morale, un atto di volontà, un  affare  intimo, un sentimento personale. Di qui il pragmatismo e il volontarismo religioso: credo nell’esistenza di Dio che non posso dimostrare razionalmente; credo,  voglio credere  che esiste e  dunque  esiste. Un  dunque  inconcludente. Fideismo è agnosticismo; alla ragione agnostica, oppone la volontà credente: posizione insostenibile e contraddittoria. Vi è ancora un’altra forma non agnostica nè scettica di fideismo, quella protestantica, che non nasce dalla sfiducia nei poteri della ragione, ma da una reazione contro di essa, considerata troppo pericolosa e nemica della fede; contro la ragione che pretende di risolvere, non solo il problema dell’esistenza di Dio, ma anche Dio stesso nel processo del pensiero, come se Dio e la religione fossero questioni puramente razionali e filosofiche. È il  fideismo  che combatte il razionalismo deista o ateo (il deismo, in fondo, è ateismo bello e buono), la pretesa della ragione di dire tutto intorno a Dio, di costruire una religione naturale o razionale, o di risolvere il momento inferiore  della coscienza religiosa in quello  superiore  della coscienza filosofica o della razionalità. In questa forma di fideismo vi è un fondo di verità: rivendicare i diritti della fede contro la ragione scatenata, quella dello Hegel, e, come tale, irrazionale per passione e cecità; indicarle che il Dio che si cerca non è quello  filosofico  o l’ Ente supremo di ragione  del deismo e neppure il  Dio che si fa . Ma vi è anche un gran torto: rivendicare i diritti della fede contro 222 Filosofia e Metafisica la ragione e concludere che essa nega Dio e la fede, è loro nemica, il  diabolico nell’uomo, come sostengono, per esempio, Unamuno e Chestov. Invece la fede deve far valere i suoi diritti non contro ma con la ragione, di essa giovandosi; se è contro la ragione è contro se stessa: non si può credere  senza  o  contro  la ragione; il conflitto distrugge i due termini. Il fideista dimentica che la sua è sempre la fede di un essere razionale e dunque sempre imbevuta di ragione, come quest’ultima, pur distinta , non è  separata  dall’altra, altrimenti è ragione atea: deista, illuminista. Il fideismo puro, che è ateismo della ragione e dunque  fede per disperazione , è esso stesso ateo; l’ateo precisamente si rifiuta di credere perchè, secondo lui, la ragione smentisce la fede. La difesa della ragione, dentro i limiti delle sue capacità naturali, è anche difesa della fede (2). Posto ciò, contrapporre il Dio della fede al Dio della ragione è architettare un’antitesi convenzionale ed inesistente, se per ragione s'intende non quella immaginata  dal razionalismo assoluto, ma la ragione normale, la quale non si oppone alla fede, non le si può contrapporre, nè la fede ad essa. Nel caso del problema che stiamo discutendo, essa argomenta intorno all’esistenza di Dio per dimostrarne la verità, cioè per confermare la credenza religiosa. Collaborazione, dunque: dimostrare cor la ragione l’esistenza di Dio a cui si crede per fede. (2) Queste mie affermazioni esplicite e chiare rendono inspiegabile il  discreto sospetto  dello STEFANINI (Ricostruzione metafisica, cit., p. 387) che anch'io  non rasenti la metafisica della fede  per la mia  insistenza  (sì, insistenza, e senza sospetti neppure discreti) nel sostenere che nella dimostrazione dell’esistenza di Dio bisogna tener conto della coscienza religiosa e cristiana dell’uomo. Tutto quanto questo saggio esclude il fideismo, la metafisica della fede e la petitio principii di presupporre ciò che si deve dimostrare. Vedo che anche C. Ferro (Guida storico-bibliografica allo studio della filosofia, Milano, 1949, p. 162) accusa me e lo Stefanini, senza neppure discreti sospetti, di  fideismo  e  volontarismo ; ma che si può fare contro le accuse gratuite ed orchestrate sempre nello stesso ambiente se non alzare le spalle e continuare tranquillamente il proprio lavoro? L'esistenza di Dio 223 Con ciò si soddisfa ancora un’altra profonda esigenza: la esistenza di Dio non è solo una verità razionale, ma di tutto l’uomo: verità integrale dell’uomo integrale. Non della ragione astratta, disincarnata, ma della ragione concreta, profondamente umana, che non prescinde  dall’uomo nella pienezza della sua vita spirituale. La ragione filosofica, che non è quella geometrica , non ha da essere  passionale  ma non può non essere  appassionata,  accesa , ad alta tensione; è passione di verità (eros) e, come tale, anche finesse. Solo in quanto eros è ragione penetrante: solo in quanto si accende di amore per la verità attinge la verità; in questo senso è vero che l’uomo conosce anche razionalmente per quanto ama, e più ama e più conosce. Pertanto dimostrare l’esistenza di Dio non è un'operazione, diciamo così, di ordinaria amministrazione; non è fare un calcolo, mettersi di fronte ad una questione indifferente, con indifferenza e quasi con pigrizia: non ci si esercita con questo problema. È necessario viverlo intensamente, nella drammatica alternativa del sì e del no, da cui dipende tutto il senso della nostra esistenza e delle cose, la consistenza essenziale del nostro accidentale vivere.  Riflettere  sul problema dell’esistenza di Dio è sopravvanzare con la ragione, nell'amore per la verità, la stessa ragione per renderla aderente a quella, verità primale che la illumina, per mezzo di cui giudica e che pur la trascende (*). Dimostrazione rigorosissima, ma il cui rigore logico deve essere vita e non morte dello spirito, fiamma di verità e non estintore. È qui che presta il suo aiuto la fede, pur senza interferire: la sua presenza indicativa è anche incentiva, eccitatrice dei poteri della ragione, sollevata al massimo della sua forza normale dalla consapevolezza che la risposta che da essa si attende, è quella del sì o del no al problema assoluto. La risposta dev'essere senz'altro conforme 6 Amore petitur, amore quacritur, amore pulsatur, amore revelatur, amore denique in co quod revelatum fuerit permanetur (S. Acostino, De moribus cath. ecclesiae, c. XVII, 31). 224 Filosofia e Metafisica alle conclusioni della dimostrazione, quali che siano, ma le conclusioni stesse sono più sicure razionalmente se si è certi che la ragione abbia fatto il suo dovere, fino in fondo. Perciò la ragione riflessa non può non tener presente l’oggetto della fede religiosa, di un’esperienza che non può essere un'illusione universale (se il teismo lo fosse, sarebbe la ragione ad autorizzare tale illusione!); e, a sua volta, la fede si tenga sempre ancorata al suo fondamento razionale: credendo cogitat et cogitando credit (*). (4) S. Acosrino, De praedestinatione sanctorum.  Molti i portatori di ferule, pochi i bacchi , nè basta portar la ferula per essere un bacco; lo è chi è acceso del sacro fuoco. Similmente, non basta esercitarsi  a dimostrare l’esistenza di Dio, ornarsi di sillogismi e filati discorsi, anche se  indispensabili ; è necessario  impegnarsi  con la totalità di se stessi, dirigere, unificate e solidali, tutte le proprie energie spirituali e vitali verso lo stesso punto; fare sul serio, perchè si tratta dell’unica cosa assolutamente seria della nostra esistenza. Ciò richiede particolari disposizioni, una reale condizione psicologica di tutto l’essere spirituale che esclude l’indifferenza e la pigrizia ed include la consapevolezza della profondità della questione, dell’urgenza improrogabile di risolverla, della totalitarietà della risposta, dalla quale dipende persino se noi siamo veramente o solo apparentemente degli esseri intelligenti e non cose, il cui funzionamento organico ha delle singolari manifestazioni  dette impropriamente pensiero, ragione, volontà  che gli altri organismi animali non hanno, beati loro in questo caso! Non si dimostra l’esistenza di Dio senza aderire pienamente alla verità che si vuol provare, se non si è disposti a dimostrarla,  chiamati  dall’interno di noi a tentare la prova. Non è una chiamata qualsiasi: è quella dell’Essere che scende in noi e sale dalle profondità del nostro essere; nè chiamata vi sarebbe se l’atto della creazione non ci avesse radicato in Lui. La chiamata aspetta in silenzio quando noi, perduto il senso autentico del nostro 226 Filosofia e Metafisica esistere nell’onda del tempo, dall’Essere ci sradichiamo: déracinés, sperduti e campati nel vuoto; allora le ore inesorabili s'incurvano fino a saldarsi e ad annientarci nel cerchio del finito più insignificante, opprimente, insopportabile. Se le cose stanno così, dimostrare Dio significa desiderare una tale certezza della sua esistenza da essere poi nella condizione di non più dubitare; infatti, è sapere tutta la verità di tutta la nostra vita, ciò che appunto toglie il potere di dubitare di Lui. È l’atto dell’adesione totale e traboccante, il momento della piena armonia, dell’equilibrio del nostro essere integrale, che trova il suo appagamento nella conversione all’Essere; è la fedeltà, 1! non poter dire di no. L’uomo è libero solo se è liberamente prigioniero della verità. Perciò, la dimostrazione dell’esistenza di Dio, affinchè la ragione sia nella condizione di  rendere al massimo , esige preventivamente una  conversione  di tutto l’uomo a quel problema. Tale  conversione  al problema (non a Dio) riguarda innanzi tutto la ragione.  Sofistica  non è la ragione retta, ma quella deviata; sofisma è un’argomentazione corretta nella forma ma sostanzialmente errata, gioco di sottigliezze non forza di ragionamento; perciò chi sofistica è sempre contraddittorio. Vi sono nella sua argomentazione nessi e relazioni formalmente coerenti, ma il discorso è ugualmente errato ('). È la stessa ragione che lo corregge dimostrando falsa l’affermazione da cui muove e argomenta, ma non potrebbe se non le fossero presenti i princìpi veri a cui deve uniformarsi. Ciò significa che la verità non è nel nesso razionale, ma nel principio secondo cui esso è fatto: i nessi razionali (le argomentazioni) sono veri se il principio è vero, sono solo formalmente corretti e sostanzialmente errati se muovono da un errore assunto come verità. Da questo punto di vista la ragione è inferiore all’intelligenza   Le raisonnement n'est pas la raison; il en est souvent la parodie  (E. Hetto, Du Néant è Dieu, Paris, 1921, p. 154). L'esistenza di Dio 227 che intuisce i princìpi, fondamento su cui la ragione argomenta; ma la verità dell’argomentazione non è nel puro nesso logico, opera della ragione, ma nel principio, conosciuto dall’intelligenza, che ne è il fondamento. L°’intelligenza è illuminata direttamente dalla verità, la ragione mediatamente attraverso la prima, la quale, nella sua immediatezza, è infallibile. L'intelligenza non è sofistica, la ragione può esserlo fino al punto di dire vero al falso e falso al vero, di convincere di menzogna, di sofisticare la verità: il sofisma è l’alibi della menzogna; buona parte della vita individuale e sociale è volgare sofisma. La ragione riceve luce dall’intelligenza, intuitiva della verità e creatrice di verità; giudica di ogni cosa e ci fa conoscere la verità delle cose, ma solo in quanto l’intelligenza la illumina, la fa feconda di verità; l’una è la verità fresca, allo stato incandescente, zampillante come sorgiva, l’altra è la verità riflessa, solidificata. Ma affinchè sia verità riflessa è necessario che sia riflessione secondo verità , che si converta , s'indirizzi alla verità e soltanto ad essa: solo purificandosi della tendenza sofistica, la ragione si eleva al livello della sua vera natura, riconquista se stessa in tutta la forza di cui è capace; affinchè possa dimostrare la verità di una proposizione e conferirle tutta la sua potenza logica è necessario che essa sia tutta della e per la verità. Solo a questo livello la ragione conquista e realizza tutta la sua forza normale; fino a quando è nell’errore, è al di sotto di se stessa e l’uomo al di sotto dell’uomo. La sua natura di uomo lo sollecita semplicemente a vivere al suo livello di uomo. Eppure soltanto l’uomo, tra tutti gli enti creati, non vive al suo livello normale, sempre in squilibrio sul punto del suo equilibrio integrale; tutti gli altri viventi sì; la bestia è tutta la bestia che è, difficilmente l’uomo è tutto l’uomo che è. Destino tremendo, drammatico, quello che alimenta insopprimibile una filosofia dell’integralità. Sembra di facile attuazione il 228 Filosofia e Metafisica comando sii tutto l’uomo che puoi essere ; è invece tremendamente difficile: io non so mai in quale condizione raggiunga il limite della mia umanità totale. Ammesso pure che lo raggiungessi e ne fossi sicuro, non basterebbe per salvarmi: questo livello posso perderlo in ogni attimo ed ogni attimo debbo riconquistarlo. Salvarmi non dipende solo da me; da me dipende mettermi nella condizione di esserlo: qui tutto il senso di una filosofia cristiana dell’integralità. È evidente, dunque, che quando parliamo di ragione o dell’uomo senz’altro al livello di tutta la sua forza normale non intendiamo un’assurda super-ragione o un assurdo superuomo, che è la negazione dell’uomo o meglio la sublimazione di quello inferiore, ma semplicemente della ragione che sia tutta la ragione, dello spirito che sia tutto lo spirito, dell’uomo che sia tutto l’uomo, cioè che attui integralmente tutto il suo essere secondo l’ordine dell’essere, in modo che sia la pienezza di se stesso. Ma qui è il punto: non c’è attuale e totale normatività dell'uomo se ogni sua energia e forma di attività non sia indirizzata a Dio; e non c’è salvezza se Dio non lo salva. Solo in questo caso la pienezza dell’uomo è colma. La filosofia cristiana dell’integralità è la filosofia dell’umiltà assoluta. La disposizione intellettuale di  conversione  alla verità è anche disposizione morale, processo di purificazione di tutto lo spirito, elevazione al suo livello autentico: è mettersi nella condizione di esser liberi dall’errore. Per dimostrare secondo verità, è necessario escir fuori dal nostro egoismo, dalle nostre passioni, sofisticherie e bassezze: solo allora la ragione dispone di tutta la sua efficacia; non sottomettere il pensiero alla concupiscenza, le norme del giudizio alle cose da giudicare, in modo da ascendere al livello dello spirito, fino al punto in cui la sua attività, convertita al problema, converge tutta nella sua soluzione. Non basta ragionare secondo la logica, è necessario esistere, pensare, ragionare secondo la verità. Alla base L'esistenza di Dio 229 dell’autentica ricerca filosofica vi è una iniziale onestà di pensiero e di volontà, che è frutto di ascesi e purificazione: non si conosce la verità se non si è già nella condizione intellettuale e spirituale di essere degni di conoscerla. La sua scoperta è la scoperta dell’io profondo a cui è interiore, è il premio di chi si è liberato dell’io superficiale, egoista, frammentario, disperso; premio dell’onestà fondamentale di una ragione votata alla verità e di una volontà che è buona volontà di servirla. Tutti possono far versi, ma son pochi i poeti; e non vi è poeta senza una particolare condizione di spirito, quella che chiamano estro; e vi è anche un  estro  filosofico, come ve ne è uno religioso ed uno anche scientifico. L’ estro  della filosofia è l’amore incondizionato della verità, che è poi, anche quando non se ne ha coscienza, amore di Dio, che è la Verità; i  bei discorsi , di cui parla Socrate, sono il suo modo di pregare, la maniera con cui la ragione si rivolge alla verità, come ne testimonia purificata e purificantesi sempre più e meglio nella verità stessa. Solo allora le argomentazioni manifestano tutta la loro forza normale. Questa la condizione per acquistare tutta la consapevolezza possibile della nostra iniziale e finale partecipazione all’Essere. Come abbiamo già detto, del  nulla non c’è discorso nè filosofia: il nulla è il nulla e non avrebbe alcun senso senza la positività dell’essere. Ogni ente è l’essere che è; è il richiamo, la sollecitazione dell’Essere che lo stimola ad essere il pieno attuale ed ascendente del suo essere: l’ente spirituale emerge perennemente dal suo essere per la spinta che riceve dall’Essere che lo ha creato e l’attrae. La partecipazione all’Essere gli dà tanta ricchezza da sentirsi come afflitto, (2) Difficilmente la forza  attuale  delle attività dell’uomo è tutta la loro forza  normale , la quale, d’altronde, anche allo stato interamente attuale, non è mai autosufficiente, anche se sufficiente nell'ordine naturale. Anzi la normatività piena è impossibile senza la convergenza di tutto lo spirito in Dio, cioè senza la condizione attuale della transnaturalità. L’autosufficienza, invece, è l’al di là della norma, l’abrorme, che è la negazione dell’uomo. 2% Filosofia e Metafisica più che dalla sua povertà, dalla pienezza potenziale che non riesce a rendere tutta attuale. L'uomo è sempre più di quel che è in un’ora: in ogni oggi ha sempre un domani. Perciò è speranza e fedeltà e non nostalgia, che è del disperato, di chi non ha domani significante ed eterno, dei sradicati dall’essere. È nostalgico chi nel futuro vede il nulla e nel presente il vuoto: misconosce la partecipazione iniziale e perciò si volge al passato, non perchè lo trovi significante, ma per un fatale abbandono in ciò che non è. L’uomo è lievitato dall’essere: farina che si fa pane, sempre nuovo pane: la fame dell’essere è lievito inesauribile. Ogni ente è dato, ma è esso che si fa, si costruisce nello spirito, ma solo perchè si costruisce nel e sull’essere; il livello dello oggi sporge sempre in quello del domani: lievito e lievitazione perenne. È la tensione della vita spirituale nella sua integralità; nè teme rotture, perchè la tensione dell’essere all’Essere è il tonico , il  ricostituente  dello spirito. È la tensione al finito che spezza l’esistenza; quella all’infinito, risposta totale alla chiamata, è l’autenticità della creatura, che salda e tempra il legame d’amore e di verità dell’atto creativo. Da un punto di vista empirico questa tensione incandescente può far sembrare allucinata e allucinante la vita; ontologicamente, nella dimensione dell’essere al livello di tutta la sua forza normale, è luce piena dell’esistenza, che ha saputo addossarsi fino alla sofferenza (distacco e riconquista) tutta la pienezza della vita.  Pour étre vraiment homme il faut accepter d’ètre et accepter l’ètre sans aucune réserve  (L'’ontologo, il metafisico vero, non  parla  dell’essere,  vive del e nell’Essere assumendosi il problema totale del significato del suo essere integrale, fin nelle sue profonde ed abissali radici. Tale condizione è esigita assolutamente dalla dimostrazione dell’esistenza di Dio, dell’unum necessarium, dal pro(3) BaLtHAsar. L'esistenza di Dio 231 blema essenziale della filosofia essenziale: tutto il dinamismo della vita spirituale è chiamato a convergere nella soluzione del problema totale della verità totale. Solo allora non capiterà d’incontrare persone che conoscono benissimo tutte le prove dell’esistenza di Dio tanto da saperle esporre meglio di coloro che ne sono convinti, ed essere atei ugualmente; o altre che ne sanno dimostrare esattamente l’esistenza a degli atei senza convincerli, pur avendo costoro perfettamente inteso per filo e per segno tutti i processi logici. Che manca? manca la tensione, la convergenza totale della vita spirituale e di tutte le sueinfinite ed a volte misteriose energie. Non basta mettere in opera la ragione, a tavolino, tranquillamente; occorre che io metta in moto, con la ragione, tutto me stesso, in modo che essa viva di tutta la mia vita, pulsante di tutte le energie del mio spirito. Si scoprono allora nella ragione una forza insospettata e risorse che sembrano quasi non appartenerle; e laragione scopre nello spirito la presenza di qualcosa che prima intravvedeva solo confusamente: si fa luce e nella luce cerca e dimostra secondo verità, con intelligenza, con quell’intelletto di amore, che potenzia le sue capacità dimostrative senza comprometterle. La ragione cerca e trova, cerca scopre dimostra, vivente di tutto il mio spirito, non l’Ente necessario o la Legge o la Causa, ma il Dio creante, vivificante, provvidente: lo scopre essa che ama, ed è vita ed è artefice di verità, perchè dalla verità illuminata. La originaria ed oscura nozione di Dio si chiarisce ed il presentimento primitivo, che ha sempre orientato e sollecitato ogni atto spirituale, si svela come verità razionalmente vera. La dimostrazione è ricca di tutta l’intensità presentativa della verità: tutto lo spirito dimostra l’esistenza di Dio, perchè tutto convergente in questa dimostrazione. La prova non è soltanto lavoro di dialettica e concatenazione astratta di concetti, ma di logica incarnata, piena di tutte le risorse, adesione integrale dello spirito integrale. Allora ogni ente 232 Filosofia e Metafisica conosce il senso assoluto della sua contingenza: la risposta è tutta la sua verità, tutta la sua realtà; orienta indefettibilmente la vita nel tempo  di un passato che altrimenti non importerebbe più e di un futuro che diversamente sarebbe inutile  all’eternità. La prova non ha fatto certamente che Dio esista; il suo rigore logico ha confermato l’essere di Dio, del Trascendente interiore; ed è tale presenza che ha reso possibile la prova stessa. Il presentimento, prima segreto e confuso, si traduce in termini discorsivi: la vita dello spirito, nella consapevolezza razionale della sua significanza, trova pace nella verità operosa e creatrice di nuovi veri, che sono nuovi beni, al di sopra e al di là delle parvenze sensibili e delle schematizzazioni astratte, in una pace che è solennità di pensiero maturo e compiuto, operosità di volontà inesauribile nella realizzazione del bene. Trop de vérité m’étonne, scrive Pascal. M°étonne non direi, perchè la verità non stordisce nè fulmina: la verità illumina. Certo che, nello stato naturale dell’uomo, resta una zona infinita di Luce, che, per troppa luce, non si penetra. Vedere buio nella Luce: è questa la reale inquietudine dell’uomo, la sua felice e feconda infelicità sulla terra.  La Grande Luce è per noi la Grande Tenebra: più si riflette sulla sua essenza e più la Luce inviolabile ed accecante nasconde a noi il suo essere. Di qui l’irresistibile bisogno del ritorno all’ Essere, di veder nella luce tutta la Luce. Con Agostino ed il migliore agostinismo  e S. Tommaso ne è il più originale assimilatore  noi rivendichiamo una dimostrazione dell’esistenza di Dio in tutta la sua efficacia concreta, che solo la vita dello spirito e il suo interiore dinamismo le possono conferire. Dio non si dimostra ambulando (Aristotele, a mo’ di esempio, insegnava  passeggiando ) ed astrattamente sillogizzando come se bastasse un sillogismo per far decidere del senso di tutta la umanità e delle cose. La vita spirituale è più ricca della ragione, anche se è vero che non vi è vita spirituale senza ragione. È necessario che nella prova vi sia la solidarietà essenziale di L'esistenza di Dio 233 tutti gli elementi attivi e reali della vita dello spirito (vedute dell’intelletto, disposizioni della volontà, amore di verità, rigore razionale, indicatività della fede e desiderio di possederla, insegnamenti della tradizione ecc.) concorrenti allo stesso scopo: solidarietà essenziale di elementi in una convergenza totale, orientata e guidata dalla primitiva verità interiore. A questo livello e sulla base di una razionalità sì piena e pregnante l’esistenza di Dio si presenta come verità assoluta e la sua non esistenza come affermazione insensata e ipotesi proibita; a questo livello la ragione dimostra, inconfutabilmente, che vi è l’Essere creatore trascendente, Bene e Provvidenza, Principio unificatore della vita spirituale di ogni singolo ente razionale, Verità che dona a noi la verità, Luce della nostra mente, Valore assoluto, fonte di ogni valore. Tutto converge in Lui perchè tutto è da e per Lui. La verità in me, immagine della Verità in sè, presentimento primitivo di Dio e principio motore originario di tutto il mio movimento spirituale, se non sono assente a me stesso, fa sì che tutta la mia attività armonizzi in una convergenza radicale assoluta; solo essa ha il potere di unificare tutti i momenti della mia vita e dirigerli verso la meta unica. Se, come abbiamo scritto altrove, in me mancasse la presenza operante di questa intuizione originaria,  se essa non esercitasse il suo potere sintetico ed unificante, la mia vita sarebbe sparpagliata, dispersa in tante direzioni insufficienti e tutte insieme inefficaci ad unificarla e a dirigerla verso un punto assoluto e totale. E’ la condizione dell’ateo, dell’insipiens, che non sa più dove vadano e dove cadano i brandelli della sua insignificante esistenza. Ed è una condizione ”’irreale”’ perchè frutto di ignoranza e di errori, disconoscimento o falsificazione della reale condizione dell’uomo... . Perduto l’essere, si spezza l’unità dell’esistenza, si disperde nel frammento: è la disintegrazione, il disfacimento; questa la morte, non quella corporea. Un uomo ed una società senza Dio sono fuori dell’uomo € 234 Filosofia e Metafisica dell’umana convivenza. In una società che ha ucciso l’uomo perchè ha ucciso Dio, non si comunica perchè la comunicazione è possibile solo nella verità. Solo tenendo presente che la nozione di Dio vivifica, penetra, permea, imbeve ‘e mette in moto l’interezza della vita spirituale, per cui la forma logica dell’argomentazione aderisce perfettamente alla concretezza dell’integrale realtà umana, si coglie tutta l'efficienza di cui la prova è capace. Pace della mente nella verità creatrice di nuovi veri: mente vera; pace della volontà inesauribile nella realizzazione del bene: volontà operosa. Mente vera e volontà buona: è la rettitudine dell’uomo. La pura  razionalità  non è  intelligenza , che include l’altra e l’oltrepassa; la prima, fatta di nessi e di rapporti, o è astrattismo e formalismo, o conoscenza dell’empirico: c’è razionalità pura dell’astratto e delle cose fisiche (la Critica della ragion pura, da questo punto di vista, è una metodologia delle scienze). Di Dio non c’è pura razionalità, ma intelligenza penetrante. Nel conquistare la verità della Sua esistenza vi è un recupero dell’io profondo, del sensus sui, della verginità e schiettezza del nostro essere, della sua ‘autentica originarietà: è la prossimità del noi sorgivo alla Sorgente eterna. Il pensiero moderno ha voluto essere  razionale  e perciò è scientifico e metodologico; si è privato dell’  intelligenza  di Dio e perciò ha cercato di demolire o fare a meno della metafisica: ha confuso i due piani diversi dell’empirico e del metafisico. Posizione formalisticamente razionale , ma non ragionevole. La  ragionevolezza  è la razionalità fatta penetrante dall’intelligenza e vivificata dal sentimento: chi è ragionevole non può negare l’esistenza di Dio. Perciò è necessario avere tanta ragionevolezza da non ‘essere puramente razionali o passionali, tanto calore di sentimento da rendere umana la ragione e tanta forza di ragione da purificare ed illuminare il sentimento, in modo che la verità dell’esistenza di Dio manifesti tutta la sua razionalità L'esistenza di Dio 235 e ragionevolezza, che sono anche quelle della ragione. Tutto il nostro discorso è un invito ai  razionali  e ai  passionali  affinchè tornino ad essere  ragionevoli . A questo punto, dimostrata razionalmente  e con una ragione ricca di tutto se stessa — l’esistenza di Dio, il discorso della filosofia cessa e comincia quello della fede. Ma il filosofo deve dire di sì alla sua vocazione di  arrivare , di spingersi fino a questo punto, se pensa interamente, se è spietatamente critico : non deve fermarsi a metà. Egli non può sottrarsi alla responsabilità di realizzare quell’equilibrio, in cui tutta la vita dello spirito è compresente, solidale e unificata, in cui si attua la rormazività piena, inclusiva di tutte ie norme di ogni forma di attività e di tutti gli equilibri parziali. Il filosofo non può sottrarsi, costi quel che costi, ad elevarsi — senza niente disprezzare o respingere di quanto ha positività  al livello in cui l’essere conquista la sua chiarezza nella partecipazione consapevole all’Essere, in cui si coglie l’intelligibilità metafisica del senso dell’esistenza, il suo significato assoluto nell’immortalità e nella speranza della salvezza. Poi la fede, quella che ha tale forza attrattiva da sollevare l’anima al punto in cui  cade  in Dio, suo centro di gravità. Se mi seppellisco nel mondo, mi faccio cosa tra le cose, mi sottraggo alla legge della gravitazione degli spiriti, la terra mi ghermisce, mi attrae e terra e fango mi coprono. Se dal mondo ascendo, non per derlo di vista ma per riconquistarlo, vedo tutto il creato nella luce dell’Essere che è Verità. Da questa altezza il mondo non mi attira e lo vedo sospeso a Dio, in cui gravito, in cui bramo  cadere  non per annullarmi, ma perchè la sua Luce mi trasfiguri. A questo punto il discorso si conclude  come Agostino il XV ed ultimo libro del De Trinstate — precatione melius quam disputatione. Di diritto e di fatto il solo Istituto e il solo sistema dottrinale che riconoscono e garantiscono la libertà autentica del pensiero e dell’azione sono l’istituto della Chiesa cattolica e il sistema dottrinale filosofico-teologico del Cattolicesimo. Una tale affermazione, nei tempi perduti che l’umanità attraversa, a prima vista, superficialmente e solo in ap- parenza, è scandalosa e sconcertante. Dal Rinascimento in poi, attraverso i  libertini , gli  spiriti forti , i deisti del Seicento e successivamente i cosiddetti liberi pensatori  del giacobinismo settecentesco e del laicismo dell’800, si è prevenuti a vedere nella Chiesa e nel Cattolicesimo la nega- zione della libertà e di ogni libertà e ad identificare l’una e l’altro con la coazione più oppressiva e tirannica. La lotta. tra la Chiesa e le altre confessioni religiose, le teorie politiche moderne, il liberalismo e il marxismo è stata interpretata, da storici e scrittori non cattolici, come la lotta tra l’oscuranti- smo della tirannia chiesastica e clericale e l’affermarsi della libertà dell’uomo, con una confusione di problemi e piani € un travisamento di fatti e princìpi che può solo spiegarsi con la graduale e progressiva ignoranza, caratteristica del mondo moderno e contemporaneo, di quel che sono la Chiesa e il suo complesso dottrinale. Di fatto è accaduto sempre al contrario: quando un’au- torità ha misconosciuto i diritti della persona umana e ogni forma più elementare di libertà, si è trovata di fronte, non nemica ma intransigente e irriducibile, la Chiesa di Roma senza paure al cospetto di qualsiasi tirannide, per cui gli 240 Filosofia e Metafisica oppressi hanno in Lei visto l’unica speranza e cercato l’estremo rifugio. Così ogni qual volta gli stessi uomini che mettono in moto le forze oscure del potere e dell’ambizione, sopraffatti dallo stesso ingranaggio da essi scatenato ed impotenti ad arrestare lo sfacelo di ogni legge ed autorità a cui consegue anarchia, perdono smarriti il controllo e il prestigio d'’istituti e leggi è atterrato, chi raccoglie l’eredità e guida ancora tra tanta tenebra di sanguinosa violenza negatrice di ogni libertà, è la Chiesa. Ai nostri giorni, in quei Paesi dove tirannia impera e libertà è delitto da punire di morte, è la Chiesa che ancora resiste, infonde speranze ed offre un’oasi ristoratrice di libertà al gregge di uomini che terrorizzato applaude alla sua schiavitù. Per rendersi conto di come soltanto la Chiesa è sempre stata ed è l’unica tutrice della-libertà umana e la sola immancabile garanzia di essa, non per finalità diverse dalla difesa della libertà stessa e dunque non per una sua concezione strumentale, bisogna che vengano tempi duri, anni in cui la libertà è minacciata o calpestata. Quando tutti s'inchinano alla realtà di fatto, la Chiesa protesta per quanti tacciono e difende assiste protegge anche gli stessi oppressori affinchè costoro, riacquistata la libertà per se stessi, possano di nuovo sentirsi creature spirituali e redimersi dalla colpa di aver negato agli altri questo naturale e fondamentale diritto. Questo storicamente. Ma quale il concetto cattolico di libertà, e, più particolarmente, della libertà di pensiero? Come intenderla dal punto di vista del Cattolicesimo? Problema imponente, che in una brevissima nota può essere soltanto sfiorato in quelli che a noi sembrano i suoi aspetti teoretici essenziali. Innanzi tutto, libertà di pensiero significa libertà del pensiero, cioè non libertà di pensare quello che piace, che è la negazione radicale della libertà nell’arbitrio irrazionale e nel non-pensare, ma di pensare in maniera conforme alla natura del pensiero, cioè in modo che, pensando, il pensiero avverta Il concetto cattolico di libertà di pensiero 241 che quel che pensa è confacente alla sua essenza e non una violenza, che è sua schiavitù. Dunque, libertà di pensiero come tale significa semplicemente libertà del pensiero di pensare l’oggezto che gli è conveniente e a cui la sua natura lo porta e sollecita. Ma l’oggetto del pensiero alla sua essenza conforme è la verità; pertanto libertà di pensiero significa libertà del pensiero di fronte alla verità, pensare nella verità. Chi pensa nella verità non può non pensare la verità che l'umano pensiero può conoscere e chi la pensa, pensa conformemente alla natura del pensiero stesso e dunque in piena libertà di pensiero, conformemente ai princìpi illuminanti la ragione e garanzia della veridicità di ogni giudizio. Ma la verità è più del pensiero che la pensa e per cui esso pensa, in quanto non vi è pensiero senza il suo oggetto. E’ più perchè non è il pensiero a crearla: la verità è prima ed indipendentemente da esso; e vi sono i veri che la mente può conoscere perchè c’è la verità, presente in ogni vero € per cui ogni vero è tale. Se la verità è più del pensiero, gli sovrasta, lo trascende; dunque, il rapporto verità-pensiero è di ordine gerarchico: il pensiero deve ubbidire alla verità. Il  diritto » alla sua libertà, a pensare il vero nella verità, lo esercita, afferma e garantisce solo a patto che compia il « dovere » di ubbidire alla verità, in quanto è libero solo ubbidendole. Altrimenti si fa schiavo dell’errore, esce dalla verità che è come escire fuori di strada, perdersi nel buio di sè a se stesso, pensare disformemente dalla sua natura, che è non pensare, soffrire della privazione della verità e del peso dell’errore. Dunque il concetto cattolico di libertà di pensiero si può così formulare: chi pensa conformemente alla verità pensa conformemente alla natura stessa del pensiero, il quale è libero quando pensa il suo oggetto proprio, cioè quando si sottopone all’ordine oggettivo e superiore della verità. Libertà del pensiero è libertà dall’errore: solo chi si fa servo della verità è libero dall’errore ed in possesso dell’oggetto che appaga la sua natura e, appagandola, gli dà la gioia della libertà piena. La libertà è processo di liberazione dall’errore senza che tuttavia s’identifichi con il processo attraverso cui si conquista. Similmente la libertà della volontà è libertà dal male, cioè volere conformemente al bene, il quale sovrasta la volontà e la trascende; dunque la volontà è libera quando è libera di ubbidire al bene, come il pensiero lo è quando è libero di ubbidire alla verità. Il concetto cattolico di libertà della volontà significa: obbedienza libera a legge giusta e buona; disubbidire in questo caso è farsi schiavi del male e perdere la libertà del volere. Anche per la volontà, dunque, libertà è processo di liberazione dal male, conquista del bene e conformità dell’azione al bene voluto, che, cristianamente, significa amato. Ma ecco pronte le obiezioni o i luoghi comuni: qui s’impone al pensiero una verità bella e fatta e lo si obbliga a seguirla; non gli si consente che si scelga la sua verità. Hanno un senso razionale queste parole ? Non bisogna imporre al pensiero nessuna verità? lasciarlo sospeso a se stesso, nel vuoto? Ma il pensiero non è affatto libero nel vuoto, anzi tende a liberarsi dal vuoto da cui rifugge. Bisogna dunque dargli un oggetto; e quello che gli è conforme e lo rende libero è proprio la verità, che è tal cosa che non è nè antica nè moderna, nè di ieri nè di oggi: è di sempre, extratemporale o superstorica, quantunque sia madre del tempo e della storia; è tal cosa che non può non imporsi al pensiero ed obbligarlo a seguirla. Se il pensiero dice di no, mentisce, e la menzogna, come l’errore, è schiavitù. i Che significa che il pensiero, se libero, deve scegliere la sua verità? Ha solo un senso: scegliere la verità invece che l’errore. Ma di fronte alla verità non c’è scelta, perchè non c'è più alternativa. Sua, sì, se significa che il pensiero scegliendola, se ne impossessa, la ama, le si sente unito; se la fatica della conquista gliela fa sembrare tutta per sè; sì ancora nel senso che in essa si trova a suo agio e vi si adagia, anche se per una veglia perenne. No, invece, se significa che Il concetto cattolico di libertà di pensiero la verità è prodotta o creata dal pensiero, a lui relativa e da lui dipendente, tanto da essere verità per uno e non-verità per un altro. Tal verità non è più tale, è opinione; ma qui delle opinioni non si fa questione. In breve: o si dice dimostrandolo che non vi è verità e non c’è più libertà di pensiero, per il semplice motivo che il pensiero è sempre nella non-verità; o verità c'è e allora, siccome la verità è tal cosa che è sempre vera e mutare non può, la libertà del pensiero ha ‘un senso razionale e comprensibile, se è libertà di essere nella verità, di conoscerla e amarla, di pensare e giudicare secondo essa. Ma il pensiero moderno non cattolico ha proprio negato l’esistenza di una verità oggettiva ed immutabile, dei principi stessi della ragione, per una verità storica e relativa, che è nello stesso dialettizzarsi e divenire del pensiero, temporanea e quasi puntuale, produzione mutevole della mutevole mente umana. Perciò, perduto il vero con- cetto di libertà del pensiero, schiavo dell’errore, accusa di negatore della libertà il Cattolicesimo, il solo che ne abbia un concetto vero avente tutta la sua forza normale perchè conforme alla genuina natura del pensiero, la cui libertà si realizza nell’ubbidienza alla verità, che è tal padrone che riscatta dalla schiavitù dell’errore ed impone tale di- pendenza che, solo dipendendone, si è perfettamente liberi. Dentro questa libertà del pensiero nella verità e della volontà nel bene è legittima e vera ogni altra libertà: po- litica e sociale, privata e pubblica, ma sempre tale che si attui nel vero e nel bene e in ubbidienza ad essi. Solo il concetto cattolico della libertà di pensiero è fondamento e garanzia di ogni altra libertà, della libertà integrale; perciò la Chiesa difende i diritti naturali della persona umana, che si compendiano in un solo fondamentale diritto: libertà di essere per la verità che è esser liberi di tutta la libertà e liberati dalla schiavitù dell’errore. Tale libertà ha un solo limite: la verità per il pensiero, il bene per la volontà; perchè non ha senso una libertà del pensiero e della volontà oltre la verità, al di là del bene. Oltre la verità e il bene c'è il nulla di verità e di bene, che è il nulla di pensiero e di volontà; e nel nulla non c’è questione nè di libertà nè di schiavitù: c’è il nulla della persona umana, di ogni suo di- ritto e dovere. Pensare fuori della verità è non pensare e non essere affatto liberi di pensare; è sbrigliarsi nell’errore, che è il niente del pensiero; pensare quel che piace è rifiu- tarsi di pensare quel che è vero, è il non-pensare perchè ciò che piace non è oggetto del pensiero ma del senso. Se si abbandona il piano della libertà spirituale o di pensare nella verità si scende a quello della libertà biologica o vitale, governata dal meccanismo degli istinti e dalla violenza delle passioni. Allora il soggettivismo incontrollato del « ciò che piace » fa che l’uomo venga meno alla sua prima libertà so- ciale e morale, quella di riconoscere e rispettare la libertà dell’altro: è la violenza in tutte le sue forme, dell’assassinio singolo e di quello collettivo (la guerra), della rivolta o della tirannide. Per esser libero, l’uomo deve farsi libero di non fare quel che gli piace, e di fare quel che è giusto perchè conforme all’ordine del bene, in cui soltanto la sua volontà è libera e all’ordine del vero, in cui soltanto il suo pensiero è libero. Dunque libertà nella verità e nel bene. Da un punto di vista teologico questa formula si traduce in quest'altra: libertà nell’ortodossia. La verità è infinita e si manifesta in aspetti infiniti, che mai la esauriscono; pen- sare nell’ortodossia è aggiungere qualcosa, armonizzante col tutto, al sistema dell’inesauribile verità, come una guglia ad una cattedrale. Perciò noi crediamo che una filosofia, per quanta verità possa contenere, non è mai tutta la verità e dunque non vi è alcuna filosofia che possa dirsi tutta la verità cattolica. Tante filosofie perciò, ma non come tante verità, bensì come tanti veri, parziali e concordanti, della unica verità, in essa convergenti, come i raggi di un cer- chio convergono tutti al centro. La Chiesa ha conosciuto nel migliore Medioevo questa magnifica libertà di pensiero den- Il concetto cattolico di libertà di pensiero 245 tro l’ortodossia; il pensiero ortodosso non può identificarsi senz'altro con una filosofia o con una determinata corrente filosofica. Non una philosophia perennis, perchè perenne c’è solo la verità e la filosofia come ricerca e scoperta di sempre nuovi veri nella verità, ognuno dei quali è perenne come particolare vero. Perenne è ogni filosofia le cui verità rive- lano un aspetto della verità, perchè vive della vita perenne della verità; è ogni pensare nell’ortodossia, senza esclu- sione, in quanto la verità è soltanto monopolio di se stessa ed oggetto di ogni pensiero retto e di ogni volontà onesta. Chiunque abbia scoperto un vero ed accresciuto l’umana conoscenza dell’unica eterna verità, anche se si dice ateo, contro se stesso, pur essendo schiavo dell’errore, è libero per quanto pensa e conosce di vero, nella misura in cui ubbi- disce alla verità, ed è anche cattolico per quel che pensa non contraddicente l’ortodossia. Il concetto cattolico della libertà di pensiero è tal cosa che rende liberi anche coloro che fanno di tutto per essere schiavi dell’errore e del male. Michele Federico Sciacca. Sciacca. Keywords: il veintennio fascista, metafisica, ontologia. Refs.: Grice e Sciacca” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speraza -- Grice e Scipione: la ragione conversazionale del circolo degli Scipioni – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Si trova al centro del più antico portico romano. Console, distrugge Cartagine, ottenne la censura, dirige un’ambasciata in Oriente, e di nuovo console, distrugge Numanzia. È un appassionato lettore della "Ciropedia" di Senofonte e ha tendenza del Portico. Forse, anche per questo motivo, da alle sue orazioni contenuto morale e vi dipinta la corruzione. A statesman, military leader, and scholar. More a patron of philosophers than a philosopher himself, he is particularly close to Panezio. Cicerone regards him sufficiently highly to include him as character of some of his philosophical works. He is much admired for his courage and moral integrity. C UM in Africani veniftem, M. Manilio z Confuti  ad quartam legionem Tribunus, ut fcitis, militum ; nihil mihi potiusfuit, quam ut $ Mafmiffam convenirem, regem farri il \x noftrsejuftis decauflis amicìfllmum * Ad quem ut veni, complexus me (enex  collacrymavit : aliquantoque polì (ulpexit in calum, Grate (inquic) tibi ago, furarne Sol, vobifque,  4 rel qui Caelites; quod, antequam ex bac vita migro,  confpicio in meo regno et histe&is P. Cornelium Sci*  pionem, cujus egO nomine ipfo recreor .* ita numquam  ex animo meo difcedit illius Optimi atque invitìiffìmi  viri memoria, Deinde ego illum de fuo regno, illemd  denofìra Repub. percontatus eft : multifque verbis uttro citroque habitis, i 1 le nobis confumptus eli dies «  Poftautem regio apparatu accepti, fermcnemin multata nodem produximns; cumfenex nìtiil nifi de Africano loqueretur, omnìaque eius non fafta folnm, fed  ttiam di&a m^miniflet; deinde, ut cubitum difcedi.  mus, me et de via fefl'um, et qui ad multam noflem   vi  t Seipio . Figliuola di Lucia  Emilio Paolo Macedonico, adottato da Scipittne figliuolo dell*  Affici cano il maggiore, che diflrutfe Cartagine e Numanzla  nell'anno 609 Or etto nella difputa di Repubblica follenea cotitra l' oppln Ione di Filo, che tanto era falfo non poterli lenza  commettere inglnftiiie la Repubblica governare, che anzi dicea  non poterli reggere Lina una  » fornirla gluftizia Sant* Agoftino  di clb ragiona nel libro il cap.  21. de Civltate D I, a' cui tempi quelli libri di Rtpubl. fi leggeano, come pare, ed andavano  attorno .   1 Confuti ...... tribunus    militum . Ulata maniera, nort  Confuti. Diccafi fimilmente Ir*  gatus confuti non confuti .   I Maftnifj'am . Re d' una patte d' Affrica . Solleone in prima  11 partito de* Cariaginelì contra  i Romani, nell' anno di Roma  541. Ma quattro anni apprelfo,  avendo Scipione niello in rotta  l'armata d'Afdrubale, rimandò  fé u za prezzo di rifcatto 11 nipote a MalTìnilfa ; per tale eciierofo ano sì ptefo e per taf modo  fu quello principe, che poi fu  fempre cffezionjiiflimo a' Romani . Con erti congluofe l lue  forze, e nell'anno 55I. di Roma lì trovb alla battaglia, che  quelli guadagnarono contro N   SCIPIONE PARLA, / K .   E Sfendomi portato in Affrica, militar tribuno, co»  me fapete, alla quarta legione fotte il Confole  Manio Manilio; non ebbi cofa, che piò a cuor  mi folle, quanto il far vifita a Maflìniffa re per giu»  Hi titoli aftezionatiflìmo alla noftra cafa* Al qua! come fui giunto, il vecchio abbracciatomi, versò lacrime : ed alquanto appreflo levò, gli occhi al cielo, e,  Grazie, difTe o fommo Sole, ti rendo, ed a voi al*  tri, celefti Dii, che, prima di pa (Tare di quella vita,  nel mio reame veggio, ed in quelli foggiorni Pubblio  Cornelio Scipione, pel cui nome i He ITo prendo riftoro:  s\e per tal modo dall’animo mio non fi diparte giammai la memoriadi quell’ottimo, ed invittiffimo uomo Apprelìò io gli feciftudiofe ricerche del reaméluo, ed  egli Culla Repubblica noftra . Accolti pofeia in reai trattamento, menammo per la lunga irragionar lioftro  fino a gran pezza di notte; conciofoffèchè il vecchio  non avelie alla lingua altro che 1* Africano, è ricordane non folamente tutte le azioni di lui, mà i detti  altresì: come ci fummo fu levati per andare a letto,  e per efier dal viaggio fianco, e perché io vegliato  ayea fino a notte molto inoltrata, mi prefe cm Tonno  più ferrato, che nonfolea. In quefto a me (credo veramente da ciò procedeffe, di che avevacn parlato ;   • O o a che   Afdrubale, e dì Si face . Dopo,  la pace conci «fa tra.* Romani ed  i Carraginifi ebbe la fovfanirà  di diverfe provincle d* Affrica,  e vide Tempre amico de* Romani .  Morì di qo. anni, e lafciò 44.  figliuoli di di vetfe conferii . Dicefi che nell’ ultima malartia  pregafle Mal Ho generale dcll'armata Romana, ad Inviargli il  giovane Scipione, affine d* aver  la conio lezione di morire nelle  Tue braccia, e per dargli gli op*  portunLordioi, che offcrvati vo  lea fui rìpaftimento del fuo regno .\E da quella contezza per,  avventura s’accatta I’occalìone  data al fogno .   4 Reìt^ui Calìtes . Accenna  la luna e gli altri pianeti e delle del elei fu premo, annoverate  dalla pift parte degl’Antichi  tra gli Dei. Di che Lattanzio  ragiona nel de  Fal/a Religione . Platone nel  Cratilo deride sì beftiaJe oppimene vigilaflem, ar&ior, quam folebat ; fomnuscomplexus  eft. Hic mihi (credo equidem ex hoc» quod eiamus  Jocuti : 1 fit enim fere, ut cogitationes fermonefque  noflri parfant aliquid in fonino tale, 2 quale de Homero fcribit Ennius, de quo videlicetj faepifTime vigìJans folebat cogitare et loqyi) Àfricanus fe oftendit illa forma, qua: mihi 3 ex imagine ejm, 4 quam ex  ipfo, erat notior. Quem ut agnovi, equidem cohorrui. Sed ille, Ades, inquit, animo ; et orni tee timorem, Scipio ; et, quae dicam, trade memori. V Idefne ilfamurbem, qu* parere Pop. Roro. eoa da  per me, renovat priftina bella, nec poteft quiefeere (oftendebat aurem Carthaginem 5 de excelfo, et  pieno flellarum, illuftri, et darò quodaro loco) ad  quam tu oppugnandam nunc veois piene miles? hanc  hoc 6 biennio Conful evertes : 7 eritque cognomen id  tibi per te partum, quod habes a nobis adhuc heredita  x Fit enim fere iti cogitaiiona <y c . Socrate appretto Platone nel 1 bro 9. de Repub.  di quelle cagio.ù, il fognar  generanti, va nobilmente filosofando.   a Squali de Homero fcribit  Bnrtiuf . Leggendo Ennio % e  meditando 1 verfi d* Omero e  fluitandone con premura Pihritaiiene, fognò <1* effere divenu'O O nero, e che l’ anima di  colui (offe pattata m etto gialla il Pitagorico domina . A ciò  allude Orai. uell’Epift., Ennius et f api Citi, for «*   tis (5 f alter Homerus .  ÌJt Critici dicunt, leviier  curare vìdetur. Ut pronti fa cadant, <y fo»  mai* Pytbagorea w   v   Oc. nel Luculìo cita un etrffU  cMo del luogo, dove Ennio >1  fuò fogno narrava . Fifus Homr.  rus adejfe poeta.   j Ex imagine ejus &c. Allude a que* ritratti degli antenati,  che fottenuto a reano curut ma*  gittrato,oche tener fi folcano  appetì uell* atrio.  Quam ex ipfo . Vuole 11  Sigonio che nell' anno, che  trapafsò 1* avolo Scipione Affocano il Maggiore, venitte a  htee il nipote adottivo 1' Affricano il Minore, cioè nel 571. fotto 1 confoli Apjlo Claudio Pulcro, e Marco Sempronio  Tuditano . Altri però lo fanno  nato due anni prima : e* pare  che ciò piò confuoni all'efpref*  fumé, che nel prefeme luogo  fi adopera .   5 De exctlf» . 1/ Affocano  parlava dal cerchio ^ della via  Latea, gremita di piccole ttel*  le, come dicono Ariftoti le 1  thè d* ordinario fuccede che ipenfamenti e difcorfi no*  Ari generano un non fo che di Tinnii nel Tonno, come  Ennio Tcri ve a lui Tu d’Omero avvenire, del qual fovente Tolea nel Vero penfar vegliando e parlarne) in  quello, dilli, a me mi fi fe l’ Affocano vedere in quel  iembiante, che più dal ritratto di lui, che da elio  medefimo, m’era noto* Cui come ravviato l’ebbi, fentii del ribrezzo. Ma egli dà qua mente, prefe a di*  re, o S., e caccia via il timore; ed a memoria manda quel, che dirò*    Q Uella città vedi tu, cheper opera mia cofirettaa  predare ubbidienza al popolo romano, le guerre  prilline rinnovella, nè può racchetarli (ed additava Cartagine da un certo alto lungo, e pien di  flelie, illuminato, ed arioTo) a cui oppugnare ora tt|  ne vieni quali faldato? quella tu interinine di due anni con podellà conlolare diroccherai: e ti avrai quel  cognome per tua opera procacciato, che d^noi fina do*  ra pofliedi ereditario. Quando avrai poi fllrtag'n di firutto, menato trionfo, e Tara illato Cenfore, e legato avrai cerco attorno T Egitto, la Siria, .T Alia, e la  Grecia, Tarai di nuovo eletto Confole Tenza cohcorre.  re, e recherai a fine una poderofiffi ma guerra, rovine*   O 0 ì rat ^   } Eritrite càgnomin &c. Dite 1* Affricano il Maggiore ;  t* acq unterai per tue valorofe  Opere II cognome d* Africano,  che firtadora da me avolo tuo 1*  hai ereditarlo . Ottervano che  1* A Africano il Maggiore fu il  primiero -tra* Romani comandanti, dopo terminata la seconda guerra Punica, che fregiato  forte del ritolo formato da natiorte foggìogata da lui . Su tal  prorofi'o Liv. nel fine del llb.  3CXX. riflette . Exemplo fèittdg  hujus, tìffHaquàm V'&ori* p*-,  tei •> infignes, imaginum tiiulot  tlaraque cognomina f amili* fi*  cin le e Toìommeó, la qUale pef  coiai fimiglianza od apparenza, che ha col ìatte, fa da   Greci detta a (• Svariate furono le oppiniont della cagione di cotal comparfa,  ma la piA naturai pare « quel  color fifultare dalla moltttudin folta di quelle piccole  «elle ..  Biennio tonfai . Ottervà il  Slgonio che 1* Affrica no fu ben  confole due anni appretto, ma  pattaron tre anni prima di compier r imprefa, e la città ditteutte In carattere di proconsole, come egli dimoftra ue* commentar j de' ratti .  . tanurn, Cum aurem Carthaginecn deleveris, triumphum egeris, Ceniorque fueris, et i obieris legatus  Egyptum, Syriam, Afìam, Grgciam, deligere iterum  conful x abfens, bellumque maximum conficies » Numantiam exfcindes: fed, cum eri* curru Capitolium  inve&us, offencles Renripub. perturbatane confiliis $  nepotis mei • 4 Hic tu, Africane, oflendas opcrtebit  patri» lumen animi, ingemì, confiliique tui . Sed  ejus temporis aneipitem video quafi fatorum viam. Nam, cut» aetas tua feptenos otììes 5 t Solis anfratìus,  reditufque converterit ; duoque .hi numeri (quorum  utetque plequs, alter altera de caufla habetur) circuicu naturali fummam tibi fatalem confeceriot ; in  te unum, atque in tuuic nomen, fe tota con verter  civiras : te Senatus, te omnes boni, te focii, te Latini intuebuntur : tu eris unus, in quo mtatur civitatis falus: ac, ne multa, 6 diélator Rempub. confti.  tuas oportet | fi impias propinquorum manus effugerìs.  Hic cum exclamafTet Laelius ingemuiflentque ceteri vehementius, leniter arridens Scipio. Qn^fo, io* quit, ne me e fonino excitetis ; 8 pax ; audite ce*  tera. W  1 Oliar is legatus. Scrive   Giuntino nel ìib. j8« che per  esplorare gli animi de re, e  de comuni fu mandato legato con Spurio Mummio, e Lucio Metello . Oc. però dice  nel I.ucullo che quella lega,  rione feguì prima della esercirata ceuftira, e così pur fente il Sigouio . Che qui poi  prima fi accenni la ce n fura,  fi P u h cib riportare al cumino,  do della efpouzione, alla quale  tornava piti in acconcio il mct.  terla prima.   z Abfens . Giulia la maniera, d-: Ila qual parla fovente  .Livio, quando fi ragioni dell*  elezione de* magiftrad 1* ai»  fetts importa 11 non concorrervi ed il non proiettarli candidato coll'andare in quel mimerò nel campo Marzo • Glb  ben ritrae fi dal conte fio di  molti luoghi degl’istorici, ed  olcraccib il comprova la propria forza di abejj*, il qual  verbo importa non l'efier lontano, ma il non efier prefente. ? Nepotis mei . Intende Ti.  berlo Gracco, figliuoi di Cornelia figliuola dell* lAiTrjcano  il Maggiore, il quale, colla  legge agraria taflarsu i 5 0. ju«  ger! di poflefTo, voleva abbattere lo fiato già corroborato degli ottimati *11 fatto t coìrti Itinio nella llorfa Romana, del  quale abtiam già fatto pai volte ricordo. 4 Hic tu, Africane, Vuole. s ui    rai Numanzia; ma quando in cocchio farai condito  al Campidoglio, troverai la Repubblica fcompigliau  per le màcchine del nipote mio. Qui converrà che  tu, o AfFricano, facci alla patria vedere il la^reddl*  animo, ingegno ed accorgimento tuo . Ma di quel  tempo io veggio ambigua effer quafi la traccia de’ fati . Imperciocché quando la età tua voltato avrà per  otto volte fette tortuofi giri e ritorni del Sole: e queRi due numeri (che amendue per pieni tengonfi  qual per una cagione e qual per altra) come con periodo naturale t* avranno compiuta renduto la fatai  fomnru : tutta la città in te folo rivolgeralTì, ed a|  tuo nome: in te Afferà lo (guardo il fenato, in te tutti i buoni, in te gli alleati, ed i Latini: tu farai 1’unico, nel quale la fai vezza della città foflerraffi: e, per non farla più lunga, d’uopo è che tu dittatore  metti in buon ordine la Repubblica, fe ti verrà  fatto di fcanfare 1 empie mani de’ tuoi parenti In quello avendo Lelio levato alto la voce, e dato aceefi  gemiti gli altri, S. per maniera piacevole (or?  ridendo, deh, difTe, non mi rifcotcte dal foono:  fiate chieti : fentite il refìo. qui il Sigonio accennato il facto di Cajo Carbone tribuno  della plebe, quando condii fle  fu’roftri Scipione, ed il coftrinfe a dire, che gli parerle dell*  uccisone di Tiberio Graccp, al J [uale egli con franchezza rifpo-e, eum [iti fare cafum videri.   5 Soli* anfratti* s Cosi nomina i giri del Sole per la obliquità del' Zodiaco, per cui vigore il fole or piega a fettentrione ed ora a meriggio . Cosi  pur chiamanti le curve e sinuose vie de* fiumi e de lidi con  rutta proprietà latina. 8 Dittator rempub. Significa,  che fenza fallo farebbe ft.uo  dittator creato, per acchetare  gli fcompigU della Repubblica,  te non folle flato tolto di vita  da* parenti con infidie, ed in  O 0 4 HL Affetto fu trovato morto fui fuo  letto.  Hic cum exclamafjet . Si finge che nella leena del fogno v*  Intervenirle Lelio e gli altri perfonagoj accennati di fopra,  che deputavano di Repubblica.  Or qui Cic. l’erba il carattere  decoroso di S. . Perciocché mentre alPafcoltarfi de futuri rifichi di lui gli alcolcnnci  dimoftrano conimozion d* ani-mo: folo l’eroe, a cui appartengono, ferba intrepidezza e  cofanza % Pa . Voce da Latini concici ufata ad accennare filenzio. Terenz, Eavtont. 4. j* Unus eiì  dits, dum argentarti eripio,  pax, ni AH amplia s . U fai la pur Plauto. C*ED; quo fis, Africane, alacrior adtotandamRemò pub. fic habetoi omnibuJ, qui patriam confervarint, adjuveriot, auxerint, certum effe incacio ac definitum locum, ubi beati aevo ftmpiterno fruantur. Nihil eft enim illi principi Deo, qui omnero hunc mundum regie, quod quidem interrii fiat, acceptius, «pian»  concilia caetulque hominum ajure lodati, qu* civitatesappellantur : harum redloresS confervatores ahinc profefti, huc revertuntur. Hic ego, etfi eram perterritus non tatti metu mortis, quam infidiarum a meis,  quaefivi tamen, viveretne ìpfejPauIlus pater, salii, quosnos extinflos arbitraremur . Imo vero, inquit, 11  »ivunt, qui 4 exeorporum vinculis, tamquam e carcere evolaverunt . Veftra vero, qua; dicitur vita, mori  eft. Quin tu afpictas ad te venientem Paullum patrem.  Quem ut vidi, equidem vim lacryroarum profudi. Jlle autem me amplexus, atque ofculans Aere proh.bebat Atque ego ut primum ftetu repreflo loqui polle  1 cce- t 1 Jure focidti. Si accennano  tutte le raguuanie, che risultano dal conienio ed offervauza di  legpl . Dà buon lume all* efprcllìone un luogo di Macrobio. Servili s quondam, die*  egli f et gladiatoria manus concilia, CcBtufque hominum fuerunt, fed non jure {odati . JUa  autem fola eli jufia multitudo,  cujus vnitfrjitas in legum  tonfentit otfequium. E quella  definizione conviene con quella»  che Platone ci da della legittima moltitudine ne' J'hfl della  Repubblica, ed Ariflotile nel   ljb. II. de* Poikic*. I Bine profetili Già nel llb.  de'Senec Spiegammo la fentenza Platonica Sulla origin di tira delle anime, ammetta pure  da Cic. Qui aggiungo in conferma un patto tratto dal V. l* b »    delle Tufculane . Bumanus ani-f  ntus decerptur ex mente divi- i  *4, cum alio nullo, nifi cum \  tpfo Deo % fi hoc fas e fi diflu, comparar i potefi . Or in quello  luogo Spezialmente attribuisce il  ritorno in Cielo a quegli Spiriti, che /landò in quella vita,  dirittamence prefederono alle Repubbliche . 3 Vaullus . Che fu naturai  padre di Scipione Affricano il  Minore, il quale foftiene il Sogno . Quegli chiamoflì Lucio Emilio Paolo, che Soggiogò Perfeo Re di Macedonia . L* adottivo fu Pubblio Scipione figliuolo dell* Affricano il Mag*  giore : quello Affricano ha dato principio all* iftruzione del,  fogno ; la quale è fiata Inter.  rotta da Paolo .   4 Ex cor forum vitteulis   Ella 1 . v   M A, oAflfrictno, acciocché pibcoraggiofofii a fofìcner la Repubblica, Tappi, che a tutti coloro, i  quali confervatohan la patria, aiutata, e vantaggiata,  v’ha in cielo uo fitto e determinato luogo, dove godan beati un eterna vita. Imperciocché a quelprincipale Dio, che tutto queir univerfo governa, di quello,  che fi opera almen nel mondo, nulla v’ha di pih accettevole, che le ragunanze ed i ceti degli uomini per  leggi aflTociati, che città fi appellano : i reggitori, e  confervatori di quelle quinci partiti, quafsh fan ritorno. In quello io, febbene mi trovava (paventato, non  tanto dal timor della morte, quanto dall’ infidie, che m’ordirebbono i miei, ricercai tuttavia Te vi veflfe l’ifteffo mio padre Paolo, ed altri, cui noi cedevamo eflinti • Che anzi, loggiunfe, e(Ti vivono, i quali da’  corporali legami, come da carcere, fono via volati   La voftra poi, che vita dicefi, ella è morte. Che anzi volgiti a vedere il padre Paolo, chea te ne viene.  Il qual come veduto ebbi, verfai veramente gran copia  di lacrime, Maegli abbracciatomi, ed imprimendo baci, il piangere mi vietava. Maio come prima, ripreffo il pianto, cominciai a poter parlare, deh, dilli, o  fintiamo, ed ottimo padre, poiché quello egli é vivere (come lento dire all’ Affricano) che fio a fare nel  mondo? perchè non m* affretto a venire da voi quaf.  sii ? Non va così la faccenda, replicò egli. Se quel Dio,  del quale è tutto quello profpetto, che vedi, non t'avrà  dal corporal carcere liberato, non ti fi può aprire ac ceffo    Ella è dottrina ed efpreltìone  Socratica . Nei Fedone di Platone Sando Socrate per ber la  cicuta, tra le altre cofc, cui  viene introdotto a dire full* anlma, prefenti 1 difcepoli; afferma il corpo efierc una carcere dello fpirlto, che ivi con  violenza dimora come legato,  il di lui naturai luogo, e plft  puro elTere 11 cielo, e la morte altro non elTere che un difcloglinienro da quello carcere,  ed un ritorno alla maggion  celefte . E coerentemente nd '  Fedone, nel Ostilo, ed in  altri dialogì di Platone il corpo chiamali« 7 a vi»»   cui a animi, e lèCfduvnpiOf  career . Che ami alcuni vogliono che ìsutui corpus tragga Parlino logica origine da   Ai? f/os, coltcch<è Ha come  Vinculum animi, ed al corpo   li a 0Uìlihp&vn 'luXt! colli»  gatus animus capi, Quasfo, inquam, pater fan&iflìme atque optime,  quando hasc eft vita ( ut Africana m audio dicerc) quid - luoror in terris? quia huc ad vos venire propero ì Noti  eft ita, inquitille. NifiOc*usis, i cujus hoc templum  eft omne, quod confpicis, iftis te corporis cuftodiis Jif  beraverit, huc tibi aditus patere non poteft . Homines  cairn funt hac lege generati, qui tuerentur ilium globunri, quem 2 in hoc tempio medium vides, quae terra  dicitur . Hifque animus datus eft ex illis lempiternis  ignibu9, quas 5 fiderà et ftellas vocatis ; 4quae globo»  fae et rotundae, divi nis animata^ mentibus, circos fuos  orbefque confìciunt celeritate mirabili. Quare& tibi,  Publi., et piis omnibus retinendus eft animus in cuftodia corporis: nec injuftu ejus, a quo ilie eft vobis da  tus, ex hominum vita migrandum eft ; ne munus humanti m aflìgnatum a Deo, defugifte videamini. Sedfic,  Scipio, ut avus h*ic tuus, ut ego, qui ce genui, juftitiam cole et pi età te m ; quas cum fit magna in parentibus et propinqui, tum in patria maxima eft . Ea vi*  ta via eft in caelum, et in hunc ccetum eorum, qui  jam vixerunt, et corpore iaxati illum incolunt locum,  quem vides (erat autem is fplendidiflìmo candore in»  t ter ffommas circuseluceni ) quem vos, ut aGrajisaccepìftis, $ orbem la&eum nuncupatis. Ex quo omnia  mihb contemplanti preclara cetera et mirabilia vide»  bantur. Erant autem eae ftellas, quas numquam ex hoc  loco vidimus; et eae magnitudinesomnium, quas erte  numquam fufpicati fumus . Exquibus erat ili* minima,  qua ultima cacio, citima terris, luce lucebat aliena.  Stellarum autem globi terrae magitudinem facile vin*  cebant . Jam ipfa terra ita mihi parva vifà eft, ut me    1 Cu fui hot templum e fi o*  mnt, Tutto il ciclo dicefi t*m~  plum con proporzione, cbe I  luoghi rilevati, per tenere le  Kf elioni degli auguri, dicean*  v tempi a % che viene a. Tigniti*  care laogo, che da ogni parte ha profpetto c veduta . D*  onde nato è il verbo tontem»  flavi. Così pure Terenzio chiama 11 cielo tempia nell* atto HI.  dell'Eunuco • v*;: -1 .•   Ai quem Dtum, qui lem pia cali fumma fonitte  coifcutit .   1 In toc tempio medium .  Cioè la terra, che da ogni  parte dal cielo è circondata,  come punto da fmifurara circonferenza tujvs templi di quello hnmenfo profpetto.   ì Sidera. Propriaménte fono 1 fegni celefti componi di  più Itelle, quali fono T Ariete       ceffo quafsà . Imperciocché fono gli uomini con quella  condizion generati, che quel globo guardino, cui col*  locatovedi nel mezzo di quello profpetto, il qual globo  r dicefi terra. Ed a quelli è flato dato lo fpirito da quei fempiterni fuochi, cui voi codellazioni e delle chiamate ; le  quali eflendo globofe e rotonde, e da divine menti animate, i cerchi e i giri Tuoi compifconocon mirabilecelerità • Laonde ed a te, o Pubblio, ed a tutte le pie pedone dee lo fpirito rimanere nel carcere corporale : nèfenza il beneplacito di colui, da! quale vi fu compartito,  non fi deedalla vita, che menan gliuomini, diloggia  re; per non parere di volere sfuggitela umana incombenza da Dio afTegnata, Ma in quefla condizione, o  S., come fatto ha quello tuo avolo, ed io, che  t’ ho generato, la giudizia pratica e la pietà ; la qua.  le ficcome ne genitori efercitata e ne’ parenti è di gran  pregio, così verfo la patria è d* eflìmazione grandini*  ma. Queftotenor di vita firada è pel cielo, ed in quello ceto di coloro, che viffergià, e dal corpo difciolti, quel luogo abitan, cui tu vedi (ed era quello un  cerchio tra le fiamme lucente d’un candore rifplendentifTimo) il qual voi, come avete da’Greci apprefo, il  chiamate la via lattea. Dal quale io ogni oggetto contempiando, nobililTimemi fembravan le altrecofee ma.  ravigliofe. Erano poi quelle flelle, le quali nonabbiam  giammai da quedo luogo veduto ; e di effe tutte tali  le grandezze, quali non le ci damo immaginategiammai  Infra le qua ! i quella era di minor grandezza, che  nell’ ultimo cielo, e pih vicina alla terra, rifplendeadi  luce accattata . Ma' i globi delle delle la grandezza  della terra vinceano lenza fallo. Orla terra mededma  co.    tc, l’Andromeda, 11 Leone ec. 4 . J£ud globofd . Crede Ari.  dotile che le ftelle fieno di  forma sferica, sì perchè In  qualunque lor progre filone noti  ci dinioftran couiparfa d* alcra  figura, sì ancora, perchè, fiecome la luna, che annoverar  fi dee tra le ftelle, è di forma sferica, egli è arresi vorifimilc, che le altre ftelle pure portin P Iftdfa figura . Oltracciò gli Stoici appretto Cic. nel  de Nat. Deorum  furon d* avvita aver le ftelle  la forma e figura ìftetta dell*  Uni verfo, perciocché quefta è  la pi fi bella, la piA univerfale,  che le altre comprende, ina fen*  za 1 difetti . Orbem laHeum . Della via  httea già parlammo di (opra »  Per dottrina degl] antichi filo,  fofi quella era deftinato feggio  de* beati {pirici imperii nofì ri, quo quali punftum ejusattingimus, pae*  niteret. Quam cum magis intuerer, quacfo, inquit Africanus, quoufque humi defixa tuamenserit? Nonne  aipicis, quae in tempia veneris? i Novem cibi orbibus, vel potius globis, connexa lune omnia, quorum  unus eft cfleftis extimus, qui reliquoSvOmnes compie-élitur, 2 lummus ipfeDeus, arcens& continens ceteros; in quo infixi funt illi, qui volvuntur, ftellarum  curfus fempiterni,• cui fubjeéli funt feptem, qui ver.  fantur retro, $ contrario morti, acque Cglum, ex qui*  bus unum globum pofTidetilIa, 4 quam in terris Saturniam nominane; deinde eft hominum generi prosperus et falutaris i Ile 5 fulgor, qui dicitur Jovis ; tum rutiJus horribilifque terris, quem Martem dicitisi deinde 6 fubtermediam fere regionem Sol obtinet, dux&  princeps, et moderator luminum reliquorum, mens  mundi et 7 temperano, tanta magnitudine, ut cunéta   (uà  1 Movent tìii orbi bus . 1 cerchi Tono nove, comprefa la  terra, la nual non fi muove: l’uno e l’altro è giuda 1’oppìnion degl’antichi . Sicché  sopra I’ottavo cerchio celefte  altro non ne poneano, e quello {limavano che tatti gli altri comprendere e deiTe Ior  confiftcma, come Oc. viene qui  dichiarando.  1 Summus ipfe Devi . Quefta.  fuprema ed . ultima sfera regolatrice delle altre chiamai» Dio  per ecce llema, come Cic. ta.  lora cotal titolo attribuire ad  uomini fingolarmente valenti  in alcun genere . V. G. nel  Ut. I. de Orat. Te fetnper in  dicendo putavì Deum . Ad Art.  IV. 15. Feci idem, qvod in  Tolitia fu a Detti 'tilt nofler Flato . Altri interpreti poi credo  no ( ed è il plfi verifimile )  che qui Oc. parli fecondo l'oppìnione non tua . ma di molti  Antichi, che I* Onlverfo, 11  Cielo e le Stelle riputavano  divinità . Nel de Nat.  Deor. esponendo Clc. la fem  tema fu di cib di Platone così feri ve . Idem in Timeo  Jrcit in legiius fy murtdum  Deum effe, et célum, et 4Jira, fV terram, animo t .  Nell' iftetfa opplnione fu Senocrate, e Cleame, come ivi riporta fi poco appretto.   j Contrario motu atquè Ca 0  lum . U atqtte è particola correlativa di contrario, polla li»  cambio di quam .   4 jQuam in tetris Saturni dm,  La della di Saturno » la piil  alta delie erranti : chiamata   é da' Greci QctiVCùV j Uccome   quel  così piccola mi fembrò, che (enea mi malcontento del  noftro imperio, nel quale ne tocchiam come un punto  di quella.   LA quale io vie maggiormente riguardando, deh, l’ Affricati foggiunfe, e fino a quando farà la tua mente in terra fida? E non vedi tu in che profpetti fei  venuto? ogni cola ti viene concatenata in nove giri .  o piuttofto globi, de 1 quali l’uno è il celefte nell’ultima efterior parte, che tutti gli altri contiene, in sé  fommo Dio, che tutti gli altri lega e comprende : nei  quale fermati fono que’ (empitemi corfi di delle, che  fi vanno aggirando; al quale fot topofìi fono i fette globi, che indietro fi volgono, con moto contrario a  quello ; che fa il cielo, de* quali un ne poftiede quella  della, che nel mondo chiaman Saturnia; fuccede appretto quel fulgore profperoe (aiutare all'uman genere,  che chiamali Giove; quindi ne viene il rodeggiante  pianeta, fpaventevole al mondo,. cui dicono Marte;  il Sole occupa pofeia la regione, colà intorno a lotto  mezzocielo, guida, e capo, e direttore degli altri luminari, fpirito, e temperamento dell’univerfo, di sì fmifurata grandezza, che colla luce illumina, ecorapie ogni cola. Tengono a quedo dietro, comecompagni, l’uno il camino di Venere, e l’altro di Mercu  quella il Mercurio c/ h/?àtv   voci latinamente per Aufonio  adoperate . Tempori qua StiU  von volvat, qua facula Pia.  i io* . Queita ftclla crederi  mandare influenze gelide e torpide : oude fu rlpurato iL^lancta de* vecchi,* che però ueno  tantalici e fartidiori . Compie il Tuo cerchio iu anni ig.   f iorii! 1 6t. ed ore iz. Cic. pel  uo tardo procreilo nel  de Nat. Deor. vuole che così  chiamili quod •fdturrtur attui s .  li Ricciolio peri» nell* Almegirto dà al dì lei corfo ip. anni c ipo. giorni •   5 Fulgor, qui dieitur Jo*  v'tt . Quanto alla difporizion    rio;   grammaticale, o Jovis i genie. retto da fulgor, ovvero  è nomin. giufta 1* ufo, nel  qual era nell* antichi (limo Lazio . Quefta rttlla fu da* Greci detta (pctttitùv da /«- •   cto, ardto . Da Latini fu detto  Jupittr Jovis da j uvando, atteri gi’influflì fuol temperati e  falutarl : onde da Cic. chiamali prosperus (gf f alutaris . 6 Subttrmediam . Vocfe ottima, ma pure dal Calepino  riformato non ricordata punto  nè popo . 7 T tmperat io . Perchè il Sole col calor fuo comcmpera il  deio e la terra. ; sua luce iUuIIrer et compleat. Hunc ut cornice» conte»  quuntur alter i Veneris, alter a Mercurii curfus ; in  infirooque orbe Luna radiis Solis accenta convertitur  infra autem jam nihil ed > nifi mortale et caducum,  praster animos generi hominum munere Deorum datos»  fupra Lunam funt aeterna omnia. Nam ea, quae  media et nona tellus, j neque movetur : infima eli,  in eam feruntur omnia 4 nutu luo podera.   Q xjk cum intuererflupens, utmerecepi, Quishic,  inquarti, quis ed, qui complet aures meas tantu$  et tam dulcis fonus < Hic eft, inquic ille, qui  intervallisconjunfìusimparibus, fed tameng prò rata  parte ratione diftin&is, ó impulfu et motu ipforum or»  r bium t Veneris . Quello pianeta fi  difttngue per la fua lucidezza,  e biancheria « onde avatua tut*  tl gli altri pianeti » ed è si  notabile, che in un ofcuro  luogo fpòrge ombra fenfibìle •  11 fuo luogo e tra la terra e  Mercurio . Egli accompagna  collantemente 11 Sole, e mai  non fene dilunge più di 47.  gradi. Quando quella ftcjla va  innanzi al Sole, che fi leva 9  dicefi Fosforo, Lucifero o Ileila mattutina t c quando gli tien dietro, e che tramonta dopo  di lui, chiamali Espero, o Vesper, o stella Vespertlna . 1 Mercurii . Il piò piccolo  de* pianerf inferiori,< ed il piò  vicino al Sole. La mezzana  diltanza di mercurio dal Sole  per rispetto a quella della ter*  i;a al Sole tiene la proporzione di 387. a I00O. Giulia il  fentimento di Neuton, fondato fulle prefe efperienze per  mezzo d* un termometro, il  calore del Sole fulla fuperficle  di Mercurio < 7 volte più Intenso, che fulìa fuperficle della terra . La rivolnzion di  Mercurio attorno al Sole, ovvero il fuo anno compie fi in  87. giorni e 17. ore  La rivoluzione diurna poi, ovvero  la lunghezza del fuo giorno  non è ancora determinata . Per  iò altre contezze vedi gli A*  ronoml .  ì Neque movetur, Fa oppi*  ninne comun degli Antichi che  la terra non fi mo velie, cd  anche univerfal de* moderni,  Ma non fono mancati filofoli  e ne* vetulll tempi, e ne' moderni, che ne folteneflero il  fuo continuo moto, e fpezlal*  mente al prefcntc . Furon tra*  Filofofi ' antichi Filolao Pittagorico ed Eraclide Pontico ec.  ed Ecfanto pur pittagorico,  Clc. ' nel Lucullo riporta I*opplnione di Niceta da'Siracufa  con quelle parole . Nicetas Si racupus, ut aìt T beophrafius %  c eel urti, folem, lunam, f ìellas %  fupera dentque omnia (tare ten fet t neque pr^ter ieh*m, rem   ul«•IL SOGNO DI SCIPIONE. 5*1,  rio; e nell’infimo cerchio la Luna da raggi del Solé  accefa raggirali: di foteo poi nulla pili altro v’è, it  toon mortale, t cadevole, dalle anime in fuori, pet  grazia degli Dii all’uman genere compartite; foprala  Luna le fòftanze tutte fono immortali. Che quanto aU  la terra, eli 5 è in mezzo ed è la noni, nè muovefi t  élla è 1* infima, e verfò di ella viene ogni pefo per  propria inclinazione portato.  I Quali oggetti io attonito rimirando, come in me  fui ritornato, che è egli n a*, dirti, quello sì grati*  dee sii foave fuono, che m’empie le orecchie ) Quello,  ti loggiunfe, è quel fuoho, che da intervalli dilpari  venendo a un tempo, ma con avvedimento però diflin  ti fecondo la debita proporzione, per impullo e moto  delle orbite illelTe fi forma; il qual fuonoagli acuti tuoni co* gravi contemperando, proporzionatamente forma fvariati lonori concerti. Imperciocché movimenti  di tanta mole non poflòn ertère chetamente incitati ; e  itìlam in mundo mtverì : qud  tum circa axem jumma fe et licitate -tonvertat, torqueat,  tadem effici omnia, qua, fi  fi ante terra, cdlum movéretur,  Àtque hoc ttiam Platonem in  Timeo dicere quidam arbitrantur. Sed pattilo obfcwìus. Ma  «toppo pift foro i moderni, iCopernico GALILEI ec. Di  quella fi fica controversa, quali che fieno quinci e quindi i  fondamenti il certo fi, che  ogni vero ed ubbidiente cattolico dee contenerli a norma  delle ordinazioni dalla Romana chiefa emanate, ciò* che il  moto della terra foftenere 1ppteticamente fi pofiTa, in  quanto, fe tale fikppofizion fi  faccia * fi fpicgherebfcutio agevolmente molli fenomeni della natura : ma cl vieta il sostener ciò, come tefi . Ma    por Ì3;0 voglia che alenili non facciali pafiaggio dalPjpotcfi a difender la tefi 1   4. Nutu fuo . Importa indinazion, tendenza, ed affézion  naturale. E’ di frequente ufo in  Cic. Pro rata parìe fattone,  Col Gronóvlo riconofeo . quella  lezione non punto fconciata,  perciocché ben confuona con  tutto il cancello del fentimento. E viene a dire che quelli  difpari intervalli delle sfere,  che ne* loro moti rendon fuo110, fono proporzionati a* diversi gradi de* tuoni, che formano : né fono quelle diflanze  fatte a cafo, ma catione con  avvedimento, come appunto ricerca la natura di quello concerto armonico . 6 ìmpulfu et mota . Ancor  Platone ammife quell 1 armonia dello s9 2 biuro conficitur; qui acuta cum gravibus temperans,  variòs^quabiliter concentus efficit . Nec enim filentio  tanti motus incitari poffunt ; et natura fert, ut excrema ex altera parte graviter, ex altera auteni acute fo.  nent. Quam ob cauflam funimus ille ftelliferi Cfli curfus, cujus converfio ed concitatior, acuto et excitato movetur fono, graviamo autem hic lunaris arque  indmus Nam terra nona imobilis manens, ima fede  femper haeret complexa medium mundi locum . Il ! ì autem o&ocurfus, inquibus eadem vis ed deorum i Mercurii, et Veneris, septem efficiunt didintìos ìntervallis  fonos: qui numerus rerum omnium fere nodus ed .  Quod 2 dodi homines nervis imitati acque cantibus, aperuere fibi reditum ad hunc locum; ficut alii, qui f traedantibus ingeniis in vita humana divina fludìacauerunt. Hocfonitu oppletae aures hominum obfurduerunt; nec ed ullus hebetior fenfus in vobisjficut, ubi   Ni.  delle sfere celelH, colicchè nella Repub. deputò a  tutte le eelefti orbite ciafcuna  firena, che fopra dj effe dandoli giraffe con quelle, acconpugnandone col canto loro la  rivoluzione. Altri poi appreffo Aridotile nel lib. 11. de  Carlo cap. 9 . c di Plin. nell*  Iftor. Nat. vollero quello fuono non procedere dalle  celeftl orbite, ma dalle (Ielle  medefime in quelle fide, che nelle orbite fanno loro ri voltinone . Quindi è che i Platonici filofofi credettero che il  uiov imeneo de* corpi celefli  una vera ed effettiva armonia  formaffe s al qual errore drè  luogo la feutenza de* Pittagoricl, i quali per formare giudizio de* tuoni ad_ altro non  aveati riguardo che alle ragioni delle proporzioni efatte,  che perfette appari van ne numeri, i quali furon 1’ìdolo di  Pittagora, fenza punto attendere al giudìzio dell' orecchiò •  Ma quella oppinione ne* con»  feguenti tempi, a proporzione  che abbracciata era la dottriua Platonica, fece i Cuoi progredì . Quindi è che Filone Ebreo, i>. Agoftino, S Ambrogio, S. lddoro, Boezio 9  ed altri molti furono molto  impegnati per quella celcfte  armonia, cui attribuivano alle varie proporzionate impreffioni de* globi celefti, che fan 1 un fopra l'altro t le quali comunicate per certi giudi intervalli  formano cotale armonia . Non  ut> far, dicon* efli, che sì  erminar! corpi con tanta rapidità movendoli, cheti (fieno ed In filentio . Ed all* Incontro 1 ' atmosfera di continuo da que' corpi fofpinta dee  produrre una ferie di fuoni  proporzionati alle itnpulfioni »  che la riceve : e per confeguente, conciodìachè tutti i globi  ce ledi non facciano la medefrma    m  perù il altura 1 ordine delle cofe, che gli eftremi fi et* dall* una parte rendano grave Tuono, dall’ altra poi il  rendano acuto. Per la qaale cagione i! Tu premo corio  del cielo ftellifero, la cui rivoluzione è più concitata,  vien molto con acuto ed elevato (uono, c con graviffimo quefto lunare ed infimo corfo . Che quanto alla  terra, nona d’ordine', ilandofi immobile, rimanfi Tempre nel feggio infimo, occupando il luogo di* mezzo  nell 5 univerfo. Quegli otto corfi poi, infra i quali il  tuono de* due Mercurio e Venere fi èd’un tenore me.  defimo, formano Tette fuoni difpari per intervalli diversi: il qual numero fi è, quali come il legamedi tutte le cole. Cotal concerto i dotti uomini colle corde  da Tuono avendo imitato, e co 5 canti, fiaperfero il ritorno a quello luogo ; ficcome altri, che per loro eccellenti ingegni nella umana vita coltivarono divini  ftudj. Diquefio ftrepito ingombrate le umane orecchie  fi fono aflordite ; nè vi è in voi alcun feotimento più  ottufo : a quella guila che, dove il Nilo in quelle parti, cheCatadupe fi appellano, da altiffimi monti precipita, quella gente, che intorno a quei luogo abita)   P p per ma rivoluzione, né colla medesima velocità, 1 tuoni differenti t che provengono dalla diversità de* moti, dall* Altiffimo Indirizzati, formano tm ammirabile musicale concerto. Il difeorfo par ragionevole r  ma noni effondo foftenuco dall’efperienza delle nostre orecchie, che pur parrebbe dovcSTero averne alcun femore, cosi  concludo il mio debole fen timento fu di tale oppfnione. Quell* armonia de* cieli fe ridur SI voglia a muftcal tuono  è una bella e fpeciofa favola  degli antichi fi Io Toft, che pretendeano alle oppinlonl loro  dare aria e fembiania di maravlgliofe . Ma quefta celaste  muSica ed armoniofo concerto  altro non è veramente che le  proporzioni, cui I dotti moderni astronomi han riprovato nelle mifure e quantità, che foco portano i movimenti di questi oeleSli corpi ;   i Mer curii (f Ventri s . I  quali pianeti accompagnando il  Sole, fi comprendono elfere  dell* IfteSfo fuono t ficchè gli  otto globi formano fette diversi  fuoni .   z DoRi hominet . Ritrovatori 'dell* eptacordo, cioè dei  mnltcale iftrumento di fette  corde, annoverati perciò tra»  Semidei. Macrobio e Severino furono in opinione che costoro col numero ferteunarlo  di queftè corde IntendeSTero d*  imitare il moto armonlofo de*  fette pianeti . L* Affrlcano però qui intende da costoro imitato il. fuono delle, otto orbite già divlf.ite. Su di costoro  non vo* tralafciare 1* oppiatone, che n: portò Quintiliano   usi  Nilusad illa, qu^e | Catadripa nominantur, prscipitat  CI altiflimirThontibus, ea gens» quae illum Iocura agcolie propter magnitudi bear fonitus> fenfu audiendi  caret. Hic vero cantu* eft totius mundi incitati rti ma, converfioneionitus, ut euoi aures bominum capere noti  portine: ficut intuerì folem nequitis adverfum, ejufque  radiis acies vedrà (enfufque vi nei tur- Hate ego admìfans » referebam tamen oculos ad te&rain ideutidem.  T UM Africanus, Sentio, inquit, te fedem etiarn  dune bominum ac domum contemplali: qusefitibi parva, ut et!, ita videtur, haeccaeleftia femper (pelato, illa Humana contemnito. Tu enim quam celebritatem fermonis hominum, aut 2 quam expetendam  gloriam confequi pote$> Vides hab tari iti terra rana  et anguftis in !oci$, et in ipfis quali maculis, ubi ha- bjtatur, vaftas folitudines incerje&as; hofque, qui in-,  colunt terram,»non modo interruptos ita erte, utnihil  incer Jpfos ab aliis ad alios manare portìt ; led par.  tim£ obliquos, partim 4 averfos, parcim etiam 5 adverfos flare vobis ; a quibus expeéhre gloriam certe  nullam poteftis. Cernis autem terram eamdem, quali 1  quibufdam redimitami circumdatam òcingulis, equibus • t    nel lib. I. io. Claror dòmini  fapitnt'ue viros rtemo dubita*  Vtrit Jìudtofor tnuficis fuifft  tum * Vytb agoras, dtque tum  fittiti acce pt am fitte dubio antiquituf opittionem vulgati*  itint f mundum ipfum tjm ra fiotti ifit rompo jltum, quam  Pojlta fit lyra imitata . Quindi cred* io che procedcfie la  cftimation grande J od anzi la  venerazione, che gli antichi  Greci Nerbavano per, |a molici!  che però I mutici dic^nfi pare  tatts e fapitttttsi e T^fepiilhcle  effendi» inesperto in toccar la  cetera, gli folte imputato a difetto d* imperizia .  Catadupa . Le cataratte fono    del Nilo dette da Xaf<T«J ovvric*  dt or furti cado,   2 fhfdm txptttttdam glor*am .  Cic. ne* lib? ! della Repubblica  fu di, parere, che dovefle chi  maneggia la Repubblica effe re  fomentato, ed eccitato alle generofe imprefe colla gloria, e  credc'a che ciò folle alla Repubblica vantaggio^», - rifle Alone t che altresì de* Romani fece  S Agoftino nel Uh. V- c*.- ij. de  Cl. Ir. Dei . Or coerentemente  1 # Atfricano non condanna del  •tU'to 1' appetito della . lori a,  ma vuole a quello rlufcire,  che qualunque umana gloria i  pef enrro ad auguttl tifimi confini rirtretta, e non pur non   e ter  1 5 p* per U grandezza dello flrepito, priva è d’udito. fVfa  quello Crepito di tutto l’utiiverfo con rapidiffima rivoluzione è di tenore sì fatto > che le umane orecchie  noi poffon comprendere: ficcome non potete fiflar gii  occhi del Sole 5 quando Ila di rincontro, e da’raggidì  lui l’acume voftro e’1 (enti mento del, vedereè lover.  chuto. Quelle cofeie con ammirazione afcoltando, ri*  volge» pure di tanto in tanto gli occhi alla terra.   Vi.   . »   . # i   A Llora T AfFricano, ben m’ accorgo, logp^iunfe, che  tu anche al prefente il faggio contempli e l’abitazione degli uomini; la quale fé piccola ti pare, com’è  ineffetto, tieni (empre rivolto l’occhio a quelle celefti magioni, e quelle non curare, che umane fono • Im*  perciocché tu qual mai confeguir pool ftrepitofa fama  dell’uman ragionare, o qual gloria, che da appetir (la ?  Vedi che nel mondo abitazioni fono in rari ed retti  luoghi, ed infra quelli medefimi, come fparfe macchie,  dove fi abita valle folitudini vi fono interpone; e coli oro, che abitan la terea, non pure edere per tal maniera feparati, che tra elTì nulla dagli uni polla trapelare agli altri; ma parte rifpetto a voi dare a fgembo, parte alle (palle, e parte ancora di rinccntroal di  fotto ; da* quali certamente fperar non potete veruna  gloria. Vedi poi la medefima terra, come coronata di  certe zone ed intorniata, delle quali due fommamente  tra 1 or* dittanti* e quinci equjndt fugli fletti celefli po*   P p a li eterna, cria neppur durevole lungo tempo. Quelli rifletti peri» a  chi per la evangelica Fede crede una eterna immortai vita, in  elei prometta a chi dirittamente  opera, debbono eflere podetofi  incitamenti a . non curare la  umana gloria dei tutto, ed a  prendere àccefi ttimoli per rivolgere ogni aiion noltra a promuovere la gloria divina   I Obliquo * . Qaefti fur detti   da* Greci 9rfpi oi xf f *   4 /ìdterfos . Coloro fono che  tfgaafd;in diverfo polo, e di coivi» * vvoixOt . Quelli fono,  :hc abitano nella cont rapporta  na temperata fotto il rontrappcflto paralello, ma nell* Irte fio'  fenutircolo meridiano.   5 Adterfos . Sono gli antipodi, così de^ti per li piedi o  veftigj, che fi rifpondono di  rincontro . t)i qoett! termini  vedine fplegazioite pift ampia  appretto gl/ A Urologi 'ed I Geografi. 6 Cittguljs . Divifa le di,*  ode zòne, delle qual! le portreme frigidi ttìme fono, la aie#  dia caldi Éfi ma . % > bus duos maxime intet fe diverfos, et iceji «ertici*  bus ipfis ex utraque parte fubnixos obnguiffe pruina  vides: medium autem lllum et maximum folis ara?'"®  torreri. a Duo funt habitabiles, quorum a udrai is «Ile  tin quo qui infiftunt, 3 adveria vobis urgent veft.gia)  4 nihil ad veftrum genus . Hic autem alter (ubieflus  Aquiloni, quecn incolitis, cerne, 5 quam tenui vosparte contingat • Oronis enim terra, quac coli tur a vo*  bis, 6 anguQa verticibus, 7 laterìbus latior, 8 parva  quaedam infoia eft; circumfufa ilio mari, quod Atlanticum, quod Magnum, quod Oceanum appellatis m  terris: quitamen tanto nomine, quam fit parvus, vi»  des. Ex his ipfis cultis notifque terris, nutnaut tuum,  aut cojufquam noftrum nomen, vel Caucafum nunc,  quem cernì*, trascendere pctuit, vel illum Gangem  tranfnare? Qui* in reliquis orienti*, aut abeuntis folis  ultimi*, aut. Aquilonis* Aufirive partibus tuum nomen  audiet^ Quibus amputatis, cet ni s profeto, quanti* in  .anguftiis veflragloria fedilatari velie • IpOautem, qui  de nobis loquuntur, quamdiu loquentur ? * Y va ; . ',   Q Uinctiam fi cupiat prole* illa futurorum hominum  deincep^ laudes uniufcujSque noftrum apatribus  acceptas pofteris prodere, tamen prepter eluviones exuftitionefque terrarum, qua* accidere tempore  certo necefle eft, non modo aeternam, fod ne diu turnam quidem gloriano affequi poffumus. Quid autem in   ter  t    % Cai* Virtìcibur. Ai p»U .   1 Duo furtt Jbabit abile s . Vie*  tic efponendo le due zone  temperate intermedie quinci e  quindi da' lati t auftrale l* una  boreale 1’altra*   $ Adverfa vobis . Perciocché  dimorano dall* altra parte dell*’eccliptica folare . Niktl' ad vefitum genus .  Perciocché «è voi a loro nè  efli a voi trapalano .  JQuàm tenui vos parte,  Vedi quanto fi a piccolo fpaxio  quello ) dove fi aggirano le Volbe glorie . Angui a vertieibus * ' In   brevi parole accenna la latitudine della terra fottopofta a’  Romani, la quale coi. fitte nella dittatila d * un luogo dall*  Equatore ed un arco del meridiano, comprefo tra *1 Zenit h  del luogo, e l'Equatore. (Quindi la latitudine dlctfi efiere fettcRtrionaie 0 meridionale,  fecondo che li luogo del qual  fi parla è fett^ntrionale, 0 meridionale . Or 4a parola wrticibus fignifica i poli Artica  Afr  .; fp 7  ii pofàndo, vediefTere per la brina irrigidite ♦ equeila  di mezzo» e la più ampia edere dal folare ardore avvampata* D.ie le abitabili fono, delle quali l’audrale  ( dove chi dà (opra imprimon veftigj di rincontro a  noi ) alla vodra fpecie non appartiene . Di queO”  altra poi all* Aquilon foggetta, cui abitate, guarda come tenue parte a voi ne tocchi * Imperciocché  tutta quella parte di terra, che da voi fi abita, da vertici rifìretta, più diflefa da fianchi, è come una piccola ifola; bagnata intorno da quel mare, che in terra  chiamate Atlantico, Magno, ed Oceano: il qual però  comecché di si gran nome, pur vedi quanto picco! fia.  Da quelle idede coltivate e note regioni o*l nome tuo,  ovvero il nome d* alcun de’ nodri potette egli forfè o  queft’Oceano valicare, cui tu vedi, o traghetfarequel  Gange? Chi mai i]\nome tuo afctìlrerà o nelle altre  parti del nafcente fole, o nefl’eftreme del medefimo  tramontate, ovvero nelle parti dell’Aquilone, edell’Aulirò? Le quali regioni edendo feparate, certamente fcor*  gi in che augufli fpazi la vodra gloria alpi ri ad ed'er  didefa. Quelli poi, che di noi ragionano, finoaquan*  do il faranno?   G HE anzi fe quella gènéraxìone di futuri uomini bràa  mera fuceeflìvamente di trafmetterea’poderi legione di ciafcun di noi da* padri loro fentite, tuttavia  ber le inondazioni, e divampamenti de'paefi, i quali  Fora* è che in determinati tempo fuccedano, nonpoflìamò acquiflar gloria, non che fempiterna, ma neppuf  lungamente durevole. Or che mónta che da colorò, i  quali nafceran dappoi, fu di tefìterran difcorfimen Pp - j tre    fe Aritattlco t che fono 4 ter,  mini, per cui rapporto fi mi.  fura r eftenfione della latitudine  '   Ì Ut tribù s f Attor. Viene efpretta la longitudine dell* Imperio Romano, cioè 1’eftenfione, che area da Ponerite a Levante fecondo la direzione dell'  Èquatore . E quindi fi viete a concludere che maggior  nc forte ia longitudine che la    la tir udinè •8 Par va quaJatn ihfulA efb  &c- Dal Cielo additando l'im*  perfo Romano lo dlmoftra come  una piccola ifola conirtefa e  bagnata dall’Oceano. Ma quella è una mani fetta efagerazld<*  ne per efprimerne la piccolezza, chfe dal cielo all* Affrica*  no appariva . Aulì, a dir vero, non fi potea ncppor chiamar ifola .  r  tereft ab iis, qui poftea nafcentur, fermonem fore de  te, cum ab iis nuilus fuerit, qui ante nati fint ; qui  nec pauciores, et trerte 1 meliores fueruntviri? cam  pradertim apud eos ipfos, a quibus a udiri nemen no.  flrum poteft, nemo uniusanni memoriam confequi pof.  fit . Homines eoiro populariter annum tantummedo SoJis, ideft unius aftri rHitu metiuntur ; cum autem ad  idem, unde femel profeta funt, cun£te aftra redierint,  eamdemque tetius cadi deferiptionem longis interva!Jis retuleriot, tum ille 2 verevertens annusappellari  poteft; in quo vix dicere audeo, quam multa incula,  bominum teneantur- Nacnque, $ ut olimdeficereSoi  •bominibus extinguique vìfus eft, cumRomuIi animus  baec ipfa in tempia penetravi; ita quardoque eadem  parte So^, eedemque tempore iterum defecerit, tum fibus ad idem principium ftellifquerevocatis, ex«1 Meliores fuerunt, I coftumi degli’antichi, la fede, gli  andamenti ec. univerfalmente  dagli fcrittori commendane :  quello è vezzo comune anche  a eh! è vecchio, deferitto da  Orazio con quelle parole. Laudai or tempori s afri . Onde quello giudizio non Tempre al ver  corrifponde .   1 Vere verterti annus . Quelle maniere verterti annus,  verterti menfis fono pagamente prefe per un anno, .per un  mele trafeorfo . Altri parcirlp j  n'arreco di voce attiva in forza partiva alla nota 7. nella vita d* Agelìlao apprettò Nipote.  Qui però mi 'pare pift coturnoda V interpretazione in forza  attiva, actefe tutte le parole  ed il contefto. Or qui li parla  •* dell' anno grande, che\ ebte  più e dlvcrfi titoli . Fu chiamato, or ma gnu s, or fidereus,  quando mundanus, tal Hata  Platonìcus, e comprende tutta  l’efteulion di tempo, ovvero il  perìodo di tanti anni, quanti    li richiedono perchè i corpi celefti torniti tutti a Quella poli»  zion primiera, nella quale furono al principio del mondo •  Cic. acconciamente il divlfa  nel lib, 11. cap. de Nat. Deo-.  rum . Maxime vero funt ad*n ir abile s mot us earum quinqete  jtellarum, qua falfo vocantttr  errante s $ nihil enìm trat, quod  in omni eetemitate conferva  progreffus, regrejjus t reliquofque motus confante s (jf ratos .... jQuatum ex dijpnribus Motiombur magnurn anriunì mai he mutici nominaterunt, qui tum efficitur, tum  folis fy lume, et quinque errarti ium ad earrtdem itJer fé  zompar ationem.y tonfi fòt) 0 ntniuru fpatiis, ejl fatta convergo. Pare che qui nel coffo  di que(|' anno inetta in confide razione i Ioli pianeti . Ma  gli alt» i fcrìttoti, e Cic. ifteflb nel prefen.t fogno palla .di  tu^tc le ftellc u*b ver Talmente -\  Quale poi lia il numero precifo  degli auul ella è controverfìa   non  1  V *    i   $. * .  m  tre nonfen’è fatto pur parola da quelli, che negli ante• riori tempi vennero a luce; i qua!» nè furono in mirtor  numero, e certamente uomini furono più valenti? maffime che apprerto quegli flerti, da’ quali fi può il nome  noftro afcoltare; niiino ne può la ricordanza ottenere d'un fole anno. Imperciocché g li uomini giulia J’eftimazion popolare dal rirorno (oltanfo del Sóle mifuran  l’anno, cioè d’una fola (Iella : quando poi faran tutte  le (Ielle al punto medefimo ritornate, onde una volta  fi modero ; ed avranno ne* lunghi loro intervalli riportato il drvifamento medefimo di tutto il Cielo, allora  quello fi può veramente appellare anno, che opera rivolozione: nel quale appena d’efprimer ro* attento quan.  ti fecoli umani fieno comprefi. Imperciocché, ficcome  una volta agli uomini parve che il Sole foftenedè ec.  elidi, e fi ammorzarti;, quando l’anima di Romolo penetrò in quelli (ledi profpetti ; coslallor quando il Sole nella parte medefima, e nel tempo irteffo da capo  avrà (ottenuto ecclirtì, allora ertendo tutti i celetti corpi, etutte le (Ielle al lor principio medefimo richiama,  re, terrai l’anno erter compiuto . E Tappi chedftjueft*  anno non n’ è per anche la‘- vigefima parte trafeoria %  Che però (e difpenerai di far ritorno in quello luogo, ; ... y a r P p 4 nel    non per anche decffa . Clc.  Iftetfo parlando di quella rivo»  In z. ione foggi agile appreflb ..  Quaquam longa fit, 'magna  quelito ejl, ejfe Viro cirtam  defintiam necejfe eji . Si cita  perb un frammento dell* Opera  intitolata l'Orccnfm, dove chiaramente efprime il fuo Tenti,  mento. 1s eft magnai et Virus annus, quod i aderti pofìtìo  cali fiderumque cum maxima  ifi, rurfum exijigt j ifque annui horutn, quoi tocamui, annorum Xll. . compie Bit ur 9 cioè dodici mila novecento quatir' anni . In. cib  fono fvariatiifime le eppinioni  degli altri-, che ci danno argomento ad affermar con certeira non effor ancora 1’agronomia pervenata a tanto, eh»  pocefle fame probabile decifìo.  ne. Sicché quel, che fi foggiti,  gne pift innanzi in quello cipo, hu)us anni nondum vieejimatn partem itfi cot/Virj'am, fb.  vuol prendere per piccolo, c  fcarfo tempo, non per determinata mifura trafeorfa . Ovvero  fe Clc. ha pretefo di far dire  * all* Affricano il preclfo fpazio del  trapalato tempo, non fi vuole  attendere in cofa cotanto incerta.   j Ut olim. Ferma il principiò  dell* anno grande dalla morte di  Romolo, cu! dicono che moriffe  nelPecliffe del fole . Per altro  da ogni punto di tempo fi pub  dare cominciamento al computo  di quello anno Platonico. Qxpietum aonum habeco. Hujus quidem anni nóndulft  vicefimam partem fcitoeffe converfam. Quocirca fireditum iit hunc locum deiperaveris, in quo omnia fune  magnis et praeflantibus viris ; quanti tandem eft ifta hominuui gloria, quae pertinere vix ad unius anni partemexiguam poteft ? Igitur alte (pelare fi voles,. a tque  hanc fedem et aeternam domum contueri, neque te  fermonibus vulgi „ dederis, nec in praemiis humanis  fpem pofueris rerum tuarum ; fuis te oportet iilece brìs ipfa virtus trahat àd verum decus, Qui detealiì  loquantur, ipfi videant, fed loquentur tamen. Serma autem omnis ilie, et augufliis cingitur iis regionum,  quas vides, nec umquam de ullo perennis fuit ; et  obruitur hominum inceritu, et oblivione pofteritatis  extinguitur.  Q UiE cumdixiflet, Ego vero, inquam, oAfricatie*  fiquidem bene mentis de patria, i quali limes ad  cali aditum patet, quamquam a pueritia vedi*  giis ingreflus patriis et tuis, decori vefìro non defui;  nunc tamen, tanto praemiopropolìto, enitar multo vigilantius. Ét ille : Tu vero enitere, fitfic habeto,  non esse te mortalem, fed corpus hoc: 2 necenim i9  es, quem forma irta declarat ; fed mens cujufque, is  eft quifque,* non ea figura, qua? digito demonOrari po*  teli. 1 Deum te igitur fcitoeffe; fìquidem 4 Deused,  qui viget, qui fentit, qui meminit, qui provider,  qui tam regie et moderatur et movet id corpus, cui   P**1 lima. Sono propr lanterne le ftrade, che fervono di’  cfivifionc alle campagne, e per  confeguente fono od hanno anche T. varchi per enrrare né *  campì . Quindi fi accatta la metafora, e fi trafpórca al cielo.   a Nec e» im is es, quem &C.  Qucfii rifleffì e dottrine con aU  tre, che fieguono, fono Platoniche. Socrate appretfb del divi» filofofo dìmoftra al fuo  Alcibiade che I* uomo noli  £ il foto corpo, ne il corpo    colla mente, ma ta fola mente . E nell* Affoco cosi ferivi   Hgeif uiV yip tVjuiv   * «d tf VOtOZfV y tv •Sl'l/ <7» xat$HpyfjisvGÌr Qpoupta Imperciocché noi pani lene V 44  stinta, immortale animale, rat •  eh tufo in mortai cufiodia . SIniigliantc fu 'il fenthnento d*  Arnobio e di Lattanti©. ^  ' 3 Deum te igitur jtito effe .  Gli Stoici definivano 1* nomo  animai rationale mortale, e   Diù    t   6o i   hel quale per li grandi ed eccellenti uomini v'è ogn *  bene ; alla fin fine corefta gloria degli uomini a che  valore monca, la quale appena comprender fi può in  una parte piccola d' un folo anno? Se vorrai pertanto  fi (Tare l'occhio dell’intelletto in alto, e quefto feggio rimirare, e quella eterna magione, non ti farai  fervente a’ parlari del volgo, nè Tulle ricoropenle umane la fperanza riporrai delle imprefe tbe; conviene, che la virtù medefima cogli allettativi fuoi ai  decoro vero ti tragga . A quello, che gli altri fieno  per parlare di te, ci penfino erti, ma pur parleranno . Ma ogni lor difcoirere e vien compralo tra le  anguftie delle regioni, cui vedi, nè fu d’alcun foggetto fu perenne giammai; e riman fepolto dal morire degli uomini, e nellaoblivione della pofterità vien  meno .  « o - t è »*’ 1 a* . Y* ~ l * i 1   » VHI.   • % r ', * ! * • L E quali contezze avendomi efpofto, or io, fog.   giunfi, o Africano, giacché a’ foggetti) bene mefiti della patria è come quafi aperto il varco all' ingreflo del cielo, febbene fin dalla puerizia mefTomi  ìu i paterni vefiigj e fu de’ tuoi, non ho al decoro  voftro mancato j pur nondimeno al prefence, portomi  avanti cotanto premio, con troppo maggior vigilanza  farò miei sforzi . Ed ei replicò : Metti pur tuoi sforzi ; e pervaditi, cbfc tu non fei mortale, ma quello  corpo fibbene * che non fei dello, cui la fembianza  tua dimoftra; ma Io fpirito di cialcuno è quello, che  fi è ciafcuno ; non è tal la figura f che accennar fi  polla col dito * Sappi adunque che tu lei Dio: poiché Dio è chi ha vivacità, fentimento, memoria, provvidenza, e che tanto regge, e modera, e muove  quello corpo, cui è a governar deputato, quanto quel  principale Dio queil’universo; e ficcome l'iddio eterno  Dio animai rationalt immortaìe . Sicché giuda la loro dot*  trina 1* uomo per quella pondo  ne di fc, ond’è immortale, non  farà da Dio differente k  4 Ùeus e fi qui Iftitulfce la parità tra Dio e l’uomo  e la ragione, onde provati l’immortalità deirefTema divina, l’eftende a provare rìnynortalità dell'anima, eziandio anteriore. prstpofitus ed, quam hunc tnuodum princeps ille  Deus: et ut mundum exquadam parte mortalem ipfe  Deus asterifus, fic fragile corpus animus fempirernus  nrovet. Nam i quod femper movetur, «ternani eft: quod autem motum affert alicui, quodque ipfum a.  gitatur aliunde, quando finem habet motus, vìvendi  *|faemUiabe*t neceflè est. Solum igitur quod iefe mo*  •vèt, quia 1 numquam deferitur a fé, numquam ne  moverì quidem definii : quin etiam ceteris, qu« moventur, hic fons, hoc principium eft movendi. Principio autem nulla eft origo: nam ex principio oriuntur omnia; ipfum autem nulla ex re: nec enim id  efl’et principium, quod gigneretur aliunde . Quod fi numquam oritur, uè occidit quidem umquam Nam  principium extinàum, nec ipfum ab alio renafcefur,  nec ex se aliud.creabit: a fiquidem neceffe eft a princi*  pio oriri omnia. Ita fit, ut motus principium ex eo  fit, quod ipfam a fe^ roovetnr ; ìd autem nec calci  poteft nec mori: v *el concidat omne caelum, omnifque natura confiftat necefl'e eft ; nec vira ullam  nancifcatur, qua prime impulfu moveatur. CUM pateat igitur, aeternum id esse, quod a fe  ipfo moveatur; quiseft, qui hanc naturai» ariimis effe tributam neget ? Inanimum eft enim omne,  quod pulfu agitatur externo. Quod autem animai est,  id mota cietur interiore et fuo. Nam haec eft natura  propria animi atque vis*; quae fi eft una ex omnibus, quae fefe moveant, oeque nata eft certe, et atterri  eft. Hanc tu exerce in' optimis rebu 9 . Sunt autem hae  opti ma? cura? de falute patriae, quibus agitatus et  exercitatus animus, i velocius in nano fedem et domum fuam pervolabit . Iraque ocyus faciet, fi iam  tu, cum erit inclufus in corpore, croincbit foras; et ea, - i jQuotì femper movetur tye.  Quefto argomento lo efpóne  quafi colle iftefle parole nelle  Tumulane 1. 2 $. Latta mio. v  ancora .lo tratta con principi  ancor più forti 2 Yel tonciÀAt omne tàtìum   &c. $ no Dio T univerlo muove per alcuna parte cadevole,  così l’immortale spirito muove il fragile corpo. lm*  perciocché eterno è quello, che Tempre muovei:  quello poi, che communica moto ad altra cofa, e che  pure impulfion foftiene da altra cagione, quando il  moto ha fine, egli è di neceffieà, che al fin pervenga del viver Tuo . Quel foio adunque, che le Hello  muove, perciocché non è mai da sé abbandonato, nep*  pur cella giammai di muoverli ; che anzi alle, altre  cole àncora, che muovonfi, egli è origine, egli -è principio di moto. Ma il principio non riconofce ortgine i che dal principio tutte le cole traggono lor  nalcirrienio;.e(To poi da ninna il trae; imperciocché  non farebbe principi® quello, che generato folle d’ai*  tronde. Che fe giammai non nalce, neppur muore giammai. Concioflìachè il principio edendo venuto  meno, nè eflo da un altro rinalcerebbe, nè di sé potrà creare un’ altro ;* poiché egli è forza che tutto  nafea da un principio . Per tale maniera n’avviene,  che il princìpio del moto da quello fi a, che da le  lleflb fi muove; or quello nè nafeer può nè morire:  ovvero di necelfìtà è che rovini giù tutto il cielo,  e l’universa natura fi arrefti; nè trovi alcun vigore,  onde colla impulfion primiera fi muova. E Sfendo pertanto manifeflo quel lo effere eterno 9  che da le ftelfo fi muove, chi negar potrà che  quella naturai proprietà fia fiata alle anime conceda»  ta ? I mperciocchè- inanimato è tutto ciò, che foftien  moto da impullo eflerno . Quello poi, che è anima Te, viene per interiore e proprio moto rifeoffo. Im-,  perciocché quella è la natura propria e la virtù dell*  anima ; che fe P una é infra tutte quelle nature,  che fe ftcflfe muovono, non ha certamente avuto prin-ci&c. Il fentimento e le parole 1’anima più facilmente da fe   altresj, fono di Platone nel - fcocerà il mortale e torpido  Tedro. ' ' pefo del còrpo, e pift fpedita-; V elotius fife. Con quello niente voleranne alla celeitc ma cfcrdifo e moto d' ojcraiìonl gione.  }  éo ea, quae extra erunt, contemplans, quam maxime (e  a Corpore abftrahet . Nam eorum animi, qui (e corporis voluptatibus dediderunt, earumque (e quafi mi*  ni (Ir os praebuerunt, impuifuque libidinum voluptati*  bus obedientiurti * Deorum et hominum jsra violavo*  runt, corporibus elapfi i circum terram ipfam volo,  tantur, noe in hunc locum, nifi multis exagitati (aeculis, revercuntur « Iile diiceffìt : ego (ornilo folutus  fum. i Circum terrdm ipfdm . Quella 6 oppiatone dì Socrate, da  Platon f ragionata nel Fedone dove dice che le anime de*  malvagi rimaugonfi In terra  condannate a divagare intorno  a* fepolcri, dave pagan le pe« ne della vita malvagiamente  menata . £d alla fatta oppi*  ninne dà pure alcuna compatta  di fondamento 1’apparire ta«  lora in si fatti luoghi fpcttrf  cd ombre 60$  cipio dì nafci mento, ed eterna è. Quella tu eiercita  in ottime operazioni . Ed ottime lono le premure  fall* falvezza della patria, {ielle quali Panima meda  in moto ed efercìrata, piò velocemente a quello leggio e magion (ua ne volerà E ciò pib fpeditamente  farà, Te già fin d* allora, quando farà nel corpo raccbiufa, fi loileverà fuori di sè, e contemplando quegli oggetti, che eftranei faranno, fi difiorrà, quanto  può mai, dal corpo. Imperciocché le anime di colo,  ro, che fi fono a corporali piaceri dati, e fi rendettev ro quafi minidri di quelli, e che, per impulfo delle  didemperate padroni a* piaceri fatti obbedienti, le leggi ruppero e degli Dii e degli uomini, da' corpi ufci te fi vanno intorno alia terra medefima ravvolgendo,  nè io queflo luogo, fe non dopo d’edere (late tribo  late molti fecoli, fan ritorno. Egli dipartirti; edio  mi difcoHi dai fonno.  INTERLOCUTORI P. C. SCIPIONE TENORE LUCEJO, principe de' Celtiberi SOPRANO C. LELIO, duce romano .TENORE ERNANDO, re delle isole Baleari .. BASSO BERENICE, prigioniera . SOPRANO ARMIRA, prigioniera SOPRANO La scena è in Cartagine nova.All'eccellenza..Scipione All'eccellenza..di Carlo Lenos duca di Richmond e Lenos, conte di March e Darnly, barone di Setterington e Methuen, e cavaliere del nobilissimo Ordine del bagno. My lord, nulla meno dell'eroico deve dare pubblico divertimento alla britanna nobiltà per interamente compiacerla. Gli antichi Romani sono il modello di questa in armi e in lettere floridissima nazione: e non può trovarsi soggetto più nobile delle loro gran geste, per un teatro ove la medesima vegga rappresentati i personaggi a' quali i suoi più gloriosi figli somigliano. P. C. Scipione che fu poi nomato l'africano, vittorioso, amante, e vincitor di sé stesso, comparisce al pubblico, e mi dà  una   giusta   occasione   di   attestar   pubblicamente l'interno mio sentimento di stima e devozione verso l'e. v. con dedicarglielo. Io sin da che v. e. tornò da' suoi viaggi, la stimai, l'ammirai, ed ottenutone l'accesso ed il patrocinio, la ritrovai adorna delle più belle doti e naturali e acquistate: prestanza di persona, vivezza d'Ingegno, nobiltà di costumi, grandezza di maniere, affabilità di conversazione, conoscimento di lettere, buon gusto nelle belle arti ammirai nell'e. v. e godei vederla felice presso a nobile gentile e bella consorte. Negli affetti di padre e di marito dio prosperi il corso de' suoi floridi anni,  al quale se non mancheranno occasioni, non potranno mancar fatti che lo rendano ancor più simile a quegli eroi, che d'uno de' più Illustri de'quali, io presento la più ragguardevole azione all'e. v. in questo mio novo dramma. Ed ossequiosamente mi rassegno di v. e. umilissimo servitore ROLLI. P. Rolli Händel, Argomento Argomento. Publio Cornelio Scipione proconsole nelle Spagne prese per assalto Cartagine nova signoreggiata dalli   Cartaginesi: s'innamorò d'una bellissima  prigioniera,   ma trovandola già promessa a Lucejo principe de' Celtiberi, gliela rese generosamente con tutti i doni portati dal di lei padre per suo riscatto. N.B. Il solo primo motivo ed alcuni pochi versi di questo dramma sono stati tolti da un vecchio dramma del medesimo titolo. Il celebre signor Federico Handel ne compose la musica, al sommo espressiva ed armoniosa: ed il tutto fu eseguito in tre settimane. librettidopera.it Atto primo Scipione ATTO  PRIMO [Ouverture] Scena prima Piazza con arco trionfale. Scipione su carro trionfale seguìto dall'Esercito vittorioso, Schiavi d'ambo i sessi, e Lelio duce romano. [Marcia] [Arioso] SCIPIONE Abbiam vinto: e Iberia doma, par che dica il fato a Roma, serva Egitto ancor sarà. Recitativo SCIPIONE A Tiberiolo e a Sesto porgo egualmente la mural corona, ché noto è a me, ch'ambo saliro i primi sovra il muro scalato. Lelio, al roman senato fia noto il tuo sommo valore, in tanto segno d'illustre militar decoro splendati al crin questa corona d'oro. LELIO Scipione, grazie ti rendo e del dono e del merto: ché se i doveri adempio; di tua grand'alma sol seguo l'esempio. Di tanti illustri prede, queste stimai degne di te; cui rende rare amabil beltà che i cori accende. SCIPIONE (Numi! Che gran bellezza!) Bella, nel vago petto ad un vano timor non dar ricetto: cadesti in sorte a vincitor cortese. BERENICE Ah mia sorte infelice! SCIPIONE Il nome? BERENICE Berenice. librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel, 1726 Atto primo SCIPIONE Non ti lagnar: tu nel bel volto porti armi che il vincitor rendon già vinto. (ad Armira) E tu chi sei? ARMIRA De' predatori all'ira tolta da Lelio illustre, io sono Armira. SCIPIONE A te duce fedel consegno queste sì preziosa spoglie. BERENICE A te Scipione confido l'onor mio: tu che le leggi sai tutte di virtù, tu lo proteggi. [N. 3 ­ Arioso] SCIPIONE Scaccia o bella dal seno il timore, di tua vaga beltà, dell'onore la virtù a difesa starà. Abbiam vinto, e Iberia doma par che dica il fato a Roma, serva Egitto ancor sarà. (parte) Recitativo BERENICE Oh Lucejo! LELIO E qual nome con dolor proferisti? BERENICE È forse noto tal nome a te? LELIO Del generoso parli principe de' Celtiberi? BERENICE Deh come t'è noto? LELIO Prigioniero un tempo io fui del re suo padre, e generoso ei volle rendermi libertade, e il cor m'avvinse. BERENICE Destinato in mio sposo egli a me fu, ma di nemica sorte il barbaro furore cangiò in dure ritorte i bei lacci d'amore. Oh prence amato che fia di me! Di te che fia! LELIO Non darti in preda al duolo. librettidopera.it Atto primo Scipione ARMIRA Io spero, che il vincitore ancor sì generoso libere ne farà. BERENICE Misero sposo! LELIO Nella regal magion ricetto avrete vaghe illustri donzelle: nei giardin dilettosi troverete riposi al vostro affanno. BERENICE Ahi qual riposo i miei tormenti avranno? [N. 4 ­ Aria] BERENICE Un caro amante gentil costante mi diede amor, e un empio fato me 'l tolse allor che amante amato venia fedele in braccio a me. Infin che porto tal piaga al cor, senza morire al mio martire altro conforto no che non v'è. (partono) Scena seconda Lucejo in abito di soldato romano. Recitativo LUCEJO Quando vengo alle mie nozze bramate con Berenice l'idol mio, ritrovo Cartagin presa d'improvviso assalto, e cerco invan l'anima mia: mi vesto qual soldato roman: vengo alla pompa trionfal di Scipione, e per mia sorte la veggo, oh dèi! ma prigioniera. Udii che Lelio n'è custode: ne' giardini reali m'introdurrò: seconda amor la frode. Oh con quai fissi sguardi l'ammirò il vincitore! Ahi! La perdo per sempre s'ella non fuggirà. M'aita amore. librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel, Atto primo [Aria] LUCEJO Lamentandomi corro a volo, qual colombo che solo solo va cercando la sua diletta involata dal cacciator. E poi misero innamorato prigioniero le resta a lato, ma la gabbia pur l'alletta perché restaci il su' amor. Scena terza Giardino. Scipione, e poi Lelio. Recitativo SCIPIONE Oh quante grazie amore in quel bel viso accolse! Ma non son io già preso da quel celeste sguardo? La mia gloria è in periglio. E si dirà. LELIO Signor, le due vezzose prigioniere lodar tua cortesia. SCIPIONE Lelio, alla vaga Armira troppo spesso girar ti vidi i guardi. LELIO Perché celarlo? Il cor per lei sospira; ma il vincitor tu sei... SCIPIONE Molto l'avanza di beltà Berenice. LELIO E pur soggiace all'altra l'amor mio: d'ogni bellezza è più bel quel che piace. SCIPIONE A te la cura d'ambe già diedi. Capital delitto sia l'ingresso a tutt'altri in queste mura. Armira tua sarà. (parte) LELIO Generoso Scipione! Ecco la bella. librettidopera. Atto primo Scipione Scena quarta Armira e detto. LELIO Armira, e perché mesta? ARMIRA Oh quante volte in questa selvetta amena a mio diporto venni! Chi mai creduta avria le delizie cangiarsi in prigionia? LELIO Dal momento che tu fosti mia preda, che t'affanna? ARMIRA Il pensar che serva io sono. LELIO Ma di questa crudel sorte al rigore involar ti potria. ARMIRA Chi? Dillo. LELIO Amore. [Aria] ARMIRA Libera chi non è i lacci del suo piè no mai, non porta al cor. Chi adora una beltà, le renda libertà poi le domandi amor. (parte) Recitativo LELIO Indegna è inver di servitude un'alma di sì bei pregi ornata: quand'ella in mio poter sarà concessa, risolverò. Scena quinta Berenice e detto. LELIO Del vincitore, o bella, vittoria avesti co' begli occhi tuoi: che t'ami un tanto eroe vantar ti puoi. BERENICE Onde scorgesti l'amor tuo? librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel Atto primo LELIO M'impose che a tutt'altri che a noi delitto capital sia qui l'ingresso. BERENICE E tal segno è d'amor? LELIO Dirne potrei altri ancor: ti consiglio a riamare il primo fra' Romani. BERENICE E ingrato sei. Che? Già ti prese oblio dell'amico Lucejo? LELIO Ah! Che diss'io! BERENICE Giunger dovea l'istesso dì, che presa fu Cartago infelice. Chi sa? Forse perì. LELIO No, Berenice: spera miglior destino, e ti conforta. BERENICE Ah! Chi scampar può mai, quando a ruina il fato inesorabile ne porta? [N. 7 ­ Aria] LELIO No non si teme d'incerto affanno quando la speme con dolce inganno l'alma che brama può lusingar. Cangian vicende il male e il bene: spesso un s'attende, e l'altro viene, se vuol temere, non disperar. (parte) [Recitativo accompagnato] BERENICE Oh sventurati, sventurati affetti! Di Cartagin col fato periro le mie gioie, cadder le mie speranze. Chi sa, chi sa, se mai rivedrete il mio bene, occhi dolenti. Continua nella pagina seguente. librettidopera.it Atto primo Scipione BERENICE Che fortunosi eventi hanno sempre delusa la speme (o dèi!) de' puri miei diletti! Oh sventurati sventurati affetti! [Aria] BERENICE Dolci aurette che spirate, deh volate all'idol mio, poi tornate a dir, dov'è. Aure dolci se 'l trovate, velocissime tornate: oh potesse ove son io, dolci aurette, far con voi ritorno a me. Dolci aurette che spirate, deh volate all'idol mio, poi tornate a dir, dov'è. Scena sesta Lucejo dentro la scena, e detta. Arioso e recitativo LUCEJO Molli aurette v'arrestate. Sì malgrado al fato rio, idol mio, pur vengo a te. BERENICE E che ascolto! Che veggio? LUCEJO Mia Berenice. BERENICE Oh dèi! Quale ardir? Qual consiglio? LUCEJO Così accogli lo sposo? Che turba la bell'alma? BERENICE Il tuo periglio. LUCEJO Son deluse le guardie dall'abito mentito. BERENICE Ah se scoperto in finte spoglie sei, chi dall'ira di Scipion ti toglie? LUCEJO Non bramasti vedermi? BERENICE Sì vederti bramai. LUCEJO Che più, mio bene? librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel, Atto primo BERENICE Ma vederti tornar liberatore, e non compagno delle mie catene. Parti, se m'ami, e a quelle del mio padre unisci le tue squadre, e torna armato: e se ingiusto anche il fato il tuo zelo tradisce, e il mio desire; vedrai se o cor che nacque, se non teco goder, teco a morire. [Aria] LUCEJO Dimmi, cara, dimmi, «tu dei morir» ma, o cara, non mi dir, «parti lontan da me». Pria di vederti, sì forse potea partir: or che ti veggio, no no che non vuol non può partire il cor e il piè. Recitativo BERENICE Ah t'ascondi: non lunge veggo Scipione: ahi! di timor son morta. LUCEJO Non temer, ti conforta. BERENICE S'ami la vita mia, prence t'ascondi. LUCEJO T'ubbidirò. (si ritira) BERENICE Numi 'l celate! Ei giunge. Che improvviso timor m'ingombra l'alma! Lo scorgerà nel volto: altra cagione ne fingerò! Scena settima Scipione, e detta, e poi Lucejo. BERENICE Guardin gli dèi Scipione... SCIPIONE Bella, perché turbata ne' begli occhi sereni? Non rispondi? Perché? Forse non lice saperlo a me? BERENICE Come apparir può mai se non turbata ognor serva infelice? librettidopera.it Atto primo Scipione SCIPIONE Deh rasserena i languidetti lumi: la servitù non ti sarà penosa. Comanda al vincitore chi tanta ha in sua beltà forza amorosa. BERENICE Ignoti senti a me ragioni. SCIPIONE Ancora a donzella di sì vago sembiante, ignoto ancora è forse il parlar d'un amante? LUCEJO Soffrir più non poss'io. BERENICE Oh ciel! SCIPIONE Qual calpestio? Che fai tu qui soldato? Chi sei? Rispondi. LUCEJO Io sono uom qual mi vedi innanzi ad un altr'uomo e se fra noi v'è differenza alcuna, non è merto, è fortuna. SCIPIONE (Sotto latine spoglie straniera è la favella.) Qui che pretendi? BERENICE (Anch'ei si scopre, oh dèi!) LUCEJO Io non pretendo in costei di te maggior ragione. SCIPIONE Grand'ardire! Chi sei? LUCEJO Sono... BERENICE Scipione, lascia, ch'io parli: e quale hai ragion sovra me? LUCEJO Sono... BERENICE Tu sei o folle o temerario, che con finto pretesto insidi l'onor mio, cerchi la preda rapire al vincitor. LUCEJO Sogno! Son desto! Librettidopera P. Rolli / Händel Atto primo [Aria] BERENICE Vanne, parti, audace, altiero, menzognero. Ahi! Non bastan le mie pene, ch'altri viene più infelice a farmi ancor. Taci, fuggi, non m'intendi? Mi proteggi, mi difendi o cortese vincitor. (parte) Scena ottava Lelio, e detti. Recitativo LELIO (Giunsi a tempo, si salvi.) LUCEJO (È Lelio.) LELIO Erennio, che fai qui? Vanne al campo! Signor, folle soldato ti disturbò. (a Lucejo) Non ubbidisci ancora? LUCEJO (Errai nel mio trasporto.) Ubbidirò. SCIPIONE All'accento credei fosse un ibero. LELIO Servì Publio tuo padre, e restò prigioniero, e nelle ostili tirannie perdette parte del senno, ma il mio cenno teme, ed anche è pieno di valor. SCIPIONE Gran cura prendine o Lelio nella sua sventura. Pietade inver l'amico abbi eguale al valor contro al nemico. (partono) librettidopera Atto primo Scipione LUCEJO Gelosia, m'ingannasti? Gratitudin d'amico oh quanto industriosa mi scampasti! Ma! Soffrir chi potea sentir parlar d'amore alla sua bella? Non è costume ibero un rivale soffrir: ma... menzognero! Audace! Vanne! Parti! Fur sentimenti d'alma, o fur sol arti? Ahi! Con troppo diletto ella certo sentia parlar d'affetto. [Aria] LUCEJO Figlia di reo timor, freddo velen d'innamorato sen, o gelosia crudel esci dal cor, lasciami in pace. Gelo ed ardor, smania ed affanno, dubbiosa fé, nascosto inganno porti con te, e alfin così di vita e amor spegni la face. librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel Atto secondo ATTO  SECONDO [Sinfonia] Scena prima Porto con nave approdata. Ernando padre di Berenice, che sbarca, e poi Lelio. Recitativo ERNANDO Mercé del vincitor mi fu concesso pacifico lo sbarco. Se i tutelari numi che veglian d'innocenza alla difesa, scampar la figlia dal furor di Marte, le portate ricchezze ne renderanno facile il riscatto. Vadano diligenti esploratori subito sulla traccia: ma fino a sua scoperta l'infortunio si taccia. Un roman duce s'appressa. LELIO Al forte Ernando che alle due Baleari isole impera, manda Scipion salute. ERNANDO Al proconsol romano la gloria e l'armi cedo, offro tributo, ed amistà gli chiedo. LELIO Grata a Scipione sia l'amistà d'Ernando, ma il tributo maggiore anzi il sol ch'ei ricerca, ad offrir vieni, a Roma e a lui pien d'amicizia il core. [Aria] ERNANDO Braccio sì valoroso core sì generoso il mondo vincerà. E senza usare il brando, co 'l nobil cor pugnando tutto vi cederà. librettidopera.it Atto secondo Scipione Scena seconda Appartamenti delle due prigioniere. Berenice e poi Scipione. [Arioso] BERENICE Tutta raccolta ancor nel palpitante cor tremante ho l'alma. BERENICE Ah! pria di rivederti adorato mio sposo in tal periglio, prendi dagli occhi miei perpetuo esilio. Quanto propizia sorte ebbe il regal mio genitore Ernando non approdaro per contrario vento! Ch'abbia già Lelio il fido amico, io spero, persuasa la fuga al prence amato: ma so che disperato soffre di gelosia le pene amare, e fuggir non vorrà. Gravi tormenti alfin cadrò sotto la vostra salma. BERENICE Tutta raccolta ancor nel palpitante cor tremante ho l'alma. Recitativo SCIPIONE Di libertate il dono, prigioniera gentil, grato ti fia? BERENICE Mi renderà del donator più serva. SCIPIONE Spera, ma dimmi pria tuo vero stato: i nobili sembianti spiran grandezza. BERENICE Io son d'Ernando figlia re delle Baleari isole. SCIPIONE E come in Cartagine? BERENICE Il principe Sitalce che n'è morto a difesa, era germano della mia genitrice, ed in sua corte vissi gran tempo, ah! librettidopera.it Rolli Händel Atto secondo SCIPIONE Deh non darti in preda a vano duolo: è inesorabil morte. Libera tu sarai, ma libertà per libertà si chiede. Del suo laccio più forte per te già strinse amor. BERENICE Signor, t'arresta, non mi dir che tu sei... SCIPIONE M'odi. BERENICE No, ascolta. De' Celtiberi al prence, che meco un tempo visse, il cor già diedi. Riamar non poss'io se non... SCIPIONE (Spietato spietato mio destin! Misero core scoppierai di tormento e di furore. [Aria] SCIPIONE So gli altri debellar, ma porto nel mio cor chi mi fa guerra. Che giova trionfar, se tirannia d'amor l'onor ne atterra.) [Aria] SCIPIONE Pensa o bella alla mia speme e il desio non ingannar. (Ahi che l'alma troppo teme, e comincia a disperar.) (parte) Recitativo BERENICE Troppo qui noto è il mio natal, celarlo era timido e vano: dissimulare affetti è di me indegno. Scena terza Lelio, Lucejo, e detta. LELIO Ecco o prence la bella cagion del tuo dolore. librettidopera.it Atto secondo Scipione LUCEJO Tu per me le favella: io non ho tanto core. BERENICE Oh numi! E questa di Lucejo è la fuga? Ah folle! Ei torna a turbar l'alma mia. LELIO (Sì mi dicesti 'l vero, o gelosia.) BERENICE Lelio, da me l'invola. LELIO E non vuoi tu? BERENICE Voglio che parta, e che non torni più. LELIO Ei brama sol..BERENICE Folle colui che vuole perdere le pupille per rivedere una sol volta il sole. LUCEJO Lelio andiam. Vado a morte. BERENICE A morte! Ah no. Lelio l'arresta. LELIO A morte. Sirena ingannatrice, che importa a te? L'amor la fé giurata son questi? E qual ragione puoi dirmi ingrata? BERENICE Ahimè! Verrà Scipione. LUCEJO Verrà il novello oggetto dell'amor tuo? BERENICE Cieco, e non vedi? LELIO Io vidi già ne' tuoi lumi infidi il cor fallace. In vana ambizion cangi il tu' amore, e il mio divien furore. Resta con quella pace che a me dai, ma la falsa alma poi tema piangere del rivale o dell'amante o d'ambo a un tempo sol, fu l'ora estrema. Ma no, risolvo abbandonar. BERENICE Rivolto ogni pensiero in te... LUCEJO Va', non t'ascolto. librettidopera.it  Rolli Händel Atto secondo [Aria] LUCEJO Parto, fuggo, resta e godi di tue frodi, tu sarai felice altera, menzognera. Sventurato io resterò sventurato sol per te. Resta ingrata, e che puoi dire? Quando invece di fuggire, vuoi restar co 'l vincitore. Quest'è amore? Questa è fé? (parte) Recitativo BERENICE Seguilo o duce. L'agitata mente lo trasporterà certo al suo periglio. LELIO L'orme ne segue, e penserò allo scampo. (parte) BERENICE Misera Berenice! Ah già preveggo il fine della tragedia mia tutta infelice. [Aria] BERENICE Com'onda incalza altr'onda, pena su pena abbonda, sommersa al fine è l'alma in mar d'affanno. E tutt'i miei momenti oh come lenti lenti di dolore in dolore a morte vanno! (parte) Scena quarta Armira, e Lelio. Recitativo ARMIRA Importuno tu sei. Quando in tua man sarà il darmi libertà, penserò allora di riamarti. LELIO Ed ora perché amor non prometti? ARMIRA Sarian forzati e men sicuri affetti. librettidopera Atto secondo Scipione [Aria] LELIO Temo che lusinghiero il labbro menzognero amor prometta per ingannar. Pur benché finga, sì dolce è la lusinga, che più m'alletta sempre a sperar. (parte) Recitativo ARMIRA Lusingarlo mi giova, finché del mio servaggio a Indibile il mio padre giunga l'infausta nuova, onde s'attenda soccorso tal, che libertà mi renda. [Aria] ARMIRA Voglio contenta allor serbar del piè, del cor, la cara libertà. L'amante avvezzo a dir che sol volea servir, tiranno poi si fa. Scena quinta Lucejo e detta. Recitativo LUCEJO Qui torno, e qui vuo' pria morir, che mai lasciar. ARMIRA Qui che vuoi tu? LUCEJO Vuo' quel che vuole la mia disperazione. ARMIRA Chi cerchi? LUCEJO Berenice. ARMIRA Ancor non sai, che l'adora Scipione? LUCEJO E corrisposto credi il romano amante? ARMIRA E tu qual cura ne prendi? L'ami ancor? librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel, 1726 Atto secondo LUCEJO Per mia sventura. ARMIRA Del vincitor latino non paventi lo sdegno? LUCEJO Alma che nacque al regno non conosce timor. ARMIRA Dimmi chi sei? LUCEJO Ora de' casi miei non mi lice dir più. ARMIRA M'offendi: in pegno di fé, la destra mia prendine. LUCEJO O bella, tu mi conforti. (si danno la mano) Scena sesta Berenice, e detti. BERENICE Bella! Mi conforti! Ah traditore! Ah indegno! LELIO Oh van sospetto! BERENICE Sospetto il ver? Ma il tuo decoro, Armira? Sì l'audace correggi? ARMIRA Lascioti sola con quest'altro amante, così titolo avrai d'insegnar di modestia a me le leggi. (parte) LUCEJO E la mancata fede? Con finta gelosia pur si colora? BERENICE Va' traditor. Scena settima Scipione, e detti. SCIPIONE Tanto s'ardisce ancora, contra gli ordini miei? LUCEJO Scipione, a te costei diede fortuna, a me la diede amore. BERENICE È quel folle soldato. www.librettidopera.it Atto secondo Scipione LUCEJO Io son Lucejo de' Celtiberi il prence: un vil timore non mi celò: tentai ritor la preda, se si potea, con onorata fuga, ma la crudel non m'ascoltò. SCIPIONE Tentasti, prence, un delitto: e prigionier già sei. BERENICE Ah misera! Il previdi. LUCEJO Se qual duce roman parli, ti cedo. Ma come un mio rivale, so ch'hai nell'alma onor, se non m'abbatti; prigionier non son io: ceder non voglio fin che vivo, il mio ben. SCIPIONE Deggio al senato risponder della mia, della tua vita. LUCEJO Disperazion non t'ode: il ferro stringi. Scena ottava Lelio con Guardie che circondano Lucejo con l'aste al petto. BERENICE Numi, lo difendete... Io manco... Io moro... SCIPIONE Olà? Non m'offendete. Non temer principessa, ei salvo fia. LELIO Cedi amico quel ferro. LUCEJO Avverso fato! Lelio m'uccidi tu... Son disperato. [Aria] LUCEJO Cedo a Roma, e cedo a te. Questi dica innanzi a me, s'ebbi già romano il cor: ma in amor, no non ti cedo no, ti sfido all'armi. E se rival tu sei, esser duce più non déi: l'onor ti vieterà privar di libertà chi non disarmi. (Lucejo, Lelio e guardie partono) librettidopera.it Rolli Händel Atto secondo Recitativo BERENICE Signor, del tuo fisso pensar pavento. SCIPIONE Sì sì Roma altro sposo sceglierà del tuo merto ancor più degno. BERENICE Lucejo è nato al regno. SCIPIONE Merta però di posseder tuoi pregi un che dia legge ai regi, un romano. BERENICE In vil core han sempre forza ambizion, fortuna; nel mio non già, dove ha sol forza amore. SCIPIONE Del senato a' decreti forza è chinar la fronte, ed ubbidire. BERENICE Forzata esser non può, chi può morire. SCIPIONE Odi tanto i Romani? BERENICE Io n'ammiro il valor, n'amo il bel core, e se mia fede e l'amor mio non fosse avvinto altrui, sì n'arderei d'amore. [Aria] BERENICE Scoglio d'immota fronte nel torbido elemento, cima d'eccelso monte al tempestar del vento, è negli affetti suoi quest'alma amante. Già data è la mia fé: s'altri la meritò, non lagnisi di me; la sorte gli mancò del primo istante. librettidopera. it Atto terzo Scipione ATTO TERZO Scena prima [Sala magnifica.] Scipione e poi Lelio ed Ernando. Recitativo SCIPIONE Miseri affetti miei! Tutte le vie d'onore saranno chiuse all'amor mio? LELIO Scipione a privata udienza Ernando vedi, secondo i cenni tuoi. ERNANDO Del vincitore l'alta presenza onoro. SCIPIONE A cortesia amistà corrisponda: accetta Ernando la destra in pegno. Fortunato evento pose tua figlia in mio poter. ERNANDO Già Lelio tutto narrommi: dal tuo nobil core spero sua libertà. SCIPIONE La sua bellezza l'alma m'avvinse: in casto nodo io spero ottenerla da te. ERNANDO Sì grande onore, per mia sventura, troppo tardi è giunto. La promisi a Lucejo principe de' Celtiberi. SCIPIONE Ma questi è nostro prigionier. ERNANDO Con la sua vita la mia parola irrevocabil vive. La mia vita, il mio regno son tuoi, né per serbarli unqua io vorrei mancare all'onor mio. Corso è l'impegno, memore sino a morte animo grato n'avrò. SCIPIONE Vanne, e ci pensa. ERNANDO Ho già pensato. librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel, 1726 Atto terzo [Aria] ERNANDO Tutta rea la vita umana saria sol brutale e vana senza il freno dell'onor. Dar parola, è dar sua fede: e la lingua che la diede fu ministra sol del cor. (parte) Recitativo SCIPIONE Degni amici di Roma son questi Iberi. Il saguntino onore sparso di tutti è nelle vene! Vanne, qui conduci Lucejo e Berenice, e a lui dirai, che deve gir prigioniero al novo giorno a Roma. LELIO Esperienza, e senno ai più ch'io possa consigliar. Fia tosto eseguito il tuo cenno. (parte) [N. 24 ­ Recitativo accompagnato] SCIPIONE Il poter quel che brami, il bramar quel che puoi sono in tua forza, e tu goder non vuoi? Della vita i diletti non sono che momenti, se brami... pensi... e speri, fuggono come venti. Chi meno gode, vive men. Virtute è tormentosa opinion per cui muor di sete il desire al fonte appresso. Sì sì voglio... ma... no...torna in te stesso. Puoi non usar tua forza, puoi non voler, giusto perché tu puoi posseder quel che vuoi. Questo è un piacer che non avrai comune co' bruti e co' tiranni. Qual fama di virtù! Ma no. Per fama ben oprar non si dée. Ben far verace è quel ch'uom fa, perché al su' interno piace. Oh fecondo pensier, sei generoso, tu riporti, lo sento, il mio riposo. (parte) librettidopera.it Atto terzo Scipione Scena seconda Lelio, Lucejo, in proprio abito, e Berenice e Guardie. Recitativo LELIO In questo luogo o prence, ov'io dovrei renderti quel che tu a me desti, in questo devo darti un annunzio aspro e funesto. BERENICE Numi! Che fia? LUCEJO L'alma ho maggior dei mali. Di' pur. LELIO Prence, tu devi... ah! LUCEJO Da un romano con sì lungo esitar, morte si noma? LELIO Gir prigioniero ero al nuovo giorno a Roma. LUCEJO Questo è più fier che morte. BERENICE No non andrai senza di me, mio bene. Il dolore o la mano l'alma mia scioglierà da sue catene. Ti seguirò nud'ombra. LUCEJO Oh fida! Oh cara! Di cieca gelosia perdon ti chiedo! Oh compensati affanni miei! Deh resta, deh vivi sì amorosa, e sì costante alla memoria mia sola, e poi serba serba a fato miglior tua nobil vita. Amico un solo da te aspetto, un solo segno di gratitudine infinita, deh fa che cangi il vincitore in morte l'aspra sentenza della mia partita. [Aria] LUCEJO Se mormora rivo o fronda, sussurrano venticelli, di', che i sospir son quelli, ho l'alma mia che viene, mio bene, intorno a te. Dia vita o morte il fato, fian' ambe ugual tormento: sarò sol consolato pensando alla tua fé. (parte) librettidopera.it  Rolli Händel Atto terzo Recitativo LELIO Più resister non posso. Il cor si spezza. Se a sì teneri affetti, se a lacrime sì belle può resister Scipione, il cor romano ei non ha, ch'esser dée grande ed umano. (parte) [Recitativo accompagnato] BERENICE Ah! Scipion dove sei? Ascolta i pianti miei: o rendimi il mio bene, o avvinta in sue catene, mandami seco, sì spietato vieni saziati delle mie lagrime amare. Scena terza Scipione e detta. Recitativo SCIPIONE (Tenerezze del cor, cedo, son vinto.) BERENICE Non dovevo sdegnarti, ma non potevo amarti. La rea sola son io; mortal sentenza deh fa ch'io sola dal tuo labbro senta. SCIPIONE Bella non pianger più. Sarai contenta. (parte) [Aria] BERENICE Già cessata è la procella e la calma tornerà. E ne' rai d'amica stella l'amor mio scintillerà.librettidopera.it Atto terzo Scipione Scena quarta Sala con trono. Scipione assiso che riceve Ernando preceduto da Mori che portano vari presenti d'argento e d'oro. [Sinfonia] [Sinfonia] Recitativo ERNANDO All'invitto proconsole romano, all'inclito Scipione, e al Campidoglio offro tributo e pace. SCIPIONE In nome del senato l'amiche offerte accetto, e patrocinio ed amistà prometto. ERNANDO Queste ancorché inuguali al tuo gran merto ricchezze accetta ancor: prezzo al riscatto della mia figlia Berenice. Oh degno cui tutto il mondo ceda, rendimi della vita il conforto migliore. SCIPIONE Venga la bella. Scena quinta Berenice e detti. ERNANDO Oh dolce figlia! BERENICE Oh genitore amato! SCIPIONE Libera sei: ma le ricchezze tutte del mondo, prezzo eguale a te non sono: ti rendo al caro genitore in dono. BERENICE Ho il cor da gioia oppresso. ERNANDO Vieni al paterno affettuoso amplesso. Cortese vincitor, pregoti almeno d'accettare in legger segno d'affetto i nostri doni. SCIPIONE Accetto le preziose offerte: ma in tuo volto tutta non veggo scintillare ancora l'anima lieta o Berenice. librettidopera.it Rolli / Händel Atto terzo BERENICE È vero. Troppo timida ancor l'alma paventa. SCIPIONE Spera, non sospirar, sarai contenta. [Aria] SCIPIONE Gioia si speri sì, sol voglio in questo dì letizia e pace. Marte riposo avrà, e lieto accenderà amor la face. (partono) Scena sesta Appartamento. Lelio ed Armira. Recitativo LELIO Tu d'Indibile figlia tanto amico a' Romani? E perché mai tacermi il tuo natal? ARMIRA Bastante asilo pareami aver nel tuo cortese affetto. LELIO In risponder così, mostri chi sei. In piena libertate or vivi, ed io rimango in tue catene. ARMIRA Qual Berenice, io non ho dato ancora ad altri il cor. LELIO Se a fedeltà sincera vorrai darne possesso. ARMIRA Amami, e spera. (parte) [Aria] LELIO Del debellar, la gloria, è il bel piacer d'amor, sono del mio valor pregi immortali. Del par con la vittoria un corrisposto ardor è il sommo del gioir, ch'è senza uguali. (parte) librettidopera.it Atto terzo Scipione Scena settima Berenice e Lucejo. Recitativo BERENICE Dove o principe amato? LUCEJO A te mio bene. BERENICE Veggoti al fianco il nobil ferro. LUCEJO Dianzi per man di Lelio, Scipion me 'l rese, ed a sé m'invitò. BERENICE La gioia intera speriam da un cor generoso. LUCEJO Oh cara, abbiasi il mondo tutto, mi lasci del tuo cor libero il dono, e il più felice io sono. BERENICE Anch'io dovea senza vederti ire a Scipione, ma volli, principe amato, rivederti pria. Vo piena di lietissima speranza. LUCEJO Oh fida! Oh dolce? Oh cara anima mia. Aria] BERENICE Bella notte senza stelle chiaro sole senza rai tu vedrai, non il mio core senz'amore e senza te. Mancheranno al mar le sponde, mancheranno ai fiumi l'onde, pria che manchi la mia fé. (parte) Recitativo LUCEJO Squarciasi 'l fosco vel del mio sospetto, e qual fra nube il cui torbido seno rompa e dilegui il vento, veggo apparir più chiaro il ciel sereno. .librettidopera.it P. Rolli Händel Atto terzo [Aria] LUCEJO Come al natio boschetto augel che vien dal mar vola nell'arrivar, l'anima mia così impaziente già se 'n vola al caro ben. No più non è crudele la bella mia fedele: anima mia sì sì vattene innanzi a me posati nel bel sen. (parte) Scena ultima Scipione, Lelio, Ernando, Armira, Berenice, e poi Lucejo. [Arioso] SCIPIONE Dopo il nemico oppresso voglio esser di me stesso più forte vincitor. (ascende il trono) Recitativo SCIPIONE Venga Lucejo... SCIPIONE Prence, vinto dai primi sguardi arsi d'amor per la beltà che adori: la trovo tua: vinco me stesso, e illesa pronto a renderla io sono, poiché d'ambedue noi fia degno il dono premio da te si chiede a Scipio e a Roma d'amicizia e fede. Lelio all'illustre tuo scampo tentato per l'amico Lucejo tutta la lode io do d'animo grato. Ernando, i doni tuoi accettai per poter disporne poi: seguano la vezzosa Berenice al possesso del suo sposo felice. LELIO Oh magnanimo core! ERNANDO Oh virtù rara! LUCEJO Oh senza esempio anima grande! librettidopera.it Atto terzo Scipione BERENICE Oh degno d'esser fra i numi accolto! [Recitativo accompagnato] LUCEJO In testimonio io chiamo Giove e gli eterni numi, che la mia vita e il regno a Scipione a Roma, in guerra e in pace, impegno. [ Duetto] BERENICE E LUCEJO Si fuggano i tormenti, si vengano i contenti di bella fedeltà. Non più crudel timore il dolce dell'amore amareggiar potrà. Recitativo SCIPIONE Marte riposi, accenda amor la face sia questo un dì sol di letizia e pace. [Coro] CORO Faran la gioia intera vittoria pace e amor. E sia l'Iberia altera d'un tanto vincitor. librettidopera.it P. Rolli Händel, Interlocutori All'eccellenza Argomento Atto Ouverture Scena Marcia Arioso]. Arioso Aria Scena Aria Scena Scena Aria] Scena Aria Recitativo accompagnato­ Aria] Scena ­ AriaScena AriaScena AriaAtto SinfoniaScena AriaScena Arioso Aria Aria Scena Aria Aria Scena Aria] Aria Scena Scena Scena Scena Aria Aria]. Atto Scena Aria Recitativo accompagnato]. Scena Aria Recitativo accompagnato]. Scena Aria Scena Sinfonia Sinfonia Scena Aria Scena Aria Scena AriaAria Scena ultima. Arioso Recitativo accompagnato Duetto Coro Brani significativi Scipione BRANI SIGNIFICATIVI Abbiam vinto: e Iberia doma (Scipione) Il poter quel che brami (Scipione) Scoglio d'immota fronte (Berenice) Se mormora rivo o fronda (Lucejo) PIETRO METASTASIO / WOLFGANG AMADEUS MOZART Il sogno di Scipione Azione teatrale Scipio Costanza Fortuna Publio Emilio Recitativo Fortuna Vieni e segui miei passi, O gran figlio d'Emilio. Costanza I passi miei, Vieni e siegui, o Scipion.  Scipione: Chi è mai l'audace Che turba il mio riposo?  Fortuna: Io son.  Costanza Son io; E sdegnar non ti dèi.  Fortuna Volgiti a me.  Costanza Guardami in volto.  Scipione Oh dei, Qualle abisso di luce! Quale ignota armonia! Quali sembianze Son queste mai sì luminose e liete! E in qual parte mi trovo? E voi chi siete?  Costanza Nutrice degli eroi.  Fortuna Dispensatrice Di tutto il ben che l'universo aduna.  Costanza Scipio, io son la Costanza.  Fortuna Io la Fortuna.  Scipione E da me che si vuol?  Costanza Ch'una fra noi Nel cammin della vita Tu per compagna elegga.  Fortuna Entrambe offriamo Di renderti felice.  Costanza E decider tu dèi Se a me più credi, o se più credi a lei.  Scipione Io? Ma dèe... Che dirò?  Fortuna Dubiti!  Costanza Incerto Un momento esser puoi!  Fortuna Ti porgo il crine, E a me non t'abbandoni?  Costanza Odi il mio nome, Nè vieni a me?  Fortuna Parla.  Costanza Risolvi.  Scipione E come? Se volete ch'io parli, Se risolver degg'io, lasciate all'alma Tempo da respirar, spazio onde possa Riconoscer se stessa. Ditemi dove son, chi qua mi trasse, se vero è quel ch'io veggio, Se sogno, se son desto o se vaneggio. Aria Risolver non osa Confusa la mente, Che opressa si sente Da tanto stupor. Delira dubbiosa Incerta vaneggia Ogni alma che ondeggia Fra'moti del cor. Recitativo Costanza Giusta è la tua richiesta. A parte, a parte Chiedi pure, e saprai Quanto brami saper. Fortuna Si, ma sian brevi, Scipio, le tue richieste. Intollerante Di risposo son io. Loco ed aspetto Andar sempre cangiando è mio diletto.  2. Aria Fortuna Lieve sono al par del vento; Vario ho il volto, il piè fugace; Or m'adiro, e in un momento Or mi torno a serenar. Sollevar le moli oppresse Pria m'alletta, e poi mi piace D'atterrar le moli istesse Che ho sudato a sollevar. Recitativo Scipione Dunque ove son? La reggia Di Massinissa, ove poc'anzi i lumi Al sonno abbandonai, Certo questa non'. Costanza No. Lungi assai É l'Africa da noi. Sei nell'immenso Tempio del ciel.  Fortuna Non lo conosci a tante Che ti splendono intorno Lucidissime stelle? A quel che ascolti Insolito concento. Dele mobili sfere? A quel che vedi Di lucido zaffiro Orbe maggior che le rapisce in giro?  Scipione E chi mai tra le sfere, o dèe, produce Un contento sì armonico e sonoro?  Costanza L'istessa ch'è fra lorto Di moto e di misura Proporzionata ineguaglianza. Insieme Urtansi nel girar; rende ciascuna Suon dall'altro distinto; E si forma di tutti un suon concorde. Viarie così le corde Son d'una cetra; e pur ne tempra in guisa E l'orecchio e la man l'acuto e il grave, Che dan, percosse, un'armonia soave. Questo mirabil nodo, Questa ragione arcana Che i dissimili accorda, Proporzion s'appella, ordine e norma Universal delle create cose. Questa è quel che nascose, D'altro saper misterioso raggio, Entro i numeri suoi di Samo il saggio.  Scipione Ma un armonia si grande Perchè non giunge a noi? Perchè non l'ode Chi vive lá nella terrestre sede?  Costanza Troppo il poter de'vostri sensi eccede.  3. Aria Ciglio che al sol si gira Non vede il sol che mira, Confuso in quell'istesso Eccesso di splendor. Chi lá del Nil cadente Vive alle sponde apresso, Lo strepito non sente del rovinoso umor. Recitativo Scipione E quali abitatori... Fortuna assai chiedesti: Eleggi alfin.  Scipione Soffri un istante. E quali Abitatori han queste sedi eterne?  Costanza Ne han molti e vari in varie parti.  Scipione In questa, ove noi siam, chi si raccoglie mai?  Fortuna Guarda sol chi s'appressa, e lo saprai.  4. Coro Germe di cento eroi, Di Roma onor primiero, Vieni, che in ciel straniero Il nome tuo non è. Mille trovar tu puoi. Orme degli avi tuoi nel lucido sentiero Ove inoltrasti il piè. Recitativo Scipione Numi, è vero o m'inganno? Il mio grand'avo, Il domator dell'Africa rubello Quegli non è? Publio: Non dubitar, son quello.  Scipione Gelo d'orror! Dunque gli estinti....  Publio Estinto, Scipio, io non son.  Scipione Ma in cenere disciolto Tra le funebri faci, Gran tempo è giá, Roma ti pianse.  Publio Ah taci: Poco sei noto a te. Dunque tu credi Che quella man, quel volto, Quelle fragili membra onde vai cinto Siano Scipione? Ah non è vero Son queste Solo una veste tua. Quel che le avviva Puro raggio immortal, che non ha parti E scioglier non si può che vuol, che intende, Che rammenta, che pensa, Che non perde con gli anni il suo vigore, Quello, quello è Scipione: e quel non muore. troppo iniquo il destino Sraia della virtù, s'oltre la tomba Nulla di noi restasse, e s'altri beni Non vi vosser di quei Che in terra per lo più toccano a'rei. No, Scipio: la perfetta D'ogni cagion Prima Cagione ingiusta esser così non può. V'è doppo il rogo, V'è merce da sperar. Quelle che vedi Lucide eterne sedi, serbansi al merto; e la più bella è questa In cui vive con me qualunque in terra La patria amò, qualunque offri pietoso Al publico riposo i giorni sui, Chi sparse il sangue a benefizio altrui.  5. Aria Se vuoi che te raccolgano Questi soggiorni un dì, degli avi tuoi rammentati, Non ti scordar di me. Mai non cessò di vivere Chi come noi morrì: Non merito di nascere Chi vive sol per sè. Recitativo Scipione Se qui vivon gli eroi... Fortuna Se paga ancora La tua brama non è, Scipio, è giá stanca La tolleranza mia. Decidi...  Costanza Eh lascia Ch'ei chieda a voglia sua. Ciò ch'egli apprende Atto lo rende a giudicar fra noi.  Scipione Se qui vivon gli eroi Che alla patria giovar, tra queste sedi Perchè non miro il genitor guerriero?  Publio L'hai su gli occhi e nol vedi?  Scipione É vero, è vero. Perdona, errai, gran genitor; ma colpa Delle attonite ciglia É il mio tardo veder, non della mente, Che l'immagine tua sempre ha presente. Ah sei tu! Giá ritrovo L'antica in quella fronte Paterna maestá. Gia nel mirarti Risento i moti al core Di rispetto e d'amore. Oh fausti numi! Oh caro padre! Oh lieto dì. Ma come Si tranquillo m'accogli? Il tuo sembiante Sereno è ben, ma non comosso. Ah dunque non provi in rivedermi Contento eguale al mio! Emilio Figlio, il contento Fra noi serba nel Cielo altro tenore. Qui non giunge all'affanno, ed è maggiore.  Scipione Son fuor di me. Tutto quassù m'è nuovo, Tutto stupir mi fa. Emilio Depor non puoi Le false idee che ti formasti in terra, E ne stai si lontano. Abassa il ciglio: Veddi laggiù d'impure nebbie avvolto Quel picciol globo, anzi quel punto?  Scipione Oh stelle! É la terra? Emilio Il dicesti.  Scipione E tanti mari E tanti fiumi e tante selve e tante Vastissime province, opposti regni, popoli differenti? E il Tebro? E Roma?... Emilio Tutto è chiuso in quel punto.  Scipione Ah, padre amato, Che picciolo, che vano, Che misero teatro ha il fasto umano! Emilio Oh se di quel teatro Potessi, o figlio, esaminar gli attori; Se le follie, gli errori, I sogni lor veder potessi, e quale Di riso per lo più degna cagione Gli agita, gli scompone, Li rallegra, gli affligge o gl'innamora, Quanto più vil ti sembrerebbe ancora!  6. Aria Voi collogiù ridete D'un fanciullin che piange, Che la cagion vedete Del folle suo dolor. Quassù di voi si ride, Che dell'etá sul fine, tutti canuti il crine, Siete fanciulli ancor. Recitativo Scipione Publio, padre, ah lasciate Ch'io rimanga con voi. Lieto abbandono Quel soggiorno laggiù troppo infelice. Fortuna Ancor non è permesso.  Costanza Ancor non lice.  Publio Molto a viver ti resta.  Scipione Io vissi assai; Basta, basta per me. Emilio Si,ma non basta A'disegni del fato, al ben di Roma, Al mondo, al Ciel.  Publio Molto facesti e molto Di più si vuol da te. Seza mistero Non vai, Scipione, altero E degli aviti e de'paterni allori. I gloriosi tuoi primi sudori Per le campagne ibere A caso non spargesti; e non a caso Porti quel nome in fronte Che all'Africa è fatale. A me fu dato Il soggiogar sì gran nemica; e tocca Il distruggerla a te. Va, ma prepara Non meno alle sventure Che a'trionfi il tuo petto. In ogni sorte L'istessa è la virtù. L'agita, è vero, Il nemico destin, ma non l'opprime; E quando è men felice, è più sublime.  7. Aria Quercia annosa su l'erte pendici Fra'l contrasto de'venti nemici Più sicura, più salda si fa. Chè se'l verno le chiome le sfronda, Più nel suolo col piè si profonda; Forza acquista, se perde beltá. Recitativo Scipione Giacchè al voler de'Fati L'opporsi è vano, ubbidirò. Costanza Scipione, Or di scegliere è il tempo.  Fortuna Istrutto or sei; Puoi giudicar fra noi.  Scipione Publio, si vuole Ch'una di queste dèe...  Publio Tutto m'è noto. Eleggi a voglia tua.  Scipione Deh mi consiglia, Gran genitor! Emilio Ti usurperebbe, o figlio, La gloria dela scelta il mio consiglio.  Fortuna Se brami esser felice, Scipio, non mi stancar: prendi il momento In cui t'offro il crin.  Scipione Ma tu che tanto importuna mi sei, di': qual ragione Tuo seguace mi vuol? Perchè degg'io Sceglier più che l'altra?  Fortuna E che farai, s'io non secondo amica L'imprese tue? Sai quel ch'io posso? Io sono D'ogni mal, d'ogni bene L'arbitra collagiù. Questa è la mano Che sparge a suo talento e gioie e pene Ed oltraggi ed onori, E miserie e tesori. Io son collei Che fabbrica, che strugge, Che rinnova gl'imperi, Io, se mi piace, In soglio una capanna, io quando voglio, Cangio in capanna un soglio. A me soggetti Sono i turbini in cielo, Son le tempeste in mar. Delle bataglie Io regolo il destin. se fausta io sono, dalle perdite istesse Fo germogliar le palme; e s'io m'adiro, Svelgo di man gli allori Sul compir la vittoria ai vincitori. Che più? Dal regno mio non va esente il valore, Non la virtù; chè, quando vuol la Sorte, Sembra forte il più vil, vile il più forte; E a dispetto d'Astrea La colpa è giusta e l'innocenza è rea.  8. Aria A chi serena io miro Chiaro è di notte il cielo; Torna per lui nel gelo La terra a germogliar. Ma se a taluno io giro Torbido il guardo e fosco, Fronde gli niega il bosco, Onde non trova in mar. Recitativo Scipione E a sì enorme possanza Chi s'opponga non v'è? Costanza Sì, la Costanza. Io, Scipio, io sol prescrivo Limiti e leggi al suo temuto impero. Dove son io non giunge L'instabile a regnar; che in faccia mia non han luce i suoi doni, Nè orror le sue minacce. É ver che oltraggio Soffron da lei Il valor, la virtù; ma le bell'opre Vindice de'miei torti, il tempo scopre. Son io, non è costei, Che conservo gl'imperi: e gli avi tuoi, La tua Roma lo sa. Crolla ristretta da brenno, è ver, la liberta latina Nell'angusto tarpeo, ma non ruina. Dell'Aufido alle sponde Se vede, è ver, miseramente intorno Tutta perir la gioventù guerriera Il console roman, ma non dispera. Annibale s'affretta Di Roma ad ottener l'ultimo vanto E co' vessilli suoi quais l'adombra; Ma trova in Roma intanto Prezzo il terren che vincitore ingombra. Son mie prove sì belle; e a queste prove Non resiste Fortuna. Ella si stanca; E alfin cangiando aspetto, Mia suddita diventa suo dispetto.  9. Aria Biancheggia in mar lo scoglio, Par che vacilli, e pare Che lo sommerga il mare Fatto maggior di sè. Ma dura a tanto orgoglio Quel combattuto sasso; E'l mar tranquillo e basso poi gli lambisce il piè. Recitativo Scipione Non più. Bella Costanza, Guidami dove vuoi. D'altri non curo; Eccomi tuo seguace. Fortuna E i donni miei?  Scipione Non bramo e non ricuso.  Fortuna E mio furore?  Scipione Non sfido e non spavento.  Fortuna In van potresti, Scipio, pentirti un dì. Guardami in viso: Pensaci, e poi decidi.  Scipione Hò giá deciso.  10. Aria Di' che sei l'arbitra Del mondo intero, ma non pretendere Perciò l'impero D'un'alma intrepida, D'un nobil cor. Te vili adorino, Nume tiranno, Quei che non prezzano, Quei che non hanno Che il basso merito Del tuo favor. Recitativo Fortuna E v'è mortal che ardisca Negarmi i voti suoi? Che il favor mio Non procuri ottener? Scipione Sì, vi son io.  Fortuna E ben, provami avversa. Olá venite, Orribili disastri atre sventure, Ministre del mio sdegno: Quell'audace opprimete; io vel consegno.  Scipione Stelle, che fia? Quel sanguinosa luce! Che nembi! che tempeste! Che tenebre son queste? Ah qual rimbomba Per le sconvolte sfere Trerribile fragor! Cento saette Mi striscian fra le chiome; e par che tutto Vada sossopra il ciel. No, non pavento, Empia Fortuna: in van minacci; in vano Perfida, ingiusta dea... Ma chi mi scuote? Con chi parlo? Ove son? Di Massinissa Questo è pure il soggiorno. E Publio? E il padre? E gli astri? E l'Ciel? Tutto sparì. Fu sogno tutto ciò ch'io mirai? No, la Costanza Sogno non fu: meco rimase Io sento Il nume suo che mi riempie il petto. V'intendo, amici dei: l 'augurio accetto.  Licenza Recitativo Non è Scipio, o signore (ah chi potrebbe Mentir d'inanzi a te!) non è l'oggetto Scipio de'versi miei. Di te ragiono, Quando parlo di lui. Quel nome illustre É un vel di cui si copre Il rispettoso mio giusto timore. Ma Scipio esalta il labbro, e di Girolamo il core. 11a. Aria Ah perchè cercar degg'io Fra gli avanzi dell'oblio Ciò che in te ne dona il Ciel! Di virtù chi prove chiede, L'ode in quelli, in te le vede: E l'orecchio ognor del guardo É più tardo e men fedel. Coro Cento volte con lieto sembiante, Prence eccelso, dall'onde marine Torni l'alba d'un dì sì seren. E rispetti la diva incostante Quella mitra che porti sul crine, L 'alma grande che chiudi nel sen. Publio Cornelio Scipione Emiliano Africano Minore. Keywords: Silio, il sogno di Scipione. Scipione.

 

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