Luigi Speranza -- Grice e Sciacca: all’isola --
la ragione conversazionale all’isola -- l’idea della libertà – fondamento della
coscienza etico-politica – la scuola di Messina -- filosofia siciliana --
filosofia italiana – Luigi Speranza (Messina). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Messina, Sicilia. Studia
a Palermo sotto RENDA. Insegna a Palermo. Volge il suo interesse verso il
criticismo, a cui dedica “La funzione della libertà nella formazione del
sistema kantiano” a cui fece seguito, “La libertà come fondamento della coscienza
etico-politica” (Palumbo, Palermo), che reproduce la memoria in appendice. Società
filosofica italiana Altri saggi: “Filosofi che si confessano” (Anna, Messina); “La
steresis nella filosofia dell'azione” (Accademia di Scienze, Lettere ed Arti,
Palermo); “Il concetto di tiranno, dagl’antichi italici a SALUTATI” (Manfredi, Palermo);
La visione della vita nell'Umanesimo di SALUTATI” (Palermo); “Politica e vita
spirituale” (Palumbo, Palermo); “Gli Dei in Protagora” (Palumbo); “Esistenza e
realtà” (Palumbo, Palermo); “Scetticismo” (Palumbo, Palermo); Ritorno alla
saggezza” (Palumbo, Palermo); “L'uomo senza Adamo” (Palumbo); “Sapere e
alienazione” (Palumbo, Palermo); “Il segno -- quel Segno” (Cappelli, Bologna); Reale
accademia di lettere scienze e arti", «La filosofia per cambiare il
mondo», La Repubblica. Bono, Rocca, M. K.
N., la tradizione del criticisimo, in Giovanni, Le avanguardie della filosofia
italiana, Angeli, Società Filosofica Italiana", Plebe, Giovanni. Sciacca
fu un filosofo italiano nato a Messina nel 1912 e morto a Palermo nel
1995, fu professore di storia della filosofia presso la facoltà di
lettere dell’Università di Palermo e presidente della Società Filosofica
Italiana. OPERE: Le opere di Sciacca sono: • La funzione
della libertà nella formazione del sistema kantiano (1945) • L’idea della
libertà. Fondamento della coscienza etico-politica (qui Sciacca, in
appendice riproduce la memoria del 1965). • Ritorno alla saggezza
(1971). • L’uomo senza Adamo (1976). • Sapere e alienazione
(1981) • Il segno, quel segno (1987). PENSIERO: Sciacca,
nella sua opera “L’idea della libertà. Fondamento della coscienza etico-
politica” tratta del rapporto esistente tra Scienza e Filosofia, privilegiando
la dimensione metafisica della filosofia contro la dimensione positiva
delle scienze esatte. Sciacca recupera il pensiero di Renda e
abbandona il pensiero di Cantoni, secondo la quale oltre la conoscenza
del mondo è importante il destino dell’uomo nell’aldilà e
nell’aldiquà. Nel 1963, egli nel suo saggio si chiede con Kant se la
metafisica sia possibile come scienza; la risposta è negativa, in quanto
la metafisica di per se, andando oltre la scienza tratta i problemi di
maggior rilievo per l’uomo. L’uomo usa la sua ragione per problematizzare
la sua esistenza nel mondo, proiettandola verso l’aldilà in una
dimensione etico-religiosa. La presenza di Kant, in Sciacca, la possiamo
ritrovare nelle sue opere successive, ovvero: Ritorno alla saggezza
(1971); L’uomo senza Adamo (1976); Sapere e alienazione (1981); Il segno,
quel segno (1987). Sciacca, sottolinea che, nella fase storica di
maggiore espansione della scienza e della tecnica, l’uomo ha più che mai
bisogno della filosofia, cioè l’uomo ha bisogno di tornare alla saggezza,
considerando che l’uomo dei tempi moderni è primo di saggezza, ovvero “un
uomo senza Adamo” che ha mistificato e mercificato la natura. Egli,
sottolinea che l’uomo non può ignorare l’enigma dell’aldilà, cioè non può
dimenticare l’ignoto oltre l’orizzonte della vita terrena. Per Sciacca,
il sapere che distoglie l’uomo dai ver problemi è un sapere allenante o
fuorviante, cioè: il mondo è un sistema di segni che vanno decifrati
aldilà dell’apparenza, ed è proprio per questo motivo che Sciacca
suggeriva di cercare l’essenza della metafisica, ovvero della filosofia.
Egli, afferma che la filosofia si è sempre limitata a chiedersi il perché delle
cose senza mai ritenere di poter dire l’ultima parola, la scienza invece
ha finito con il prevaricare ogni forma di sapere, nel momento in cui da
scienza pura e semplice, è diventata tecnica o peggio ancora
tecnologia. Proprio per ciò occorre scoprire e riscoprire una filosofia
“critica” che torni alla saggezza. Successivamente, Sciacca, nel
suo volume “L’uomo senza Adamo” si confronta con Marx; sembra strano che
uno spiritualista come Sciacca riesca a riscoprire attraverso una lettura
di carattere antropologico del giovane Marx e quella di carattere
economista del Marx maturo, evidenziando una forte esigenza di
metafisica. Sciacca, sottolinea l’esigenza di tornare all’origine, a Dio,
ovvero riscoprire la dimensione umana; qui, si ha un distacco dal
materialismo storico, dal marxismo- leninismo, che predicava la violenza
come strumento di lotta, al contrario del pensiero di Sciacca che a una
libertà raggiunta con la forza, preferiva una libertà raggiunta con la
pace, semmai con la forza della ragione. Il penultimo libro di Sciacca,
“Sapere e alienazione”, è composto da cinque saggi ciascuno dei quali
pone il problema di intendere il sapere come alienazione, infatti il
filosofo è convinto che ogni forma di sapere storico costituisce una forma
di alienazione. Sciacca nel primo saggio si interroga sulla
dicotomia tra vero e falso, ed il suo suggerimento è quello di scavare,
socraticamente, dentro se stessi, considerando che il vero e il bene sono
da ricercare sempre come problemi. In “Sapere e alienazione”,
nell’interiorità di Sciacca si accende una curiosità: quella di Nietzsche
che nel Saggio della Gaia Scienza, conferma che sono stati gli uomini ad
uccidere Dio, e secondo Sciacca, conferma anche che nello stesso tempo è
morto l’uomo stesso, sradicato dalla sua storia e dalla sua cultura.
Sciacca andava incontro Marx per superarlo e andava incontro a Nietzsche
per superarlo; in quegli anni, il filosofo, andava contro corrente.
Nel suo ultimo libro “Il segno, quel segno”, egli intende il mondo come un
insieme di segni, sottolineando che l’atto della conoscenza rappresenta
il primo segno dell’uomo, il segno iniziale e distintivo che lo rapporta
al mondo. Egli, suggerisce che conoscere non costituisce un atto semplice
cosi come può apparire a chi è accecato dalle apparenze, proprio per ciò
sostiene, come già detto, che si dovrebbe tornare all’essenza delle cose
e non soffermarsi all’apparenza delle cose. Tutti questi
interrogativi posti da Sciacca possono trovare una risposta in una sua
affermazione: “Forse, risalendo all’origine del nostro personale, ripetitivo
conoscere nei suoi atti spontanei e pur carichi di significative
responsabilità, l’essere di un mondo del quale sempre cerchiamo il volto
migliore potrà aiutarci a rispondere insieme alle domande dell’anima e a
quelle del sapere, scientifico e no”BIOGRAFIA: • Filosofo italiano;
PENSIERO: - Tratta del rapporto tra Scienza e Filosofia; - Privilegia la dimensione metafisica della
filosofia; preso roteare i il di mivesta di
Palermo; Presidente della Società Filosofica Italiana. GIUSEPPE
MARIA SCIACCA (1912-1995) OPERE: La funzione della libertà nella formazione del sistema
kantiano (1945) L'idea della libertà. Fondamento della
coscienza etico-politica (qui Sciacca, in appendice riproduce la memoria del
1965). Ritorno alla saggezza (1971). L'uomo senza Adamo (1976). Sapere e alienazione (1981) Il segno, quel segno (1987).Giuseppe Maria
Sciacca. Sciacca. Keywords: Grice, ‘Negation and Privation’, negation,
privation, negatio, privatio, the use of ~ to stand for both negatio and
privatio – privatio as mere negatio (~), plus implicatum -- steresis, l’idea
della libertà – fondamento della coscienza etico-politica -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Sciacca” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza --Grice e Sciacca: FILOSOFIA
SICILIANA, NON ITALIANA -- all’isola -- la ragione conversazionale dell’anti-filosofia
e contra-implicatura – filosofia fascista – il ventennio fascista – la scuola
di Giarre – filosofia siciliana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Giarre).
Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Giarre, Catania, Sicilia. La filosofia
non asciuga lacrime né dispensa sorrisi, ma dice la sua parola sulla verità
delle lacrime e dei sorrisi. Dopo gli studi liceali classici si trasfere a
Napoli, dove si laurea sotto ALIOTTA. Insegna a Napoli, Pavia, e Genova. Fonda
Il Giornale di Metafisica. Molto intenso e il suo rapporto filosofico e di
stima reciproca con il filosofo fascista GENTILE, un sodalizio testimoniato
dalla fitta corrispondenza tra i due filosofi, da cui però ben presto S. si
allontana, in particolare dal filone idealista, per condurre la sua propria ricerca
filosofica in modo più ampio, tanto da condurlo a studiare per un certo
periodo, grazie alle sue conoscenze pure in campo teologico, sia la corrente
del misticismo che quella dello spiritualismo. Accademia di studi
italo-tedeschi, Merano. Profondo conoscitore di SERBATI, promotore della
fondazione del centro di studi dedicato a Serbati a Stresa. Una delle
principali figure dello spiritualismo, a cui pervenne dopo i primi interessi
per l'attualismo ed i successivi, più impegnativi studi sullo spiritualismo,
anche interpretandolo in modo originale, delineando un particolare percorso di
continuità che, rifferendo alla metafisica classica, perviene a concepire
un'apertura del soggetto personale come creatur averso l'attualità assoluta
dell'essere nell’integralità. E ricordato principalmente attraverso Ottonello.
Saggi: “Agostino” (Morcelliana, Brescia); “L'Anima” (Morcelliana, Brescia); “Filosofia
morale” (Bocca, Torino); Atto ed essere (Bocca, Torino); Interpretazioni
rosminiane Marzorati, Milano); “Come si vince a Waterloo” (Marzorati, Milano);
“La filosofia e la scienza nel loro sviluppo storico. Per i licei” (Cremonese,
Roma); “Platone” (Marzorati, Milano); Filosofia e anti-filosofia (Marzorati,
Milano); Chiesa e civiltà (Marzorati,
Milano); Critica letteraria (Marzorati, Milano); L'oscuramento
dell'intelligenza (Marzorati, Milano); Studi sulla filosofia antica. Con
un'appendice sulla filosofia medioevale (Marzorati, Milano); Ontologia triadica
e trinitaria. Discorso metafisico-teologico Marzorati, Milano. L'Insegnamento
della filosofia: atti del Convegno di studi, Messina (Peloritana, Messina); Ontologia
triadica e trinitaria (Epos, Palermo); Atto ed essere (Epos, Palermo); Il magnifico
oggi (Epos, Palermo); In Spirito e Verità (Epos, Palermo); La clessidra (Epos,
Palermo); L'ora di Cristo (Epos, Palermo). Centro di Studi Filosofici di
Gallarate, Dizionario dei Filosofi, Firenze, G. C. Sansoni; Dizionario dei
Filosofi (Firenze, Sansoni); Schiavone, L'idealismo, Negri, “Dall'atto all'integralità”
(Forlì, Ethica); Pignologni, Genesi e
sviluppo del rosminianesimo, (Milano, Marzorati); Bologna, Quaderni del
Giornale di Metafisica, Stresa, Rivista Rosminiana, Incontrare S., Venezia,
Marsilio, Ottonello, “L'anticonformismo costruttivo” (Venezia, Marsilio); Shiavone,
L'idealismo, Collana di studi filosofici rosminiani, Domodossola; Milano,
Sodalitas, Ospitato su Bontadini e la metafisica. Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. S. Filosofia e Metafisica MARZORATI
MILANO FILOSOFIA E METAFISICA I due volumi di Filosofia e Metafisica raccolgono le pagine più impegnate e pro fonde che lo S.
ha scritto e segnano il passaggio dallo Spiritualismo
cristiano alla Filosofia dell’integralità.
In essi si possono leggere saggi di rilevante interesse teoretico come
quelli sul concetto di metafisica e sull’ateismo, oltre all’altro sull'esistenza di Dio, che ormai si allinea
tra 1 testi classici della filosofia contemporanea. Lo stile avvincente e chiaro, il vigore del
pensiero insieme profondo e cristallino, l’unità dell’ispirazione, il modo proprio dell’ Autore di rendere
attuali e vivi problemi di sempre,
fanno che quest'opera, sistematica senza
pesantezza, sta una lettura
appassionante e proficua. Zursarax $.
Tommaso visita S. Bonaventura. OPERE L'interiorità oggettiva, Come si vince a
Waterloo, Interpretazioni rosminiane, L'uomo, questo squilibrato , Atto ed
essere, La filosofia oggi, La filosofia morale di A. Rosmini, Morte ed
immortalità, La clessidra (Il mio itinerario a Cristo), In Spirito e Verità, Dall’Attualismo
allo Spiritualismo critico, Filosofia e Metafisica, Pascal, Dialogo con Blondel,
Così mi parlano le cose mute, Kierkegaard e il malessere della cristianità, LA FILOSOFIA ITALIANA, Il
tempo e la libertà, Il momento estetico e il valore ontologico della fantasia, Platone,
Studi sulla filosofia antica, Chiesa cattolica e mondo moderno, Il pensiero
italiano nell'età del Risorgimento, Il pensiero occidentale nel suo sviluppo
storico, Studi sulla filosofia moderna, Le mense di Cristo. via Borromei. Ai miei
allievi di Genova e di Pavia. L’ illustrazione è opera del pittore
fiorentino Primo Conti. La caravella
dalle vele crociate, che attraversa le
Colonne d’ Ercole, simboleggia l'aspetto essenziale della filosofia dello S.: non vi sono
ostacoli per il pensiero umano, nè
barriere invalicabili, se esso cammina e
procede sorretto dalla fede nella verità di Cristo. I più impegnativi e
sistematici scritti raccolti în questo
volume sono il condensato dei due
corsi universitari di Filosofia
teoretica, da me tenuti a Genova, elaborazione di idee maturate nell'ultimo corso professato nell'Università
di Pavia. La lezione almeno per me è la forma più efficace di comunicazione e di
silenziosa collaborazione: è sempre stato ben
poco quel che ho insegnato al confronto di quanto ho appreso insegnando. Perciò ogni anno il debito verso
i miei Scolari aumenta: il giorno in cui
si stabilizzerà, avrò esaurito la mia
capacità d'imparare insegnando e sarà giustizia e onestà che scenda dalla cattedra. È dunque per un motivo
intrinseco (e direi in segno di
riconoscenza) che il volume è dedicato
ai mici Giovani di Genova e Pavia. Ma ve n'è ancora un altro: alcuni di Loro sono già docenti,
studiosi e scrittori di filosofia. Per
il saggio sull’Esistenza di Dio, nella fase di
elaborazione e in quella di revisione, ho chiesto il loro ausilio, datomi attraverso il dialogo e anche
con precise obiezioni scritte, di cui ho
tenuto conto. Di ciò ringrazio i Proff.
Antonelli, Caracciolo, Crippa, Prini e Scotuzzi, tutti già mici scolari del Portico pavese
edoggi mici collaboratori nella lieta fatica delle ore riscattate e affidate
alla perennità dello spirito. Così, dopo i Problemi di filosofia, ormai
lontani, pubblico ancora una raccolta di saggi teoretici. Credo che l’organicità
del volume non abbisogna di essere giustificata: l’unità dell’ispirazione
(almeno questo è il mio avviso) trapela
dalla prima all'ultima pagina; le idee fondamentali che lo sostanziano, sempre presenti, tornano
con una inststenza martellante. Ma, come che sia di ciò, resta il fatto che pubblico ancora una raccolta di saggi
teoretici, invece di quella Filosofia
dell’integralità, che prometto da alcuni
anni e la cui pubblicazione non ritengo prossima. Il senso di responsabilità mi obbliga manzonianamente
a pensarci sopra, a meditare ancora su
quella che considero la sistemazione definitiva del mio pensiero, per minima
che potrà essere la sua importanza. Ma, in mancanza diciamo pure di meglio,
anche le pagine qui raccolte forse significano qualcosa. Innanzitutto ho cercato di eliminare un
equivoco, a cui i miei precedenti
scritti potevano prestarsi: non dall’immanenza alla trascendenza, ma dalla
presenza in noi di qualcosa che ci orienta ed oltrep assa alla Trascendenza in
sè: da Dio come è presente alla nostra
mente a Dio in sè nella sua Realtà
assoluta e nel suo Mistero impenetrabile. La
prima posizione, per la sua equivocità, andava definitivamente chiarita
e, una volta chiarita, oltrepassata. Essa
può rappresentare un temporaneo stadio intermedio (forse un passaggio obbligato per chi proviene
dall’idealismo trascendentale) tra immanenza e trascendenza, non un punto d'arrivo definitivo, fondato criticamente e
sondato fino tin fondo. Ma l'abbandono
di ogni compromesso con l’idea lismo
trascendentale, in special modo con l’attualismo del Gentile, mi ha consentito di distinguere
nettamente le sue due forme fondamentali:
dell’Idealismo trascendentistico ed
oggettivo e dell'idealismo immanente e soggettivo, quest’ultimo
negazione della verità del primo, sopruso che il pensiero consuma contro la
Verità che lo fonda e alimenta, per cui
problemi, esigenze e principî dell’Idealismo trascendentistico, trapiantati nel
campo sterile dell'immanenza assoluta, trovano la loro morte proprio nella
soluzione immanentistica. Mi è sembrato e mi sembra necessario tenendo
conto del processo di nascita, crescita e dissoluzione del pensiero
moderno riscattare problemi, esigenze e
principi dalla illusoria soluzione immanentistica per farli rivivere nella verità dell’Idealismo trascendentista, fatto
più ricco, maturo e critico dall'esperienza speculativa che va dal Cogito di Cartesio alle posizioni più recenti della
filosofia contemporanea. Si tratta, in breve, d’inserire l’idealismo
tradizio nale di essenziale ispirazione
platonico-agostiniana nel vivo della
problematica della speculazione moderna non per adattarlo ad essa che sarebbe ucciderlo ma quale elemento risolutore della sua dissoluzione e
soddisfacente le sue esigenze critiche.
Così, a nostro avviso, la metafisica
della verità , propria dell’Idealismo
oggettivo, risolve in sè le due opposte
metafisiche dell'essere e del
pensiero , conservando al pensiero e
all'essere tutta la loro validità e positività. Con ciò ritengo di rendere un buon servizio al
pensiero moderno e a quello
tradizionale; un buon servizio, quale si addice alla filosofia, di avanzamento nella via della
verità. Evidentemente le pagine qui raccolte non presumono di avere realizzato
questo programma, la cui attuazione è solo all’intzio; ma mi pare che in esse
l'impostazione vi sia, ed è pure
qualcosa. Ancora su un altro
punto desidero richiamare l’attenzione di chi leggerà questo libro. Spesso i
miei precedenti scritti sono stati
accusati (dai tomisti) di esigenzialismo:
esigenza della metafisica e della trascendenza, ma non .ancora loro fondazione . Di questa critica ho tenuto
conto perchè ha la sua parte di verità.
Credo che ora non mi si possa più
muovere e chi v’insiste (0 v’insistesse) ripete senza efficacia un luogo comune, perchè mi pare di
avere abbandonato la posizione esigenziale ed essere passato alla fondazione
razionale della metafisica e della trascendenza, pur senza sacrificare (al contrario)
quell’apporto della vita spirituale nella sua integralità, della quale la
ragione è un elemento essenziale ma non il solo, in cui va sempre colta e da cui non va isolata. Mi sembra che così
il pensiero moderno sia invitato ad acquistare consapevolezza di una conclusione
che non può più ignorare: la trattazione più
teoretica e critica impone, nella sua razionalità autentica e concreta, la verità insopprimibile della
metafisica e della trascendenza. In
altri termini, chi scrive ha l ambizione di
poter dimostrare che proprio la più rigorosa istanza teoretica e la più intransigente esigenza critica, se
spinte fino in fondo dalla logica che
governa e guida la vita dello spirito,
debbono necessariamente concludere alla fondazione di una metafisica teistica, la sola vera e perciò la
sola autenticamente razionale e critica. Queste nostre conclusioni, per
altri motivi, valgono anche contro quei
pensatori contemporanei cristiani o
cattolici che credono di poter accettare con alcune correnti odierne la svalutazione e quasi la
inutilità (quando non la nocività) della
ragione e di salvare ugualmente la validità della ricerca filosofica facendo
della filosofia dell’ estgenza , del cuore , della fede , del mistero , del
sentimento ecc. e riducendo la metafisica alla
psicologia o ad una specie di
fenomenologia dell’esistenza. Le stesse
conclusioni valgono ancora contro altri studiosi cristiani 0 cattolici che credono basti contrapporre il
pensiero tradizionale a quello moderno e condannare questo per avere partita vinta e instaurare un nuovo clima
speculativo; oppure che, preoccupati della razionalità (innegabile) della filosofia, sacrificano alla ragione la
ricchezza della vita spirituale, finendo così per isterilire le capacità della
ragione stessa. A noi sembra invece che
la filosofia vada assunta in tutta la
sua pienezza, che è la stessa della vita dello spirito. Crediamo che queste
affermazioni siano sufficienti per
distinguerci dagli esigenzialisti e dai psicologisti (cioè da posizioni
di pensatori francesi ed italiani che hanno affinità innegabili con la nostra), come pure
definitivamente da. ogni forma di
immanentismo ed anche, infine, da un razionalismo che impoverisce la stessa
ragione con la pretesa di garantirne la
purezza e il primato. Le pagine di questo volume sono dunque impegnative: chi le ha scritte può chiedere pertanto che
chi legge, prima di accettarle o
respingerle, s'impegni a sua volta almeno su
quelle dei saggi della parte centrale, forse le più significative. Chi
le ha scritte si è compromesso e l’ha
fatto in modo di compromettere chi le legge. Direi che le pagine sull’Esistenza di Dio in certi punti siano
quasi indiscrete: vogliono entrare con
violenza. E ciò perchè chi le ha pensate e scritte esige da chi legge una
risposta. Nell’ordinare le mie Opere
complete pensavo di ristampare questo
lavoro col titolo L'esistenza di Dio e d’inserire i restanti scritti in qualche
altro volume della Collana. Ho dovuto
rinunziare al progetto: non si può sopprimere
un libro che ha ormai un suo posto nella filosofia contemporanea ed ha
suscitato appassionate, anche se non sempre
intelligenti, discussioni, che hanno dato corpo ad una letteratura
critica di mole considerevole, alla quale si sono aggiunte le traduzioni della parte centrale
in spagnolo (La existencia de Dios,
Tucumdn, Richardet), francese
(L’existence de Dicu, Paris, Aubier), Modern Catholic Thinkers, London,
Burns and Oates; ancora in spagnolo
degli altri capitoli (La filosofia y el concepto de la filosofia, Buenos Aires,
Troquel, 1955, 2° ediz., 1959) e dell’
Ateismo (Madrid, Miracle, 1954),
tradotto anche in inglese (Formville, Virginia). Ma questa seconda edizione non è una
ristampa della prima; infatti, il
contenuto è stato riordinato în altro modo:
il breve saggio su Il concetto cattolico di libertà di pensiero è il solo rimasto nell’Appendice; sono state
aggiunte pagine nuove e il saggio su L'ateismo , oltre al seguito della discussione con F. Olgiati, sicchè il
libro ha dovuto essere diviso in due
volumi. L’opera, anche nella veste attuale,
non fa parte del corpus della Filosofia dell’integralità , ma segna il
passaggio dallo spiritualismo cristiano a quest'ultima posizione, di cui, come è noto,
la prima formulazione è L'interiorità oggettiva. Essa, dunque, da un lato, presenta ancora
incertezze ed imprecisioni (1 concetti di persona, interiorità oggettiva, eststenza,
realtà ecc. non sono del tutto approfonditi, precisati, elaborati) e, dall'altro, conserva motivi non
criticamente ripensati della posizione precedente, di cui tuttavia è una critica.
La sua revisione profonda e lo sviluppo della sua tematica rinnovata ed
arricchita st trovano nei volumi posteriori;
pertanto, in questa nuova edizione, a meno di non scrivere un altro libro, non mi restava che conservare
la stesura di dodici anni fa,
limitandomi ad una revisione della forma e
ad un riordinamento delle pagine. Tuttavia, come ho detto, mi è stato possibile, servendomi di note che
risalgono al 1951, inserire nella terza
parte aggiunte e precisazioni senza alterare il contenuto dell’opera, che,
com'è, segna una tappa nello sviluppo
interno del mio pensiero. Genova. Griesalp (Svizzera). N.B. La terza edizione,
meno qualche ritocco nella forma,
riproduce la seconda, esauritasi in pochi mesi. Introduzione, Giornale di Metafisica , Filosofia, Humanitas, Come bisogna concepire la
filosofia?, Revue de Synthèse, Humanitas. Filosofia e vita spirituale, relaz.
letta al Congreso de Filosofia Suirez y
Balmes di Barcellona, Actas, Madrid,
Instituto Luis Vives de
Filosofia, e Humanitas, La
metafisica e i suoi problemi, Giornale
di Metafisica, e Philosophia, Universidad
Nacional de Cuyo, Mendoza. Discussione intorno al concetto di metafisica, Giorn. di Met., Cultura e trascendenza, testo francese, Études philosophiques , numero speciale, 1948;
testo italiano, Humanitas: testo
spagnolo, Revista de Filosofia. Cultura e
metafisica, Humanitas ,Vi è una filosofia della
storia?, Procedings of the tenth
International Congress of Philosophy, North Holland, Amsterdam, e Humanitas, Esistenza e consistenza, Giorn.
di met., e Atti del Congresso di Filosofia , l’Esistenzialismo, Milano,
Castellani, L'ateismo, Dio nella ricerca umana, Ricciotti, Roma, Coletti; trad.
spagnola, Madrid, Miracle; trad. inglese, Formville (Virginia); L'esistenza
di Dio, Giorn. di Met. Il
concetto cattolico di libertà di pensiero, San Sebastiin, 1948, a cura del
Comitato delle Conversaciones
catélicas internacionales , e Humanitas. Ogni guerra, per la nazione che
l’ha combattuta, segna. sempre la fine
di qualcosa che era e il cominciamento di
qualcos'altro di nuovo. Quando poi una guerra ha proporzioni
gigantesche, scaturisce da situazioni di portata mondiale e si combatte in nome
di principii la cui sconfitta o vittoria
importa una nuova epoca del mondo, come quella che da qualche mese si è
conclusa ('), essa segna la fine di
ordini e di sistemi politici, sociali ed economici, il crollo di ideali e di miti e nello stesso tempo
l’inizio di nuove forme di vita
nazionali ed internazionali, continentali ed intercontinentali. Anche la
filosofia, che è vita concreta dello spirito
(proprio per l’universalità e la necessità della verità non contingente
ma superstorica, che è suo oggetto), tutt'altro che estranea allo scorrere del tempo e alle nuove
esigenze che nascono al posto di altre
che declinano o sono sommerse, si trova
di fronte a nuovi compiti. Essa proprio
perchè sicura che i cangiamenti
esteriori sono spesso il segno di
profondi mutamenti spirituali ha
il dovere e il diritto di insediarsi,
pur senza fare della politica o dell’economia, alla base dei nuovi problemi politico-economico-sociali,
anche contro l’intelligenza di quanti
credono che essi siano solo una pura e
semplice questione di politica o di economia.
Perciò la filosofia è chiamata a rimettere sul tappeto della discussione e della lotta problemi e
soluzioni, ipotesi e principii, affinchè l’eterna verità infinita venga più
profondamente sondata e più chiaramente configurata in nuove e sempre parziali prospettive, anch'esse
incomplete come le precedenti, ma di
queste meno inadeguate e più comprensive. La storicità della filosofia è figlia
della Sofia, che storia non ha: la Sapienza è madre della storia e perciò
anche del filosofare. Non la ricerca o
il processo storico condizionano la verità, ma la Verità condiziona e fa che
esistano e la ricerca e il
processo. Una nuova rivista di
filosofia (?), nel momento in cui per
l’Italia e il mondo incomincia una nuova epoca, non ha bisogno di giustificare la propria ragion
d'essere; specialmente se si tien conto che, da noi, alcune tra le più accreditate riviste filosofiche o hanno già
da alcuni anni esaurito la loro funzione
e perciò rappresentano un modo di
filosofare ormai al tramonto, difendono posizioni quasi sorpassate, comunque esprimono quel che alla
filosofia e alla cultura in generale è già acquisito e come tale appartenente
alla storia; o hanno perduto i Direttori, che ad esse conferivano con la loro personalità, ben
definita e riconosciuta, indirizzo ed autorità. In questi lunghi ed atroci anni di guerra la
filosofia, come qualsiasi altra attività, è stata sospesa all’esito dell’immane
conflitto. Non ha sonnecchiato o dormito; ha atteso trepidante per i destini della vita dello
spirito, per l’esistenza stessa del diritto al pensiero, che è
essenzialmente diritto alla libertà.
Trepidante, ma fiduciosa nella perennità della vita spirituale, per cui l’uomo
è uomo; perciò ha atteso pensosa e
raccolta: non ha disperato e dunque ha
potuto continuare a pensare. Ora la guerra è finita, ma ha lasciato impressi nei nostri occhi e nel
nostro spirito gli orrori della morte;
superstiti di uno sterminio senza
precedenti, siamo quasi increduli di ritrovarci. Però come Il Giornale
di Metafisica (Torino, Società Editrice
Internazionale), presentato dalle pagine
qui ristampate. capita a quanti si ritrovano vivi dopo aver vissuto per
anni sotto l'incubo della morte e tra
tanti morti che assiepavano e rendevano
oscura e quasi invisibile la linea della vita, noi superstiti abbiamo gran desiderio, brama di
vivere. Ma, per vivere veramente da
uomini, è necessario che facciamo
violenza a noi stessi, che sottomettiamo ai valori spirituali gli
istinti vitali il cui scatenarsi per eccesso di irrazionale valutazione ha
portato l’umanità alla guerra di sterminio, all’ebrezza atroce e crudele del
sangue, l’ha degradata al livello zoologico. La rivolta oscura delle forze primitive ed elementari della vita animale
ancora oggi, malgrado tutto, sembra
ribellarsi al rispetto dei valori spirituali e alla disciplina di un ordine
morale. Perciò noi sosteniamo (e ad oltranza difenderemo questa nostra posizione)
che il desiderio di vivere e con esso il
genericissimo concetto di vita venga qualificato come desiderio di vivere nello e per lo spirito, quasi di
spirito; che lo spettacolo orrendo e disumano di un mondo sconvolto dalla furia, dalla violenza e dall’odio sia al più
presto cancellato dai nostri occhi e
soprattutto dai nostri cuori e dalle nostre menti. Innumerevoli, tra i
superstiti, le persone colpite, oltre
che dalla guerra, dal cozzo violento e a volte brutale delle ideologie politiche. Ci sono i
martoriati e i giustiziati di un partito
e quelli del partito opposto; i sopravvissuti covano nel loro cuore rancori,
odii, propositi tenaci di vendetta; sedimenti si accumulano nelle loro
coscienze; la sete di sangue vendicatore
repressa e non sanata aumenta; potrà di nuovo! rompere gli argini e provocare nuove
guerre e nuovi sanguinosi e disordinati
sconvolgimenti. La corruzione dell’organismo sociale minaccia sempre
l’esistenza di una società. Ogni
coscienza che non sa oggi perdonare, che
non lotta contro i suoi impulsi immediati per scoprirsi ed affermarsi coscienza autentica, per vincere
il gelo della vendetta con il fuoco della carità, porta dentro di sé la paurosa
responsabilità di un’umanità futura peggiore di quella di ieri. Avviare le coscienze a trovar pace
nel perdono e conforto nel lavoro e nel
bene è uno dei compiti alla realizzazione del quale ogni forma di umana
attività deve contribuire e più delle altre la filosofia, che, come
abbiamo detto, è la vita stessa dello
spirito. Si tratta di ricostruire,
d’instaurare nelle anime il senso dei valori spirituali sulle rovine morali e religiose
(incommensurabilmente più gravi di
quelle materiali), che ideologie politiche e sociali prima, durante e con la guerra (*), si sono
satanicamente accanite a seminare a
piene mani. In questa santa battaglia di rimarginazione delle ferite
spirituali, ciascuno di noi, quale che
sia il suo grado di cultura istruzione capacità, quali che siano la sua professione e il suo
mestiere, i dolori e i lutti che porta
dentro di sè, ha il dovere di prendere e tenere il suo posto, di restarvi
fedele come umile combattente della
verità. Combattere per la verità è l’ufficio dell’uomo; farla trionfare a lui non compete. Ritrovare noi stessi; aver ragione del
nostro individualismo per affermare la nostra vera personalità che è, come tale, negazione degli egoismi individuali o
familiari, di classe o di nazione. La difesa e la garanzia della nostra
persona, prima di reclamarla come un
diritto, dobbiamo sentirla come un dovere e perciò come un atto morale; ma non
vi è moralità senza legge, senza una
norma universalmente valida. Ubbidire alla legge è costruirsi, affermarsi,
consistere come persona. Solo
l’adempimento del dovere conferisce il
diritto di avere dei diritti; il diritto all’esercizio del dovere e la
dedizione all'adempimento di esso sono la condizione necessaria e sicura di
qualsiasi altro diritto, che, senza
dovere, è il diritto della forza, negatore della persona, esaltatore
dell’individualismo titanico, che ogni diritto sommerge e ogni libertà conculca. Libertà della
persona significa libertà dall'egoismo
individuale e sociale dalle mille facce, o non E, purtroppo, bisogna dire anche
dopo la guerra. significa niente. Ricostruisce la società chi costruisce la propria
persona non solo per sè, ma per tutti. Gli egoismi dividono, la legge unifica;
la materia rende impenetrabili, lo spirito ci fa intimi gli uni agli altri, è
la via maestra della comunicazione nella verità; le passioni accendono passioni ed accentuano le distanze, la virtù
tempera, contempera ed avvicina; l’interesse cristallizza le menti e
raffredda i cuori, l'amore rinnova,
alimenta e riscalda. Tanto sangue
versato per lo scatenarsi dell’odio, della distruzione e dell'ingiustizia
non può e non deve essere stato versato per perpetuare questi flagelli, che
tutti concordemente ed unanimamente diciamo di condannare e di voler tenere
lontani. Molti giovani oggi tornano dai
campi di battaglia o di concentramento,
dalla prigionia o dalle carceri, dai nascondigli e dalle montagne. Quel che
hanno visto soffrire e sofferto non lo sapremo mai: il racconto delle
sofferenze morali e fisiche ha poco senso per chi non ha sofferto e visto soffrire, tanta è l’intimità e la personalità
del dolore, come di tutti gli umani
sentimenti. Quel che è passato per le loro
menti nei giorni oscuri è loro patrimonio non trasmissibile; è necessario però che diventi capitale del
loro spirito, ricchezza che produca nuova ricchezza. Lo esigono loro
stessi, se è vero che hanno combattuto
per un mondo migliore, se la serietà, la
pensosità e spesso la serenità dei loro volti
sono il segno di serietà e serenità interiori; lo esigiamo noi tutti che con e per loro vogliamo contribuire
alla rinascita della vita spirituale e
all’appagamento del bisogno di orientamento in tutti profondo ed urgente; lo
esigono soprattutto quanti (quanti!) non sono tornati, quanti nella fossa hanno seppellito con loro tesori di affetti e
di dolori, sconosciuti ed inconoscibili, inespressi ed inesprimibili per
il mondo a cui non appartengono più, per
la terra che li copre, ma non li possiede. Chi ha sofferto per il male non si consola con altro male; chi è caduto non
vuole che la sua morte sia resa sterile
da altra morte. Il chicco di grano che cade sulla terra è lieto di sacrificarsi
nel suo germoglio; i morti di ieri esigono da noi e abbiamo il dovere di rispondere al loro appello che siano tanti semi di frumento e non di
zizzania, da cui dovrà germogliare l’umanità di domani, cioè dello spirito,
nostra realtà dignità grandezza, non della materia, che, da sola, è la nostra
animalità ed effettuale miseria; esigono cioè che, vittime dell’odio, della ferocia e della barbarie, loro, che più
di tutti avrebbero diritto a non perdonare (ammesso e non concesso che un simile diritto sia riconoscibile
all'uomo), siano i pionieri di un mondo
di pace e lavoro, di un’umanità che sappia
trasformare il bagno di sangue, a cui è stata costretta, in un lavacro di riscatto e purificazione. Tornano, dunque, i giovani seri, pensosi e
bisognosi di orientarsi; hanno sete di
giornali, riviste, letture, programmi, che, in verità, non si manca di offrir
loro, tanto è in tutti il bisogno di
fare e dare alcunchè. Che cosa noi
offriamo loro? Il pensiero, che è tutto il nostro noi migliore, il noi profondo. Li incitiamo a pensare, che
è filosofare, filosofando noi stessi.
Non presentiamo una filosofia bella e
fatta che serve a chi l’ha fatta e non a chi non la fa da sè, ma un modo di concepirla, un metodo di
filosofare, che valga come metodo di
vita e di condotta. Essi tornano non con
problemi astratti, ma, diciamo così, incarnati, fatti di carne ed ossa, sangue e nervi; non possiamo
dare in cambio formule confezionate in
serie, valide per tutti e perciò non
buone in concreto per nessuno. La filosofia, che esprime problemi ed
-esigenze nostre, ha il dovere di essere l’espressione dello spirito umano e
non di estraniarsi dall’uomo, che la fa
essere ed è la sorgente inestinguibile della sua vita perenne. Il pensiero, come la ragione, è
universale perchè leggi universali governano la sua attività; ma il pensiero e
la ragione non esistono come enti impersonali ed astratti, bensì come pensiero e ragione degli
uomini, di ogni singolo uomo. Il
panlogismo astratto ed impersonale è la negazione dell'umanità della ragione e
perciò è inumanità e negazione della filosofia, che l’umanità dell'uomo è chiamata ad esprimere. Chi filosofa veramente
impegna non la sola ragione, quasi
staccata dal resto di sè, ma tutto se
stesso; perciò la filosofia, a parte la religione, è il momento più ricco e fecondo della vita spirituale, la
vita stessa dello spirito. Da essa col concorso della religione, dove trova il suo completamento ci può venire una rigenerazione verace di tutto l’uomo e un rinnovamento
profondo della vita; da essa, che,
quando si scruta fino al midollo e si scopre come fondamentale verità e come
apertura al Dio rivelato e incarnato, non è più inutile somma di
esperienze e di fatti scientifici,
politici, sociali, economici ecc. ma
loro conversione qualitativa su un piano diverso e ben elevato; dunque,
è altresì atto di supremo coraggio, la filosofia. Filosofare è guardare in
faccia noi stessi e le cose per leggervi
dentro, l’occhio teso e fisso per non sbagliare, quel che noi significhiamo e le cose
significano; è cercare e trovare la
significanza del creato, il senso assoluto del
suo contingente esistere; perciò è concludere, senza chiudersi in una
conclusione definitiva, contro ogni aperta o mascherata inconcludenza del
mondo, banale o sublime che sia. Una
filosofia così concepita, che pone in prima linea la validità della ragione e i diritti del
pensiero; che ha come suo oggetto la
verità che non nasce e non muore; che, come
vedremo, è filosofia della trascendenza teologica razionalmente fondata;
che propugna un integrale realismo, che è
assoluto spiritualismo, da un lato non teme l’accusa di psicologismo, di
riduzione del filosofare a descrizione dei fenomeni psichici e fisici, ad
analisi dei sentimenti o ad intimismo soggettivista pre o afilosofico;
dall’altro, accetta la problematica che
scaturisce dalla vita vissuta di ogni singolo e
viene incontro a quanti portano come problemi dolori, dubbi, speranze. Dare anima e volto umano ai
problemi ed alla verità, che trascende gli uomini e le età perchè alla contingenza
sovrasta, ed illuminare la vita spirituale dei singoli con la luce inestinguibile del vero; inverare il
fatto, affinchè viva nell’eterna verità
ed esistenziare il vero, affinchè si faccia
la nostra verità umanissima: questa è la filosofia. Se moltissimi hanno lottato e molti sofferto
fino al sacrificio significa che, anche nelle ore più oscure, l'umanità non ha disperato che certi ideali superiori
di vita avrebbero finito per vincere; ma
non c’è speranza senza fede; gli uomini, dunque, hanno avuto fede. Anche la
filosofia è spe ranza, quella di trovare
la verità che chi filosofa cerca: chi
cerca ha già scoperto la vita spirituale. Non possiede ancora il vero, ma ne è posseduto fin
dall’atto che lo cerca: chi filosofa è
chiamato dalla verità, ne ha la vocazione; non la conosce ma cerca, ha già fede
in essa e nei suoi disegni, anche
nonostante tutto. Anzi, proprio quando
il meccanismo delle passioni sembra invincibile, ci si rifugia nell’ideale con fede profonda.
L’utopia, ribellione meditata alla
situazione effettuale e suo superamento, prende
la spinta dal riconoscimento deciso e preciso che solo un fattore ideale può dar forza e valore ad ogni
forma di vita; è fede nella perenne
validità del principio, e questa fede è
la molla del filosofare. Non è credenza, preconcetto e dogmatica
affermazione, ma certezza interiore, che si sforza di comunicarsi attraverso la ricerca per farsi
scienza. Senza di essa la filosofia non
sarebbe mai nata: le menti ed i cuori
degli uomini, inerti, si sarebbero estinti nel dubbio, senza speranza. Ragionar
molto, è vero; ma anche sentire molto: un pensiero robusto e ferace è ad un
tempo figlio della ragione e della fede.
Proprio perchè ricerca e insieme possesso iniziale della verità, la filosofia
non è scetticismo ed è vita rinnovatrice e promotrice di nuova vita; perchè non possesso pieno, non è dommatismo
ed intransigenza cieca, ed è amore del vero, aspirazione perenne, dinamismo
spirituale sollecitato e mosso dalla verità per la scoperta della verità
stessa, grido di eremita che trascina
popoli interi. Filosofare,
dunque, è nutrire sempre più di fede la filosofia, nutrirla d’interiore
certezza e di razionale fiducia nell’essere della Verità che è anche di
ciascuno di noi, il nostro immortale
Ideale. L'umanità sopravvissuta alla guerra, dopo tanti crolli di idoli e miti,
è innanzi tutto bisogno di fede, sete di
credere; perciò anche bisogno di filosofare, di cercare, aspirare. Così è,
specie quando circostanze straordinarie pongono di fronte a loro stessi uomini
e popoli, li rivelano nella loro interiorità profonda, in quel che è il
loro consistere, che si nasconde,
indomabile, al di sotto del loro
fenomenico esistere. È necessario che tanta ansia di ricerca e così vivo calore di fede siano bene
istradati, cioè siano autentico bisogno di filosofare e non vaga e sterile
aspirazione, inconcludente andirivieni,
pericolosa imboccatura di vicoli ciechi;
urge mettere a frutto la fede per non sciuparla o inaridirla nella sfiducia, a
cui segue l’indifferenza, morte dello
spirito. Metterla a frutto, affinchè non si disperda in lampeggiamenti
che abbacinano e stordiscono, nè si offuschi in
un’accensione accecante per il molto fumo, ma si componga. fiamma limpida e illuminante; affinchè non
sia disordinata crescenza, ma ricchezza
fondata su principî e da essi sorretta e
guidata in modo da scongiurare la confusione delle lingue, il cangiar nome alle cose, il chiamar le virtù
vizi e i vizi virtù, quel gran male con
cui Tucidide caratterizza la mutata e
corrotta società di Atene alla fine della guerra del Peloponneso. Poco p-iù di cento anni fa il Risorgimento
intellettuale e politico d’Italia fu
preparato e nutrito da una fede profonda e robusta, che non conobbe scoramenti
e disarmò le smentite; fede saldissima
nei destini della Patria divisa ed
oppressa, perchè innanzi tutto fede nei valori invincibili dello spirito, negli ideali più nobili di una
umanità migliore, nella realtà di una legge morale che sovrasta interessi ed
egoismi, nella santità e nelle bellezze autentiche della Chiesa di Roma, nella Verità rivelata
da Cristo, fonte d’ogni progresso e
d’ogni civiltà, in quanto sorgente e
legge di salute. Antonio Rosmini e il Rosminianesimo (indichiamo con questo nome il movimento
dello spiritualismo italiano della prima metà dell’Ottocento, che dal Roveretano
ricevette l’impronta profonda) ebbero una gran
fede nella verità; perciò la filosofia fiorì e gli italiani filosofarono.
Noi oggi, come i nostri progenitori di ieri, abbiamo una gran fede nei destini dell’umanità,
proprio perchè abbiamo una gran fede nei disegni della Provvidenza, promotrice
e fecondatrice del lavoro degli uomini, suoi figli. L’anima di verità dello spiritualismo
italiano dello scorso secolo non si è
esaurita col risorgimento politico d’Italia:
questioni di ordine pratico e non filosofico, l’avvento del positivismo prima e l’affermarsi del
neohegelismo nel primo quarto del secolo
nostro dopo, ne hanno interrotto il processo, anche se alcuni e positivisti e neohegeliani abbiano detto o creduto in buona fede di
continuarlo. Oggi è necessario liberare
lo spiritualismo da alcune interpretazioni, che riteniamo tendenziose ed
erronee e di promuovere nuove vedute di esso; riprendere il filo al punto
in cui fu rotto per riannodarlo ai fili
della nostra vita di uomini d’ oggi, non per ripetere o conservare, ma per
continuare e rinnovare: a scuola, alla vera scuola, s'impara, non si ripete. Imparare significa accrescersi ed
accrescere, rielaborare e ricreare, rivivere, che è tale quando si continua
e si rinnova la vita degli altri nella e
con la nostra propria vita. La
dipendenza spirituale c'impegna dunque dentro i
limiti di un filosofare che è il loro vivente filosofare, in quanto è anche il nostro nuovo, personale,
attuale filosofare; ci impegna non per
quel che il passato ha di caduco ed è
passato con il suo tempo, ma per quel che di perennemente vivo vi è in ogni filosofare che è stato
veramente la passione di un’anima e, in
questo caso, per circa mezzo secolo, di quasi tutta una nazione. La tradizione
è indispensabile alla filosofia, come a
qualsiasi altra disciplina scienza istituzione popolo che abbiano una storia, ma dev'essere
lievito, non peso morto; tradizione
rivissuta da noi, in modo che diventi il
nostro noi: noi inseriti in essa ed essa in noi. Ab antiquo la filosofia
è definita scienza dell’essere, dell’universale; come scienza, deve essere pura
da ogni elemento soggettivo; come avente per oggetto l’essere, rispecchiare
l’oggettività di esso, al di sopra di ogni contingenza di spazio e tempo: la verità nella sua
oggettività è comune a tutti gli esseri razionali e per tutti uguale in
ogni epoca e luogo. Dunque, la
filosofia, che tale oggettività è
chiamata ad indagare, deve spogliarsi degli elementi soggettivi,
elevarsi in un’atmosfera di serenità composta e severa; far tacere tutti quei
sentimenti che possono essere anche individualmente certi o quelle soluzioni
che si presentano anche belle edificanti confortatrici, ma che non sono, gli
uni e le altre, nè razionalmente formulabili nè oggettivamente veri; ha
l’obbligo di non mescolare i propri problemi e le proprie soluzioni con le
circostanze contingenti di un
determinato momento storico e di non fondarsi su di esse. C'è molto di vero in questo modo millenario,
gloriosissimo e nobilissimo di concepire la filosofia e l’oggetto della sua indagine. Se anche per noi la
filosofia non fosse scienza dell’essere
e la verità oggettiva e realissima, anteriore ad ogni ricerca, Verità, anche se
la filosofia non fosse mai nata e l’uomo mai creato; se anche per noi non esistessero massimi problemi, non avrebbe
senso parlare di filosofia, di
metafisica. D'altra parte, per noi, l’oggettività della verità, che è prima
dopo e indipendentemente dal pensiero
che la cerca e conosce, non esclude affatto la
personalità del filosofare e della filosofia. È la verità, ma è l’uomo che la cerca; e non l’uomo in
astratto una astrat 34 Filosofia e
Metafisica ta verità, ma il
singolo, questo o quel filosofo, cerca le
verità, perchè sia la sug verità. Eliminare la personalità dalla ricerca
filosofica o prescinderne è eliminare l’uomo
o prescinderne, cioè essiccare la radice della filosofia. La pura oggettività ed universalità, che mettono
in parentesi il soggetto che cerca,
sente e pensa, non appartengono alla filosofia nè ad altra forma di umana
attività. Comnoscere la verità significa
sforzo di penetrazione, scoperta di quel
che è verità, non mero rispecchiamento o copiatura. Lo specchio tersissimo è freddo ed inerte, indifferente all’immagine
che riflette, al suo riflettersi e al suo sparire; copiare è lavoro meccanico, che tanto riesce
meglio quanto più l’amanuense si estrania da esso e pensa ad altro. Chi cerca, invece, non è indifferente alla
verità conoscere è possedere ; non pensa ad altro, ma al
contrario, non pensa più a nient'altro. Conoscere la verità è totale partecipazione
ad essa; eros profondo e fecondo, irresistibile, amor di possesso e d’appropriazione, di meità, direi,
della verità universale ed oggettiva. Che non è verità perchè mia, nè perchè la
scopro e conosco o nell’atto che la conosco; ma
nel momento che la cerco, la amo: amo cercarla e trovarla e quando la possiedo, la ho come mia verità,
come /a verità che è mia e mi costituisce. Una la verità contemporaneamente
presente nelle innumerevoli coscienze che furono, sono e saranno: universalissima e
personalissima al tempo stesso. Non si
tratta soltanto di quella soggettività che è
riconosciuta alla filosofia e alle altre scienze, compresa la matematica (il Poincaré, com’è noto,
distingue i matematici in due tendenze:
quelli che, guidati dalla logica, procedono
per lunghe analisi astratte; gli altri che, guidati dall’intuizione, per
sintesi intuitive e concrete), consistente nella diversità dei metodi, dei modi particolari di procedere
nella scoperta del vero e nella sua
sistemazione, ma di una soggettività più
profonda, che investe l’essenza stessa del filosofare. Si tratta,
infatti, d’intendere la filosofia come assoluta dedizione dell’uomo intero,
nell’atto che filosofa, alla verità, per cui
questa e nel momento della
ricerca e in quello della scoperta aderisce interamente al soggetto filosofante,
suona per la sua mente e per il suo
cuore con determinati, particolarissimi accenti e vibrazioni, lo trasfigura, lo
esalta, lo riempie di gioia, lo innova,
come dice Agostino. L'uomo apre un nuovo
spiraglio sull’infinita verità; e come
il prigioniero che nella segreta, a un certo punto, inaspettatamente, è
rischiarato dal sole chi vede saluta e
sorride alla luce, che è Za Luce, ma è la sua luce, perchè suo è il lavoro della ricerca, sua la gioia della
scoperta, sue le ansie e le esitazioni,
suoi i dubbi e le angosce, sua la prospettiva dalla quale si è posto per
cogliere un aspetto dell’infinito vero, oggetto del suo amore. La verità è
madre del filosofare, ma le vedute di e
su di essa son geniture dell’umana mente; prodiga nel darsi a chi l’ama, si
allegra d’esser figlia del suo figlio,
il pensiero, che certo, non la partorisce, ma, dalla verità fecondato,
partorisce; tale gestazione è appunto il
filosofare. E non vi è parto senza dolori e gioie; perciò il pensiero, che è fecondità fecondata
e fecondatrice, conosce il dubbio e la
speranza, il sorriso e il pianto. La verità
sorride e piange con l’uomo che pensa e pensando l’ama e cerca; assume essa, divina, volto anima
espressione umane. È l’umanità perenne
della filosofia, la personalità di cui
essa è gelosa. Perciò noi,
contrari ad ogni forma di soggettivismo, che
vanifica l’essenza stessa della filosofia, ne nega in partenza l'oggetto, non ci sentiamo di negare quanto
di personale vi è nella ricerca
filosofica, per la quale la verità si fa nostra
senza con ciò ridursi al nostro pensiero ed identificarsi con esso; contrari ad ogni forma d’individualismo
siamo per la personalità della
filosofia, in quanto nessuna forma d’impersonalismo riescirà mai ad eliminare
la persona, soggetto del filosofare; avversari di ogni riduzione della filosofia
a pura descrizione fenomenologica, che nemmeno sfiora il problema ontologico e
schierati per la centralità del problema dell’essere, ci opponiamo ad una
concezione puramente nozionale dell’essere stesso. Perciò ancora siamo contrari
ad ogni forma di svalutazione della ragione e dell’intelletto, alla riduzione
del conoscere alla pura intuizione
immediata, ma lo siamo anche ad ogni intellettualismo astratto e
geometrico razionalismo, che non tien conto dell’umanità del filosofare, dei
diritti del sentimento, delle ragioni
del cuore, di quanto vi è di intuitivo nell’umano sapere. Difensori della scientificità della
filosofia, non tolleriamo alcun tentativo di riduzione di essa ad una qualsiasi
scienza particolare, nè ad alcuna forma di scientismo che precluda l’apertura del filosofare
scientifico e razionale ad una verità
metarazionale e superscientifica. La Scienza , onnipotente ed onniveggente
divinità, che tutto risolve ed ogni
mistero svela, è un idolo nefasto, che annulla, con paurose confusioni e gran danno, le
differenze qualitative tra le varie
forme di attività spirituale e sovverte la stessa natura razionale dell’uomo nel momento stesso
che ne decreta la potenza illimitata ed infinita. Lo studio di un aspetto
particolare dell’esperienza, isolato dagli altri e non avente come suo scopo essenziale l’approfondimento
dello spirito nella sua interiorità e
nei suoi rapporti con il mondo esterno, è ancora una forma di cosiddetta
scientificità della filosofia che non possiamo accettare, in quanto tende a
limitare la ricerca al sensibile e alle sue leggi; e la filosofia è sintesi, non serie di soluzioni, ma soluzione
unica. La conoscenza sensibile e la scienza naturale o matematica, che pur possono rendere segnalati servigi alla
speculazione, non possono assorbire o
sostituire la filosofia, il cui compito principale è di far acquistare all'uomo
una sempre maggiore consapevolezza di sè
e della gravità metafisica della sua
destinazione, il senso della sua esistenza e della sua autonomia, di
dare al tempo, alla storia, il carattere di via all’eternità e non d’inabissare
lo spirito nel divenire temporale. Soltanto così l’uomo, a mano a mano che
sonda le sue profondità, si eleva con tutto se stesso all’Essere, sorgente
e principio dell’intelligibilità e del
mistero. Perciò noi, nello stesso tempo
che accettiamo il concetto della filosofia come
scienza razionale e indagine metafisica, secondo una tradizione che ha
secoli di autorità e testimonianze antichissime, e respingiamo le più recenti riduzioni di
essa a psicologia, a gnoseologia pura, a
metafisica del pensiero immanente, a
pura descrizione dell’esistenza, a mera problematicità, a metodologia
della storia, a vana fisicità, a logicismo, ecc., ci dichiariamo pronti ad accettare quanto di
vero e vitale ha il pensiero moderno e
contemporaneo, solleciti di non far
nostra qualsiasi posizione speculativa che pretenda di portarci indietro
di molti secoli verso forme di realismo e d’intellettualismo, che è doveroso e
proficuo rivedere nell’interesse stesso
della verità del realismo spalla a
spalla, in una lotta serrata ma sincera
e non ostile, con un pensiero che da
Cartesio in poi ha una tradizione e un'autorità che impongono rispetto e
meditazione profonda, scevra da preconcetti e prevenzioni, senza intolleranze
premeditate o dogmatismi precostituiti.
Piuttosto che ritornare a quanto ha di
sorpassato il passato, siamo decisi a muoverci incontro a quanto ha di meglio
il presente: radicati nella tradizione, vogliamo pensare oggi per il
futuro. Questa nostra maniera di
concepire la filosofia ci porta a
cogliere le sue ricerche e i suoi ritrovati nei due aspetti, apparentemente
opposti: il personale e il sociale. Non solo
l'intuizione è personale, ma lo è anche il concetto, che è, diciamo così, la elaborazione scientifica
dell’altra. La sua universalità è
veramente tale quando include la concretezza dell’intuizione: universalità,
difatti, non significa affatto
astrazione ed impersonalità; la verità concettuale è anche la mia verità espressa in un concetto
universalmente valido. Concetto
significa sintesi, e la sintesi è una veduta
che integra e coordina, non abolisce o nega, le frammentarie vedute
individuali. Non vi è pertanto verità sociale, valida per gli altri, che non
sia o non sia stata prima verità intima,
personalissima di un uomo. Nè cessa di esserlo
se è davvero verità e coglie ed
esprime una nota od un accento
dell’umano pensiero anche quando diventa
sociale; anzi è tale proprio perchè ciascuno di quelli, di tutti, per cui è verità, la riconosce e rifà sua,
intima personale verità. Altrimenti è
formula morta, informazione estrinseca,
curiosità erudita, non elemento di cultura, che è vita spirituale. La
verità pubblica è davvero tale quando, al tempo stesso, è
verità privata , di ciascuno, quando
ogni singolo la riconquista e possiede e
vive come assolutamente sua. L’universalità e l’assolutezza del vero è la presenza
dello stesso assoluto vero nelle molteplici coscienze singole, che è poi un personale esser
presente di ciascuna di esse all’istessa
verità. Forse in nessun’anima, come in
quella del pensatore solitario, è tanto presente l’umanità di ogni tempo; forse niente è più sociale
della solitudine pensosa ed operosa; diciamo della solitudine, non dell’isolamento. L’identica assoluta Verità, ogni qualvolta è
riscoperta ed accettata da un’anima, le
dona e l’arricchisce. Solo così c’è
commercio d’idee, progresso, perchè soltanto così ciascuno di noi, ogni mente, è industria di idee;
altrimenti gli uomini commerciano e scambiano parole senza contenuto, formule
senza vita. Chi riceve senza dare è improduttivo. Sono le epoche, cosiddette di decadenza della
filosofia o afilosofiche, pigre ed inerti, che vivono di rendita e nulla
sanno mettere a profitto; in esse la
verità ha solo l’apparenza della
socialità, perchè le manca l’intima essenza, costituita dall'intimità e
dalla personalità del vero nella sua oggettività. Poco più di un anno dopo la
fine della guerra ’14-18, Giovanni
Gentile nel Proemio premesso al primo fascicolo del Giornale critico della filosofia italiana così scriveva: oggi noi vogliamo un idealismo
storico o attuale, uno spiritualismo
antiplatonico e immanentista . Molti
giovani, che la guerra avevano fatto e vissuto, sfiduciati dell’ambiente
filosofico e culturale del momento, si orientarono verso la nuova rivista. Durò poco; il Giornale continuò a
vivere, ma alcuni, giovani e anziani, cambiarono rotta e s’'indirizzarono altrove. L’idealismo storico
o attuale, antiplatonico e immanentista, non era la filosofia che rispondeva
alle loro esigenze; infatti, di tutte le filosofie che hanno reagito al
positivismo, è tra quelle che hanno fatto maggiori concessioni alle tendenze
naturalistico-empiristiche e più si è
adattata ad esse. Concepisce il mondo come realtà spirituale, ma, per il suo fondamentale
storicismo ed immanentismo, imprigiona, anzi impoverisce lo spirito nelle forme
e nei fatti empiricamente dati. Manca ad esso
quel carattere autenticamente metafisico e religioso, essenziale alla
filosofia, lo slancio di elevarsi, con un respiro veramente universale e non
mozzo, al di sopra di quella generica divinizzazione dell’umanità, a cui in
fondo si riduce quel suo concetto di Storia o Cultura o Civiltà, col quale identifica la totalità del reale. Altri indirizzi in Italia e fuori sono
contemporaneamente sorti ed hanno avuto fortuna; poi di nuovo la guerra ’39-45.
Poco meno di sei anni: tutto cambiato. Filosofie che fino alla vigilia dello scoppio del
conflitto e a qualche anno dopo erano
studiate ed appassionatamente discusse,
oggi sembrano lontane e, a volte, estranee a noi, come se da esse ci dividessero secoli. Morte? No: con
esse, compreso l’idealismo storicistico o attuale che sia, dobbiamo ancora fare
i conti, se vogliamo proprio dare un nuovo orientamento al filosofare.
Misurarsi con gli avversari, con tutto il
rispetto che meritano e che anche noi esigiamo da loro, è chiarire noi stessi, saggiare la loro e la
nostra consistenza. Diciamo subito,
sebbene il lettore abbia già capito, che il nostro spiritualismo è platonico,
come può esserlo uno spiritualismo che non intende ignorare il pensiero moderno
e contemporaneo nè da esso straniarsi;
ed è trascendentista. Dire per esteso come noi intendiamo il nostro
spiritualismo, in che senso lo
denominiamo platonico e trascendentista, qual’è
l'essenza del platonismo antico e cristiano, sarebbe anticipare in
questa introduzione molte tra le pagine di questo libro e quanti volumi formeranno la nostra
Filosofia dell’integralità. Come abbiamo scritto altrove: Noi... capovolgiamo il principio animatore di
buona parte del pensiero moderno e
contemporaneo: non conquistare la posizione immanentistica dell’attività
creatrice del soggetto, ma conquistare ed anche questa è dura e aspra conquista il senso, che è senso della trascendenza, di
essere creati, il calore spirituale di
esser parte vivente della creazione. Aver sempre presente alla propria
coscienza di essere creature, significa avvertire sempre la propria esistenza
come dono, grazia di esistere: il mondo, nella sua totalità, è un dono
della grazia del Creatore. Appunto, per
noi, filosofare è pensare trascendendo
il nostro pensiero; è far della storia trascendendo la storia; è tensione dello
spirito verso una Realtà che è in lui
senza esser lui, che immane e trascende; è
aspirazione al possesso della Verità, che non ha storia e non è filosofia, ma che fa e la storia e la
filosofia . Platone? Sì, ma anche
Agostino, Pascal, Rosmini, Blondel. Platonismo, che è un aspetto perenne perchè
essenziale e invincibile della filosofia di ogni luogo e tempo, dello spirito
umano, che è filosofo , perchè è
aspirazione indomabile, eros inesausto
della verità. Perciò la filosofia è costituzionalmente decisa tendenza alla trascendenza. Oggi, come nel periodo immediatamente
anteriore alla guerra, vi è, specie
nella filosofia francese e italiana, non un
ritorno, ma una ripresa dell’agostinismo perenne; i problemi filosofici,
quello religioso e dei suoi rapporti con la filosofia, sono posti, trattati e
discussi nei termini della spiritualità agostiniana: questa oggi la nota
attuale (che non significa di moda) che riesce a farsi ascoltare. È anche
la nostra nota che non contrasta affatto
con la ricchissima spiritualità tomista, di cui è da tenere gran conto, in
quanto, aggiungiamo, è tutt’altro che
antiplatonica ed antiagostiniana. Agostinismo significa voler conoscere innanzi
tutto due cose: Dio e l’anima, la mia
anima che ama Dio e a Lui aspira.
Dunque, umanesimo o spiritualismo cristiano;
centralità del problema dell’anima umana di fronte a Dio che in lei parla e della consistenza
dell’uomo e delle cose; senso della
creazione, che si coglie come tale nell’aspirazione perenne al Creatore e,
dunque, senso profondo, interiore, della trascendenza. Dunque, ancora, pensiero
che si coglie nell’essere, non essere
che si coglie nel pensiero; perciò
metafisica dell’Essere. Ma non basta. Da una parte, la persona umana non è l’individuo, che è
ogni ente organico, o l’io empirico, e, dall'altra, il Dio del Cristianesimo
non è soltanto impersonale sostanza o mera essenza. E’ più che sostanza, più che essenza: è
Persona, Padre, Creatore, Provvidenza.
La teologia razionale, che tende a
scarnificare Dio, va animata e riscaldata dalla mistica, che è esperienza interiore e teologia rivelata.
Dio non è il residuo logico di un intellettualismo intollerante; non è Oggetto
puro, ma Soggetto assoluto e trascendente: tale è per la mistica che appunto ridona a Dio, come Dio
di Gesù, quella soggettività che è Sua natura . Non si tema l’immanenza, perchè, se non altro, questa
posizione ci mette al di là del dilemma, più artificioso che reale, trascendenza-immanenza;
nè l’esperienza mistica fa di Dio un
elemento immanente della vita dell'anima, ma Lo assume e ama come Voce
interiore, Norma assoluta e Guida
infallibile: Voce, Norma, Guida, Via trascendenti, che spiritualmente
ricreano la creatura. Dio ancora è intelligenza
che attua col pensiero gli intelligibili, ma attuandoli li vuole liberamente. Anche qui non si tema il
volontarismo, per chè siamo al di sopra del dilemma volontarismo-intellettualismo:
la nostra posizione non è meramente volontaristica e meno ancora anti-intellettualistica.
L'attività intellettuale che solo certe forme d’intuizionismo hanno
relegato nel formalismo e nell’astratta
schematizzazione, con una restrizione del termine intelletto tanto ingiusta
quanto incresciosa è anch'essa vita
intensissima e spirituale sentire, che
si collega con l’attività volontaria. Intelletto e volontà sono fatti per armonizzare nella distinzione
e reciprocamente integrarsi. La riflessa cautela critica dell'intelletto
non smorza, ma disciplina e rende più
efficaci gli slanci della volontà, come
la rigorosa obiettività metafisica non si disgiunge dal carattere personale
della ricerca filosofica. Poetico è l’intelletto, al pari della volontà.
Insufficiente il primo nella sua sfera
se non è integrato dall’altra, come è
insufficiente la volontà che pretende di fare a meno dell’intelletto; sufficiente è la completa e
concreta vita umana naturale
nell’integrazione reciproca dell’una e dell’altra forma di attività. Da ultimo,
il complesso dell’uomo ha il
suo compimento nella spiritualità soprannaturale, che non altera l’umana natura, ma la solleva ad un
più alto stato. Una metafisica così
intesa esaurisce il contenuto della
filosofia: è gnoseologia e morale, è scienza del mondo e dell’uomo singolo ed associato; è filosofia
che ha il profondo senso morale e
religioso di se stessa; perciò cristiana, alla
quale appunto il Cristianesimo dà la consapevolezza dei limiti della
conoscenza concettuale e nello stesso tempo, con la Rivelazione, la soluzione di quel che può
solo cercare e sondare, ma intorno a cui
non può e non potrà mai concludere. La filosofia è razionalità, se si vuole, intransigente razionalità; ma è atto della ragione autentica
riconoscere i suoi propri limiti; atto che include perciò stesso il riconoscimento del mistero teologico, che
non è affatto, non occorre dirlo,
irrazionalità o arazionalità. La ragione, lume naturale, riconosce, con un atto
naturale, il lume soprannaturale: si apre alla Rivelazione; la filosofia, che è indagine razionale, è apertura
all’Essere, vocazione alla trascendenza,
che, per noi, è quella teologica. Se così
non fosse, se la filosofia non mettesse le ali allo spirito per innalzarlo, faticosamente, nel mondo che è
spirito e non materia, che è verità e
non illusione, da dove non dimentica o
disprezza il regno terreno, ma lo intende, conosce e valuta al lume della Verità che lo trascende per
indirizzarlo al suo fine, che è il Creatore,
la filosofia sarebbe ozio e concupiscenza dell’intelletto, non vita spirituale,
salute dell’anima. Fede e ragione in
stretta ed armonica collaborazione, senza
che si armino i diritti dell’una contro quelli dell’altra; Suona filosofia, dunque, in umiltà di cuore,
semplicità d’intelletto e rettitudine di
volontà. Di qui scaturiscono
conseguenze di vitale importanza.
Innanzi tutto la filosofia è profonda consapevolezza dell’essenziale
spiritualità dell’uomo nella sua complessa ricchezza e dell’ordine del mondo; nell’uno e nell’altro
caso, assenso alla verità di Dio,
creatore dei due ordini, provvidenza o
attività perennemente creatrice e conservatrice. Consegue che la filosofia è riconoscimento dell’essere del
creato, di ogni creatura nel suo grado
di essere; in questo senso è avviamento all’integrità, che è appunto riconoscimento di
ogni ente nel suo grado di essere, per
quel che è e significa; è disposizione (non diciamo realizzazione o compimento) al ritorno alla creazione genuina, messa in
linea per il riscatto totale di essa. Pertanto filosofare è ricreazione interiore
della verità, iniziazione religiosa, contemplazione (theoria) che è
concentramento della totalità del creato in un
punto del pensiero, da dove più potente ed irresistibile si fa lo slancio verso il Creatore; è infine e per tutto ciò preghiera.
Da ultimo consegue che essa è essenziale moralità. Chi filosofa si mette in cammino per incontrare
la verità; dunque, nell’atto stesso, è chiamato a spogliarsi di quanto ini 44 Filozialmente può essere di ostacolo al
raggiungimento del suo scopo e a
liberarsi, a mano a mano che la ricerca procede, di quanto risulta falso o inadeguato: con ciò
stesso riconosce che non la ricerca produce il vero, ma il vero la ricerca.
Filosofare è pertanto itinerario di liberazione, di purificazione: lotta del vero contro il
falso, del bene contro il male; dunque,
è assolutamente moralità, che non è un
fatto, ma un dover essere. Nel nostro caso, è la possibilità di riescire
a vincere il falso con il vero, il male con
il bene, di riescire al possesso della verità, che è saggezza. E’ capace l’uomo (il pensiero, la filosofia)
di passare dalla possibilità di vittoria
sul male e sul falso, alla reale riescita?
Di trascendere la lotta vero-falso, bene-male? La lotta è la sua vita morale; la vittoria definitiva
ne è l’esito; poichè l’esito o
cessazione della lotta è al di là di essa, la
trascende. Ma trascendere la morale è trascendere il pensiero, cioè il
potere dell’uomo; dunque la realizzazione del
fine, per il cui conseguimento l’uomo lotta contro il male, non è nell’umano potere. La filosofia, intesa
come assoluta moralità, è la grande possibilità naturale di cui l’uomo dispone
per realizzare il suo fine supremo. Impegnate
tutte le sue forze e fattele fruttare al massimo, il pensiero si fa disponibile per accogliere dall’Alto,
se vengono, le energie della salvezza:
l’essenziale moralità della filosofia si
rivela come essenziale sua religiosità; dunque l’esito della vita morale (lotta del bene contro il male)
non può trovarsi se non nella religione.
In caso contrario, la morale come lotta eterna senza possibilità di
risoluzione, come perenne dialettica dei due termini in contrasto, si nega come
morale, in quanto si riduce ad un fatto,
al fatto della lotta, che non può non
essere altro e dev'essere quello che è.
E’ la nostra ancora una morale filosofica o razionale? Crediamo di sì ed aggiungiamo anche che è una
morale autonoma nella sua possibilità di
riescire, con la speranza che la riescita che la trascende non le manchi e venga a colmarla, a liberarla dalla lotta, ad
assorbire la morte in vittoria . La
salvezza come fine della moralità
investe nel suo punto cruciale il problema dei rapporti di filosofia e religione. Secondo la tradizione,
Pitagora, quasi indietreggiando umile di
fronte alla maestà della divina Sapienza, per primo si nomò non sapiente ma
filosofo: semplicemente amico della
Sapienza, veritatis amicus. La Sofia è scienza di Dio, la filosofia è scienza dell’uomo. Dio non è filosofo , dice Platone, perchè è il Sofo. Ancor prima di Pitagora e Platone, l’uomo
(da Adamo caduto, primo grido di dolore
e primo atto di pentimento per la verità
perduta) ebbe ad accorgersi che l’amore per la
Sapienza costa carissimo. Amare la verità è tendervi, che è sforzo perenne di ricerca, superamento di
limiti, penetrazione di zone di ombra,
vittoria sul dubbio; lo sforzo è dolore.
L’uomo partorisce mella Verità le verità: prima gesta con cautela e fatica; sorveglia perchè il parto
non sia aborto prematuro e il partorito germoglio rachitico e malaticcio;
poi fa forza per rompere l’involucro che
l’asconde e vorrebbe soffocarlo: non si
dà alla luce senza dolore. Ed è giusto:
non c’è luce di verità, per l’uomo, senza sacrificio e sofferenza, che
fanno pura la gioia del generare. Umanissima la
filosofia: è suggellata dalle note eterne del dolore in letizia; infatti è testimonianza del vero. Ma non si sopportano sacrifici nè si affrontano martirii senza
fede nella verità, nel dono che farà di
se stessa, essa, che è posseduta solo
50 Filosofia e Metafisica da
chi è suo possesso. Filosofo è chi ha fede nel ritrovamento del vero, chi usa
il dubbio positivamente, come pedana di lancio o strumento d’acquisto; non
dispera, non tentenna: crede, serve e muore. Socrate fu filosofo. Altro saggio d’antichissima saggezza,
Salomone, nell’Ecclesiaste, sottolinea il tormento di spirito, a cui volontariamente
si condanna il filosofo per amore del vero: vivere filosofando (non primum e
poi deinde, perchè non si filosofa senza
vivere, ma non si vive, in ispirito e verità,
senza filosofare) è lotta perenne, fatta di conquiste e perdite, di elevazioni e cadute, di realtà ed
illusioni deludenti, di speranze e
disinganni. Perchè? Perchè l’uomo, grandezza di pensiero e miseria di peccato,
è sempre alle prese con l’errore, sempre
in un’ansia di ricerca che fruga il visibile e l’invisibile: ora cade al
livello della carne che agogna delizie di piaceri, ora si slancia alle cime
serene e luminose della pura spiritualità; contraddizione vivente di sapienza e
stoltezza, di verità ed errore, instancabile ed inquieto viandante, che sorsa a
mille sorgenti ed ha sempre più sete.
Alla fine, spossato umiliato confuso confessa la propria impotenza e grida all’ausilio di una
forza superiore alla sua; invoca il vero che tanto ha cercato, affinchè scenda sul suo cammino e gli venga incontro,
mercede di tanto affanno. Deum time et mandata ejus
observa; hoc est enim omnis homo . Perchè
tanto peregrinare del viandante indomabile? Perchè egli, dice ancora il Saggio,
per la verità deve lottare con se
stesso, portare in linea il lume dell’intelletto, che aspira all’invisibile
immutabile vero, affinchè vinca il senso
cieco e corruttore, che vagola nell’errore e tenta, esperto d’inganni e raffinatezze, di sostituire al
vero le apparenze di esso. Così dirà
anche Platone, che fu filosofo. La saggezza
testamentaria s'incontra con quella greca nel cercare di definire
l’essenza della filosofia e del filosofare.
Eed., XII, 5. Che cos'è in
concreto filosofia? È una scienza come le altre? È una scienza sui generis? Ha
un suo oggetto e quale? Filosofia non è
scienza come tutte le altre. Non lo è
innanzi tutto perchè, come ben notò Aristotele, si distingue dalle scienze empiriche: essa, infatti
(quando è vera filosofia e non tornaconto di falsi o mezzi-filosofi) non
ha fini utilitari. In questo senso,
filosofia, la sapienza desiderata per se stessa e per amore del sapere , è
scienza inwtile: non serve a niente di estrinseco o di estraneo alla ricerca
della Verità in sè e per sè. Coloro che scherzando dicono che la filosofia è inutile non si accorgono di tessere il suo più bell’elogio: inutile, e perciò
libera e liberatrice. E quando
avvenimenti di eccezionale portata scuotono gli uomini nel più profondo della
loro profondità e tutto sembra irreale
ed assurdo, il volgo, spregiatore del filosofo, chiede a lui la parola che illumina e salva e nella
filosofia intravvede i calzari con cui l’umanità cammina nel tempo per secoli e secoli. Bellamente disinteressata, pura
contemplazione, spassionata ricerca della verità va fiera della sua sublime e
quasi divina inutilità. Il filosofo è
come il poeta: contempla e canta, adoprando princìpi e formulando giudizi; fa musica ,
secondo il comando che a Socrate carcerato dava in sogno la voce misteriosa (7). D'altro non si
preoccupa, dice ancora Aristotele, in
quanto ha il fine in se stesso .
Proprio perchè non è scienza empirica, essa è conoscenza di tutto il reale, dello spirito e delle
cose, non nella loro accidentalità, in
quel che hanno di empirico, bensì nei loro
princìpi e nelle loro cause. Ma ogni altra scienza particolare non cerca pur essa princìpi e cause e leggi?
Sì, ma nessuna. studia l’ente in
universale , bensì dopo averne
rescisso Fedone, 60 e. qualche parte, di questa studia
gli accidenti ; solo la filosofia studia l’ente in quanto ente e le sue
proprietà essenziali (*). Scienza
dell’universale dunque e, come tale, distinta da ogni altra empirica. Secondo lo stesso Aristotele, non è la sola
che appartenga alle scienze dette speculative (distinte dalle poetiche e pratiche ): condivide questa nobiltà con la fisica
e la matematica. Ma non allo stesso titolo: occupa il posto più alto nella gerarchia; e i gradi
sono segnati dalla purezza dell’oggetto:
la fisica studia le forme, ma nella
materia; la matematica anch’essa le forme, ma astratte; solo la
filosofia le studia pure e concrete (‘). Prima di Aristotele, Platone aveva già
stabilito una gerarchia delle scienze
culminante nella filosofia o dialettica, la quale ha come oggetto le
Idee in sè e per sè, senza alcun commercio col sensibile (*). A parte la dottrina aristotelica delle forme
e la platonica delle Idee, proprie dei
due filosofi, resta fermo che la filosofia ha come oggetto non alcunchè di
empirico o sensibile, ma il
meta-empirico e il soprasensibile; che è scienza disinteressata, speculativa,
il cui oggetto è l’universale, ciò che è
e non appare; non è ricerca di una singola verità; non si rivolge ad un
oggetto particolare, ma a ciò che è, all’Essere. Non è scienza come le altre la filosofia
anche per un motivo strettamente
connesso a quanto già abbiamo veduto. Le
scienze, certo, son forme dell’attività dello spirito umano, ma nè una nè tutte
insieme sono lo spirito. Che la scienza
sia spirito e lo spirito scienza, è solo un’erronea equazione di certo positivismo o
neopositivismo, che non vide e non vede
ancora che tra l’una e l’altra non v'è differenza di quantità, ma di qualità.
Nè la filosofia è una serie o collezione
di sintesi (i contributi o i risultati di ogni (3) Mer., IV, I, 1003. (4) Met., VI, I, 1025 B.3-1026 a. (5) Repubblica, 521 c-535 a. Filosofia e concetto di filosofia 53 singola scienza), perchè è sintesi
originalissima, assoluta. Ecco perchè /4 scienza, in fondo, è le scienze,
mentre /z filosofia non è le filosofie
Di qui ancora la particolarità delle scienze. Ogni singola scienza
conosce secondo un modo suo proprio (Pascal
direbbe un suo espriò) un aspetto del reale; la filosofia invece, che ha il suo esprit inconfondibile, non
s’indirizza ad un aspetto, ma a tutto il
reale. Lo conosce nella sua interezza? No, e qui bisogna intendersi. Vi è la
conoscenza comune, che non è scientifica
nè filosofica, quantunque sia il
materiale sul quale lavorano e la filosofia e la scienza; vi è la conoscenza scientifica che conosce secondo un
suo metodo, suoi concetti e regole un aspetto del reale, astraendo dagli altri; vi è la conoscenza
filosofica che tende a conoscere il reale nella sua totalità, cioè se lo
pone intero come oggetto di conoscenza,
ma di esso coglie solo un aspetto,
meglio lo vede da un punto di vista, ne ha
una veduta parziale. Per conseguenza le scienze colgono parzialmente un aspetto parziale del reale;
la filosofia coglie parzialmente la totalità di esso. Perciò quelle hanno un’astrattezza che la filosofia non conosce,
senza che ciò obblighi a concludere che
i loro concetti, privi di valore conoscitivo, ne abbiano soltanto uno pratico
ed economico. Per povero che sia, un
concetto è sempre una finestra sul
mondo; per limitato che possa essere il conoscere scientifico è sempre
una veduta della realtà. Vi è inoltre un
problema fondamentale, in cui scienza e filosofia hanno sempre collaborato: il problema stesso della
scienza. Per un altro verso le scienze
sono astratte: sono conoscenza nel senso più angusto. Lo scienziato applica un
metodo di ricerca ad un determinato fenomeno; è guidato solo dall’osservazione e dalla ragione; il
sentimento è escluso. La filosofia no: è
fondamentalmente razionalità concreta,
la razionalità che è l’uomo intero, totale, che è ragione, volontà, sentimento, cuore. Anche quando la
filosofia è puramente nozionale, formula scarnificata, resta sempre alla pura ragione filosofica una vita che è pur
presenza di umanità; anche la saggezza stoica o quella spinoziana sono profonde
aspirazioni umane. Non così la scienza che astrae dal sentimento, dall’umanità dell’uomo, anche
da ogni motivo finalistico; perciò la sua necessità è naturale, quasi meccanica:
in qualunque caso, anche se indeterministica, prescinde dalla finalità del
reale. La filosofia invece è sempre teleologica: non è scienza dei fatti, ma
dei valori; dunque la sua essenza è veramente spirituale. Perciò ancora è libertà. Inoltre, la filosofia, essenziale
ricerca della verità oggettiva, che è
prima di essere conosciuta e tale resterebbe anche se mai alcun soggetto
pensante la conoscesse o la cercasse, ha
una sua indeclinabile soggettività: la verità
universale ed oggettiva è anche la mia verità, quella che, cercando ed
amando, faccio mia. La scienza invece astrae dal soggetto come tale per garantire quella
oggettività impersonale, propria della conoscenza scientifica. Di qui l’ incommensurabile
ricchezza della filosofia, quella stessa dello
spirito umano filosofante, cioè amante, con tutte le sue forze e con
tutto se stesso, la verità desiderata, alla quale si offre, dedica, sacrifica; quel senso
umanissimo proprio della pagina
filosofica, che spesso, sotto la veste frigida
e il gelo delle formule, ha una vita possente e un’anima intera, la vita
e l’anima, inconfondibili, del pensiero speculativo. Da ultimo, la filosofia è impegnativa. Il
filosofo che si accinge al terribile
compito di riflettere sulla conoscenza
comune, di sottoporla ad esame e a critica, di oggettivare la sua vita per esaminarla profondamente, non
più vissuta nella sua immediatezza, ma
posta come problema, il filosofo, dico, s’identifica con la sua filosofia, la
verità che è la sua vita. Ogni filosofo
è una formula, ma la sua non è
un’astrazione; è tutta la ricchezza, radicalmente, della sua esistenza; la formula è la croce, su cui si
crocifigge e dalla quale perennemente rinasce. Lo scienziato, invece, pone
un'ipotesi: questa può essere dimostrata falsa o vera, restare semplice ipotesi. Nei tre casi tranne che l’ipotesi non abbia una portata
metafisica e, in tal caso, o fa della
filosofia con esprit filosofico e non più scienza, o fa della filosofia con esprit scientifico e non
più scienza nè filosofia, ma
pseudo-scienza e pseudo-filosofia Ja sua
vita resta quello che è. Per il filosofo
non è così: che Dio esista o non esista,
che il bene sia una realtà o un'illusione,
che il mondo abbia un fine o sia il risultato di combinazioni
meccaniche, la verità dell’una o dell’altra di queste ipotesi, impegna la sua vita interamente,
importa vedere l’universo in un modo
radicalmente opposto ad un altro. Lo
scienziato che indaga non scommette se stesso; il filosofo sì, totalmente. Vi è
nella filosofia un’essenza di totalità metafisica e insieme religiosa che manca
alla scienza. Si è ancora sostenuto,
muovendo dalla pregiudiziale critica, che la filosofia non è la scienza, in
quanto questa ha dei presupposti che
accetta senza renderne conto. La filosofia
invece, se vuol essere tale, discute e deve discutere non solo i presupposti della scienza, ma ogni
presupposto, porre in questione se
stessa. Ma la pregiudiziale critica, come qualsiasi altra, è essa stessa un
presupposto: la si può discutere in base
ad un altro; e questo in base ad un altro ancora e così via. La stessa pregiudiziale critica,
affinchè abbia senso e possa essere
assunta come punto di partenza del
filosofare, presuppone l’oggetto della ricerca, la verità: la critica ha senso come giudizio sulla umana
conoscenza della verità, non come dubbio
che investa la realtà stessa del vero,
altrimenti essa vien meno al suo compito e
alla sua ragione d’essere, in quanto c’è critica del conoscere solo rispetto alla verità. Infatti, il
problema dei limiti della conoscenza
umana è tale rispetto alla verità ed è
problema della validità -del conoscere solo in quanto c’è verità. La posizione critica è
consapevolmente critica, solo in quanto col e nel suo porsi implica e riconosce
la positività del vero. Dunque anche la filosofia ha i suoi presupposti, quantunque sia meno dommatica
della scien Teorie nuove sostituiscono le vecchie, ma nessun matematico, per
esempio, pensa di far progressi nella sua scienza cominciando dal mettere tutto in dubbio,
anche che due e due fan quattro; e se
ciò mette in dubbio, non dubita del
numero. Anche lo stesso modo di condurre l’ indagine filosofica implica dei presupposti. Del
resto, non è solo un limite della filosofia
o della scienza; lo è del pensiero umano
in generale, il quale non può rendere conto di tutti i presupposti: gli
possono apparire evidenti, ma non perciò sono dimostrabili. Vi è un metodo scrive Pascal quasi a principio del frammento sull’Esprit géometrique più eccellente di quello della geometria, consistente: a) nel non usare alcun termine di cui non sia stato prima spiegato
nettamente il senso ; b) nel non affermare mai alcuna proposizione che non sia stata dimostrata con verità già
conosciute; cioè, in breve, nel definire
tutti i termini e nel provare tutte le proposizioni . Bellissimo metodo, ma assolutamente impossibile . Di dimostrazione
in dimostrazione si arriva necessariamente
a dei termini primitivi, che non si possono più
definire e a principii così chiari che non se ne trovano altri che lo siano di più per provarli . Se la
filosofia, come ogni altra umana
scienza, potesse spiegare tutti i presupposti
senza presupporne alcuno, non sarebbe più filosofia, ma Sofia, la Sapienza, di fronte a cui si
sgomentò Pitagora; nè l’uomo sarebbe
filosofo, ma Sofo; Sofo è solo Dio, che
non è filosofo. Gli uomini non hanno la capacità (ed è qui la ragion d’essere della filosofia) di
costruire una qualsiasi scienza di
ordine assolutamente perfetto. Dunque, la filosofia è scienza sui generis, ma
l’esser tale non significa affatto che
non vi siano altre scienze, come hanno cercato di dimostrare alcuni indirizzi
filosofici contemporanei cosiddetti idealisti. Torna il conto soffermarvisi, anche
se brevemente. Per il neohegelismo
italiano, per esempio, la filosofia è
scienza speculativa, il cui criterio logico, che è anche principio del
reale, è il dialettismo antinomico. Perciò: l’antinomia dialettica è il
principio di tutta la realtà; la filosofia ha come criterio logico lo stesso
principio; dunque la filosofia, in
quanto dialettica, è scienza del reale. La logica aristotelica invece (che lo Hegel e gli
hegeliani chiamano astratta per distinguerla dalla nuova detta concreta ) assume come princìpi logici della
speculazione quelli d’identità e non-contraddizione; per conseguenza muove da
un criterio logico speculativo diverso da quello l’opposizione dialettica che è il principio del reale; dunque non può
conoscere il reale, di cui si lascia sfuggire l’essenza. Alla logica astratta, che procede per esclusione, bisogna
sostituire quella concreta, che fa suo il principio del dialettismo antinomico.
Così vi è corrispondenza perfetta tra il criterio logico della speculazione e il principio del reale;
anzi il principio 0 la legge del reale
(ciò che è reale) è lo stesso criterio logico
o legge del pensiero (ciò che è razionale). La filosofia, scienza speculativa, è l’espressione perfetta di
questa identità, la trasparenza dell’Idea.
Le altre scienze non sono scienza in quanto assumono come principii del reale leggi determinate e
fisse, che escludono la contraddizione. Dunque non hanno valore conoscitivo;
astratte, si lasciano sfuggire la concretezza del reale. Scienza è solo la filosofia che è
l’antinomia, la contraddizione, fattasi realtà; perciò è scienza diversa dalle
altre e, come tale, decreta la loro non-scientificità o empiricità, nel momento stesso che conferma la sua sola
legittimità scientifica. Che la realtà
presenti antinomie e contraddizioni, anche
sconcertanti, è vero; ma è proprio la contraddizione che provoca il
pensiero a vederci chiaro e a cogliere la radice, dove i termini opposti s'incontrano. La conoscenza,
filosofica o scientifica che sia, è soluzione di contraddizioni,
componimento di antitesi ad un livello
più profondo dell’antitesi stessa. Come dice il Rosmini, l’universo è un grande
e sacro libro aperto da Dio davanti agli
occhi dell’uomo e scritto tutto di
quesiti e difficoltà, proposte all’umana intelligenza perchè le risolva. Dio col permettere che insorgano nella mente dell’uomo
delle dubbiezze, o, per dir meglio, delle difficoltà, ... riscuote l’inerzia di lui e lo provoca
alla riflessione ed alla investigazione
del vero. La legge fissa non è che
soluzione, diciamo così, dinamica
della contraddizione, del dubbio e della difficoltà che han
provocato la mente a comporli. Dunque,
anche la legge scientifica, in questo senso,
è sintesi conoscitiva, come lo è il concetto filosofico, ferme restando le differenze da noi poste sopra tra
filosofia e scienza. Inoltre, se la
realtà, almeno come appare, è contraddizione,
ciò non significa affatto che l’essenza del reale sia l’antinomia.
Fermarsi ad essa è arrestarsi alla superficie o almeno sull’ultimo gradino
rifiutandosi di penetrare nella radice profonda del reale stesso, dove è il
componimento di tutte le antinomie; è
indietreggiare di fronte alla metafisica, che è
appunto la filosofia; essere ancora degli empirici; è fare della filosofia una scienza empirica (sia pure sui
generis) come le altre; è il residuato
positivistico che l’idealismo trascendentale non è mai riescito a sciogliere,
nonostante i suoi sforzi metafisici. Nè
il principio che sottostà all’antitesi è l’astratto, ma l’assolutamente concreto. Astratte son le scienze
non in quanto non riconoscono
l’antinomia, bensì in quanto non colgono (nè è questo il loro scopo) la
soluzione ultima, il concreto assoluto; ed una zona di astrattezza permane, in
questo senso, anche nella filosofia,
quantunque essa sia lo sforzo massimo
che l’umano pensiero possa fare verso il concreto assoluto, che è l’assoluto Essere e
l’assoluto Vero. Teodicea, n. 9. Ancora:
considerare l’antinomia come principio del reale e criterio logico di speculazione è accettare
il dato, la contraddizione, quell’immediato che pur l’idealismo
trascendentale, dallo Hegel in poi,
combatte e respinge in nome del pensiero che è mediazione. Ciò comprova che
esso è ancora al di qua della filosofia,
che è riflessione sul dato, la contraddizione, non accettazione di esso;
componimento dell’antinomico nell’identico essenziale, cioè conquista della
metafisicità del reale. Con ciò l’idealismo si preclude anche la strada d’indagare se la soluzione ultima che fonda
ed involge le altre e pur le trascende,
che chiude la serie delle antinomie al
di là della stessa conclusione metafisica pur non più bipolarizzata dalla e
nell’antitesi ma aderente alla identità dell’essere a se stesso sia possibile alla filosofia oppure trascenda
la sua capacità. Figlio del Kant, respinge proprio il senso profondo del criticismo; non arriva al limite
massimo della conoscenza filosofica,
dove il pensiero si arresta, e acconsentendo, si dispone a ricevere la verità
suprema; al punto in cui la filosofia
legittimamente e col suo assenso si apre alla religione. Perciò la filosofia,
così come è concepita dall’idealismo, fa sua, oltre che l’empiricità delle
scienze, l’immediatezza della conoscenza comune e l’astrattezza, propria anch’essa
della scienza, di voler ignorare o risolvere nel
logo razionale la religione, come se l’uomo non fosse un animale religioso e la religione suprema
verità non riducibile all’ordine di quella filosofica, senza che le
contraddica. Ma l’idealista (anche se
non hegeliano ortodosso) ribatte che la
nostra critica è ingiusta, in quanto accettare come criterio logico della
speculazione il dialettismo antinomico non
significa affatto fermarsi al dato immediato. L'immediato è l’antinomia, che la logica astratta esclude
in base ai princìpi d’identità e
non-contraddizione, lasciandosi sfuggire la concretezza del reale, che è
sintesi degli opposti; la mediazione,
cioè la riflessione filosofica, è la sintesi concreta degli opposti stessi, che, separati ogni cosa è identica a se stessa e non può
essere diversa da se stessa sono
l’astrattezza imputata alle scienze. Sì, ma la sintesi, rispondiamo, per
l’idealismo è sempre un termine posto e considerato dialetticamente, cioè come elemento dialettico rispetto ad una
nuova antitesi; dunque quel che è reale
non è la sintesi ma l’antinomia che si
sposta all’infinito, per cui l’ultimo termine è sempre una antinomia. Di fronte a ciò che sottostà ad
essa (e che è il vero principio del
reale, non più tesi rispetto a un’antitesi e
perciò non più dialettico) l’idealismo si arresta incerto e scornato: o
conclude che vi è una sintesi assoluta ed allora il principio del reale non è più l’antinomia, ma
questa sintesi suprema dove ogni
antinomia si risolve, e l’idealismo dialettico nega se stesso; o esclude che vi
sia questa sintesi e il principio del
reale ed il criterio logico è la contraddizione, cioè sempre il dato, anche se retrodatato
all’infinito. La mediazione è solo provvisoria ed apparente; la riflessione
sulla contraddizione, che è la
filosofia, resta sempre riflessione
sull’antinomia, che è il dato.
Per un altro verso ancora l’idealismo riduce la filosofia ad astrattezza. Identificato dialetticamente
il reale con il pensiero e questo con il
processo logico ( ciò che è reale è
razionale, ciò che è razionale è reale ), consegue che la filosofia è
panlogismo, cioè riduzione (o dissoluzione?) di ogni forma di attività spirituale e della realtà
tutta al puro conoscere razionale. Per conseguenza, la filosofia è costretta
ad astrarre da quanto nell’uomo non è
ragione o riducibile a questa, cioè a
far propria quell’astrazione che, come abbiamo
detto, va imputata alle scienze.
Da ultimo, l’idealismo trascendentale nei suoi epigoni che, in verità, l’hanno inteso su molti punti
a modo loro ha voluto essere
consequenziario. Spinto dal miraggio dell’assoluta immanenza, risolve l’essere
nel pensiero, il pensiero nel pensare in
atto reale non è l’oggetto del pensiero,
ma il pensiero conoscente l’oggetto l’attualità del pensiero nel mio pensiero, che non è il Pensiero ma,
d’altra parte, non è una realtà trascendente le singole persone pensanti, e arriva
alla conclusione che la filosofia non ha un oggetto e /a conoscenza è la mia conoscenza. In tal modo,
la filosofia, scienza sui generis,
conoscenza per eccellenza e la sola rigorosissima, si fa assoluta soggettività;
priva di un’oggettività propria,
svanisce come scienza, essa che si era posta come la sola. Lo storicismo,
infatti, conclude che la filosofia non
esiste ed è metodologia della storia: Un
forte avanzamento della cultura filosofica dovrebbe tendere a questo effetto:
che tutti gli studiosi delle cose umane [ Aristotele dice che la filosofia è scienza delle cose divine;
ma Aristotele non ha scritto di storia e
dunque ha fatto opera inutile e da nonfilosofo ] giuristi, economisti,
moralisti, letterati, ossia tutti gli
studiosi di cose storiche, diventino consapevoli e disciplinati filosofi; e il
filosofo, in generale, il purus philosophus,
non trovi più luogo tra le specificazioni professionali del sapere ;
l’attualismo afferma che è filosofia ogni forma di attività spirituale (pedagogia, politica,
arte, religione, ecc.), mentre un
seguace di esso, almeno in quell’epoca, sostiene che non c'è la filosofia come scienza a sè,
ma che è la scienza: la filosofia non è
una particolare forma di sapere (filosofia
astrologica ), ma l'universalità
di ogni sapere, sicchè non ha un campo
autonomo d’indagine. Così l’idealismo contemporaneo, dalla filosofia come
scienza sui generis, autonoma dalle
altre, unica, conclude, in opposizione con le sue premesse, che come scienza a
sè non esiste, ma è immanente ad ogni
singola scienza. 4. La filosofia come ricerca della verità
interiore e suo esito religioso. Torniamo all’antica definizione della
filosofia: amore della sapienza; dunque, ricerca ed aspirazione: la filosofia
è Eros; ed Eros è figlio della Povertà e
dell'Abbondanza; divino, perchè è aspirazione al Vero, non è Dio perchè non è
possesso della Verità. Platone va integrato con il Cristianesimo; l’amore è sì
aspirazione, ma è anche sovrabbondanza e perciò non è imperfezione, ma atto di
perfezione: il Dio greco, perfetto, non
ama; se amasse non sarebbe Dio, in
quanto aspirerebbe a qualcosa che non è; il Dio cristiano, perfettissimo, è essenzialmente Amore. La perfezione o l’essenza della filosofia è
la ricerca, lo sforzo di riflessione;
perciò non è la Sapienza divina: Dio è
la Veritas, la filosofia è il quaerere veritatem (?). Come tale ha sempre dei limiti: sottintesi,
concessioni, presupposti, ipotesi, ecc.,
che la riflessione non riesce mai ad esplicare
interamente; perciò non è verità totalmente dispiegata. La filosofia, che è sforzo, resta sempre
aspirazione al di là del limite; perciò
la sua essenza di ricerca ha come oggetto Dio,
l'assoluta Verità. Anche quando riflette su cose o problemi particolari, la filosofia è sforzo di
riflessione su Dio, sua meta agognata ed
irraggiungibile. Ciò non significa che sia solo
aspirazione; è anche produzione di verità; perciò è problema, ma non lo sarebbe se non fosse, come tale,
richiesta di soluzione. Il platonico Eros filosofo, infatti, partorisce nel
Bello, nel Bene, nell’Essere; i suoi
parti sono nella verità che il filosofo,
dubitando e cercando, trova, scopre dentro di sè: verità oggettiva innata. E anche qui Agostino
va oltre Platone: la verità abita în interiore homine, non come dato di cui si risveglia la memoria, ma come
presenza perenne, di cui la coscienza non si accorge quando è distratta, lontana dalla sua voce, che parla dentro ed è
presente anche quando non è ascoltata.
Che cosa stimola e guida la ricerca? La
Verità non conosciuta, ma per la quale l’uomo ha la vocazione; perciò la ricerca è almeno
iniziale possesso del vero, a cui l’anima
aspira. Che cosa sono i veri che la
mente trova? Perchè la voce della verità, pur interiore a noi più di quanto noi non lo siamo a noi stessi,
può non essere ascoltata? E quando lo
è? (7) S. Acostino, De vera religione.
I veri che la mente scopre sono le risposte che il filosofo dà alla verità, testimonianza del suo amore;
il loro insieme è il mondo ideale, il
regno dello spirito, il solo veramente
reale. L’unica infinita verità è conosciuta dall’uomo in alcuni dei suoi infiniti aspetti: l’uomo conosce
delle verità, non la Verità; possiede il
lume dell’intelligenza che, illuminandola,
fa la ragione giudice delle cose di esperienza. Ogni singolo vero è concreto vero, sintesi
dell’universalità dei principii e delle
determinazioni di esperienza. A chi obiettasse che i principii in sè sono astratti, rispondiamo
che è astratto e perciò irreale il puro
particolare (almeno dal punto di vista speculativo), mentre è concreto e perciò
reale il particolare illuminato dai principii, dove trova appunto la sua verità
e con essa la sua realtà: la rinunzia
della filosofia all’universalità è la
rinunzia della filosofia a se stessa, la sua autonegazione. Evidentemente la determinazione è limitazione
e perciò noi conosciamo i veri, ma non
la Verità nella sua pienezza, nè i veri
quali sono nella pienezza della Verità che è. Nè una sola determinazione, nè tutte insieme possono
esaurire l’infinita possibilità di
conoscere che è il pensiero umano; perciò niente può appagare l’uomo, nessuna cosa, nessun
vero, tranne la Verità in sè; dunque, è fatto per Dio, perchè solo Dio,
l’unum necessarium, può appagarlo. La
vocazione dell’uomo è la stessa vocazione della filosofia; non per nulla è uomo
per il pensiero. Il lume d’ intelligenza
e di ragione, universale e infinito, è
la sua possibilità di conoscere la Verità, ma senza che egli disponga della capacità di tradurla
in atto; l’immagine di quel che è l’assoluto Vero nella sua realtà. Per
questo il filosofare è ricerca e sforzo,
non la sapienza a cui aspira. D'altra
parte, partecipando l’uomo della verità, porta connaturata la molla che lo
spinge ad essa, conficcata la spina che
lo fa saltare per elevarsi fino a Dio, ma il salto, per altissimo che sia, è sempre infinitamente corto. È la
sua grandezza e la sua miseria; l’umana tristezza, la magnanima nobile angoscia
del filosofo e della filosofia, mestizia confortata 64 Filosofia e Metafisica dalla speranza che non può non nutrire
chi veramente ama il vero ed insita
nell’eroico sacrificio della ricerca indomabile. Perciò filosofare è moralità:
implica l’impegno iniziale che il filosofo assume di cercare ex veritate;
l’umiltà del soggetto pensante di fronte
alla verità che cerca, già ama e verso
la quale volge tutti i suoi sforzi. Una formula
filosofica, un concetto speculativo è opera della mente, che con esso esprime un valore assoluto; perciò è
risposta a Dio, sorgente di tutte le
verità, Verità creatrice dei veri, Libertà
creatrice di libertà. L’essenza di sforzo che è la filosofia è dunque decisione di diventar buoni, di amare
l’essere dovunque s’incontri secondo il suo grado: la legge della ricerca filosofica
è la stessa legge della morale. Non ci
par degna del titolo di Sapienza quella
cognizione che nulla opera sul cuore
umano e che, quasi inutile peso, ingombra la mente dell’uomo mortale
senza accrescergli i beni, senza diminuirgli i
mali e senza appagare o consolare almeno di non menzognera speranza, i perpetui suoi desideri (°).
Se non è così, la filosofia non è più tale: è la caduta del pensiero, di tutto l’uomo. Perciò la
filosofia è ascesi, iniziazione alla verità, come Platone dimostra in più parti
dei suoi dialoghi e soprattutto in
alcune pagine immortali e bellissime del
Fedone. Ogni vero trovato è anche acquisto di una virtù intellettuale o pratica, norma regolatrice
del nostro pensare e del nostro agire.
Nè alcun vero si può trovare se lo spirito
non si è disposto a trovarlo, se non è passato attraverso il difficile esercizio della purificazione.
Perciò la filosofia è perfezionamento
della natura umana: mortificazione, non
compressione, delle sue debolezze. Non è contro la natura umana secondo
un malinteso misticismo ascetico o un
arido moralismo di astratta ragione, ma contro le sue miserie, affinchè
sia autenticamente umana natura, e il filosofo
quel libero uomo, che stupendamente Platone tratteggia nel Teeteto: libero dalle passioni e dagli
inganni sensibili e per (8) Rosmini,
Teodicea, n. 4. Filosofia e concetto
di filosofia 65 ciò riscattato
all’autentica sensibilità; libero dalla passione della ragione, che pretende di essere il vero
e si ribella di esserne scolara e perciò
ricco di verace ragione e di profonda
umanità: un0 spirito razionale ragionevole e non un cervello razionale irragionevole. Gli è dunque
essenziale l’umiltà, radice e guida della filosofica ascesi: umiltà di sentirsi
creatura e di amare in sè il Creatore,
testimonianza dell’Essere e del Bene,
che cerca ed ama; di amare la propria esistenza
come dono e dunque come atto amoroso. L’umiltà, che è legge d’amore, rende morali l’intelletto e la
volontà ed efficace l'impegno di vincere le nostre passioni e debolezze; ci dà il senso del sacrificio purificatore a
cui siamo chiamati per ascendere o
filosofare. Pertanto è sacrificio che accresce
l’umanità dell’uomo, come la potatura del secco fa adorna e vigorosa la pianta. La filosofia è volontà di sacrificio: chi
filosofa è consapevole di esser vittima della Verità. Perciò è rinunzia a quanto ostacola l’amore e il possesso
interiore dell’unum necessarium; dolorosa rinunzia, a volte, e dunque ancora
umanissima. Provocatrice di essa, la filosofia è choc, scuotimento di tutto l’essere umano, frattura con quanto
non è essenziale al suo essere o è
d’impedimento al raggiungimento della verità. Il suo oggetto è Dio; Lo cerca,
vuol conoscerLo, possederLo. La filosofia è charitas naturale, che si esercita
col lume della ragione, datoci da Dio
come il solo che ci faccia desiderosi di Lui e sia condizione per conoscerLo.
La Grazia, infatti, è data soltanto alla natura intelligente: il lume soprannaturale
al lume naturale. Ma l’uomo da solo,
per filosofo che sia, sacerdote e supplice della verità, non riesce ad esserne
veramente vittima: le miserie
s’infiltrano sempre. Resta il tipo del saggio, non dell’antico modello di condotta nella sua superiore e
superba . imperturbabilità ma del cristiano, coscienza vivente di dubbi e fede, di amore e speranza, di
sacrificio e carità, perennemente insoddisfatto e perennemente in attesa di
ricevere il dono che cerca. Egli non impersona nè la sapienza nè una determinata scienza, ma lo sforzo sublime
verso la sapienza, l’appello perenne della creazione. Attesta la realtà dell'Essere, i limiti del pensiero, il gran
benedetto e il gran maledetto da Dio, il
perduto dal peccato e il riscattato dalla
verità, fatto per la verità e che pure è più spesso sofisma e dubbio, negazione e distruzione. Si sacrifica
in una formula, il filosofo, che può
sembrare morta astrazione a chi ignora
quanta vita (tutta la vita) si racchiuda in essa. Sacrificio senza successo, che non vanta possessi o dominii;
silenzioso, perchè cripta che accoglie e conforta di pace la nudità dell’anima;
perciò autentico, che non rimpiange le caducità perdute, non attende dagli
uomini niente di male o di bene e
conosce solo l’ansia per la verità sofferta. E quando il Bene tanto desiderato folgora la mente, il
filosofo sa che non lo potrà esprimere;
è effabile soltanto lo sforzo di attingerlo, il
sacrificio, l’essere sua vittima; la Sapienza che si dona resta inedita per tutti, tranne per colui a cui è
donata. Vi è nella filosofia
un’interiorità profonda, insondabile, che non
si esprime e non s’insegna; perciò non s'impara come si fa ad essere filosofo (non è un mestiere): non lo
saprà mai chi non lo esperimenta. 5. La filosofia come sforzo di ascesi ed itinerario a Dio. Da quanto abbiamo detto filosofia risulta
essere: a) amore per la Verità o per
Dio, essenza di sforzo; possesso di veri
parziali; ciascuno dei quali è acquisto di bene morale; perciò è purificazione ed ascesi,
potenziamento non negazione dell’umanità dell’uomo; è riconquistata chiarezza
dell’autentico valore della creatura e della creazione. La sua essenza è dunque morale ed il suo fine è Dio.
La filosofia ha la stessa finalità della
religione. Non s’identifica con essa,
ma ne ha bisogno: si ferma alla porta,
bussa e chiede. Platone, forse per primo, nel Fedone, vide esattamente il
problema e ne fissò i termini. Filosofia e religione, egli dice, hanno in
comune il fine di liberare l’anima dal sensibile e dalla schiavitù delle
passioni, ma mentre la religione si affida ad una divina rivelazione , la filosofia invece segue il raziocinio ed in
esso persiste ininterrottamente,
attendendo alla contemplazione del vero,
del divino, di ciò che non è soggetto alle illusioni dei sensi, e da ciò trae il suo vital nutrimento . Ebbe
torto Epicuro di eliminare dall’ideale
della perfezione morale la via religiosa
e di ridurre tutto a filosofia. Certo la via della ricerca è la ragione, meglio il pensiero che è l’uomo
nella sua interezza, ma l’oggetto ultimo della ricerca speculativa è la verità
assoluta o Dio; dunque, l’umano pensiero non può mai perfettamente conoscere, da solo, l'oggetto
della sua aspirazione. La filosofia lo
guida fino alle porte di Dio; è sforzo di ascesi non assunzione alla verità. L'essere assunti
è un dono gratuito, che la verità fa di se stessa a chi l’ha interamente
amata; è la charitas soprannaturale che
si dona alla charitas naturale, al
filosofare. L’ultimo suo grado non è il possesso di Dio, ma l'apertura a Lui, come dice il Blondel.
Ascendere fino ad un certo grado è in
nostro potere; l'assunzione no; dunque la
ragione è il dono naturale necessario, ma non sufficiente avente lo scopo preciso (ma quanto
defettibile!) di spingerci alla
conoscenza ed al possesso della Verità.
La filosofia, liberatrice
dell’anima (secondo un’espressione
agostiniana) o ascesi, ha come suo fine supremo Dio, cioè la nostra salvezza; il realizzarlo non
dipende da essa: è Dio che salva; a lei
compete soffrire, combattere ed amare,
nutrire speranza, nutrirsi di fede. La soluzione assoluta del suo problema assoluto è nella religione
rivelata, nel gratuito folgorar della
grazia. È la grande verità di Agostino: la filosofia prepara alla salvezza
(moralità), non dà la salvezza
(religione). Il problema della morale è filosofico, la sua soluzione è
teologica: i due ordini sono immensurabili. La filosofia, autonoma come ricerca
ritrovamento dei veri e conquista di virtù non lo è come soluzione finale, come salvezza, acquisto dell’unum
mecessarium, che costituisce la sua essenza di sforzo. Una filosofia assolutamente
autonoma è senza salvezza: amore senza speranza e senza fede; i saggi greci erano senza speranza , come dice San Paolo. E questo perchè, scrive Pascal, la vraie nature de l’homme, son vrai bien, et la vraie vertu,
et la vraie religion, sont choses dont
la connaissance est inséparable . Significa che la religione neghi la ragione e
con essa annulli e snaturi la natura umana? Niente affatto. La fede eleva, non uccide; Grazia non destruit naturam sed
perficit et elevat cam, scrive San Tommaso. E nel Rosmini si legge: Che se
la ragione scorge l’uomo al limite della fede, essa a questa ancora il consegna, come a più certa guida e
a più sublime maestra. Macchè! La fede stessa lo riconduce poscia
alla ragione, che diviene maestra sicura
e guida infallibile quando dalla fede è
confortata e sorretta . Evitare i due eccessi : esclure la raison, n’admettre que la raison ,
in quanto si on soumet tout à la raison, notre religion
n’aura rien de mysterieux et de surnaturel; si on choque les principes de
la raison, notre religion sera absurde
et ridicule (Pascal). La
ragione si dona alla fede, perchè riabbia da essa quel che ha perduto e non ha più; e la fede è sempre
generosa genitrice d’intelligenza, via
di spirituale salute e di eterna beatitudine. Domanda quanto mai imbarazzante,
questa. Sì, concepire non è propriamente definire , ma ogni concezione porta implicita una definizione . Ora, è tutt'altro che facile, ancora oggi, dire che è filosofia . Il matematico sa da tempo che è matematica, il biologo che è
biologia; noi filosofi non siam così fortunati, se pure quella è una
fortuna: non sappiamo ancora che è
filosofia dico, non lo sappiamo in due
parole, alla spiccia, come due più due fan
quattro . Gli scienziati ridono dell’imbarazzo del filosofo, ma hanno
torto: la filosofia non può chiudersi in
una formula, in quanto il suo oggetto di ricerca e riflessione è
infinito, perchè nessuna formula può esaurirne,
comprenderne , la totalità. Perciò nessuna umana ricerca è tanto
perennis ed universale quanto quella filosofica. La filosofia come scienza del reale nella
sua totalità, evidentemente, è scienza sui generis; nell’ordine delle
scienze umane è la sola autonoma: il suo
rimando fondamentale e non accessorio, intrinseco e non estrinseco
è solo ad un sapere di ordine non più razionale e
naturale, ma super-ra Il Centre International de Synthèse di Parigi ha pubblicato nel fasc. di luglio-settembre 1947 (Tom. XXI, Nouvelle
Série) della Revue de Synthèse le risposte a questo tema generale proposto
alla discussione, alla quale fummo
gentilmente invitati a partecipare. Il testo italiano che qui si
ristampa contiene qualche pagina in più
di quello francese. zionale e soprannaturale. Nessun'altra scienza è
autonoma: la storia, per esempio, ad un
certo punto rimanda al problema del suo
significato, dello scopo ultimo delle vicende dei secoli, ecc.; le scienze naturali pongono
invincibilmente numerosi problemi (che è
il mondo? quale la sua origine? ha una finalità ? che sono tempo e spazio?) che
non compete ad esse risolvere. A questi
e ad altri interrogativi è chiamato a rispondere il filosofo e, se anche lo
storico o lo scienziato, non in quanto
tali, ma in quanto filosofi. In questo senso, si può dire che la filosofia è l’unità delle
singole scienze, scienza prima e ultima,
in confronto alle altre che sono seconde
o penultime. Per la sua stessa natura, la filosofia è ricerca della verità; se ricerca, non è la
verità, l’oggetto che la trascende e guida. D'altra parte, abbiamo detto che è scienza del reale nella sua totalità;
perciò dobbiamo dire del reale in quanto
verità. Ancora: la verità è di ordine
spirituale; dunque la filosofia è scienza dello spirito che cerca e
nella ricerca è impegnato tutto l’uomo la Verità totale o il Reale in sè, che fonda e
fa essere ogni altra verità o reale
finito; è il cammino dell’uomo, che dotato del lume d’intelligenza e ragione, cerca l’oggetto ad
esso adeguato, a cui perennemente tende,
senza che abbia ad osare di pretendervi. Ma è tempo che rispondiamo
direttamente a quel che il Centre ci ha
gentilmente domandato: fornire argomenti pro
o contro l'orientamento del pensiero del Cenzre stesso, il quale sostiene une certaine conception de la
philosophie dan ses rapports avec son
histoire et avec la science . Nessuno certo
vorrà negare questi rapporti, ma tutti credo sentiranno il bisogno di
precisarne i termini; infatti, è necessario sapere cosa s'intenda per storia della filosofia per
poter poi stabilire i rapporti tra essa
e la filosofia. Precisazione anche opportuna, se si pensa che, in Italia, per
esempio, l’idealismo neohegeliano ha identificato filosofia e storia della
filosofia al punto di risolvere l’una
nell’altra e tutte e due nella storia della
cultura, onde la filosofia ha finito per essere tutto 0, quel che è lo stesso, per non esser nulla, per non
avere più un oggetto proprio; se si
pensa che, il positivismo, di cui nel mio Paese
ormai non è facile trovar tracce a prima vista riconoscibili (tanto che qualche volta verrebbe voglia
d’inventarsi un positivista per averlo aperto e sincero avversario al posto di
altri che si chiamano impropriamente idealisti
e spiritualisti), ha concepito la storia
della filosofia come pura esposizione oggettiva
di sistemi e di fatti riguardanti la vita dei filosofi: ci ha dato compilazioni spesso
filologicamente pregevoli, ma aventi il torto di mettere da parte la
filosofia. Similmente, per stabilire i
rapporti tra filosofia e scienza è
altrettanto necessario sapere che cosa sono l’una e l’altra e quali i rispettivi campi di competenza, per
evitare che la filosofia non spinga il suo distacco dalla scienza fino al
punto da negare a quest’ultima la
qualifica di scienza ; 0, al contrario,
che la scienza non pretenda ridurre la filosofia a semplice registratrice dei
risultati scientifici; ad una particolare
scienza, come se la filosofia fosse una qualsiasi specialità; all’insieme
delle scienze, come se fosse l’insieme delle specialità; alla conoscenza della natura fisica, sulla
base dei contributi delle scienze
particolari, come se essa dovesse restringere la sua indagine alle percezioni e alle leggi
naturali, dimentica dello spirito e dei
suoi problemi, cioè di se stessa, che, come ricerca filosofica, è già scoperta della realtà
spirituale e, per sua intrinseca necessità, conseguente approfondimento
metafisico del suo destino. Detto ciò, credo che il nostro punto di
vista appaia già chiaramente molto
diverso da quello proposto dal Cenzre, il
quale, a quanto sembra, è per una concezione della filosofia come synthèse des connaissances science plénière .
Se sintesi e scienza plenaria qui significano
composizione o unione delle conoscenze in un tutto, non possiamo accettare questa concezione della filosofia,
la quale ha problemi propri, estranei alle altre scienze, ad ogni singola
come al loro insieme, anche se per i
suoi problemi possa ricevere lumi ma non
soluzioni dai ritrovati scientifici, che, nel loro complesso il più completo e sviluppato non esauriscono ‘e non esauriranno mai il contenuto della
ricerca filosofica, la plénitude a cui
essa aspira e per la realizzazione della quale
tutto l’universo è insufficiente. A noi italiani, il termine Science con la maiuscola richiama il non
lieto ricordo dei tempi del positivismo,
quando si divinizzava la scienza, la si
profetizzava risolutrice di tutti i problemi, anche morali e religiosi, con grave danno per la serietà
della scienza stessa, fatta idolo da
adorare, tanto che le cosidette réveries della metafisica facevano bella figura
al confronto con le nuove réveries.... scientifiche. La Science, intesa come
sapere assoluto e totale, non è più
tale, ma idolatria e superstizione, fanatismo
della scienza. Il controllo della filosofia fa sì ed essa è chiamata ad esercitarlo anche sopra
ogni vero filosofico pretendente a porsi come verità totale che ogni verità scientifica e la scienza in generale acquistino consapevolezza
dei loro limiti e rinunzino ad una
pretesa totalitarietà di sapere, che è solo arbitraria extrapolazione e
maggiorazione a volte aberrante di una
verità parziale assunta a spiegazione di tutto il reale. Duplice dommatismo: di estensione il sapere scientifico è esplicativo di ogni aspetto della realtà ; e di validità esso è assoluto. Il controllo critico della filosofia rileva
l’inconsistenza di tale dogmatismo e
svuota il funesto mito illuministico dell’infallibile scienza onnicomprensiva e
della coincidenza tra progresso scientifico, progresso culturale e
miglioramento spirituale dell'umanità. È ormai un fatto di esperienza che il
più basso livello di cultura e una
rudimentale coscienza morale e religiosa
possono coesistere con la tecnica più progredita: nessuna scoperta o invenzione scientifica ha
mai fatto progredire nello spirito un solo uomo e mai ne ha elevato di un solo
millimetro la statura morale; anzi la decadenza della cultura occidentale coincide con lo sviluppo
della scienza e della tecnica moderna e
il suo precipitare nel fondo dell’incultura con il loro vertiginoso
progredire. Conveniamo con il Centre
che, nella successione delle filosofie,
vi è une logique interne e che dans le retour
méme des doctrines, un progrès s'est accompli . Ma, dire che il ritorno di dottrine filosofiche segna
un progresso oggi come domani, si può essere, senza scandalo,
platonici o aristotelici, agostiniani o spinoziani, tomisti o hegeliani,
mentre non si può essere più, per
esempio, tolemaici dopo Copernico,
Galilei e Keplero significa
affermare inconfutabilmente che la
filosofia è una scienza diversa dalle altre, non riducibile ad alcuna di esse o al loro insieme, con
problemi, soluzioni e verità proprie, per cui non può essere la science plénière nel senso di somma (quanta meccanicità in questa parola!) dello scibile. Si è che, tra filosofia e
scienza, prima di stabilire un rapporto quale che sia anzi affinchè esso possa essere fondatamente stabilito riteniamo sia necessario fissare una differenza non di quantità, ma di
qualità. La filosofia, infatti, è conversione qualitativa di esperienze e di
fatti quali che siano, trasposizione di
essi in un piano diverso, in un ordine
superiore. La filosofia come metafisica. Essenzialità della filosofia e inessenzialità delle scienze. Perciò noi non possiamo accettare, anzi siamo costretti
a rovesciarne i termini, la concezione
della filosofia proposta dal Centre e
cioè: que la synthèse des connaissances s’est
constituée, et se poursuivra, pour répondre aux questions que posaient les philosophies, depuis les
origines, pour substituer peu à peu le
positif à l'a priori, les vérités de la science aux imaginations ou aux réveries de la
métaphysique . Che è questa sintesi delle conoscenze che si propone rispondere alle questioni che
pongono i filosofi depuis les origines ? Per
noi è proprio il contrario: sono le conoscenze particolari delle singole scienze che pongono domande ai
filosofi, affinché costoro da filosofi,
con metodo filosofico e con spirito speculativo rispondano. Non è la scienza chiamata ad
esercitare un controllo sulla filosofia (e quando lo esercita, esso si rivolge alle stravaganze
pseudofilosofiche o ai sofismi che non
sono filosofia), ma la filosofia sulla scienza,
i cui principii sottopone a critica. Secondo le parole sopra riferite,
sembrerebbe che il compito della scienza, nei confronti della filosofia, sia
quello di dimostrare quanto siano
immaginari i filosofemi escogitati dai filosofi e fantastiche le loro
costruzioni metafisiche, gli uni e le altre da
sostituire con verità
scientifiche . A parte tutto, è facile
ribattere che le imaginations e le réveries della scienza,
come comprova la sua storia, non hanno niente da invidiare a quelle di
alcuni filosofi: vi sono le rèveries de
la métaphysique e le réveries de la science ; ma come si avrebbe torto a dire che tutta la scienza sia
fantasticheria, così si ha torto ad
identificare la metafisica con la stravaganza, quasi si trattasse di una
manifestazione patologica della mente
umana. Difendere la metafisica, per noi, è difendere l’essenza stessa della
filosofia: se la metafisica fosse
fantasticheria, fantasticheria sarebbe anche la filosofia; ma si può affermare dogmaticamente che le
metafisiche e la ‘metafisica siano
senz'altro fantasticherie? Se così, è fantasticheria la filosofia che, dalle
origini ad oggi, è stata sempre metafisica; fantasiosa la ragione umana che
pone, come suo bisogno fondamentale
essenziale e naturale, l’esigenza
insopprimibile di un sapere metafisico. Mi faccio forte dell’autorità
dello stesso Kant che, nella Prefazione alla
prima edizione della Critica della Ragion pura rileva come i sedicenti indifferenti per la metafisica finiscono per
cadere sempre in affermazioni metafisiche ; e ne traggo la conseguenza legittima ed evidente:
essenzialità della filosofia e inessenzialità delle scienze. Il sapere
scientifico è informativo; la scienza soddisfa una curiosità intellettuale;
il sapere filosofico è formativo e
terribilmente impegnativo: risponde ad
un bisogno totale dell’uomo totale. Si può non
essere scienziati, non si può non esser filosofi: alla filo sofia non ci si può sottrarre. L'avventura
della scienza si può correre e non
correre; l’avventura della filosofia è
obbligatoria per ogni uomo che non voglia sopprimere la richiesta essenziale della sua umanità
profonda. L’uomo è naturalmente
compromesso a percorrere l’itinerario della
filosofia, cioè, a dialogare con la verità, a collocarsi nel momento
essenziale della ricerca essenziale. Di qui la serietà dell’indagine speculativa, l’intransigenza del
filosofo. La filosofia è molesta a chi filosofa e soprattutto a quanti si adagiano nelle consuetudini e negli ordini
costituiti; perciò rischia sempre la cicuta, mentre la scienza in ogni
epoca è circondata di rispetto e
protezione. Ancora: che significa substituer peu à peu le positif à 1° priori ? Che s'intende per positivo e per a priori? Positivi sono i fatti, dicevano i positivisti; noi, meglio,
che reali sono quae facta sunt, ma tra le cose quae facta sunt vi è anche l’uomo, il pensiero, lo
spirito, il quale è positivo , ma è l’a
priori di ogni fatto; infatti, non vi è fatto , almeno nel senso filosofico, che non
sia anche coscienza del fatto. Un fatto
positivo, diceva Pascal, sono anche Dio,
la Rivelazione e la Chiesa. Riconoscerebbe il positivismo questi fatti? A forza di sostituire il positivo a l’a priori, nel senso in cui i termini sono
usati dai positivisti, si finisce nel più piatto e scoraggiante empirismo, pericoloso all’esistenza stessa della scienza
e misconoscitore dei diritti dello
spirito. Non vi è fatto positivo senza esperienza nel senso più esteso della
parola, ma non vi è conoscenza intellettiva del positivo degli enti finiti che costituiscono il reale
cosmico senza un 4 priori; e il
reale finito, per ciò stesso, rimanda al
problema dei suoi principii costitutivi, cioè alla metafisica, che nessuna
verità scientifica potrà mai sostituire. Dunque, di positivo c’è solo la metafisica,
anche se, per sua buona sorte, non è positivistica. 4. Ancora sulla distinzione fra filosofia e
scienza. Per il Centre, il filosofo è
un gran peccatore contro la filosofia
senza essere un penitente. Infatti: Il
explique le réel par l’imaginaire. Il
explique le tout par une partie du réel.
Il fait prédominer la tradition ou le sentiment sur la raison. Il cerche l’originalité è tout prix.
Par une forme personnelle, il rend la
pensée floue ou obscure. Il est poète,
artiste, métaphysicien, ou mage, au lieu d’étre le pur interprète des
résultats acquis par l’effort collectif des générations pensantes . Dato il modo come il Centre intende la filosofia, si può spiegare questa severa
requisitoria contro il povero filosofo;
dato il modo come la intendiamo noi sono
necessari chiarimenti e precisazioni.
Innanzi tutto, se è vero che ciascun filosofo o tutti insieme non sono
la filosofia (perisca il filosofo, ma viva la
filosofia), è anche vero che, storicamente, i filosofi e i loro sistemi lo sono; pertanto, i terribili
peccati dei filosofi sopra elencati,
sarebbero anche della filosofia. E allora, perchè ce ne occupiamo, se essa spiega il reale con
umagiazio, sacrifica la verità all’originalità ad ogni costo ecc.? Chi potrebbe
assolvere il filosofo e la filosofia? Forse la scienza, che non sarebbe soggetta a questi
traviamenti? E perchè, nonostante tutti
i trascorsi della filosofia, gli uomini non ne
hanno mai potuto fare a meno, mentre, come dice ancora Pascal, possono fare a meno di tutte le
scienze? Perchè quando l’uomo si trova
di fronte a se stesso e al problema
della sua consistenza, cioè quando veramente pensa in altezza e
profondità (metafisicamente, appunto) non chiede risposta alla matematica, all’astronomia o ad
altra scienza, ma alla filosofia? La
requisitoria di sopra è dunque da rivedere. Se il filosofo spiega il reale con l’immaginario è da riprendere subito; ma se s'intende per immaginario ogni principio a priori o metafisico, è da consigliare di
spiegare il reale contingente e particolare proprio con i principii necessari
ed universali. Se sottomette la ragione alla tradizione e al sentimento è da
ammonire che la filosofia è ricerca razionale;
ma anche quelli sono patrimonio spirituale dell’uomo al pari della ragione. Se è poeta ed artista non
è certo filosofo, ma non è poi sì gran
danno poichè anche arte e poesia, come
tali, son verità. Se metafisico, diciamo che è davvero filosofo; e quanto ad essere mago , credo che questa parola siastata messa
accanto all’altra di metafisico solo
per spirito polemico, senza che risponda ad una affermazione positiva
che si presti ad essere discussa. Se poi cerca
l'originalità ad ogni costo, invece che la verità, è da condannare
senz'altro, ma come un originale non come un
filosofo ; così pure se spiega il tutto con una sola parte del reale, facendo un'’illegittima maggiorazione
d i un principio arziale; ma anche di
ciò, come abbiamo detto, è responsabile la scienza, per esempio, quando presume
sostituirsi alla filosofia e risolvere
problemi che non le competono. Secondo
il punto di vista del Centre, affinchè il filosofo non pecchi, bisogna che sia il puro
interprete dei risultati acquisiti dallo
sforzo collettivo delle generazioni pensanti .
In parole mie, questa affermazione significa: perchè il
filosofo sia filosofo e non erri bisogna che smetta di fare il filosofo . Una delle due: o egli si limita
a registrare i risultati acquisiti (da
chi? dalle scienze?) e non fa filosofia e nemmeno storia della filosofia; o interpreta i risultati acquisiti nel senso che li
ripensa, li fa propri per acquisire nuovi risultati, che segnano un avanzamento
della verità rispetto ai primi, e in tal caso è filosofo, se i suoi risultati sono filosofici e non puramente
scientifici. Peccherei di indelicatezza dicendo che da un pezzo in Italia una tale
concezione della filosofia si considera pacificamente sorpassata, se la mia
conoscenza, credo sufficiente, della filosofia francese contemporanea non mi
autorizzasse a dire che anche in Francia
non pochi e non certo trascurabili pensatori sono del mio stesso parere. Del
resto, anche gli stessi teorici della
scienza, universalmente, fondano ormai i rapporti tra scienza e filosofia sulla
base di una diversa concezione di quest’ultima. In due punti il Cenzre insiste sulla
concezione della filosofia come sforzo
collettivo , come coopération à un grand
oeuvre collectif ; purtroppo, nemmeno questa volta posso trovarmi d’accordo. Se scienza e
filosofia s’identificassero, niente da dire; ma siccome sono due forme di attività
da tenere ben distinte (anche se non separate), ProprlO questo è uno dei punti di distinzione: la
scienza è opera sforzo collettivo, la
filosofia opera di sforzo personale. Mi
spiego: uno o più scienziati iniziano la loro ricerca dal punto in cui l’hanno lasciata i loro predecessori e
la spingono fino ad un certo grado per
lasciarla nelle mani di altri e così
via; nè i successori rimettono tutto in questione, ma accettano, come
acquisito, il risultato raggiunto dagli altri. L’ oggettività della verità
scientifica è impersonale e perciò la scienza
è sforzo collettivo, opera di collaborazione ed è bene che lo sia. Non così la verità filosofica: è
oggettiva, ma non impersonale; è impegno totale del filosofo, è la sua
(personale) verità oggettiva. Essa non
può essere accettata z0ut court da un
altro filosofo, ma ripresa e ripensata, fatta sua; e la decisione è opera del singolo, non di più uomini. Ciò
dimostra non il soggettivismo o il
relativismo della verità filosofica, ma
il maggiore interesse che essa ha per l’uomo rispetto a qualsiasi verità
scientifica; prova l’assoluta spiritualità della filosofia, il suo carattere
d’interiorità e, diciamolo pure, la sua
capacità creativa: se il poeta, il filosofo, lo scrittore non cominciano da capo, non usano le parole più
comuni come nuove di zecca, come se mai
nessuno prima le avesse usate, non c’è poesia, non arte, non filosofia: non c’è
opera di creazione. Ogni uomo non è la
sua scienza, ogni filosofo è la sua
filosofia, in quanto ogni scienza o tutte le scienze insieme non sono l’umanità o spiritualità
dell’uomo; la filosofia lo è, anche se
non può dare la soluzione totale: al
limite massimo si apre ad una verità che non è razionale ma superrazionale, non
di ordine umano, ma divino o
soprannaturale. Ciò chiarito,
consentiamo col Centre nel deplorare il soggettivismo radicale di certa
filosofia contemporanea che si perde in
puri stati d’animo, in forme morbose e decadenti di tormento e angoscia, specie di barocco
filosofico. Ma non tutto
l’esistenzialismo va condannato (per esempio, alcune forme di quello francese meritano la più
attenta considerazione) e, in qualunque caso, di esso va conservato il
senso della persona umana, il richiamo
all'importanza della metafisica che sia tale e non pura descrizione
fenomenologica e, quando ce l’ha,
quell’anima religiosa che ha il merito di
aver contribuito a recuperare alla ricerca filosofica. Ma è tempo che concludiamo senza più oltre
abusare della ospitalità che ci viene
concessa. Lo facciamo come noi possiamo
farlo: 4) vi è stata una rivoluzione perenne nella filosofia dovuta a Platone: non le cose sono
reali, ma le Idee, e non le Idee
aspirano al grado di realtà delle cose,
ma queste al grado più alto di realtà delle Idee. Reale e positivo è lo spirito e la filosofia è
scienza dello spirito e lo spirito è
verità. 5) La scoperta platonica è stata inverata dal Cristianesimo che ai concetti di reale,
verità, persona, Dio ecc. ha dato ben
altro significato. c) La filosofia è solo
scienza che è sapere e saggezza; pertanto i réveils religieux e le réveries mystiques , verso cui il Centre
sembra tutt'altro che tenero, sono, i
primi quanto mai benefici anche per una maggiore consapevolezza e coscienza
critica della filosofia e le seconde
tutt'altro che réveries. Da ultimo,
diciamo che di Scienza con la maiuscola non ne conosciamo nell’ordine umano: vi
è solo quella di Dio. L’uomo, dice
Pascal, non è capace di una scienza di ordine
assolutamente perfetto, anche se, direbbe il Blondel, vi aspira
necessariamente ed incoercibilmente, ma sempre inefficacemente. Certo, la
scienza deve affermare la sua verità, ma
non sa vérité souveraine , perchè
qualcosa la sorpassa infinitamente: se è scienza naturale, la sorpassa quella
filosofica; se filosofia, la Scienza di
ordine extra e superfilosofico. Il filosofare implica due termini: la ricerca e
la verità, il soggetto cercante e
l'oggetto cercato. Un’analisi del concetto di filosofia s’identifica con quella
di questi due termini. Che è
ricerca? Per definire questo termine è
necessario tener presente anche l’altro
con cui è in rapporto intrinseco e necessario;
e la verità, oggetto della ricerca, è assoluta. Chi la cerca non cerca una cosa qualsiasi, ma ciò che è
essenzialmente, assolutamente,
universalmente, necessariamente: chi cerca la
verità cerca l’essere o in una delle sue categorie, assoluta dentro i suoi limiti, o nella sua pienezza;
dunque cerca il tutto dell’oggetto; non
può non cercarlo che con il tutto del
soggetto, il tutto di sè. Ricerca nel senso più pieno, impegno di tutta la vita spirituale del cercante, che
è esso stesso impegnato nel cercato: come realtà spirituale, e per il
grado di verità o di essere che è, egli
non è fuori ma dentro l'oggetto cercato,
la verità. Chi cerca, dunque, cerca con’
tutto se stesso: con il corpo e con lo spirito, con i sensi e con la ragione, con l'intelligenza e con la
volontà. Io cerco il positivo assoluto
(l’essere-verità) con tutta la positività di
cui la mia natura umana è capace. Cercare la verità o filosofare è
perfecte quaerere: non una astrazione che opero
su di me, ma una concentrazione di tutto il mio essere nell’atto del
cercare. Verità è unità; cercarla è orientare verso lo stesso punto tutte le
capacità e le risorse del cercante, è
come raccogliere ed unificare tutti i suoi atti; dunque la filosofia come ricerca della verità è
movimento di convergenza integrale dell’uomo totale verso la verità
integrale. Movimento di coesione e
compattezza, genera la solidarietà di
tutte le forme della vita spirituale: quale che sia la verità che cerco (il
bello, il bene, il vero ecc.), come verità
presenta sempre gli stessi caratteri dell’immutabilità, universalità e
necessità; richiede pertanto lo stesso atteggiamento spirituale; e quantunque a
ciascuno di questi veri s'indirizzi una
forma particolare di attività la
sensibilità al bello, la volontà al
bene, l’intelligenza al vero ecc. tutto
lo spirito collabora alla sua conquista e scoperta. La filosofia come ricerca della verità è dunque la stessa
vita spirituale, impegnata nella ricerca
totale della verità totale. Questa la
filosofia 4 parte subiecti; e a parte obsecti? Lo spirito che cerca la verità, per ciò
stesso: 4) è fatto per la verità; 5) ma
non è la verità, che è l’oggezto a cui è
naturalmente indirizzato. Pertanto l’espressione: lo spirito che cerca la verità cerca se stesso non è
affatto vera se significa identità del
soggetto e dell’oggetto; è vera nel senso
che lo spirito trova ed attua tutto se stesso nella verità: non è vera nel senso dell’ immanenza , bensì
in quello dell’ interiorità . Ma ciò conferma l’oggettività, la necessità e l’universalità del vero e cioè sempre che
esso non è lo spirito cercante, ma il suo oggetto, dallo spirito distinto e
indipendente. La verità è: l'essere è verità: realtà=verità. Il reale in quanto reale è verità. Dunque
l’oggetto del pensiero è reale, ma non l’ente in senso generico, bensì
l’ente in quanto è suo oggetto e dunque
verità. Ma il reale come verità è il
reale come intelligibile, come ciò che è vero; dunque: realtà è verità; verità
è ciò che è intelligibile; l’intelligibile è l’oggetto del pensiero. È la
verità perenne dell’idealismo oggettivo: l’oggetto concepito in termini di
verità 0 realtà intelligibile. Il
soggetto non può essere concepito se non in termini di pensiero; il suo oggetto
non può essere pensato e conosciuto se
non in termini di verità; dunque, la
filosofia, a parte subiecti e a parte obiecti, si definisce come la scienza della vita spirituale. Ma a questo punto è necessario approfondire
ancora il rapporto pensiero-pensante
verità-pensata, gerarchico, di di ndenza. Se lo spirito tende , aspira alla verità, ne è attratto e dall’interno stimolato ad essa,
significa che il suo oggetto gli è
superiore; se è desiderio di verità non è essa,
che è eterna ed immutabile; dunque, lo spirito non eterno nè immutabile è l’aspirante al possesso del
divino, che gli è interiore come
riflesso della Verità in sè che lo trascende.
D'altra parte, se lo spirito la cerca vuol dire che è fatto per la verità; in questo senso e per questa sua
aspirazione è anch'esso qualcosa di
divino: divino eros della divina verità.
Da ciò consegue che non è il pensiero che pensandola la pone, ma è la verità che pone il pensiero;
dunque è prima ed indipendente da esso,
è anche quando non è pensata, anche se
nessun pensiero la pensasse. Infatti, era prima che le menti umane fossero; e le menti umane non
ci sarebbero state se la verità non le avesse create. Ma com'è possibile una verità non pensata,
se non c’è verità se non per un pensiero
che la pensa? Esatto, e da ciò consegue
che se la verità è eterna madre e non
figlia dei singoli veri che pensano le menti
umane essa è sempre stata, è
stata sempre pensata, ma solo il
Pensiero eterno ed immutabile può eternamente pensare l'eterna ed immutabile
verità; dunque vi è il Pensiero eterno
ed assoluto con cui s’identifica la Verità eterna ed assoluta; esiste la Mente
divina, il cui oggetto eterno ed immutabile è la verità, anzi è essa stessa la
Verità eterna ed immutabile, in quanto
in essa il pensiero e il suo oggetto
s’identificano; esiste Dio come verità eterna ed assoluta; Dio che è la Verità in sè, per essenza: l’Essere
è verità, Pensiero, Mente. La
Mente-Verità assoluta crea la verità è
feconda per se stessa menti o spiriti fatti per la verità, ma
proprio per questo le menti create non
sono la verità: Dio la Mente pensante,
gli spiriti le menti pensate alle quali per natura è essenziale pensare la verità loro oggetto,
cercarla e scoprirla. Nella mente creata la verità non s’identifica con
essa; dunque la verità come è data alla
mente creata non è la Verità come è in
sè; è come verità astratta della Verità, immagine reale di essa. Nel mio
pensiero leggo la verità, come nello
specchio vedo l’immagine che vi si riflette; immagine non ombra, verità partecipata e perciò
conosciuta da me in maniera diversa da
come è conosciuta dalla Mente divina; ma come verità è anch’essa assoluta. L'immagine è nello specchio; dunque la
verità data alla mente finita è in essa,
ma, a differenza dello specchio, la
mente ha coscienza del vero che intuisce come suo oggetto; perciò è nella verità che le è interiore e la
trascende. Non è la mente che giudica la
verità, ma è la verità che la fa capace
di giudizi veri, cioè necessari ed universali. La verità è sempre divina; umana
è la sua scoperta attraverso la ricerca;
umano è il leggere in essa. Ecco:
leggere nella verità, raccoglierla nella mente, fare che l’una sia presente all’altra; è anche un
raccogliersi di tutto l’uomo,
concentrarvisi, convergervi, unificarvisi. Ma raccogliere la verità e
raccogliersi in essa è acquistare coscienza di
noi in un duplice senso: 4) che siamo fatti per la verità; 5) che essa è in noi senza essere noi, pur essendo
la profondità di noi. Dunque leggere che
è filosofare: l’umano cercare e scoprire
è leggere dentro, inzus legere o intelligere. La filo sofia è l'intelligenza della verità, la mente
pensante vivente nella sua luce. La
mente non può pensare alcun oggetto se non in termini di verità, di ciò che è
intelligibile; dunque, quando penso
secondo intelligenza, penso sempre secondo la ve-. rità che è in me, e non è la Verità in sè:
non posso pensare me stesso nè pensare (conoscere) il mondo se non in
termini di verità. Il pensiero passa
sempre per la verità quale che sia
l'oggetto che vuol conoscere: lo coglie nella sua verità, che è la sua realtà. Ma allora pensando io penso Dio, sempre,
anche quando non Lo penso, anche quando
penso che non esiste; infatti, quando
penso e conosco un vero, penso e conosco quel che Dio mi ha dato, messo dentro, affinchè la mia
mente fosse mente, cioè capace di
pensare e conoscere. Dunque, io penso
perchè Dio esiste e non Dio esiste perchè Lo penso: non faccio essere la verità, ma essa fa che io
sia un essere pensante la verità, quella che a me è consentito pensare e conoscere, ma sempre tale che la sua presenza
mi obbliga 2 trascendermi, a riconoscere
che è più di me, non è da me; è dalla
Verità in sè o da Dio, da cui è stata estratta per essere donata alla mente creata,
intermediaria tra la creatura e il Creatore. La verità che è in me è la molla
che mi spinge a trascendermi e a
trascendere essa che pur mi trascende,
mi slancia verso il Padre di ogni verità e di ogni mente, rende insonne la mia ricerca. Se è così, la filosofia come ricerca della
verità è scienza di me che cerco la
Verità o l’Essere assoluto; scienza dell’io
e di Dio, degli spiriti e dello Spirito. Pertanto essa s’identifica con
la ricerca sulla vita spirituale finita e creata che, scoprendo in sè la presenza mediata della
Verità assoluta creante, si volge alla
ricerca essenziale e totale dell’Essere
infinito. Una banalità dire che il concetto di metafisica è il più complesso dei concetti speculativi, se il
semplicismo di alcuni pensatori moderni
e contemporanei non avesse disinvoltamente concluso che la metafisica è una
pseudoscienza filosofica, ormai invincibilmente demolita dall’imponente escavazione
critica che il pensiero, implacabile, ha perseguito da Cartesio ai nostri giorni. Chi fa questo
discorso, definitivo nelle sue conclusioni negative, oltre alla pretesa di
aver concluso un discorso infinito si
crede in possesso di una semplificazione estrema del concetto di metafisica e
di un approfondimento così totale di esso da poter affermare che metafisica non è, che è sogno opprimente o generoso di un particolare filosofare ormai
irreparabilmente tramontato. Se davvero i negatori della metafisica fossero
riesciti a concludere definitivamente il
loro discorso, bisognerebbe considerarli
metafisici così consumati da consumare senza
residui la metafisica stessa, da ridurla ad un concetto (o pseudoconcetto) di sì diafana semplicità da
far trasparire il suo vuoto e il suo
nulla: conosciuta e sondata profondamente è risultata nient’altro che una
tenace illusione prodotta dal dommatismo razionale. Altri pensatori, meno imprudenti,
si sono astenuti o hanno creduto di astenersi
dalla metafisica: non posizione antimetafisica, ma ametafisica,
d’indifferenza o di agnosticismo. Ma gli uni e gli altri si sono addossati la responsabilità conseguenza invincibile della loro posizione di considerare il problema metafisico come non essenziale e necessario e perciò accidentale e contingente alla filosofia. Infatti, se è possibile filosofia senza metafisica, questa non
risulta essenziale alla prima: solo per
accidente, contingentemente e quasi per una
sua prolungata immaturità, la filosofia per millenni ha considerato
fondamentale e ad essa connaturato il problema
metafisico. Libera ormai di questa pesante ed inutile soprastruttura, ha
finalmente scoperto, nella sua piena maturità
critica e problematica che il suo fondamento essenziale è
altrove. Evidentemente per gli anti e
gli a-metafisici non si tratta di
affermare che alla filosofia non è essenziale questa o quella soluzione del problema della metafisica, ma
di concludere che non le è essenziale la
metafisica tour court. Alla filosofia è
essenziale, per esempio, il problema politico o quello dell’arte o
dell’economia, che l’umanità non potrà non porsi fino a quando penserà, ma non le è affatto
essenziale il problema metafisico. L'uomo può non pensarvi affatto; anzi, da quando gli si è dimostrato che la
metafisica non è, non è scienza e non è
vera filosofia, di diritto e di fatto non ci
dovrebbe pensare più nè ora nè mai. Se ciò non avviene è perchè egli, oltre che di ragione, è dotato
di immaginazione ; per maturo che sia,
conserva sempre un grado irriducibile d’infantilismo o primitivismo; o perchè
non riesce mai a guarire dalla sua
tendenza ad astrarre. Ma proprio ciò
prova come la metafisica sia il prodotto di attività inferiori e come la sua storia si possa identificare con
quella degli errori dell’immaginazione e
del dommatismo della ragione astratta,
ridurre magari ad un capitolo della psicopatologia. In breve, si afferma: a) si può (si deve) porre e
risolvere il problema dell’arte o quello
della economia o qualsiasi altro, senza
che sia affatto necessario preoccuparsi della soluzione del problema di
quel che è il reale in quanto reale; 2) l’uomo
ha più interesse a sapere quale sia la forma politica più giusta o meno ingiusta o se l’arte sia
un'attività alogica o logica, anzichè
conoscere che cosa egli sia, donde venga,
che ci stia a fare nel mondo, dove vada. Questi sono i problemi
inessenziali e non necessari, senza dei quali, e meglio, si fa sempre concretamente, seriamente e con
mente sana della vera filosofia, poniamo, intorno alla
repubblica o alla monarchia, all’utile o al piacere! Antimetafisici e a-metafisici hanno sempre lamentato le
aberrazioni della metafisica e si può
dar loro ragione quando si tratta, per
esempio, di certe metafisiche idealistiche o materialistiche, ma credo che non sia stato deplorato
abbastanza il dilettantismo vacuo dell’antimetafisica moderna e
contemporanea. Infatti, solo per
aberrazione o errore della mente (da alcuni amato e vagheggiato con lunghi
pensieri) si può negare che l’esigenza metafisica sia naturale, essenziale e
universale. Già Kant nella Prefazione alla prima edizione della Critica della ragion pura osserva che i
sedicenti indifferenti finiscono per
cadere sempre in affermazioni metafisiche ;
e il Gentile il solo dei
neohegeliani italiani contemporanei che
abbia avuto mente di filosofo rileva (La
riforma della dialettica hegeliana,
Messina, 1923, II edizione, 110) che c’è
un momento immancabile nello sviluppo ideale dello spirito umano, che potrebbe dirsi il
principio eterno della filosofia: quel
momento in cui il contrasto della morte con
la vita, la differenza tra il non essere e l’essere, spinge l’uomo a proporsi il problema: Che è
l’essere? . Questa domanda, che è la
posizione più efficace del problema
metafisico, suona nei secoli, e riassume tutta la storia del pensiero umano (ici, 114). Perciò Aristotele, che di essa ha dato la formulazione più profonda
e più semplice, pone a fondamento di tutte le scienze il problema che si aggira intorno all’ente in quanto ente (#e9ì 705 4 + ”
ovtos dv). Il problema metafisico si presenta così essenziale al pensiero
(e perciò alla filosofia) da fare osservare da qualche studioso che, in fondo, tutti ammettono un
concetto del reale, anche coloro che
negano la metafisica e si dichiarano
antimetafisici: tutti consideriamo realtà, ha scritto recentemente Mons.
Olgiati in un articolo chiarificatore (Il concetto di metafisica, in Riv. di filos. neosc. , fasc. IV, 1945, p226) quel che è in qualche modo, cioè che
non è il puro nulla; e perciò tutti
concordiamo che qualcosa di reale c’è
(ivi, 228). Dunque, persino i
negatori della razionalità del reale,
come altresì i negatori della metafisica, fondano le loro dottrine, e le vivificano in ogni
momento di esse, su un loro concetto di
realtà (01, 232). Se ogni sistema ha un suo concetto della realtà in quanto
realtà e non può non averlo, sotto pena di venire escluso dal
mondo filosofico e se tale concetto lo
hanno tutti (chi dice, per esempio, che
la realtà è storia, concepisce la realtà come storia; chi tutto riduce a problematicità, definisce la
realtà come problematicità), ne risulta
che ogni filosofo ha una sua metafisica, non essendo quest’ultima null’altro se
non la scienza che studia la realtà în
quanto realtà. Se fosse vero quello che
scrive Mons. Olgiati e vorremmo che lo
fosse non si dovrebbe parlare, ormai da
tempo non breve, di una crisi della
metafisica in generale, nè di posizioni negatrici di essa, ma soltanto della
crisi della classica metafisica
dell’essere e del conseguente succedersi di altre concezioni del reale in quanto reale, cioè di
metafisiche diverse da quella e tra
loro. A noi sembra invece che nel
pensiero moderno e contemporaneo vi sia un vero e proprio rifiuto e mépris della metafisica (non di
questa o di quella) e chi nega la metafisica sic et simpliciter e si
dichiara antimetafisico lo sia
effettivamente e non che voglia dire
soltanto: io nego la metafisica dell’essere o quella del pensiero o altra che sia, ma sono ugualmente
metafisico, in quanto concepisco la realtà in un certo modo. Chi, per esempio, dice che il reale è il divenire
storico o la pura problematicità, nega
che esiste un principio assoluto, che al
di là del mondo fisico nel senso di questo nostro mondo vi sia alcunchè, come pure nega che in questo mondo vi siano enti o sostanze che
soztostanno alla pura fenomenicità. Dal
punto di vista dell’Olgiati, invece, la
polemica antimetafisica, dal Kant e dallo Hegel in poi, sarebbe puramente apparente; in realtà si
tratterebbe di una serrata discussione
tra tante metafisiche, cioè tra tanti modi
diversi di concepire la realtà in quanto realtà. Al contrario, si tratta di posizioni (se siano da
considerare filosofiche o no è altro
discorso), le quali negano decisamente ogni principio assoluto, qualcosa al di
là del nostro mondo o al di qua o al di
sotto di quel che il divenire manifesta nel suo
divenire; ammesso pure che è, negano che sia conoscibile e dunque negano la possibilità di una
metafisica come scienza, cioè la validità di una risposta filosofica quale che
sia alla domanda di che cosa è il reale
in quanto reale. E questo è negare
senz'altro che vi è una metafisica e non un semplice contrasto su che cosa è
realtà per il fatto che si nega
l'oggetto del contrasto, cioè il reale quale che sia. Noi crediamo, dunque, che il problema vada
impostato in altro modo e precisamente:
4) la filosofia come pura problematicità o si risolve nella contraddizione in
termini di considerare il problema come soluzione la soluzione del problema è porre e chiarire il problema
stesso ; o, nel porre i problemi, porta
in sè invincibilmente l’esigenza e gli
elementi reali della soluzione, cioè delle risposte per cui i problemi han senso e trascendono lo stesso
problematizzare. D'altra parte, perchè risposta vi sia non illusoria, è necessario un principio assoluto, che la
ricerca può scoprire ma non creare; la
guida, trascendendola, anche come ricerca dello stesso principio assoluto. In
tal modo, la filosofia come problematicità rivela essa stessa, intrinsecamente,
l’esigenza metafisica (e non solo l’esigenza) del principio primo ed assoluto
del sapere. 5) Similmente la filosofia come
storicismo assoluto o divenire perenne, o si risolve nella contraddizione in termini di considerare
l’essere come divenire, oppure, nel momento stesso di porre il problema
del divenire, sporge all’essere che il
divenire fonda e trascende: fa scaturire
irresistibilmente l’esigenza di un principio (e
non solo l’esigenza perchè di esso ne rivela la presenza) del divenire stesso e della storia, che non è
storico nè diveniente. La filosofia del divenire, quale richiesta intrinseca
al suo stesso dinamismo, pone anch'essa
l’istanza metafisica. c) Da ultimo, le
filosofie immanentistiche in generale, pur
non potendosi dire tutte anti o ametafisiche, quando hanno perseguito e sviluppato fino in fondo il
principio o demone dell’immanenza, solo
arbitrariamente (e dunque non razionalmente) possono concludere per la sua
verità, in quanto qualunque sforzo, il
più impegnato e critico, di autosufficienza della natura e dell’uomo non è
sufficiente a vincere la consapevolezza
della nostra insufficienza e della contingenza
del nostro mondo. Solo un depauperamento dell’infinita ricchezza del
nostro spirito e una sua detonalizzazione solo una concezione non razionale e non
razionalmente giustificabile dell’uomo, non umana, unilaterale e dunque astratta ci possono convincere della nostra
autosufficienza ed adeguazione alla
natura, che, a questo prezzo, è la nostra degradazione al finito senza
aspirazione d’infinito, ad un destino
puramente terreno, cioè di nulla. È come se per
dimostrare che gli uccelli non son fatti per volare, tagliassimo loro le
ali; ma anche in questo caso, l’impedimento innaturale non spengerebbe in essi
il desiderio istintivo del volo.
L'esigenza della trascendenza, nell'uomo, è indomabile; in lui sono tutti i dati sufficienti e necessari
per dimostrarne l’esistenza. Non tener
conto di ciò è mettere al posto del.
l’uomo reale e concreto una sua figurazione immaginaria o un’astrazione;
infatti l’immanentismo assoluto è proprio esso
frutto della immaginazione e dell’astrazione. In questo senso,
conveniamo con mons. Olgiati che anche soprattutto
l’indagine intorno a che cos'è la
realtà in quanto realtà è concreta come ricerca del principio essenziale del
reale, che non può farsi con
procedimento astrattivo, nè per enumerazione (229). Da quanto abbiamo detto possiamo trarre una
prima conclusione: non ogni negazione della metafisica, anche la più decisa, è sempre un’affermazione metafisica,
secondo la tesi dell’Olgiati; ma
qualsiasi posizione anti o ametafisica porta
in sè immanente, intrinsecamente, l’esigenza indistruttibile ed ineliminabile della metafisica; e se non
vede gli elementi validi a soddisfarla,
ciò prova che è anti o ametafisica per
difetto di approfondimento critico della natura del pensiero e del reale. Così non poche posizioni
speculative ci si presentano, non come tante diverse antimetafisiche pur metafisiche,
bensì come tanti sforzi inani o inefficaci meglio
come un solo sforzo che muove da diversi punti di vista di abolire la metafisica, che rinasce,
invece, dalla sua stessa negazione,
invincibilmente. I tentativi antimetafisici ci risultano, dunque, essi stessi,
tante prove della ineliminabilità
dell'esigenza metafisica e del loro pieno fallimento. L’anti e l’ametafisica non possono e non potranno
mai escludere la possibilità della
metafisica, la quale è possibilità assoluta, il
risultato ultimo della filosofia la più rigorosamente critica. E ciò per il motivo a cui sopra abbiamo
accennato: quando dite all'uomo: tutto è
problema , risponde: sarà vero, ma io son fatto per la soluzione ; tutto è qui , confessa: ed in
me è reale e naturale l’ aspirazione all’al di là ; tutto l'universo è tuo , aggiunge: ed io sono
più dell’universo e vi è troppa dignità in me per potermene accontentare; anche
se tutto l’universo fosse mio non basterebbe perchè fossi me stesso e in me stesso capissi fino
in fondo ; tutto è relativo , obietta: ed io sento di esser fatto per
l’assoluto, % so di avere in me stesso
una presenza di assoluto ; tutto è divenire , protesta: la mia vocazione è
l’essere perchè l’essere è la mia
radice, il principio del mio pensare, il destino della mia esistenza . Il
discorso sul finito non si conchiude mai su se stesso, ma rompe e dilaga, come
la primavera matura, per mille porte e finestre, sull’infinito; persino il discorso sul Nulla sottintende sempre un
silenzioso e perciò interiore, appassionato e cocente discorso sull’Essere:
chi dice: nulla è di ciò che è , intende dire: solo l’eterno
è reale . L’assoluto nihilismo è una disperata ma potente apologia dell'Essere assoluto. Perciò noi,
piuttosto che considerare metafisiche anche le filosofie antimetafisiche, preferiamo
considerarle tali, negando, per ciò stesso, che siano nelle loro istanze antimetafisiche delle
filosofie, in quanto, dove manca
metafisica, manca filosofia, che è indagine sull’essenza della realtà in quanto
realtà, ricerca del principio assoluto,
risposta ai problemi che investono la nostra origine, il senso supremo e
autentico della nostra vita, il destino
della nostra esistenza. Questo discorso sottintende una equazione:
metafisica uguale trascendenza, perchè
tale è anche la filosofia. Se filosofare è cercare, l'oggetto della ricerca
trascende la ricerca stessa; se
filosofia è scoperta del principio assoluto, questo fonda e condiziona ogni filosofare e perciò
trascende il pensiero che indaga e desidera scoprire; se filosofare è inappagamento
del dato ed aspirazione a conoscere l’a/ di lè di esso, è già trascendenza implicita e aspirazione
esplicita ad una realtà da e per cui è
tutto ciò che è ('). Perciò alla meta L. Boctioro (Che cos'è metafisica, in Salesianum , genn.-marzo 1948) trova questa mia definizione della metafisica
inadeguata perchè si ferma soltanto sull’esigenza della trascendenza, la quale
costituisce certamente l'elemento risolutivo e il punto di arrivo di ogni
metafisica autentica, ma non è tutta la
metafisica . Esatto, purchè si tenga fermo che non vi è metafisica senza
tra fisica è intrinseca la distinzione fra la realtà assoluta-universale e una
relativa-particolare, di cui la prima è il fondamento. Di qui la distinzione
tra il sapere assoluto e un sapere
relativo, il primo condizionante ogni altro sapere, che da esso dipende. Parmenide per primo (
padre nostro lo chiama Platone), in
maniera chiara ed esplicita, distinse la
realtà assoluta dell’Essere uno da quella relativa degli enti molteplici, il mondo dell’Essere puro
dal nostro contaminato dal non-essere, questo condizionato dall’altro, inferiore.
La prima decisa affermazione del reale assoluto comporta, dunque, il ridimensionamento del reale relativo, cioè è nata dalla constatazione della contingenza
e perciò della insufficienza di questo mondo e dunque dalla necessità del pensiero di trascendersi in un principio
assoluto, fondamento di ogni reale e di
ogni sapere. Parmenide è la prima rivelazione, in sede filosofica, del pensiero
a se stesso, l'esplicita consapevolezza
che la filosofia o il pensiero ha come suo
oggetto di naturale aspirazione un oggetto assoluto. Platone raccolse l’eredità della netta distinzione
tra fisico e metafisico
, tra il sensibile e l’Idea o forma universale di ogni realtà particolare, tra le Idee che
essenzialmente sono ( 6vttws dvra )
sempre identiche a se stesse ( dei abtà x27
aòtà pévovta) e i sensibili che sempre divengono e mai non sono. Stabilì una gerarchia ancora più
decisa: il metafisico sovrasta il fisico , come ciò che è assolutamente ciò che è relativamente e condizionatamente, come
l’eterno il temporale; e sulla base di
questa gerarchia fissò il fine dell’anima umana nella aspirazione al reale in sè, nell’Eros per il suo destino ultraterreno, nella
contemplazione dell’eterno Essere. Aristotele si propose di stabilire una
relazione ontologica tra i due mondi, ma
co nservò il platonismo del principio
assoluto della scienza universale dell'ente in quan scendenza, se metafisica significa ricerca di
ciò che è al di là della fisica . In questo senso la trascendenza gon è solo punto di arrivo , ma è anche implicita inizialmente nel punto di partenza.
to ente, fondamento di ogni particolare sapere. Noi crediamo che questa distinzione tra il relativo e
l’assoluto trascendente sia essenziale ad ogni costruzione filosofica avente
un nucleo metafisico per cui, e solo per
esso, merita il nome di concezione
filosofica del reale. Ecco perchè, ad esempio,
quasi a giudizio unanime, le filosofie dette postaristoteliche segnano la decadenza del pensiero classico:
la dualità di fisico e metafisico vi diventa secondaria, la metafisica è fatta
rientrare nella fisica e il principio è identificato, in un monismo opaco, con la realtà naturale.
Le ali di Eros si chiudono sull’afflitta
anche se rassegnata saggezza di un mondo
finito, accettato con l’indifferenza che detta l’amor fati, ma senza la serenità del convincimento
persuaso. Per lo stesso motivo facciamo
cominciare col terminismo di Occam la decadenza della Scolastica. La
carenza metafisica, in qualunque epoca del pensiero, si presenta come il dissolvente della filosofia, quasi che il
sopravvalutare il sensibile e il
bloccarsi nell’esperienza siano i pesi mortificanti la potenza del pensiero, per sua natura
doviziosamente generoso di metafisici slanci. Al contrario consideriamo
Plotino come l’ultima grande
affermazione della Grecia immortale e i
grandi pensatori della Patristica e della Scolastica come i rappresentanti genuini della filosofia
cristiana. Le epoche veramente
filosofiche sono quelle dei grandi metafisici. Con ciò abbiamo segnato la condanna, sia pure
parziale, della speculazione del nostro
tempo. Noi dunque riteniamo che vi sia
un platonismo essenziale e perenne che è l’anima stessa di ogni vera
metafisica: l'aspirazione al di lè del
fisico (trans-physica), divino Eros, che
è sete d’immortalità dell'anima nella contemplazione beatificante dell’Essere assoluto eterno;
platonismo essenziale che importa distinzione e dualità di mondi: questo e l’altro
in un rapporto di relativo e assoluto, di contingente e necessario, di
temporale ed eterno. Platonismo, che è
nostro, se trasposto nei termini agostiniani di una metafisica dell'esperienza
interiore focalizzata nel dialogo perenne dell’anima con Dio, di tutto l’uomo
con la Verità che è; interiorità che non
abolisce il mondo, anzi, dal di dentro,
lo riconquista nella sua verità e realtà, che è l’atto creativo di Dio, di cui tutte le cose quae facta sunt
sono prova e testimonianza. Agostino, dunque, arricchito dalla tradizione del,
miglior francescanesimo, il cui genio filosofico resta S. Bonaventura. A noi sembra che l’istanza agostiniana, in
una discussione intorno al concetto di
metafisica coincidente con quello di
filosofia, specie nello stato attuale, sia particolarmente significativa.
La metafisica classica, platonica e aristotelica, è ancora cosmologia e con
l’idea cosmologica identifica, in fondo, l’idea teologica: il Demiurgo e il
Motore immobile sono i due principii del
cosmo fisico, il primo, Artefice divino,
mediatore tra le Idee e la materia, l’altro, Causa prima del movimento. È una metafisica al servizio della
natura fisica e dell’uomo solo in quanto
uno degli enti naturali; metafisica, dunque, come scienza della natura, con cui
Aristotele identifica la realtà in
quanto realtà: l’ al di là del mondo
è sempre un mondo e
non lo Spirito creante. In esso manca il
problema dell’uomo in quanto uomo, così come lo si concepisce e lo si pone dal
Cristianesimo in poi con quell’interesse
quasi totalitario e quella sensibilità acutissima con cui oggi è vissuto dal mondo moderno e contemporaneo,
al quale nessuno, credo, vorrà negare il
diritto di cominciare, come dice E. Le
Roy, il discorso dall’uomo, che è una delle realtà quae facta sunt. Dall’uomo appunto ha
cominciato Agostino il suo discorso
metafisico e si è accorto che, quale che sia il problema, la soluzione si trova
sempre nella Verità che è e nell’Essere che è la Verità. Questo senso
d’interiorità profondamente umana di ogni problema filosofico non va
perduto: in esso riponiamo
principalmente l’avvenire della metafisica.
Anche la storia della filosofia crediamo che su questo punto ci dia ragione. La metafisica, come
scienza prima della natura o ricerca dei principii primi del mondo fisico,
fino alla scoperta della scienza
moderna, non distingueva nettamente i due mondi; essa aveva ereditato il
carattere naturalistico della metafisica aristotelica, per la quale anche i problemi
di Dio (teologia razionale) e dell’immortalità dell’anima (psicologia
razionale) si pongono sul terreno della natura
fisica. Di qui gli inevitabili conflitti e i tentativi d’identificare la
visione scientifica con la visione metafisica della realtà. La critica kantiana della
metafisica è la critica della concezione
scientifico-metafisica del razionalismo da
Cartesio al Wolff e tende a distinguere la teoria della scienza (Critica della ragion pura) dalla teoria della morale (Critica della ragion pratica), dove è
legittimo porsi i problemi della metafisica. La reazione positivistica e neokantiana,
contro la metafisica dell’idealismo tedesco del primo Ottocento, è giustificata dagli arbitri di
quella filosofia della natura , cioè di una costruzione
aprioristica (e in questo senso metafisica) della scienza. La metafisica
dell’esperienza interiore, di tipo platonico-agostiniano, a noi sembra che non si presti a questi equivoci: per essa
il principio assoluto o verità assoluta è richiesto dal dinamismo stesso del pensiero; dall’escavazione dell’uomo
nell’uomo; dalla presenza implicita
della verità alla mente; dal conflitto della
vita morale che sta alla base di tutta la nostra vita spirituale e la cui soluzione rimanda razionalmente alla
trascendenza; dalla costituzione stessa
del pensiero che è capace di verità, in
quanto la verità, che lo fonda e trascende, è la sua vita interiore, senza di cui non sarebbe pensiero
e sarebbe morte. Contro queste istanze
metafisiche non c’è scienza o critica che valgano, in quanto e la scienza e la
critica, le più sviluppate e intransigenti, ne riconoscono la legittimità,
che può essere solo negata e perciò anche questa negazione è pur essa conferma da un atto non razionale e dunque non scientifico, non critico e, in definitiva,
non filosofico. Si consideri ancora
che, da quando scienza e filosofia, fisica e metafisica, pur non ignorandosi,
seguono metodi propri e si pongono problemi diversi o almeno da punti di vista
differenti, per cui l’oggetto proprio dell’una è diverso da quello dell’altra, l’attenzione della
filosofia si è concentrata sull’uomo e
su quelle che sono le forme della sua attività. La storia, l’estetica, la politica, l’economia;
le scienze morali in generale,
considerate speculativamente, sono oggi i problemi vivi della filosofia. È vero che essi,
proprio perchè posti come problemi
filosofici, importano sempre una visione totale della realtà, ma il reale fisico, in quanto tale,
interessa subordinatamente al reale umano e nei limiti in cui contribuisce
alla soluzione dei problemi dell’uomo.
Le costruzioni metafisiche, nel senso di filosofia della natura, si debbono più
agli RASTA che ai filosofi veri e
propri. Di questa esigenza, che possiamo chiamare umanistica , una costruzione metafisica, oggi,
non può non tener conto. Non che il
mondo così detto fisico non debba interessarla, quasi fosse apparenza illusoria ed opaca materia, sorda
alla luce del pensiero; tutt'altro: la
metafisica non può non essere che la
scienza di che cosa è la realtà in quanto realtà. Vogliamo dire che l’uomo interessa all'uomo più di
ogni altra cosa e una presa di contatto
della metafisica con il reale-uomo riporta i suoi problemi a quella
interiorità, che è sempre stata
l'ispirazione fondamentale della ricerca speculativa, e rende la metafisica stessa aderente al
problema-uomo ai problemi del donde
vengo, chi sono e dove vado la cui soluzione,
in definitiva, sta alla base di quella del significato e del valore del mondo in generale. Da questo
punto di vista possiamo dare in parte
ragione al Carlini, il quale tenendo
presente una determinata concezione della metafisica, considera tutta la
metafisica scienza naturalistica che indaga intorno al principio del mondo,
quasi una continuazione della fisica, scienza dell’ essere contrapposto allo spirito .
Ma questa è una particolare metafisica e non /a metafisica, come sembra pensare il Carlini, in quanto vi
può essere (e vi è nella storia della filosofia) una metafisica
dell’esperienza interiore, dove essere e spirito non si contrappongono, dove resta primo il
concetto del cos'è il reale in quanto
reale, ma dove il reale non è più naturalisticamente inteso. In questa metafisica, che è ancora scienza
che non sta contenta al come, il problema del propter quid importa l’impegno
totale dell’uomo e la partecipazione sua e delle cose ad un comune destino, per cui il problema
metafisico è innanzi tutto problema
dell’uomo in quanto uomo. L’intus legere (intelligere) che è la filosofia o la
metafisica non è solo un leggere
nell’inzus delle cose, ma è innanzi
tutto un leggere nel nostro intus, in
interiore homine; solo quando questa
pagina sarà decifrata e chiara, sarà possibile leggere, metafisicamente e non scientificamente , anche il libro della
natura, decifrarlo e chiarirlo.
Possiamo, dunque, convenire anche con lo Heidegger (senza accettare le
conseguenze che egli ne trae) che la
metafisica è sì questione sul senso dell’essere nel suo
insieme e in quanto tale , ma che l’ontologia è vincolata all’antropologia: l’uomo che indaga è egli
stesso oggetto primo della sua indagine,
il ricercatore è incluso nella sua
ricerca. Ogni domanda metafisica
racchiude la problematicità della metafisica nella sua totalità , ma nessuna domanda metafisica può porsi se non è
posto in questione come tale colui, che fa la domanda, se non diventa dunque
domanda egli stesso . (Was ist Metaphysik?, trad. it. Milano, Bocca, 1942, 55). Dunque, anche quei pensatori che, oggi, non
sono nè anti nè a-metafisici e ripongono
sul tappeto della più viva discussione
filosofica il problema della metafisica, pur accettando la posizione classica
del problema stesso, ne accentuano l’aspetto umano, spirituale, interioristico.
Non si tratta d’indulgere ad una moda,
come se quel che è stata verità una
volta non lo sia più, secondo la tesi di un relativismo storicistico negatore della verità e della
filosofia, ma di cogliere quelle esigenze profondamente spirituali, che
co-. stituiscono l’anima dell’indagine
metafisica e impediscono che essa si
presenti sotto l’aspetto (che è un aspetto) di scienza puramente naturalistica, anzichè sotto
l’altro, che le è più proprio ed
essenziale, di ricerca interiore dell’! di /à dello spirito umano, senza di cui non sarebbero nè
l’uomo nè le cose e lo spirito stesso
sarebbe materialità, passività e morte.
Perciò noi ci siamo principalmente preoccupati di cogliere la costante ed insopprimibile esigenza
metafisica, anche nei sistemi anti o
ametafisici, sia per provare la essenzialità ed
universalità del problema, costitutivo della stessa filosofia, sia per dimostrare, conseguentemente, come
nessuna negazione della metafisica possa negare se non altro la
possibilità della metafisica stessa,
essendo essa il primo iniziale che muove
ogni indagine speculativa e la sua realizzazione la speranza suprema e dunque il fine del
pensiero. Aderire alle istanze della
filosofia moderna e contemporanea ci sembra
una condizione indispensabile di ogni concreto filosofare; nel nostro caso, per porre concretamente e
criticamente il problema della
metafisica. Le critiche e le accuse, quando
non sono dettate da superficialità, incomprensione o sordità costituzionale per certi problemi, servono a
chiarire altri aspetti della questione e
consentono al metafisico di riporsi il
problema con maggiore consapevolezza, di vederlo in quella complessità di momenti, che impedisce una
visione parziale e non integrale di esso e perciò astratta o unilaterale. L’antimetafisica che quasi senza soste e a
volte con accanimento appassionato o passionale si è scatenata dal tempo dell’illuminismo
anglo-francese, risponde anch'essa ad un’esigenza del pensiero. Essa impone, da
un lato, la difesa ad oltranza della metafisica in nome del diritto alla vita
della filosofia e, dall’altro, il dovere, per il metafisico, di riporsi il problema in modo che l’istanza
metafisica esca vittoriosa dalle
apparenti sconfitte, scaturisca dalle
stesse negazioni, chiarita nei suoi molteplici aspetti, sic 104 Filosofia e Metafisica chè la sua risposta, più ricca e
complessa, comprenda in sè le esigenze
che sembrava escludere e che, solo apparentemente, per un errore di
prospettiva, si erano poste contro la
metafisica, mentre, in realtà, la loro era opposizione ad una determinata soluzione del problema
metafisico, la quale trova in quelle
critiche non la negazione della sua verità,
ma lo stimolo per arricchirla in una più comprensiva. Quel che è stato una volta verità, verità sarà
sempre, ma è dell'essenza della verità la vita e lo sviluppo fecondo, il crescere
continuamente di e su se stessa, in modo da conquistarsi sempre più come
verità. Perciò noi accettiamo l’istanza
critica del divenire e dello sviluppo dello spirito, proprio per dimostrare come non vi è verità che muoia e
verità che nasca per morire ancora,
problema che si ponga per restare sempre
problema, esasperatamente tale, ma che vi è verità perenne che perennemente è
vera, oggi più comprensiva di ieri, perchè più matura e sviluppata. Ora è evidente
che le istanze antimetafisiche dell’empirismo inglese, la critica kantiana della metafisica del
razionalismo moderno, la metafisica cosiddetta del pensiero o della mente dell’idealismo
tedesco e del neohegelismo italiano, le molte metafisiche contemporanee
dell’intuizione, dell’azione, della volontà, della vita ecc., come pure le
stesse negazioni radicali di ogni
metafisica non vanno considerate, tutte, nella loro sterile (agli effetti dell’avanzamento della
questione) polemica contro la classica metafisica dell’essere o della
verità trascendente o dell’oggettivismo
o dell’intellettualismo, ma in
quell’aspetto fecondo di positività che esse hanno e cioè: nell’avere rilevato esigenze nuove, nuove
prospettive, di cui la metafisica, come
la scienza del che cos'è la realtà in quanto
realtà, oggi, deve tener conto, affinchè la risposta sia davvero
comprensiva, direi, assorbente, di tutte le diverse istanze, in quel che hanno di vero, e di esse
l’inveramento concreto. Di qui la nostra concordia discors (che crediamo sia
una forma di colla borazione feconda
nella comune battaglia contro le negazioni della metafisica) con la Neoscolastica dell’Università
Cattolica di Milano e, in special modo, Al principio di questo capitolo abbiamo
rilevato la complessità di sensi e problemi del termine metafisica, difficilmente
includibili in una veduta comprensiva ed armonizzante di tutti: non di rado si
dà la preferenza ad un senso o ad un
altro, ad uno o ad un altro problema. La metafisica è conoscenza astratta, o la
più concreta? è opera esclusiva della ragione e perciò pura costruzione 4
priori? è scoperta delle regole fondamentali del pensiero e perciò valide per ogni scienza sia fisica che morale? E
potremmo ancora continuare. Ma ci sembra
che tutti, metafisici e non metafisici, siano d’accordo che essa, come la
definì Aristotele, è Za con Mons.
Olgiati. Nella sua prolusione al corso di metafisica dal titolo Come si pone oggi il problema della metafisica (in
Riv. di filos. neosc. , n. 1, 1922) l°
Olgiati, in fondo, riafferma che la sola vera è quelia dell'essere nella forma aristotelico-tomista, la quale, dunque
resta come l’unica, intatta ed intangibile. Il lungo discorso della filosofia
moderna non la interessa affatto, perchè
questa, fenomenistica, considera fenomeno il reale in quanto reale e non
colpisce, in fondo, la concezione del reale in quanto essere; dall’altro, la
metafisica del vero ontologico, di stampo platonico, è stata da essa superata.
A noi sembra che, anche ammesso e non
concesso che tutto il pensiero da Cartesio
in poi sia fenomenistico, resta sempre la questione, per il problema
della metafisica posto oggi , di vederc
quali istanze la metafisica fenomenistica ponga
contro (o a differenza di) quella dell'essere e se questa non sia
chiamata a tenerne conto se vuol parlare
un linguaggio significante per la filosofia moderna e contemporanea. Tenerne conto non significa affatto rinunzia a quel che
è la sua verità, ma dimostrazione della
sua fecondità e vita perenne nell’unico
modo in cui si può provare: che essa è capace di sviluppo, di
dispiegarsi come verità comprensiva di
esigenze diverse, di essere sufficiente a risolverle ed aperta a nuovi punti di vista che, arricchendola e
quasi rivclandola sempre meglio a se
stessa, la confermano come verità di ieri e di oggi e non soltanto di un ieri ,
che oggi può non interamente soddisfare. Per quanto qui è detto (e soprattutto per
quanto si legge in molti punti di questo
volume) mi sembra assolutamente infondata l’obiezione mossa a me e agli altri collaboratori del Giornale di Metafisica , che nessuno di
noi si preoccupa del problema critico, come se la
metafisica non fosse mai stata messa in
discussione ( Rivista di Filosofia ,
genn. 1948, p, 97). Precisamente il contrario: in tutti noi è vivissima tale
preoccupazione e il nostro è un dialogo
costante con il problema critico. Anzi, per quanto mi riguarda, debbo dire che, se un qualche interesse ha la mia
posizione speculativa, è precisamente
quello che cerca di dimostrare come, proprio dalla stessa istanza
critica, si arrivi ad una soluzione
positiva e razionale dei problemi della metafisica. quosopia 736, la scienza
dei principii primi. Così intesa ebbe
l’ultima grande sistemazione scolastica dal Wolff con la duplice divisione in metafisica generale
od ontologia (scienza dei principii
primi in generale e dell'essere in quanto
essere) e metafisica speciale o scienza degli esseri (scienza dell'anima psicologia razionale ; filosofia della natura cosmologia razionale ; esistenza di Dio e
suoi attributi teologia razionale e
teodicea). In verità il problema primo è
proprio l’ultimo in quanto la soluzione di esso, in un senso o nell’altro, condiziona quella degli
altri problemi, anche quando quello è
posto e risolto alla fine: la teoria
della conoscenza (problema del fondamento critico del sapere), la teoria
dell’essere, come pure il problema dell’immortalità dell'anima, rimandano al
problema dell’Assoluto, di Dio,
principio primo di ogni conoscenza e di ogni essere. Di fronte a questi problemi quali sono le
posizioni fondamentali della filosofia moderna e contemporanea? Cartesio, da cui si fa comunemente cominciare
il pensiero moderno, nella Prefazione ai Principes, la considera la racine dell’albero della scienza, avente però come oggetto
enti immateriali: la conoscenza di Dio e dell'anima per mezzo della ragione naturale (Méditazions, Epitre dédicatoire). La
metafisica si distingue così dalla fisica, dalla matematica ed anche dalla
morale e si presenta come teologia e
psicologia razionali. Cartesio, in fondo, rivendica, anche se ancora non in maniera netta e decisa,
l'autonomia delle scienze
fisico-matematiche e quella della morale. Immateriali gli oggetti della metafisica: dunque, non
spaziali e non sensibili come dirà
Malebranche (Enzréziens, I): c'è, in
fondo, in Cartesio e di più in alcuni
cartesiani un'istanza platonica.
D'altra parte, la certezza interiore del
Cogito è criterio assoluto di verità: realtà spirituale e realtà naturale restano nettamente distinte e con la
dualità sorge il problema del loro
rapporto. Dunque, ancora, platonismo.
Pure sulla linea platonico-agostiniana o neoplatonica è la soluzione del
problema testè indicato: la occasionalistica
e la spinoziana, l’una e l’altra però, a differenza di Cartesio, non
escludenti l’etica. Si consideri che il problema della relazione tra le due res è imposto
dall’ente-uomo dove si trova
concretamente realizzata. Ormai la metafisica non è più soltanto
ontologia e poco si preoccupa del reale fisico o naturale (il mondo, per
Malebranche, è quasi superfluo ed è
un’apparenza caduca per lo Spinoza), ma soprattutto conoscenza ed etica,
determinazione delle modalità del conoscere
e del volere. Il Leibniz sistemò diverse istanze del razionalismo
cartesiano e spinoziano e il Wolff fece di quella metafisica la nota divisione
scolastica. La crisi della metafisica
razionalistica comincia con la critica
della conoscenza con la gnoseologia nel
senso moderno del termine dell’empirismo inglese. Il bersaglio è preciso: il principio assoluto del sapere
così come il razionalismo lo andava sistemando. La risposta è radicale: ogni realtà oggettiva o assoluta, che la
metafisica presuppone, se non si risolve (dissolve) nell’esperienza sensibile,
è un inconoscibile o una credenza.
Leibniz cerca di correre ai ripari: alla
critica lockiana dell’innatismo contrappone il concetto di virtualità, al
nominalismo la distinzione tra verità di
ragione e verità di fatto; ma egli deve all’istanza critica dell’empirismo, se non altro, lo stimolo a
costruire una metafisica monadistica. Infatti, ogni forma di empirismo è sempre rivendicazione del concreto
individuale, degli enti particolari;
inoltre, come tale, implica sul terreno gnoseologico la risoluzione di ogni
realtà oggettiva nella percezione soggettiva. La realtà si pluralizza in
infinite sostanze, in points métaphysiques, in points de substance. Ciò accade
non solo per Leibniz, che al posto dell’unica sostanza dello Spinoza, mette un universo di monadi,
ma anche per Berkeley, per il quale
l’universo è costituito di sostanze percepienti. Si consideri che il Berkeley
assolve, dentro l’empirismo, la stessa posizione critica assolta dal Leibniz
contro di esso, in nome degli stessi interessi: la realtà degli spiriti e di Dio. Il sostanzialismo spiritualistico
del Berkeley s’intende meglio come critica dell’empirismo e in rapporto al monadismo spiritualistico del Leibniz. Contro
l’uno e l’altro, colpendo alla radice il principio del razionalismo (il cogito), Hume nega che vi sia una sostanza
pensante metafisicamente concepita come sostanza in sè sussistente. Così l’oggetto della metafisica, come mondo
naturale e spirituale, come essenza dell’essere e come principio assoluto
del conoscere, si dissolve, attraverso
un processo che va dal Cogito di
Cartesio alla percezione dello Hume: la realtà,
tutta la realtà, è soltanto l’attività presente e momentanea del percepire o dell’apparire. Quasi contemporaneamente gli ideologi francesi
del secolo XVIII ( l’àge barbare de la philosophie , come scrive il Lachelier) intendono il termine metafisica
nel suo signifi cato deteriore di
inutile logomachia, di vano ed oscuro filosofare ( le roman de la nature come la definisce Voltaire nell’articolo ironico Métaphysique che si legge nel suo Dictionnaire philosophique). Ignoranti
com’erano del Medioevo, coinvolgono nella stessa condanna la grande
metafisica della Scolastica e le
sottigliezze fatue della decadenza della
Scolastica stessa e del tardivo aristotelismo averroista, continuando la
polemica anti-aristotelica ed antiscolastica che è in special modo propria dei filosofi-scienziati
del secolo XVII e alla quale erano
rimasti tutt'altro che estranei sia il materialista Hobbes che Cartesio e
Spinoza. All’antica metafisica teologica
ed astratta contrappongono la loro,
intesa, in opposizione alla fisica (e
qui sono cartesiani) come scienza dello
spirito, delle idee e della loro origine. Così il Condillac considera (nell’Inzroduction dell’Essai sur
l'origine des connaissences humaines) bonne métaphysique la sua teoria
dell’origine delle idee e dei principi della conoscenza umana; e il Destutt de Tracy distingue l’ancienne
métaphysique théologique dalla moderne métaphysique philosophique ou
l’idéologie . Metafisica, in
breve, è conoscenza dei principii generali di un'arte (un poeta o un musico,
che vogliono rendersi conto dei
principii della loro arte, ne fanno la metafisica) e di una particolare scienza
o di quanto non è oggetto dei sensi
esterni come le operazioni e facoltà
dello spirito , quali le sensazioni, la memoria, la volontà, ecc. D’Alembert, nel celebre Discours
préliminaire de l’Encyclopedie, poteva scrivere che Locke créa la métaphysique .
Così la definizione cartesiana di metafisica (scienza degli oggetti immateriali) e l’opposizione di
essa alla fisica, la critica lockiana
del concetto di sostanza e la posizione
critica del problema della conoscenza, la negazione humiana della realtà della sostanza estesa e
pensante, l’identificazione del concetto di natura con quello di materia, il senso della concretezza del particolare e
della positività della ricerca
scientifica, confermano sempre più la netta distinzione della realtà in due
aspetti: quello naturale o fisico,
oggetto della scienza, sistemato nella concezione meccanicistica e
deterministica e l’altro umano o spirituale , 0ggetto della filosofia vera e
propria, intesa come analisi delle
facoltà e dei fenomeni psichici, teoria della conoscenza, morale,
psicologia. Con tale analisi viene identificata la metafisica, la quale non si distingue dalla gnoseologia o dall’ ideologia , intesa come ricerca sulle
facoltà della natura umana , limitata all’indagine dell’origine delle idee,
dell’oggetto e dei limiti del conoscere. È superfluo avvertire che la soluzione del problema gnoseologico
condiziona quella della possibilità
della scienza della natura o meglio della
scienza in generale; ma conta notare come l’oggetto della metafisica sia ormai esclusivamente l’uomo
nell’insieme delle sue facoltà (sensoriali,
intellettive e volitive) e come il problema metafisico si ponga non nei termini
di che cosa è il reale in quanto reale,
ma in quelli di che cosa è l’incondizionato che tutto condiziona. Kant, quando
la lettura dello Hume lo pose di fronte
a questo problema, sospese la metafisica razionalistica leibniziano-wolffiana e
si chiese: è possibile una metafisica come scienza? Non vi ha dubbio che Kant,
nel porsi questa domanda intorno al
problema che restò centrale in tutti i suoi interessi di pensatore, si
proponesse sinceramente di ricostruire
l’edificio della metafisica sulla base dell’esigenza critica , che gli aveva fatto sospendere la costruzione
dogmatica del razionalismo. Così il suo primo problema
no-n è quello di una teoria della conoscenza, ma della critica del
conoscere in generale per accertare i mezzi di cui la ragione dispone
per costruire la metafisica. L'indagine critica
lo porta a concludere, nella prima Critica, che vi sono due aspetti della questione da tener distinti: 4)
vi è un problema della metafisica come filosofia dei fondamenti primi della conoscenza che s’identifica con la stessa critica, cioè
con la fondazione assoluta dei mezzi del
conoscere e non con quello della
metafisica nel senso tradizionale, per la fondazione della quale quei fondamenti dovrebbero essere
strumenti; 5) vi è un altro problema
della metafisica come comprensiva di tutta la conoscenza, vera o apparente, che
appartiene alla Ragione pura e
costituisce, non una scienza nel senso
della prima, ma una scienza dei
limiti della ragione umana . Non tener distinti questi due aspetti del problema
ed applicare le forme del conoscere
valide per la conoscenza del sensibile
agli oggetti in sè, è mettersi sulla via dell’errore e dei paralogismi creando
un sapere illusorio che si avvolge nelle
insolubili antinomie della dialettica. A_ questo punto, alla domanda, che cosa è il reale in quanto reale , Kant dà una duplice risposta: 4) come reale
fenomenico è il contenuto della sintesi 4 priori, di cui le intuizioni
dello spazio e del tempo e le categorie
dell'intelletto sono le forme trascendentali, valide solo per quel contenuto
e come principii necessari universali e
assoluti per costruire la scienza
matematica e fisica. Con questa risposta Kant
vuole risolvere il problema della metafisica intesa come scienza dei
principi primi del sapere, dentro i limiti di un sapere come conoscenza del sensibile e del
fenomenico; e con ciò conclude il
problema del valore del pensiero e dell’analisi
della conoscenza umana posto da Cartesio e Locke e lasciato in eredità a tutto il razionalismo e a tutto
l’empirismo moderno. 3) Come reale
assoluto o cosa in sè è il contenuto di una forma che non può essere alcuna di
quelle dell’intuizione e
dell’intelletto, valide solo per il fenomenico (non ci sembra, dunque, che si
possa sostenere che, per Kant, la realtà
sia soltanto fenomeno), ma di un’altra forma valida per un sapere o per una
scienza che non è la matematica e la
fisica. Tale scienza è appunto la
morale, di cui i problemi della wolffiana metafisica speciale o degli esseri sono i postulati
indispensabili. Kant, dunque, non dice
che non è possibile una metafisica come scienza in generale, ma solo come
scienza nel senso di quella della natura
fisico-fenomenica e ciò vale come Prolegomeni necessari di ogni futura
metafisica che si presenti come scienza senza escludere, anzi includendo, che è possibile
una metafisica sul terreno della morale. Ma egli, legato al concetto di
trascendentalità delle forme a priori come
pure funzioni o condizioni del conoscere e preoccupato di fondare una morale autonoma, non potè dare
tale metafisica, ma solo indicare gli oggetti di essa come pure esigenze e
postulati. Tuttavia, crediamo non vi sia dubbio che sia questa l’istanza del Kant, il quale,
infatti, non potè mai scrivere
nonostante vi si sia provato esistono
frammenti di questi tentativi una metafisica della natura, per il
motivo che questa era già stata risolta
nella stessa critica, mentre potè
scrivere la Fondazione della metafisica dei costumi e la Metafisica dei costumi. Di lui resta
l'insegnamento, da mettere a profitto sulla linea della metafisica classica
(non intendiamo con questo termine solo le metafisiche di tipo aristotelico),
che la metafisica è una scienza indipendente dalle altre, le cui Idee rivelano la loro efficacia, ineliminabile ed
insostituibile, n ella costituzione del mondo morale o, come noi diciamo più comprensivamente ed
esattamente, della vita spirituale ; Idee che la ragione pura , nel senso kantiano, pensa
(noumeniche), stabilendo con ciò stesso una distinzione tra il regno dello
spirito e quello della natura, alla cui
conoscenza l'intelletto è legato. Kant in questo senso ha riportato la metafisica al suo oggetto
proprio e ha fatto dei suoi problemi le
questioni essenziali e fondamentali dell’uomo. Egli approfondisce (critica ) il
senso cartesiano della metafisica
considerandola un modo speciale di pensare: i suoi oggetti sono immateriali e perciò le eventuali conoscenze, che di essi la ragione può avere,
devono essere assolutamente 4 priori
senza ricorso ai dati della esperienza
nè alle intuizioni spazio-temporali. Tali oggetti così intesi sono pensati , ma non conosciuti secondo le
categorie della scienza che è solo
scienza (critica della metafisica razionalistica), ma ciò non impedisce che
possano, debbano essere pensati e
conosciuti come condizioni indispensabili ed assolute della scienza dei costumi (f). L’idealismo trascendentale post-kantiano
accolse l’istanza critica quasi
esclusivamente nel senso della metafisica come
scienza dei fondamenti primi della conoscenza e considerò
principio assoluto il concetto dell’attività creatrice dello spirito. Di
qui una duplice interpretazione di Kant
e un duplice sviluppo: @) la metafisica
s’identifica senz'altro con la dottrina
della scienza; 5) le forme 4 priori non sono soltanto funzioni con cui il soggetto costruisce l’esperienza: il soggetto crea, con la sua attività, forme e
contenuto. Così la metafisica
s’identifica con il sapere e il soggetto
funzionale di Kant si trasforma nel Soggetto come entità
metafisica e teologica: l’Ich denke diventa Ichheit. Duplice arbitrio, anche
dal punto di vista kantiano. E’ qui e non nei pensatori anteriori, soprattutto in
alcuni razio (3) Altre considerazioni
critiche sul problema della metafisica in Kant si trovano soprattutto nella Parte III di
quest'opera. nalisti un senso della
metafisica opposto a quello di Aristotele: non la scienza dell’ente in quanto
ente, ma la scienza della scienza in
quanto scienza. Questo non è più Kant, ma
una forma di kantismo che riporta
il problema della metafisica alla
posizione prekantiana, quale si riscontra nell’empirismo inglese e in alcuni
ideologi francesi del secolo XVIII. A
noi sembra che l’idealismo empirico sia il padre dell’idealismo trascendentale tramite un’interpretazione non-kantiana di Kant: l’esse est percipi è trasformato nell’esse est percipere, dove il percipere è
l’assoluto spirito che pone se stesso e
il non-io. La posizione kantiana di uno
spostamento della metafisica dalla fisica al mondo morale è di nuovo perduta e la metafisica ritorna ad
essere filosofia della natura ,
cosmologia, di cui il principio creatore
è l’Io, un Io perduto nel mondo, che si fa natura senza mai più potersi riconquistare nella sua
interiorità spirituale. Il naturalismo neoplatonico (Hegel) e il riscoperto Spinoza
ritornano nella formula del Deus sive natura, dove Dio è il trascendentale e la natura la sua posizione,
con la quale l’Io creante s’identifica
(immanentismo). Così l’idealismo riporta
lametafisica sul terreno della scienza della natura e costruisce una nuova metafisica dogmatica nel senso kantiano come quella del razionalismo, con la differenza
che in esso l’essere è risolto completamente nel pensiero creatore. Di qui l'opposizione della metafisica del pensiero
alla metafisica dell’essere , di una filosofia della verità
che è tutta nel suo processo storico o
filosofia dello spirito dove però lo
spirito non si coglie mai come tale, ma
sempre nella sua mediazione con il non-io, cioè nel suo farsi natura,
esteriorizzarsi, non essere se stesso alla dogmatica filosofia della verità immobile. Il soggetto non è più problema, ma
principio assoluto che tutto spiega: resta estraneo alla ricerca
metafisica, che così gli si fa
estrinseca, materiale . La realtà
prima e ultima è il pensiero, che si fa
tutto senza essere mai propriamente se stesso, che nega ogni antecedente
ontologico senza riescire a conquistare
la sua autentica soggettività. Compiuto
con il Fichte il salto dall’Io funzionale all’Io entità metafisica,
l’idealismo trascendentale elimina la
distinzione kantiana di fenomeno e cosa in sè, di mondo della natura e di mondo morale, annullando
con ciò stesso i termini in cui Kant
aveva posto il problema della metafisica: cade la distinzione tra scienza
dell’assoluto e conoscenza del fenomenico e la metafisica viene
identificata con la stessa teoria
critica del conoscere. Razionale e reale
si adeguano: la Ragione ha la capacità di penetrare tutto il reale, in quanto il reale è lo stesso
dispiegarsi della Ragione. La metafisica
della natura s’identifica con quella del pensiero, dato che il principio del
dialettismo antinomico è il fondamento
assoluto dell’una e dell’altro. Ogni aspetto del reale non è che un momento del processo
dialettico: i dati dell’esperienza sono
risolti nel divenire dello spirito e questo
è nella concretezza delle sue determinazioni. Costruzione aprioristica e fantastica della
natura, dissoluzione della realtà e degli enti nel processo dialettico della Ragione e di questa nelle sue
transeunti determinazioni, dommatismo e teologismo deteriori determinarono la decadenza della metafisica del pensiero e provocarono
una compatta reazione ad essa. Lo Schopenhauer fa sua la distinzione kantiana di fisica e
metafisica, di fenomeno e cosa in sè;
Kierkegaard, in nome dei diritti della fede e
della religione, rivendica il concetto di esistenza o di singolarità e alla dialettica del passaggio
contrappone quella del salto , alla ragione l° assurdo della fede;
Feuerbach e Marx rivalutano il concreto, il particolare o finito e fanno scendere l’idea hegeliana nel
mondo dei fatti; il Neokantismo lancia
il grido di Keine Metaphystk mehr contro
la metafisica intesa nel suo senso deteriore e affianca la posizione positivistica, imbaldanzita dai
successi delle scienze sperimentali. Comte considera abstrait l’ état métaphysique , ormai definitivamente
superato al pari di quello teologico
(naturalmente poi egli fa, per suo conto, della metafisica concependo la
filosofia come sistema delle scienze e
della pseudo-teologia), mentre Sully Prudhomme (Que sais-je?, 51) scrive: Il n'y a de
métaphysique dans l’ètre que
l’inconcevable. La métaphysique commence où la
clarté finit . Quando l’idealismo hegeliano ai principi del secolo rinasce in Italia, la metafisica del
pensiero viene rigettata da un epigono
formatosi nell’ambiente positivistico e
negli studi marxisti e accettata dal Gentile, attraverso una riforma della dialettica dello Hegel (mediatore lo Spaventa),
come metafisica dell’atto del pensiero pensante, antitetica a quella
oggettivistica dell’essere. In tutta
questa reazione violenta contro la metafisica,
escluso il Gentile, è necessario notare che: 1) si reagisce contro la
metafisica di tipo hegeliano, identificata con la metafisica senz'altro solo arbitrariamente la condanna è stata estesa alla metafisica come tale; 2) si
rivendica, da un lato, la realtà, il
senso e il valore dell’esistente o singolo contro la ragione speculativa e di fronte all’assurdo e allo scandalo della fede religiosa (esistenzialismo
teologico e trascendente) o come valore in se stesso, il cui avvenire è nell'umanità
(esistenzialismo laico o immanente); 3) e, dall’altro, il concetto di scienza
nel senso moderno, costruita con metodo
sperimentale e non aprioristicamente. Purtroppo
l’identificazione della metafisica con quella di tipo idealistico; il
prevalere degli interessi pratico-scientifici; l’estensione arbitraria di metodi e leggi valevoli per il
mondo fisico anche alla spiegazione del mondo dello spirito; il convincimento
derivante da un’interpretazione unilaterale della Critica che, dopo Kant, non
era più possibile e nemmeno serio! tentare di ricostruire una metafisica; il
perdurare del senso dispregiativo ormai
tradizionale dato a questa parola nel secolo XVII e più ancora nel XVIII
contribuirono a far decretare una
condanna della metafisica, che apparentemente quanta superficialità anche in pensatori di
non mediocre levatura! è potuta sembrare
definitiva. Quasi inesistente, d’altra parte, l’influenza della filosofia
rosminiana fuori d’Italia e pure da noi
limitata, scarsa di sviluppi speculativi, prima ostacolata per motivi
politico-teologici e poi arrestata dal prevalere del positivismo o interpretata
kantianamente, idealisticamente e immanentisticamente sia dal primo (Spaventa)
che dal secondo (Gentile) hegelismo. Eppure
il Rosmini, antikantiano nel giro dei problemi di Kant, rappresenta
ancor oggi e non solo in Italia la più vigorosa riscossa della metafisica
tradizionale, non ripetuta, ma ripensata
a contatto del pensiero moderno. La sua filosofia aspetta ancora di entrare nel vivo del
pensiero mondiale. Com'è noto la
reazione idealistica contro il positivismo,
altra età barbara della filosofia, fu suscitata dal bisogno di rivendicare i valori spirituali e di
restituire la filosofia ai suoi problemi
e alla sua autonomia. La metafisica si giovò di
questa riscossa, ma non si ebbe un ripensamento sistematico di quella classica, sia di tipo platonico che
aristotelico. Per il Bergson metafisica è un modo
speciale di conoscere e cioè il mezzo de posséder une réalité absolument au lieu de
la connaître relativement, de se placer
en elle au lieu d’adopter des points de vue sur elle, d’en avoir l’intuition au
lieu d’en faire l’analyse, enfin de la
saisir en dehors de toute expression, traduction ou représentation symbolique (Introduction è la métaphysique, in Revue de métaph. et de mor. , I, 1903). In breve, per il Bergson a parte che egli attribuisce questa capacità all’intuizione
che contrappone al pensiero discorsivo la metafisica è conoscenza assoluta, ultima. Egli riconosce che il suo oggetto è
l’essenza interna degli esseri e non le loro manifestazioni sensibili; che è penetrazione 4/ di là della fisica (per lui
delle immobili leggi delle scienze) nell’intimo della creatività individuale degli esseri, non dell’essere. Da parte sua il La-. chelier (Vocabulaire technique et critique de
la philos., IV ediz., vol. I, 456)
si augura che la metafisica possa ridiventare la science de l’étre, dans le
double sens d’existence en général et de
totalité des existences , ma alla nouvelle
condition che la chiave di questa
scienza sia cercata dans la logique interne de la pensée precisando
che Dio e il nostro possibile destino
fuori di questo mondo non sono oggetti di scienza, ma di fede. Il Gentile (ocit.,
p123), nei primi anni del nostro secolo,
può scrivere 2a oggi i vecchi nemici di
essa [ della metafisica ] cercano di scusare
e di attenuare le loro critiche di una volta... Oggi lo storico della filosofia può parlare della metafisica
classica, ossia della filosofia vera e
propria di tutti i tempi, con la certezza di
toccare una corda che risuoni nell’animo dei suoi ascoltatori . E anche
per lui metafisica è spingersi al di là
del fenomeno e fissare l’occhio nel
reale. Vi è in questi ed in altri pensatori un’istanza comune: la metafisica si giustifica come
rivendicazione di quei valori spirituali
(conoscitivi, morali ed anche religiosi) che nessuna scienza sperimentale può mai cogliere. Si
tratta di una rivalutazione dei valori umani (tipica della Wertmetaphysik del Windelband e del Rickert) sul terreno
stesso dell’umanità e della storia, @/
di Îè delle schematizzazioni della scienza
naturalistica. Di qui la netta distinzione tra scienza e metafisica: la
prima non può condurre alla seconda e questa,
come scrive il Liard (La science positive et la métaphysique, III, c. VII), ne peut fournir à la science un point de départ et des principes régulateurs . Après les phénomènes, nous voulons connaître l’absolu;
après les conditions nous demandons la
raison de l’existence. La métaphysique
serait la détermination de cet absolu, la découverte de cette raison (ivi, Avant propos). Dunque volontà e perciò
esigenza di conoscere l’assoluto; domanda, e perciò ancora esigenza, della ragione dell’esistenza.
L’idealismo aveva risposto dopo Kant, ma interpretandolo , a queste esigenze con la nuova metafisica del pensiero, sul
terreno dell’immanenza assoluta, ma senza appagare quella volontà di assoluto nè soddisfare quella domanda di ragione dell’esistenza. Siamo arrivati, ci sembra, al punto
cruciale, in seno al siero moderno e
contemporaneo del problema della metafisica. Si riconosce l’insopprimibilità
per l’uomo e dunque per il pensiero dei
suoi problemi; per conseguenza che bisogna
rispondere, che non si può non rispondere: rispondere è una necessità interna del pensiero, direbbe
Lachelier. Ora l’immanentismo, sotto
qualunque forma si presenti, è davvero una (/a) risposta a queste esigenze di assoluto e di ragione
dell’esistenza, o non piuttosto
l’assolutizzazione della ragione o del
pensiero e la negazione di ogni ragione
dell’esistenza? Nell’ assoluto pensiero immanente e
perciò circoscritto alla natura c'è una contraddizione nei termini: il
pensiero pone, intrinsecamente, l'esigenza dell’assoluto e esso stesso si pone
assoluto. O l’esigenza non c’è e il
pensiero è l’assoluto; o l’esigenza c’è, interna al pensiero e pungolo che lo spinge ad oltrepassarsi, e
il pensiero non è l’assoluto, ma
fondamentale, invincibile, universale esigenza dell’assoluto; ed è qui, e non
nel pensiero, la ragione dell’esistenza. Questo ci sembra il primo
risultato positivo del travaglio della
speculazione da Cartesio ai nosti giorni: il riconoscimento razionale e dunque critico della critica più rigorosa ed
intransigente che l'assoluto oltrepassa
il pensiero di cui è pure il fondamento e il fine, la sua ragione prima ed ultima, la ragione
dell’esistenza come tale. L’immanentismo
non è una risposta alla metafisica, ma l’assunzione a principio assoluto di un
elemento (il pensiero umano) che è invece richiesta di assoluto e che, solo in
quanto tale, pone il problema di una
metafisica come sforzo, dice James, unusually obstinate di pensare chiaro e conseguentemente ,
soprattutto consistently , come bisogno
di una Durchbildung energica del nostro
Lebdenskreis (Eucken). Dunque, il
travaglio del pensiero moderno c’insegna, contro le sue premesse ma in armonia
con le sue ultime conclusioni, che non
vi è metafisica autentica dove non vi è trascendenza (l’al di lè). Per conseguenza: 4) tutti i
tentativi odierni di immanenza e
super-immanenza contrastano con le conclusioni stesse di quel pensiero moderno
o critico a cui si richiamano e perciò
sono essi delle sopravvivenze; 5) il problema dell’assoluto come fondamento del
sapere e del volere si pone innanzi tutto, anche se non esclusivamente, come problema della ragione dell’esistenza
umana, valida non per l’umanità in
generale, bensì per ogni singolo uomo,
cioè come problema dell’altro, ma dell’aliro dell’uomo e non dell’ altro mondo, come problema dell’a/ di
lè dell’uomo (e perciò anche come suo
destino) e non in un senso soltanto
naturalistico dell’al di lì del mondo fisico. Se non vi è una metafisica cristiana, vi è un modo cristiano
d’intendere la metafisica; il
Cristianesimo non è una cosmologia, ma innanzi tutto, civitas hominis, qui,
Civitas Dei, al di là .. Questo modo d’intendere la metafisica non è
soltanto nostro ma predominante da quando la più recente filosofia contemporanea
si è posto il problema con insistenza e in termini espliciti; da quando metafisica ed ontologia
non sono più solo ricordate come mere parole cadute in disuso ed archiviate.
Un ritorno della metafisica non solo come esigenza ma come dimostrazione della trascendenza,
ricerca di un assoluto come principio dell’esistenza è la posizione più
vitale di una parte del pensiero
odierno, che non segna un salto indietro nel processo della filosofia, ma è la
continuazione del pensiero moderno, le
cui conclusioni autorizzano la più profonda revisione delle sue premesse. Noi
diciamo dunque che la vera conquista del
pensiero moderno, non è il principio
della creatività dello spirito e conseguentemente dell’immanenza,
ma la riconquista, attraverso il processo critico, della sua creaturalità e perciò della trascendenza, riscoperta nel
suo autentico significato spirituale datole dal pensiero cristiano, che venne
ad arricchire ed anche a trasformare quello cosmologico e naturalistico,
proprio della metafisica greca. 4. Gli esseri e l’Essere. L’ Atto creatore. La creaturalità il sentirsi creature è l’atto primordiale della coscienza: nel
momento stesso che avverto anche confusamente di essere, avverto che non sono
da me, che sono esistente , cioè da
altri; avverto, dunque, attraverso i limiti del mio essere, che un (/") essere non limitato, mi ha fatto esistere . La
presenza di me a me stesso importa la presenza mediata analogica in me dell’Essere, senza
della quale non avvertirei il mio limite (e dunque l’Essere da cui sono) e
nemmeno saprei di essere. Io-sodi-essere (cogito ergo sum) in quanto la
presenza dell’essere in me, l’idea
dell’essere, rende possibile che lo sappia; cioè fa che io sia un essere pensante. Penso
perchè mi è data l’idea dell’essere (non
che il pensiero la ricavi per astrazione o per
altro, o la crei), per la quale esso è conoscenza e innanzi tutto coscienza di sè: non il pensiero fonda
l’essere, ma l’essere fonda me pensante, donandosi come idea o oggetto. Io sono innato a me stesso nel senso che
l’idea dell’essere per cui il pensiero
pensa e ad esso è data è quella per cui
acquisto coscienza del mio essere che è dall’Essere: penso perchè sono stato pensato ; e siccome non mi è
dato l’essere assoluto se così fosse, me lo sarei dato io stesso in quanto è dell’assoluto essere principio di
se stesso con quella del mio essere, ho coscienza del
limite e perciò dell’Essere da cui sono io, essenza spirituale incarnata in un
corpo, esistente concretamente, questa essenza qui. Il pensiero che è
tale per la presenza della verità avverte una duplice presenza di essere:
dell’essere (il mio) contingente, che, come tale, è dall’Essere necessario che trascende il mio
essere come l’assoluto il relativo, e il pensiero come il reale il possibile.
L'atto del pensare importa una duplice
ontologia: realtà degli esseri e realtà dell'Essere, come importa l’intuito
fondamentale della verità, fondante il pensare. Vi è dunque l’essere come idea, gli esseri come esistenti, finiti
e relativi, l’Essere come esistente
infinito e assoluto: il principio primo del
sapere; gli oggetti reali conoscibili tramite l’esperienza sensibile, il Soggetto realissimo, fine di
ogni conoscenza, ma, come tale,
aspirazione infinita mai appagata nell’ordine
umano e naturale. Ma aspirazione ben fondata, in quanto l’Essere realissimo non è una possibilità,
una pura Idea della ragione o un dover essere,
ma è, esiste, come attestano il mio
esistere e il mio pensare. Infatti, il mio esistere da la mia creaturalità importa l’esistenza del 44 cui io sono, cioè dell'Essere realissimo assoluto; come il
mio pensare, che è tale per la presenza
della verità che non è la Verità in sè,
importa l’esistenza dell’Essere-Verità, che la mia mente 207 costruisce; da Lui anzi è stata fatta lume di
intelligenza per mezzo dell’ astrazione
originaria coincidente con l’atto creativo. D'altra parte, l’essere io come gli
altri esseri, una essenza esistenziata questa qui importa che sono un essere singolo, persona; dunque l’Essere che
mi ha creato mi ha fatto e mi fa
esistere non può essere un gd, un essere impersonale, ma è anch’Egli Ego,
Persona, l’Altro assoluto, la Persona
assoluta da cui sono. Nel momento stesso
che mi so come singolarità, avverto in me la presenza della Singolarità assoluta da cui sono: sapermi è
riconoscere che Dio è; sapermi è,
dunque, cogliere la mia realtà ontologica e con essa la sua radice; è ancora,
come atto di riconoscimento , un sapere
che è supremo atto morale. Sapermi da è
volermi per: conosco che esisto da Dio e voglio esistere per Lui: essere da e
per l’Essere. Perciò l'oggetto del mio
pensare è infinito come infinita è la presenza della verità in me, che nessun
essere creato adegua; del pari infinito
è l’oggetto del mio volere (amare) come infinita è la sua forma, che nessun essere voluto compie e
appaga. Se in ogni mio atto di pensiero
e in ogni volizione io non so che Dio
122 Filosofia e Metafisica
esiste come Esistente supremo e assoluto, creatore di ogni esistenza, e non lo riconosco o lo amo nè
desidero conoscerlo anche quando conosco e desidero altro, non so, disconosco e dunque igroro. Perduto il senso
creaturale, ho perduto il senso di me
stesso e di ogni realtà: è la caduta del
mio essere nel nulla; è l’essermi fatto estrinseco a me stesso e perciò al mio
pensiero, per cui la presenza di Dio resta
muta nell’assenza di me a me stesso.
In questa metafisica di necessità
appena accennata il concetto
fondamentale è quello di creazione, non presupposto ma razionalmente
dimostrato: ogni cosa che esiste e non
ha in se stessa il principio del suo esistere, rimanda al principio che l’ha prodotta; siccome le
cose create sono esseri viventi e
pensanti secondo un ordine loro intrinseco,
il Principio primo non può che essere l’Intelligenza suprema, la quale siccome ha voluto creare è anche
suprema Volontà; dunque, Intelligenza che è Persona. Il concetto di Ens realissimum non basta per una
metafisica che vuol tener conto della
teologia cristiana. La creazione è
dunque l’atto primo assoluto fondante la esistenza degli esseri, l’atto supremo dell’esistere degli
esistenti. Aristotele ha definito la
metafisica ocopia zowtn, la scienza
dell’év n 6v, dell’ente in quanto ente, cioè la scienza degli elementi e delle condizioni
dell’esistenza in generale (ogni essere
è potenza ed atto; è determinato ad esistere dalla causa efficiente e dalla causa finale), ma
l’Essere o Dio è la condizione suprema
dell’esistenza di tutti gli altri (*). Per
Aristotele ancora reali sono gli individui, cioè le essenze Anzi, per
Aristotele, l'oggetto della metafisica è soltanto l’ente divino e perciò la praocopia rpéòrn s’identifica con
la puiocopla deodoyix. Ma si tratta come ha dimostrato lo Jaeger di due fasi del suo pensiero. S. Tommaso
intende la metafisica (transpàysica) in senso cristiano (Dio primo motore, fine ultimo, principio e giudice della
morale; immortalità dell’anima individuale, ecc.) per cui l'oggetto di essa è
identico a quello della teologia (differiscono nel modo di conoscere). Di qui
la definizione di S. Tommaso: aliqua
scientia adquisita est circa res divinas scilicet scientia metaphysica
(S. T., II, 2, IX, 2 ob. 2). concretamente
esistenzi: una data cosa è ( 7: È) ed è
questo ( Tè dì ), quale, quanto ecc. L'essere è ogni cosa, ma appunto è qualche cosa avente una certa
natura, qualità, quantità, ecc. Accettiamo la definizione che il reale individuo
è una essenza esistente, cioè avente certi caratteri; ma, come sappiamo, per
Aristotele, non vi è scienza del reale
individuale, in quanto la scienza è dell’universale. La razionalità è dell’essenza
desistenzializzata e non dell'essenza esistenziata, per cui alla scienza o
conoscenza di tipo aristotelico
l’esistente è indifferente: suo oggetto sono
le pure forme intelligibili. La scienza non può dirmi chi sono; mi dice qual’è la mia essenza, che è
mia e di altri, ma io non sono pura
essenza, bensì essenza mia, singola,
concretamente esistente. La scienza aristotelica trova nel singolo il suo limite esistenziale,
lascia aperto il problema dell’intelligibilità del reale individuale. In fondo,
la metafisica di Aristotele, dei due
principi del reale forma e materia guarda più alla prima che alla seconda, all’essenza
pura anzichè all’essenza che esiste, meglio, alle singole essenze che esistono;
ma a me, essere esistente, importa la mia essenza esistente. Pertanto, il
problema della metafisica come scienza
degli esseri, cioè di chi e che cosa è
l’esistente in quanto tale, ci sembra quello del supremo atto di esistere, del principio primo dell’esistenza
individuale, cioè l’atto di
creazione. Io sono
un’essenza-esistente: lio sozo il fatto
che esisto pone il problema del mio
esistere, pone me stesso come problema.
Se sono da Qualcuno, Egli mi 44 pensato;
se mi ha pensato, sono da una sua idea; dunque il Qualcuno è Intelligenza; se mi ha fatto esistere, mi
ha voluto, dunque è Volontà che ha voluto che io esistessi e mi vuole e mi ama ancora per il fatto che continuo ad
esistere. Jo sono un'idea di Dio, voluta
da Dio; tutti gli esseri sono idee di
Dio, volute da Dio: pensate e volute una per
una, singolarmente. Il mondo è un’Idea pensata e voluta da Dio. Il reale
in quanto reale è verità (ens e: verum
convertuntur, in un senso qui differentissimo da quello dello Hegel), secondo l’immortale scoperta di
Platone, che abbiamo fatto nostra attraverso la trasposizione di Agostino e il ripensamento del Rosmini. Idea (verità)
qui significa singolarità: Dio crea i
singoli come singoli e ciascuno di essi
conosce e vuole come singolo. Le idee divine non sono i nostri concetti
astratti, ma atti creatori, viventi; feconde, factivae rerum. La conoscenza
discorsiva 0 per concetti non esprime
questa singolarità, ma solo un elemento dell’esistenza concreta, la quale è espressa da quelle forme
superiori di conoscenza, che pur la
includono, come per esempio l’atto morale, in cui la relazione è da persona a
persona, da esistente ad esistente; che
è tale solo per la presenza del supremo
atto di esistere, per cui il singolo è singolo e riconosce l’altro come
altro. Questa consapevolezza non dà
però il possesso dell’atto supremo
dell’esistente, trascendente ogni esistere; ne attesta solo l’esistenza e accende nella creatura il
desiderio del possesso: la conoscenza dell’atto supremo di ogni esistente è
il limite assoluto della metafisica. Qui
la filosofia si ferma e si apre alla
religione, come quella che ha scoperto l’uomo
all'uomo, gli ha rivelato la radice del suo essere, il significato del suo vivere, la finalità del
suo pensare e del suo volere. Questa
filosofia è metafisica sic et simpliciter, che non contrasta, come crede lo
Scheler, con la religione, ma ne è la
preparazione razionale. È vero, come
dice Heidegger, che il limite del mio esistere, dato dal fatto che l’esistente non trova in sè ma sopra di
sè l’atto del suo esistere, scopre le
mie possibilità, il mio destino, ma non
nel senso della finitezza inesorabile e della nullità (Nichtheit), in cui tutto il mondo resta sprofondato (herabgesunken), bensì nell’altro della. mia
possibilità suprema di poter essere tutto il mio essere nella suprema apertura
all’Essere. L’In-der-Welt-scin è essere-nel-mondo, ma per essere-per-Dio.
Proprio la finitezza implica il riferimento
all'infinito: non chiude ma apre l’orizzonte. Non dal nulla nasce l’essere, ma dall’Essere nasce il
mio essere, per cui il problema
dell’essere concreto gettato nel mondo ,
non pone quello del nulla, ma l’altro dell’Essere assoluto. Freiheit zum Tode:
Sein zum Tode, certamente; ma in quanto
la morte, direbbe Platone, è passaggio all’evidenza di quell’ordine (il vero)
ontologico, che, qui, l’uomo non può mai
cogliere con le sue sole forze. Realtà
è verità: io sono una verità di Dio e perciò sono qualcuno che è e non nulla.
Dio è l’Essere Verità creante, Logos, e
ha fatto che io fossi, pensandomi e
volendomi; Verità illuminante e perciò ha voluto darmi il lume della intelligenza e della ragione,
affinchè di Lui leggessi l’orma in tutte le cose e soprattutto ne ascoltassi
la presenza in me, Lo volessi sempre
senza mai interamente possederLo. Non posso strappare il mio essere dalla sua
radice, staccarlo dalla sorgente; dunque
sono attratto irresistibilmente 4/ di lè: ogni uomo è per natura metafisico. La
verità, dice Agostino (De vera relig., XXX I, n. 66), è quella quae ostendit quod est: per quel che io sono,
sono vero. La verità assoluta è
l’Assoluto Essere, verità creatrice a cui
le cose sono simili: in quantum similia... in tantum sunt (tvî). Io ho dell’essere o del vero, non sozo
l’essere o il vero, ma appunto perchè ho
e non sono, sono per l’Essere o il Vero.
Il possesso della verità non è il mio stato attuale, ma la mia finalità ultima, che l’intelligenza e la
ragione mi indicano, ma che non bastano
per farmela conseguire. Nello stato
attuale debbo cercare o amare perfecte quaerere ciò a
cui tendo, ed oltrepassarmi. In un lunghissimo articolo di più che 60
pagine, I! concetto di Metafisica e lo Spiritualismo cristiano, pubblicato nella Rivista di filosofia nescolastica (1, 1949), il Rev.mo Mons. F. Olgiati, traendo lo spunto dal
fascicolo (IV-V, 1947), che questa
Rivista ha dedicato alla metafisica, oltre
che da altre pubblicazioni sullo stesso argomento, prende in esame quell’indirizzo di pensiero ormai noto
in Italia e all’Estero sotto il nome, del quale sono responsabile, di Spiritualismo cristiano . Naturalmente terrò presenti in questa
risposta solo le obiezioni che mi
riguardano direttamente e di esse in special modo quelle che toccano
l’essenziale. Debbo ancora dire che,
alcune di esse hanno già avuto risposta, spero
chiaritiva, in molte pagine raccolte in questo volume. Ciò mi obbliga a non dilungarmi oltre il
necessario, sia perchè i punti della discussione si possono precisare e
chiarire brevemente, sia per non
ripetermi. Premesso qualche rilievo,
accennerò ad alcune questioni marginali; m’intratterrò da ultimo su quattro punti essenziali. Monsignor Olgiati riconosce onestamente che
la posizione metafisica che io difendo e sostengo rappresenta un così
largo e diffuso indirizzo di idee che,
se dovesse valere Concetto di
Metafisica 127 il criterio della
maggioranza, Aristotele e S. Tommaso non
raccoglierebbero oggi se non pochi voti ; e aggiunge: Fortunatamente nel campo nostro non contano le
adesioni, ma le ragioni (18). Mi permetto domandare a Mons.
Olgiati: e che pensiamo delle ragioni
senza adesioni? fino a che punto
valgono? la verità è sterile o è feconda? le adesioni, guantunque da
sole non costituiscano la verità di un principio, non sono indicative della sua
presa e della sua forza? Si aggiunga che
queste adesioni non mancano da oggi, ma
ormai da secoli. Quanto nel pensiero moderno, dall’Umanesimo in poi, ancora
continua efficacemente il pensiero
tradizionale ed ha avuto influsso nel corso della civiltà, è platonico-agostiniano: così Ficino ed il
neoplatonismo fiorentino, Cusano e Campanella, Malebranche e Pascal, Vico e Rosmini, Gratry e Blondel ecc. ecc. Si
faccia eccezione di Suarez e di Balmes
ed oggi di qualche studioso di primo
piano e mi si dica quale è stata ed è l’influenza feconda e fecondatrice del tomismo negli ultimi sette
secoli del pensiero occidentale. Ho
detto del tomismo, non di S. Tommaso, che è operante anche nella tradizione,
diciamo così, agostiniana, come Agostino è profondamente operante nel pensiero del Santo di Aquino, secondo che
hanno dimostrato gli spiritualisti cristiani e non pochi eminenti tomisti.
Sarei quasi tentato di dire che il tomismo, almeno storicamente, sia in buona parte responsabile
della poca efficacia di S. Tommaso. Ecco
perchè io non metterei così insieme,
quasi due fratelli siamesi, Aristotele e l’Aquinate se non altro per non compromettere
quest’ultimo addossandogli indiscriminatamente alcune responsabilità non sue. Ed
ora qualche accenno a questioni marginali.
a) Mons. Olgiati nel suo articolo ritiene indispensabile innanzi tutto richiamare il concetto di
metafisica sia come è inteso da Zui
secondo i principî della filosofia classica ,
sia come è inteso da me (4). E il mio, che si appoggia a Platone ed Agostino senza affatto
trascurare Aristotele e S. Tommaso, non
è inteso secondo i principî della filosofia classica? o i principî della
filosofia classica sono quelli di
Aristotele, soli soli, senza che si possa mutare una virgola, monopolio della
Neoscolastica di Milano? Secondo Olgiati, io (e il Blondel) non ho il concetto del concetto ; ma come avrei potuto
formulare lo stesso tema: Che cosa è metafisica (cioè qual'è il concetto della metafisica), se
questo ben dell’intelletto mi fosse
mancato? Il concetto del concetto non è mai mancato a nessun uomo al mondo, anche prima che Socrate
scoprisse il concetto: si tratta solo di
intenderlo in maniera astratta o
concreta. Nè io nè Blondel neghiamo il valore della ragione o dell’intelletto, senza di cui l’uomo
cesserebbe di essere uomo, la filosofia
filosofia e il pensiero pensiero. E ciò ho
detto e ridetto in ogni circostanza, perchè questo ritornello mi è stato cantato altre volte; altrettante è
stato da me detto e ripetuto che dalla
ragione non si può prescindere e che il
problema primo è quello della verità senza di cui non c’è neppure carità. Credo superfluo insistere
su questo punto, non senza però cogliere
l’occasione di dire che è mio desiderio che venga tenuta distinta la mia
posizione, quale che sia, da quella del
Blondel. Che io abbia simpatia per il pensatore francese è vero; che il Blondel
abbia contribuito a formarmi
intellettualmente e da me sia stato difeso a viso aperto da fraintendimenti ed
accuse infondate, è anche vero; ma che
io l’accetti in pieno e sia blondeliano è assolutamente gratuito. Perciò non
comprendo come l’Olgiati possa scrivere
che rispetto al Blondel io sia ancora nel
periodo del primo entusiasmo (61).
Niente affatto: non primo perchè l’influenza diretta ed evidente del
Blondel c'è già nelle Linee di uno
spiritualismo critico di tredici anni or
sono (1936); nè entusiasmo (ma che Mons. Olgiati pensasse al suo per
Aristotele?) perchè non ho entusiasmo per nessuno, ma solo per la Verità e
dunque per ogni pensatore, quale che
sia, per quel tanto di verità che
contiene. Ed è per quel tanto di verità in essa contenuta che ho difeso la filosofia blondeliana in più
di una circostanza ed ho polemizzato contro quanti Blondel hanno spesso criticato senza neppure leggerlo. La
verità va rispet tata dovunque
s’incontri per il fatto che è verità. E credo che Mons. Olgiati avrebbe fatto meglio a mettere
in vista quel poco di verità che
contiene lo Spiritualismo cristiano degli
altri e mio, quel minimum comune, fondamento per intenderci anche
attraverso la discussione e i dissensi. I casi sono due: o lo Spiritualismo cristiano ha una sua
verità ed è bene partire da questo
consenso fondamentale; o non ne ha alcuna
ed allora è inutile discuterlo.
c) In un punto del suo articolo (38) l’Olgiati scrive che io posso replicargli che non afferra la mia idea precisa colui che mi muove simili critiche . Sono
costretto a dirgli, dopo aver letto
attentamente il suo articolo, che egli ha proprio ragione: le sue critiche mi
sembrano provare che non abbia afferrato
la mia idea precisa. E lo dimostrerò replicando sui punti essenziali, oggetto
di questo nostro dibattito. Il primo punto di dissenso, pur non così radicale
come crede l’Olgiati, concerne i
concetti di filosofia e metafisica. Per
Mons. Olgiati, vi è una metafisica iniziale presente in ogni filosofia, quale che sia: non c’è
filosofo che possa filosofare senza
avere, sia pure implicitamente, una sua concezione del reale, cioè senza avere
risposto alla domanda metafisica di che
cosa è la realtà in quanto realtà; ma chi
ha una concezione del reale quale che sia, ha una sua metafisica; dunque
non c’è filosofo o filosofia anche quei
filosofi e quelle filosofie che si dicono antimetafisiche che non nutra nel suo seno una metafisica,
altrimenti non potrebbe mai aspirare ad una spiegazione filosofica
della realtà. Questo il punto di vista di Mons. Olgiati, il quale certamente si
meraviglierà che io dica di essere d’accordo con lui, cioè: è vero, non c'è filosofia che sia
tale, la quale non sia metafisica, come
vado ripetendo da anni, dal Programma metafisico, redatto assieme all’Aliotta,
della Rivista Logos del 1937, alla
Necessità di una coscienza metafisica, articolo pubblicato nello stesso Logos (1939) e riprodotto e discusso in
quell'epoca da una decina di riviste. E
allora, dov'è il dissenso? Ecco: per me oggi è diffusa, e purtroppo anche accreditata, la pretesa che
si possa fare filosofia abolendo la
metafisica, cioè esimendosi dal rispondere alla domanda considerata inutile o
inesistente, di che cosa è la realtà in
quanto realtà. L’Olgiati è pronto a ribattere: ma questa non è filosofia .
Appunto: è proprio quello che ho detto
anch'io nell’articolo che si discute come
altrove, e qui ripeto. È proprio qui la crisi della metafisica o della filosofia: non nell’avere anche
inconsapevolmente una quale che sia
concezione della realtà in quanto realtà,
ma nel rinunziare consapevolmente a questo problema e pretendere di fare ugualmente filosofia e di
spacciare per vera quella che abolisce o
ignora il problema metafisico. La crisi
di una disciplina è manifesta quando si nega il suo oggetto proprio e ad essa essenziale perchè
di essa costitutivo e si continua a dire che, anche così negata nella sua essenza,
è ancora viva come quella disciplina. Nel caso nostro si dice che è filosofia la non filosofia , cioè il suo contrario; è come dire che è falso il vero ed è vero il
falso. Quando nego che queste filosofie hanno una metafisica, contro l’Olgiati che dal suo punto di vista sostiene
il contrario, e con ciò che siano
filosofie, voglio chiarire un equivoco dannosissimo e richiamare l’attenzione
di questi cosiddetti filosofi sul punto che sta a cuore all’Olgiati e a me: prescindete pure dalla metafisica ma non
parlate più di filosofia in quanto questa cumincia con la domanda metafisica;
voi dovete ancora incominciare a filosofare, anche se vi chiamate filosofi o anche se la gente ignara e volgare
vi considera tali . Vorrei che Mons.
Olgiati fosse d’accordo su questi punti e non può non esserlo perchè l’accordo c’è:
una pura descrizione fenomenologica o
empiricamente psicologista è metafisica
o filosofia? No di certo, perchè non pone nè
sottintende il problema metafisico; eppure quante di queste descrizioni oggi si dicono filosofie e
passano per tali? Una pura ricerca
metodologica, scientifica o storicista, è metafisica? I metodologi non dicono
che il reale, in quanto reale, è il
fatto storico o altro, ma in altro modo e cioè: noi ci
interessiamo solo del fatto, del fenomeno, dell’evento senza preoccuparci cosa sia il reale, o se vi sia
un reale o no; ed aggiungono che questa
è filosofia. Io dico di no, che non lo
è, appunto perchè manca di una metafisica e non si pone il problema metafisico. Evidentemente la
filosofia incomincia (e perciò non è
scienza, nè storia, nè economia, nè altro,
quantunque questi problemi possano debbano essere
posti filosoficamente come problemi del valore e del senso ultimo metafisico della scienza, della storia ecc.), quando non ci si ferma al fatto e alla descrizione
di esso, ma si va al di là, se ne cerca
metafisicamente la intelligibilità profonda, la sua verità nella verità. Riassumendo: Mons. Olgiati vuole mettere i
cosiddetti anti o ametafisici con le
spalle al muro, così: se fate della
filosofia, non potete sfuggire alla domanda metafisica di che cosa è il reale in quanto reale, perchè tale
domanda è essenziale ad ogni filosofare; pertanto, quando negate la metafisica,
siete in contraddizione con voi stessi, perchè la filosofia, ogni filosofia, ne
contiene una ineliminabile; io invece
voglio dimostrare loro che chiamano filosofia quella che non è tale. E su questo punto mi pare di aver
ragione: a chi abolisce il problema
metafisico e la domanda di che cosa è la
realtà in quanto realtà, non si può dire che sia in con traddizione, ma gli si
deve dire: quella che voi chiamate
filosofia non è filosofia, perchè chi fa a meno della metafisica fa a
meno della filosofia; voi spacciate per genuina
una merce falsa. Che siano in contraddizione glielo concedono subito
all’Olgiati, soddisfattissimi di esserlo. Crede
infatti l’Olgiati che i filosofi dell’assurdo e del nulla temano di essere in contraddizione, loro che
ormai hanno paura dell’essere e della
verità? Gli dicono che appunto la loro è
una metafisica della contraddizione e del nulla e 1’Olgiati dovrà acconsentire
che anche questa è una metafisica, cioè
che è metafisica la negazione dei due elementi essenziali di ogni metafisica:
l’essere e la razionalità. L’Olgiati si
meraviglia come non riesca a capacitarmi che filosofia
senza metafisica è un assurdo (6);
mi consenta che io mi meravigli come
egli non si accorga che sono perfettamente d’accordo con lui. Ma io aggiungo
che oggi si pretende di fare filosofia senza metafisica ed ho voluto dimostrare
che tante cosiddette filosofie odierne, più che contradditorie ed assurde
perchè si dicono antimetafisiche mentre una metafisica ce l’hanno, non sono
filosofie affatto perchè di fatto
rinunziano ad averne una. Aggiungevo però:
pur privi di una metafisica, come posizioni di un pensiero quale che sia, portano in loro immanente, intrinsecamente, l'esigenza indistruttibile ed ineliminabile
della metafisica . E questo perchè si
può sospendere la risposta alla domanda
metafisica, ma, ovunque vi sia un pensiero e un uomo che pensi, non si può sopprimere la sua esigenza.
Mi pare che la mia critica sia più
efficace: negare ad ogni filosofia che
rinunzia al problema metafisico l’usurpato diritto di considerarsi tale
e d’altra parte costringerla a riconoscere nello stesso tempo che pure ad essa, come ad ogni
posizione di pensiero, è intrinseca
l’esigenza metafisica, che si può misconoscere solo per difetto di
approfondimento critico. Ma si è che
Mons. Olgiati non vuol sentir parlare di esigenza ,
quasi questa parola sia una sgrammaticatura insopportabile dalla correttezza dei linguaggio filosofico. Olgiati
è rimasto quasi scandalizzato qualche
tomista, com’egli informa, di occhi evidentemente molto delicati, si è meravigliato come io abbia potuto
prendere simili abbagli della mia
affermazione che metafisica è uguale trascendenza
; d’altra parte, io accetto la definizione aristotelica della metafisica come scienza di che cosa è la realtà in quanto realtà . Il mio critico obietta:
tra le due tesi c'è contraddizione (30);
poi si avvede che, almeno per me,
contraddizione così grossolana non c’è e si sforza di intendere meglio il mio punto di vista. Io
non vedo, se mi si fa dire quello che
dico, dove sia mai la contraddizione. L'equazione da me affermata e chiarita di
metafisica e trascendenza non può essere
intesa alla maniera dell’Olgiati e cioè:
bisognerebbe concludere che la metafisica non è
la scienza dell’ente in quanto ente, perchè non ogni ente è il Trascendente (30). E’ evidente; ma con simili interpretazioni
la discussione non farà mai un passo apprezzabile. La mia affermazione
significa solo questo: se metafisica è scienza di che cosa è la realtà in
quanto realtà essa porta implicito il
problema del fondamento primo incondizionato del reale, e dunque è
implicitamente trascendenza, in quanto il fondamento del reale non può
essere immanente al reale stesso e della
sua stessa natura perchè, in tal caso,
sarebbe ancora un elemento del reale e non il
fondamento primo di esso. Le soluzioni immanentistiche pertanto sono apparentemente metafisiche, in
questo senso: se il fondamento primo del
reale, che è anche la sua finalità
ultima, è immanente e della sua stessa natura, noi ancora ci poniamo il problema della fisica e non quello della metafisica , che significa transphysica, cioè
scienza dell’al di là della fisica e
dunque trascendente il reale dell’ordine naturale. Con ciò volevo dimostrare
che le filosofie immanentistiche, appunto perchè tali, quando si pongono il
problema metafisico, in realtà non
pongono questo problema, ma, essendo immanentistiche, ripongono come problema
metafisico ancora quello fisico ,
risolvendo così (cioè dissolvendo, negando) la metafisica nella gnoseologia,
nella scienza. Detto ciò, è chiaro che non bisogna ridurre tutta la metafisica alla trascendenza, nè
confondere il concetto di filosofia con quello di metafisica , ma è anche evidente che non c’è
metafisica vera che non concluda razionalmente alla trascendenza del Principio
primo della realtà, nè c’è filosofia ove
manchi metafisica, che è la sua essenzialità, in quanto condiziona ogni altro
problema filosofico. Che poi la mia trascendenza (32) me la concedono tutti (da Spinoza a Hegel, ad altri), non ci
credo affatto, o meglio me la
concederebbero se essa fosse come la intende
il mio critico, con un fraintendimento che mi ha sorpreso. Mons. Olgiati mi ammonisce che per avere una trascendenza compatibile con uno
spiritualismo cristiano... occorre che
tale principio assoluto sia essenzialmente diverso dal dato e dalla totalità del dato stesso (32). E chi ha mai detto diversamente? Nel passo che egli cita,
infatti, parlo di oggetto della ricerca
che trascende la ricerca stessa e se la
trascende non dipende da essa ed è di altra natura; di un principio assoluto che fonda e condiziona
il mio ed ogni filosofare e perciò
trascende il pensiero e se lo trascende è
di natura diversa dal pensiero e dalla totalità di tutto l’ordine
naturale ed umano. Ed è questa la trascendenza
che mi concederebbero Spinoza, Hegel e chi so io? Si è che l’Olgiati interpreta tutto il mio passo
immanentisticamente. Un momento: non mi
ha poco prima, se non ricordo male,
rimproverato che metafisica per me è uguale a trascendenza? Dunque, secondo il mio illustre
contradditore, io dico che metafisica è
trascendenza e poi riduco la trascendenza alla
immanenza. Prego Mons. Olgiati di non muovermi obiezioni tra loro
contraddittorie. Chiariti questi punti essenziali, posso risparmiarmi di
rispondere alle altre intorno allo stesso
argomento, che ne sono la conseguenza.
A conclusione di questa parte del suo articolo l’Olgiati mi fa due domande perentorie: 1) E’ vero o non è vero che ogni pensatore ha di fatto e non può non
avere un concetto di realtà, il quale
influenza ogni concetto del sistema? (35).
Mi pare di aver risposto sopra abbastanza
chiaramente e di aver dimostrato come vi siano delle cosiddette
filosofie che di fatto aboliscono il problema della metafisica. 2) E’ vero o
non è vero che il problema della
trascendenza non è il prius, ma si collega al problema del concetto di realtà in quanto realtà? (36). Ho risposto già anche a questa domanda, chiarendo in che
senso per me metafisica sia uguale a
trascendenza. Non è questione di prius
nè di posterius, ma di insidenza del concetto di trascendenza nella stessa domanda metafisica.
Se metafisica è, in fin dei conti,
ricerca del principio primo del reale,
cioè del suo fondamento primo ed ultimo, in questo senso la metafisica è implicitamente ricerca del
principio trascendente del reale stesso, in quanto l’immanenza del
principio fa di questo un elemento o la
totalità degli elementi del reale
naturale e come tale non più transfisico. In questo senso, le soluzioni immanentistiche del problema
essenziale della metafisica, cioè del principio primo, sono metafisiche solo apparentemente,
in quanto, se il principio non è transfisico, se non trascende, non è ancora il cercato
principio primo del reale, ma il reale
stesso posto come principio di sè a se
stesso. Soluzione erronea e dunque apparente, perchè l’errore non è
reale ed è reale solo la verità. E la verità
della metafisica è la trascendenza, senza che ciò significhi che tutti i
problemi della metafisica stessa si riducano a quello della trascendenza,
quantunque resti vero e dimostrato che
il problema del principio primo li subordini
tutti. Quanto all’altro
avvertimento di Mons. Olgiati che l’esigenza non basta perchè non è
dimostrativa (evidentemente) ed è
necessaria la dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio, mi dispenso dal rispondere: proprio
quando egli scriveva queste sue critiche, avevo già redatto il mio studio sull’Esistenza di Dio, pubblicato poi nel Giornale di metafisica . Se l’Olgiati avesse
tenuto presente, oltre all’articolo sulla metafisica, altri miei lavori, credo
che le sue obiezioni avrebbero avuto
un’altra impostazione e parecchie di
esse le avrebbe risparmiate a lui e a me. Più gravi fraintendimenti son
costretto a lamentare a proposito delle
obiezioni che Mons. Olgiati muove al concetto di interiorità, considerato in
rapporto alla metafisica. Egli parla di esigenza dell’interiorità (p4, 36 e passim); dell’interiorità come aspirazione , anelito ecc. (34);
ma l’interiorità è molto di più e di diverso: è presenza e vita della verità in me. Evidentemente io parlo di metafisica dell’esperienza interiore nel senso agostiniano dei termini; e dunque
qui non si tratta di origine psicologica
della ricerca filosofica nè di cose
simili, bensì di una metafisica che muove dal dato reale più ricco ed eminente nell’ordine della
natura, che è la vita spirituale; ed è
proprio dall’analisi del dato reale-uomo
(o dati reali sono solo le cose? forse l’esperienza interiore non è altrettanto esperienza e più valida di
quella esteriore ?) che scaturiscono la
trascendenza e la dimostrazione dell’esistenza di Dio in termini di assoluto
rigore razionale. La metafisica è scienza della realtà in quanto realtà; tra
gli enti reali c'è l’uomo che è spirito
e lo spirito è realtà; dunque perchè non
posso prendere le mosse dall’uomo inteso come realtà spirituale e dallo spirito come interiorità
nel senso agostiniano? L’Olgiati non vede come possa conciliare la tesi metafisica uguale trascendenza con l’altra di
una metafisica interiore (ossia di una metafisica uguale immanenza). Sfido che non lo vede se mi scrive che
interiorità è uguale ad immanenza; ma
che colpa ho io se lui non vede? Proprio
l’opposto, infatti: l’immanenza è la negazione dell’interiorità, la quale, intesa correttamente, importa la
trascendenza non fondata su dati
puramente psicologici, ma sul dato reale che
è lo spirito; non sui sassi e le zucche, per usare i termini adoperati da Mons. Olgiati. Al quale pongo
una domanda precisa: l’interiorità di
Agostino è trascendenza o è immanenza? Se è trascendenza, la mia è trascendenza
e la sua obiezione non riguarda il mio
modo di concepire l’interiorità; se invece per lui è immanenza, ebbene, con
tutto il rispetto che ho per la sua
autorità, resto con Agostino, sicuro di non rischiare l’immanenza e lascio a
Mons. Olgiati la responsabilità delle
sue gravi affermazioni. La verità è che
l’Olgiati tiene presente l’interiorità così come è intesa dal pensiero moderno e contemporaneo.
Infatti, a pag. 43 egli scrive: la metafisica classica, ben lungi dallo
svalorizzare l’interiorità o dal trascurarne le esigenze, è la sola che salva l’una e può appagare le altre mentre,
sotto le apparenze mendaci dell’interiorità, la filosofia moderna e contemporanea
è orientata verso l’esteriorizzazione . D'accordo: la filosofia moderna, che ha creduto di
approfondire l’interiorità riducendola all’immanenza, ha negato
l’interiorità autentica, la ha
esteriorizzata. E non è stato e non è ancora
oggi proprio questo il mio sforzo, quello di recuperare, contro la
mendace interiorità del pensiero moderno, la verace interiorità agostiniana? Proprio su questo
punto ho manifestato il mio aperto dissenso con l'illustre amico Carlini,
a proposito di una discussione intorno
al Vico tra lui e il professor F. Amerio ( Giornale di metafisica nn. 5-6, 1948). Sono costretto a riportare alcuni passi che
mi sembrano la più soddisfacente
risposta a quanto mi obietta Mons. Olgiati: Vi è qui un problema storico e uno teoretico,
distinti evidentemente, ma non separati
e separabili: 1) tutto il pen 138
Filosofia e Metafisica siero
medioevale-scolastico è irretito nella metafisica greca (aristotelica) e nel carattere cosmologico di
quest’ultima? Evidentemente no, e il Carlini, maestro di storia della
filosofia, lo sa meglio di noi; nello
stesso S. Tommaso vi è più di Agostino
che di Aristotele, più di metafisica cristiana che greca, più senso d’interiorità di quanto non
sembri a prima vista... 2) Aggiungo
ancora ed il Carlini si scandalizzerà che il pensiero moderno, pur combattendo la
Scolastica, ha ereditato dalla
Scolastica proprio l’aspetto di essa più lontano da quell’interiorità che tanto
sta a cuore al Carlini e a me, cioè il
suo cosmologismo... 3) Non abbiamo osservato
tante volte il Carlini ed io (egli prima di me) anche al Gentile che la
trascendentalità idealistica è condannata all’esteriorità, a disperdersi nel
mondo, a negarsi come interiorità? che lo storicismo idealista è, in ultima
analisi, positivismo ed anche empirismo, dove quel che non si salva è proprio l’interiorità dello spirito ?... È
qui il punto della questione: l’idealismo immanentista ha decapitato
l’interiorità cristiana; ne ha accettato
il lato, diciamo così, immanentistico, ma l’ha privata della trascendenza che
le è essenziale, del trascende et te
ipsum, che è il suo principio e il suo fine
e senza di cui cessa di essere interiorità autentica e si perde nella scientificità, nella storicità, cioè
nell’empiria. Su questo punto noi non possiamo non essere che critici intransigenti
del pensiero moderno proprio per recuperare quell’interiorità che esso ha
finito per perdere (S., Il pensiero
moderno, Brescia, La Scuola, 1949, pag. 108). Mi permetta ancora l’Olgiati di
rimandarlo anche al vol. I del mio S.
Agostino (Brescia, Morcelliana) per risparmiargli la fatica di continuare a
portare vasi a Samo. E giacchè siamo su
questo tema, desidero pregarlo di non
rimproverare più, almeno chi scrive, che lo Spiritualismo cristiano si
ferma alla pura esigenza. Gli concedo subito che questa obiezione (parlo sempre soltanto di
me), fino a qualche anno fa, mi poteva essere mossa; oggi non più. Se la mia personale
posizione, quale che sia la sua minima importanza, ha un significato nella filosofia
contemporanea e soprattutto dentro lo
Spiritualismo cristiano e le correnti ad esso affini, è precisamente quella di aver tentato di
oltrepassare la posizione esigenziale: i miei ultimi scritti credo che non
lascino più dubbi a questo proposito.
Desidererei che Mons. Olgiati o altri ne
tenessero conto. L'ultimo argomento
dall’Olgiati discusso riguarda il
progresso a proposito del concetto stesso di metafisica. A questo proposito possiamo essere brevi. In
tutto il mio studio, come ha rilevato lo
stesso Olgiati, ho tenuto fermo il
concetto aristotelico, che è anche platonico, della metafisica come scienza della realtà in quanto realtà:
questo il concetto di metafisica e non
c’è progresso. Aristotele risponde: la realtà
in quanto realtà è l’ente; ma resta da precisare che è l’ente. Su questo punto l’Olgiati concede (58) che è
certo che nella storia della metafisica
classica S. Agostino e S. Tommaso non sono puramente e semplicemente ripetitori
di Aristotele, ma lo hanno fatto progredire, ed in qual modo! Chi non sa che è tollerabile parlare di S.
Agostino, come del Platone cristiano, e di S. Tommaso, come dell’Aristotele cristiano,
solo a patto di riconoscere nei due nostri pensatori uno spirito essenzialmente diverso e non
paragonabile a quello dei due pensatori
greci? Potrebbe quindi sembrare che la
storia deponga a gran voce contro di me. Anche perchè, prescindendo da ciò che
io penso a proposito della interiorità cristiana in metafisica e delle tesi di
Armando Carlini, è indubitato che dai principî della metafisica greca i grandi filosofi cristiani hanno saputo far
sgorgare conseguenze, che erano implicite in quei principî, ma che Atene non vi aveva intuito. Il problema del male e
il concetto filosofico di creazione, nel Santo d’Ippona e nell’Aquinate, segnano
sviluppi e progressi d’indole metafisica... . Dunque per la riduzione del concetto di realtà al
concetto di ente progresso c’è stato e
ci potrà essere ancora, senza che ciò faccia che non sia verità quello che di
verità si è scoperto. È evidente che
questo non significa progresso del concetto
di metafisica, di cui non c’è progresso, come non ce n'è, per esempio, del principio di contraddizione.
Mi pare però che subito dopo l’Olgiati
confonda i due problemi del concetto di metafisica senza progresso, una volta scoperto e della
metafisica aristotelica, quando scrive: come non progredisce la definizione di
triangolo o di circolo, quando un
matematico scopre un nuovo teorema a proposito dell’uno o dell’altro, pur essendo tale teorema
contenuto nel concetto di quelle due figure geometriche, così non si può parlare
di progresso nel concetto di metafisica, quando, ad esempio, si vede che il
concetto di ente in quanto ente, nel caso
di un rapporto di non identità tra essenza ed essere, conduce mediante un ragionamento ad ammettere la
creazione... (58). Che il concetto di
creazione non importi progresso. nel
puro concetto della metafisica è vero; ma qui si tratta di sapere se non ne ha importato nella
concezione metafisica aristotelica. È
stata tale rivoluzione il concetto di creazione, che non si vede affatto come possa reggere
l’esempio del triangolo o del circolo.
Teniamo distinti i due problemi ed il
progresso della metafisica da Aristotele a quella di Agostino e Tommaso è
innegabile ed immenso. Olgiati a pag. 43 scrive: lo S.... ha raccomandato di
non compromettere la realtà spirituale per
amore di una sopravvivenza pagana, per esempio aristotelica, della
filosofia come cosmologia, ossia per amore di una metafisica pagana ed il Carlini aderisce toto
corde a tale preoccupazione. Ma che
importa se la scienza dell’ente in
quanto ente è dovuta ad un pagano? Essa nonè nè pagana nè cristiana; è umana. Che la sua scoperta
sia dovuta ad un pagano nulla toglie al
suo valore, il quale non ha nessun rapporto col paganesimo. A noi sembra che
non è lecito qualificare come
naturalistica la metafisica aristotelica. Non
ci interessa l’4rimus di Aristotele che certamente non era quello di un santo medievale come lo era
quello di S. Tommaso . Tutto quello che non sembra preoccupare ed interessare
Mons. Olgiati a noi preoccupa ed interessa moltissimo. Precisiamo il nostro
punto di vista: quando il Carlini ed io parliamo di metafisica pagana e qualifichiamo come naturalistica quella di Aristotele, intendiamo dire che, dopo il Cristianesimo, quella concezione
metafisica non diciamo il concetto di
metafisica va integrata: si tratta non di abbandonarla, ma di completarla, come
ha fatto S. Tommaso. Evidentemente in
questo completamento i termini assumono
un significato che, senza tradire quello che dà ad essi Aristotele, lo oltrepassano. (Anche il
Gilson è di questa opinione). Per
esempio: di fronte al concetto di creazione, che è il problema esistenziale per eccellenza,
l’aristotelismo può restare
aristotelismo nella lettera e nello spirito? Altro esempio: il Dio di
Aristotele è fine totale come lo è il Dio creatore del Cristianesimo? Non mi
obietti Mons. Olgiati che qui entriamo
nelle verità rivelate e usciamo dal campo
strettamente filosofico; gli rispondo subito (e credo di essere tomista) che fede e filosofia, senza
confondersi, non possono restare
estranee l’una all’altra, almeno per uno spiritualismo che ci tiene a qualificarsi cristiano. Il Dio creatore per amore, insegnato dalla
fede, è una verità recuperabile dalla
ragione; ed una volta recuperata porta
una rivoluzione metafisica, che è appunto quella apportata prima da Agostino
nella metafisica dei cosidetti Platonici
e poi da S. Tommaso in quella di
Aristotele. Ecco perchè il Carlini ed io chiamiamo cosmologica e
naturalistica la metafisica greca di
Aristotele come di Platone, e teologica e spiritualistica quella di Agostino e
Tommaso (quali che siano poi le
differenze tra i due pensatori) ed ogni altra
che voglia essere metafisica sì, ma anche cristiana. Aggiungo e
certamente Mons. Olgiati lo sa meglio di me che molti
tomisti oggi sono orientati a mettere in luce l’originalità di S. Tommaso rispetto ad Aristotele, a rilevare
più gli approfondimenti e gli avanzamenti anzichè le identità. La Neoscolastica
italiana ci tiene proprio tanto a restare ferma ad un S. Tommaso abbarbicato tutto allo
Stagirita e ad addossare al gran Santo le responsabilità della filosofia
aristotelica; a restare in un isolamento
anche rispetto a tutte le altre correnti di pensiero cristiano-cattolico,
tomista o no che comincia a diventare molto (troppo)
significativo ? Parrebbe di sì, se Mons.
Olgiati, con una espressione che mi ha turbato, arriva a dire che neppure gli stessi nobilissimi compiti
dell’apostolato (63) smuoveranno la
Neoscolastica che egli rappresenta. E a
che cosa la Neoscolastica non vuole
rinunziare? Ecco: al primato
della Luce che è Vita, ma che è Vita
appunto perchè è Verità e Luce. Certo; ma
questa Luce, che è Vita perchè la Vita è Verità e Luce non è più Aristotele; e se Aristotele leggesse
queste parole o le intenderebbe a modo
suo, paganamente e naturalisticamente, o
vi capirebbe poco o nulla. Il pagano cerca Dio solo nella natura (naturalismo); il cristiano lo cerca e
lo trova nella intimità dell'anima
(spiritualismo cristiano), nell’interiorità
dello spirito, senza che ciò significhi abolire la natura, il concetto, la ragione. Nello spirito la
cerca anche S. Tommaso, che è cristiano prima di essere aristotelico. Concludo con il Gilson: S. Tommaso on l’a beaucoup commenté, mais fort peu suivi. La seule
manière de le suivre vraiment serait de
refaire son oeuvre telle que lui-mème la
ferait aujourd’hui à partir de mémes principes et d’aller plus loin que lui dans le méme sens et sur la voie
mème qu'il a Jadis ouverte (Essence et existence, Paris, Vrin, 1948, pagine
321-322). Non è questo un compito
molto più proficuo che ripetere S.
Tommaso invece di farlo avanzare e difendere lo spirito cosmologistico e
naturalistico della metafisica e del Dio aristotelico? O mandiamo tutti a
scuola, Gilson e il Blondel, tomisti come De Finance e tanti altri, la Neoscolastica di Lovanio e gli
spiritualisti cristiani italiani, tutti
a scuola: da chi? Evidentemente alla scuola dei grandi pensatori classici e cristiani, di Platone e
Aristotele, di Agostino e Tommaso ecc., cioè li consigliamo a restare
nella scuola dove già sono stati e nella
quale desiderano rimanere. Nel fasc. IV, 1949, della Rivista di filosofia neoscolastica (p401-443), Mons. Olgiati replica alle
risposte del Carlini e mia. Lo ringrazio
della considerazione in cui ha voluto
tenere le mie pagine e di quanto scrive in questa sua replica, alla quale rispondo brevemente,
evitando ogni accento polemico e
limitandomi ad alcuni chiarimenti e precisazioni. Riconosco subito, che Mons. Olgiati fa delle
concessioni: E quanto, dal punto di vista storico, si dice
che l’amimus di Aristotele era volto al
mondo, all’empiria, alla realtà sperimentale, dalla quale assurgeva, come a
spiegazione finalistica, all’Atto puro, da lui riguardato in rapporto col mondo,
non c'è se non da sottoscrivere. In questo, sia Carlini, come lo S., hanno perfettamente ragione. E aggiunge che questo, più che Aristotele
filosofo, è lo scienziato, quello che anche quando... parla del mondo intelligibile, lo fa, volto sempre al mondo
sensibile, all’esperienza, ossia, come io direi, con preoccupazioni empiriche (iv:). Resta da vedere fino a che punto
l’Aristotele scienziato influenzi Aristotele filosofo e lo condizioni; se il filosofo, almeno un filosofo che oggi si
dice cristiano , non debba proprio fare all’inverso, cioè:
anche quando parla del sensibile farlo
con l’occhio volto sempre all’intelligibile
e cioè, direi io, con preoccupazioni non empiriche ; così come fa Platone, che pure non è cristiano,
anche se l’Acri ha voluto farne il
pagano profeta di Cristo. Olgiati pensa che Aristotele, partendo dal
sensibile, ci ha invitato a riguardar
quella realtà sensibile o sperimentata, ma solo in quanto realtà. Ossia contro
tutti coloro Hume e Kant compresi che avrebbero dichiarato l'impossibilità di superare con i nostri
concetti l’esperienza, Aristotele ci ha
insegnato mediante la sua metafisica concetti e leggi, che, quanto alla loro
origine, hanno le radici
nell'esperienza, ma quanto al loro valore si verificano, e non possono non verificarsi in ogni realtà ed
in ogni momento di qualsiasi realtà, anche non sperimentata, nè da noi sperimentabile (407). Dubito che, se tutti i concetti e le leggi hanno, quanto alla loro origine,
le radici nella esperienza, possano poi
verificarsi, quanto al valore, in ogni
realtà anche non sperimentata, nè da noi sperimentabile; credo che Hume e Kant, se tutzi i concetti e
le leggi hanno aristotelicamente le
radici nell’esperienza, avrebbero qualcosa da dire proprio intorno alla
possibilità di oltrepassare coi nostri
concetti l’esperienza stessa; tranne che non si dimostri che tutta la critica
della conoscenza e il concetto critico
di esperienza da Cartesio e Locke ai nostri giorni stiano a provare soltanto che il pensiero
moderno di quella metafisica ha capito
niente o pochissimo; che è come dire che
quattro-cinque secoli di filosofia, su un problema fondamentalissimo, non
contano affatto. Credo, invece, che, a
questo proposito, vadano poste due precise domande: 1) quell’ origine (l’esperienza sensibile) rende davvero possibile
che, in quanto al valore , concetti e
leggi si verifichino universalmente, anche in una realtà insperimentata ed insperimentabile, oppure proprio qualche
principio, che non ha radice
nell’esperienza sensibile, rende proprio esso possibile la formulazione dei
concetti e ne garantisce il valore? 2)
La posizione aristotelica, al cui insegnamento Mons. Olgiati ci incita, non è
forse almeno in parte responsabile di
quella critica della metafisica, a cui il pensiero moderno è stato gradualmente
portato? In altri termini, è da chiedersi se il pensiero moderno non sia un aristotelismo
critico, cioè un giudizio su Aristotele o un approfondimento spinto fino alla
negazione della possibilità di una
metafisica come scienza, se aristotelicamente impostata. Oppure ancora così: il razionalismo e
l’empirismo moderni come il criticismo kantiano concludono col sospendere la metafisica, in quanto si allontanano da
Aristotele e l’intendono male o non l’intendono affatto, oppure in quanto ereditano proprio la mentalità scientifica del filosofo Aristotele e sue preoccupazioni
empiristiche che, quanto sembra, non lo
abbandonano mai, anche quando costr
uisce la sua metafisica come scienza dei principi primi del mondo fisico, che
si continua in quello celeste e culmina nel Motore Immobile? L’Olgiati riconosce ancora che il Carlini ed
io abbiamo ragione (è verissimo ) di
sostenere che S. Tommaso non è
Aristotele, perchè c'è di mezzo il Cristianesimo e l’utilizzazione di S. Agostino. Son lieto di
rilevare quest'altro punto di accordo con il mio illustre contraddittore
(stiamo infatti discutendo da circa un anno), il quale così continua: La creazione implicava per lui [S. Tommaso]
l’impossibilità di ripetere a riguardo delle forme la parola citata dagli Analitici res ita est et non potest aliter se
habere: no, avrebbero potuto essere
diverse, se Dio, Libertà assoluta, le
avesse create diverse (407). Mi domando
se il concetto di creazione implichi soltanto questo o una vera e propria rivoluzione metafisica; ma basta solo
quel Dio
Libertà assoluta . Ora, se le cose stanno come anche l’O. riconosce, che resta della costruzione metafisica aristotelica? Il concetto di
metafisica, scienza della realtà in quanto
realtà? Ma concesso che Aristotele ha detto cos'è metafisica, resta da vedere se quella che egli costruisce
sia vera e fino a che punto, se identica
a quella di S. Tommaso e definitiva. Non mi pare che l’O. stesso sostenga
questa tesi, in quanto ammette tra la
metafisica aristotelica e quella tomista differenze profonde. E questo non è
progresso? Perchè allora mi ribatte
quando parlo, e non in senso storicistico, di progresso in metafisica? L’O.
precisa ancora: L’animus di S. Tommaso non è più indirizzato
verso l’empiria; meglio, studia anche la realtà fisica, ma con ben altra preoccupazione che non Aristotele, e cioè con
un orientamento metafisico. Se l’animus di S. Tommaso non è più indirizzato verso l’empiria, si ammette
che lo sia quello di Aristotele; se
studia la realtà fisica con ben altra
preoccupazione di quella dello Stagirita e cioè con un orientamento metafisico ,
significa ancora, proprio secondo l’O.,
che Aristotele la studia con un orientamento che n0n è metafisico, ma,
come sosteniamo il Carlini ed io, cosmologico e
naturalistico, cioè scientifico. Dunque, siamo d’accordo, e son grato a Mons. Olgiati delle differenze che
egli segna tra Aristotele e S. Tommaso, le quali confermano autorevolmente
il mio punto di vista. Ma tre righe più
sotto si legge: Fedele ad Aristotele,
egli [S. Tommaso] non perde mai il contatto con la realtà: nella realtà sta il
suo punto di partenza, la via da lui
percorsa e il punto d’arrivo . Quale realtà?
quella empirica? ed è essa punto di partenza e punto di arrivo anche per S. Tommaso? Ma allora che
vuol dire che l’animus del grande
Dottore non è più indirizzato verso
l’empirico e che egli studia la realtà fisica con orientamento metafisico? Francamente su questo punto
vorrei vederci chiaro e perciò
semplifico la questione: i concetti di creazione , della realtà come verità, di spirito , di libertà ,
ecc. così come sono intesi dal Cristianesimo e utilizzati da Sant'Agostino, una volta introdotti da S.
Tommaso nella costruzione metafisica di
Aristotele, la lasciano sostanzialmente intatta sì o no? Se tali concetti sono
operanti nella metafisica tomista, come
in quella di ogni pensatore cristiano, non v'è dubbio che essa non è quella
aristotelica e non lo è sostanzialmente;
altrimenti bisogna ammettere l’O. sembra
contrario che il Cristianesimo e l'utilizzazione
di Agostino siano puramente accidentali e
la metafisica di S .Tommaso sostanzialmente identica a quella di Aristotele. Qui non si fa questione del concetto o della
definizione aristotelica della metafisica, ma della metafisica di Aristotele; infatti, non basta dire che il
concetto di metafisica è identico nei due pensatori, nè che vi è accordo circa il concetto della realtà in quanto
ente. È da questo punto che comincia la
questione: che è realtà? che è ente? Ora
i concetti di realtà e di ente che elabora Aristotele sono quelli di S. Tommaso, cioè, la costruzione
metafisica dei due pensatori è identica
o no? i concetti di analogia, potenza,
atto, Motore immobile o Dio sono identici nelle due metafisiche o no? Se
l’O. risponde di sì mi permetta di domandargli dove e in che modo S. Tommaso
utilizza S. Agostino e il Cristianesimo e quale il gran passo che ha fatto rispetto allo Stagirita. Se risponde di no
deve concedermi che, pur sulla base del
concetto aristotelico di metafisica, la
metafisica cristiana di Agostino e Tommaso è ben altra e diversissima cosa da quella aristotelica, e
che, come sostengo, è naturalistico-cosmologica
e come tale (non se ne scandalizzi) panteistica. Pertanto, potenza ed atto,
Motore immobile ecc. in S. Tommaso hanno ben altro senso, sono pregnanti di un
arimus che non ha niente a che vedere con
quello della metafisica dello scienziato Aristotele.
Ma pare che l’O. voglia limitarsi al puro concetto di metafisica. In tal caso, però, si ferma alla
definizione generale senza entrare a considerare una costruzione
metafisica concreta, cioè una concezione
del reale e dell’ente ed è costretto a
limitarsi a ripetere (all'infinito?) che il concetto aristotelico-tomista è della metafisica come
scienza della realtà in quanto realtà. E
poi? L’O. mi obietta: Il Prof. Carlini è logico perchè mi respinge tale
concezione del reale. Invece il Prof. S.
dice di ammetterla e poi mi ostracizza
come naturalistica la metafisica costruita su quelle fondamenta (423). Credo di essere logico anch'io non come il diavolo dantesco, spero :
accettata quella definizione della realtà in quanto ente, resta da costruire la
metafisica ed io ostracizzo come
naturalistica quella aristotelica; altro
è accettare la definizione della metafisica, altro, mi pare, è (o sbaglio?) accettare una determinata
costruzione metafisica. Non accetto
quella aristotelica e desidererei sapere
se S. Tommaso l’accetta così com'è appunto perchè naturalistica e perciò lontana da una metafisica che tenga
conto del Cristianesimo ed utilizzi Agostino. Alle domande da me poste non trovo una sola risposta precisa in tutto
l’articolo di Mons. Olgiati. Infatti,
rispondendo al Carlini, egli dice che S.
Tommaso, qualsiasi questione
affrontasse... la prospettava metafisicamente ; e così esemplifica: discusse
il problema della libertà umana, ma non fu ad un argomento psicologico
(l’attestazione della coscienza), nè all’argomento morale (l'impossibilità di
un'attività etica qualora non fossimo
autodeterminatori) che egli si rivolge, quanto
alla prova metafisica, sviluppata unicamente in funzione del concetto di ente. Discusse il problema di
Dio: m a non fu al consenso dei popoli e
della storia, non alle aspirazioni dell’animo nostro, alle esigenze proclamate
dalla morale od alla vita che egli si
indirizzò per le sue vie, bensì ad un
ente constatato ed alle leggi dell’ente. Persino la teologia di S. Tommaso da che mai è caratterizzata, se
non dall’elaborazione del dato dogmatico in funzione della metafisica dell’ente? (409). Mi permetto osservare: ha ragione
S. Tommaso di rivolgersi a prove
metafisiche, ma, se mette da parte
l’argomento psicologico, quello morale, le esigenze della vita ecc. ha torto, perchè anche questi
sono argomenti che hanno il loro peso, e
la convergenza degli argomenti è un
argomento probativo; ha ancora torto perchè questi argomenti, se approfonditi,
hanno anch'essi una portata metafisica; anche la vita psicologica e morale sono
esperienza (lo è la spiritualità nella
sua totalità ed integralità) e vi è metafisica dell’esperienza interiore, dalla
quale, a mio avviso, devono passare quelle vie che
dimostrano l’esistenza di Dio. Inoltre,
concesso che S. Tommaso abbia elaborato tutti i problemi in funzione del
concetto di ente e della metafisica dell'ente, resta da precisare se la sua
concezione metafisica sia quella di
Aristotele; ammesso che lo sia, da spiegare come egli abbia fatto a trarre fuori da essa un
concetto di libertà , delle prove dell’ esistenza di Dio e persino una
teologia che traducono tutta la profondità e
l'originalità di significato che questi
termini hanno nel Cristianesimo. Questo
punto non lo vedo chiaro e desidererei precisazioni ben fondate.
Ancora una domanda: Mons. Olgiati a più riprese, nell’articolo che
discutiamo e in quello precedente, dice che
S. Tommaso non rinnega ma completa Agostino (419); che non si può comprendere il significato
della parola essenza, che pure è indispensabile per dichiarare cos'è
l’ente, se non si esulta prima dinanzi alla bellezza fulgente del concetto agostiniano della realtà come
verttas; aggiunge che S. Tommaso non
ripete Aristotele; che utilizza il Cristianesimo (per es. il concetto di
creazione ecc.) ed Agostino. Desidererei
che egli mi dicesse non così, in generale, ma concretamente come S. Tommaso
completa, senza rinnegarlo, S. Agostino
nelle tesi fondamentali della sua metafisica; se accetta il concetto agostiniano della realtà
come veritas interiore j che cosa
accetta della metafisica di Aristotele e dove la modifica profondamente, cioè
in quali tesi non è aristotelico; se la sua metafisica, con la introduzione di
concetti cristiani ed agostiniani,
mancanti in Aristotele, si possa
chiamare ancora aristotelica non nell’esteriore ma nel suo spirito profondo. Credo che un chiarimento
preciso su questi punti sarebbe molto utile, soprattutto a me; e lo dico sinceramente. Il lettore forse non si sarà ancora accorto
che fino ad ora non ho risposto, tranne
che in un punto, alla parte dell’articolo dell'O. che mi riguarda direttamente,
bensì all’altra diretta al Carlini; ma i punti toccati interessano anche me e perciò ho creduto opportuno
occuparmene. D'altra parte, il modo
d’intendere e di valutare la metafisica di Aristotele come la questione dei
suoi rapporti con quella di S. Tommaso
sono i punti in cui il Carlini ed io
concordiamo quasi del tutto, se si eccettua qualche giudizio carliniano
sull’Aquinate; per il resto, Carlini ed io,
in alcuni punti fondamentali, dissentiamo profondamente, come lo stesso Olgiati ha qua e là rilevato e
come si può vedere dalla stessa risposta
del Carlini all’Olgiati, dove il mio
illustre amico ne ha anche per me. Ma è bene che io qui mi limiti a rispondere solo a Mons.
Olgiati, altrimenti si finisce davvero
per confondere le lingue; e poi, contro
due non ce l’ha fatta nemmeno Ercole! All’amico Carlini risponderò a
parte nel fascicolo successivo di questa Rivista (‘): i dissensi in famiglia e credo che siano forti è bene che
ce li discutiamo tra noi con il garbo e la serenità che si conviene tra
amici e che del resto, malgrado qualche espressione vivace da ambo le parti, sono stati
conservati anche nel dibattito con Mons. Olgiati. Che il dissenso con il Carlini sia rilevante
appare subito da queste mie affermazioni
categoriche: ritengo, anche dopo la
critica del pensiero moderno e anzi proprio spingendo la critica al massimo delle sue possibilità,
1) che si possa fondare una metafisica,
con cui identifico la filosofia nel
senso più comprensivo e preciso del termine; 2) che questa metafisica sia quella della verità (dunque
punto di partenza è l’uomo nella sua
integralità), di cui Agostino è il maestro,
ma non il solo nè tanto meno il definitivo; 3) che sono nella linea della metafisica classica. Non esssermi
stato riconosciuto ciò dall’Olgiati è la
cosa lo dico con tutta sincerità che più
di ogni altra mi è dispiaciuta e mi ha fatto protestare {non gridare , come dice l’O.) di essere stato
frainteso; ma torniamo alla discussione
vera e propria. La risposta è stata data indirettamente in
altra occasione. Olgiati dubita che io abbia avuto tra mano ( se il prof. S. prenderà tra le mani 421) il
volume che l’Università Cattolica
pubblicò nel ’31 in occasione del
centenario agostiniano. Lo rassicuro subito: nel mio S. Agostino (volume
I), da poco pubblicato, lo cito una ventina di
volte; cito anche, quasi sempre concordando, i pregevoli scritti agostiniani del Masnovo. Dunque, a mia volta,
prego io l’Olgiati di prendere tra le
mani questo mio volume e di leggerlo con
un po’ di attenzione. Mi piace aggiungere che nel Convegno di Gallarate del ’46, come
presentatore del tema Agostinismo e tomismo sostenni, tenendo presente il Masnovo, la tesi
della concordanza o almeno della non antiteticità dei due grandi pensatori ( Atti del II
Convegno dei filosofi cristiani di
Gallarate , Milano, 1947). Ma lasciamo questo
punto secondario anche per evitare di continuare a consigliarci, l’O. a
me ed io a lui, la lettura di libri che conosciamo benissimo. Olgiati si mostra
ancora preoccupato della mia affermazione: l’ontologia è vincolata
all’antropologia , in quanto crede che
essa apra le porte al relativismo; e aggiunge: È il valore di assolutezza della
verità tesi primale di S. Tommaso, di S. Agostino che ci sta a cuore (pag. 423). A me invece, secondo l’O.,
starebbe a cuore il soggettivismo e il
relativismo della verità; a me che da quasi
quindici anni combatto l’uno e l’altro; distinguo e ciò
fa arrabbiare persino il mio amico Carlini tra idealismo
spurio (soggettivo) ed idealismo
autentico (oggettivo) e contrappongo energicamente alla tesi della verità come
sviluppo l’altra della verità
come scoperta , ecc. Ma tant'è, a me
starebbe a cuore non il valore oggettivo della
verità, ma un assurdo Cristianesimo colorito di relativismo. Se così
fosse non avrei capito niente di
Platone, Agostino, Pascal, Rosmini e sarei ancor testa e piedi nel soggettivismo idealista.
Evidentemente le parole l’ontologia è
vincolata all’antropologia vanno intese
diversamente da come le intende l’O. che, chissà perchè, quando mi fa l’onore di discutermi, interpreta le
mie espressioni in senso idealistico e
mi fa dire l’opposto di quello che dico. Ecco,
infatti, come intende quell’affermazione: Il nostro sapere sarebbe fatalmente relazivo al soggetto; noi
non potremmo conoscere se non ciò che
appare all'uomo in quanto uomo; ossia il
relativismo si imporrebbe e non vi sarebbe nessuna verità di valore assoluto (423). Questo è inventare e non criticare, per il gusto di far passare tutti
da fenomenisti , tranne Mons. O., unico interprete di S.
Tommaso aristotelico. Io dico
perfettamente l’opposto: il valore oggettivo della conoscenza umana non è dato
dal soggetto ma dall’oggetto, cioè dalla
verità che è presente (inzeriore) alla mente e perciò è sempre verità di un
soggetto pensante, senza che ciò
significhi che è ad esso relativa. Ma il soggetto pensante è l’uomo; dunque egli è il soggetto del
filosofare, avente come oggetto la verità per il cui lume oggettivo è pensante:
non è il pensiero che fa essere (pone)
la verità, ma è la verità che fa che il
pensiero pensi. Ora, posto l’uomo come soggetto
della verità, che lo fonda come pensante, e lo oltrepassa, 1) non vedo dove stia il relativismo, in
quanto 2) la mia espressione l’ontologia è vincolata all’antropologia significa precisamente: l’ontologia è
vincolata all'uomo in quanto soggetto di una verità oggettivamente valida, di
cui ha profonda interiore esperienza. Se
noi siamo chiusi nell'antropologia, siamo e resteremo incatenati nella esperienza
(425). Desidero (posso sperare di riescirvi?) tranquillizzare l’Olgiati che #07
restiamo chiusi nel carcere dell'antropologia perchè è presente alla mente
dell’uomo la verità che lo spinge a trascendersi fino a quando non abbia trovato pace nella Verità, che è Dio; che mon
siamo e 207 resteremo incatenati
nell’esperienza appunto perchè quella interiore è esperienza della verità
oggettiva. Ho i miei dubbi che questi
pericoli li corra Aristotele con quelle sue preoccupazioni empiriche e con quel suo star sempre volto al mondo sensibile,
all’esperienza , dove concetti e leggi... hanno
le radici ; e con Aristotele Mons. Olgiati. Noi diciamo, invece, che il
pensiero umano ha le sue radici nella
verità che gli è interiore (esperienza,
dunque, ma non la sensibile, almeno in
questo caso) e che tale verità ha il suo Principio ultimo, la Radice assoluta,
in Dio. Perciò, non è vero, come dice
l’O., che io protesti di essere nello
spirito dell’aristotelismo e del
tomismo, se per tomismo s’intende l’aristoteliimo di Aristotele; al contrario,
non vi tengo affatto ad essere nello spirito dell’aristotelismo, e rifiuto il Motore
immobile di Aristotele, se lo si vuol far passare per il Dio creatore cristiano. Desidererei sapere se
anche S. Tommaso, per l’O., sia proprio nello spirito dell’aristotelismo e se il suo Dio sia il Motore immobile
aristotelico. Di passaggio rilevo
un’altra espressione: Tuttavia dire spiritualità è dire, almeno almeno,
potenzialità della concettualizzazione (427);
ma la spiritualità, nel senso pregnante e profondo, è una verità cristiana,
ignota al pensiero greco. E l’attività dello spirito è solo potenzialità
della concettualizzazione? Per
Aristotele sì, ma per la filosofia
cristiana? E poi l’O. si dispiace quando me la piglio con una scienza puramente nozionale e di astratti
ed esangui rapporti o balletti logici.
Se si identifica la spiritualità con la
concettualizzazione o con quella che Platone chiama la È:zvorx, sono costretto
a mantenere il mio punto di vista e a
contrapporvi una spiritualità più ricca e concreta, la vénets, che del resto
non nega affatto il valore del concetto
ed è sempre molto meno della spiritualità cristiana. Non credo che sia necessario insistere nel
chiarire l’altra mia espressione metafisica uguale trascendenza dopo
quanto ho detto in proposito nelle pagine precedenti; nè mi sembra che quanto ora aggiunge l’O. mi
costringa a ritornare sull’argomento. È vero, egli mi osserva che la mia posizione non è sufficiente per arrivare alla
trascendenza, come non lo è quella dello
Hegel, che resta nell’immanentismo. Debbo anche questa volta ripetere che io
sono ben lontano dalla posizione
idealistica, in cui l’O. mi vuol
cacciare a qualunque costo.
Passando ad altro argomento, non credo che io abbia confuso (addirittura!) immanenza con immanentismo (436), ma ho semplicemente usato il termine immanenza
nel senso di immanentismo, come spesso fanno
anche gli immanentisti. Perciò escludo che interiorità sia uguale ad immanenza e preferisco, appunto per
evitare confusione , parlare di presenza od interiorità della verità, anzichè di immanenza, termine
ormai compromesso. Che sia così, lo
dimostra proprio il fatto, ricordato dall’Olgiati, che per avere parlato di méthode d’immanence i
filosofi dell’azione, quelli non modernisti, si son visti accusare di
immanentismo e si son tirate addosso una sequela di obiezioni e polemiche non
di rado ingiuste e infondate. Mons. Olgiati osserva ancora: se metafisica
significa scienza della realtà in quanto
realtà, la realtà interiore io non la
posso, in un primo momento, riguardare in quanto interiore, ma solo in quanto realtà ed allora
avrà i concetti e le leggi valide per
ogni qualsiasi realtà e non solo per la
realtà interiore. A questa difficoltà il prof. S. non ha risposto (437). La risposta, invece, è data da un
buon numero di miei scritti e la dà
indirettamente lo stesso O. a 438: E
quando il pensatore d’Ippona mi dice che la
realtà è veritas ontologica, è raggio che m’invita a conoscere il Sole, mi dà un concetto che vale per ogni
realtà, anche per quella che Platone
disprezzava come fenomenica, anche per la realtà della natura . Da ultimo l’O.
torna ancora sulla questione del progresso in metafisica ; e, in fondo, nega che da S. Tommaso in poi ve ne
sia stato. Queste le sue parole: E
questo atteggiamento doveroso ci mostra,
sì, in ogni sistema ed in ogni indirizzo una conquista nuova, la quale però mon
segna necessariamente un progresso in
metafisica, ma può realizzare progressi in altri campi, sia della filosofia come della
scienza, come della storia (439). In tutti i campi, sì, si può parlare di
progresso, tranne che in metafisica, la quale si è fermata là, a san Tommaso, tutta compiuta. Non che la
metafisica escluda come tale il
progresso, perchè l’O. lo ammette fino a san
Tommaso, il quale implica e supera le conquiste platoniche ed
agostiniane (424); dopo non più. E
perchè? Perchè mai, se delle conquiste,
come quelle precedenti a S. Tommaso,
hanno potuto essere implicate e superate, a
detta dell’O., nella metafisica tomista, le conquiste di questa non
possono poi essere ulteriormente implicate e superate? Così quella verità
metafisica resta là senza progresso,
come 2+2=4. Philosophia perennis, appunto, come dicono i tomisti, mentre
noi diciamo che di perenne vi è solo il
filosofare come progressiva e sempre perenne scoperta della verità
inesauribile. Perciò noi ripetiamo all’O.
che non facciamo la glorificazione e l’esaltazione di nessuno, nè di Platone, nè di Agostino, Pascal,
Rosmini, Blondel, ma solo li
consideriamo, pur con le loro differenze (e chi
potrebbe negarle?) uniti in un animus di filosofare affine al nostro e che non è l’arimus o lo spirito
del filosofare aristotelico per il
motivo semplicissimo che è quello cristiano. Io mi sono occupato di questi
pensatori e battuto affinchè siano ben
intesi e non fraintesi, senza omettere di
rilevare quelle che a me sono sembrate e sembrano le loro manchevolezze e insufficienze o punti oscuri
da chiarire. Certo il concetto
agostiniano di veritas non è quello blondeliano di vita, ma credo che i due
concetti non si escludano: non v'è vita spirituale che non sia vita della e nella
verità oggettiva e non si penetra la verità oggettiva, che è fonte di vita spirituale, se non vivendola.
E se l’O. dice che non è così, mi scusi,
ma mi vengono subito in mente la scienza
puramente nozionale e i balletti logici ,
a costo di sentirmi ripetere che mi manca il concetto del concetto. Sotto il
titolo A conclusione d’una polemica ( Riv.
di Filos. neosc. , IV, 1950, p356-364), Mons. Olgiati ha risposto alla mia ultima nota, concludendo la
discussione (tale per me è stata e non
una polemica) che s'è svolta tra lui da
una parte e Carlini e me dall’altra, pur essendo la posizione carliniana molto distante dalla
mia. Anche da me con queste poche righe
la discussione è considerata conclusa.
La risposta dell’Olgiati non risponde affatto alla mia precedente, ma ripete cose che egli aveva già
detto ed io controbattuto. Gli avevo
posto domande precise sui rapporti tra Aristotele e San Tommaso e le loro
costruzioni metafisiche, come su quelli
tra Agostino e Tommaso. Mons. Olgiati
ripete ancora che la costruzione metafisica completa è certo diversa in
Aristotele e in San Tommaso , ma non mi
dice se, poste queste diversità, per me profonde, quella tomista si possa dire, e fino a che
punto, aristotelica; ripete che il
tomismo completa la definizione platonico-agostiniana del reale, ma non mi dice
se con questo completamento siano conservate le tesi essenzialissime per cui
l’agostinismo è tale da S. Agostino a S. Bonaventura e a Rosmini; e potrei
continuare. In compenso, oltre a
volermi insegnare alcune cose di cui,
per la verità, ho discusso in alcuni mici libri proprio alla maniera dell’Olgiati anche, se non con
la sua competenza coincidenza di idee
che l’O. non sembra gradire dichiara di aver trovato nella mia risposta la
chiave per spiegare le difficoltà che c’'impediscono d’intenderci sul concetto di realtà. Ed eccola, questa chiave:
io nasconderei sotto il mio agostinismo un concetto di realtà che non è nella linea della metafisica classica, bensì in
quella dell'innatismo razionalista (361);
e per due fittissime pagine continua a
svolgere questa sua interpretazione-chiave per concludere opponendo la concezione della r'eritas
agostiniana alla mia, che riduce la
realtà in quanto realtà al contenuto dell’idea e va a finire difilato nel fenomenismo razionalista (363). Lo dicevo io che, volente o nolente,
sarei dovuto andare nel fenomenismo , le malebolge a cui
l’O. condanna tutti quelli che non la pensano come lui. In quali miei scritti di questi ultimi anni
l’Olgiati abbia letto queste cose, lo
ignoro; il passo che riferisce dalla mia
precedente risposta va inteso all’opposto da come egli lo intende. Non confuto la sorprendente
interpretazione, come non confuterei un
critico che dicesse che io sono
spenceriano, marxista o che so io; d’altra parte, dovrei riesporre quanto ho già scritto, tra l’altro,
nel mio primo volume su S. Agostino e in
Filosofia e metafisica (*), cosa
superflua. Bisogna riconoscere che Mons. Olgiati presenta la sua interpretazione in forma molto
dubitativa: posso sbagliarmi... e sono pronto a riconoscere
eventualmente, il mio errore, del quale 4 priori se fosse tale, chiedo scusa all’egregio amico (361). Mi permetto dirgli che si è proprio sbagliato e sinceramente non riesco a
comprendere come abbia potuto
interpretare il mio concetto di realtà, classicamente agostiniano, nella linea
dell’innatismo razionalista, da me ripetutamente confutato, e credo in modo
che dovrebbe riscuotere anche
l’approvazione dell’Olgiati. Concludo
questa discussione con una battuta scherzosa,
come si conviene tra amici, anche quando non s'intendono: trà darsi che, come scrive l’Olgiati, vi sia
qualcuno che voglia fare delle nuove
scoperte nella conoscenza dell’Africa
svolgendo indagini in America; temo però, da parte mia, che egli legga alla rovescia quanto vado
scrivendo, comin Quest'opera era stata pubblicata nel lasso di
tempo tra le due ultime battute della
discussione. ciando dall’ultima sillaba dell’ultima pagina, come raccontano
facesse Pico della Mirandola nel ripetere un testo per dar prova della sua memoria. Solo così egli
può scoprire in me non so quale innatismo
o fenomenismo razionalista e farmi esplorare l’Africa in America. Il
problema della cultura e del rispetto delle culture, oggi, si presenta piuttosto come problema della crisi , profonda, della prima e di quella, minacciosa, del
rispetto delle culture. A nostro avviso, questa duplice crisi (le culture in
crisi sono sempre intolleranti ed
intransigenti: la crisi è un po’
decadenza e il pericolo del crollo rende spesso dommatici), è la conseguenza di un’altra ben più
profonda, di portata metafisica, della
crisi della trascendenza. In altri termini,
la crisi di una cultura è l’aspetto appariscente ed in questo
senso superficiale di quella dei
suoi radicali fondamenti metafisici, che
spesso si perdono di vista e non si considerano. Per esempio, quella della
cultura greca espressa dalla sofistica fu indubbiamente la crisi della metafisica
cosidetta presocratica e specialmente delle due sue più alte posizioni, di
Parmenide ed Eraclito; l’altra, rappresentata dalle filosofie dette postaristoteliche, fu crisi
della metafisica platonica ed aristotelica. La crisi del pensiero moderno,
nel suo ormai secolare sviluppo
attraverso molteplici crisi dentro la
crisi, lo è della metafisica cristiana patristico-scolastica. Se ben si osserva, le tre forme di crisi che
abbiamo addotto ad esempio, pur nelle
loro notevolissime differenze e diversità, hanno un carattere comune che
sorprende. Infatti, sia la sofistica
come le filosofie postaristoteliche e quelle dal Rinascimento in poi malgrado, com'è noto, non manchino metafisiche
della trascendenza, in questo senso dette antimoderne , reazionarie, conservatrici o
tradizionali sono posizioni filosofiche d’immanenza,
preoccupate di giustificare la realtà
fisica e quella umana, come anche il loro valore e significato, immanentisticamente, cioè da e
con se stesse, senza ricorso ad una
Realtà trascendente di ordine super fisico e super-umano. Trascendenza
significa dualità, immanenza, monismo: la prima fonda questa realtà gli
uomini e il mondo in cui vivono su di un’ altra che
trascende questo mondo; la seconda fonda questo nostro
mondo su se stesso, cioè afferma che la realtà umana e naturale si origina, si regge secondo sue
leggi immanenti, e si giustifica da sè
ed in se stessa. La posizione dell’immanenza, anche se si presenta come
metafisica, a nostro avviso, è sempre una posizione antimetafisica, oppure, se
lo si preferisce, trova il suo sviluppo
coerente ed ultimo nella negazione della metafisica, la quale, infatti,
importa, affinchè sia tale e non
pseudo-metafisica, una concezione dualistica
della realtà: questa (fisica) e
un’ altra che la trascende e la fonda. Metafisica significa trans-physica,
scienza dell’2/ di là, che, come tale,
trascende quel che è di qua ; di un lassù 44/ quale il quaggiù dipende e nel quale ha il suo fondamento, il suo significato e il
suo fine. Naturalmente noi, oggi (lo accenniamo di passaggio), dopo il Cristianesimo
e lo stesso svolgimento del pensiero moderno,
non possiamo più concepire questo al di là in senso puramente o prevalentemente
naturalistico o cosmologico, ma lo
pensiamo come l’assoluta Realtà spirituale, da cui la nostra dipende, come l’ Al di là interiore e trascendente. Al contrario, per le filosofie
immanentistiche e come tali non-metafisiche perchè non-dualistiche quella realtà che è l’uomo si fonda su se stessa, è fine a se
stessa: l’unica umana è la realtà
storica, la cui espressione più alta ed assoluta è stata, a volta a volta, identificata con
l’attività morale (moralismo) o l’artistica (estetismo), con la filosofia
(panfilosofismo) o con l’attività politica (politicismo), con quella economica
(materialismo storico), con la storia nel suo complesso (storicismo) o con le
varie culture (culturalismo); in
qualunque caso con un valore puramente umano, mondano, terrestre, laico, areligioso, finito e
relativo, che in tal modo è stato
assolutizzato. Mondanismo e areligiosità sono appunto i caratteri della cultura moderna e contemporanea in generale, che pertanto, per quel che sopra
è stato detto, si presenta come
antimetafisica ed antidualista e perciò antitrascendentista. In questi
caratteri va cercata, per noi, la causa
profonda della crisi della cultura del nostro come di tutti i tempi, che perciò è crisi della
metafisica e della trascendenza teologica; in una parola, crisi di
fondamento, di un fondamento assoluto
del pensiero, in quanto il pensiero umano, limitato e relativo per sua natura
anche se assoluto nei suoi limiti, non
può essere fondamento di se stesso, non
può autofondarsi, perchè non può autoautenticarsi: la sua autenticazione è nel
pensiero, nella Verità assoluta, che lo
fonda, gli è interiore, ma, come fondante e
assoluta, lo trascende. Una
delle conseguenze più deprecabili, perchè dannosissima dell’immanentismo della
filosofia e della cultura moderna è l’incomprensione e perciò la mancanza di
rispetto tra le varie culture. Negata la
Verità assoluta e trascendente dico una verità oggettiva che misuri il
pensiero e non ne è misurata, produca il
pensiero e non ne è prodotta, indipendente ed anteriore e non da esso creata
attraverso la ricerca € fatta la verità di un prodotto e non una
scoperta della ricerca stessa, un risultato storico e perciò contingente, non è
più possibile evitare il soggettivismo
della verità. Inconsistente la
distinzione tra io empirico » ed Io trascendentale » : l’Io trascendentale è sempre il pensiero
dell’ordine naturale ed umano (storico)
e perciò mutevole e finito e, come tale, insufficiente a fondare se stesso:
considerarlo ingiustificatamente fondamento di se stesso, autosufficiente, è
privarlo del suo fondamento assoluto: il soggettivismo e il relativismo
risultano ugualmente inevitabili. L’aforisma protagoreo ( l’uomo è la misura di
tutte le cose ») inteso, empiricamente, nel senso dell’uomo singolo e
particolare, o idealisticamente, nel
senso dell’umanità in universale, non
perde il suo essenziale soggettivismo, perchè è sempre l’assolutizzazione
fittizia ed arbitraria di un relativo. Di qui il carattere prevalentemente soggettivo delle
dottrine, la pretesa di ciascuna
d’identificarsi con la verità assoluta, il porsi di ogni punto di vista, non come una prospettiva
parziale, ma come l’adeguazione della
verità totale. Noi non diciamo che i valori
relativi e i punti di vista parziali non abbiano alcun valore, ma diciamo che, solo
arbitrariamente e per irrazionale estrapolazione, possono essere identificati
ciascuno con il valore o con la verità
assoluta. In tal caso il rispetto che si
deve a ciascun valore si trasforma, una volta che lo si assolutizza in fanatismo intollerante.
Impossibili, per conseguenza, la cooperazione delle culture e il loro rispetto
reciproco come l’avvicinamento, perchè manca il fondamento comune di una verità oggettiva, la sola che
possa rendere possibile, pur nella
diversità dei vari punti di vista, l’incontro
di esse, il loro interpretarsi e penetrarsi vicendevolmente, il loro cooperare fruttuosamente in vista
dell’unica verità. Si è venuta a creare
una miriade di culture, ciascuna stato
a sè , sovrana, che perseguita l’altra,
e la esclude. Ciascun pensatore identifica la verità con se stesso, si fa egli
stesso la verità e da questa condizione
di pontefice massimo lancia scomuniche contro l’ eretico che la pensa diversamente. Così siamo diventati tutti pontefici e tutti
eretici nello stesso tempo: dommatismo
assoluto e insieme assoluto scetticismo.
Quando si nega l’esistenza di una verità assoluta e non è tale se non è trascendente il nostro
pensiero non c'è più possibilità d’intendersi perchè
manca un punto di riferimento assoluto
da noi indipendente anche se a noi
interiore, e non vi è più rispetto e tolleranza. È una questione di umiltà:
sentirci non i creatori della verità, ma
gli umili servitori di essa, legati dal comune amore per la verità, fatto di rispetto e obbedienza. Solo
in questo amore comune, unico stimolante
ed unico fine, le culture possono
trovare il loro punto d'incontro, la loro compenetrazione, come tanti punti di vista sollecitati dalla
stessa aspirazione, tendente
all’identico scopo. Vi è al fondo un atto di moralità radicale, metafisico
anch’esso, ma non vi è moralità
autentica dell’uomo (e dunque anche della cultura che è mondo umano) senza trascendenza teologica,
senza metafisica nel senso di sopra precisato e chiarito. Oltre che di umiltà, è anche questione di onestà,
chiarezza filosofica: riconoscere che i
valori metafisici e la metafisica come tale
non possono essere frammenti di esperienza umana per se stessi non assoluti, elevati al grado
dell’assoluto e con esso identificabili.
In questo senso, pur conservando la profonda
umanità della filosofia e della verità, è necessario correggere ogni forma di pseudo-metafisica
antropomorfica e chiamare le cose con il
loro nome: relativo quel che è relativo, e asso
luto quel che è assoluto. Non vi
è dubbio che cultura è la capacità dell’uomo
alla libera attività: dove manca questa libertà non vi è cultura; decade
o isterilisce. Essa è il frutto della libertà spirituale: la schiavitù, come
negazione della libertà, trova la sua
condanna nella sua incultura . Perciò,
in questo senso, è vero che il progresso
della cultura è progresso morale, in
quanto la libertà spirituale sta a fondamento dell’uno e dell’altro; ma
è anche vero che, sulla base dell’immanenza,
non vi è libertà e dunque non più
moralità e cultura in quanto si limita, usandogli violenza, il fine
dell’uomo all’angusto spazio terreno e al breve tempo storico (tutto lo spazio è sempre angusto e tutto il tempo è
sempre breve), snaturando le sue
aspirazioni fondamentali, reali, naturali
e sempre attuali; e in quanto si viene a negare il fondamento stesso della libertà, che è autentica nel
riconoscimento dei suoi limiti (della trascendenza che la fonda e garantisce)
e non nell’illimitatezza indefinibile
dell’arbitrio, in cui tutto diventa
lecito, perchè manca il limite della trascendenza, come avviene in ogni filosofia
immanentista. Di qui possiamo trarre
due ordini di considerazioni: Non vi è cultura (perchè decade in forme decadentistiche,
bizantine ed infeconde) se tutto è limitato al tempo e alla storia immanentismo e umanesimo assoluti e come tali astratti -; se un misticismo eccessivo e
perciò nihilista cancella il tempo e
nega la storia (apocalitticismo). In altri
termini, non vi è cultura dove tutto è tempo (negazione dell'eterno o di
Dio) o dove si nega il tempo negazione
della storia e dei valori umani. Per
conseguenza, la condizione della cultura
risulta essere ancora la concezione dualistica
di questo mondo e dell’ altro , del mondo dell’uomo e del Regno di Dio. Dove e ogni qualvolta si
rompe questo equilibrio, vien meno la
condizione che rende possibile la
cultura e le sue forme. La cultura moderna ha cercato di abolire l’ultratemporale (il metastorico) ed
ha segnato con ciò la decadenza della
cultura occidentale, diventata culturalismo soggettivo, caotico e ormai
infecondo. Per un motivo opposto non vi
è stata e non vi è una cultura russa: non vi
è stata per la duplice tendenza apocalittica e nihilista (prima prevalentemente religiosa ed oggi
assolutamente atea), che porta
fatalmente a cancellare la storia e il tempo. Chi è assorbito nel problema finale del mondo,
storico o metastorico che sia, vede nella cultura un ostacolo e non una
zia attraverso cui si conquista il fine
ultraterreno, si purifica e si riscatta
l’attività mondana dello spirito. La Russia, in
questo senso, quella religiosa di Dostoewskij o quella atea di Stalin, è l’anti-Europa, l’anti-Occidente;
nell’uno e nell’altro caso un misticismo
apocalittico, che nega il mondo umano.
L’Occidente moderno pecca dell’eccesso opposto: si dimostra soddisfatto della sola cultura, risolve
l’essenza della vita spirituale nella storia: la cultura è la salvezza. Oggi
quest’appagamento mondano -immanentista è entrato in crisi e perciò l'Occidente è malcontento, isterico,
decadente, sofistico. Gli è rimasto un simbolismo della cultura, senza una vera cultura reale, ontologica, metafisica.
Ciò è in certo senso l’autocondanna
dell’immanentismo, anima del mondo moderno, e l’indizio dell’ansia di escire
dalla zona mediocre di una cultura che si è sganciata dall’eterno
(da Dio) per tuffarsi tutta nella
storia, cioè per ricadere pesantemente su
se stessa, afflosciandosi e dissolvendosi, senza possibilità di slanci metafisici. L’Occidente moderno ha
voluto risolvere l’eterno nel tempo,
l’essere nel divenire, la trascendenza
nell’immanenza, il metastorico nella storicità; J’Oriente russo, anticulturalistico, ha preteso negare il
tempo, la storia, l’uomo in una eternità
astratta, in un misticismo religioso
antiumano, sia esso di una religiosità teologica o atea. Il dualismo ontologico è distrutto: assoluto
umanesimo è negazione di Dio e perciò anche dell’uomo; assoluto teologismo è negazione dell’uomo e perciò anche di Dio:
due forme di monismo opposte ma
approdanti allo stesso risultato.
Entrambe sono atee e inumane. L'altra considerazione, non meno rilevante
della prima, riguarda la struttura
radicale di quella che comunemente si chiama civiltà occidentale ; radicale perchè sta proprio alla radice, alle sue
origini greco-cristiane. La concezione
greca della vita, quella della migliore ed autentica grecità, è dualistica: vi
è una realtà fisica ed una realtà
metafisica che trascende la prima, questo mondo e
l’ altro. Platone e il platonismo sono l’espressione più alta e significativa del mondo classico.
Dualistica è anche la concezione
giuridica di Roma antica: il cittadino e lo Stato, senza che l’uno neghi l’altro ed entrambi
reali nel loro intrinseco rapporto. Dualistica è ancora la concezione cristiana:
il creato e il Creatore, il mondo e Dio, il mondo dell’uomo e il Regno di Dio, questa vita e l’ altra , anzi questa vita per l’altra, l’uomo per Dio.
Concezione dualistica, non solo, ma anche gerarchica: il quaggiù guidato, orientato, subordinato al lassù : due realtà,
l'una dipendente dall’altra. Ciò spiega perchè la Rivelazione cristiana, pur nella sua assoluta originalità rispetto
alla concezione greca e romana della
vita, abbia visto, in un primo tempo,
nel pensiero greco il suo precedente e la sua base naturale e, in un secondo tempo, abbia potuto
realizzare la grandiosa trasposizione in termini di filosofia cristiana prima
del platonismo (Agostino) e poi
dell’aristotelismo (S. Tommaso); così
pure ha potuto accogliere nel suo seno il meglio della concezione giuridica di Roma. Il fondamento
dualistico, comune alla verità razionale e alla Verità rivelata, rese possibile l’incontro e la loro continuità.
Grecità, Romanità e Cristianesimo sono i
tre elementi costitutivi della civiltà
occidentale (europea); dunque la struttura autentica, la fisionomia
essenziale di essa è dualistica. L'esigenza immanentistica non le è propria,
anche se non completamente estranea.
Essa è tipica della civiltà germanica, che non è propriamente una forma
di civiltà occidentale: la Germania non
è mai stata profondamente penetrata, fino a farsene la struttura della
sua civiltà, dallo spirito della grecità, nè da quello della romanità e del Cristianesimo; infatti,
è la terra del monismo e del panteismo:
monistiche e panteistiche la sua
filosofia, la sua mistica, la sua letteratura. L’immanentismo, caratteristico del pensiero moderno e
contemporaneo, è penetrato anche nella civiltà occidentale, fortemente influenzata
dalla cultura tedesca, ne ha alterato la struttura, l’ha corrotta e messa in crisi; ha sostituito alla
trascendenza l’immanenza, al dualismo il monismo, ha gradualmente abolito Dio: Dio è morto , conclude Nietzsche, e
l’abbiamo ucciso noi . In un primo tempo
lo ha surrogato con l’uomo, capovolgendo
i termini del dogma cristologico: non Dio
Uomo, ma l’Uomo-Dio: ha assolutizzato la ragione (Hegel) o uno dei tanti valori umani: l’arte, la
morale, l'economia, la politica ecc.; in
un secondo tempo, ai nostri giorni, peduta la fiducia nell’assolutezza dei
valori umani (com’era inevitabile una
volta negata la concezione metafisica dualistica) senza riacquistare la
certezza dell’esistenza dell’Assoluto trascendente, ha perduto ogni fiducia ed
ha concluso che non esistono valori, dato che non vi è di essi un fondamento assoluto nè divino nè umano.
Fatalmente l’immanentismo, perduto Dio, doveva perdere anche il concetto dell’uomo come persona (il nazismo o altre
forme politiche simili). I due elementi
fondamentali della civiltà occidentale
risultano negati e così con essi la civiltà che avevano prodotto e
fecondato . Di derivazione germanica,
immanentista e non della genuina civiltà occidentale è il bolscevismo russo. Il cosiddetto marxismo
o materialismo dialettico o storico, importato in Russia, ha subìto una
notevole trasformazione a contatto con
l’incultura di quel Paese, cioè con l’opinione negativa che gli scrittori più
qualificati avevano sempre avuto della
cultura, come di qualcosa di mediocre, di un
ostacolo alla realizzazione dell’ultramondanismo e alla aspettazione del
fine assoluto. Il misticismo russo, con il bolscevismo, da religioso si è fatto
ateo, il fine assoluto dal cielo si è
spostato in terra, ma la sua tendenza apocalittica e nihilista è rimasta intatta. In un certo
senso il bolscevismo è la coerenza spietata e brutale dell’immanentismo: è l’immanentismo fino in fondo. Se non vi è un al
di là e se vi è solo un quaggiù , se non c’èdualità e trascendenza,
l’assolutamente assoluto è il quaggiù ,
tanto assoluto da costituire il fine ultimo, di fronte al quale ogni cultura (in prima linea quella occidentale,
dualistica e perciò nemica), ogni forma
di vita diversa da quella della nuova Dico
di passaggio che una cultura, la quale esprime una concezione immanentistica della vita, è condannata,
proprio perchè manca della trascendenza, ad identificarsi con la politicità nel senso più vasto del termine e dunque a materializzarsi e a sboccare nella
violenza, che è la negazione della
libertà e perciò della cultura. apocalisse comunista, ogni uomo ed ogni
valore devono essere sacrificati,
annullati. Così il nihilismo religioso russo, l’ incultura e l’ antistoria , che negava il mondo rispetto
al fine (Dio), oggi, sotto l’influenza
dell’immanentismo (della sua antitesi),
si è fatto immanentista, restando sempre nihilismo a carattere mistico;
assolutizza il mondo al punto da negarlo
come mondo, da proiettarlo in un fine assoluto
che è come un mondo al di là di quello storico e di questo negatore, nega la cultura da cui è nato nella
sua nuova forma di incultura . L'immanentismo germanico aveva
concluso Dio è morto , prima che con il Nietzsche con
lo Hegel, il cui Dio è il Gost im
Werden, il Dio che si fa, e Marx deriva da Hegel; se Dio è morto , argomenta il bolscevismo,
anche l’uomo è morto , è nulla rispetto
al suo fine, l’Uomo assoluto di domani,
l’uomo del millenarismo ateo. Ci sembra
ormai evidente che l’immanentismo, germanico e russo (pur così diversi: l’uno
nega Dio per il mondo e l’altro lo
stesso mondo per un mondo nuovo di un domani assoluto), per il fatto che è
immanentismo, è la minaccia più grave, la morte, della civiltà occidentale, la
cui radicale struttura, come abbiamo
detto, è la dualità, la trascendenza, la metafisica nel senso vero del termine.
Naturalmente la crisi ci ha pure insegnato qualcosa: che la trascendenza è una verità interiore e non di
ordine esterno e naturalistico
(l’interiorità della verità è quanto va conservato dell’immanentismo, ma
l’interiorità non è immanenza) e che,
d’altra parte, essa non va mondanizzata o annacquata in un umanesimo troppo umano o in un
culturalismo che è adorazione della
cultura; ed è quel che ha di positivo 1° incultura russa. Non dobbiamo respingere questi insegnamenti,
ma farli nostri e trasferirli nel lavoro di recupero della civiltà occidentale, la quale può
superare la crisi e salvarsi soltanto
con la restaurazione di quella metafisica
dualistica o della trascendenza (e la fedeltà ad essa) che costituisce
la sua essenza primale. O tale restaurazione e fedeltà saranno il piano Marshall , ben più importante di
quello economico, della cultura
occidentale, o anche per noi,
inevitabilmente, Dio morirà e l’uomo sarà per sempre seppellito. Sarà
allora possibile realizzare il più olimpico rispetto delle culture per il
semplice motivo che nel mondo non vi
sarà più cultura. Avrei dovuto pur dire qualcosa sulla cultura anglosassone, ma
il discorso sarebbe stato
necessariamente troppo lungo e forse più scandaloso di quello
che qui ho fatto.La frase, cultura e metafisica, può sembrare curioso; e
certo, di primo acchito, non si vede un
nesso preciso tra cultura € metafisica . Avvertiamo subito che qui il
termine metafisica è usato nel suo significato più pieno e
precisamente di ricerca del principio primo e del fine ultimo di ciò che è in quanto è. Per conseguenza, tutto
quanto è nell'ordine umano e naturale involge il problema metafisico, in quanto implica quello del suo principio e
della sua finalità, dove risiede il suo significato assoluto. Ci sembra, ‘dunque, manifesto che, in questo senso, vi
sia un problema metafisico della
cultura, come di ogni altra forma di attività dello spirito umano. Vi è per l’uomo un problema massimo che
tutti gli altri condiziona, orienta ed
unifica: quello che è l’uomo a se
stesso, il problema di sè che l’uomo pone a se ste sso: della sua destinazione, del senso totale, integrale
ed assoluto della sua esistenza. Questo
problema, sottostante anche se im:
plicitamente ed inconsapevolmente ad ogni ricerca, costituisce l’umanità
profonda di tutto ciò che è umano, l’umanità essenziale della scienza e
dell’arte, della attività conoscitiva
come di quella morale ecc.; dunque anche della
cultura. La sua presenza conferisce ad ogni atto umano un valore di immortalità: ne fa un momento, con
gli altri concorrente e solidale, del
processo di conquista che l’uomo fa di
se stesso nella realizzazione della sua finalità trascendente il processo
stesso. In questo senso tutto ciò che è, è
vero ed è valido di una verità e di una validità sua, ma che sporge e tende verso il Valore e la Verità
che sono il suo fondamento e il suo
fine, e dunque il suo significato ultimo o
metafisico. Il tempo è riscattato nel suo andare all’eterno e, col tempo, ogni opera e pensiero
dell’uomo. E la cultura è opera
dell’uomo; ma egli non ne intende il significato profondo fino a quando non la giudica per il
contributo che essa porta alla soluzione
del problema della sua verità di uomo,
che è presente nella stessa cultura, perchè dove vi è pensiero ed opera di uomini vi è quel
problema, così connaturale ed essenziale allo spirito umano. Una cultura fine a se stessa la cultura per la cultura non è
più tale, ma culturalismo: superstizione e mondana idolatria, mito e non
realtà; è i! fazto, non il valore della
cultura, che, se si limita al valore o al fine di se stessa, si assolutizza e con ciò stesso si nega nella
sua validità essenziale. Opera dell’uomo, la cultura porta, ad essa
immanente, il problema metafisico
dell’uomo stesso. Cioè: è l’uomo principio e fine di se stesso? Rispondere
affermativamente (immanentismo) è assolutizzare l’uomo, divinizzarlo; è
negarlo, dire quello che non è; è
definire il suo non-essere e negare il
suo essere. Rispondere, invece, che l’uomo è causa di tutto ciò che pensa e fa e che, in ciò che pensa e
fa, attua come suo fine, tutto l’uomo
che è, ma che non è principio primo e
incondizionato di ciò che pensa e fa (del suo essere) e che, realizzando tutto l’uomo che è, attua
un fine che non è fine a se stesso, ma
la condizione affinchè possa realizzare
la sua finalità suprema trascendente l’ordine del tempo, è dire la verità metafisica dell’uomo, cioè
rispondere adeguatamente al problema non solo dell’essere o della verità
umana, ma anche a quello dell’Essere o
della Verità che è fondamento e finalità trascendente del suo essere e della
sua verità. Assolutizzare l’uomo, fare di lui il principio e il fine della sua intelligibilità metafisica, è
sopprimere il problema metafisico e con esso ridurre, contro l’ordine del pensiero
e della natura umana in generale e
dunque con un atto irrazionale il problema del suo destino e del significato
assoluto della sua vita al problema del suo destino contingente e della sua
significanza storica. Ma così non si risolve il problema-uomo, ma si immagina
il mito-uomo e in questa miticità ogni
pensiero ed opera sua son mito. Mito
anche la cultura, funesto, in quanto assolutizzata e posta finalità di
sè a se stessa, pura temporalità, ogni forma di cultura si pone autonoma
incondizionata assoluta e nega le altre:
la collaborazione delle culture si risolve nel conflitto e nell’incomprensione
tra le varie culture. La superstizione della cultura, principio e fine a se
stessa ed assoluta come l’uomo che ne è
l’artefice, porta inevitabilmente al
fanatismo e con ciò all’urto tra le culture, all’incomunicabilità: cessa
il colloquio. Questa conseguenza è
fatale: negare la realtà trascendente del Principio assoluto fondante l’uomo ed
ogni ente e dell’uomo e di ogni ente
finalità suprema cioè il problema primo
e ultimo della metafisica, connaturale alla
realtà umana è negare l’uomo ed
ogni cosa e perciò ogni pensiero ed
opera sua; è degradare dall’ordine della ragione a quello della irrazionalità passionale;
negare l’origine divina dell’uomo e la sua finalità soprannaturale e con
ciò stesso fare della realtà spirituale
una cosa tra le cose, fuori del suo
ordine, contro il suo ordine, contro ogni ordine. L’uomo divinizzato è feticcio; ed è
primitivismo raffinato e sottile direi sofisticato ogni forma d’immanentismo; è rinnovata barbarie di fanatici ed idolatri
ogni forma di cultura, per raffinata e
scaltrita, che di quell’immanentismo è
espressione. L’uomo rinunzia a conoscere se stesso, a sapere la verità del suo
esistere, del suo pensare e volere, e la
cultura si fa l’espressione di questa colpevole inconsapevolezza. Da quanto abbiamo detto risulta chiaro che,
dal nostro punto di vista, non basta dire che cosa è cultura è
ancora problema di conoscenza ma
è necessario, definitone il concetto, indagare sulla sua verità profonda,
cioè dire qual’è il suo senso ultimo, il
fondamento e il fine assoluto; ed è
questo il problema metafisico della cultura.
Ma è evidente che la soluzione di questo problema può essere data ed è data dalla soluzione del
problema-uomo: risolto il problema del principio
e del fine dell’uomo è implicitamente
risolto l’altro del principio e del fine di
tutto ciò che è umano, conformemente, univocamente, alla soluzione del primo problema. Per conseguenza,
il senso o la verità di tutto ciò che è
umano è identico al senso o alla verità
dell’ uomo; e se l’uomo ha il suo senso o la
sua verità nel Principio che lo fonda, lo fa essere, orienta e stimola e in esso pure il suo fine
assoluto, consegue che ogni cosa
dell’uomo ha senso e verità in quel Principio e
in quel Fine. Il Vico su questo
punto vide esattissimo: la verità della
storia (del mondo umano) trascende la storia. Vi è un duplice problema
che investe lo stesso oggetto d’indagine:
dell’accertamento del fatto o dell’avvenimento e dell’inveramento di
esso: accertare è constatare e documentare; inverare è spiegarne il
significato, scire per causas. Ora l’uomo
è causa della storia e perciò di essa ha scienza, ma non è principio di sè a se stesso; dunque, come
egli trova il senso (la verità) di sè al
di là di se stesso, nel Principio assoluto
o Dio che lo crea uomo, così la storia, che è la sua opera o il suo farsi uomo, ha il suo senso ultimo (la
sua verità) al di là di essa, al di là
del tempo e di ogni tempo, nell’ordine
eterno che la fonda e la guida ed essa imperfettamente riproduce
affinchè l’uomo, attraverso la storia stessa ma oltre la storia, realizzi il suo destino, da cui tutto
trae senso, superstorico ed extratemporale. In questa metafisicità
immanente in ogni pensiero ed opera
umana, che è la metafisicità immanente e
naturale dell’uomo nella pienezza della sua realtà spirituale, è anche il senso
profondo della cultura. Perciò noi nel
segnare i limiti del culturalismo (la cultura
fine a se stessa ed essa stessa il tutto) e nel denunziare la sua insignificanza sostanziale sono i limiti di un umanesimo che fa della
cultura, dell’uomo e della sua opera in
generale l’assoluto dell’uomo stesso, tutta la sua realtà e finalità richiamiamo l’attenzione sulla presenza del
problema metafisico al problema della cultura (quel problema è presente
all'uomo in quanto tale e in ogni forma
della sua attività) e concludiamo che non è possibile porre il problema della cultura e del suo
significato senza porre l’altro del
significato dell’uomo in tutta la sua realtà, che è, abbiamo visto, il problema metafisico nel
senso che noi diamo a questa parola,
cioè della intelligibilità suprema della realtà umana e dunque anche della
cultura, che è opera dell’uomo. Della
nostra cultura attuale, nel suo ultimo libro (L'uomo e la cultura, Firenze, La Nuova Italia , 1947), Huizinga scrive: più ricca e possente che non mai, ma le manca
un genuino stile, le manca una fede
unitaria, le manca l’intima fiducia
della sua propria durevolezza, le manca la misura della sua verità, le manca, infine,
l’armonia, la dignità e la divina quiete
. Vi è del vero e in duplice senso in
questo giudizio: 4) è vero che la nostra cultura è ricca, ricchissima di motivi, interessante anche nei
suoi aspetti più sconcertanti, nelle sue
contraddizioni, nella sua consapevolezza critica esasperata, nel suo stesso
scetticismo; interessante soprattutto
perchè ricca di esperienza di vita, per cui nelle
sue manifestazioni migliori non è
pura esperienza culturalistica, ma vita vissuta che si esprime in forme
culturali; 5) ma è altrettanto vero che
le manca una norma interiore,
costitutiva della sua struttura, quasi la sua interna e salda armatura. Dell’esistenza priva di un senso
assoluto e di una finalità suprema e perciò dispersa, frammentaria e come sparpagliata
la cultura ripete il frammentarismo e
l’insignificanza, la mancanza di fede e della misura della sua verità. Privata la vita della sua norma, cioè
del suo essere e del suo consistere,
anche la cultura è privata di consistenza,
mancante della norma che la orienta ed unifica, la fa convergente verso
un fine, la cui realizzazione è la sua verità,
che, misurandola, le dà significato e scopo, appunto perchè essa può commisurarsi fiduciosa alla verità
che le è presente, ma che in essa non si esaurisce. Quando la vita esprime la
sua verità, il suo essere, la verità e l’essere che la radicano nella Verità e
nell’Essere, anche la cultura è espressione essenziale e sostanziosa, unitaria
e vera, della verità e dell’essere della
vita; anche essa si sostanzia della stessa intelligibilità metafisica che
chiarifica il destino dell’uomo e il
senso della storia. Il Medioevo
espresse meravigliosamente questo ideale di
vita e di cultura: consapevolezza, in un’armonica ed inscindibile
simbiosi di ragione e fede, del destino dell’uomo come fiduciosa realizzazione di una finalità
trascendente, come convergenza e
solidarietà in Dio di tutte le energie della vita nel loro dinamismo integrale. Il migliore
Rinascimento, senza negare questa concezione cristiana dell’esistenza, espresse
il suo ideale di cultura nella serena ed
armoniosa operosità umana tesa a
realizzare unitariamente i valori della bellezza, della dignità della persona, della scienza
come conquista del mondo, per cui quel
di divino che l’uomo e la natura
esprimono è come riflesso, guida, richiamo e testimonianza della loro origine da Dio e della loro
finalità in Lui. Il pensiero moderno, sviluppando fermenti ed elementi
impliciti nello stesso Rinascimento, ha
rotto questa armonia e del mondo umano e naturale ha fatto tutta la realtà,
avente in se stessa il suo principio e
il suo fine e perciò autosufficiente :
fondamento di sè a se stessa; orgogliosa fede nelle possibilità
dell’uomo, artefice incondizionato del proprio destino e del suo mondo. Per circa tre secoli la
cultura occidentale ha vissuto di questa fede, perdendo gradatamente il
senso della trascendenza e la coscienza
religiosa per conquistare quello della
immanenza e su di esso costruire, al posto della religione il cui oggetto è Dio, la
superstizione dell’uomo assoluto principio e fine di se stesso. Così l’uomo è
stato adeguato alla realtà naturale e chiuso nella finitezza dell’esperienza:
costretto a porsi esso stesso, come ragione o pensiero, principio e fine metafisico del reale, ha
finito per perdere il vero concetto di
metafisica e rinunziare alla metafisica stessa.
La fede superba ed orgogliosa nelle sue possibilità, attraverso un
processo di autocritica, si è gradualmente sfaldata; in tal modo egli è rimasto privo di una fede e
di un destino trascendente, privo di una fede e di un destino immanente.
La perdita della metafisica si è
conclusa fatalmente nella perdita della realtà e della verità dell’uomo e, per
conseguenza, nella perdita della fede e
della serietà della cultura. Invano si
è cercato trovare la verità dell’uomo e delia
cultura in uno dei valori mondani arbitrariamente assolutizzato
(nell’arte, nella scienza, nella storia ecc.); invano il materialismo storico ultima e legittima conseguenza dell'immanentismo
cerca di trovare l’unità e la verità
dell’uomo e della cultura nel valore economico-politico-sociale. Quella che oggi si chiama la crisi dell’uomo
e della cultura è la conseguenza del
fallimento delle precedenti forme culturali a carattere immanentistico: non è
in crisi una forma culturale
immanentista, questa o quella, ma è in crisi l’immanentismo come tale. Perciò
qualunque forma culturale immanentista, espressione della fede orgogliosa e
superstiziosa nei poteri dell’uomo, è
essa stessa espressione della crisi e
non di essa risolutrice; è ancora, anche se del presente, espressione di una cultura del passato, che
la crisi del presente, che è la sua crisi, nel suo travaglio si sforza di oltrepassare
perchè rivelatasi fallace. Similmente l’uomo e la cultura non possono rinvenire la loro verità
nel mito funesto . ed esclusivista del
nazionalismo, dissolvente dei concetti stessi di uomo e cultura e fatalmente
avviato all’urto delle culture
nazionaliste, cioè alla guerra. La Kultur tedesca dell’immediato passato
e la cultura sovietica dell’oscuro presente
ci sono di ammaestramento e di ammonimento. Una conclusione scende legittima ed
inoppugnabile dalle nostre premesse ed
argomentazioni: l’uomo non è il creatore della sua verità nè l’artefice del suo
destino; la verità e il destino
dell’uomo trascendono il mondo umano e naturale, traggono origine e realizzano
il loro fine al di là e al di sopra di
esso. Solo in Dio l’uomo autentica la verità
della sua vita; solo nella trascendenza teologica rinviene l’intelligibilità metafisica del suo essere:
qui la sua unità, la verità della verità
che egli è. Solo esprimendo questa realtà
umana la cultura può ritrovare unità e fede, verità e consistenza, cioè
la sua norma e il suo significato.
Eliot ha scritto che una cultura presuppone una religione ed è vera se è vera la religione su cui si
fonda. Ora non vi è religione senza Dio:
le religioni del progresso, della
scienza, dell’umanità, della libertà, del collettivismo ecc., adorano un Dio che non è tale e perciò son
forme di idolatria: il mondo moderno è idolatra, di religioni false e dunque di false forme di cultura. Religione è
fede nell’Essere trascendente e creatore, principio e fine di ogni cosa esistente. Non solo per l'Occidente, ma per
ogni uomo che ne viene a contatto,
questa religione e questa fede non possono non essere che la religione e la
fede cristiane, perchè il Cristianesimo
è l’unica religione vera; dunque solo una
cultura cristiana è vera. E se la cultura occidentale ha ancora una sua
verità e, tra tanti segni di sbandamento e
disintegrazione, riesce ad avere una sua certa unità e a valere più di altre forme culturali, lo si
deve al fatto innegabile che, pur tra tanto laicismo, è sempre una cultura cristiana. Ancora oggi i popoli
dell’Occidente respirano e vivono in un’atmosfera cristiana, anche se viziata e
corrotta. Nessuno potrebbe parlare di persona , libertà , amore e carità se il Cristianesimo non avesse
insegnato questi concetti e se ancora
oggi, pur tra tanti travisamenti, non
fossero presenti alla coscienza occidentale.
A questo punto ci sembra che si presenti un dilemma perentorio: o la cultura esprime la verità
dell’uomo, quella da noi sopra indicata: il senso assoluto o la intellegibilità
metafisica del suo essere, ed ha la sua verità; o ne è l’espressione sofisticata e allora,
espressione di una falsificazione della natura umana, è altrettanto falsa. Ma
una cultura che esprime la verità
dell’uomo è sempre conforme alla verità
cristiana, in quanto la verità dell’uomo è in Dio e nel Dio del Cristianesimo. La cultura è sempre
l’espressione più alta della civilità e
non c'è civiltà più alta di quella cristiana:
quanto non è cristiano, dopo il Cristianesimo, è incivile. Come segno di una civiltà non esteriore la
cultura ha una funzione altissima e
dinamica: informare dei suoi valori il
mondo che necessariamente è fuori di essa; è questa la sua finalità sociale. Una cultura sociale in
senso diverso, nel senso del
collettivismo marxista, è la cultura dell’incultura, senza senso. L'espressione filosofia della storia e
naturalmente anche il problema è recente: che io sappia, per primo, la usò il Voltaire e, successivamente, lo
Herder la introdusse in Germania. Ha dunque appena due secoli di vita; e di vita molto contrastata. Non è senza significato che si sia
cominciato a pensare ad una filosofia
della storia nell’età dell’Illuminismo,
considerata comunemente come l’età dell’anti-storia; forse proprio perchè antistorico, per primo
l’Illuminismo pensò ad una filosofia
della storia. Il secolo dei lumi aveva
un suo programma da realizzare: il regno dell’uomo sulla terra, da instaurare con la sola ragione,
autonoma, assoluta, cioè indipendente da qualsiasi principio superrazionale,
trascendente l’ordine della natura umana e fisica. Come la scienza si era costituita autonoma, così
ogni altra forma di attività (il
diritto, la morale, la politica, ecc.) e ogni
altro settore dello scibile dovevano costituirsi separati dalla religione e, in generale, da ogni teologia,
il cui contenuto non si risolvesse
perfettamente nell’ambito dell’umana ragione. Si pensò dunque a una filosofia
della storia , cioè a una spiegazione
puramente razionale del cosmo umano, a
una sistemazione di esso sulla base di un certo
numero di princìpi razionali direttivi ed esplicativi. Non aveva forse l’ oscurantismo medioevale accettato la concezione agostiniana
della storia, secondo le grandi e maestose linee del De civitate Dei? Ebbene,
questa di Agostino e del pensiero
cristiano posteriore non è filosofia ,
ma teologia della storia, cioè la storia del mondo
umano interpretata e spiegata sui dati
della Rivelazione, per cui la storia terrena trova la sua spiegazione e il suo significato
non in se stessa, ma nella storia sacra e nell’ordine soprannaturale. Anche la
storia bisognava separare dalla
religione; dunque non la storia spiegata teologicamente (super-razionalmente), ma filosoficamente,
dentro l’ordine della ragione. Ma si
possono ricondurre i fenomeni storici ad
un piccolo numero di princìpi direttivi essenziali ed irriducibili? Si può costruire il sistema della storia? Lo Illuminismo non sembra che sia stato di
questa opinione e: o condannò la storia
mondo oscuro ed irrazionale delle passioni,
o non oltrepassò la concezione di essa come ordine cronologico (d’Alembert).
Non così in Germania dove, a cominciare
dallo Herder, fin dagli albori del romanticismo, la filosofia della storia ebbe ben altra fortuna ed elaborazione. Nacquero in quel periodo le sue
sorelle, le molte filosofie : della religione, del diritto,
dell’arte ed ultima, col d’Ampère, delle
scienze. È evidente che proprio la
nascita di tante filosofie segna l’agonia e poi la morte, anche se apparente e transitoria, della filosofia
. Se la storia, la religione, il
diritto, l’arte, le scienze, ecc. hanno
ciascuna una sua filosofia, che resta alla filosofia come suo oggetto proprio e problema irriducibile? Il
sorgere di tutte ueste filosofie è
l’effetto e insieme la causa della crisi della filosofia, della sua dissoluzione.
Evidentemente per filosofia cominciava
ad intendersi qualcosa di ben diverso da
prima. Infatti basta porsi il problema
di una filosofia della storia per ritenere almeno possibile una scienza del
particolare, del singolo, del contingente. Tale possibilità è esclusa dalla filosofia classica, greca e
cristiana; perciò il pensiero antico e quello cristiano non si posero mai il
problema di una filosofia della storia, quantunque il Cristianesimo abbia posto
in prima linea proprio il problema della
storia. Evidentemente grecità e Cristianesimo hanno un concetto di
filosofia ed un concetto di storia tali da escludere che vi possa essere filosofia che sia filosofia
della storia e storia che possa essere
tutta esplicata con e in un sistema di principi, di leggi, di categorie. Per
Aristotele, infatti, la filosofia è
sapere razionale o scienza (Mez. I, 1; 993 b, 21) avente per oggetto l’universale e per strumento la ragione;
la storia è invece ammasso di documenti,
pura raccolta generale di fatti da
distinguere dal lavoro di spiegazione o di sistemazione e dai trattati
teoretici. Phslosophia individua dimittit
, dice F. Bacone (De dignitate et de aug. sc.; II, I, 4) e come tale essa si oppone alla storia
che proprie individuorum est, quae circumscribuntur loco
et tempore (ivi, II, 1, 2). La storia è
conoscenza dell’individuale ed ha come
strumento essenziale la memoria; la filosofia lo è dell’universale ed ha come
strumento specifico la ragione; dunque la filosofia si oppone alla storia; una
filosofia della storia è una
contraddizione nei termini, in quanto si assegna alla filosofia un oggetto che non le è
proprio, è l’opposto (l’individuale) del
suo (l’universale), e si applica il suo strumento (la ragione) ad un oggetto
per il quale è adatto un altro (la
memoria). La filosofia, continua Bacone (:24, II, I, 4), neque impressiones primas
individuorum, sed noziones ab illis abstractas, complectitur ; la storia
invece è proprio conoscenza delle impressiones primas individuorum . Dunque il
dato storico e il dato teorico, storia e
teoria, si oppongono: la prima ha per oggetto i dati di fatto nella loro singolarità, particolarità e
contingenza; l’altra le relazioni costanti e generali, su cui si applica la ragione.
Sono possibili relazioni costanti e generali nei fatti storici? È possibile una scienza della
storia? Alcuni moderni hanno parlato e
parlano ancora di filosofia della storia, ma evidentemente intendono storia e
filosofia in maniera, come dicono, moderna .
Il pensiero moderno, a differenza di quello greco e medioevale,
manifesta uno spiccato e prevalente interesse per il particolare, il concreto: per il concreto
fisico e il concreto umano; perciò le
scienze naturali e la storia sono una sua
conquista; perciò la politica, l’estetica e l’economia, scienze mondane, hanno avuto nel pensiero moderno un
immenso sviluppo e sono state
scientificamente sistemate assieme ‘alla
cosiddetta psicologia sperimentale. L'oggetto del pensiero moderno è stato ed è ancor oggi
prevalentemente questo mondo , questa terra ed i loro fatti concreti; non per nulla con Occam incomincia quella che si
chiama la decadenza della Scolastica. È evidente che la filosofia, gradualmente,
doveva essere portata o costretta a porsi come suoi problemi quelli del concreto, cioè dei fatti
di questo mondo, naturali ed umani. E
solo dei fatti; dunque non più ricerca
dell’4/ di lè, ma interpretazione del quaggià. Di qui, dapprima, la
rivolta contro la metafisica tradizionale e poi contro la metafisica senz’altro; la sostituzione
della metafisica dell’essere con la metafisica del pensiero o della mente;
di qui la metafisica del pensiero intesa come costruzione delle scienze della natura (positivismo). In
tal modo, da un lato, la filosofia è
venuta ad identificarsi con le singole
scienze umane o naturali, e, dall’altro, il concetto di storia, il cui oggetto è il concreto o il particolare
per eccellenza, ha assunto un’importanza
quasi assoluta. Di conseguenza la
filosofia ha cessato di essere una scienza autonoma e si è trasformata in metodologia: o delle scienze
(positivismo) o dell’attività spirituale
umana (idealismo) o della storia
senz'altro (storicismo); ha cessato di essere filosofia dal giorno che la sedusse il demone
dell’immanentismo e volle farsi mondana,
antiplatonica, scienza di quaggiù: tradì se
stessa e si snaturò. Ma anche
così, per limitarci al nostro problema, è possibile una filosofia della storia?
Non propriamente il Vico ma lo Hegel
credette di sì, di poter dare una spiegazione
razionale totale della storia e dello spirito umano nei momenti del suo
divenire: per lo Hegel, la ragione può spiegare (e spiega), sistemare (e
sistema) tutto il reale fisico ed umano,
la storia senz’altro, senza residui. Ma la storia è storia dell’Idea, storia dell’Assoluto: è
l’autorivelazione di esso, che,
attraverso il processo dialettico, chiude il circolo su se stesso. Da questa
storia resta fuori, al principio e alla
fine del processo, proprio... la storia! La Ragione hegeliana, il Dio immanente
creatore, si sostituisce alla creatura e
la nega come tale: la pone e la nega, la risolve (dissolve) in sè: il concreto, il singolo, il
particolare, nel dialettismo antinomico
hegeliano, è il non-reale, il non-razionale, il nonvero, lo strumento caduco di
cui l’Idea si serve e che la stessa Idea
sopprime. La storia è la storia dell’Idea, non degli uomini singoli e delle cose; quella di Hegel
è una filosofia della storia che nega
proprio la storia. Ecco perchè il positivismo che, nonostante tutto ebbe vivo
il senso della storia, è stato
anti-hegeliano; e un contemporaneo epigono italiano dello Hegel, rimasto, in fondo, positivista
anche lui, ha negato che vi sia una filosofia della storia ed ha identificato
con la storia la filosofia. In tal modo, il positivismo e uesta forma di storicismo empiristico hanno
costruito o una filosofia della storia senza filosofia (il positivismo) © una storia che dice di identificarsi con la
filosofia solo perchè ha ridotto questa a metodologia dell’altra, cioè
perchè in partenza la nega come
filosofia. Già lo Schopenhauer aveva negato che vi possa essere filosofia della
storia (!). La storia è una conoscenza senza essere una scienza, in quanto in
nessun modo essa conosce il particolare per mezzo dell’universale, ma deve
attingere immediatamente il fatto individuale, e, per così dire, è condannata a
strisciare sul terreno dell'esperienza... Se la storia non ha propriamente per
oggetto che il particolare, il fatto
individuale e lo ritiene la sola realtà, essa è tutto l'opposto e l’antitesi della filosofia, che
considera Je cose dal punto di vista più
generale ed ha per oggetto specifico quei princìpi, sempre identici
attraverso tutti i casi particolari (Die Welt als Wille und Vorst., vol. II, ca37).
Dunque, proprio il fallito tentativo del pensiero moderno di costruire una filosofia o scienza della
storia (cioè il tentativo di spiegare tutto l’uomo senza Dio) dimostra come
una filosofia della storia in questo
senso sia impossibile e fa attuale,
esso, antiteologico, la concezione della storia di Agostino e della filosofia cristiana;
attuale, ma dopo la concezione che della storia ha avuto il pensiero moderno,
la quale non va negata ma assunta come
problema della filosofia, come il problema dell’uomo, del suo significato e
del suo destino. Posto ciò, esiste il problema della storia
(del singolo, dell’uomo concreto) nel pensiero aristotelico e nell’aristotelismo?
Non sembra. Se l’oggetto della storia è il particolare, il concreto, il contingente non risolvibile,
come tale, nelle leggi che pur lo
governano; se i fatti umani sono contingenti in se stessi, cioè di una
contingenza obiettiva, assoluta; e se, d’altra parte, l’oggetto della filosofia
è l’universale, della storia non c’è filosofia, non c’è scienza. Non c’è nemmeno problema da questo punto di vista, in
quanto non si può porre il problema di
quali siano le leggi razionali,
universali e necessarie di ciò che non è spiegabile con tali leggi, perchè ad esse non ubbidisce. Infatti,
per Aristotele, come per Platone e per
il pensiero greco in generale, della
storia non c’è scienza e non c’è neppure problema speculatuvo: è il
mondo del sensibile, del passionale, dell’arazionale. Il singolo come singolo ed il fatto umano
nella sua concretezza non sono oggetto di scienza razionale o di filosofia;
il singolo è inoggettivabile. Perciò
nella concezione greca la storia non ha
progresso nè svolgimento: è circolo, eterno
ritorno insignificante. È razionale il mondo delle essenze, non quello degli individui. Gli uomini
tendono a Dio, ma restano sempre fuori
di Lui, come Egli è estraneo a loro ed
alle loro vicende: non sanno perchè vanno e dove vanno; son mossi dal cieco destino, dal fato, dalla
ananche, e precipitano nella notte inesplorabile della morte. Il Cristianesimo gettò
luce su questa concezione della vita, serena per la saggezza della disperazione
e attaccata alla gioia di vivere per lo
sconsolato convincimento che la vita e la morte non hanno in loro nulla che veramente persuada,
con il concetto di creazione che spiega appunto le origini da Dio della storia e dell’uomo. E pur essendo il concetto
di creazione anche una verità di
ragione, esso entrò nel mondo con la
Parola soprarazionale. Per la
filosofia nasce a questo punto un problema fondamentale: se oggetto della
ragione sono le essenze universali
desistenzializzate e non quelle incarnate che sono i singoli uomini (quell’essenza singola che è ogni
singolo), l’uomo e la sua vicenda la sua origine, la sua vita, il suo dolore,
il suo bene e il suo male, la sua morte restano fuori della filosofia, sono il limite
della ragione. Accettare questa conclusione sarebbe cancellare la storia e gli
uomini, come, in fondo, li cancella il pensiero greco ed ogni filosofia della
pura ragione nozionale, sia il
razionalismo di tipo plotiniano o
spinoziano, sia quello di tipo hegeliano. Pertanto, una filosofia che
considera razionali solo le essenze universali si trova di fronte, imponente, ineliminabile ed
inesorabile, il problema della storia,
cioè il problema dell’uomo. Può la
filosofia risolverlo? Lo ha
tentato con la filosofia della storia, ma, come abbiamo visto, il tentativo è
naufragato: ha soppresso la filosofia (positivismo) o ha soppresso la storia
(Hegel) nel momento stesso che tentava di ridurla a razionalità; pertanto l’uomo o la storia nella sua integralità non
può essere spiegato dalla sola filosofia. Ma fino a che punto può essa spiegarlo ?
Indubbiamente vi è nella storia una relativa razionalità e precisamente quella che deriva dalle leggi
eterne della matura umana e dalle
connessioni causali derivanti dal contatto di questa con l’ambiente che la
circonda. Ma, tale razionalità, ben
lungi dal rendere interamente razionale la storia, si lascia ancora sfuggire
proprio quel singolare concreto che
esige spiegazione. La storia è veramente comprensibile e persuasivamente
spiegata solo quando spiega, in maniera
non contraddicente la ragione e le esigenze fondamentali e sempre attuali dello
spirito umano, il significato ed il
destino di ogni singolo uomo e, con esso, quello dell’umanità globale del
passato, del presente e del futuro.
Quale dialettica governa il mondo? Quale il piano della storia? Hegel rispose: è l’autorivelazione
dell’Assoluto. Ma ciò non spiega la
storia, bensì afferma che essa è strumento dell’Idea e con ciò le nega ogni
significato e realtà; con ciò si
cancellano, senza risolverli, il problema del male, del dolore, della morte ecc. La filosofia della storia non può
dunque pretendere di spiegare il piano della storia stessa. Ogni tentativo in questo senso è una pretesa
infondata della ragione iperbolica:
giustamente A. Franchi (Ultima critica,
p190) chiama la filosofia della storia vanità della vanità . Ma il suo fallimento non lo è della
filosofia; anzi è il recupero della sua
autenticità. La filosofia si incontra con
il problema dell’uomo, del singolare concreto: il problema le nasce dal di dentro e le è essenziale. Ma,
come abbiamo accennato, non lo è ad una
filosofia delle pure essenze, che
identifica la razionalità con la ragione di tipo aristotelico, puramente intellettualistica e nozionale. Per
una ragione delle essenze, dell’eidezica,
il singolare, la storia, l’uomo in carne
ed ossa, l’esistente, sono indifferenti. Essa si chiude nelle essenze e chiude in parentesi il concreto. Ma
questa ragione non è tutta la ragione,
che non è tutto il pensiero vivente,
l’uomo pensante, realtà spirituale, spirito che è insieme ed inscindibilmente essere sentire conoscere
volere. Per lo spirito concreto la storia è la sua storia; il significato e il
destino della storia sono il suo significato e destino. Il problema scaturisce
dal suo dinamismo interiore, gli è intero:
è il problema della sua stessa interiorità. Il problema speculativo
della verità manifesta la sua solidarietà con quellò pratico del destino umano;
nasce il problema ultimo della loro
unità. Può la filosofia risolverlo? No: può solo avviarne la soluzione
integrale, che è quella della storia integrale, cioè può cercare a quali
condizioni è possibile quella unità. È
il problema dell’adazzamento del nostro essere concreto alla sua finalità
interiore e trascendente, che è l’Essere.
Tale adattamento è atto razionale della ragione vivente e concreta, con cui ricorosce (e dunque è
anche atto volontario) che la dinamica del pensiero è orientata all’Essere che la trascende e che la soluzione del
problema della vita e del destino
dell’uomo o della storia trascende l’ordine razionale umano e naturale; dunque
l’atto con cui la ragione riconosce che
il piano della storia è divino, è atto razionale e perciò razionale è il passaggio dalla filosofia alla teologia della storia. A questo punto si rivela chiara
ed evidente alla ragione la convenienza della Rivelazione: il significato della
storia è nella Parola rivelata ed incarnata, in
Cristo. È la soluzione di Agostino, la cui teologia della storia,
punteggiata dai momenti della creazione, del peccato originale, dell’Incarnazione, della
Redenzione attraverso la Croce, del
dolore come conseguenza del peccato, del gran
Sabato nella fine dei tempi, resta e resterà sempre, nelle sue linee maestre, la verità perenne sul
problema della storia. E, se verità, sempre attuale; più che mai oggi dopo che il pensiero moderno ci ha educati
all’interiorità della ricerca e della
verità. Ma deve essere una interiorità autentica: quella che attesta e non che pone Dio. Nella
trascendenza teologica è il senso della storia e dell’uomo: Beau
de voir par les yeux de la foi l’histoire d’Hérode, de César... Qu'il est beau de voir, par les
yeux de la foi, Darius et Cyrus,
Alexandre, les Romains, Pompée et Hérode agir,
sans le savoir, pour la gloire de l’Évangile! (Pascal).
Il primo dei due termini è antico quanto la filosofia: occupa un posto primissimo tra i termini
tecnici, già approfondito e direi scavato in mille guise, codificato. Il
secondo non è tecnico, non ha una
tradizione speculativa, manca nei
dizionari filosofici più accreditati; forse perchè pone, in sede filosofica, un problema la cui soluzione
totale e unica spetta alla religione. Il
primo ha un antico e glorioso passato, ma
di esso l’altro è la perenne attualità proiettata nel futuro; infatti, per noi, il problema dell’esistenza
trova autentico chiarimento e soluzione
ultima ad esso interiore ed essenziale nel determinare quale sia la consistenza dell’ esistenza stessa.
I termini esistere , esistenza, esistente, esi
stenziale hanno una risonanza
infinita. Che cosa, infatti, non
appartiene all’esistenza? Berdiaeff dice che tutte le filosofie sono state
esistenziali: o hanno trattato dell’esistenza
o speculato su di essa, ma proprio questa constatazione, che del resto va presa entro certi limiti, impone
il problema non della riduzione di tutta
la storia del pensiero all’esistenzialismo o quello di una interpretazione
unilaterale di essa, bensì l’altro, meno
grossolano in quanto sa distinguere, del
perchè solo da circa un trentennio vi sia una filosofia detta esistenzialista o almeno che si dichiara esplicitamente tale.
Ciò significa che il problema dell’esistenza, antico quanto il pensiero, cioè quanto l’uomo, si
presenta con una sua peculiarità in quel
che oggi si chiama l’esistenzialismo. Si
tratta evidentemente di una più consapevole esperienza filo sofica del concetto di esistente, di una
filosofia quasi galvanizzata totalmente da questo problema, posto in
termini nuovi; in breve, di un
particolar modo di concepire l’esistenza. Il movimento in questione non si
caratterizza come filosofia
dell’esistenza, ma come quella determinata concezione di esso, che si chiama
appunto esistenzialismo.
L’esistenzialismo è una posizione di pensiero; ogni posizione di
pensiero, direbbe Camus, è una rivolta; ogni rivolta è decisione dichiarata di dire di no a
qualcosa o a qualcuno. Ma è anche dire
di sì: il 20 a qualcosa o a qualcuno importa
il sì a qualcos'altro: la negazione di un valore che non si riconosce più tale è l’affermazione di un
altro, considerato valore. A che
l’esistenzialismo dice di no? Alla Conoscenza
onniconoscente, alla Ragione onnicomprensiva di quanto (che è tutto) la ragione speculativa può
conoscere e comprendere, chiudere nell’orizzonte della pura razionalità. E quel che resta fuori? Il conoscere oggettivo e la ragione
speculativa o lo negano, o non se
ne curano. Comincia l’assedio alla fortezza della razionalità pura; l’esistenza
concreta preme contro i bastioni della
filosofia speculativa; preme ed attacca,
pone istanze, formula domande, mette in questione tutto il formidabile e massiccio castello,
pietra per pietra. L'’esistente che dice
di no ed interroga si pronuncia sulla
Conoscenza o Ragione. I termini del rapporto filosofia speculativa-esistente
sono capovolti: non si tratta più di sapere
che cosa la Ragione pensi dell’esistenza, ma che cosa l’esistenza della
Ragione; anzi, giacchè l’esistenza è ancora un
termine astratto, che cosa l’esistente hic ez nunc pensi della filosofia speculativa. Non più la ragione
rende problematico l’esistente, ma
l’esistente problematica la Ragione; quel che
per quest’ultima era un non-problema l'esistente, l’accidentale che non importa
all'essenza intelligibile è ora posto
come il problema assoluto, che la filosofia speculativa è costretta a riconoscere come proprio limite.
Essa perciò è chiamata non a risolvere
un problema per essa insolubile perchè
non razionale, ma a chiarirlo sempre più come problema, ad esasperarlo quasi
scavandone la radicale problematicità insormontabile; e con ciò, in pari tempo,
la ragione si fa essa stessa problematica di fronte alla irriducibilità o non
razionalità dell’esistente. In questo porre l’esistente come interrogante la
Ragione e come colui che dice quel che
ne pensa, credo risieda la caratteristica fondamentale di ogni vera filosofia
esistenzialistica, ammesso che sia
possibile una tale filosofia nel senso che, come pura filosofia, possa
risolvere integralmente il problema, quel complesso di problemi che è
l'esistente. Ens dicitur multipliciter, scrive S. Tommaso
sulla scorta di Aristotele. Vedere
l’esperienza molteplice sotto l’aspetto
il più universale significa considerarla sotto la categoria dell’ente,
il quale non è solo l’ens rationis, ma precisamente il quid, essenziale ed ineliminabile, per cui il
reale è reale e senza di cui il reale
non è reale. Ente è id cui competit esse
e l’esse compete solo all'Ente in sè, ma ad ogni ente del mondo dell’esperienza, ad ogni reale, al
reale hic es nunc, che l'Ente fa
esistere, pone con una sua essenza. Fa
esistere , pone; dunque all’esse compete anche
l’esistere: l’esse è essenza ed esistenza. Ma è proprio l’esperienza
molteplice che sembra smentire l’essere dell’esse o dell’ente: ogni ente diviene, trapassa da uno
stato ad un altro, in una successione di
stati diversi, per cui questo ente
diviene non questo ente. L'esperienza, ha osservato Aristotele, e prima
di lui Platone e Parmenide, come divenire da questo a non questo, è esperienza
di contrari. Ma non per ciò è
contraddittoria: proprio la presenza dei contrari nell’esperienza è
testimonianza della identità dell’ente a se
stesso, in quanto non vi potrebbe essere movimento da questo ente a non questo ente senza l’unità e la
permanenza dell’ente, cioè se l’ente non restasse identico a se stesso. È
questo ente che è contrario al ron
questo ente, ma l’ente, sia del questo
che non questo, è sempre lo stesso identico ente. Se l’ente potesse divenire il non-ente, ogni
ente diverrebbe la negazione di se
stesso e non vi sarebbero più nè enti nè questo ente che diviene non questo
ente. Se tra ente e non-ente vi fosse
rapporto dialettico (nel senso di una dialetticità che investe la stessa essenza dell’ente per cui
l’antitesi s’irradica nella sua
essenzialità) non vi sarebbe più possibilità di stabilire i termini di una
qualsiasi antitesi; infatti è possibile
un'esperienza di contrari e un rapporto dialettico tra questo ente e non questo ente in quanto permane
l’ente, sempre identico a se stesso, che
da questo diviene non questo. In altri
termini, il principio di identità, piuttosto che negare il divenire dell’esperienza molteplice, è quello
che ne giustifica e ne spiega il
dinamismo, facendo che i contrari siano momenti dell’ente, senza che la
contraddizione infirmi l’ente in se
stesso, cioè quella sua positività essenziale e permanente, la quale sola rende
possibile il divenire e nello stesso.
tempo fa che esso sia incontraddittorio, non negativo. Ciò che diviene, mentre diviene, è lo stesso ente
uno e ciò che diviene dell'ente uno è quel che può diventare o disparire ( cupBeBnxés), senza distruzione del soggetto
( xwpic tic 70ò broxerpevov 0I0PÀg
). Non sempre noi facciamo un uso
preciso dei termini esistenza ed esistente , anzi tendiamo spesso ad identificarli;
ma è fondamentale tenerli distinti. L'esistenza come tale non è oggetto di esperienza sensibile:
proprietà comune a tutti gli esseri, è una nozione astratta. L'esistenza non esiste; esistono gli esistenti, cioè
quanti esseri hanno l'esistenza a tutti comune dal loro atto di esistere o
atto per il quale un essere è, atto
assolutamente primitivo e fondamentale, come scrive il Gilson (Les limites
existentielles de la philosophie), a cui
tutto va rapportato e condizionato, non
solo ciò che un essere è o fa, ma anche tutta la conoscenza che possiamo averne. L'atto di esistere fa
che ogni essere sia e, per il fatto che
è, sia conosciuto; non è una proprietà
dell’essere, ma tutte le trascende in quanto tutte le condiziona.
L'essere è ciò che è significa che l’essere esiste per il suo atto di esistere, dove l’esistere non
è una delle tante sue proprietà, ma la
dimensione immensurabile per cui l’essere che è, è ciò che è. La definizione
dell’essere così formulata implica due elementi logicamente distinguibili,
ma metafisicamente indissolubili. Vi è
una ontologia e vi è un’eidetica
dell’essere: per l’ontologia l’essere è ciò #1 quale è , ciò che, per il suo atto esistenziale,
esiste; per la eidetica l’essere non è ciò
il quale è, ma oggetto da conoscere,
cioè nella eidetica l’essere è considerato come quello di cui è da dire che cosa è, di cui va definita
l’essenza. Ora, per tale definizione, la
riflessione filosofica prescinde dall’atto
esistenziale e considera la nozione dell’essere in quanto essere e delle
sue proprietà in quanto essere. L'esistenza o la non esistenza di un essere o dell’essere in
generale lascia indifferente la
eidetica, in quanto l’essere concettuale, a prescindere che l’essere esista o
no, è solo la sua essenzialità. L'essere
è considerato nella sua possibilità pura di cui l’esistenza non è una necessità
intrinseca, ma come un complementum, superfluo per definirla, anzi ostacolo
alla sua trasparente intelligibilità.
La filosofia non è forse filosofia prima o metafisica, scienza dell’essere in quanto essere? Certamente, ma dell’essere dell’ontologia e
non solo di quello dell’eidetica. Ora
l’essere in senso ontologico è l’essere che è, che esiste in virtù del suo atto
esistenziale, l’essere reale (non l’essere possibile), il cui fondamento
assolutò l’atto dell’esistere; precisamente l’oggetto della metafisica l’essere reale, l’essenza esistenzializzata,
il cui esserci c'è per l’atto di
esistere fondante assolutamente l’essere. Ma c’è scienza dell’esistere come tale? Non c’è di
esso scienza eidetica, in quanto l’atto per cui un ente è o esiste non è
oggetto concettuale; l’esistente in
questo senso è inoggettivabile. L’essere in senso ontologico è soggetto
(oggetto è il concetto o la forma o
l’essenza), il quale non si oggettiva, se oggetti vato cessa di essere soggetto; come soggetto,
è eideticamente inassimilabile. D'altra parte, il ciò che è o ente, è ciò #1
guale è come un che cosa che è:
l’esistere non è l’insignificante
esistenza di nulla, ma il significante esistere
di qualcosa, l’esistenziarsi di un’essenza; perciò il problema dell’esistere non va posto come problema
della pura esistenza, ma dell’esistenza
di un quid. Dunque ciò il quale è , è ed
esiste come qualcosa che fruisce dell’esistere: non vi è esistente che non sia
l’esistere o l’esistenziarsi di una essenza.
L’essere in senso ontologico è l’essere che è esistente ed è l'oggetto della metafisica. L’esse, nel suo
senso più pieno, è sintesi di essenza ed
esistenza, è l’essenza concretamente
attualizzata, l’essenza che è wn essere. L’esistente finito è particolare e contingente, ma con una sua
essenziale struttura, senza della quale sarebbe impossibile ogni riduzione cidetica, la quale ne coglie l’essenza
desistenzializzata e fa che il reale sia
concettualizzabile. In questo senso l’eidetica è la verità del reale, quella che lo definisce
nella sua essenza, lo raccoglie nel suo ordine, lo fa oggetto di ragione e dunque
di conoscenza filosofica. La definizione aristotelica della metafisica come scienza dell'ente in quanto
ente dove scienza significa intelligibilità dell’ente
stesso o definizione della sua essenza
desistenzializzata può, su questo
punto, concordare con l’altra platonica
della metafisica come scienza dell'ente
in quanto verità, cioè di quel che può essere ed è oggetto dell’intelletto. Ma nè la definizione
di Aristotele nè quella di Platone
esauriscono il problema della metafisica, in quanto l’oggetto di essa non è
l’essenza, ma l’essenza-esistente, non il concetto oggettivabile, ma il
soggetto come soggetto, cioè come
essenza esistente, inoggettivabile in quanto esistente, includente l’atto di
esistere, fondamento assoluto di ogni essere reale. Evidentemente la posizione
di Aristotele va integrata e sorpassata: è vero che lo Stagirita sembra
interessarsi, a differenza di Platone, di ciò che esiste, ma in realtà la sua metafisica si comporta
come se il problema dell’esistenza di ciò che esiste non si abbia a porre. Naturalista, Aristotele parte dal concreto;
metafisico, sembra dimenticarsi della
pluralità degli individui viventi e divenienti e rifugiarsi nell’essenza
immutabile, una ed identica a se stessa.
Ma vi è in questa posizione essenzialista una verità che non va perduta, comune a Platone e ad
Aristotele: una inclinazione naturale
spinge il pensiero a ciò che è puro e
semplice, al di sopra della molteplicità e della mutabilità delle cose, al distacco dall’accidentale
diveniente, condizione per cogliere ed
intendere ciò che ogni ente è. L'esigenza è
platonica ed è aristotelica, ma in Platone ha un senso speculativo che
manca o almeno è diverso in Aristotele: intendere ciò che una cosa è, coglierne
l’essenza, è penetrare la sua intimità,
la verità definitiva che l’esistenza manifesta.
Se poi questo linguaggio platonico lo traduciamo in quello del platonismo cristiano di Agostino, in cui
la intimità si traduce nei termini della
interiorità e la verità in quelli del
vero come forza operante, attiva e creatrice e ancora unificante, il
concetto di essenza si arricchisce di un significato dinamico e, come verità, si traduce nei
termini della spiritualità. L’essere concreto è determinazione esistenziale
della sua unità vivente nella sua unità
reale. Ma a questo punto si può
domandare: il problema della metafisica
è l’esistente hic et nunc, il contingente e non il necessario, l’accidentale e non l’essenziale?
Chi formula questa domanda dimentica che l’atto di esistere fonda ogni essere reale e che l’esistente non è solo
contingenza ed accidente, ma è l’esistere di una essenza. Il reale mi si
presenta come insieme di soggetti, cioè
di essenze universali determinate in esistenze particolari. L'oggetto della
metafisica è l’esistente nella pienezza
dei suoi elementi, di cui l’essenza è
intelligibile; dunque, una metafisica che, per intenderci, possiamo chiamare esistenziale, non può non
porsi questo problema, in quanto il
problema dell’eidetica o dell’essenza
porta immanente, costitutivo ed essenziale, l’altro dell’atto di esistere, per il quale è tutto ciò che è.
Questo discorso, condotto con un uso di
termini che riteniamo tecnico, è tuttavia bisognoso di ulteriori
precisazioni. Esistere è manifestarsi,
esserci, ma è presenza di qualche cosa,
di una srruttura, di un ordine. Con l’esistere l’essenza entra nel mondo, si
consolida, per dir così, in un hic et nunc, i
cui mutamenti sono non nell’essenza, ma dell’essenza. Perciò, se è vero che l'esistente o il soggettivo è
l’ incarnazione di un'essenza, è anche
vero che fo non sono il mio corpo, in
quanto esso ritiene l'essenza, ma non la esaurisce. Dunque io che esisto, mi manifesto, per il corpo,
sono più del mio corpo, più del mio
esistere, perchè sono essenza che esiste. In questo senso l’esistente, non
l’esistenza, che è una notazione
universale, si distingue dall’essenza, che è concettuale e non sensibile e a
cui si unisce qualcosa che la determina. L’essenza senza esistenza è
universale, l'esistente è particolare; l'essenza è quod quid est, l’esistenza è
quo quid est: il nunc diveniente non ci
sarebbe senza il nunc permanente, che, a
sua volta, pur essendo in sè quel che è, è reale per l’atto di esistere. Ciò prova, non solo che il divenire
postula l’essere, ma che il divenire
stesso ha un suo essere formale per cui
è-essere-diveniente. Dunque: l’esistente è un essere determinato, ma,
perchè vi sia la determinazione, è necessaria l’essenza da determinare e perchè
l’essenza non sia puro possibile, è necessaria la determinazione esistenziale.
Ciò non dovrebbe dimenticare nessuna
filosofia che si dice esistenzialista od esistenziale (due cose molto diverse)
la quale, quando si pone l’esistente come problema e lo contrappone alla
pura essenza, dovrebbe ricordarsi del
nunc permanente che sottostà al r4nc diveniente e porsi dunque sempre come ontologia
e non come pura descrittiva degli elementi esistenziali, quasi che l’esistente
sia pura particolarità senza universalità. Una filosofia del solo esistente,
cioè del solo aspetto particolare
dell’ente, non ha senso, non è filosofia (sarà descrizione empirica o
fenomenistica o anche fenomenologica) e
non è nemmeno riflessione sull’esistente reale in quanto astrae dall’essenza per cui l’esistente è. In
questo senso fa dell’esistente
un’astrazione. L'espressione di
Heidegger che l’essenza della realtà umana consiste nella sua esistenza (das
Wesen des Daseins ltegt in seiner
Existenz), intesa nel senso che l’esistenza è priva di essenza, non ha senso; e non lo ha perchè
non si capisce più che cosa esista:
l’esistenza senza essenza vanisce, è una
pura possibilità , un’astrazione.
Il suo manifestarsi è il manifestarsi
del suo nulla e, come tale, un niente di manifestazione e dunque anche un
niente di esistenza. Gli esistenzialisti dicono che è pura libertà e
temporalità, intesa la prima come l’atto della pura costituzione dell’essere
dell’esistenza. La libertà, in tal modo, non appartiene all’esistente,
lo costituisce : è della libertà
dare la propria natura a se stessa e con
ciò farsi essenza. Dunque, precede l’essenza: noi stessi costituiamo il nostro essere, siamo
come ci affermiamo. Qui c'è
un'equazione: l’esistenza come pura possibilità è pura libertà; ma la libertà come pura possibilità
è libertà di niente perchè è il nulla di libertà. Concediamo che sia e che siamo come noi stessi ci affermiamo. Ebbene,
che significa io sono come mi affermo, mi do un’essenza ? che sono io
a farmi uomo, liberamente? che potrei anche non farmi uomo? Parole senza senso. Se mi potessi
liberamente fare uomo, non mi farei uomo
per il semplice fatto che sarei Dio! E
neppure Dio, dato che posso anche farmi liberamente non-uomo; e Dio non può fare che un uomo non sia
uomo, appunto perchè è libertà autentica e non l’Assurdo. Esistenza e libertà,
come sono concepite dall’esistenzialismo, sono esistenza assurda e libertà
assurda. Inoltre, se noi siamo come ci affermiamo significa che l’esistenza come possibilità o libertà dà a se stessa le sue
specificazioni, cioè la sua essenza, qui
essenza evidentemente vuol dire altro da quel che è il senso tecnico del termine e
cioè: l’esistenza ora si dà una
determinazione, ora un’altra essendo infinita
possibilità. In tal modo, l’essenza è essa il particolare, la determinazione,
e l’esistenza, possibilità infinita, l’universale: si sono cambiate le carte in tavola e si
crede di aver vinto la partita. Ma ogni
determinazione è contingente; come tale
non è essenza; per conseguenza l’esistenza, anche determinandosi, non si
essenzializza e dunque resta vuota; si nega
sempre come esistenza, non esiste perchè non è. E che sia così appare chiaro dall’altra equazione
esistenzialista di esistenza e temporalità: il divenire temporale s’identifica
con l’esistenza, che non è altro che il
suo processo temporale; dunque l’essenza dell’esistenza è la temporalità, che è
come dire: l'essenza dell’esistenza e la
sua contingenza, cioè il suo stesso
esistere! Fenomenismo assoluto e inconcludente. E così torniamo sempre
allo stesso punto dell’esistenza che non è, che è il nulla di essere. Giustamente osserva il Maritain
nel suo Court traité de l’existence et
de l’existant (12): se voi supprimez
l’essence, ou ce que pose l’esse, vous supprimez du méme coup l’existence ou l’esse, ces deux
notions sont corrélatives et inséparables, et un tel existentialisme se
dévore lui-méme. Esasperare l’antinomia
di essenza ed esistenza, al punto da rendere l’una esclusiva dell’altra, è ste Nella
stessa pagina il Maritain distingue tra esistenzialismo autentico , che affirme la primauté de l’existence, mais comme
impliquant et sauvant les essences ou
natures, et comme manifestant une supréme victoire de l’intelligence et de
l’intelligibilité ; ed esistenzialiimo apocrifo , quello di oggi, il quale affirme la primauté de l'existence, mais comme
détruisant ou supprimant les essences ou
natures, et comme manifestant une supréme défaite de l’intelligence et de l’intelligibilité . Un’ontologia completa, osserva il Girson rilizzarle
entrambe senza risolvere niente. L’esistenza di Kierkegaard, a volte, è
l’astrazione di un’astrazione. A
chiarire meglio questo punto soccorre la considerazione dei termini nel loro rapporto e distinti nel
loro uso metafisico e logico. L'essenza
(0dcia ) è ciò per cui un essere è quello che
è. Metafisicamente è ciò che forma il fondo dell’essere; logicamente o
concettualmente è l’insieme delle determinazioni che definiscono un oggetto di
pensiero (Ar., Met., VII, 7, 1032b). Ci
sembra evidente che il significato metafisico non esclude l’esistenzialità dell’essenza, tanto
è vero che essa, così intesa, da alcuni
pensatori è posta nell’universale, da
altri nell’individuale. Infatti, l’essenza come ciò che è il fondo dell’essere, per ciò stesso, non è
tutto l’essere sia perchè esclude gli
accidenti, sia e questo è più importante
perchè l’essere metafisico importa
l’atto di esistere, è l’essere che è. In questo senso l’essere è il fatto di essere o esistenza: esiste altrimenti non potrebbe esistere un solo
momento per l’essere, ma è un fatto
di essere in quanto è atto di esistere .
Evidentemente l’ente finito riceve tutto
quello che ha di reale e di vero dell’Ens
reale, dell'Essere perfetto ed infinito, il solo la cui essenza implica necessariamente l’esistenza: Ens ex
cujus essentia sequitur existentia,
secondo la definizione che il Leibniz ha
dato di Dio. (Perciò, a rigor di termini, solo l’Ens reglissimum è
l’Ente concreto, essendo gli altri esseri astratti da Lui e postulanti il principio che li fa
essere, per cui di ogni altro ente si
può dire: ens ex cujus existentia sequitur
essentia). In breve, non vi è essere reale che non sia esistente:
esistente da sè, Dio, l’Ens realissimum, o esistente da altro, gli esseri finiti; ma nell’uno e
nell’altro caso l’essere e (L'étre et
l’essence, Paris, Vrin, 1948, 234) non può concepire l'esistenza come tale, nè eliminarla. Une philosophie qui ne renonce pas au titre de sagesse
devrait occuper à la fois ces deux plans, celui de l’abstraction, et celui
. de la réalité (ivi). l’esistenza
sono il fatto di essere, dove essere ed esistere non si oppongono. A definir l’esistenza non basta
la sua astualità, ma è necessaria la permanenza, in quanto nel passaggio, come
abbiamo detto, da questo ente a nonquesto ente permane l’essenza. Perciò essere-esistenza, come
il fatto di essere, non solo si oppongono all’essenza (come il fatto di essere
alla natura dell'essere), ma anche (nota
il Vocabulaire del Lalande alla voce Existence) al nulla, come l’affermazione alla negazione.
Infatti, se affermo che un essere è, non posso nello stesso tempo affermare che
non è. È, come sappiamo, l’identità, scaturiente dagli stessi contrari
dell’esperienza. Da quanto abbiamo
detto si conclude: 4) l'esistente non è
il mero particolare, ma è l’essere determinato e, come tale, reale, in quanto l’atto di esistere lo fa
reale; 4) come essere determinato è
universale esistente e dunque permanente
nelle sue mutazioni; c) come ente che è, importa l’esistenza, in sè e da sè (Dio), da altro (enti finiti);
4) l’ente così concepito (essere esistente o essenza determinata) è
l’oggetto della metafisica, la quale, da
un lato lo intende come essenza o
concetto (eidetica), non più come esistente bensì come essenza
desistenzializzata e, dall’altro, risale dall’ente che è all'atto di esistere, fondamento assoluto di
ogni essere reale; e) di fronte a questo
problema, la metafisica non cerca più di
definire il reale, di coglierne l’essenza o il concetto, per cui il reale è giudicato, compito assolto
dall’eidetica, ma si sforza di cogliere
il reale che è insieme nunc permanente e nunc diveniente, essere esistenziale;
f) in quest’ultimo punto la metafisica si pone il problema supremo dell’atto dell’esistere, il problema della consistenza dell’esistenza ed è metafisica esistenziale,
cioè che non si appaga più della
razionalità della pura forma, ma, senza prescindere da essa, si sforza di cogliere l’essere come
reale, di rispondere non più alle esigenze della sola ragione, ma a quelle dell’esistenza concreta, alle istanze
che l’essere esistente in quanto essere
e in quanto esistente pone come
universalità determinata o come particolare esistere di un'essenza universale; cioè pone come
soggetto integrale, completo. Può
rispondere la metafisica a questo problema?
Cosa importa l’inoggettivabilità irriducibile del soggetto? Col problema dell’esistenza, così impostato,
in che rapporto sta quello che oggi si
chiama l’esistenzialismo ? Contro quale
concezione dell’esistenza o filosofia esso protesta? Cerchiamo prima di rispondere a queste ultime domande. L'’esistenzialismo
quali che siano le sue forme è una
filosofia dell’esistenza o meglio dell’esistente e vuol essere una metafisica esistenziale, cioè si pone
come problema non l’essere in quanto
essenza od oggetto, ma in quanto soggetto, singolarità e soggettività; per
contro non è una filosofia della pura forma, dell’essenza desistenzializzata,
oggettiva e concettuale. Esso dunque, contrappone la filosofia detta esistenziale a quella detta speculativa o essenzialista
come contrapposizione dell’essenza
all’esistente, dell’oggetto al soggetto, dell’universale astratto al singolare
concreto. In questa contrapposizione chiede alla filosofia speculativa o
concettuale di dare una risposta se può alle
istanze del soggetto, al grido del singolo, come oggi si dice per drammatizzare il problema e colorirlo con
il linguaggio della poesia. Perciò
l’esistenzialismo è la rivolta contro la
filosofia dell’essenza, del concetto trasparente, della ragione cristallina che ordina e sistema forme,
contro l’eidetica e qualsiasi aspetto della realtà spirituale che si presenti
nei termini della razionalità pura, conclusa, definitiva e definiti vamente definiente. È contro la scienza che, pur definendosi
conoscenza del fatto concreto,
prescinde, come pura conoscenza scientifica,
dall’esistenza di un mondo esteriore, tanto che si può avere una
descrizione scientifica della natura, senza che mai si ponga, dice Eddington, la questione di
attribuire all’universo fisico quella
proprietà misteriosa che si chiama esistenza ;
d’altra parte, si costruiscono ontologie, senza che il concetto di esistenza vi abbia importanza alcuna.
Sembra che corrisponda ad una esigenza naturale e spontanea della ragione assimilare le essenze e classificarle,
eliminare l’esistenza, ostacolo alla concettualizzazione del reale. Da
Parmenide in poi, ogni filosofia è come
se abbia avuto sempre inizio dalla paura
dell’esistenza e riposto la saggezza nella liberazione da essa: riposare nella pura essenza, in un
cielo immobile di forme assolute nella
dimenticanza totale dell’esistenza
inintelligibile. La filosofia è nata come svalutazione dell’esistente
molteplice contingente e rifugio nella contemplazione dell'essere in sè. L’esistente è il
non-essere; l’esistente, per la ragione,
non è. In questo senso, la filosofia si è preoccupata più della felicità della
ragione che di quella dell’uomo
pretendendo, nello stesso tempo, di far coincidere perfettamente la
felicità di quest’ultimo con quella della prima. Ma, intelligibile o no (ed è qui una delle
ragioni dell’esistenzialismo) l’ineliminabile problema dell’esistenza s’impone
in ogni forma di attività spirituale, scientifica od artistica, filosofica o
religiosa; soprattutto s'impone per la meta-.
fisica, in quanto s'inserisce profondamente nella sua stessa struttura. La metafisica come eidetica non
può non seguire l'inclinazione naturale
della ragione di stabilire, in base al
principio di contraddizione, rapporti tra le essenze e le loro. proprietà; non può non desistenzializzare
l’essere, renderlo esistenzialmente
neutro al punto che sia indifferente al suo
concetto l’esistere o il non esistere, tanto da definirlo come ciò che è identico a se stesso. Ma d’altra
parte non può non tener conto degli
esistenti, della relazione tra un esistente e
un altro, non più trasparente, come nel caso delle essenze, in quanto, nelle questioni di fatto, è
possibile il contrario. senza che
implichi contraddizione, a differenza che nelle relazioni tra le idee, .che il
solo principio di contraddizione basta a
giustificare; e soprattutto non tener conto del problema fondamentale
dell’esistere per cui l’esistente è tale.
Tra l’essere come pura essenza e l’essere esistenziale non solo sembra stabilirsi un’opposizione, ma
addirittura instaurarsi un conflitto:
l’uno diventa la negazione dell’altro. È l’astrattezza di una metafisica come
pura eidetica, o di una filosofia che riduce l’essere alla sola esistenza. Infatti nel primo caso, la metafisica non
può definire nemmeno l’essere come
essere. Platone avvertì chiaramente la
difficoltà nella teorica dei Generi supremi del Sofista (come nel Parmenide aveva avvertito le aporie del
rapporto tra l’év e i ro), dove rileva
che il Medesimo (taòdtov) è anche il Diverso (èresov ) in quanto, proprio
perchè è il medesimo , è diverso da ogni
altra cosa. D'altra
parte, come osserva ancora acutamente il
Gilson, l’étre ne peut se réduire à
l’identique sans se dévolouer lui méme en tant
qu’étre, car è partir du moment où cette réduction s’opère, il dépend du mèéme comme de sa condition, et,
par conséquent, il s’y subordonne comme la conséquence au principe . L'essere non è più la nozione prima, ma come
principio intelligibile si subordina ad un altro anteriore che intelligibile
non è. Plotino, infatti, colloca l’Uno al di là dell’essere (come Platone vi
aveva posto il Bene), al di sopra di
ogni razionalità, trascendente ogni forma di conoscenza; in tal modo l’essere soffre esso stesso della
inconcettualizzabilità dell’esistenza. Sono i limiti esistenziali che l’esistenzialismo
pone alla filosofia della pura essenza o dell’essere identico a se stesso. Tali limiti, fin dalle origini,
l’esistenzialismo fece valere contro la
Ragione hegeliana, contro la dialettica dei tre
stomaci , come dice Kierkegaard. Non che lo Hegel abbia trascurato di interessarsi dell’esistenza;
anzi il Dasein è per lui un momento
ideale della dialettica, la quarta categoria
della logica dopo l'essere, il non-essere e il divenire; ma per
Kierkegaard è proprio nell’onnivora dialettica il peccato d’origine della hegeliana filosofia
speculativa. Niente, per lo Hegel, è al
di sopra o al di fuori della Ragione universale, la quale adegua interamente e
perfettamente il reale. La conoscenza è
la Ragione, che è il Sapere, il frutto dell’albero della conoscenza del bene e
del male (come scrive lo stesso Hegel
nei Vorlesungen tiber die Geschichte der
Philosophie), il principio generale di ogni filosofia. La legge della hegeliana Ragione è quella del
serpente, che provocò la caduta di
Adamo: tutta la sua realtà è la storia. La ragione non è fatta per servire l’uomo, ma per
assoggettarlo, come la Storia non è
fatta per l’uomo, ma l’uomo per la Storia.
Anche nei contemporanei epigoni dello storicismo questo concetto negatore della persona è stato
gelosamente conservato, anzi umanisticamente perfezionato. Lo Hegel parla spesso di esistenza (Dascin) ed anche di
esistente (Seiende), proprio negli
stessi termini in cui oggi, per esempio, ne parla Heidegger, cioè di un essere finito, gettato,
abbandonato, ma gli nega qualunque
diritto in sede filosofica: la filosofia
dell’Idea, come tale, non riconosce il finito come essere vero . I lamenti e le grida dell’io sono
sterili pianti sentimentali, di cui l’Io non può tener conto se non come
del negativo, di fronte a cui lo Spirito
non indietreggia, anzi vi s’installa
dentro, in quanto conquista la sua verità proprio nell’assoluta negatività, la sua vita
inserendosi dentro la irrealità della morte. Lo Spirito che si colloca nel
negativo, come si legge nelle prime
pagine della Phénomenologie des Geistes trasforma il nulla in essere . È precisamente
contro questo potere magico (Zauderkraft) di risolvere violentemente e dunque di dissolverlo l’esistente-negativo nello Spirito-Positivo che si ribella la
filosofia esistenziale. Essa protesta
che non vi è risoluzione dell’esistente nel Positivo assoluto, che l’esistente
ha il diritto d’interrogare la filosofia
speculativa e di gridarle in faccia le sue sofferenze; che non vi sono passaggi dialettici, ma salti scandalizzanti la ragione. L’infelicità e il
dolore dei personaggi della tragedia greca non sono intelligibili , come dice
lo Hegel, in quanto la necessità di ciò
che loro accade appare come la razionalità assoluta, ma, contro e al di sopra
di ogni razionalità, permangono
infelicità e dolore incomprensibili per
la ragione, per essa non veri , ma non
perciò non reali . Di qui la rivolta di Kierkegaard, la
rivolta dell’ angoscia contro la ragione speculativa , il mo
dell’esistente contro il sì assorbente
dell’Idea. L’esistente mette in discussione la filosofia e cita in giudizio
l’onnicomprensiva conoscenza razionale,
affinchè si rassegni ad ascoltare che
cosa pensi di essa, per dirle che si rifiuta d’ immaginarsi felice come richiede la Ragione universale; che
non intende, imaginandosi tale, di
diventare un mito; che si appella,
malgrado la ragione, all’Assurdo. Obiezione fondamentale questa dell’esistente:
la ragione non si trova sulla stessa
linea della realtà, costruisce un uomo che non è l’uomo, per cui la categoria
del pensare risulta diversa da quella
del vivere. Per la ragione è un mito l’esistente finito ed implorante; per il singolo è un mito la
ragione universale e soddisfatta. È un
mito la Ragione l’Idea o l’Essenza o è un mito l’esistenza, il mondo delle cose
e degli uomini? Una risposta che
riconoscesse la miticità di uno di questi
due mondi non sarebbe tale, ma la catastrofe definitiva, un decreto oscuro e silenzioso di morte. In questo conflitto tra filosofia
speculativa ed esistenziale, che abbiamo colto all’origine (quantunque esso
non nasca con la polemica anti-hegeliana
di Kierkegaard, ma abbia natali più
vetusti e non meno nobili, almeno nella polemica Abelardo-S. Bernardo dei dialettici e degli antidialettici e poi in quella Pascal-Descartes e, sotto
certi aspetti, nelle altre
Illuminismo-Rousseau, Kant-Hamann e
Jacobi, ecc.) la filosofia esistenziale pone delle istanze che meritano la migliore attenzione, anche perchè
esse servono a riportare in primo piano
quella metafisica che sembrava morta e sepolta e lo sembra ancora oggi ad
alcuni superficiali pseudo-filosofi italiani e anglo-americani; a ridare dignità
filosofica e senso teologico a quella trascendenza che l'immanentismo aveva creduto di aver
definitivamente dissolto; a chiarire, su basi rinnovate, i rapporti tra
filosofia e religione e a cercare nella
morale che è pratica ed è teoria, azione e pensiero la soluzione dei problemi della
metafisica stessa. Perciò noi che
abbiamo criticato, a volte anche aspramente e continueremo a criticare certi
atteggiamenti sterili, di maniera,
pseudo-filosofici e decadentisti di cui abbonda la letteratura esistenzialista, siamo pronti a
riconoscere l’importanza che ha l’esistenzialismo come momento della
filosofia contemporanea; ma prima di
accennare al nostro punto di vista sul
tema del nostro discorso, riteniamo necessario precisare alcuni punti dentro
l’esistenzialismo stesso. Innanzi tutto
esso deve decidersi se vuole essere una filosofia dell’esistente o una
filosofia dell’esistenza. Il Berdiaeff,
nelle Cinque meditazioni, ha già osservato che, a differenza della kierkegaardiana, quelle di Heidegger e
di Jaspers sono filosofie della o sull'esistenza; la Bespaloff (Cheminements et
Carrefours) lamenta che la fenomenologia esistenziale sous la responsabilité d’un Gabriel Marcel,
d’un Heidegger, d’un Jaspers, opère insidieusement une manoeuvre ui lui rend la terre ferme: l’existant
s’efface et cède la place à l’Existence ;
più recentemente il Fondane (Le lundi existentiel et le dimanche de l’histoire)
afferma che una filosofia dell’ Esistenza non è e non sarà mai una filosofia
esistenziale, car c’est précisément è l’existant seul qu'il appartient de faire connaître son point
de vue; à lui de decider ce qui est
negatif et ce qui est positif... . La distinzione è esatta e fondamentale: una
filosofia dell’Esistenza non è una filosofia esistenziale, in quanto
l’esistenza è ancora un astratto, una
nozione concettuale; una filosofia
esistenziale non può non essere che filosofia dell’esistente. Resta a vedere fino a che punto essa sia
possibile, in quanto filosofia; se quella che la Bespaloff giudica una manovra insidiosa della fenomenologia esistenziale di
Marcel, Heidegger e Jaspers, non sia invece una necessità intrinseca alla filosofia, che, in quanto tale, è bisognosa
della terre ferme . Resta confermato,
per ora, che una filosofia esistenziale non può essere che filosofia
dell’esistente, ma permane ancora aperto il problema se non sia costretta ad
oltrepassare se stessa. Già come
ausilio alla risposta ci soccorre la seguente considerazione. Filosofia
dell’esistente, colto soltanto nella sua
finitudine, sofferenza e contraddittorietà? Ma l’esistente così concepito è ancora il negativo, il nulla? È
il niente che pone il positivo? In tal caso, si è negata la
positività dell'esistente; e del 24//a non vi è problema nè soluzione. La stessa obiezione che si può muovere allo
Hegel il NonEssere come Non-Essere non
può costituire termine di antitesi (se ne accorse Platone nel Sofista, dove
stabilì la zoweviz tra l’Essere e il
Non-Essere) si può ritorcere contro l’esistenzialismo: dell’esistente come
negativo non c’è discorso, per il fatto
che è negativo. Di qui la necessità di
tener fermo quanto abbiamo chiarito precedentemente: l’esistere è
l’esistenzialità di un’essenza: dalla ontologia non si può prescindere, altrimenti si prescinde...
dall’esistente stesso! Di qui l’altra necessità di non poter fare a meno
della filosofia speculativa, anche se
questa non può bastare. Kierkegaard alla dialettica hegeliana, la quale
conclude al non riconoscimento del finito come essere vero ,
oppone l’angoscia e dice che essa precede la logica, il particolare l’universale,
l’esistente l’Esistenza. Ma a chi si appella l’angoscia se la ragion vien dopo o non viene mai o è
venuta prima e non ha saputo rispondere?
A chi grida? L’esistente interroga la ragione e dice quel che pensa di essa:
benissimo; ma con che cosa l’esistente
interroga la ragione e dice quel che ne
pensa, se non... con la ragione? Dunque è la ragione che interroga se stessa intorno al problema
dell’esistente. Scartata la ragione, la filosofia non è più tenuta a rispondere
ed è inutile quanto ingiusto protestare contro di essa. Non la ragione deve. pronunziarsi
sull’esistente, ma l’esistente sulla ragione, dicono gli esistenzialisti. Per
dire che cosa? Che la ragione non deve
sopprimere l’esistente, non
assoggettarlo, non imporgli d’ imaginarsi felice ? Queste giuste richieste possono significare solo due
cose: @) porre un limite alla ragione;
5) svalutare fino alla negazione la ragione stessa. Nel primo caso, non c’è da
porre un limite alla ragione, in quanto
è essa stessa che riconosce il suo limite esistenziale e tale atto di
riconoscimento è sempre razionale. Dunque, non si tratta di una presa di
posizione contro la ragione, ma di una
posizione della ragione di fronte all’
esistente, di un suo atto di sufficienza (positivo e razionale) non autosufficiente. Non
reazione dell’ esistente alla ragione, ma presa di posizione originale dell’esistente,
che è ancora presa di posizione della ragione di fronte ad un problema che non le contraddice e
reclama risposta. Nel secondo caso, così
frequente in quelle forme di esistenzialismo esasperatamente irrazionalista,
pronunziato il giudizio il più negativo sulla ragione, che resta da fare
all’esistente? Non ha più nemmeno la soddisfazione di disperarsi, perchè niente
ha più senso. Si pone come problema
eterno eternamente insolubile, che ne accumula altri infiniti, tutti del pari eterni ed insolubili; la
problematicità assoluta adegua così
l’umano sapere. Ma il senso della filosofia ha
perduto ogni senso: all’inizio non è più il problema (ammesso e non
concesso che all’inizio non sia la verità, oscura quanto si voglia, per cui è vero, come dice
Agostino, che ogni uomo cerca quel che
sa) e alla fine la soluzione, ma il
problema è all’inizio e alla fine, alla fine più chiarito come problema, per cui il compito della
ricerca è quello di concludere ad un problema che, nella conclusione, è più problema, più problematico di quanto non
lo fosse in principio. Ma questo è dare
il problema per soluzione, confondere le lingue, anche se a volte con una
perspicacia c un impegno degni di
miglior causa. Così l’ultima parola
della filosofia sarebbe la problematicità per la problematicità, che, ad
esser chiari anche se non perspicaci, significa
l’inconcludenza per l’inconcludenza. Chestov, il misologo per eccellenza, non risparmia alcuna critica
rimprovero condanna alla iniqua logica ,
alla pigra e vile ragione, a
quanti si sottomettono alla sua ontosa schiavitù . Ma, a questo punto, la ragione e la logica possono
tranquillamente obiettare: se come voi dite (Exercitia spiritualia) quel che più importa si ritrova al di là del
limite del comprensibile e dell’esplicabile, vale a dire al di là dei
limiti di ciò che può essere comunicato
con la parola, perchè ci rimproverate?
Quel che voi cercate non ci appartiene; ci
rivolgete una domanda che dovreste indirizzare ad altri. Potete farlo, ma solo in quanto la vile ragione
e la iniqua logica vi autorizzano a ciò ; ma l’esistenzialismo irrazionalista
respinge proprio questa autorizzazione. Non gli
resta che il fideismo assoluto, una posizione che non è filosofica nè
religiosa; o l’assoluto scetticismo, non come posizione speculativa, ma come
puro stato psicologico, tanto
angosciante quanto sterile. Oppure, accettata la frattura fra il momento morale e quello teoretico,
concludere che la logica non è
essenziale alla filosofia, che deve attraversarla ; che la filosofia è edificante e non vi sono di valide che le filosofie
edificanti; ma edificano solo le filosofie
edificate sulla e con la ragione, anche se non soltanto su e con essa.
Kierkegaard dice che l’angoscia rivela il nulla dell’esistente; dunque
non lo rivela, tranne che l’esistente non s’identifichi col nulla e allora non
c’è problema: l'angoscia che rivela il
nulla rivela anche il nulla di questo nulla. Interrogata, non potrebbe dare
altra risposta; interrogante, non ha
senso che interroghi sulla negatività dell’esistente: solo l'esistente come positivo reclama
spiegazione. Quando l’angoscia svela il nulla dell’esistente, che la ragione
dissimula (l’imaginarsi felice ) non pone un problema o un limite alla ragione, ma... dà ragione alla
ragione di disinteressarsi di lui. Il niente esistenziale se si pone come
niente dell’esistente è la soppressione
più rigorosa del singolo che mai ha
neppur tentato alcuna filosofia speculativa. Non allora il nulla
dell'esistente, ma il nulla wmell’esistente, la
félure, direbbe Le Senne; ma il nulla mell’esistente implica la sua
positività, allo stesso modo che il male, come
negatività o privazione, è concepibile rispetto a qualcosa che è. Positivo è l’essere, guesto essere, il
cui nulla la privazione di un grado più pieno di
realtà; dunque l’esistente è, è un essere, il cui non-essere o nulla è la mancanza
di quel che non ha. Evidentemente la sua insufficienza gli pone il problema (di
qui l’ irrequietezza e l’ inquietudine )
della sua sufficienza, la sua incompiutezza l’esigenza naturale essenziale ed
universale della sua compiutezza. Questa negatività ha un senso in quanto è
l’aspirazione di una positività al suo compimento, ad un più di essere del suo stesso essere non ad essere un altro essere ricerca della consistenza dell’esistente. Non
si vede perchè quest’ultimo, che tale
esigenza ha avvertito più o meno
chiaramente da quando la filosofia è filosofia, debba sciogliersi in
lacrime, affliggersi in interminabili ed angoscianti lai, piuttosto che riflettere seriamente su
se stesso secondo le buone regole del
pensiero e della ricerca speculativa: oggi
certo esistenzialismo è diventato una specie di nevrastenia filosofica. O forse si vede, ma per motivi
che contraddicono all’esistenzialismo
stesso: perchè posto l’esistente come negativo o votato al destino del nulla,
implicitamente l’esistenzialismo accetta la posizione hegeliana del non
riconoscimento del finito come essere vero; e perchè la filosofia, in un’epoca come la nostra di spiriti decadenti,
ha amato compromettersi con un linguaggio pseudo-poetico, già per se stesso compromesso e forse ormai di maniera. Ciò
non nega, anzi conferma, il merito dell’esistenzialismo di avere richiamato
l’attenzione sul problema dell’esistente, interno ed essenziale alla ricerca
filosofica. L’idealismo, se, da un lato dissolve il singolo nell’onnivoro
Scggetto trascendentale o nella Storia,
dall’altro, pone il soggetto stesso come
principio di spiegazione e non come problema,
ma con ciò sopprime ab initio il problema dell'esistente. Alla radice, l’idealismo è una evasione dal
limite esistenziale; perciò è anche un’evasione dall’interiorità: il soggetto è
sempre cacciato fuori di sè, all’esterno (la trascendentalità idealistica è
essenzialmente mediazione); perciò
l’idealismo è immanenza. Dato per risolto il problema dell’esistente,
posto il soggetto come principio di spiegazione e non come esso stesso problema, mostro direbbe Pascal, tutto è risolto e pacificamente spiegato. Il
limite della ragione è soppresso alla
radice: tutto è incluso nella trasparenza della
Idea e nel cerchio magico della dialettica infallibile. Non c’è motivo che il soggetto si trascenda: risolto
il problema che l’uomo è a se stesso,
che bisogno c'è di Dio? (Resta ancora la
natura, ma l’uomo interessa infinitamente più all’uomo). Dio è Ragione, Dio è il Progresso, Dio è la
Scienza, Dio è la Storia, ecc. Ponete,
invece, il soggetto, il singolo, l’esistente, l’uomo, l’insufficiente, inquieto
e irrequieto uomo come problema e la
trascendenza scoppia fuori come la farfalla dalla crisalide. L’esistenzialismo,
contro una tradizione filosofica
imponente e agguerrita, l’ha posto; e la trascendenza è stata richiamata
dall’esilio. Ma esso non ha dimenticato di essere, malgrado tutto, figlio
dell’idealismo trascendentale e di Nietzsche ed ha finito almeno una parte
di esso, quella meno direttamente figlia
di Agostino, Pascal, Kierkegaard,
Dostojewski, con il laicizzare la trascendenza,
col porla come un limite immanente posto dal soggetto stesso, non accorgendosi che così dà per risolto il
problema del soggetto, dell’esistente, e
ricade nella stessa posizione dell’hegelismo. Recentemente il Camus (Remarque
sur la révolte) ha distinto la sua
trascendenza orizzontale da quella verticale o di Dio, che egli esclude; vedremo tra non molto come un esistenzialismo che si
rifiuti di aprirsi alla trascendenza
teologica non abbia significato. Nella rivolta contro la Ragione, ammesso per
un momento e non concesso che sia
necessaria questa ribellione, c'è indubbia
Bisogna tener presente che Îla
protesta kierkegaardiana in nome dell'esistente o del singolo contro la Ragione
universale dello Hegel, non restò, fin
d'allora, isolata. Contro l’Idea hegeliana, la concreta realtà della natura
(gli uomini e le cose, gli esistenti
particolari) è rivendicata dal Feuerbach e dal
Marx. Le istanze kierkegaardiane, mosse da esigenze etico-religiose,
sono la protesta della trascendenza nei riguardi dell’immanenza; quelle del
Feuerbach e del Marx, mosse da bisogni
di ordine naturalistico-economico, in nome di un umanesimo depotenziato a felicità terrena,
sono la protesta del contingente per un
immanentismo più integrale e aderente alla realtà storica dei fatti. Le
due forme principali di esistenzialismo teologico e laico che oggi si riscontrano nella filosofia contemporanea si ritrovano
alle origini della polemica antihegeliana,
o più esattamente di hegeliani che sviluppano alcuni aspetti dello
hegelismo in opposizione ad altri. Hanno
in comune l’istanza della rivalutazione dell’esistente o del particolare; si
dividono sulla questione del fine da assegnargli, cioè sul problema della consistenza. Ciò importa
fin dalle origini un rapporto equivoco
tra marxismo ed esistenzialismo, oggi diventato abbastanza palese. La
questione è complessa e non è qui il
luogo di trattarla adeguatamente; ma è opportuno, anche nei limiti del nostro tema, qualche
chiarimento. Porre il problema
dell’esistente è porre il problema della trascendenza: il soggetto posto di fronte a se stesso come un
problema da spiegare, rimanda ad altro,
pone l’esigenza dell’altro. Di fronte a questo problema l’esistenzialismo
ha assunto due posizioni fondamentali:
4) l’altro è Dio, è l’Altro, l'assoluto Altro
(trascendenza teologica): 5) /’altro è il trascendente, che non è il Dio
della religione, ma il limite
dell’esistente, posto dall’esistente stesso, dalla sua finitudine (trascendenza
esistenziale). Per il marxismo l’altro dall’esistente è l’altro uomo: l'uomo si sacrifica all'uomo. L'uomo,
per Feuerbach, è fine a se stesso e il
suo fine è la propria felicità; ma l’io può realizzare il suo fine in
quanto ha un #, un d/tro con cui entra
in rapporto acquistando coscienza della propria umanità: l’io è tanto più se
stesso quanto più partecipa, nel rapporto con
l'altro, dell'umanità che è presente in lui. Anche per il Marx l'altro
dall’io è l’altro uomo: l’uomo è
l'avvenire dell’uomo, come ha scritto un poeta marxista francese contemporaneo. La solidarietà dei
lavoratori è l'umanità di Marx: ogni
lavoratore è tanto più se stesso quanto più aderisce, si assimila alla classe , alla massa dei compagni . Il rovesciamento della prassi , con la conseguente
eliminazione del capitale privato e l'avvento dello Stato socialista,
renderà reale quella condizione di felicità collettiva nella quale l’uomo è tutto per l’uomo. La
struttura economica, la sola che meriti questo nome, creerà (si tratta, per Marx, come è noto, non di intendere il
processo storico, ma di cambiarlo con la
rivoluzione : la filosofia non deve più limitarsi ad interpretare il mondo ; ora si tratta di cambiarlo ) la nuova società
non più afflitta dalle mente la consapevolezza di una totalità, di un Assoluto
nella cui aspirazione l’esistente consiste
, in cui si riassume, si ricapitola in
una presenza totale. Di fronte a questa consapevolezza :/ resto è un niente,
che l’esistente può, si sente di
sacrificare; ma c’è il sacrificio del resto, solo in quanto bb ® . c'è il Tutto che chiama. Bisogna
vedere le cose alla luce della morte,
come dice Platone; ma la morte non è la notte
sovrastrutture della morale e della religione borghesi. Nella prima posizione esistenzialista c'è una trascendenza
autentica; nella seconda una pseudo-trascendenza; nella posizione marxista
l’immanenza assoluta. La prima e l’ultima
sono, da questo aspetto, incommensurabili; la seconda c la terza
differiscono in quanto l’una si rifiuta
di ridurre tutti i valori a quello economico e s’illude di poter salvare ancora i valori morali e una
certa vaga religiosità. Nel loro rapporto vi è un duplice equivoco: 4) da parte
del marxismo quello di credere di poter
risolvere il problema dell'esistente (e gli infiniti problemi che pone l’esistente-uomo
in quanto tale) solo con la giustizia
sociale identificata con la struttura economica, senza tener conto
dell’infinita ricchezza delle esigenze dello
spirito, per soddisfare una sola delle quali ogni uomo, se veramente
posto di fronte a se stesso, sarebbe
disposto ad accettare la più pesante schiavitù economica; è) da parte
dell'esistenzialismo laico l’altro d’illudersi di avere rotto il cerchio della dialettica hegeliana
conservando la pregiudiziale immanentista e di
salvare quei valori che il marxismo rigetta accettando la stessa
pregiudiziale. Indubbiamente il marxismo
è più coerente: se c’è immanenza, sia radicale;
liberiamo l’uomo da ogni norma che lo trascende e
soprattutto da Dio. E’ evidente che
l’esistenzialismo della trascendenza non teologica lo è a metà: porta in prima linea il problema
dell'esistente e poi si rifiuta di seguire il filo della ricerca fino al punto a cui mette capo,
cioè alla trascendenza teologica. Permane
però il pericolo di approdare. Di ciò si sono già accorti i marxisti integrali e denunziano (vedi la costante
polemica nella rivista comunista francese La Pensèc) l'equivoco di un
esistenzialismo marxista: l’esistenzialismo, anche se si proclama ateo, è sempre un forma di
misticismo: gli appelli della ‘persona
umana fanno pensare, quasi istintivamente, ad un qualunque Dio che li
possa ricevere; dunque esso non può
essere marxista, in quanto non guarisce, anzi le alimenta, le superstizioni religiose, le evasioni illudenti dal terreno
mondo degli uomini. Il marxismo, invece,
è il vero umanesimo , anzi è il solo che
sia tale, perchè il solo che punta
sull’esistente, lo completa nella legge umana del lavoro e l’appaga nella felicità terrena. Ma è proprio qui che si rivela l’equivoco di
un marxismo come filosofia
dell'esistente. E' esistente l’uomo depauperato delle cosiddette
sovrastrutture e ridotto alla sola
struttura economica? E, a parte questa detonalizzazione (immiserimento) della
persona umana, l’esistente così concepito costituisce un problema? Perchè
l’uomo diventi problema insieme di
problemi fino al punto da mettere la ragione in stato d’accusa e di
gridare in faccia alla logica che egli
ha dei problemi che essa da sola è inetta a risolvere, deve porre delle
istanze che lo oltrepassano che oltrepassano l’uomo in generale che, dunque, si pongono al di là e al di sopra della società,
della storia, dell'economia, della
terra. Se i problemi del soggetto avessero potuto essere risolti
nell’ambito del’ soggetto stesso o della
classe, non sarebbe mai sorto un problema dell'esistente oscura senza fondo
solo in quanto la illumina la speranza
dell’ immortalità e la gloria in Dio. Il sacrificio del resto per l’ Eterno è il disincanto dal contingente
molteplice, la garanzia assoluta dalle illusioni deludenti. Nella negazione del resto è implicata
l’affermazione di un Valore assoluto, la
trascendenza al soggetto, quella verticale
, la sola per cui trascendo la piccola grande storia della x
così com’è posto dall’esistenzialismo contemporaneo e come è stato
sempre posto nei suoi remoti o prossimi
antecedenti storici. L’economismo e l’immanentismo marxista sopprimono alla radice il problema
della persona e la persona come
problema; tutto vi è risolto come nella dialettica dello Hegel. Sopprimono la persona senz'altro. E qui è
necessaria un’altra considerazione.
L’esistenzialismo si proclama filosofia dell'esistente, ma lo coglie
nella sua negatività, in quel che ha di non-essere, quando non lo identifica
addirittura col nulla; esso strappa
l’esistente alle fauci della dialettica della Ragione universale per porlo di fronte al suo nulla, mutolo
nell’angoscia di un peso enorme di
problemi. In questo senso, l’esistenzialiimo è la filosofia del
non-esistente, in quanto l'esistente è
positività, sostanza; è la filosofia del fallimento dell’uomo. Il mondo moderno, così impregnato di
umanesimo laico e cristiano, non si rassegnerà mai a questa svalutazione della
persona, alla sconfitta dell’uomo e in
partenza vi si oppone. Da questo punto di vista l’esistenzialismo è anti-moderno , anche se dopo tante esaltazioni
della mondanità e della vita esso sia
stato buon correttivo, quasi il conficcarsi nelle nostre floride carni
del dente avvelenato dell’ironia; il
ripiegamento sul momento della riflessione sia pure smorzata da un permanente stato poetico . Il marxismo, da parte sua, filosofia
dell'uomo per l’uomo, dell’uomo che si colma sulla terra, spinto dalla logica inesorabile del materialismo
dialettico, conclude all’annullamento della
persona nella opacità compatta e spessa della massa e
nell’onnipresenza dello Stato. Conserva
la più rigorosa mondanità , ma proprio
perchè rigorosa, dimezzata dell’altra metà, da quella che sporge fuori e al di
sopra di questo mondo. Due filosofie
dell’esistente che concludono alla sua nientificazione, che colgono l’esistente nella sua negatività,
nell’involucro esterno e vuoto perchè
mancante del pieno della consistenza . Contemporaneo , invece, il Cristianesimo, non
contraddice alle esigenze fondamentali dello spirito: positività questa vita, positivo l’esistente tanto che si salva
nell'altra vita. E' la sola mondanità significante. Vi è nell’esistenzialismo un
aristotelismo alla rovescia: quel che
conta è l’esistente, l’individuo, ma l'esistente non è reale, è il
negativo. E’ un agostinismo
antiagostiniano: l’uomo è finito, misero, infelice, ma senza speranza: non si
redime, accetta il suo destino. Aristotelismo antiaristotelico e platonismo
antiplatonico il marxismo: reale è l'individuo, ma è reale nella compattezza
della massa, quale dente della macchina statale o del Partito. La cordizione
presente dell’uomo è proiettata in quel che sarà, la sua felicità è in un futuro immancabile, ma questo futuro e questa
felicità non sono in un dltro mondo.
Conobbe ed insegnò la verità S. Francesco nella lode di tutte le creature, beni
positivi in quanto creature dell'Amore divino e assetate d’amore per il Creatore. L'alternativa immanentistica, o
Dio o io, o c'è Dio e io sono nulla o
non c’è Dio ed io sono tutto, si compone nell’altra: io sono perchè Dio è; io sono innovatore perchè in Lui m’innovo. mia
anima, tutta la storia. Dopo tanta orgia di immanenza, dopo tante norme esteriori ed esteriorizzanti
e perciò sterilizzanti della vita spirituale, dopo tanti universali
mondani dell’economia e dell’arte, della storia e
della politica la trascendenza e la solitudine esistenzialista sono state, se non altro, un energico richiamo e
un salutare risveglio. Ma niente più di questo, in quanto l’uomo non è soltanto singolarità, ma anche universalità
di essenza, di ragione, di verità. Prima di essere singolo è uomo e non è singolo se non è uomo. La sua verità è anche
verità degli altri, deve esserlo: è la
sua responsabilità suprema; e la verità
è ricchezza e la ricchezza del signore è generosa ed umile: accetta i doni e li ricambia. Nella
verità, che è mia perchè di altri, gli
uomini realizzano l’unica consistente ed
indissolubile solidarietà. L'affermazione di un valore non è mai individuale: chi si sacrifica per esso,
si sacrifica per l'umanità intera.
Nell’essenza della singolarità e di essa
costitutive vi sono una universalità ed una solidarietà metafisiche. Al
punto in cui abbiamo condotto il nostro discorso, una prima conclusione appare evidente: non si
tratta di negare la filosofia o è anche razionalità o non è ma di
vedere come essa possa e debba giustificare l’ esistente, se e come possa avviare il problema alla sua
adeguata soluzione. Anticipiamo quella che sarà la conclusione di que ste pagine: il punto di partenza della
filosofia non può essere che la ricerca razionale ed è esigenza naturale
della ragione e dunque dell’uomo
cogliere la razionalità del reale; e la
razionalità filosofica, il conoscere, è il concetto, l’universale. Basta
all’uomo la razionalità? Meglio: esaurisce essa
la problematica filosofica? No, tranne che per un razionalismo
assorbente, astrattizzante, cieco di un occhio. Pascal. lo obiettò a Cartesio
(se a torto o a ragione qui non importa stabilire): il cuore ha delle ragioni,
che la ragione non conosce ; l’ultimo atto della ragione è di
riconoscere che molte cose la
oltrepassano . Non ho accostati a caso i
due frammenti, ma in quanto l’uno non può stare senza l’altro: la ragione non conosce le ragioni
del cuore, ma conosce ( riconosce ) che
ci sono e la oltrepassano. Il problema delle ragioni del cuore è posto dunque
dalla stessa ragione, è razionale come
problema, anche se la soluzione è
super-razionale, e, come tale, non irrazionale, non contraddicente la
ragione. Le pascaliane ragioni del cuore prima
che pascaliane, agostiniane, e dopo rosminiane e oggi blondeliane sono le ragioni dell’esistente, del singolo,
del soggetto hic et nunc. Esse sorgono, dunque, indomabili senza che il conoscere razionale possa pienamente
rispondere, ma senza poter fare a meno
di esso e sulla base di questo stesso
conoscere; irrompono assetate di risposta, quando ogni insegnamento è
finito, ma sempre dalle pagine del libro aperto
della ragione. Il problema dell’esistente nel suo significato integrale e nel suo destino assoluto si pone
al limite della filosofia e come suo
limite, ma non contro la filosofia; si
pone e con sè pone la filosofia come apertura alla religione. Vi è allora una filosofia
esistenziale ? Sì, come problema
dell’esistente ed avviamento alla soluzione di esso; no, come soluzione integrale, totalitaria e
unitaria: filosofia esistenziale, ma il
cui fondamento, iniziale e finale, è teologico, perchè teologica è la soluzione
assoluta del problema dell’esistente.
Nato dalla ricerca filosofica, sulla guida di essa e del sapere speculativo, illuminato
dall’intelligenza e dalla ragione, per
cui l’uomo è uomo, esso non può sommergermi
nella disperazione e nell’angoscia infeconde ed incomprensibili, bensì
m’immerge nell’interiorità di me stesso, nel
senso autentico della mia esistenza; al di sopra di me stesso, scopre la mia consistenza. Nato dalle viscere
più profonde della ragione e
dell’intelligenza non mi getta a morire nel nulla, ma mi raccoglie
integralmente nella realtà della mia
vita. Pascal all’abisso preferì la Chiesa. Cerchiamo ora di approfondire queste anticipate, ma non
inaspettate conclusioni. Io ho quel che
sono: l'avere adegua la mia esistenza e
l’essere la mia consistenza. Non posso avere senza essere, non posso essere soggetto senza avere; e 4 chi ha
sarà dato. Significa che ho bisogno di altri, che un altro mi dia; che il
mio essere è fatto da e per l’Essere,
che la mia positività limitata, che in questo limite o mancanza è negatività,
tende alla Positività assoluta. È in
ciascuno di noi una realtà essenziale; di essa abbiamo coscienza, che è la
nostra autocoscienza. Consapevolezza di consistere, oltre che di esistere, coscienza che siamo una realtà distinta dai
nostri atti, che la persona non è
soltanto le sue azioni o le sue cognizioni.
L’agostiniano e tomistico intelligimus nos intelligere non prova soltanto che il realismo dei due
pensatori è tutt'altro che ingenuo, ma
che intelligiamo il nostro stesso inzelligere;
lo penetriamo così profondamente al punto da comprendere che il nostro
comprendere (conoscere) non comprende ( non conclude ) tutta l’essenzialità del
roi e sfocia nell’interiore sapere; che
il Sapere assoluto ci origina, ci guida,
ci conclude e sempre ci oltrepassa. L’autocoscienza è censapevolezza del limite, ma come
consapevolezza è già al di là di esso.
Il problema di Dio è di diritto quello dell’ultimo fine: la scienza è
tendenzialmente sapienza: intenzionalmente il problema dell’universo è
considerato sempre in vista del problema
della vita. Smarrire il senso del fine è
votarsi al non-senso della fine, è rinunziare alla consistenza per consegnare l’ esistenza alla morte. Sed ego conabar ad te et
repellebar ab te, ut saperem mortem. Tendere
a Dio è sapere la vita, per Agostino; essere allontanati da Lui o allontanarsene è sapere la morte. Ut
saperem mortem, affinchè conoscessi la
morte, perdessi la mia consistenza, facessi esperienza del nulla del mio
esistere una volta privato del mio consistere, che è durare perenne, durare,
senza riposo o stanchezza, nel tendere
all’Essere per cui esisto e sono; è la
libertà della mia vocazione essenziale; il mio volere totale, il senso assoluto
del mio. contingente esistere. L’esistente esiste el tempo, ma non è del tempo:
re-siste al giorno che passa e alla
notte che copre le cose del giorno (oppone
il suo consistere); per-siste, a causa del suo consistere e perchè il suo stare è garantito e sorretto da un
fine; per cui la temporancità si conserva nella temporalità e il tempo volge
alla eternità intemporale. L’esistente è
persistente ed è persona questa e non un’altra perchè persiste; e persiste in quanto consiste. Il mutamento di questo ente in non
questo ente è il manifestarsi di
un ente, la temporaneità di una sostanza
che dura nella temporalità, la contradditorietà
che è possibile per la identità non contraddittoria dell’essere permanente. Il durare dell’esistente implica,
dunque, successione, sviluppo. L’esistente non è perfetto ma perfettibile,
dunque è incompleto in ogni stato o grado della sua attuazione. La sua incompiutezza pone il
problema del suo compimento e nello
stesso tempo attesta l’Incondizionato
(omne quod movetur ab alio movetur, secondo la formula che è comune ad Agostino e a Tommaso).
L’esistente è in ogni momento la sua
consistenza, ma in ogni momento, n07 è
mai tutta la sua consistenza: la sua è un’aspirazione infinita, perchè è
un’aspirazione totale. Interiorità di sè a sè,
come tale, .è interiorità di qualche cos'altro, dell'Altro, perenne
sforzo d’interiorizzazione, di conquista di sè nell’Altro. La soggettività
profonda non è un dato, ma il realizzarsi di se stessa, la conquista di sè
nell’abbandono a Dio. La povertà del
soggetto, infinitamente arricchentesi ed infinitamente povera, è la sua
ricchezza autentica. L'atto di esistere è inoggettivabile; al di là
dell’essere, è tuttavia nella linea
dell’essere ed omogeneo con esso. L'’esistere, infatti, è l’atto proprio di ciò che è; è la radice dell’essere. Le nom méme d’essenzia que dérive de l’esse, traduit le fait que l’essence
constitue le point d’effleurement, sur le plan de l’étre objectif et
concevable, de l’acte premier en vertu
duquel ce qui est, est, ou existe . Così ancora il Gilson da noi seguito su questo
punto, che ha posto bene in luce i
limiti esistenziali della filosofia, facendo, tra l’altro, notare come le
nozioni di causa finale ed anche di
causa efficiente si rendono indispensabili allorchè si pongono i problemi di esistenza. Infatti,
in un certo senso, il punto di vista
della finalità resta esteriore all’ordine della
chiarificazione razionale dell’essenza, ma è, d’altra parte, il solo che spieghi il senso di un essere e
di ogni essere. Similmente nella causalità efficiente, la natura della
causa spiega l’essenza del suo effetto,
ma non la sua esistenza. Il pensiero
analitico non può non spiegare da questo esistente l’apparizione di un altro
esistente: se l’effetto fosse identico
alla causa, non se ne distinguerebbe e non sarebbe. Dalla causa all’effetto vi è sempre una
specie di creazione ex nihilo, dove qualcosa sembra sorgere
spontaneamente dal nulla . Problemi
interni al pensiero filosofico; problemi
ineliminabili ed improrogabili in quanto investono le questioni della
provenienza (donde viene) e della destinazione
(dove va) dell’uomo. È
necessario che, a questo punto, la filosofia entri in conflitto con l’esistente che le pone dei
problemi non rientranti nell’ordine della pura conoscenza scientifica o razionale?
Il conflitto c’è stato tante volte: la filosofia ha negato l’esistente e i suoi diritti; o
l’esistente ha giudicato in blocco la
filosofia come non degna di un’ora di fatica . Conflitto che, in verità, non ha
ragione di essere e porta in sè gli
elementi per essere composto. Infatti, nè
l’esistente può fare a meno della filosofia, nè la ragione speculativa può sopprimere l’esistente, in
quanto il soggetto indomabile sbuca
sempre fuori anche dal più fitto tessuto di sillogismi e dalla più rigorosa ed
indifferente analisi di essenze
concettuali. La filosofia non può comportarsi come se l’esistente non esistesse per i problemi
interni che esso le pone e per gli
ostacoli che incontra nell’esplicazione della
nozione pura dell’essere. D'altra parte, l’esistente, se non può vivere con la sola filosofia, non può del
pari vivere senza di essa. Le istanze
che egli pone alla ragione e gli appelli
che le indirizza sono, in fondo, le istanze che la ragione pone a se stessa. Dunque, vani ed
ingiustificati i rimproveri rivolti ad una ragione, la quale riconosce i suoi
limiti esistenziali. È la ragione stessa che guida l’ esistente, che al
punto limite lo convince a mettersi
assieme in cammino per un’altra via, non contraddicente la ragione, ma che la
oltrepassa e segue metodi che non sono
più quelli della pura ricerca razionale.
Al punto in cui dovrebbe sorgere il conflitto tra la ragione e l’esistente, la buona ragione e
l'esistente che non rinuncia al lume che
lo costituisce, si uniscono nell’apertura
alla religione. La problematica dell’esistente è, in definitiva, una problematica religiosa; una fenomenologia
esistenzialista è, costitutivamente, di
carattere religioso. Pertanto, a nostro
avviso, un esistenzialismo, che rigetta in partenza la risposta religiosa che il Cristianesimo dà del
problema dell’esistenza, è senza senso,
estremamente bisognoso di chiarirsi ulteriormente a se stesso. Si tenga presente che ogni qual
volta la filosofia speculativa ha
cercato o preteso di dare da sola una risposta all'esistente e ai suoi
problemi, ha concluso, inesorabile, per la
loro soppressione. I tipi di saggezza platonico, anche se fino ad un certo punto, epicureo, stoico,
neoplatonico, spinoziano ecc., concludono tutti che è saggezza la
liberazione dall'esistenza: è saggio chi
ascende , dalla zona dell’esistere,
all'ordine chiaro, terso e tranquillo della ragione. Risponde invece
diversamente una filosofia della persona la
quale non può essere che cristiana: non sopprimendo questi problemi, ma autenticandoli. Essere non è solo l’essenza, anche se il
termine è spesso 220 Filosofia e
Metafisica usato per indicare
l’essenza; essere è essenza ed esistenza.
Identificare l’essere con la sola esistenza esclusiva dell’essenza, o
con la sola essenza esclusiva dell’esistenza, è negarlo. Una filosofia puramente essenzialista deve
concludere che l'essenza non esiste e
dunque negare il reale (è la conclusione di un platonismo spinto agli estremi,
alla quale non sfugge, malgrado tutto,
Aristotele); allo stesso modo una
filosofia puramente esistenzialista, ridotta l’esistenza ad una possibilità vuota, deve concludere con la
negazione dell’esistenza stessa. L’originalità del reale o dell'essere è
precisamente nella unione di essenza ed esistenza: non il puro concetto nè il
puro esistere sono l’equivalente del reale. L’esistenzialismo ha fatto ben
comprendere l’insufficienza del puro essenzialismo, ma, l'insufficienza dello
stesso esistenzialismo ci ha fatto ancor
più avvertiti che non si può prescindere dall’essenza: essenza ed esistenza
costituiscono la struttura del reale.
L'esistenza è l’attualità dell’essenza (il possibile), che pertanto va ricavata dall’esse; di qui il
primato dell’esistenza non sull’essere,
ma sull'essenza zmell’essere.
Evidentemente qui sorge un altro problema: l’eidetica, scienza del concetto o dell’essenza, come
tale, riconosce che, al di là
dell’essenza, vi è l’atto di esistere inconcettualizzabile. Per conseguenza,
per cogliere il reale, non si può
partire dalla pura ragione; è necessario muovere dall’uomo, che è già cogliere il reale immediatamente,
cogliere me reale nell’atto di
acquistarne coscienza. L’autocoscienza in
questo senso è giudizio esistenziale immediato, l’atto sintetico che
coglie unitariamente la dualità interna della
struttura del reale. Ma ecco dal dato reale, che è il mio essere, nascere un altro problema: quello
dell’esistere del mio essere. Qui il
problema dell’atto di esistere (actus essendi)
si pone come richiesta di sapere se io sono il principio di esso, cioè come problema del suo fondamento
assoluto. Se fossi il principio del mio
esistere, sarei il creatore del mio
essere e l’atto di esistere del mio essere s’identificherebbe con l’Atto
assoluto dell’esistere che fa essere ogni ente che è: la mia essenza sarebbe identica alla mia
esistenza. Ma io non sono il creatore di
me stesso; dunque l’atto autocosciente con cui colgo immediatamente il mio
essere nella sua struttura di esistenza
ed essenza, pone il problema del
principio del mio essere stesso: è il problema assoluto della metafisica, il problema teologico o
dell’esistenza di Dio, il supremo
Esistente. Il principio della Creazione è indispensabile all’ontologia, che
dall’interno è orientata verso la
teologia. Su questo punto la metafisica non essenzialista di S. Tommaso sopravanza infinitamente quella
essenzialista di Aristotele. Bisogna
pertanto distinguere il problema degli
esseri già costituiti (come sono) dal problema della loro origine primale o della loro costituzione
stessa, che è il problema dell’esistenza
di Dio o del principio assoluto del
reale, della sua suprema intelligibilità metafisica. Dio l’Ipsum esse subsistens, creando, fa che
l’esistenza sia nell'essenza. La metafisica di Aristotele ignorò questo problema;
la metafisica cristiana, in questo senso, è una rivoluzione rispetto a quella aristotelica. Questo punto è
fondamentale: per una metafisica dell’essenza, il problema dell’esistenza del
reale non si pone; non ha senso porlo; e
perciò non ha senso porre neppure il problema dell’esistenza di Dio.
L’ontologismo, a rigor di termini, non lo
pone: vedere le idee in Dio rende superfluo il mondo reale. Questa posizione si può spingere a
conclusioni che, in fondo, le si
oppongono ma da essa derivano: l’esistenza non è perfezione e non aggiunge
niente all’essenza; dunque, non solo
dall’essenza di Dio non si può ricavare l’esistenza, ma Dio basta soltanto pensarlo. È la posizione
kantiana dell’agnosticismo metafisico e della pura noumenicità della Cosa in sè (l’ontologismo critico del
Carabellese è la formulazione rigorosa di essa). L’esistenzialismo
immanentista, figlio dell’idealismo
trascendentale, ha eliminato il problema
metafisico dell’Atto supremo di esistere ed ha considerato l’esistenza
come pura possibilità o libertà; così l’ha privata anche dell’essenza. La
conclusione è inevitabile; l’esistenza resta sospesa a se stessa, senza
fondamento, vuota nel vuoto,
insignificante nulla. Tali affermazioni assurde
confermano che il problema del reale va posto come problema del reale
autentico che è essenza ed esistenza, il quale pone, per la spiegazione
metafisica, il principio del suo
esistere, cioè il problema teologico.
E la soluzione teologica del problema dell'esistente la filosofia se la
trova interna e ad essa essenziale. Metafisica per definizione per sua natura la filosofia non può essere che scienza dell’essere o della verità, nel
senso più estensivo ed universale del termine. Ma, come abbiamo già accennato
col Gilson, ogni essenza è l’essenza di un atto, dell’atto dell’esistere;
d’altra parte, è evidente che, senza l’essenza, l’esistenza mancherebbe della
sua razionalità; dunque, in una
ontologia esistenziale l’essenza è il supremo intelligibile, il possibile che è per l’atto dell’esistere.
(Un esame della dottrina del Rosmini della insessione delle forme dell’essere
sarebbe quanto mai chiaritivo delle esigenze di una ontologia esistenziale). Ma gli esistenzialisti, ad
eccezione di Gabriel Marcel, non sembra
vogliano saperne di ontologia, quantunque facciano molto uso del termine; si
fermano al di qua dell’essere, alla
descrizione dell’esistenza e si rifiutano di
obbiettivare l’essere, come se ciò compromettesse la sua esistenzialità. Non comprendiamo perchè mai
l’esistenzialismo debba rifiutare un’ontologia esistenziale, la quale riconosce
il primato dell’esistere e, per un'esigenza interna della filosofia e perchè l’esistere stesso
possa avere un significato comprensibile sia pure come problema, accetta l’essenza
come costitutiva dell’esistenza. Un esistenzialismo che rigetta questa conclusione conserva ancora
una nozione negativa dell’esistente e
distrugge in partenza il problema che lo giustifica come posizione di pensiero.
L'atto di. esistere non può essere
considerato fuori dell’ordine dell’es
Concetto di metafisica 223
senza che lo determina; d'altra parte di un’ontologia esistenziale, di
un universo di atti di esistere, la sola filosofia è insufficiente a risolvere
tutti i problemi esistenziali che essa
ne. Una filosofia che reclama questa pretesa è la pseudo-filosofia della
ragione non autentica, e tale in quanto si arroga compiti che la sorpassano; è la filosofia del
razionalismo assoluto, della religione
della ragione, cioè una pseudo-religione. L’esistente nella sua originarietà
resta il problema interno della filosofia, quello che la apre alla
trascendenza; un universo di atti di
esistere è già, come tale, dipendente dal
supremo Esistente. L’esistere, come abbiamo visto, importa sempre un qualcosa di nuovo, una creazione ex
mnihilo, il cui esserci è l’evidenza
sensibile del Creatore. Filosofia e religione, come scrive il Masnovo (La
filosofia verso la religione), non hanno
lo stesso oggetto gnoseologico, ma lo
stesso termine reale di conoscenza l’Essere unico, sorgente di tutte le cose il cui svolgimento è diverso nella ragione
e nell’atto di fede, senza che l’una
contraddica all’altro. Il Cristianesimo rivelò l’esistente a se stesso, la
persona alla persona. I concetti
dell’uomo figlio di Dio, creatura; della
dignità non-abdicabile ed insopprimibile del singolo; del conflitto morale tra il bene e il male,
al cui esito è legata la perdizione o la
salvezza; della libertà e del peccato, diedero
un senso dell’esistenza che se il
pensiero greco aveva in parte preparato giungeva del tutto nuovo. La vita come dramma interiore, attrice di una lotta
morale impegnativa di tutta la persona, è scoperta del Cristianesimo; nessuna concezione incentra la riflessione
filosofica sull’esistente e i problemi esistenziali quanto quella
cristiana. Tutta la filosofia
agostiniana punta diritta sull’esistente e
i suoi problemi: pochi pensatori hanno problematizzato come Agostino
l’esistente e vissuto con tanta intensità il dramma interiore dell’uomo. Se in
S. Tommaso il senso della interiorità è men vivo, il dramma della persona è
vissuto altrettanto intensamente e la sua soluzione non è diversa. Il Rosmini, approfondendo il pensiero dei due
grandi, ha scoperto nella forma morale
dell’essere il punto di unione
dell’essere possibile indeterminato con l’essere reale determinato; la morale rosminiana è una
soluzione da tener presente dei problemi
dell’ontologia esistenziale, la cui conclusione è ancora quella di Agostino e
Tommaso. Oggi la concezione dell’uomo
come dramma, del soggetto come problema da spiegare e non come principio di
spiegazione, è tornata alla ribalta
della discussione filosofica; al dramma
si è cercato di togliere ogni carattere teologico e si è tentato
risolverlo nell’ambito dell’ordine umano: l’uomo pone il suo problema e lo risolve da sè; ogni
altra soluzione è fittizia ed illusoria.
È la conclusione di ogni forma d’immanentismo, il dogma della filosofia
marxista. L’uomo il suo problema lo
risolve da sè: non c’è posto per il superfluo,
l'inutile della trascendenza. L’uomo deve sacrificarsi all’uomo
(individuo, famiglia, società, Stato): è contrario alla sua natura sacrificarsi a qualcosa che non sia
umano, che lo trascenda. L’immanentismo,
di qualsiasi specie o sottospecie, si
rivolta a Dio, gli dice di no. Dunque dice di no a Qualcuno: altrimenti a chi
direbbe di no e a chi si ribellerebbe?
Ribellarsi è ribellarsi a Qualcuno. L’atto di ribellione di una parte cospicua del pensiero moderno, la sua
alta protesta contro Dio, è un’affermazione di Dio. I Titani che si ribellarono
a Giove, nell’atto stesso, riconobbero la esistenza di Giove, tanto da tentarne l’offesa e da
sperimentare la potenza della sua ira. Il titanismo moderno non è stato da
meno, ma siccome si è rivoltato al Dio
di Cristo, ha sperimentato l’infinità
del suo Amore. La rivolta contro la metafisica,
portata alle sue ultime conseguenze critiche e corretta dalle deviazioni acritiche, non può non risolversi
che in una consapevolezza invincibile dell’esistenza di Dio, la quale è insita
al dramma interiore che è l’uomo, l’esistente che, al vertice del conoscere razionale, pone ancora
il suo problema, quello della sua destinazione. Con esso è tutto il conoscere
razionale che chiede la sua autenticazione in un sapere che trascende la ragione senza
contrastarle. L’esistente scopre la sua consistenza: l’esistenza degli esseri
rimanda all’Essere, la radice di ogni essere, perchè radicato nell’Essere. Vi è in tutti gli esseri una contingenza
iniziale , come dice il Blondel, che li accompagna nel loro processo evolutivo e costitutivo. Cercare la
loro consistenza in quel che hanno di
fatto in un dato momento è cercarla per mai
trovarla nel loro aspetto esterno e non
nel loro ordine interno, nella zorma
interna che li trascende, la quale costituisce
la vivente e secreta armatura degli esseri in cerca della loro vera e completa realizzazione (L'’Etre et les étres). L'essere-persona è
capace di autosufficienza, di realizzazione completa e totale? Può erigersi ad
Assoluto come singolo o come
collettività? L’esistente è tale per l’Esistente; conoscente e capace di
conoscere, al limite del suo conoscere, pone se stesso come problema; ed è questo l’atto ultimo
della ragione, contenente tutti i dati per la soluzione del problema dell’esistenza
dell’Esistente assoluto. All’estremo di tutte le sue possibilità, al massimo della soddisfazione
dei suoi bisogni, è ancora bisogno,
grida, come dice Hello, io ho bisogno .
Ha quel che è, ma non è tutto e dunque non ha tutto. Scopre al limite di
ogni possibile ricerca, con la convalida e la
garanzia di tutto il suo conoscere e sapere, di avere un fine che lo trascende, di tendere ad un
perfezionamento che lo oltrepassa. Il ne
varietur della religione costituisce la pedana
di lancio nella possibilità della fede; non nell’ignoto, perchè la fede
religiosa non è cieca, nè è un’avventura da anima romantica. Senza essere una passione inutile ,
come lo definisce banalmente Sartre,
l’uomo è amore per l’Esistente, l'Altro incommensurabile. Ogni progetto di
essere per sè è perpetuo progetto di
fondarsi da sè ed è perpetuo fal 226
Filosofia e Metafisica limento di esso, perchè è progetto contro la
consistenza dell’uomo, congiura che egli
ordisce ai danni di se stesso, della sua
vocazione naturale, essenziale ed universale. La tendenza all’Altro è invincibile ed è
tendenza a Dio. L’esistere nel mondo non è il fine, ma la prova: Dio è il
fine di ogni soggetto. La consistenza
della persona è nel rapporto con l’Essere assoluto. Aspirazione a Dio con tutti
noi stessi è consapevolezza, con tutti
noi stessi, di essere incapaci da soli di attingerLo; la nostra generosità autentica,
coraggiosa ed insaziabile , come
la chiama il Blondel, che l’iniziativa
di Dio, nella sua infinita carità e bontà, vorrà premiare. Ma dipende da noi farci simili al
cristallo, secondo la magnifica
espressione di Caterina Mansfield, affinchè la
luce di Cristo brilli attraverso di noi. Dio si conosce meglio ignorandolo , secondo la
formula della teologia mistica fatta propria da S. Tommaso, ma inconosciuto
nella sua essenza, è da noi conosciuto
come e in quanto incognito. La
consistenza degli esseri ci è dunque risultata risiedere, seguendo il dinamismo
interno del pensiero e senza rinunziare
o condannare il conoscere razionale, nel loro rapporto con Dio, al limite dei
limiti, in un fine senza fine. L'ultima
parola della ragione è la prima della religione: l'estremo appello dell’esistente-consistente
non va rivolto alla ragione, ma, sul
fondamento della ragione, a Dio. Dunque,
a rigor di termini, non vi è una filosofia esistenzialista , nel senso di una filosofia della pura
esistenza, ma una filosofia, come tale razionale, che pone il problema dell’esistente
a faccia a faccia con la soluzione teistica, che apre alla fede religiosa; una filosofia, che,
perchè tale, è metafisica. L’esistente, nell’atto stesso d’interrogare la
ragione e problematizzarla, riceve da
essa l’indicazione della via da seguire.
Non c’è materia per drammatizzare o vilipenderla; c'è il più saldo fondamento per sperare con
il suo assenso. L'esistenzialismo è
ingiusto verso la ragione per due motivi: 4) perchè essa indica la strada per
la soluzione del problema dell’esistente; 4) perchè una volta che esso pone
la ragione stessa come problema, dato
che la filosofia è per sua natura
imprescindibile razionalità, invano si arrovella a mettere insieme una filosofia esistenziale. (Ecco perchè gli esistenzialisti
son capaci di profonde e sottili analisi
psicologiche moralisti , ma non di indagini filosofiche
vere e proprie). L’esistenzialismo è la crisi della filosofia. Le sue richieste deve rivolgerle
altrove, all’Altro, che è il Qui, che la
ragione stessa riconosce al suo limite;
l'istanza esistenziale ritorna sempre come istanza religiosa. L’interrogazione dell’esistente è quella che
la ragione fa a se stessa di fronte al
problema esistenziale, il suo convergere
in Dio; dunque ancora filosofia con
soluzione teistica. La inoggettivabilità dell’atto di esistere, se non
rende estranea la ragione al problema
dell’esistente, la fa convinta
dell’impossibilità di risolverlo, senza che ciò contrasti con la natura della ragione stessa. L’esistente inesistente nell’ordine del conoscere razionale, ma esistente
come problema-limite della ragione, inesiste come soluzione nell’ordine teologico, in
quanto la spiegazione e la autenticazione di ogni atto di esistere è nel
supremo Esistente. La ragione non spiega
tutto l’esistente, ma gli spiega come e
dove spiegarsi: è sempre la luce dell’esistente, la sua intelligenza,
che l’avvia alla chiarezza totale, a Dio. Cervello ed umanità, l’uomo: è suprema saggezza
mettere il cervello al servizio della
nostra umanità la più profonda ed essenziale. Amore in una breve nota
pubblicata nella rivista Sapienza (n. 1, 1948, 132), a proposito di queste
pagine, mi osserva che, senza riescirvi,
io mi sforzo di completare la
Metafisica degli antichi Scolastici con... un po’ di esistenzialismo, cioè con il problema
posto dagli esistenzialisti, non con la
soluzione che essi danno . E aggiunge: Egli crede che il problema dell’esistenza
com’è posto e risolto da Aristotele e da S. Tommaso sia di natura totalmente
astratta e resti nel puro campo dell’astrazione, della essenza o concetto dell’ente come ente, formando così una
eidetica, una metafisica cioè delle pure
essenze . Francamente non riesco a spiegarmi come D'Amore, pur
sempre attento e, verso di me, benevolo
lettore, abbia potuto farmi questi rilievi.
Sarebbe da parte mia uno sforzo davvero inintelligente quello di e
completare la metafisica degli antichi
Scolastici con... un po’ di esistenzialismo , in quanto questo problema non
avrebbe senso e perchè la metafisica della migliore scolastica per me pone il
problema dell’esistenza in termini più veri e speculativamente più vigorosi che
non l’esistenzialismo. La mia posizione è chiara: l’essere non è riducibile nè alla pura essenza nè alla
pura esistenza, in quanto la sua
struttura è duplice. Inoltre io non dico affatto che quella di S.
Tommaso è una metafisica delle pure
essenze; anzi proprio il contrario: è una metafisica dell’esistenza; e su questo punto ho
insistito nel distinguere la metafisica aristotelica da quella tomista; o forse
D'Amore vuole identificare S. Tommaso con
Aristotele, a tutto svantaggio del primo? I due volumi di Filosofia e
Metafisica raccolgono le pagine più impegnate e profonde che lo S. ha scritto
tra il 1945 e il 1950 e segnano il passaggio dallo Spiritualismo cristiano alla
Filosofia dell’integralità. In essi si possono leggere saggi di rilevante interesse
teoretico come quelli sul concetto di metafisica e sull’ateismo, oltre
all’altro sull’esistenza di Dio, che ormai si allinea tra i testi classici
della filosofia contemporanea. Lo stile avvincente e chiaro, il vigore del
pensiero insieme profondo e cristallino, l’unità dell’ispirazione, il modo
proprio dell’ Autore di rendere attuali e vivi problemi di sempre, fanno che
quest'opera, sistematica senza pesantezza, sta una lettura appassionante e proficua.
Zursaran S. Tommaso visita S. Bonaventura. OPERE COMPLETE DI MICHELE F. S.
Volumi pubblicati: 2. 3. 4. 5. L'interiorità oggettiva, III Come si vince a
Waterloo, Interpretazioni rosminiane, L'uomo, questo squilibrato Atto ed essere, La filosofia oggi, La filosofia morale di A.
Rosmini, Morte ed immortalità, II edizione, riveduta, pag. 383, L. 3500. La
clessidra (Il mio itinerario a Cristo), In Spirito e Verità, Dall Attualismo
allo Spiritualismo critico, Filosofia e Metafisica, Pascal, V edizione riveduta
e aumentata, pag. 252, L. 2000. 16. Dialogo con Blondel, Così mi parlano le
cose mute, Kierkegaard e il malessere della cristianità, La filosofia italiana, Il tempo e la libertà.
Il momento estetico e il valore ontologico della fantasia, Platone, Studi sulla
filosofia antica, II edizione. Chiesa cattolica e mondo moderno, II edizione.
Il pensiero italiano nell'età del Risorgimento, II edizione. 27-28. Il pensiero
occidentale nel suo sviluppo storico. 29. Studi sulla filosofia moderna, INI
edizione. 30. Le mense di Cristo. MARZORATI MILANO via Borromei. L' illustrazione è opera del
pittore fiorentino Primo Conti. La caravella dalle vele crociate, che
attraversa le Colonne d’ Ercole, simboleggia l’aspetto essenziale della
filosofia dello S.: non vi sono ostacoli per il pensiero umano, nè barriere
invalicabili, se esso cammina e procede sorretto dalla fede nella verità di
Cristo. Una mattina, il re Gerone domandò a Simonide che gli dicesse chi fosse
Dio; Simonide gli chiese un giorno di tempo per pensarci sopra; l'indomani, a
corto di una risposta soddisfacente, gliene chiese due, poi quattro e così di
seguito. Alle meraviglie del re per il moltiplicarsi continuo dei giorni,
Simonide rispose che più ci pensava, più il problema gli sembrava oscuro. Le
pagine che seguono si propongono di vagliare le risposte di quanti, a
differenza di Simonide, affermano in vario modo che Dio non è, cioè vogliono
essere un breve esame storico-critico delle forme più significative di ateismo,
un’analisi e valutazione delle dottrine che implicitamente o apertamente si
dicono atee ( #Seos= senza Dio). Problema difficile e complesso, non solo per
le sfumature che presenta, ma anche perchè quanti son atei spesso negano di
esserlo o, ammettendolo, parlano di un’altra cosa (!). Avevo sentito dire molte
cose di lui già in passato, e fra (I) Per esempio, il Comre (Système de polit.
pos., t. I, 48) scrive che l’ateismo è una cosa rara ; il Renouvier (Derniers
Entrétiens, Paris, 102) che il n’y a que très peu d’athées ; lo stesso Le
DantEc non si considera ateo (L’Athfisme, Paris, 1906, 56) e aggiunge che la
gran maggioranza degli uomini est imbue
de l’idée de Dieu (19); da parte sua il
Blondel afferma che l’ateismo è une
thèse verbale, une interprétation ou, mieux, une finction notionnelle, mais non
une position réelle ni une attitude naturelle: on peut dire qu'il y a ou des
anti-théistes ou des idolàtres, à defaut de croyants du vrai Dieu, il n’y a pas
d’athées; car, pour nier Dieu, on est forcé de passer d’abord par l’affir8
Filosofia e Metafisica l’altro che era ateo: è un uomo realmente molto
istruito, e mi rallegrai di poter parlare con un vero scienziato. Oltre a ciò,
è un uomo di educazione rara, sicchè parlava con me proprio come a persona del
tutto uguale a lui per cultura e intelligenza. Non crede in Dio; tuttavia una
cosa mi colpì: che in tutto quel tempo avesse l’aria di parlare di tutt'altra
cosa, e appunto mi colpì perchè anche in precedenza, per quanti miscredenti
avessi incontrato e per quanti libri del genere avessi letto, mi era sempre
sembrato che parlassero e scrivessero cose del tutto diverse, sebbene in
apparenza fosse il contrario. Allora glielo dissi, ma, si vede, non in modo
chiaro, oppure non seppi esprimermi, perchè non capì nulla... Senti, Parfén,
poco fa tu mi hai fatto una domanda, eccoti la mia risposta: l’essenza del
sentimento religioso sfugge a qualsiasi colpa o delitto, a qualsiasi ateismo;
c’è in esso qualcosa di inafferrabile e ci sarà eternamente, c’è in esso
qualcosa su cui sorvoleranno sempre gli atei, che parleranno eternamente di
tutt’altra cosa . Così il principe Myskin nell’Idiozz di Dostoevskij} non senza
una sottile ironia verso il vero scienziato molto
istruito e dall’ educazione rara , il
quale crede di negare Dio e parla di
tutt’altra cosa : la sua cultura e intelligenza
hanno come limite l'ignoranza di ciò che
negano; conosce tante cose ma non la sola necessaria per essere veramente
sapiente. Nè si tratta dell’ignoranza dell’ateismo volgare: vi sono atei che
filano le prove classiche dell’esistenza di Dio meglio di tanti credenti; le
ripetono anche a se stessi, e non se ne convincono. Evidentemente, oltre che ad insufmation
au moins implicite, mais inéluctable d’un ’’super-immanent’’ (La querelle de
l'athéisme, Séance du 24 mars 1928 de la Société frangaise de Philosophie , nel vol. di
BrunscHvice, La vraie et la fausse conversion, Paris, Presses Universitaires de
France, 1951, p212-213). Anche S. Agostino scrive: Si tale. hoc hominum genus est, non multos
parturimus; quantum videtur occurrere cogitationibus nostris, perpauci sunt, et
difficile est ut incurramus in hominem qui dicat ir corde suo, non est Deus... (Enarr.
in Psalm. 52, 2). E aggiunge: Dio è così
naturalmente presente al cuore dell’uomo che solo i corrotti e i perduti nel
vizio possono negarlo (Enarr. in Psalm.
13; In Joan. Evang. tr. 106, c. 17, n. 4). L'ateismo 9 ficienza della volontà e
al profitto o al piacere di non
convincersene, intervengono errori o fuorviamenti intellettuali, di cui il
principale è appunto che, parlando di Dio e negandolo, parlano di un’altra
cosa. Similmente, come abbiamo accennato, altri protestano di non essere atei;
tuttavia, lo sono, in quanto Lo concepiscono in maniera inadeguata o
contrastante la sua essenza. Nessuno, in
fondo, è ateo se non a parole ; al contrario, secondo Bayle, è possibile una società di atei; ai nostri giorni si parla di ateismo di massa e non più di una élite
(ateismo individuale o di setta) e alcuni stati e governi si proclamano ufficialmente atei e areligiosi; non manca chi ha creduto di
dimostrare, come il Rensi nella sua superficiale Apologia dell’ateismo, che è razionale
negare l’esistenza di Dio, anche se l’ha
fatto con una passione da credente senza
Dio , spiegabile solo con un sotterraneo e invincibile sentimento religioso.
Problema dunque complesso, soprattutto se considerato nel pensiero moderno e
contemporaneo, che va trattato con un interesse pari alla sua importanza, anche
se, come vedremo, l’ateismo, sotto qualsiasi forma si presenti, non è razionale
perchè intrinsecamente contraddittorio ed è una violenza dell’uomo alla sua
stessa natura (?). 2. Abuso del termine ateismo
. E’ necessario distinguere ateismo in senso assoluto e in senso relativo: nel
primo caso si nega Dio in qualsiasi modo lo si concepisce; nel secondo si
giudicano atee alcune parti Ciò è confermato anche dai cosiddetti fatti tanto importanti per gli empirici, i
materialisti e gli evoluzionisti; infatti, le forme più primitive di religione
sono monoteiste e il politeismo, il feticismo, ecc. sono forme derivate di
corruzione o degenerazione. D'altra parte, l’ateismo in quanto tale non è
originario: come momento negativo, presuppone quello positivo, l’affermazione
di Dio, cioè nasce dal fatto che l’uomo è per essenza religioso: c’è l’ateo
perchè c'è il credente, il positivo ,
che può stare senza il negativo , che,
invece, non è senza l’altro. 10 Filosofia e Metafisica colari maniere di
concepire la divinità, o si dissente su particolari questioni di culto e di
carattere religioso-teologico. Per esempio, per i pagani sono atei i cristiani
e per i cristiani i pagani; per i protestanti i cattolici e per i cattolici i
protestanti, ecc. Samuel Parker, protestante del XVII secolo, s'affanna a
provare (*) che tutti gli scolastici sono stati assolutamente atei; da parte
sua, il gesuita Hardouin, nel libro Azhei detecti (4), accusa di ateismo
Descartes, Arnauld, Pascal, Malebranche, ecc. In altri termini, per ciascuna
religione positiva sono atee tutte le altre concezioni di Dio da essa disformi.
Per conseguenza, secondo alcuni, la definizione del termine ateismo è puramente verbale, in quanto il contenuto
del concetto di ateo varia secondo le diverse concezioni di Dio e del suo modo
di esistere (°). A_ volte basta dissentire dalle opinioni dominanti o ufficiali
di una determinata epoca, per grossolane ed empie che siano, per essere
accusati di ateismo e condannati. Celebri, in questo senso, nell’antichità, il
processo e la condanna di Socrate; notissimo il racconto dell’Euzifrone
platonico dove l’ateo di fronte alla religione ufficiale è Socrate, sostenitore
di una concezione della divinità più conforme al suo concetto, e credente
l’indovino Eutifrone, che attribuisce agli dèi ogni specie di malefatta e se li
rappresenta in maniera empia e volgare in conformità con le credenze popolari
ufficialmente accettate (9). Qui vi è un abuso della parola ateo dettato quasi
sempre da conformismo opportunistico o da una politica di tornaconto, e
un’errata impostazione del problema. L’abu(3) Cfr. Disputationes de Deo et Providentia
divina, Londra, 1678, dis2, ca2. (4) Opera varia, Amsterdam, 1719. (5)
Vocabulaire technique et critique de la philos., IV ediz., Paris, 1938, vol. I, 73. (6) In questi casi, l’ ateo è il vero credente, colui che protesta contro
le concezioni volgari o superstiziose e le pratiche sconvenienti, si mette contro l'opinione comune (il paradossale ), che offende Dio e il suo culto.
L'’ateismo (3 so, già molte volte rilevato e criticato da scrittori di varia
tendenza ("), si può riassumere, per quanto riguarda la pratica religiosa,
in questi termini: è ateo chi non è rigidamente conformista al culto ufficiale
di un paese in una determinata epoca. Ma qui non si tratta più di un problema
teoretico o speculativo, ma di una questione di prassi, tipica, per esempio,
della Grecia antica, il cui politeismo, privo di dogmi e di una vera e propria
teologia, era quasi soltanto culto controllato dallo Stato. Roma, cue per
mancanza di autentico spirito religioso e opportunismo politico era tollerante
con tutti i culti, li reprimeva sotto l’accusa di ateismo, quando contrastavano
con le direttive politiche e l'autorità statale. In questi casi non c’è ateismo
teoretico in quanto non si nega l’esistenza di Dio, nè pratico perchè non si
vive come se Dio non esistesse; si fa questione intorno alla prassi religiosa e
per motivi ad essa estranei. Così i pagani chiamavano atei gli Ebrei (*) ed anche
i cristiani perchè si rifiutavano di praticare il loro culto; con l’editto
imperiale del 380, invece, furono definite atee tutte le religioni non
cristiane (sacrilegium = &3ed7ns). Altra la questione riguardante il
diverso modo di concepire Dio: se si tratta di controversie dogmatiche si può
parlare solo di non ortodossia (per esempio, i protestanti si possono dire
eterodossi, ma non atei); se della concezione di Dio in generale, bisogna
distinguere: a) non sono atee le concezioni primitive e rudimentali in quanto
manca la coscienza critica e dunque il problema stesso dell’ateismo; b) lo
sono, invece, quelle che negano Dio, o chiamano con questo nome un ente che non
lo è (la Natura, il Cosmo, ecc.). Ma nei due casi si tratta sempre di insipienza ; infatti, 1r51piens pronunzia la parola e pensa ad altro non è solo chi nega Dio, ma anche colui che Lo
concepisce in modo soi (7) Cfr., per esempio, Vottatre, Dict. philos., Paris,
Flammarion, s. a., voce Athée, Athéisme ,
p35 e ss.; Franck, Dict. des sciences philos., sub. V. (8) Jos. Frav., Contra
Apion., II, 16. 12 Filosofia e Metafisica stanzialmente sconveniente alla sua
essenza. Anzi quest’ultima forma di ateismo, non soltanto Lo offende, ma
ostacola la conoscenza del Dio vero: rispetto ad essa l’ ateo ha la funzione benefica, anche se negativa, di
demolire gli dèi falsi e bugiardi . 4
Non tengono conto di queste necessarie distinzioni quanti concludono che il
termine ateo non ha alcun significato teoretico definitivo o definibile, ma
solo un eglore storico da determinare caso per caso secondo i diversi culti e
le particolari rappresentazioni di Dio. Così non solo si nega ogni forma di
ateismo tutto si ridurrebbe a reciproche
accuse tra sistemi teologici e culti diversi, a chiamare atee forme di
religione rudimentali o meno progredite ma che teismo ed ateismo, in quanto temi di
polemiche religiose, siano problemi appartenenti alle discussioni filosofiche;
in altri termini, si nega che l’esistenza di Dio sia un problema teoretico e lo
si relega tra le controversie intorno al culto. Affermazione insostenibile,
storicamente e teoreticamente, la quale non distingue il problema del domma e
del culto da quello filosofico vero e proprio. Infatti, dal punto di vista
storico è facile constatare che, in ogni epoca, tutti i grandi sistemi speculativi
hanno affrontato come questione filosofica e da un punto di vista teoretico il
problema dell’esistenza e della concezione di Dio; anzi non c’è stata e non c’è
filosofia che non si sia posto il problema, così intrinseco alla stessa ricerca
da definirsi, secondo la risposta affermativa o negativa, teistica, agnostica,
atea, ecc. Possibile che una questione la quale ha occupato la mente degli
uomini in tutti i luoghi e tempi ed è stata sempre intrinseca alla ricerca
razionale, non abbia in sè alcun senso filosofico, al punto da far dire che il
termine ateismo non ha un significato teoretico definitivo, è
privo di un suo contenuto e appartiene solo alle controversie sul culto o tende
decisamente a ridurvisi? L'ateismo 13 Dal punto di vista teoretico, come
giustamente osserva il Lachelier (9), ce qui varie est moins le contenu philosophique
dell'idea di ateismo que l’emploi plus ou moins malveillant che si fa del termine contro una particolare
dottrina o una determinata persona. Altro è il contenuto filosofico pressochè
invariabile, altro l’uso pratico del termine; dunque, il senso storico o
pratico variabile va distinto da quello teoretico immutabile. Chi nega che i
termini ateismo e teismo abbiano un senso speculativo e pretende con
ciò di negar loro diritto di cittadinanza nelle ricerche e nelle discussioni
filosofiche per affidarli soltanto alle controversie religiose, muove da una
posizione di pensiero, da un presupposto che ha già concluso per suo conto che
il tema dell’esistenza di Dio è del tutto estraneo alla filosofia o alla
ricerca razionale e perciò non costituisce un problema speculativo; dunque, da
un sistema costruito in modo da non far posto all'idea di Dio e, in questo
senso, da una filosofia atea. Per conseguenza, la sua affermazione che il
termine ateismo non ha un contenuto teoretico definibile ma solo un valore
storico e pratico, è presupposta, senza essere dimostrata, nella sua iniziale
posizione filosofica che, in partenza e aprioristicamente, esclude dal campo
dell'indagine razionale il problema teologico, per relegarlo in quello delle
questioni religiose, solo in quanto il sistema non ne tollera la presenza: ci troviamo di fronte ad uno
scoperto e filosoficamente intollerabile :dolum theazri. Chi dice in partenza,
confondendo l’uso pratico del termine ateismo con il suo contenuto, che quello
dell’esistenza o non esistenza di Dio non è un problema filosofico ha già
deciso; per lui, la ragione, come ragione filosofica, è atea o almeno
agnostica. Ma questa affermazione è una soluzione del problema in questione,
non un’argomentazione valida per dimostrare che quello teologico non ha un
significato teoretico; (9) Vocabulaire ccc., cit., 72. 14 Filosofia e
Metafisica anzi per il fatto che dà già una soluzione, vera o falsa che sia,
prova con ciò stesso che il problema appartiene all’indagine filosofica e non
soltanto alle controversie religiose. Dunque esso va riportato in sede
speculativa come quello che, non solo appartiene alla ricerca razionale, ma è
il problema primo della metafisica e perciò intrinseco ed essenziale alla
filosofia come tale. Ma daccapo: quando l’ateo dice Dio non esiste , quale Dio nega? Pensa
veramente a Dio? Ne nega l’esistenza senz’altro, o nega quella di un Dio
immaginato in una determinata maniera? Si è teisti soltanto se si ammette
l’esistenza di Dio concepito nell'unica maniera vera e atei quando, pur non
negandolo senz’altro, se ne concepisce uno in un modo diverso dall’unico per
cui ci si possa dire teisti, in quanto il solo concepirlo diversamente ne
implica la negazione? Problemi, questi ed altri, da tener presenti in una
valutazione filosofica dell’ateismo, ma tutti riducibili a quello di una ragione
atea ; dunque, ai fini della validità dell’ateismo stesso la domanda decisiva è
una sola: è razionale una ragione atea? L'’ateismo pratico non è autonomo e
originario ma dipendente e derivato: ogni sua forma ne presuppone una di ateismo
teoretico: la volontà atea, sia pure implicitamente, è conseguenza della
ragione atea. Perciò la sua validità dipende da quella dell’ateismo teoretico,
la cui confutazione implica inappellabilmente l’altra dell’ateismo pratico. Vi è un ateismo, scrive
Bossuet, caché dans tous les coeurs, qui
se répand dans toutes les actions: on compte Dieu pour rien ('). È l’attitudine di quanti vivono e organizzano la propria vita come se
Dio non esistesse; e non se ne preoccupano (”). Non ne negano in modo esplicito l’esistenza;
vivono e agiscono senza tenerne conto, cioè negano che Dio, esista o no, possa
avere una qualsiasi efficacia valida sulla nostra condotta e aiutarci nella
soluzione dei problemi che c’interessano. Alla base di questo comportamento
sottostà una tacita convinzione: niente nel mondo cambie Pensées détachées, II.
E’ più una questione di indifferenza che
d’ignoranza; a volte di pigrizia, d’insensibilità, di ottusità spirituale;
infatti, di Dio sentono parlare e ne parlano, ma vivono egualmente come se non
esistesse. Non si tratta soltanto di essere sopraffatti dalle passioni terrene
o dall’urgenza della vita il lasciarsene
sopraffare indica già che è debolissimo il richiamo dei valori religiosi nè dall’influenza dell'ambiente o
dell'educazione: il fatto che se ne lasciano assimilare è prova che mancano di
una vera esigenza religiosa ed implica una accettazione che è sempre, almeno
implicitamente, frutto di una sia pure elementare riflessione e di un atto
volontario sia esso di mera acquiescenza. 16 Filosofia e Metafisica rebbe in
bene o in male anche se Dio non esistesse; la vita, la morte e tutto il corso
dell’umana esistenza non muterebbero di segno: dunque che vale ammetterlo o
preoccuparsi di risolvere il problema della sua esistenza? Ma chi ragiona in
questo modo, di quale Dio non si preoccupa sapere se esista o no ed agisce, in
privato ed in pubblico, come se non esistesse? Di un Dio la cui esistenza non
avrebbe alcuna efficacia sulla nostra condotta e il senso della vita; che è
dire di un Dio che non è tale, anzi che è meno dell’uomo, il quale in un certo
modo riesce ad influire sulle sue azioni e a dare una risposta a certi
problemi. È evidente che tale ateismo pratico è la conseguenza di uno
teoretico, cioè del concepire Dio come non Dio, che è negarne l’esistenza;
dunque, affinchè esso possa giustificarsi deve prima provare la validità
razionale della negazione teoretica su cui si fonda e da cui deriva. Vi è una
forma di ateismo pratico più radicale ed oggi di moda: la vita non ha senso, è
assurda; dunque Dio non esiste; ma chi dice che la vita non ha senso per ciò
stesso presuppone che Dio non esiste. Infatti, è contraddittorio negare ogni
senso alla vita e nello stesso tempo ammettere che Dio esiste in tal caso si pensa ancora all'esistenza di
un Dio che non è tale ; come non si può ammettere l’esistenza del vero Dio
senza dare alla vita un senso preciso e assoluto. La negazione non è una
conseguenza del fatto che la vita non ha senso, ma la premessa teoretica da cui
scaturisce l’ateismo pratico. Chi nega un senso alla vita non deduce da questa
affermazione l’inesistenza di Dio; al contrario, dice che la vita non ha senso
proprio perchè in cuor suo Lo ha già negato. Dio non esiste è la premessa, anche se taciuta od omessa,
dell’altra proposizione la vita non ha senso, dalla quale non consegue la
negazione di Dio; quando la si pronuncia si è già negato Dio, anzi la si
formula solo in quanto si è negato. L'ateismo 17 L’ateismo pratico, anche in
questo caso, è conseguenza di quello teoretico; dunque non è valido fino a
quando non si sarà razionalmente dimostrata la validità di quest’ultimo. Del
resto, è nota la critica di Sartre all’ ateismo assurdista del Camus: l’assurdismo elevato a sistema si
autonega, in quanto è sistema ben ordinato del disordine, una specie di
razionalizzazione dell’assurdo perfettamente sistemato; piuttosto che negare
l’Assoluto lo implica senza spiegarlo. Ma questa critica vale anche contro
l’ateismo del Sartre. Se il male e i cattivi sono premiati a che giova credere
nell’esistenza degli dèi e adorarli? Si potrebbe credervi se attraverso il
trionfo del giusto si manifestasse la loro giustizia; ma nelle cose del mondo
avviene proprio il contrario. Questa forma di ateismo pratico, presente in
tutti i tempi (*) e presso tutte le società, può così riassumersi: se
l'ingiustizia fosse punita e il male vinto, non si potrebbe non credere
nell’esistenza degli dèi o di un Dio; invece, l’ingiustizia è premiata e il
bene sconfitto, dunque non esiste la divinità, o almeno tutto sta a provare il
contrario; ammesso che esista, è impotente o malvagia. Questa forma di ateismo
pratico è la semplificazione empirica di un problema metafisico di grande
portata e precisamente di quello del male e della sua origine: Si Deus est,
unde malum? La presenza del male nel mondo è una delle cause principali
dell’ateismo, come ci attesta la dolorosa esperienza del nostro e di tutti i
tempi. La stessa missione di Cristo è stata interpretata in questo senso: il
Getsemani, la cattura, il processo, il supplizio e la morte starebbero a
testimoniare come il giusto soccomba e il bene sia sempre sconfitto dal male
trionfante. (3) Se si onorano le azioni cattive ed ingiuste, a che adorare gli
dèi tl del pe xopesetv ? (SorocLe, Edipo re, 895); se l'ingiustizia è
più potente della giustizia non si può credere agli dèi (EuriPIpE, Elettra,
583). La stessa tesi è sostenuta dai sofisti (PLatonE, Repubblica, soprattutto
i libri I e IM). 18 Filosofia e Metafisica Ma in che senso si dice che il male
vince ed è premiato e, dunque, Dio non esiste? Evidentemente nel senso che in
questo mondo, su questa terra, il bene non è vittorioso ed è perseguitato. In
altri termini, si esige che la giustizia divina si avveri in questa vita, qui
si puniscano i cattivi e si premiino i buoni, qui si compia il destino
dell’uomo; che questa vita non sia prova, ma compimento pieno dell’esistenza
nell’episodio mondano, con cui viene in tal modo ad identificarsi tutta. Ma ciò
implica la negazione di un’altra vita, dove si attua la piena giustizia divina,
e la identificazione di tutto l’essere con la realtà mondana; cioè presuppone
la negazione teoretica di Dio e di un Regno divino, del resto superflui una
volta che nel mondo può trionfare la perfetta giustizia e l’uomo avere felicità
eterna. Infatti, se si ammette che Dio esiste come Provvidenza e giustizia assoluta,
è contraddittorio affermare che il male trionfa sempre ed è premiato; bisogna
dire invece che, anche quel che sembra male è a fin di bene e la giustizia,
anche se sconfitta e punita in questa vita, sarà vittoriosa e premiata nell’altra;
cioè, che la vera si attua in un altro mondo. Il fatto che il male trionfa
sulla terra e il giusto vi è perseguitato e punito non autorizza la conclusione
negativa dell’esistenza di Dio, anzi è uno degli aspetti della vicenda storica
dell’uomo che acutizza il problema, fa riflettere sul significato
dell’esistenza e stimola al convincimento positivo. Pertanto, la vera forma del
ragionamento ateo non è: vi è il male vittorioso nel mondo e il bene sconfitto,
dunque Dio non esiste , ma quest'altra: Dio non esiste e non vi è una giustizia divina
ultramondana, dunque il male è definitivamente vittorioso nel mondo e il bene
sconfitto . L’ateismo pratico presuppone sempre quello teoretico. Il problema:
si Deus est, unde malum?, per chi in partenza non ha negato Dio, si pone in
questi termini: ammesso Dio, come si
spiega il male?; per chi Lo ha già negato, in questi alL'ateismo 19 tri: se nel
mondo c’è il male trionfante, Dio non esiste . La conclusione solo in apparenza
è tale; in realtà è la premessa: Dio non
esiste, dunque nel mondo c’è il male, e vi trionfa . Infatti, se si nega un
regno ultramondano ed ultraumano, il male è invincibile ed impossibile una giustizia
perfetta; ma proprio perchè già... si è negato Dio! Da ultimo, negare Dio
perchè nel mondo il male ha successo e il bene è perseguitato, è dare eccessiva
importanza al giudizio degli uomini e attribuire valore assoluto a quel che il
mondo può darci, altrimenti non si potrebbe concludere a quella negazione,
contraddittoria con la relatività dell'umano giudizio e dei riconoscimenti che
crediamo spettarci; ma sopravvalutare la giustizia e l’ingiustizia terrene e i
beni che possono dispensare o interdire, è già negare Dio. Basta convincersi
che, meno le essenzialissime, le cose hanno solo l’importanza che attribuiamo
loro, per non disperare di fronte al male premiato o al bene perseguitato e per
rimettere ogni giudizio, con l’anima in pace, alla giustizia divina. Invece, la
forma di ateismo pratico che stiamo discutendo importa la negazione radicale
del cristiano Regnum Dei, della verità delle parole di Cristo: Il mio Regno non è di questo mondo .
Conseguenza pratica di una posizione teoretica immanentistica non vi è un al di là trascendente, l’unica
realtà è questo mondo afferma che v'è
solo il regnum hominis, dove si attua il cosiddetto Regnum Dei. Ma è un
umanesimo ateo disincantato ; non crede
nella potenza dell’uomo che da solo si costruisce il suo regno di felicità e
dalla negazione teoretica di Dio conclude all’invincibilità del male e al suo
trionfo tra gli uomini. Ciò prova indirettamente come, negato Dio, perdano ogni
validità anche i valori morali, tutti relativi alle situazioni contingenti, e
non abbia più senso nemmeno essere onesti per sentirsi in pace con la
coscienza. Su questa radicale negazione della concezione cristiana. 20
Filosofia Metafisica dell’esistenza si fonda l’interpretazione, sopra
accennata, della vita di Cristo come esempio della sconfitta del bene e della
vittoria del male. Se la si accetta per vera, se Cristo sta a provare che il
male è assolutamente invincibile e il bene soccombente e crocifisso, non si
sfugge a questa conclusione: Cristo sta a dirci che Dio non esiste, che non è
Suo Figlio, nè è venuto a testimoniare del Padre; abbandonato perseguitato
crocifisso, è la prova che non vi è alcuna giustizia, nè Dio, convalida
l’ateismo; Egli stesso, in fondo al cuore, nonostante le cose che ha detto del
Padre, è stato un ateo tristissimo e sconsolato! Tali le conseguenze assurde di
questo ateismo pratico che possiamo chiamare anche dell’insuccesso: il bene è
sempre in perdita, il male sempre in vincita, dunque Dio non esiste. Ma,
daccapo, proprio perchè si è negata l’esistenza di Dio si conclude che il male
vince e il bene perde; altrimenti, se quella negazione non fosse presupposta,
dall’insuccesso mondano e contingente del bene si ricaverebbe quest'altra
conclusione: quando il bene si purifica attraverso la rinunzia, la sofferenza e
la sconfitta terrena, quando sfida il martirio, si assicura la vittoria, vince
con e nel sacrificio di chi gli si sacrifica, gli rende testimonianza. Invece,
il male, apparentemente vittorioso, perde terribilmente nel momento che uccide
il giusto, perchè vince come male, perchè costretto a commettere ingiustizia: è
sconfitto proprio per il suo successo. La punizione della legge ingiusta, come
dice Gandhi, sta nell’obbligarla ad essere applicata al giusto, nelle sue
ingiustizie e nelle sue vittime (*). Bruto che, dopo la sconfitta di Filippi,
giudica la virtù un nome vano e si
uccide, non aveva mai creduto nella verità di essa e ne aveva sempre misurato
il valore e il significato dall’eventuale insuccesso o successo, anzi dal suo
personale. (4) Per un approfondimento di questi temi cfr. il nostro volume Come
si vince a Waterloo, Milano, Marzorati, 3* ediz., 1962, Il* delle Opere complete . L'ateismo 21 Vi è in
quest’ateismo pratico anche un fondo di superbia satanica: la pretesa che
l’uomo faccia trionfare il bene e la giustizia con la sua opera, come se fosse
egli il creatore e il garante dei valori. Noi facciamo sempre come se avessimo il
compito di far trionfare la verità, mentre abbiamo solamente quello di
combattere per essa (Pascal). Similmente il nostro dovere è di essere giusti al
servizio della giustizia: combattere per essa, senza pretendere di farla
trionfare, perchè non ci spetta. Chi si arroga quest’ultimo compito è già ateo:
affida a sè il trionfo del bene, non ce la fa, e conclude che se il bene perde
e il male vince, non c'è bene in questo mondo e dunque... Dio non esiste. Un dunque apparente perchè non è tale, ma la premessa
dell’assurda pretesa di far trionfare il bene, di misurarne la vittoria o la
sconfitta dal suo terreno successo o insuccesso, di pretendere che l’ordine
divino si attui nel mondo e si identifichi con quello umano, anzi sia lo stesso
nostro ordine. Da ultimo, non vogliamo tacere di una forma molto diffusa di
ateismo pratico, quello di quanti dicono di credere in Dio e ne negano
l’esistenza in ogni loro azione, cioè agiscono come se non Gli credessero, o
non esistesse. Affermano di credere in Dio ma adorano il mondo, il potere, il
denaro; immersi nelle cose, la loro credenza religiosa è solo una specie di
polizza di assicurazione, pagata con il tributo del culto esteriore, sicuri,
con questo supplemento di comodità, di star bene in questa vita e meglio
nell’altra. È l’ateismo pratico della Messa della domenica e del segno della
Croce, magari, per non sciupare quel frammento di tempo, pensando a qualche buon affare . Anche in questo caso, l’ateismo
pratico presuppone quello teoretico, in quanto la fede di
questi cosiddetti credenti non è una dimensione interiore e manca di ogni
fondamento razionale; è pura consuetudine alimentata dal timore del non si sa mai . Vi è l’angoscia bruciante e
tormentata dei buoni atei; vi è l’ateismo sostanziale dei cattivi
credenti. 22 Filosofia e Metafisica 2. Inconsistenza dell’ateismo pratico. Come
abbiamo detto, l’ateismo pratico non prova la negazione di Dio, ma la
presuppone: apparentemente dal momento pratico trae la conseguenza teoretica
che Dio non esistes in realtà quest’ultima è presupposta. Per esempio: nel
mondo vince il male e perde il bene, dunque Dio non esiste, ma la prima
proposizione è essa la conseguenza e non la premessa della negazione
dell’esistenza di Dio; il dolore e il male sono inspiegabili, dunque non c’è un
Dio, ma sono inspiegabili appunto perchè Dio si è negato. Leopardi esorta gli
uomini a prendersi per mano per meglio sopportare il peso della vita di cui
nessuno si cura; ma gli uomini sentono la vita come un peso assurdo solo se si
presuppone che nessuno si cura di loro, cioè se si è già atei. Vana illusione
il conforto della solidarietà nel comune dolore: una comunità di disperati non
può dare speranza ad un solo uomo! È evidente il sofisma dell’ateismo pratico:
da una valutazione negativa del mondo conclude che Dio non esiste, ma la prima
proposizione è essa la conseguenza della seconda. La conclusione (Dio non
esiste) dalla premessa (se il mondo è fatto così) è in realtà la premessa di
cui l’altra è la conseguenza. D’altra parte, come abbiamo accennato, se il male
potesse essere sconfitto definitivamente in questo mondo e l’uomo realizzarvi
la felicità perfetta, sarebbero inutili Dio e una superiore giustizia divina:
il conflitto tra il male e il bene sarebbe risolto in questa vita e l’esito
immanente della lotta, tutto in potere dell’uomo, renderebbe superfluo quello
al di là di essa e dipendente da un intervento, che s'inserisce nella lotta
dell’uomo, ma non gli appartiene. Da questo punto di vista, all'opposto di come
argomenta l’ateismo pratico, proprio gli insuccessi del bene e l’incertezza
dell’esito definitivo del conflitto, sempre sospeso tra il bene e il male,
fanno evidente la convenienza razionale di una Giustizia L'ateismo 23 divina
trascendente e di una Provvidenza regolatrice della vita di ogni singolo e
dell’ordine universale. L’ateismo pratico, inoltre, arriva a conclusioni
opposte, ora ottimiste, ora pessimiste: dalla negazione dell’esistenza di Dio e
di una giustizia superiore conclude, come alcune odierne forme di
esistenzialismo, che nel mondo vince il male e la vita è miseria, assurdo, nulla;
d’altro lato, dalle stesse negazioni, che, proprio liberandosi da quelle superstizioni , l’uomo realizza in terra la
giustizia e la felicità perfette. Questo mito alimentò l’età dell’Illuminismo:
abbattere il vecchio edificio, demolire le illusorie speranze di una esistenza
ultraterrena e ricostruire una società nuova, fiduciosa nelle sue sole forze
razionali, che, immancabilmente, per mezzo dell’onnipotente scienza,
conquisterà per ogni uomo la più perfetta felicità; il mitico cristiano Regno
di Dio si attuerà su questa terra in un futuro immancabile, di cui artefice è e
sarà soltanto l’uomo (5). Il mito illuministico si è ripresentato, con il
marxismo, sotto altra forma e la spinta di nuovi problemi, come mito della
futura società omogenea , instauratrice
del nuovo uomo marxista e del nuovo umanesimo senza Dio. È facile che tale ottimi(5)
Il d’HotsacH fa consistere la felicità nell’ateismo; il BavLE ne fa quasi la
glorificazione: vi sono atei più virtuosi dei cristiani, capaci di macchiarsi
dei più turpi vizi; una società di atei, non solo è concepibile, ma sarebbe superiore
ad una cristiana; anche l’ateismo ha avuto i suoi eroi ed i suoi martiri.
L'Ottocento, a sua volta, crea il mito dell’ateo, modello di onestà, saldezza e
coerenza morale, quasi una prova apologetica della verità dell’ateismo. Essere
atei e onestissimi diventò una specie di srob, una patente, oltre che di alte
virtù civili e ciò fino ad un certo
punto è vero , anche di grande nobile coraggio morale, quello di sfidare il
nulla della morte e di sapersi reggere, torre che non crolla, sulle sole leggi
immanenti della coscienza; e ciò non manca del ridicolo che accompagna ogni
bravura, oltre che di un buon grado di infantile superbia ed ingenuità, quella
di chi crede che, negato Dio, vi possa essere un'assoluta legge morale.
Ottimistico ateismo borghese che il pessimistico ateismo antiborghese del ’900 ha distrutto con spietata coerenza,
anche se è riescito a mettere al suo posto soltanto il nulla. Ma già
nell’antichità Epicuro ritiene indispensabile alla tranquillità e felicità del
saggio il liberarsi dalla credenza nell’immortalità dell’anima, dalle
preoccupazioni dell’oltretomba e di una Provvidenza divina. Non nega l’esistenza
degli dèi; li relega tra gli intermundi, modelli ideali di quella saggezza a
cui l’uomo deve tendere. 24 Filosofia e Metafisica smo, una volta affidato
all’uomo il compito di realizzare quello che non gli compete e di fronte
all’impossibilità di tradurre in atto le sue disumane aspirazioni, ritorni alla posizione
dell’ateismo pratico pessimista. E° il destino di tutte le concezioni edoniste
(9), le quali assolutizzano il relativo il piacere o l’utile economico, che, come tale, può essere assoluto solo per
un’arbitraria ed ingiustificata estrapolazione e per un depauperamento al
minimo delle finalità dell’uomo. (6) Com'è noto, l’edonismo della Scuola
cirenaica in alcuni suoi seguaci sbocca in un sostanziale pessimismo; così in
Egesia, detto il persuaditor di morte (merarddvatoc). Alla stessa dialettica
ubbidiscono alcune teorie del piacere e del dolore del secolo XVIII. L’ateismo teoretico,
presupposto da quello pratico, è un giudizio negativo, diretto o indiretto,
sull’esistenza di Dio; dunque dovrebbe essere la conclusione di un processo
razionale da certe premesse. Possiamo distinguere: a) ateismo dommatico o
negazione pura e semplice dell’esistenza di Dio; b) ateismo scettico-agnostico,
provvisorio o definitivo, il quale nega all’uomo la capacità di concepire Dio e
di provarne comunque l’esistenza: ogni qualvolta ci si pone il problema dell’esistenza
di Dio, dice Bayle, ci si imbatte in mille difficoltà insolubili, come la
realtà del male e del dolore, per cui, quando si crede di averlo risolto, non
si è risolto niente (!); c) ateismo critico o confutazione delle possibili
prove razionali dell’esistenza di Dio la
posizione di Kant nella Critica della Ragione pura che tuttavia non è negata (ateismo attenuato),
anzi la si ammette per esigenze morali: forma di fideismo, non religioso, ma
come atto di fede razionale; d) concezioni improprie di Dio o dottrine come il
deismo, il panteismo, il materialismo, che, pur non negandone l’esistenza, sono
considerate atee per il modo come Lo concepiscono. Certo, se come sostengono
alcuni non può dirsi ateo chi ammette una realtà assoluta comunque concepita,
non Réponse aux questions d'un
provincial, 1706, t. III, caLXXIV. 26 Filosofia e Metafisica vi è forse
pensatore che lo sia; ma, in tal caso, il concetto di Dio risulta puramente
verbale, cioè mancante di un contenuto proprio e avente quello che ogni
filosofia gli attribuisce. D'altra parte, l’ Assoluto come è concepito da
alcuni filosofi non sempre è veramente tale, nè basta il termine per
qualificare l’idea di Dio. Si può dire che è Dio la Materia o l'Energia cosmica
intese come principio assoluto? l’hegeliano Assoluto che si fa , o un Dio limitato? Inoltre, la
nozione di Dio, come quella che non appartiene solo al pensiero filosofico ma
anche e soprattutto alla coscienza religiosa, deve soddisfare le esigenze della
ragione e della fede. e) Ateismo come negazione dell’altenazione religiosa o
liberazione definitiva dall’idea di Dio e riconquista dei diritti e dei poteri
integrali dell’uomo. 2. L'’ateismo
assoluto o dommatico. L’ateismo assoluto, negazione vera e propria
dell’esistenza di Dio, ha scarsissimo interesse storico e nessun valore teoretico.
I filosofi atei in tal senso sono pochissimi (7), anzi l’ateismo, in questa
accezione, è combattuto... proprio dagli atei, come quello che è una mera
credenza: credo ferma Nella Grecia antica sono considerati atei sotto questo
aspetto alcuni sofisti; Crizia, per esempio (frammento del dramma satiresco
Sisyphos, SExT., Emir. IX, 54, in Diets, Fragm. der Vorsokratiker, Il, fr. 25, 319
della IV ediz.) sostiene che gli dèi sono una pura invenzione. Atei, oltre a
Teodoro, Epicuro e Crizia, già ricordati, sono detti per tradizione Diogene di
Apollonia, Diagora di Melo, Evemero, secondo il quale gli dèi non sono che
antichi re o potenti, cioè uomini divinizzati. Nei tempi moderni, più che veri
e propri teorici dell’ateismo, vi sono agnostici e scettici; oppure dommatici
negatori di Dio che non si son mai posto speculativamente il problema; o ancora
sostenitori di dottrine materialistiche che lo sopprimono fin dall’inizio,
muovendo da un ateismo preconcetto. Ai nostri giorni non mancano ritorni alla
forma dommatica di rifiuto radicale dell'idea di Dio, la cui esistenza è
ritenuta impensabile , impossibile : non si criticano le prove, si
passa oltre, come di un problema che non ha senso logico nè interesse. Questo
ateismo si può riportare a quello psicologico di tipo dommatico (per esempio,
di Le Dantec): insensibilità per il problema e inconcepibilità dell'idea di
Dio. Più che di una teoria filosofica si tratta di una situazione psicologica;
perciò di un caso da trattare in altra
sede e non di un problema da discutere filosoficamente. L'ateismo 27 mente che
Dio non esiste . Di fronte ad una simile affermazione dommatica e fideistica non c’è che da scrollare le spalle fino a
quando non venga trasformata in problema, in un interrogativo su cui portare la
discussione. Le si può contrapporre, senza che l’ateo abbia il diritto di
protestare, quella del teista dommatico: La mia impossibilità di provare che
non c’è Dio, mi svela la sua esistenza (La Bruyère). Per Voltaire questo
ateismo è una forma di dommatismo quasi sempre fatale alla virtù al pari del fanatismo (*). In questo senso, ha
a suo modo un'anima religiosa, quella propria dell’ateo che vive intensamente
il suo problema religioso, antitesi dell’ indifferente , che appartiene ad
altra forma di ateismo. Bayle fu prima protestante, poi cattolico, di nuovo
protestante e difensore dell’ateismo: il problema religioso lo interessò sempre
profondamente. Come dice il Rensi, che dell’ateismo ha scritto l’apologia, c'è maggiore affinità di spirito fra un religioso
fervente e un ateo il quale viva appassionatamente la sua negazione o
rassegnata o disperata, che non tra il primo e un credente per consuetudine...
(‘); lo stesso autore si considera ateo per religione : ...solo l’ateismo è
puro e pio, solo l’ateismo è la grande vera religione (*), quella del Nulla, atteggiamento mistico
che si spinge fino alla negazione di Dio. Come tale, a parte quanto vi può
essere di positivo in un’anima sinceramente tormentata, non è una posizione
filosofica da discutere, ma uno stato d’animo irrazionale ed angoscioso, il
quale, più che essere confutato, va smontato come ogni passione , dimostrando razionalmente vera la
tesi teistica, che è riportare l’ateo allo stato di ragione. Si noti che egli
non dimo(3) Dictionnaire philosophique, Paris, Flammarion, s. a., 45. Rensi,
Apologia dell’ateismo, 98. (5) Ivi, 101. (6) Anche nell’India moderna (prima
metà del sec. XIX) abbiamo un esempio di ateismo assoluto, quello di BakHravar,
autore del Sunisar ( Essenza del vuoto ), dove è esposta la dottrina del vuoto (sinyavada) o del Nulla. 28 Filosofia e
Metafisica stra che Dio non esiste, ha fede soltanto nel suo ateismo A gr: ì
puro, che è una specie di idolatria par choc en retour. Intatti, chi crede nel
proprio ateismo finisce sempre per adorare e temere qualche altra cosa, una
forza della natura o la materia, un ente occulto o un valore umano divinizzato,
lo stesso male (?). Ciò prova indirettamente che nell’uomo il sentimento
religioso può deviare ma non si può estirpare e come, più che sull'esistenza di
Dio, vi sia questione sul modo di pensare tale esistenza e Dio stesso senza
contraddizione, cioè in maniera idonea e non sconveniente. C'è una forma di
ateismo assoluto non nuova, ma oggi di moda a causa della fortuna di un certo
esistenzialismo che offende anche il più elementare buon senso; vi abbiamo accennato,
ma l’aspetto che qui consideriamo si distingue sottilmente dall’ateismo
assurdista del Camus. Il mondo è assurdo; se si potesse provare che Dio esiste,
avrebbe un senso; ma Dio è indimostrabile; dunque il mondo è assurdo. Ateismo
dommatico: muove dal presupposto che il mondo è assurdo e pretende
contraddittoriamente che solo l’esistenza di Dio potrebbe dargli un senso;
senza badare che quel presupposto implica, comporta e presuppone la sua
negazione. Infatti, un mondo assurdo ne esclude l’esistenza, perchè è
contraddittorio ammettere Dio come suo autore, a meno di non concepirLo come
l’Assurdo, che è parlare non di Lui ma di un’altra cosa, cioè avere una
concezione assurda di (7) In questo senso, la superstizione è la vendetta della
religione: gli atei, i più spregiudicati, sono superstiziosissimi. Ritengono
Dio una fantasticheria da donnicciuole, la dommatica un prodotto
dell’immaginazione fabulatrice » di
menti bambine e immature, ma credono fino a torcersi le budella dalla paura che
il gatto nero che attraversa la strada fa romper loro l’osso del collo. Nella
coscienza primitiva la religione si manifesta in forme elementari o popolari e
perciò anche superstiziose; nell’ateo, invece, che della religione nega il contenuto,
resta la superstizione pura e semplice: l’ateo è un primitivo addottrinato. Nel
primo caso la religione assume forme elementari adeguate alla coscienza
primitiva (ciascuno crede, in buona fede, come può secondo il suo sviluppo
mentale), nel secondo l’indomabile sentimento religioso, conculcato dall’ateismo,
trova il surrogato nella pura superstizione. In tal modo l’ateo, per la fede
cieca nel suo ateismo, calunnia la grandezza e la dignità dell’uomo, che sono
anche le sue. L’ateismo 29 Dio e, come tale, atea. Inoltre, se il mondo è
assurdo, come si può concepire la stessa possibilità di provare Dio? Anche essa
bisogna dirla assurda; la stessa eventuale prova lo sarebbe. Ma evidentemente
chi dice che, se si potesse provare l’esistenza di Dio, il mondo non sarebbe
assurdo, ammette almeno ipoteticamente che questa ipotesi non è assurda,
altrimenti non la porrebbe neppure; dunque nega, con ciò stesso, che il mondo è
assurdo. Ma tant'è, l’esistenzialista ateo si fa un idolo del suo mondo senza
senso, vi si crogiola dentro, felicemente confortato di tanta disperata
infelicità; si perde nell’idolatria di un feticcio concettuale, l’Assurdo. 3. L’'agnosticismo. Nel pensiero moderno, specie
con il positivismo e attraverso le interpretazioni empiristiche e positiviste
di Kant, l’agnosticismo, parola usata per la prima volta da Huxley nel 1869 e
di cui l’inglese Leslie Stephen nel 1876 pubblicò l’apologia (An Agnostic’
Apology) (*) è una delle forme più diffuse di ateismo. Huxley coniò il termine
in opposizione a gnosi: non saper nulla intorno ad un argomento e trovarsi di fronte
ad un problema insolubile. Più esplicitamente lo Stephen: la conoscenza umana
ha dei limiti e quando si occupa di argomenti che sono al di là di essi
costruisce un sapere fantastico; la teologia è al di là dei limiti dell’umana
conoscenza; dunque è un tessuto di chimere. Ma è necessario precisare quali
sono questi limiti per un positivista
sono diversi da quelli segnati da un idealista e i limiti di entrambi
differenti da quelli di uno scettico ; se la negazione o l’affermazione
dell’esistenza di Dio cade dentro o al di fuori di essi; che cosa s'intende con
la parola teologia , dato che ve n’è una
naturale o razionale e un’altra rivelata o dommatica. Lo Stephen non sembra (8)
Ma l’agnosticismo è antico; notissimo un frammento di Protagora: quanto agli dèi, ignoro se sono o se non sono
e quale aspetto abbiano (Dros., IX, 51).
30 Filosofia e Metafisica fare queste distinzioni e perciò confonde ordine
religioso ed ordine filosofico. Nessun filosofo teista ha contestato i limiti
della conoscenza umana in materia di teologia e quasi tutti concordano
nell’affermare che l’uomo non ha cognizione diretta della essenza di Dio; ma il
problema che qui si discute non è quello dell’essenza, bensì l’altro della Sua
esistenza che non è solo di fede ma anche di ragione. L’agnostico esclude che
tale problema sia razionalmente solubile perchè muove da un suo modo di
concepire i limiti della conoscenza; dunque la sua conclusione agnostica è un
idolum theatri inerente al suo sistema: il problema dell’esistenza di Dio non è
insolubile in se stesso e in qualunque caso, ma lo è solo rispetto alla sua
teoria della conoscenza, cioè è una questione interna della sua filosofia.
Perciò è arbitrario dalla proposizione, la conoscenza umana ha dei limiti , dedurre la
conseguenza, dunque non sappiamo se Dio
esiste , in quanto: 1) si limita la conoscenza umana al di qua dei suoi stessi
limiti, cioè alla pura esperienza dei fatti o dei fenomeni sensibili; 2) si fa
dell’esistenza di Dio un problema di pura fede; 3) si nega la possibilità di
una conoscenza diversa da quella dei fatti e perciò di un sapere poetico,
morale, ecc.; della metafisica in quanto tale e, con ciò stesso, di un sapere
filosofico. L’agnosticismo in questo senso è la negazione della stessa
filosofia che, depauperata e depotenziata, è ridotta alla pura conoscenza
scientifica o dei fatti fisici, o alla pura conoscenza storica o dei fatti
umani. Quantunque l’agnosticismo non sia ateismo (Locke, Hamilton, Mansel,
ecc., fondatori di quello moderno, non si possono dire atei), molti che si
dicono agnostici lo sono, come Hume, d’Holbach e altri; d’altra parte, è facile
da esso passare all’ateismo per affinità tra le due attitudini. L'affermazione,
al di là dei dati della nostra
esperienza non sappiamo nulla , può trasformarsi facilmente, anche se L’ateismo
3 si dice cosa molta diversa, nell’altra; al di là dei fatti della nostra esperienza ron
esiste nulla ("). In tal caso
l’agnosticismo diventa ateismo dommatico e contraddice se stesso, in quanto,
negando Dio, oltrepassa quei limiti che segna alla conoscenza umana e si spinge
ad un’affermazione ripugnante alla sua natura. L’agnostico, dalla pretesa
impossibilità di dimostrare l’esistenza di Dio, non può concludere, senza
contraddirsi, alla sua negazione esplicita ('°). D'altra parte, egli non può,
proprio perchè agnostico, controbattere le critiche di quanti pretendono
dimostrare la contraddittorietà dell’esistenza di Dio in se stessa e ?n rapporto
con la concezione che se ne ha; per esempio, non può opporre nulla a chi
sostiene (Strauss) che se Dio è infinito non può essere personale, perchè
infinità e personalità si contraddicono; a chi afferma (Stuart Mill) che se
fosse onnipotente e buono non dovrebbe esistere il male; a chi dice (Vacherot)
che i due concetti di infinità e perfezione escludono l’esistenza, la quale non
si addice a Dio, che è solo (9) E. Navitce, Philosophies négatives, Paris,
1900, 85. (10) Di ciò, in verità, l’agnosticismo ha piena coscienza: quello che
hanno scritto coloro che credono di aver dimostrato l'esistenza di Dio, scrive
HuxLFy (Essay, London, 1898, t. I, 245) sarebbe il peggio, se non fosse sorpassato
dalle assurdità ancora più grandi dei filosofi che cercano di provafe che Dio
non esiste . La filosofia positiva niente nega © niente afferma, perchè negare
o affermare è oltrepassare il dato; perciò essa respinge l’ateismo, in quanto
l’ateo n'est point un esprit
véritablement émancipé; c'est encore, à sa manière, un théologien; il a son
explication sur l’essence des choses... (E. Littré, Paroles de philosophie positive, p31-32).
L’agnosticismo ha la sua formulazione chiara e rigida nell’inglese H. L., per
il quale Dio non è assolutamente concepibile come assoluto e infinito, in
quanto l’ Assoluto non può essere concepito né come cosciente, né come
incosciente, né come complesso né come semplice; non può essere definito né per
mezzo di differenze, né per mezzo della loro assenza; non può essere identificato
con l’universo, né può essere distinto (The Limits of rel. Thougt, 30). Ma tutto ciò
riguarda l’essenza e non l’esistenza di Dio; infatti, il Mansel aggiunge, per
influenza del Reid e del Kant, che la costituzione stessa del nostro spirito ci
costringe a credere nell'esistenza dell’ Essere assoluto e che tale credenza,
oltre che sulla nostra natura, si fonda sulla rivelazione. Il Mansel dall’inconoscibilità
dell'essenza ricava quella dell'esistenza, confondendo due problemi diversi; il
suo agnosticismo, spinto a questo punto, è scetticismo della ragione e fideismo
puro; in definitiva, ateismo. 32 Filosofia e Metafisica un’Idea ("!); tesi
quest’ultima sviluppata e approfondita ai nostri giorni dal Carabellese, che
identifica Dio con l’Oggetto puro della coscienza e taccia di ateismo coloro
che lo considerano esistente. Di fronte a questi sofismi o ad usi errati del
termine esistenza attribuito a Dio l’agnostico è disarmato ed il suo
agnosticismo a mal partito. Se egli, pur razionalmente agnostico, ha fede
nell’esistenza di Dio viene a trovarsi nell’insostenibile condizione di credere
nell’Essere di cui non può dimostrare che l’esistenza non implica contraddizione:
come fa a credere ancora stando in questo dubbio, quasi contro la ragione, o
almeno senza che questa porti il più piccolo aiuto alla sua fede? Se non crede,
il problema dell’esistenza di Dio e Dio stesso gli diventano indifferenti e
tacitamente opera dentro di sè il salto
dogmatico dal non so nulla al non
esiste nulla al di là dei dati
dell’esperienza, spingendosi a un tacito ateismo teoretico e a un manifesto
ateismo pratico. Sono possibili anche un agnosticismo teoretico (non so se Dio
esiste) e un ateismo pratico (mi comporto come se non esistesse); o un (11) Il
perfetto non esiste ; questa la tesi del VacHEROT nell’opera La métaphysique et
la science (Paris, 1858), dove non si trova più il monismo evolutivo di
derivazione hegeliana sostenuto nell’Histoire critique de l'École d’ Alexandrie
del 46: l'evoluzione di Dio nel mondo è progrès. continu de l’étre infime dà l'étre
par excellence, de la matière è l’esprit pur, à l’intelligence (t. III, 328). Ne La métaphysique et la science
egli mette la teologia di fronte a un aut-aut perentorio: 0 un Dieu parfait , 0 un Dieu réel. Le Dieu parfait n’est qu’un idéal; mais c'est
encore, comme tel, le plus digne objet de la théologie: car, qui dit idéal, dit
la plus haute et la plus pure vérité. Quant à Dieu réel, il vit, il se
développe dans l’immensité de l'espace et dans l’éternité du temps; il nous
apparaît sous la variété infinie des formes qui le manifestent: c'est le Cosmos
(t. II, 544). Successivamente (Nouveau spiritualisme, Paris, 1884)
ammette un solo Dio reale, Essere universale e necessario, Causa prima e Fine
ultimo del mondo, ma appunto perchè reale, non perfetto, in quanto perfezione e
realtà implicano contraddizione: l’idea dell’Essere perfetto è solo un'idea, la
più alta della mente umana. Ma il Vacherot non è mai riescito a dimostrare la
contraddittorietà tra perfezione ed esistenza, mentre è facile provare che
proprio questa presunta contraddittorietà contraddice alla ragione. Infatti,
egli cerca di dimostrare la sua tesi fondandosi sul fatto di esperienza che
tutta la realtà conosciuta è imperfetta; ma come potrebbe essere diversamente
quando identifica toute réalité o tutto ciò che esiste con il phénomène qui passe ? Dà una definizione
empirica dell’esistenza in ogni ac<ezione e poi trova che è incompatibile
con la perfezione di Dio! L'ateismo 33 agnosticismo teoretico e, diciamo così,
un teismo pratico: non so se Dio esiste, ma vivo come se esistesse.
Quest'ultimo è il caso di chi ha fede nell’esistenza di Dio e agisce in conseguenza;
o anche di chi non ha fede in alcun Dio, ma in alcuni valori morali, a cui
uniforma la sua condotta, affermati oggettivamente validi (rigorismo morale
dogmatico e ateo), o rigorosamente rispettati pur nel convincimento che la loro
validità oggettiva è indimostrabile (scetticismo con rigorosa eticità laica)
(12). Vi è un agnosticismo (Hamilton, Mansel) che, non solo crede
nell’esistenza di Dio, ma accetta anche la Rivelazione, alla quale però dà
soltanto un valore prammatistico o regolativo, come alcuni modernisti, per
esempio il Le Roy. L’agnostico non sa niente di Dio e nulla può dire di Lui;
d’altra parte legge che Dio vuole che si creda che è Padre onnipotente,
Provvidenza onnisciente ecc., e crede tutto ciò. Evidente contraddizione:
l’agnostico dice di non sapere niente di Dio e nello stesso tempo ammette che è
volontà , cioè persona; quando afferma Dio
vuole che... non è più agnostico tranne che non ammetta anche questo per pura
fede. Ma perchè crede a queste proposizioni e non ad altre che magari affermano
l’opposto? Se niente la ragione può dire di Dio, il contenuto di qualsiasi
formula teologica gli dovrebbe essere indifferente; se invece crede in una proposizione
piuttosto che in un’altra, significa che una delle due la trova più
conveniente; ma così oltrepassa l’agnosticismo, in quanto ammette un fondamento
razionale della fede. Più coerente Kant (La religione dentro i limiti della
sola ragione) che non accetta la rivelazione e dà delle sue formule
un’interpretazione puramente morale. L’agnostico, che afferma di non sapere
niente di Dio se esiste, o se non esiste
e nello stesso tempo Gli crede per fede,
riduce la fede stessa ad un puro stato d’animo e (12) Aporro Levi, Sceptica,
Firenze, La Nuova Italia, 2* ediz., 1959. 34 Filosofia e Metafisica la
religione ad un sentimento soggettivo di vaga religiosità. Ma non c’è fede
senza un contenuto oggettivo; la mera religiosità può riempirsi
indifferentemente di qualsiasi contenuto, di Giove o di Cristo. L’agnostico, se
non vuol contraddirsi, deve mettere tutte le religioni sullo stesso piano:
negata ogni convenienza razionale in base alla quale credere ad una piuttosto
che a un’altra, non gli resta che il fatto soggettivo del credere. D'altra
parte, non può tener ferma neanche questa posizione ed è costretto a
contraddirsi. Infatti, implicitamente e contraddittoriamente ammette di sapere
chi è colui della cui esistenza non sa, cioè ha, comunque, un'idea di Dio; ma
se ne ha l’idea, sia pure negativamente, sa qualcosa di Lui in contraddizione
con il suo agnosticismo. Anzi, stranamente, non è più agnostico circa il
problema del che cosa è Dio (quid sit) e continua ad esserlo circa
l’altro del se è (an sit). In altri termini, è costretto a ragionare così: Se potessi dimostrare che Dio esiste, saprei.
razionalmente che esiste l’Essere perfettissimo, ecc. , cioè ad ammettere che
ha l’idea di Dio e, nello stesso tempo, a dire che non sa niente di Lui e della
sua esistenza! Il solo pensarLo è già non essere agnostici; una volta pensato
(l’agnostico teista lo pensa come l’Essere perfettissimo; cristiano, nei
termini della Rivelazione), la questione non è se sia impossibile o
contraddittorio ammettere l’esistenza di Dio, ma se sia contraddittorio
pensarLo senza ammetterLo esistente, cioè se il fatto che Lo si pensa non sia
già prova della sua esistenza per necessità razionale. A questo punto e prima
di proseguire è opportuno precisare le tesi fondamentali dell’agnosticismo: 1)
impossibile provare l’esistenza o la non-esistenza di Dio, in quanto la
conoscenza umana è limitata ai fenomeni di esperienza; 2) a fortiori nulla si
può dire intorno alla Sua natura intrinseca; 3) dunque i problemi
dell’esistenza e natura di Dio, dato che Egli non è un fatto fisico nè un
personaggio stoL'ateismo 35 rico, non sono oggetto della scienza e della
storia, che si occupano solo di questi fatti e delle loro leggi; 4) Dio non ha
un posto nel sapere umano in generale ed è oggetto della pura fede, il cui
contenuto ha solo una validità pratica o regolativa. Ma escludere Dio dalla
scienza e dalla storia, da ogni attività umana, significa pretendere che l’uomo
possa attuare se stesso, il suo sapere e la sua vita morale, facendo a meno di
Lui, anzi senza mai pensarci e sentire il bisogno di ricorrere a questa ipotesi
, sicuro di realizzare il suo ordine fino al compimento perfetto. Ma così
l’agnosticismo contraddice se stesso e precisamente la sua tesi fondamentale
che la nostra conoscenza in ogni forma e grado ha dei limiti. Una delle due: o
ha questi limiti e perciò stesso, insufficiente ad appagare l’uomo e le
esigenze intrinseche al suo ordine, rimanda ad una Intelligenza assoluta della
quale non può fare a meno; o non li ha ed è autosufficiente, tanto da
estraneare Dio dalla scienza e dalla condotta umana, e resta contraddetta la
posizione dell’agnosticismo. Pertanto, muovendo dalla tesi agnostica, si può
arrivare alla conclusione opposta: proprio perchè la conoscenza umana ha dei
limiti, pone il problema della Verità assoluta, di Dio. Infatti, se fosse
perfetta, Dio sarebbe superfluo; nè quei limiti impediscono di provare la Sua
esistenza, in quanto non sono affatto segnati dall’esperienza sensoriale come
l’agnosticismo pretende. D’altra parte, se per Dio non c’è posto nell’umano conoscere
e fare, l’agnosticismo è ateismo in partenza, in quanto il tentativo di
costruire una scienza senza Dio Lo esclude fin dall’inizio: ateismo dommatico
anche se mascherato. Più coerenti coloro che, come il Croce e il Brunschvicg,
escluso Dio dalla natura e dalla storia, concludono che il suo è un pseudo-problema
e la religione frutto dell’ immaginazione , anche se il loro ateismo iniziale è
solo presupposto e non dimostrato. 3% Filosofia e Metafisica In fondo,
l’agnostico esclude Dio perchè il principio su cui fonda il sapere non gli
consente di ammetterLo se non come qualcosa di estraneo ad esso, come l’Ente
che è solo oggetto di fede e di cui è possibile avere soltanto una qualche
rappresentazione simbolica. Ma c’è conoscenza solo dei fenomeni e delle loro
leggi? Può identificarsi con essa tutto il sapere, anche quello filosofico? La
fisica o altra scienza naturale hanno come oggetto i fenomeni e le loro leggi,
ma ciò non significa che ogni altra forma di conoscenza morale, artistica, filosofica debba ridursi a questo modello, secondo
l’affermazione arbitraria del positivismo e dello scientismo. L’agnosticismo
metafisico e religioso è una conseguenza del metodo e del sistema scientista:
la scienza positiva, che ha come suoi oggetti i fenomeni naturali e le loro
leggi, è l’unica conoscenza di cui l’uomo è capace; Dio non è qualcosa di cui
si possa avere esperienza positiva; dunque niente si può dire di Lui, nè che è
nè che non è, nè che cosa è. Ma è arbitrario ridurre ogni forma di sapere alla
conoscenza dei fenomeni di esperienza sensoriale, almeno fino a quando non si
sarà dimostrata la verità del sistema. Ancora una volta ci troviamo di fronte
ad un idolum theatri: il sistema non consente che si ponga il problema di Dio,
dunque non si può porre. Sì, in quel sistema e relativamente ad esso; no, in un
altro che riconosce i diritti e l’autonomia della ricerca filosofica e si
rifiuta di identificare l’essere con i fenomeni di esperienza sensoriale.
L’agnostico, in questo caso positivista nel duplice senso di positivismo scientista o
dei fatti fisici e di positivismo storicista o dei fatti umani non riconosce i limiti del sistema; vittima
del suo amor per esso, che non gli consente di dimostrare o negare l’esistenza
di Dio ed averne una qualsiasi concezione non puramente simbolica o
immaginaria, conclude che la sua esistenza è indimostrabile e Dio
l’assolutamente inconoscibile. Ma chi ha dimostrato l’assoluta verità del
sistema? Ammettiamo che qual-. L’ateismo 37 cuno l’abbia fatto; bene: in tal
caso, non c’è più agnosticismo! Nonostante le sue proteste, l’agnosticismo
positivista senza o con il neo è
ateismo vero e proprio, almeno in pratica. Dall’ ignorare se Dio esiste ricava la norma: agisci come se non esistesse . Dio è
inconoscibile e inverificabile scientificamente ; alla sua idea non
corrisponde alcuna realtà oggettiva; nei rapporti con l’ambiente naturale e
sociale non ha alcuna importanza porsene il problema, perchè il suo accantonamento
non arreca impedimento alcuno all’
organizzazione della nostra vita nel
mondo anzi la facilita per la quale valgono solo strumenti e tecniche , non interessa neppure se vere
(altro problema questo della verità da mettere da parte), purchè più valide
rispetto ad altre, più efficacemente operative e idonee ad una vita sempre più tecnicamente
organizzata, socialmente progredita e comoda; dunque organizza e regola la tua
vita intellettuale e morale, privata e pubblica, come se Dio non esistesse,
senza pensarvi. In breve: ometti l’idea di Dio . Per Comte, l’idea di Umanità col tempo eliminerà irrevocabilmente quella di Dio: per altri tale eliminazione
sarà operata dalla Scienza e dal Progresso, dalla futura società comunista ecc.; naturalmente, sempre e in ogni caso, con
gran vantaggio degli uomini, che conseguiranno la vera felicità sulla terra. Ma
quello teologico non è problema di felicità terrena; Dio non è chiamato a
soddisfare bisogni materiali, ma ad appagare profonde esigenze spirituali; il
suo problema si pone al di là di ogni possibile soddisfazione di tutti i possibili
bisogni terreni. Per accantonarne il pensiero o soffocarlo si è costretti a
sostenere che non ha importanza sapere se vi è una verità che dà senso alla
vita dell’uomo e merita di essere servita, ma che interessa conoscere soltanto
strumenti che hanno efficacia pratica per problemi solo mondani, economici,
sociali, politici, ecc.; che la logica vale nella 38 Filosofia e Metafisica
misura in cui è una tecnica, tante tecniche capaci di organizzare fenomeni psicologici,
sociali, giuridici, senza preoccuparsi se vi è un’anima personale, una verità
comune accomunante, un diritto perenne, ecc. D'altra parte, si afferma che
tutto ciò non cambia niente, è un’acquisizione della nostra maturità
intellettuale, è semplicemente trascrivere in termini antropologici e scientifici i miti
di Dio e di una beatitudine celeste. Dunque, da un lato, più che abolire l’idea
di Dio, la si sostituisce con altri valori e, dall’altro, questi ultimi sono
intesi in modo da soddisfare la umana esigenza religiosa. Ma con ciò si
riconosce l’insopprimibilità di quest’ultima e si creano idoli e miti, si fa
della pseudo-teologia. Così questo agnosticismo, intransigente verso Dio e
apostolo di un totale ateismo pratico, si presenta come idolatria e mitologia
dell'Umanità, della Scienza, del Progresso, della Società sempre migliore con questa o quella democrazia ; alla teologia sostituisce un
deteriore teologismo laicista. A questo punto non è più serio discuterlo.
Persino Bayle, il formulatore del paradoxe , così lo chiama Voltaire ('*), che
può esistere una società di atei, crede con Plutarco che è meglio non avere
alcuna opinione di Dio che averne una cattiva ed errata (!*); infatti, non c’è
peggiore religione di quella che divinizza valori mondani per
fini terreni, in quanto si risolve sempre in una diabolica e rovinosa
divinizzazione dell’umano o dell’infraumano e scatena il fanatismo. 4. Il fideismo come forma di agnosticismo. Non vi
sono prove razionali od oggettive dell’esistenza di Dio, ma Gli si crede solo
per fede; questo il fideismo, forma di agnosticismo non laico ma religioso. Tipico del (13) VoLtAIRE,
ocit., 39. (14) Barie, Pensées diverses écrites è un docteur de la Sorbonne è
l’occasion de la cométe qui part au mois de décembre 1670, Rotterdam, 1721, $
118 della. Continuation. L'ateismo
39 protestantesimo, è anch’esso molto diffuso, conseguenza di più di un secolo
di agnosticismo filosofico e del convincimento che non è possibile una
metafisica come scienza razionale. Il fideista crede nel Dio di cui la ragione
non può dimostrare l’esistenza, del quale, anzi, può essere anche la negazione;
in quest’ultimo caso continua a credere contro, nonostante la ragione dica il
contrario! Fideismo disperato, fede a qualunque costo: credo nell’esistenza di
Dio, malgrado la ragione sia atea; irrazionale ed assurdo come quello di molte
pagine di Unamuno e di Chestov: pascalianesimo barocco e antipascaliano,
razionalmente infondato almeno quanto l’ateismo dove rischia di sboccare,
perchè è molto difficile conservare la fede senza o contro la ragione e, se la
si perde, dato che la credenza di Dio poggia solo su di essa, non soltanto si
cessa di essere cristiani, ma si diventa senz'altro atei. Il fideista confonde
due questioni che vanno tenute ben distinte: le ragioni o le prove razionali
dell’esistenza di Dio e la fede propriamente detta, cioè l’adesione
intellettuale e libera al contenuto della Rivelazione. Egli riduce tutto alla
fede e nega a tal punto la capacità della ragione (quando addirittura non
gliela contrappone quale nemica, come per esempio il Chestov) da non poter dare
alla prima alcun fondamento razionale; in questo senso è un ateo credente
contro tutto e se stesso. Ridurre tutto alla fede è contrario alla sua stessa
essenza, come non è razionale ridurre tutto alla ragione: fideismo assoluto e
assoluto razionalismo sono antitetici, ma hanno in comune la ragione atea, che
è contraddittoria. Religione e filosofia devono temere ugualmente
l’assolutizzazione della ragione e la sua totale svalutazione, l’una e l’altra
negazione della natura dell’uomo e dei suoi poteri conoscitivi: l’ordine della
fede è assicurato solo se l’ordine della
ragione è conservato (9). Il fideismo si
dibatte in (15) L. OLLé LarrunE, Ce qu'on va chercher è Rome, Paris 1895, 30.
40 Filosofia e Metafisica una contraddizione teoretica, e anche vitale: è
ateismo teoretico e teismo pratico; come dire, l’uomo diviso in due. Vi è
ancora un fideismo non propriamente di carattere religioso (non fa
dell’esistenza di Dio un atto di fede), non laico, nè riducibile senz’altro
all’agnosticismo. Esso si fonda su una specie di senso interiore di Dio, tanto
forte, universale e naturale da costituire una prova della sua esistenza,
superiore, secondo i suoi sostenitori, a quelle razionali, che sono pressochè
superflue esercitazioni logiche; per questo senso l’uomo è chiamato irresistibilmente a Dio. Io sento che Dio c’è, e non sento affatto che
non c’è. Tanto mi basta; ogni ragionamento è superfluo. Concludo che Dio
esiste. Questa conclusione è inscritta nella mia natura (!9). Così lo formula il La Bruyère, secondo
il quale Dio è una presenza, un’evidenza: ...l’esistenza di Dio l’ho approfondita; non
posso essere ateo, e perciò sono ricondotto e trascinato nella mia religione,
irrecusabilmente (!?). Tesi
d’ispirazione agostiniano-pascaliana, ma non di Agostino e neppure di Pascal,
in quanto nel primo vi è questo e molto di più, come di più, anche se meno di
quanto è in Agostino, è in Pascal. Certo, questo senso interiore di Dio è
estremamente indicativo e attesta una disposizione ontologica, e non puramente
psicologica, dell’uomo verso l’Essere supremo; ma da solo non è dimostrativo,
nè rende superflua la prova razionale, anzi la esige proprio per la sua forza.
In altri termini, non basta il senso interiore di Dio per provarne
oggettivamente l’esistenza, in quanto da solo resta un dato soggettivo; è
necessario approfondire la natura dell’uomo per vedere se esso s’inscrive in un
elemento oggettivo anch'esso interiore, fondamento, radice e origine di quel
sentimento. In tal caso, l’esistenza di Dio è provata oggettivamente, non dal
senso di Dio stesso, ma da quell’ele(16) Moralisti francesi, Milano, 1943, 67.
Questa forma di fideismo ha avuto le sue espressioni più significative nel
pensiero filosofico-religioso francese. (17) Ivi, 69. L’ateismo 4} mento
oggettivo che lo spiega e giustifica, il quale, a sua volta, non è un puro dato
nozionale, ma un’Idea, direi, vitalizzata, vissuta nell’interiorità di quel
senso interiore, da essa illuminato. Perciò, han torto il razionalismo, che,
per una esagerata nociva ingiustificata esigenza di salvare la forza della
ragione, prescinde dall’interiormente vissuto, e l’interiorismo che, forte del
senso interno, vuol fare a meno della forza del ragionamento. Invece, è
autenticamente agostiniana, perfettamente rispondente a quella del Rosmini e,
dentro certi limiti e con alcune riserve, all’altra di Pascal, la posizione che
esistenzia l’Idea nella concretezza della vita spirituale e illumina questa
nella luce dell’Idea. Ma, anche presa da sola, la tesi dell’esistenza di Dio
come evidenza dal senso interiore non può dirsi atea, tranne che non degeneri
nell’ontologismo o nel panteismo. Invece, pur non potendo essere ridotta all’agnosticismo
laico 0 ateo per certe sfumature a cui non vogliamo rinunziare, è più
pericolosa l’altra tesi, propria di Kant, che ammette l’esistenza di Dio,
razionalmente indimostrabile, per pure esigenze della volontà: la ragione
teoretica è agnostica;. tuttavia, per esigenze morali, bisogna agire come se
Dio esistesse; la ragione pratica crede per fede razionale. In altri termini:
l’esistenza di Dio è un atto soggettivo» della volontà rispondente alle sue
esigenze profonde, ma non è una verità oggettivamente » valida. Questa posizione kantiana,
ancora largamente diffusa, è stata estesa anche ai valori morali; ma così
l’agnosticismo, oltre che la metafisica, mette in pericolo anche i valori
spirituali (19). 5. Il deismo. Un deista è un uomo che non ha avuto ancora il
tempodi diventare ateo ». Così il De Bonald, e fino ad un certo (18) Per una
più ampia ed approfondita discussione della posizione kantiana, come di altre
in queste pagine appena accennate, cfr. la Parte Terza, Sezione II di
quest'opera. 42 Filosofia e Metafisica punto ha ragione, perchè il deista, in
fondo, è un ateo che non vuol dirsi tale. D'origine italiana, il deismo, dopo
essere passato in Francia, si trapiantò in Inghilterra, dove trovò il clima che
gli si addiceva (!9), per poi essere accolto di nuovo in suolo trancese e
celebrare il suo trionfo nel secolo XVIII. Si può chiamare deista, attraverso
le forme molteplici che il deismo presenta nella storia del pensiero, la
dottrina che nega ogni religione positiva e rivelata e fa di Dio un puro ente
di ragione, quasi sempre identificato con l’Ordine della natura o con la Natura
stessa (in questo caso non si distingue dal panteismo), con il Principio o la
Causa che regge e governa il mondo. In tal senso, si possono dire deisti
nell’antichità Aristotele e Plotino, nei tempi moderni Spinoza, ai nostri
giorni il Martinetti, oltre a quelli veri e propri come E. Herbert di Chirbury,
Toland, Voltaire, Rousseau, lo stesso Kant, ecc. Nel secolo che fu il suo, il
deismo è la manifestazione più significativa, anche se non la più audace, dello
spirito antireligioso e dell’esaltazione della libera e onnipotente ragione;
infatti, polemizza contro ogni religione positiva (cattolica, protestante,
ebraica), contro ogni forma di culto, il dogma e il soprannaturale. E’ chiamato
anche religione naturale », ma in più sensi: in quanto 2) ammette solo quelle
verità che si possono attingere e dimostrare con la sola ragione (esistenza di
Dio, immortalità dell'anima, ecc.); 5) ha il culto della natura, madre benigna,
dove tutto è bene ed accade secondo la legge del bene che viene ad identificarsi
con Dio; c) è una religione spontanea, istintiva, senza costrizioni e
comandamenti. Religione, in un certo senso, facile, a cui la ragione aderisce
senza sforzo, senza un superiore atto di fede, culti speciali, mortificazioni e
digiuni, anzi compiaciuta di vedervi confermata la (19) Hazarp, La crisi della
coscienza europea, Torino. propria onnipotenza; rassicurante, in quanto fa che
Dio, pur così vicino alla natura, intervenga il meno possibile nel corso delle
cose naturali e umane; serenatrice delle coscienze, liberatrice dall’
inquietudine del peccato, dall’ attesa della grazia, dall’incertezza della
salvezza, da un giudizio divino. In breve, la religione deistica è la negazione
del Cristianesimo: di Dio Padre, della caduta dell’uomo, dell’Incarnazione, del
riscatto. Religione di un Dio lontano, che interviene raramente, fa comodo alla
ragione, a cui serve per meglio assicurare la libertà e la potenza senza
esserle mai d’impaccio o di limite. Il deismo è la negazione del Dio della
fede: attenua Dio, ma non lo nega», come osserva il Bayle; la differenza tra gli atei e deisti è quasi
nulla » (?9). Esso s'inserisce in quel processo di autonomia dalla religione di
ogni forma di attività umana, caratteristico dei secoli XVII e XVIII, allo
scopo di liberare l’uomo dalla soggezione della Verità rivelata e della Chiesa.
La scienza con Galilei e Newton, la politica con Machiavelli, il diritto con il
giusnaturalismo, la filosofia e la morale con il razionalismo, l’empirismo e
Kant, si costituiscono separate dalla religione, tenuta lontana da ogni forma
di attività umana, che si pone autonoma, opera soltanto dell’uomo. Così si
viene a negare la religione, meglio se ne costruisce una ...senza religione,
soltanto umana, razionale, naturale, che non menoma l’autonomia dell’uomo, anzi
la conferma e completa: liberare la religione dalla religione, che comporta o
la sua negazione, o la sua affermazione... contraddittoria (7). (20) Hazarp, ocit.,
p274; 275. (21) Molti elementi, di cui è necessario tener conto, concorsero al
nascere e al fiorire del deismo, a definirne il contenuto: ) la già detta
tendenza di emancipare l’uomo da ogni religione positiva e dalla Chiesa; 4) la
reazione al giansenismo che assoggettava, fino a negarla, la volontà umana,
colpita dal peccato e decaduta, alla grazia soprannaturale, imponeva un
rigorismo esagerato e la rinunzia al mondo, una concezione cupa della vita: c)
il desiderio di far cessare le lotte religiose, che avevano insanguinato
l’Europa, eliminando quanto (il loro contenuto religioso) poteva dividere ed
armare l'una contro l’altra le varie confessioni, donde il farsi strada del
nuovo concetto di tolleranza e la
polemica contro il fanatismo (il
VoLtarrE, ocit., 45, lo considera più funesto dell’ateismo); d) motivi
politici, cioè, lo sforzo del potere laico di ridurre al mi44 Filosofia e
Metafisica Da un punto di vista teoretico il deismo si rifà alla concezione che
della Natura e della Legge universale ebbero la scienza e la filosofia dei
secoli XVII e XVIII: Dio Causa, Dio-Legge dell’ Universo, che governa e regge,
DioOrdine della Natura sostituiscono il Dio cristiano rivelato, Padre,
Creatore, Amore. La natura sostituisce anche Cristo; è la mediatrice che, con la sua bontà, le sue
provvidenze e il suo ordine perfetto, rivela Dio agli uomini; ma siccome Dio è
la Natura eterna, questa si autorivela attraverso l’uomo, quello del razionalismo
moderno e dell’Illuminismo, scienziato-filosofo, che di essa scopre le leggi,
l’ordine e le provvidenze, rapisce i segreti affinchè l’umanità sia felice in
un regno di felicità, tutto costruito esclusivamente dagli uomini. Così il
deismo si trasforma in panteismo cosmico (divinizzazione della Natura), che, in
ultima analisi, è divinizzazione dell’uomo, rivelatore dell’ordine e delle
leggi che governano la Natura stessa, della quale, d’altra parte, conoscendola,
s’impossessa per farla servire al suo fine supremo: la costruzione del Regnum
hominis, luogo dell’unica sua felicità perfetta. Una religione senza misteri
per un'esistenza senza enigmi: questo il deismo. Una religione, dunque, che non
è nimo l’ingerenza della Chiesa, limitatrice dell'autorità assoluta del
Principe. Non è, del resto, questa la prima volta nè l’ultima che l’attività
politica della Chiesa. come stato è motivo concorrente di scismi, eresie ed
anche di ateismo. Vanno aggiunti anche elementi occasionali come i viaggi, che,
facendo conoscere nuovi costumi e tradizioni, mettono in dubbio l’universalità
di alcune credenze e generano scetticismo: tutto è relativo ai luoghi, ai tempi,
ai climi. Si immaginano terre fantastiche per dimostrare che il Cristianesimo è
assurdo; si esaltano: repubbliche senza preti e chiese; si tenta persino di
provare con il calcolo che la resurrezione della carne è impossibile, ecc. Così
si dubita di tutto, meno di quel che si vede e si può sperimentare; l’empirismo
del Locke è il sistema adatto. alla bisogna (cfr. Hazarp, ocit., p1} e sgg.; 21
e sgg.). Gli empiristi e i materialisti francesi, non solo rigettano il teismo
cristiano, ma anche la religione naturale del deismo inglese: i sensi bastano
all’umano. sapere; non è conoscibile nè importa conoscere tutto ciò che
oltrepassa i dati dell'esperienza sensoriale ( affinchè io creda nell’esistenza
di Dio, lasciatemi toccarlo!dice Diderot); l'elemento primario del reale è la
materia e la coscienza uno. secondario da essa derivato; materia e senso;
dunque, solo la scienza ci può. far conoscere la natura e i suoi fenomeni.
L'ateismo 45 tale, ma è filosofia atea al servizio di una vita facile, arbitra
di sè, desiderosa di non indagarsi a fondo, di non porsi problemi tormentosi e
metafisici, di non avere eccessive preoccupazioni religiose, di essere felice
in questo mondo. Il deismo, in fondo, è più ateo dell’ateismo dichiarato: lo
ateo nega Dio, ma ne ha fame, il deista Lo ammette per identificarLo con
l’ordine della natura e in definitiva con il sapere umano; l’ateo Lo nega e
vede ovunque oscurità, mistero, dolore e male inspiegabili, il deista per ogni
dove vede chiarezza ed evidenza razionali, felicità e bene; l’ateo è infelice
e, nonostante tutto, religioso, il deista è un contento diabolico, che si crede
in possesso di Dio e della sapienza divina: quel che può sembrare un mistero,
per lui, è soltanto una difficoltà provvisoria, che il progresso irresistibile
della scienza supererà. Deisti ante litteram furono i libertini », sempre pronti ad assimilare
posizioni filosofiche anticristiane, e a divulgarle: spiriti superficiali,
ribelli, epicurei, fatti per diluire le filosofie, per gettarsi a capofitto
nelle novità, tranquillamente scettici e calcolatamente edonisti, privi di
senso metafisico, pronti a non prendere in considerazione i problemi difficili,
ostici per la loro cultura da raffinati. Diventati deisti, si chiamano per
eccellenza gli esprits forts (?), ma non cessano di essere superficiali, anche
se alimentati ed incoraggiati dall’ ateismo », di ben altra tempra, dello
Spinoza (*). Il Settecento deista e razionale è ingenuamente convinto che
ilpassato sia un cumulo di assurdità e compito del nuovo secolo dei lumi quello
di scoprirne gli errori »; (22) Bavyce
Pensées sur la Cométe, cit., par. CXXXIX. (23) Esempio vistoso della fatuità di
pensiero di alcuni tra i più rinomati deisti è John Toland, sul quale cfr. le
belle pagine che gli ha dedicato l’Hazarp nell’ocit., p154-159; la
superficialità vacua di Herbert di Chirbury è stata egregiamente dimostrata da
M. M. Rosst nella monumentale opera in tre voll.: La vita, le opere e i tempi
di E. Herbert di Chirbury, Firenze, Sansoni, 1947. Ci sembrano opportune e da
meditare le parole che DostoevsKiy mette in bocca al vecchio Karamàzov: sappi, imbecille, che noi tutti qui è solo per
frivolezza che non crediamo, perchè ce ne manca il tempo... (I fratelli
Karamdzov, Milano, Corticelli, 1944, 147). 46 Filosofia e Metafisica errore
principe da denunziare e abolire la religione cristiana e il suo Dio, sostegno
della tirannide e strumento di oppressione dei popoli, superstizione che ha impedito allo uomo di
conoscere e mettere in opera le sue immense possibilità per il progresso
individuale e sociale. Deisti e liberi
pensatori non si domandano mai perchè per secoli e secoli gli uomini abbiano
creduto e la filosofia si sia sforzata di attingere una verità razionale non
disforme da quella religiosa: per loro tutto ciò è pregiudizio e superstizione.
Orgogliosi, i razionali disprezzano i religionari(i
due termini sono del Bayle), come il sapiente l’ignorante testardo ed
incorreggibile (**). Loro sanno tutto: che non vi è rivelazione e non ve n’è
bisogno; che nessuna fede religiosa è veritiera e necessaria; che Dio è lo
stesso ordine della natura conoscibile pienamente dalla ragione, che in certo
qual modo lo fa essere. In una parola, hanno scoperto la verità totale,
costruito la scienza perfetta, dispensatrice agli uomini di felicità e
liberatrice da ogni oscurità ed errore, dalle imposture dei frati. Così negano
Dio senza nemmeno porsene seriamente il problema, e divinizzano l’uomo: seguendo la ragione scrive uno dei razionali noi dipendiamo
soltanto da noi stessi e diventiamo così in qualche modo degli dèi(?); con la
ragione e l’esperienza si scopre il meccanismo della natura e ci s’impossessa
d’ogni segreto e mistero, dell’essenza stessa di Dio (?). Questi liberi
pensatori », incapaci di essere uomini che pensano in altezza e in profondità,
si credono dèi. (24) Il Votare (0cit., 45), che pur riconosce alla religione
positiva un valore sociale, la considera adatta per i bambini: un catéchiste
annonce Dieu aux enfants, et Newton le démonstre aux sages ». (25) Giusert,
Histoire de Caléjava ... (1700), p 57 (cit. da Hazarp, ocit., 161). (26) Una
pagina del Maritain (I/ significato dell’ateismo contemporanco, Brescia,
Morcelliana, 1950, p26-27) ben chiarisce il concetto di Dio del deismo, molto
affine al panteismo: Supponete ora una
nozione puramente naturale di Dio, che conoscendo l’esistenza dell'Essere
supremo, misconoscesse al tempo stesso ciò che S. Paolo chiamava la sua gloria,
negasse l'abisso di libertà signi. L’ateismo 47 Il deismo, frutto di un
atteggiamento mentale spietatamente spregiudicato e scettico tanto da mettere
in dubbio tutta la tradizione e qualsiasi autorità, è il trionfo del più acritico
dommatismo razionale, della superficialità sistematica, della più ingenua
fiducia nei poteri della conoscenza umana e nelle possibilità assolute della
scienza. Età barbara della filosofia »,
l’ Illuminismo non ebbe in generale sensibilità per i problemi religiosi e per
la filosofia intesa come indagine profonda della vita spirituale. Contro
ragione, afferma l’assolutezza della ragione, molto facile a difendere una
volta che tutto il sapere è limitato a quello scientifico e i problemi
essenziali messi da parte; formula un concetto mitico della libertà e si crea la superstizione della scienza
(?’). Oggi, l’umanità sta vivendo in un’epoca di Nec-illuficato dalla sua
trascendenza e incatenasse Lui stesso al mondo da Lui creato; supponete una
nozione puramente razionale e buffa di Dio, che sia chiusa al soprannaturale e che
renda impossibili i misteri nascosti nell'amore di Dio, nella sua libertà e
nella sua vita incomunicabile. Avremmo allora il falso Dio dei filosofi, il
Giove di tutti i falsi dèi. Immaginate un Dio che sia legato alordine della
natura e che non sia che una suprema garanzia e giustificazione di questo
ordine, un Dio che sia responsabile di questo mondo senza poter redimerlo, e la
cui inflessibile volontà, che nessuna preghiera può raggiungere, si compiaccia
e dia la sua cosacrazione a tutto il male come a tutto il bene del mondo, a
tutte le furfanterie e crudeltà come a tutte le generosità che operano nella
natura, un Dio che benedica l’iniquità, la schiavitù e la miseria e che sacrifichi
l'uomo al cosmo, un Dio che delle lacrime dei fanciulli e dell’agonia degli
innocenti faccia un coefficiente senza alcun compenso delle necessità sacre dei
cieli eterni o dell'evoluzione. Un tale Dio sarebbe, sì, 1’ Essere supremo, ma
cambiato in idolo, il Dio matwralista della natura, il Giove di questo mondo,
il grande Dio degli idolatri, dei potenti sui loro seggi, dei ricchi nella loro
gloria terrestre, del successo senza legge. Tale, mi pare, è stato il Dio della
nostra filosofia razionalista moderna, il Dio forse di Leibniz e di Spinoza,
sicuramente il Dio di Hegel ». (27) Il deismo, strettamente legato alla
massoneria per il suo atteggiamento anticlericale, antichiesastico e
individualista, assume come suoi dogmi indiscutibili il principio del libero
pensiero e la fede nella ragione, emancipata dai legami della tradizione e da
ogni autorità non liberamente riconosciuta, regola assoluta della vita (ateismo
pratico). Siccome la libertà di ciascuno e di tutti va rispettata e, d'altra
parte, le ragioni individuali sono
spesso discordi, la verità di un punto di vista va stabilita ed accettata
secondo il parere della maggioranza. Democrazia e sacra libertà della coscienza governata
dall’intelligenza, che è sacrilegio anche
limitare, culto della ragione umana che
s’inchina solo a se stessa, questa 48 Filosofia e Metafisica minismo
pretenzioso e dilagante, superficiale e saccente, più grossolano di quello
settecentesco; neo-positivismo di diverse tendenze, marxismo ortodosso e
eretico, neo-empirismo e pragmatismo di vario colore, neo-materialismo, tutti
si rifanno ai temi e soprattutto all’4r5ms dell’ Illuminismo, ne rinnovano la
barbarie filosofica in un mondo che va verso la civilizzazione assoluta dell’uomo senza umanità e, dunque, senza cultura ». 6. Monismo e panteismo. a) Il monismo. La forma
di ateismo più dotta, filosofica e fino ad un certo punto più critica è il
panteismo, dottrina antica e moderna, quantunque l’introduzione e lo la nuova
religione capace di rigenerare l’umanità per il razionalismo del Settecento e poi per il
laicismo posteriore dell’epoca del positivismo. La ragione è Dio, la libertà
dell’uomo un assioma; è obbligatoria (l’uomo
ha il dovere di essere libero), com'è obbligatorio il culto della ragione che
non s’inchina a dogmi o a principî 4 priori, religiosi o filosofici, anche se
essa stessa ne riconosce la convenienza o la verità: salvare il postulato
dell’assoluta libertà dell’assoluta ragione (e dire che i positivisti erano
quasi tutti deterministi!) anche contro la ragione e l'evidenza. Per il laicismo
massonico-positivista, di origini deiste e illuministe, le bien inestimable da custodire, conquistato
dall'uomo contro i pregiudizi e attraverso sofferenze e lotte, c'est cette idée qu'il n'y a pas de vérité
sacrée, c'est à dire interdite è la pleine investigation de l’homme, c’est que
ce qu'il a de plus grand dans le monde c'est la liberté souveraine de
l'esprit... c'est que toute vérité que nous vient pas de nous est un
mensonge... ». Anche se si facesse visibile, si Dieu lui méme se dressait devant les
multitudes sous une forme palpable, le premier devoir de l'homme serait de
refuser l’obéissance et de le considérer comme l’égal avec qui l’on discute,
non comme le maître que l'on subit ». (J. Jaurès, Discours è la Chambre des
Députés, 11 févr. 1895, cit. in Diction. Apologétique de la foi Cathol., Paris,
1924, IV ediz., vol. II, coll. 1781-1782).
La letteratura e i discorsi del tempo sul culto della libertà e sulla religione
della ragione abbondano di simili sciocche doutades di una ingenuità acritica e
afilosofica veramente scoraggiante. Il laicismo dimostra spesso rispetto per
Dio, ma non per l’ Essere assoluto trascendente creatore, bensì per l’idea che
l’uomo se ne fa: essa merita rispetto come tutto quanto appartiene all'uomo, il
quale, ospitando Dio nel santuario della coscienza, ne rende rispettabile il
nome. La nuova religione laica è la religione dell’irreligione », secondo una
felice espressione del Guyau. Forme di laicismo positivista sono il cosiddetto monismo umanitario », a cui abbiamo accennato
a proposito della religion de l’humanité
del Comte (e anche del Saint-Simon, del Fourier, del Proudhon, ecc.), che
dovrebbe sostituire l'adorazione del Dio personale; e il monismo sociologico del Durkheim. L'’ateismo
49 uso del termine siano relativamente recenti (28). Non è facile distinguere
il panteismo dal monismo; tuttavia, nei limiti del nostro argomento, li
trattiamo distintamente. Il panteismo filosofico ha due aspetti fondamentali: @)
riduzione di Dio al mondo, il solo reale: Dio è l’unità di ciò che esiste, la
somma delle parti; £) del mondo a Dio, del quale il primo è un insieme di
manifestazioni o di emanazioni senza realtà permanente, mancanti di una loro sostanza
distinta da quella divina. Nel primo caso, si nega Dio nel mondo, nel secondo
il mondo in Dio. Il primo possiamo chiamarlo cosmismo, che è quasi sempre
materialismo; il secondo acosmismo, che può essere intellettualista (Spinoza),
dialettico (Hegel), ecc.; il primo può identificarsi con il monismo, il secondo
con il panteismo vero e proprio, che, sostanzialmente, tende sempre al monismo.
L’uno e l’altro rispondono ad un'esigenza fondamentale: ridurre tutti gli
esseri all'identità assoluta non solo logica ma anche ontologica; oppure:
riportare la molteplicità degli enti alla unità ontologica, per cui Dio e il
mondo non sono due realtà di diversa natura, ma una sola: l’essere del mondo è
identico all’essere di Dio. Così l’esigenza legittima di unificare il
molteplice riportandolo a un unico principio, spinta oltre il limite della
constatazione dell’ordine delle cose, per cui la molteplicità forma un cosmo»,
conclude all’unità sostanziale delle cose stesse e del loro principio, senza
più distinguere tra identità e analogia. Per il panteismo che riconduce Dio
alla natura, la realtà è l’universo sensibile con cui Dio stesso s’identifica;
anche se è detto spirito, lo è come spirito del mondo, energia vitale o animata
e perciò sempre di natura materiale. Tale panteismo, che nega Dio come essere
spirituale e. chiama (28) Come ha notato l’Eucken, il Toland usò per primo
(1705) la parola Panteist; il Fay introdusse (1709) l’altra Panzeism. Si noti
che i termini panteismo », monismo (coniato
dal Wolff), agnosticismo appartengono
tutti al vocabolario filosofico moderno. 50 Filosofia e Metafisica Dio lo
stesso universo, s’identifica con il monismo naturalista o materialista ed è
senz’altro ateismo; infatti, dire che Dio è l’universo materiale è negare che
esista e continuare ad usare un termine che non ha più alcun senso; è chiamare
una realtà con un nome che ne significa un’altra. Nell’antichità è monismo
materialista il panteismo stoico (?°) e nei tempi moderni, sotto l’influsso
della teoria dell’evoluzione, quello biologico del Moleschott, Huxley, Biichner
e, più fansioso di tutti, di Haeckel ecc.; monismo naturalista si può chiamare
quello di alcuni positivisti, quali Du Bois Reymond, Spencer, Ardigò ecc. Per
il panteismo cosmico, che identifica Dio con il mondo ed è il vero monismo
assolutamente ateo, l’unica realtà è la natura o universo, per se stesso
esistente e avente in sè la ragione ultima di tutto, di ogni suo grado come di
ogni ente particolare: non vi è l’Essere da cui deriva o procede il mondo, ma vi
è il Mondo, l’Essere unico che si pone, si svolge e si spiega da, in e per se
stesso; si fa Dio, è esso stesso Dio. Ma è evidente che il termine qui non
significa nulla: Dio non c’è, c'è solo il mondo; in definitiva, la materia o
qualcosa di materiale, originario e dotato di energia vitale, che evolve da se
stesso e per leggi proprie. Ateismo puro che ha la pretesa di essere
scientifico e, in realtà, non ha alcun fondamento scientifico e tanto meno
filosofico. Infatti, presupposto un principio eterno e necessario, da cui per
evoluzione tutte le cose derivano, consegue: 4) vi è una certa distinzione tra
le cose e il loro principio unico, ma solo fenomenica e non di sostanza; 5) la
sostanza o natura delle cose è una ed identica; c) la spiegazione ultima del(29)
Il cosmo è composto di materia, finita e piena, penetrata dalla Ragione, di
natura ignea, forza immanente, Dio, che è insieme l’ordine che tiene unite le
parti e la loro somma. Per Zenone, l’universo ha due principi: uno passivo, la
sostanza informe, la materia; l’altro attivo, la mente di Dio. Quest'ultimo penetra
nella materia, produce i quattro elementi ed è artefice di tutte le cose (1
frammenti degli stoici antichi, a cura di N. Festa, vol. 1, Zenone, Bari,
Laterza, 1932, 80). i L'ateismo 51 l’esistenza, del significato del processo e
della diversità delle cose è nelle cose stesse, cioè nel loro principio e nelle
leggi che governano l’evoluzione; 4) dunque, per Dio non c’è posto e non vi è
traccia di divino nel mondo: l’Essere è ontologicamente uno e si svolge per
evoluzione progressiva. Ma che cos'è quest’Essere uno originario necessario? Un
embrione informe del mondo, una specie di materia-madre che i monisti chiamano
in vari modi: omogeneo(Spencer), indistinto (Ardigò), sostanza primitiva(Haeckel);
ma si tratta di nomi, di ipotesi non accertate e non accertabili, di parole che
vorrebbero sostituire Dio. Il monismo materialista, come quello dello Haeckel,
è una contaminazione grossolana di materialismo evoluzionista e di spinozismo.
Anche l’esperienza è contro l’ipotesi monista: la nostra coscienza ci attesta
direttamente che almeno le sostanze intelligenti sono fondamentalmente
irriducibili; dunque, il pluralismo degli enti non è solo fenomenico, ma
sostanziale. Con ciò ci testimonia: 4) che l’ipotesi dell’unità ontologica
dell’essere non ha fondamento obiettivo e dunque non vi è una realtà primitiva
materiale da cui tutto procede per evoluzione; 5) che, rivelatasi inesistente
tale realtà primitiva, resta aperta la possibilità di provare razionalmente che
il mondo è stato creato da un Essere assoluto, il cui essere è di altra natura
da quello delle cose da Lui create; c) che, per conseguenza, non c'è un’unica
realtà, ma due di diversa natura, la creata dipendente dalla creante: l’essere
di Dio e quello del mondo. Ma l’esistenza di Dio e la creazione, a differenza
dell’ipotesi monista, si possono provare razionalmente; dunque, giacchè è vera
la dottrina contraria, il monismo risulta un'ipotesi falsa, nata da un
passaggio erroneo: dall’esigenza legittima di ridurre la molteplicità delle
cose all'unità concettuale dell’idea, passa illegittimamente all’unità 52
Filosofia e Metafisica ontologica dell’essere reale (*°). D'altra parte, il
materialismo o il naturalismo evoluzionista non possono e non potranno mai
spiegarci come dalla materia primitiva, la si nomini come si voglia, nasca lo
spirito ed entri nel mondo il pensiero: mistero inspiegabile. Dire che derivano
per evoluzione dalla materia o che sono suoi epifenomeni (Marx) è non dir niente,
è presentare la difficoltà insoluta... come soluzione! Non per nulla il
panteismo vero e proprio si presenta meno grossolanamente acritico del monismo
materialista, ateo per affermazione dommatica e, nello stesso tempo, incapace
di dare al suo ateismo un fondamento scientifico e una spiegazione razionale.
Dopo il tanto rumore della seconda metà del secolo XIX e dei primi anni del
nostro e la diffusione attraverso la stampa divulgativa e pseudoscientifica, è
considerato definitivamente morto anche da scienziati e filosofi che non hanno
preoccupazioni religiose. Morto come istanza filosofica, è diffuso in forma
rinnovata e aggiornata tra le masse attraverso il comunismo, non perchè abbia
una benchè minima forza speculativa, ma in quanto son vivi i problemi di ordine
economico-sociale ai quali viene agganciato. In altri termini, è soltanto
l’aspetto sociale del marxismo che conferisce forza ed attualità alle sue
grossolane teorie filosofiche ». Da
ultimo, l’espressione tutto è Dio non ha
più senso quando si ammette, come nel caso del monismo materialista e
naturalista, soltanto l’esistenza di esseri fisici o di un essere materiale
embrionale, indistinto, omogeneo che sia. Il panteismo, per il significato
essenziale del termine, importa sì l’Essere uno, ma lo concepisce come Spirito
o Ragione, anche se privo di coscienza ed impersonale, tanto è vero che fa del
pensiero e della coscienza la rivelazione dell’ Essere a se stesso. D'altra
parte, l’Assoluto di cui parla il panteista, pur non essendo il vero Dio,
suscita ammirazione ed amo(30) Cfr. Dict. apol. de la foi cathol. cit., vol.
IMI, p918-922. L'ateismo 53 re, sia anche solo intellettuale »; dà l’ebrezza
del divino immanente (Spinoza). Tutto ciò manca nel monismo materialista o
naturalista, dove Dio è una pura espressione verbale: tutto è Dio viene ad identificarsi, perdendo
il suo sostanziale significato, con l’espressione tutto è materia (5). b) Vi è una forma antichissima
di panteismo ricorrente e presente in tutte le epoche e presso tutte le genti.
Alludiamo a quel panteismo prefilosofico, primitivo, proprio di popoli agli
inizi della speculazione, o di nature poetiche e mistiche abbandonate al
fascino dell’immediato, alla suggestione delle forze della natura senza
mediazione razionale, riflessione concettuale ed elaborazione critica. La
Grecia prefilosofica è in questo senso panteista: le forze cosmiche sono
divinizzate, fatte oggetto di culto; nel politeismo già evoluto di Eschilo,
Sofocle, Pin (31) Si noti che nel materialismo dialettico (incontro
dell’evoluzionismo e del dialettismo hegeliano) i concetti di monismo e
panteismo subiscono una trasformazione profonda al punto che non vi sono
reperibili. Infatti, il materialismo dialettico nega che vi sia comunque
un'essenza di uomo o di altro, un ordine immutabile, una materia nel senso tradizionale: tutto è il
risultato di situazioni storiche, rispondenti ad un grado del divenire; tutto
nel futuro potrà essere diverso, perchè non vi sono sostanze. Ora è esigenza
del panteismo l'unificazione del molteplice, suoi presupposti l’ordine cosmico
e, in comune con il monismo, l’unità sostanziale degli enti. Pertanto,
rigettato il concetto di ente e quelli di sostanzialità ed ordine,
l’evoluzionismo dialettico e materialista non può dirsi nè monista nè
panteista, anzi del monismo e del panteismo è come la critica; in questo senso,
è l’esito ultimo dell’uno e dell’altro. Per meglio far risaltare come nel
monismo materialista, negati Dio e ogni realtà spirituale, la vita perda ogni
significato che non sia quello biologico o economico, tutti i valori umani
siano negati e l’esistenza diventi assurda, riportiamo l’efficace descrizione
che F. Acri (Della relazione tra anima e corpo) fa dei funerali del filosofo Spencer. Ecco: io dico quel che ho letto. Morto lui, il
suo corpo è portato, su un carro, in un luogo tra campi solitari, al settentrione
di Londra, lì dove era un nuovo forno crematorio; ed era un mattino di
dicembre, e tra gli umidi vapori splendeva il sole. Su quel carro non erano
fiori, ma neanche alcun panno nero: e quelle duecento persone ch’erano lì ad
aspettarlo non erano vestite a nero, e neanche ghirlanda alcuna avevano in
mano. Venuto il carro, quelle si levano su in piedi riverenti e silenziose; e
la cassa è deposta in una sala terrena, di contro a una porta. E uno fra loro
leva la mano in segno di voler parlare; e parlò, e disse della vita di lui,
delle opere di lui, insomma del passato di lui; del futuro di lui nè affermò nè
negò nulla. Finito ch’ebbe, la cassa è sospinta contro la docile porta, giù per
un’aperta di muro, entro il luogo del fuoco; e la porta sovra di lui si chiuse
». 54 Filosofia e Metafisica daro, ecc., la distinzione tra le varie divinità,
identificate con le forze naturali, si affievolisce; la molteplicità è
gerarchizzata e unificata in un Dio supremo (Zeus testa del mondo »). L’orfismo, con i suoi
culti, le sue credenze nell’oltretomba e nella metempsicosi, è anch’esso una
forma di panteismo primitivo e tende a cancellare, riducendola ad apparenza, la
individualità sostanziale della persona umana; l’invasato dalla divinità,
attraverso l’ispirazione ed il rito, si sente così posseduto dal Dio da
immedesimarsi con lui. Le forze vitali e le loro manifestazioni, gli elementi
della natura diventano, per l'immaginazione robusta e per la ragione ancora
debole e fanciulla, potenti divinità, buone o cattive, da propiziarsi con riti,
culti, preghiere, sacrifici. L'unità ontologica del tutto, vissuta
immediatamente e con sentimento spontaneo, è ancora nella fase dell’intuizione
poetica o dell'abbandono mistico; il senso profondo della natura e della
immedesimazione con le sue forze è ebrezza del divino, sentimento vitale di
comunione dell’uomo con la divinità e della divinità con l’uomo. Questa forma
di panteismo, che non è pensiero riflesso ma esperienza immediata, trova le sue
espressioni più spontanee e turgide nel primitivismo di popoli non ancora
intellettualmente evoluti, o in quello di forti temperamenti mistici e poetici,
che hanno esuberante il senso della natura e il culto della vita. I mistici
tedeschi non cattolici, Goethe e quasi tutta la poesia del romanticismo
germanico, alcuni scrittori contemporanei, soprattutto modernissimi, vibrano di
potenti accenti panteistici, si sentono come immersi nella natura divinizzata.
È quello che possiamo chiamare panteismo estetico: culto della gran madre Natura », che è bellaanche quando è
orrida », Dio vivente di tutta la potenza delle sue forze attive, ora
paurosamente terrifico (la tempesta, il terremoto, ecc.), ora maestosamente
rasserenatore in una pace solenne, infinita, immobile (il cielo stellato,
l'orizzonte immenso e limpido . L'ateismo 55 da una vetta alpina ecc.). Ma
questo panteismo, appunto perchè prefilosofico e quasi inconsapevole o
solamente poetico, non può essere oggetto del nostro discorso. Il panteismo che
riconduce la natura a Dio non parte dal mondo, ma dall’Essere uno e necessario,
che chiama Dio, Infinito, Assoluto, Io; ma, in ogni caso, lo concepisce come
Pensiero o Spirito, da cui deduce il mondo per emanazione (Plotino), per
deduzione necessaria e razionale (Spinoza), per posizione (Fichte), per
movimento dialettico (Hegel), ecc. In tutte queste teorie, il mondo è
identificato con Dio, per cui realmente esiste solo Dio, di cui il mondo stesso
è una manifestazione. Virtualmente la sua realtà è negata; meglio, dovrebbe
esserlo, se il panteista non avvertisse tale difficoltà e le contraddizioni
insite nel sistema. Questa ed altre forme di panteismo hanno in comune due tesi
che è opportuno indicare: 4) riduzione della molteplicità degli esseri
all’unità ontologica di un unico ed identico Essere, per cui l’essere del
mondo, emanante o procedente da Dio, è lo stesso essere di Dio; 2) che è dunque
incatenato al mondo, il solo possibile,
che da lui emana eternamente e necessariamente e a lui torna per
identificarvisi, come le gocce d’acqua che, lasciate temporaneamente sulla
spiaggia dal flusso dell’onda, vengono riassorbite nella successiva (3°). Il
mondo s’identifica con Dio, da cui emana o procede; dunque l’essere del mondo è
lo stesso di quello divino; d’al(32) Nota ed espressiva l’immagine dell’albero:
fusto, rami, foglie tutto trae vita dallo stesso seme e dalla stessa linfa, che
si rinnova identica a se stessa nell’unità della sostanza dal seme ai frutti.
Essa è frequente nelle Enneadi ed ha avuto fortuna nella poesia romantica di
Schlegel, Schiller, Novalis, ecc.: S'immagini
la vita di un albero, grandissimo; trascorre in esso, rimanendo il suo
principio, immobile, senza disperdersi per l’albero, poichè risiede nelle
radici (Ern., I,8, 10). 56 Filosofia e Metafisica tra parte, il panteismo non
nega che il mondo è anche materia o qualcosa che, non essendo spirito, non è
della stessa natura spirituale di Dio; consegue che, se si mantiene il principio
della identità del mondo con Dio, bisogna affermare l’identità dei contrari,
che logicamente è non affermare nulla. È la difficoltà in cui sembra incorrere
il panteismo dello Spinoza: l’estensione (materia) e il pensiero (spirito) sono
due degli attributi dell’ rica Sostanza o Dio o Natura; se la dualità è anche
in Dio non c’è l’unica realtà eterna (la Sostanza), ma due, irriducibili
all’unità della Sostanza stessa; se questa è una, materia e spirito vi
s'identificano e si afferma l’identità dei contrari, cioè si nega la realtà dell’uno
e dell’altro. Lo Spinoza e altri panteisti (Bruno, Fichte, Hegel, ecc.; Plotino
identifica la materia con il non-essere
», cioè con la zona oscura dove si spenge l’emanazione dell’Uno), consapevoli
della difficoltà, distinguono tra natura emanata o posta (razura naturata) e la
Sostanza o Io o Spirito emanante o ponente (natura naturans). Ma daccapo: 4) o
Dio e il mondo sono realmente distinti, due realtà, due nature, e non c’è
panteismo; 2) o il mondo non si distingue realmente da Dio e, in tal caso, c’è
panteismo, ma la difficoltà sopra notata ne fa una dottrina contraddittoria. In
altri termini, o la distinzione Dio-mondo è reale (analogia dell’essere) e
bisogna abbandonare la dottrina dell'Essere unico in cui esiste tutto ciò che
esiste; o la distinzione non è reale (univocità dell’essere) e allora: o si
conclude che il mondo è pura apparenza; o, se gli si vuol concedere un certo
grado di realtà concessione necessaria
in ogni sistema panteista affinchè sia reale lo stesso Assoluto o Dio , dato
che esso non è solo spirito, bisogna identificare il suo carattere materiale
con quello spirituale di Dio, cioè due contrari, identificazione che, oltre al
resto, riesce ugualmente L’ateismo 57 alla negazione della realtà del mondo
(*). Ma cerchiamo di approfondire meglio l’argomento (#). Posta la tesi
fondamentale: l’urità dell’idea dell’essere imrta la unicità dell’Essere
stesso, consegue che il molteplice (gli enti particolari e finiti) o è
l’Essere, o non è; dunque, solo apparentemente, nella sua fenomenicità, si
distingue dall’Essere; in realtà è lo stesso Essere e non è come distinto da
esso. Parmenide per primo dà una soluzione netta ed estrema del problema: l’Essere
è, il Non-essere [il molteplice ] non è »; Platone, nel Parmenide, mette in evidenza
le insolubili aporie cui va incontro una dottrina dell’Uno che nega i Molti,
come quelle della tesi opposta dei Molti che negano l’Uno; da parte sua, contro
la tesi panteista, ammette la realtà degli enti finiti che hanno dell’Essere
senza essere l’Essere. Negare la realtà del finito è affermare senza
dimostrarla l’unicità ontologica dell’essere; al contrario si dimostra, contro
il panteismo, che tra l’Essere e il Non-essere è possibile la realtà di enti
molteplici particolari e contingenti, che come enti sono e come finiti non sono
l’Essere, senza perciò essere il Non-essere e senza (33) Tipico il panteismo
dello Spinoza. L'unica sostanza Dio-Natura consta di infiniti attributi, ciascuno dei
quali esprime la sua essenza eterna ed infinita. Come la Sostanza non esiste
che nei suoi attributi, così questi (pensiero ed estensione sono i due che noi
conosciamo) non esistono che nei loro modi infiniti; perciò Dio esiste solo
nelle cose come loro essenza universale e le cose sono in lui come modi della
sua essenza. Dio è natura maturans in quanto essenza universale del mondo;
natura naturata in quanto totalità delle cose, in cui la sua essenza si
realizza; dunque non è diverso dai suoi effetti ed esiste solo in essi. Questo
il panteismo nella sua forma più tipica: non creazione del mondo, ma sua
derivazione necessaria dall’essenza divina. La dipendenza del mondo da Dio non
è di causa efficiente ad effetto, ma di seguenza o di conseguenza; il mondo
segue da Dio allo stesso modo che dalla definizione del triangolo segue che la
somma degli angoli è uguale a due reti. In breve, il rapporto causale è concepito
dallo Spinoza come rapporto logico-matematico di principio e di conseguenza.
Nulla può essere diverso da quello che è: non c’è posto per il caso nè per la
libertà. Conoscere questa universale necessità è la beatitudine suprema
dell'anima (amor Dei intellectualis). (34) Questa e altre tesi panteiste sono
esaminate con fine acutezza da A. VaLENSIN nel Dict. apol. de la foi cathol.,
vol. III, p1332 c ss., che in qualche punto teniamo presente. 55 Filosofia e
Metafisica che la loro molteplicità ontologica neghi l’unità dell’idea
dell’essere. Dio non si può concepire senza il mondo, dicono ancora i
panteisti, in quanto sarebbe incosciente: coscienza, infatti, è alterità, il
distinguersi da qualcosa che è e le si oppone; dunque il mondo è necessario a
Dio, il quale si fa, diviene, si rivela a se stesso, prende coscienza di sè
attraverso di esso. Questa tesi, tipica dell’idealismo trascendentale tedesco,
trasforma il panteismo in ateismo. Un Dio che si fa (il Got im Werden dello
Hegel) non è Dio, non è Spirito infinito, che è Atto puro; qui si nega Dio e si
chiama col suo nome un’altra cosa. Infatti, quando il panteista afferma che Dio
senza il mondo sarebbe incosciente perchè la coscienza per cogliersi ha bisogno
dell’altro da sè, non parla di Dio Coscienza assoluta, ma della coscienza
finita dell’uomo, che non è puro spirito come Dio, il quale, come tale, è
sempre Coscienza in atto e perciò non necessita dell’altro. Similmente Egli è
spirito perfetto senza bisogno di diventarlo, di farsi: se si facesse, sarebbe
sempre spirito in fieri e perciò mai perfetto. Un Dio che diviene non è mai Dio
in nessun momento del suo divenire e dunque non esisterà come Dio; perciò è
come dire che non è. È la conclusione a cui arriva Nietzsche nel notissimo
passo della Gaia Scienza: Dov'è Dio?
Voglio dirvelo! L’abbiamo ucciso, voi ed io... Dio è morto! Dio resterà morto!
E noi l’abbiamo ucciso... ». Da ultimo, non si parla di Dio ma di altro quando
si argomenta che, se è infinito, non può essere che impersonale: chi dice
persona dice limite e finitezza, ma Dio è infinito e senza limiti; dunque Dio è
impersonale. Osserviamo che la conclusione non dimostra la sua impersonalità;
semplicemente Lo nega, in quanto un Dio impersonale è un’astrazione (la Natura,
l’Umanità ecc.). D'altra parte, la premessa è esatta se s'intende la persona
finita, ma il conL'’ateismo 59 cetto di persona umana non è l’unico possibile :
Dio è persona in maniera diversa da come lo siamo noi, ma lo è in modo analogo
al nostro (#). Si noti che in quest’ultima sua tesi il panteismo considera
l’infinità di Dio in un senso che Gli si addice veramente; infatti, concependo
la persona solo secondo quella umana limitata, esclude che Egli possa esserlo.
Ma qui nasce un dilemma: o Dio è infinito senza alcuna limitazione, e cadono le
due prime tesi panteiste del Dio che si fa e a cui è necessario il mondo per
acquistare coscienza di sè, in quanto un simile Dio non è perfetto e infinito
in atto ma limitato nel divenire altro e nell’autorivelarsi a se stesso; o Dio
non è infinito e perfetto in atto e allora, se tale, anche secondo l’uso
ristretto che il panteismo fa del termine, si può dire persona, e cade la tesi
panteista della sua impersonalità. Ma perchè vi sia panteismo non in
contraddizione con se stesso e dunque sostenibile razionalmente, è necessario
mantenere e giustificare tutte e tre le tesi. Impossibile: o Dio è l’Infinito
in atto e non Gli è necessario il farsi nel mondo e il mondo stesso, e con ciò
vien meno l’essenza metafisica del panteismo (il mondo è Dio e Gli è
necessario); o non è l’Infinito in atto e allora, anche nell’accezione
panteista, si può concepirLo esistente come persona, e vien meno l’altra tesi
essenziale al panteismo della sua impersonalità. In qualunque forma, il
panteismo presenta invincibili contraddizioni interne; come tale, è
razionalmente insostenibile (*). (35) Invece, così ragionano quanti negano a
Dio la personalità: voi chiamate personalità e coscienza ciò che avete imparato
a conoscere in voi stessi con questi nomi; ma sapete anche che non vi è
personalità e coscienza senza limitazione e finitudine; perciò attribuendo a
Dio quei predicati, fate di lui un essere finito, uguale a voi e non avete
pensato a Dio, ma moltiplicato voi stessi nel pensiero. Questo ragionamento del
Fichte, il quale riduce il teismo ad antropomorfismo, critica un modo di
chiamare Dio personale diverso da quello del testa; perciò non interessa il
vero teismo e non ha alcuna validità contro di esso. (36) Osserviamo ancora
che, anche ad accettarla per un momento, la tesi panteista che il mondo è
necessario a Dio, risulta contraddittoria in se stessa. Se il mondo è
necessario a Dio, bisogna pure che abbia una sua realtà: se è pura 60 Filosofia
e Metafisica 7. L’umanesimo ateo. Con
l’umanesimo assoluto o ateo, proprio di quelle filosofie che si dicono atee
perchè umaniste, entriamo nel vivo dell’ateismo contemporaneo nelle sue
molteplici forme di derivazione materialista, illuminista e idealista,
soprattutto hegeliana. Secondo i suoi teorici, la religione (e perciò l’idea di
Dio) aliena l’uomo in un Essere assoluto e trascendente, gli ta perdere il
possesso di ciò che gli appartiene, gli impone un Altro; un maestro che gli
insegna, o un rivale che gli contende. Di qui l’antitesi teismo-umanesimo: Dio
è la negazione dei diritti dell’uomo, che, adorando un Ente Supremo, frutto
della sua immaginazione condizionata da situazioni storiche, aliena in lui quel
che invece gli appartiene. Pertanto un umanesimo integrale ed autentico è
possibile solo se l'uomo cessa dall’alienazione religiosa e riconquista i suoi
diritti e poteri, cioè se attraverso l’evoluzione storica elimina il momento
religioso della rinunzia a ciò che gli spetta e attribuisce a Dio. Questa forma
di ateismo non è una novità del marxismo; apparenza, è assurdo dire che Dio
esiste per un’apparenza, anzi dire che esiste; infatti, se il mondo è
apparenza, siccome Gli è necessario per esistere, anche Dio è apparenza!
Dunque, il panteista deve concedere al mondo una sua realtà, non diversa però
da quella di Dio, altrimenti vien meno il principio dell’unicità dell'essere e
con esso l'essenza del panteismo; ma se a Dio è necessaria per csistere la
realtà del mondo e questa è della sua stessa natura, consegue che per esistere
Gli è necessario... Dio stesso! Sì, può obiettare il panteista, gli è necessaria
la sua realtà non più in sè, ma fuori di sè, nel suo farsi per acquistare
coscienza di sè. Benissimo; ma allora Dio in sè non è coscienza; se non è
coscienza, non è soggetto; se non è soggetto, è oggetto, materia ». Come nasce la coscienza? Si
riproduce dentro il panteismo la difficoltà insormontabile del monismo
materialista. Non conta che ci soffermiamo su quel misto di panteismo, deismo,
emanazionismo che è la cosiddetta teosofia, che non è filosofia nè teologia nè
scienza, per la quale sembra abbiano un debole le signore; i due autori più
noti, infatti, sono due donne, la Blavatsky e Annie Besant. Le loro tesi sono
quelle già da noi confutate: 4) Dio è impersonale (un Dio personale è
antropomorfico); in realtà, per la Blavatsky, Dio è onnipotente, onnisciente,
ecc. (The Key to Theosophy, London, 1893, 44), ma solo Dio sa, se è tale, come
può dirsi impersonale; 5) Dio è tutto e
tutto è Dio », scrive la Besant (WAy I became a theosophist, London, 1891, 18)
confondendo le due forme di panteismo, che noi, meno frettolosi, abbiamo
distinto e discusso separatamente, i L'ateismo 61 già matura nell’Illuminismo,
rappresenta solo una fase di quel processo di divinizzazione dell’umano,
proprio del pensiero moderno: l’uomo può fare da sè quello che, attraverso
l’alienazione religiosa, crede possa fare solo Dio. Il progresso e l’evoluzione
storica dell'umanità risiedono precisamente nella graduale liberazione dalla superstizione religiosa, infanzia della
ragione, nella sempre più matura consapevolezza che noi acquistiamo dei nostri
poteri. Per l’idealismo trascendentale, da Fichte a Gentile, l’uomo realizza la
sua umanità piena nel pensiero che, attraverso il dialettistmo che gli è
immanente ed essenziale, perviene alla risoluzione del momento religioso in
quello filosofico e all’attuazione di quella assolutezza dalla religione
attribuita a Dio e che, invece, è il pensiero stesso nel suo perenne divenire,
nella conquistata consapevolezza di sè. Con il positivismo del Comte, il materialismo
del Feuerbach e l’economismo del Marx, la religione dell’ umanità sostituisce
quella di Dio. Così l’umanesimo ateo assume uno spiccato carattere sociale:
l’uomo acquista coscienza di sè nella società, nel lavoro inteso come vincolo
di fraternità », strumento di dominio
della natura, potenziato dal progresso scientifico e tecnico. Nella storia
l’uomo realizza tutto se stesso; nella società giusta attua quella perfezione
assoluta che l’alienazione religiosa gli fa attribuire a Dio. Al contrario,
secondo un’altra forma di umanesimo ateo antisociale anarchico individualista,
ma di un individualismo antiborghese, l’evoluzione storica raggiunge la sua maturità
con il tipo dell’uomo selezionato, eccezionale, eroe e tiranno, crudele e
despota, di cui unica legge è l’arbitrio e tutto è sua proprietà ». L’umanità esprime la sua potenza
intera nell’ unico (Stirner) o nel superuomo (Nietzsche), cioè quando
oltrepassa se stessa, si pone al di là della mediocrità delle leggi, dello Stato, della
morale ecc.; la pienezza dell’uomo è nella negazione dell’umano nel superumano
del superuomo, usurpatore di tutto, con62 Filosofia e Metafisica quistatore dei
suoi supremi diritti contro Dio, di cui decreta la morte cancellando al tempo
stesso l’alienazione religiosa, vergogna del gregge dei deboli. Queste forme di ateismo,
imperniate sul concetto di alienazione, nonostante le differenze a volte
rilevanti, hanno in comune alcuni presupposti dogmaticamente assunti: 4) la
religione è un grado, inferiore rispetto ai successivi, dell’evoluzione
dell’umanità, corrispondente al momento in cui l’uomo non ha ancora piena
coscienza di se stesso ed attribuisce a Dio quello che gli appartiene e attuerà
in una fase più progredita della sua evoluzione; è) essa, per conseguenza,
grado transitorio del divenire storico, è destinata a scomparire quando tutti
gli uomini, e non soltanto i più evoluti, avranno acquistato consapevolezza di
sè, cioè quando vi sarà un’umanità o una società nella piena maturità della sua
evoluzione; c) pertanto, quel che si adora come Dio non è che l’ideale umanità
futura, che l’uomo per il momento proietta fuori di sè ed entifica in un Ente
supremo e domani invece vedrà realizzato in se stesso con e nella sua opera; 4)
fino a quando egli adora un Dio e si aliena in lui, è indizio che l’evoluzione
storica non ha raggiunto la sua completa attuazione e ancora vi è nella società
un residuo d’infantilismo. Sul fondo comune della divinizzazione dell’umano l’uomo al posto di Dio, l’ usurpatore temporaneo
destinato ad essere spodestato l’umanesimo ateo si differenzia in forme
diverse quando si tratta di stabilire in quale delle sue attività l’uomo
realizza il suo compimento: il Progresso, la Scienza, la Filosofia, l’Umanità,
la Società omogenea, ecc. a volta a volta sono state additate come le nuove
divinità della nuova religione umanistica », la cui realizzazione farà sparire,
relitto del passato, la religione
teologica ». La forma più vistosa, anche se teoreticamente meno consistente, è
quella marxista, sulla quale insistiamo in modo particolare per la sua
diffusione e perchè espressione L’ateismo 63 di ateismo integrale che pretende
di oltrepassare anche se stesso, sforzo poderoso di costruire l’umanità intera
contro Dio e di rivoluzionare dalle fondamenta la scala dei valori. Mai ateismo
è stato più negativo ed assoluto, apocalittico e messianico; mai, come ora col
marxismo, è stato forma di vita. La cosidetta sinistra hegeliana », pur accettando il dialettismo,
opera un rovesciamento di Hegel: i fatti non sono un’estrinsecazione dell’Idea,
ma la sola e vera realtà, di cui l’Idea è solo un'immagine; perciò reale è
l’uomo non come puro pensante, ma come istinto, senso, corpo: l’uomo è un corpo
cosciente », dice Feuerbach; ed è bisogno, insieme di bisogni, che vuol
soddisfare per realizzare la propria felicità. Nel rapporto sociale egli
acquista coscienza della sua umanità ed è tanto più se stesso quanto più attua
questa coscienza. Come nasce nell’uomo così concepito l’esigenza religiosa?
Questa la domanda alla quale Feuerbach risponde ne L'essenza del Cristianesimo
(1841). Hegel identifica Dio con il processo storico, con l’uomo infinitizzato;
dunque, quando parla di Dio, parla dell’uomo; basta scrivere uomodove scrive Dioper restituire all'uomo stesso il suo
autentico essere; pertanto, il problema
di Dio è il problema dell’uomo »; il segreto della teologia è l’antropologia ».
Così Feuerbach opera la trasformazione
del sacro già implicita nel pensiero illuminista e quasi esplicita nel Fichte e
nello Hegel. La religione è un prodotto puramente umano: non potendo l’uomo
soddisfare tutti i suoi bisogni, cioè liberarsi dal bisogno, postula o pone un
Essere illusorio, proiezione di se stesso come vorrebbe essere. La teologia non
è che antropologia; l'Assoluto filosofico e religioso, estrapolazione dell'immaginazione,
è l’uomo stesso, il suo essere come specie. 64 Filosofia e Metafisica Così
nasce l’alienazione religiosa o l’atto di abbandonare ad un altro la
realizzazione dei valori, di scaricarsi di un compito. Se l’uomo acquista
coscienza che quando pensa l’Infinito pensa e attesta l’infinito del suo
pensiero, e quando lo sente, sente e attesta l’infinito del suo sentimento; se
si fa consapevole che nell’essere e
nella coscienza della religione non vi è niente di diverso da quel che c’è nel
suo essere e nella sua coscienza »; in breve, se si convince che egli
inconsapevolmente e involontariamente crea Dio secondo la propria immagine »,
si riprende quel che ha alienato e acquista coscienza che tutto il discorso su
Dio non è che discorso sull’uomo, che lo ha creato a sua immagine e somiglianza.
In altri termini: se il fatto religioso dipende da una particolare situazione
umana e dura fino a quando essa non evolve, cessata o trasformatasi, l’uomo
cessa di pensare a Dio e di essere religioso. Feuerbach, nonostante tutto,
resta legato al vecchio materialismo; il reale per lui è ancora l’ oggetto sensibile,
come gli obietta Marx, che pur riconosce quanto deve al suo predecessore. In
breve, conserva residui intellettualistici, che Marx elimina con la riduzione
del reale all’ attività sensibile umana intesa come prassi: il rapporto uomo-natura
è dialettico e non vi è altra dialettica che quella uomo sensibile-realtà
sensibile in funzione del lavoro umano; pertanto, la dialettica deve scendere
dal piano teoretico-ideistico (Hegel) a quello pratico o economico », anzi l’ economico », il materiale », è l’unica struttura del processo, di cui le altre
(morale, religione, arte, ecc.) sono solo soprastrutture ». La proprietà privata,
autoalienazione dell’uomo, è una usurpazione o appropriazione della sua essenza
da parte di un altro; la sua soppressione positiva coincide, da un lato, con la
soppressione positiva della vita umana alienata e di ogni altra alienazione
conseguenza della prima come la religione, la morale, la famiglia, lo Stato, il
diL'’ateismo 65 ritto, ecc.j dall’altro, con il ritorno all’uomo come essere
sociale », con la riconquista del suo vero essere originario: l’essere
dell’uomo si attua nella natura, ma questa ha essenza umana solo per l’uomo
sociale, in quanto soltanto nella società diventa legame che unisce gli uomini
tra loro. In quest’ultima si compie l’integrale naturalismo dell’uomo e
l’integrale umanesimo della natura: non la dialettica hegeliana dell’Idea, ma
quella uomo-natura, singolo-società. La storia non è il divenire dell’Idea o
della Ragione, ma quello della natura attraverso il lavoro dell’uomo; non la
dialettica di compimento dello Spirito assoluto nella Filosofia, ma quella di
compimento dell’uomo-natura nella Società socialista. Ciò posto, se non ci sono
che l’uomo e la natura in rapporto dialettico e la religione appartiene al
momento dell’alienazione o della proprietà privata, realizzata l’unità dell’uomo
con la natura nella società ed eliminata l’alienazione, la religione scompare
da sola: l’ateismo è una constatazione, è o sarà un fatto della nuova società socialista. Amano a
mano che l’uomo andrà costruendola e conquistando la sua libertà, sua opera
esclusiva perchè la storia è soltanto opera dell’uomo che in essa ha tutto il
suo senso, andrà sparendo, anche senza combatterla, la credenza nell’esistenza
di Dio, soprastruttura dell’alienazione. Dal momento che la essenzialità dell’uomo e
della natura diventa praticamente sensibile nel rapporto dialettico
uomo-natura, diventa praticamente impossibile anche il problema di un'essenza
estranea superiore alla natura e all’uomo implicante l’ammissione della loro
inessenzialità. L’ateismo come negazione
di questa inessenzialità non ha alcun senso, poichè esso è una negazione di Dio
e pone con essa l’esistenza dell’uomo ». Dunque, non c’è più bisogno della
negazione di Dio e della religione, l’ateismo diventa superfluo:
l’autocoscienza positiva acquistata dall’uomo nella società socialista è la
negazione 66 Filosofia e Metafisica della negazione, cioè dell’ateismo: non si
tratta di sopprimere la religione, perchè è già sparita, come non si tratta di
sopprimere la proprietà privata, già eliminata. In altri termini, la negazione
di Dio e della proprietà privata rappresentano solo un momento necessario del
processo di emancipazione dell’uomo alienato, della conquista della sua
libertà, ma non il fine della società umana, che è l’attuazione della libertà
dell’umanità. Questi e altri discorsi poggiano sul presupposto dommatico di
Feuerbach che la materia è il primo ontologico, a cui Marx applica il metodo
dialettico che lo Hegel riserva allo spirito. Così Marx riforma
contemporaneamente la dialettica hegeliana e il concetto feuerbachiano di
materia, ma la duplice operazione lascia intatto il presupposto materialistico,
anche se egli identifica la materia con la realtà economica, cioè la
sostituisce così intesa, ma senza giustifica zione alcuna, allo spirito. Certo,
l’economia, come ogni altra attività umana è dialettica, ma è tale in quanto
attività spirituale che, pur interessando il corpo, risponde sempre ad un
bisogno dello spirito unito al suo corpo; dunque interessa la persona nella sua
integralità spirituale e corporea. Ma, a parte ciò, da un lato resta da
dimostrare che la materia o l’economico sia il primum o il principioassoluto
fondante tutta la realtà umana e non essa fondata da un altro principio,
altrimenti si fa un’affermazione dommatica, come tale gratuita e
filosoficamente ingiustificata; dall’altro, è da vedere come il marxismo
intende lo spirito, il pensiero, la coscienza. Ora è noto che, per Marx e i
neomarxisti russi o di loro ispirazione, materia non è soltanto la realtà economica, lo
è l’universo tutto nella sua essenza; di essa, dato oggettivo indipendente
dalla coscienza, quest'ultima è solo un elemento secondario derivato »; il pensiero
è un prodotto del cervello, che a sua volta lo è dell’evoluzione della materia,
per cui la dualità materia-spirito è una mera astrazione metafisica. Se è così,
l’attività econoL'ateismo 67 mica, primum assoluto, è soltanto ed
esclusivamente materiale, dato che la cosidetta coscienza o spirito è un
elemento secondario derivato dalla materia oggettiva, madre di essa e di tutta
la realtà naturale; dunque, monismo materialista in edizione aggiornata, ma più
scorretta di quella del vecchio materialismo, in quanto il neo-materialismo
pretende di essere dialettico », ragione
di quello storico », come se si potesse parlare di dialetticadove tutto è materia e niente
spirito. L'espressione materialismo
dialettico è una contraddizione nei termini e non è ragione di alcun materialismo storico », per il motivo
inconfutabile che non c’è dialettica dove non c’è spirito e dove esso è
concepito come un elemento derivato dalla materia oggettiva; c’è solo quest’ultima
che è puro accadere naturale senza dialettica. Certo, l’ateismo in una
concezione monistica diventa una constatazione di fatto, ma non per le ragioni
che adduce Marx, bensì perchè, se la materia è il primum, non c’è nient'altro,
nè coscienza derivata, nè realtà economica, nè storia; non c'è l’uomo nè Dio,
non c’è lo stesso ateismo. Tutto diventa un dato inspiegato ed inspiegabile,
gratuito; non resta che riporsi tutti i problemi senza tener conto dell’assurdo
iniziale monismo materialistico. D'altra parte, che senso ha parlare di
uguaglianza e fraternità tra gli uomini in una concezione in cui la persona è
un puro prodotto naturale della materia, la risultante dell'evoluzione
materiale ed è per essenza tutta ‘e solo sociale, senza diritti extrasociali o
anteriori alla società stessa? Marx ammazza la persona tre volte: nella
materia, nella realtà economica e nella società; poi fa la peregrina scoperta
che non c’è più bisogno di parlare di Dio e della religione! Ha alienato la persona nella materia, negato lo
spirito nella realtà economica e nella società e dice di aver riscattato l’uomo
dall’alienazione religiosa. A parte ciò, come si fa a dire che l’idea di Dio e
la religione sono la conseguenza della 68 Filosofia e Metafisica proprietà
privata e dell’alienazione del lavoro, pronte a scomparire, incubo
plurimillenario, con la cessazione della causa materiale che le ha prodotte? Ma
che aveva in testa l'insiptens Marx e che vi hanno gli insipientes che l’han
perfezionato su questo punto quando pensano a Dio? Superfluo insistere nel
criticare una dottrina che, sotto l’aspetto filosofico a parte la questione sociale è così puerile e grossolana da non potersi
chiamare nemmeno assurda; infatti, nessuno taccia di assurdità un bambino il
uale dice che il manico di scopa che cavalca è uno dei cavalli del Re
d’Inghilterra. È quel che capita al marxismo quando sostiene che gli uomini
pensano a Dio perchè defraudati da una parte di quanto producono con il loro
lavoro e che cesseranno dal pensarvi dal momento in cui, sparita la proprietà
privata e la defraudazione del lavoro altrui, si sarà pienamente realizzata la
libertà dal bisogno, l’ideale perseguito dall’inizio dei tempi e proiettato in
un immaginario Dio. Ma è opportuno osservare che l’umanesimo assoluto marxista,
come quello che si fonda sull’autosufficienza umana, rientra nel quadro più
vasto del pensiero moderno laicista; non per nulla è figlio dello Hegel.
Variano i modi di divinizzazione dell’uomo: attraverso la Scienza, l'Arte, il
Pensiero ecc., ma l’esito è identico; perciò la puerilità del marxismo non
sfigura gran che al confronto di quella di altre dottrine. Solo che esso,
invece di affidare il compito di costruire l’Uomo-Dio a forme di attività
nobili o dotte, lo ha affidato ad una più rozza, l'economia; ma non è poi
questo gran male, perchè l’esito è sempre lo stesso. Gli altri ateismi o
laicismi non hanno da protestare contro il marxismo e da darsi una superiorità
che è solo sciocca arroganza. Non è il caso d’insistere, perchè già incluse
nella nostra esposizione critica, su altre teorie di alienazione religiosa, su
quelle che dicono in generale: l’uomo che crede in Dio L'ateismo 69 aliena se
stesso, abdica; dunque un vero umanesimo non può non essere ateo. Nietzsche
vien subito alla mente, ma le citazioni potrebbero essere numerosissime. Per
esempio, il Brunschvicg; il quale non nega il valore trascendentale del
pensiero, ma lo intende in senso idealistico: non Pensiero in atto (Dio), bensì
quello che è infinito progresso creativo; Dio s’identifica con la Ragione
immanente. Se, invece, l’uomo ammette con la pura immaginazione un Dio trascendente aliena in
Lui i poteri del pensiero, che è l’Assoluto. Anche per Sartre un Assoluto in sè
è assurdo: l’idea di Dio è la proiezione all’infinito di un impossibile sogno
dell’uomo, un'illusione fondamentale, il tentativo fantastico di fare
coincidere la riflessione (il powr-Soî) con l'essere (l’enSoi); è precisamente
l’impossibile tentativo o di annullare l'oggetto nel puro soggetto o il
soggetto nella pura oggettività. L'uomo vuole essere Dio e non potrà mai
esserlo perchè Dio è assurdo; l’uomo è una passione inutile ». Queste teorie
concepiscono Dio come negazione dell’uomo; ma Dio non nega, eleva la natura
umana ad un destino soprannaturale; dunque, da questo punto di vista, la sua
idea non è alienazione, ma inglienazione. I filosofi dell’alienazione religiosa
s’immaginano un Dio alienante e poi
concludono che l’uomo, pensandovi, si aliena in Lui. Ma, in definitiva, cosa
aliena? Quello che compete alla sua natura, o quel che non gli appartiene?
Secondo i teorici dell'alienazione, proprio quello che non gli appartiene,
essere Dio. In altri termini, se si attribuisce all’uomo quello che spetta a
Dio, chiaro, se vi pensa e lo ammette, si aliena.... ma come Dio, non come
uomo. Non vi è, dunque, alienazione religiosa nè l’esistenza di Dio la
comporta, se l’uomo si attribuisce quel che appartiene alla sua umanità e non
quello che non gli spetta. Proprio chi divinizza l’uomo, lo aliena, lo fa
escire fuori di sè, lo rende ridicolo, caricatura di se stesso.La breve
indagine storico-critica sull’ateismo e le sue forme fondamentali, condotta con
animo aperto e dal punto di vista più favorevole, ci porta a concludere che,
sia quello vero e proprio come l’altro che non si dice esplicitamente tale o
non lo è in apparenza, non vanno oltre affermazioni dommatiche o razionalmente
contraddittorie. Infatti, l’ateismo assoluto, che nega senz'altro l’esistenza
di Dio in qualsiasi modo Lo si concepisce, quando pretende ad un qualche
significato filosofico, esprime la fiducia che la ragione umana abbia la
capacità di provare la sua affermazione; ma nessun ateo, che si sappia, ha dato
una simile prova razionale inconfutabile. Gli agnostici giustamente gli
rimproverano questo suo dommatismo, di non porsi il problema pregiudiziale se
la ragione abbia il potere di dimostrare vero il suo ateismo. Non solo, ma
l’ateo non si chiede neppure se alla ragione, schietta e naturale, non ripugni
una simile negazione proprio in quanto è naturalmente indirizzata all’Essere,
origine e fondamento di ogni verità e dello stesso lume razionale; l’ateismo
dommatico, in questo senso, è contro la natura dell’uomo, contro la ragione.
Per conseguenza, l’affermazione atea è irrazionale, dettata dalla passione »; è lo stato dell’insipiens, di
colui che non sa L'ateismo ZI quel che dice, proprio perchè la sua ragione è in
cattività ; condizione psicologica non avente alcun valore oggettivo e dunque
filosofico. D’altra parte, l’ateismo dommatico non trova aiuti o sostegni nella
scienza che non oltrepassa arbitrariamente i suoi limiti ma in tal caso gli aiuti sono apparenti perchè
forniti da una scienza apparente in
quanto a nessuna contraddice l’esistenza di Dio, neanche quella del Dio
personale. Nessuna psicologia scientifica può distruggere la superiorità della
coscienza e del pensiero e la loro inderivabilità dalla materia; l’esistenza di
Dio-Volontà non contraddice all’ordine delle leggi fisiche; anzi proprio la
scienza, se non premeditata e consapevole del suo oggetto e dei suoi limiti,
può riconoscere la convenienza razionale del Dio-Persona. In conclusione, una
ragione atea non è razionale nè ragionevole. Ma proprio quella convenienza nega
l’agnostico, il quale dà torto all’ateo che pretende di sapere che Dio non esiste, ma lo dà anche al
teista che presume di provarne l’esistenza; egli così non incorre nè nel
possibile errore del primo, nè in quello pure possibile del credente che, dal
fatto soggettivo del credere, conclude affermativamente. Lo agnostico non nega
e non afferma l’esistenza di Dio; /a ignora, perchè i mezzi conoscitivi di cui
l’uomo dispone non hanno la capacità di spingersi fino all’affermazione o alla
negazione. Infatti, essi hanno validità conoscitiva solo se applicati a ciò di
cui l’uomo può avere esperienza; ma dello Essere in sè non c’è esperienza e v'è
solo pensabilità »; dunque non c’è
possibilità di pronunziarsi con un certo fondamento razionale sulla sua
esistenza. Come abbiamo osservato, la verità della conclusione è legata a
quella del sistema, il quale non comporta che si affermi o si neghi l’esistenza
di Dio; ma è vero il sistema? (I) L’ateo non ubbidisce alla ragione, ma la
sottomette al suo ateismo, meglio ai motivi passionali che lo fanno ateo. Non
lo convincono ma l’ateismo gli è comodo: vuole essere ateo; ha paura di Dio e Lo nega.
72 Filosofia e Metafisica E’ inconfutabilmente dimostrato che la conoscenza
umana è limitata solo al mondo fenomenico (7)? Lo si afferma perchè, in
partenza, si assegna alla filosofia come suo oggetto proprio il fenomeno o il
fatto e non il valore e l’atto; si riduce tutta l’esperienza valida a quella
sensoriale ignorando che ve n°è una spirituale più profonda e vera, che, quando
non s’identifica superficialmente con i fenomeni psichici, attinge profondità
metafisiche che danno evidenza razionale al problema di Dio e della sua
esistenza. Ma assegnare alla filosofia come suo oggetto il fatto fisico e
umano, è negare che ne abbia uno proprio, ridurla alla scienza o alla storia,
di cui diventa una metodologia; dunque, si nega che l’esistenza di Dio è
problema filosofico, perchè si nega che vi sono filosofia e problemi
propriamente filosofici! In altri termini, il sistema che limita la
conoscibilità al fatto e al fenomeno è una filosofia che si ferma al di quadella
filosofia vera e propria, al punto in cui si arresta la scienza; cioè è una
filosofia che deve ancora cominciare a filosofare sull’esistenza di Dio e gli
altri problemi! Non nego e non affermo; ignoro se Dio esiste ». Lo agnostico
che dice di ignorare Dio è ateo di fatto lo è chi lo ignora ma dice d’ignorarlo perchè il sistema esige di
fermarsi al fenomeno di esperienza; dunque perchè si ferma ad un certo punto.
L’agnosticismo ateo è la rinunzia a pensare fino in fondo, il fermarsi alle
cause penultime (scienza) senza spingersi fino al Principio primo (metafisica).
Può essere timidezza, ma anche timore (*); teoreticamente Per citare un esempio recente, anche se di
scarsa consistenza speculativa, il Rensi, nella citata Apologia dell’ateismo,
poggia tutta la sua argomentazione su una concezione materialistica
dell’essere, ricavata da un’insostenibile interpretazione materialistica di
Kant: è soltanto ciò che può essere
visto, toccato, percepito (15); Dio non può essere visto, toccato, percepito;
Dio non è e pensare diversamente è alienazione mentale (35). (3) In chi nega Dio
o dice di ignorare se esiste, non di rado ha una influenza decisiva un motivo
psicologico di ordine pratico: giustificare la propria condotta di vita. Gli spiriti forti sono spesso di una estrema
debolezza: fanno i bravi con Dio »,
secondo un'espressione di Pascal, per l'incapacità di libeL'ateismo 73 è il non
osare, mancanza di vera vocazione filosofica, rinunzia alla bellezza del rischio metafisico; è un fermarsi », in contraddizione con la spinta della
ragione e perciò non razionale. Bacone l’attribuisce a superficialità (*); Pascal al non
pensare fino in fondo Athéisme. marque de force d’esprit, mais
jusqu’à un certain degré seulement a metà: Les athées doivent dire des choses
parfaitement claires. Ma proprio
di chiarezza mancano: presentano come chiara una conclusione che non lo è, per
esaurito e definitivo un discorso che è infinito, e, quasi timorosi di
convincersi dell’esistenza di Dio, cercano sempre qualche difficoltà per
persuadersi del contrario ("). La ragione può rifiutarsi di andare fino in
fondo solo facendo violenza a se stessa, facendosi schiava di interessi non
razionali, mistificandosi, autocontraddicendosi (°). Tuttavia, a parte queste
obiezioni, resta valida la pregiudiziale critica sulla capacità della ragione di
fondare rarsi da una passione anche volgare! Spesso, sotto l’apparenza di crisi
spirituali, della coerenza di vita e pensiero, dell’onestà intellettuale, si
nasconde l’attaccamento ad una passione: pur di non rinunziarvi si mette la
ragione a servizio di essa, la si costringe a sottolizzare, a trovar pretesti e
scuse fino a quando non l’abbia giustificata. In tal caso, l’ateismo e
l’agnosticismo ateo ( si vuole ignorare Dio perchè fa comodo) scaturiscono da
un fondo di immoralità. Certo non sono mancati e non mancano atei onesti e
modelli di virtù morali; ma non di rado l’onestà di questi galantuomini dai costumi impeccabili è satanica:
virtuosi per la superbia di esserlo, identificano i valori con la loro stessa
persona, ne fanno una posizione dell’io da
mantenere e rispettare anche fino al sacrificio di sè... a se stessi. (4) F.
Bacone, De dignit. et aug. scient., 1, I, c. I, $ 5; Certissimum est, atque experientia
comprobatum, leves gustus in philosophia movére fortasse in atheismum, sed
pleniores haustus ad religionem reducere ». (5) Pensées, Sect. III, 225, ed.
Brunschvicg.(6) Ivi, Sect. HI, 221. (7) Come è stato osservato (Piar, in Revue pratique d’apologétique », 15 gennaio
1907, 451), se a cercare Dio si fosse impiegato un decimo dell’energia spesa
per avvolgerlo di nubi, l’umanità avrebbe già posseduto la più ampia, precisa e
solida delle teodicee. (8) VoLtaire (ocit., 43), non certo sospetto di
eccessiva pietà religiosa, scrive: les
athées sont pour la plupart des savants... qui raisonnent mal »; e gli ambiziosi », i voluptueux », aggiunge argutamente, n’ont guére le temps de raisonner... ». 74
Filosofia e Metafisica una teodicea e di risolvere il problema teologico; ma
farla valere non significa affatto giustificare innanzi tutto se ha il diritto
di oltrepassare l’esperienza sensoriale, ma provare che questa esperienza, alla
quale la si vuol costringere e limitare, è inspiegabile senza oltrepassarla.
Tale istanza non può essere ignorata dall’agnosticismo e dal criticismo, appunto
perchè spinge la critica al limite del suo sviluppo più esigente. Ma ammettere
razionalmente l’esistenza di Dio non implica di necessità concepirlo come
l’Essere trascendente e personale, obiettano deisti e panteisti. Abbiamo già discusso
e confutato le dottrine che concepiscono Dio come Ente impersonale e dimostrato
la loro contraddittorietà : hanno il torto di chiamare Dio quel che non lo è,
ma è Forza », Causa », Legge naturale », Natura : in questi casi Dio è una parola senza
contenuto, o con uno diverso. Ma ciò è lo stesso che negarLo e perciò il deismo
e il panteismo sono atei: teismo verbale (uso della parola Dio) e ateismo
sostanziale (chiamare Dio un’altra cosa). In breve, o si nega Dio e si abbia la
franchezza di dirlo accettando l’assurdità dell’affermazione; o non Lo si nega
e allora si parli di Lui e non di altro: Natura, Legge, Divenire, Idea,
Inconscio, ecc. Un Dio impersonale non è Dio, ma solo una parola mal adoperata, un
non-concetto, una contradictio in adjecto », dice lo Schopenhauer. Se si
riconosce la necessità razionale del teismo, questo esige che Dio sia lo Essere
intelligente e volente, Persona, con cui gli enti creati sono in rapporto di
analogia e non di univocità o identità. Questo indica il termine; qualsiasi
altro uso è spurio e fa che il teismo diventi puramente verbale. Da ultimo,
notiamo che Dio, oltre che una verità razionale, è innanzi tutto una verità
religiosa, rispondente a una esigenza precisa dello spirito umano; dunque, la
ragione è chiamata a provare non un ente qualsiasi, sia pure il Tutto L'ateismo
75 o l’Assoluto, bensì l’Essere, assoluto sì, ma trascendente e personale. Dire
che Dio è verità razionale non deve significare depauperazione della Sua idea
al punto di farne una pura nozione concettuale esprimente l’esigenza dell'Unità
o dell’Assoluto, della Legge di natura o della Causa fisica, in quanto la
ragione è chiamata a dare fondamento razionale al Dio della religione, non a
dimostrare l’esistenza di un ente, che soddisfa solo pure esigenze
intellettuali della ragione stessa con la pretesa di ridurre ad esse quelle
religiose, magari dicendo che, in tal modo, queste ultime, dallo stato ingenuo
o d’immaginazione, vengono elevate a quello critico o di scientificità. Visto
così il problema, quanti dicono che Dio è il Divenire o la Natura, l’impulso
morale o l’Inconscio non parlano del Dio che gli uomini pregano, adorano,
amano. D'altra parte, se diamo a quello che chiamano Dio il senso vero che ha
la parola, con tutto il rispetto per pensatori insigni, scoppia il ridicolo a
pensare che si possa adorare, pregare, invocare, amare l’Idea che si
dialettizza, l’Umanità, il Progresso, l’Inconscio, la Storia, ecc.; scoppia
perchè si fa rappresentare a questi concetti una parte che non si addice loro,
e al tempo stesso si rifiuta la religione per accettare l’idolatria. Non è
stato forse ridicolo il Comte con la sua religione dell'Umanità »; chi si è
fatto sacerdote della religione della libertà »; quel tale adoratore della
Dea-Ragione che, al tempo della Rivoluzione dell’ 89 dichiarò di essere l’ennemi
personnel de Jesus Christ»? Ed è ridicolo oggi chi afferma che la verità è il
Partitoe basti realizzare una società socialmente ed economicamente perfetta
perchè si estingua nel cuore dello uomo l’esigenza religiosa nella
riconquistata coscienza che Dio è una sua creazione. Queste forme di ateismo
aperto o mascherato, sotto l'apparenza dotta, sono forse tra le più 76
Filosofia e Metafisica grossolane ed ingenue e dell’ateismo vero e proprio non
hanno il senso di angosciosa sofferenza e di disperazione sincera, che meritano
comprensione e rispetto (7). (9) Nota bibliografica: Bayle, Pensées diverses écrites è
un docteur de Sorbonne è l’occasion de la comète qui part au moins de décembre
1680, Rotterdam, 1721, voll. 4; VoLtarre, Dictionnaire philosophique, Paris,
Flammarion, s. a., p35-45; L. SrerHen, An Agnostic’s Apology, London, 1876;
Huxrey, Essays, London, 1898; F. Le Dantec, L’Athéisme, Paris, 1907; F.
MANTHNER, Der Atheismus und seine Geschichte in Abendlande, Stoccarda e
Berlino, 1922-23, voll. 4; G.
Richarp, L’athéisme dogmatique, Paris, 1923; R. Fuint, Antitheistic Theories,
Edimburgo, 1917, IX ediz.; A. B. DrocHmann, Atheism in Pagan Antiquity, London,
1922; G. Rensi, Apologia dell’ateismo, Roma, Formiggini, 1925; CaraseLLEsE, I/
problema teologico come filosofia, Roma, Bardi, 1931; Hazarp, La crisi della
coscienza europea, traduz. ital., Torino, Einaudi, 1946; J. SARTRE, L’Etre et
le Néant, Paris, 1943; H. DE Lusac, I/ dramma dell’umanesimo ateo, trad. ital.,
Brescia, Morcelliana, 1949; M. F. S., Il problema di Dio e della religione
nella filosofia attuale, Brescia, Morcelliana, 3* ediz., 1953; Interiorità
oggettiva, Milano, Marzorati, 2* ediz., 1961; Atto e essere, ivi, 3* ediz.,
1961; L. BrunscHvice, De /a vraie et de la fausse conversion, suivi de la
querelle de l’athéisme, Paris, Presses Univer. de France, 1951; J. MARITAIN, /l
significato dell’ateismo contemporaneo, Brescia, Morcelliana,, 1950; H. Dumfry,
De /’athéisme contemporain, Nouvelle Revue théologique », n. 4, 1949, p367-374;
E. Ripeau, Paganisme ou christianisme? Etude sur l’athéisme moderne, Paris-Tournai, 1953;
F. LomsarpIi, L. Fewerbach, Firenze, La Nuova Italia, 1935; H. Arvon, L.
Feuerbach ou la transformation du sacré, Paris, Presses Univ. de France, 1957;
F. N. OLESscHISscHUK, Atheismus, Berlino, 1955; J. Y. Carvez, La pensée de K.
Marx, Paris, Éditions du Seuil, 1956; L’athéisme contemporain, Genève, Éditions
Labor et Fides, 1956; M. Buser,. L'eclissi
di Dio, Milano, Edizioni di Comunità, 1961; E. Borne, Diew n'est pas mort. Essas sur l’athéisme
contemporain, Paris, Librairie Arthème Fayard, 1956. Inoltre: Athdism di vari
Autori; Hastincs, Encyclopaedia of Religion and Ethics, vol. I; Athéisme, Vocabulaire technique et critique de la
philosophie a cura di A. Latanpe, Paris, Alcan, 1938, 4* ediz., vol. I; Francx,
Dictionnaire des sciences philosophiques, Paris, 1875; Ateismo, Enciclopedia italiana », vol. II; Agnosticisme,
Athéisme, Panthéisme, Dictionnaire
apologétique de la foi catholique »,. Paris, Beauchesne, 1925, vol. I e vol. II. Assumiamo l’esistenza di Dio
come un'ipotesi, ma, anche a partire da questo minimum, due questioni
pregiudiziali simpongono: 4) che cosa s'intende per Dio; 5) se è razionalmente
fondata l’ipotesi . Quale la definizione nominale di Dio? Ogni parola, perchè
tale, esprime qualcosa, è usata con un senso; dunque, quando gli uomini pensano
pronunziano scrivono il termine Diogli danno un certo significato, anche se con
sfumature diverse e con un senso ammettiamo pure non sempre univoco. Tuttavia,
quale che sia il grado di equivocità Tale enunciazione rigidamente scientifica del
problema sconcerterà quanti, ricchi d’intensa vita religiosa e di robusta fede,
contestano che si possa persino parlare di problema dell’esistenza di Dio, tanto per loro
tale verità è fuori discussione. Osservo: 4) non tutti gli uomini si trovano in
questa condizione; 5) l’esistenza di Dio per noi non è, di primo acchito,
un’evidenza; c) la fede non è del tutto oggettivabile, vale per chi la
possiede, ma da sola non è un argomento per convincere chi ne è privo che Dio
esiste; pertanto, a chi non crede nella Sua esistenza è necessario, anche se
non sufficiente, provare che l'affermazione Dio esiste è una verità, cioè una proposizione
valida per ogni essere razionale. D'altra parte, come ho accennato sopra, la
fede ha un grado non trascurabile di oggettivabilità; infatti, chi ha fede in
Dio, una fede serie, un’interiore ed intensa vita religiosa, è portatore agito ed agente ad un tempo di questa verità; in tal senso, con il suo
pensiero e la sua azione, con la parola e
le opere, ne è la testimonianza ». La
potenza penetrante del suo esempio »,
che incarna una verità e la esprime, ha una indubbia forza indicativa e
comunica80 Filosofia e Metafisica nell’uso del termine, chi afferma o chi nega
che esiste Dio, come chi dice di non saperlo, in un certo modo, sa di che cosa
afferma, nega, ignora l’esistenza; d’altra parte, la formulazione di un'ipotesi
è possibile sulla base di alcuni dati reali che si cerca di spiegare, ma che
non lo sono ancora: appunto si pone l’ipotesi come possibile spiegazione; se
provata, si assume come verità oggettivamente valida. Quali sono i dati reali
che autorizzano l’essere razionale a porre l’ipotesi Dio »? L’uomo e il mondo, la realtà esistente,
in cui gli uomini vivono, pensano, operano. Se porto la riflessione sull’ente
esistente che sono, mi avverto inserito in un universo di altri enti materiali,
di organismi fisici; di altri enti che, come me, oltre alla vita organica, ne
hanno una morale, cioè la libertà di orientare con responsabilità la propria
condotta; dunque, sul piano fisico e su quello morale, mi avverto in relazione
con tutti gli enti dell’universo, da essi influenzato e su di essi influente.
Queste prime riflessioni mi pongono di fronte ad un groviglio di problemi
essenziali. So di non essere sempre esistito, almeno nel modo in cui esisto e
posso esistere nel mondo; di avere pertanto un principio al pari di ogni cosa
in esso esistente; dunque, tutte le cose che sono non sono sempre state, nè
saranno sempre: domani non sarò, tutti gli estiva, un potere indiscusso di
stimolare la riflessione, suscitare il problema, sbloccare il pensiero, mettere
in moto la volontà e attizzarne lo slancio, spingere la ragione a realizzare
tutta la sua forza normale, cioè a porsi all’ altezza di dimostrare. Non dà
convincimento razionale, ma genera una condizione psicologica, che è più di una
semplice situazione »: stimola a
chiamare a raccolta tutte le energie spirituali, affinchè costituiscano quella forza che dà forza alla ragione, o meglio la mette nella
condizione di sviluppare la sua forza totale. Pertanto, l'impostazione
scientifica data al problema non significa che esso sia puramente di tale
natura, ma soltanto che vogliamo concedere il massimo all’istanza critica;
anche lo stesso termine problema è da
noi inteso in un senso particolare. Per cvitare equivoci diciamo fin d’ora che
non c'è ragione al livello normale, totale o integrale, senza fede e non c'è
fede senza ragione; dunque, escludiamo il puro razionalismo, che è una ragione
ancora al di sotto delle sue capacità e della sua profondità, comc il puro
fideismo, in quanto senza la ragione non si salva la fede, che, come fede di un
essere razionale, non può essere dalla ragione disgiunta, nè la ragione negare.
L'esistenza di Dio 81 seri, che oggi sono, domani non saranno; ho, ciascuna
cosa ha, un principio; ho, ciascuna cosa ha, una fine. La contingenza e la
temporalità della mia esistenza e di ogni esistente in questo mondo è un fatto
di esperienza; inizio e limite nel tempo: entro e passo, ogni essere passa. E
allora, donde vengo? qual’è il principio del mio esistere? Passo; dove vado?
Finisce tutto là, preda di rapaci o in una fossa? o passosoltanto, transito,
per una destinazione che è la finalità suprema della mia esistenza? Sono
contingenza e limite e morte, miseria e dolore, ma la coscienza di esserlo mi
fa superiore a quanti esseri non lo sanno; tuttavia, anche se mi eleva, non fa
che sia esente da miseria e dolore. D'altra parte, proprio l’essere un ente
cosciente, pensante e volente, mi pone altri problemi: se sono coscienza, donde
la coscienza e il pensiero? Non la materia può essere principio di quel che
materia non è e di cui essa è priva, nè ha alcun fondamento l’ipotesi della sua
evoluzione, perchè non può mai spiegare il nascere dell’attività pensante e
riflessiva. Donde la sua presenza in me, e dunque nel mondo? Se penso, penso
pure qualcosa, oggetto del mio pensiero; dunque penso qualcosa che è vero, in
quanto pensiero non sarei se verità non fosse. Donde la verità? Son io,
contingente e finito, la fonte creatrice di essa, che era prima che entrassi
nel mondo e lo sarà anche quando ne sarò escito? Nella natura vi è un ordine
intrinseco cui ubbidisce l’evoluzione o il divenire naturale, ma che non riesco
mai a penetrare fino in fondo, a cogliere nella sua totalità; vi è come un
segreto nelle cose che mi meraviglia e stupisce. Nè la mia volontà è arbitrio
cieco: mi conduco nella vita secondo norme, a cui riconosco, anche quando ad
esse mi sottraggo, validità, forza obbligante. Donde queste norme? Della mia
condotta mi sento responsabile, anche quando sembra che l’ambiente mi domini
fino al punto da fare apparire la mia azione la risultante necessaria della sua
influenza 82 Filosofia e Metafisica determinante; responsabile appunto di non
avere saputo reagire ad esso, di non averlo trasformato. Donde la mia libertà ?
In breve, l’esistente contingente limitato finito è consapevole, in quanto
essere razionale, che vi è nel mondo naturale un ordine che lo governa e in lui
un ordine di pensiero o di verità e uno morale o di bene non contingenti e non
precari, indipendenti dall’inizio e dalla fine della sua esistenza; dunque, io
contingente e finito ed ogni cosa esisto in quanto partecipo dell’ essere »,
perchè sono in questa partecipazione,
altrimenti non sarei affatto. A_ questo punto: 4) ogni esistente contingente e
finito non è il principio di se stesso,
quantunque sia la causa di ogni atto
della sua vita; 5) non è principio di quanto è di non-contingente in lui
contingente, quantunque sia la causa di quanto pensi ed operi in conformità di
esso. Tali riflessioni sono sufficienti per formulare la seguente ipotesi:
esiste un Essere o un Principio intelligente altrimenti non potrebbe essere principio di me
persona », soggetto intelligente e
volente e di quante persone sono state, sono e saranno ; trascendente se no sarebbe natura ocosmo ; esistente da sè altrimenti sarebbe un ente contingente, 46
aglio , cioè ipsum esse subsistens, e perciò perfettissimo, Principio assoluto
di tutte le cose, dell’ordine del pensiero e della volontà come di quello della
natura, sorgente di ogni esistenza e Provvidenza governante quanto fa esistere?
È l'ipotesi Dio. Vi è dunque una reale condizione umana, e del mondo su cui
l’uomo riflette, che autorizza l’ipotesi dell’esistenza dell’Essere
intelligente, trascendente, esistente da sè e provvidente, a cui si dà il nome
di Dio; eliminabile solo nel caso che fosse possibile dimostrare la
non-contingenza di ogni singolo ente esistente e del mondo nella sua totalità,
dare una spiegazione completa ed esaustiva della realtà umana e fisica da
renderla superflua »; in altri termini,
solo se si L'esistenza di Dio 83 dimostra razionalmente che il nostro mondo
basta a se stesso, è autosufficiente, metafisicamente autonomo ed indipendente,
fondamento assoluto di sè a se stesso. Ma se così fosse il fatto che dei filosofi lo abbiano immaginato
non è una soluzione razionalmente valida l’ipotesi Dionon sarebbe mai nata. Si può anche sospendere 0 metterla da parte assieme ai
problemi che sempre la fanno e la faranno nascere, ma ciò comporta la rinunzia
alla suprema conoscenza metafisica, ad una soluzione adeguata dei problemi
radicali non solo della filosofia, ma anche della più ingenua coscienza umana e
direi del più elementare senso comune, dove pure quei problemi sono presenti.
Posizione, dunque, insufficientemente filosofica o prefilosofica o afilosofica,
quale è quella di un sapere puramente empirico ed anche scientifico nel senso
delle scienze naturali; positivismo, quali che siano le sue sfumature o
camuffamenti, anche quando si chiama filosofia dello spirito 0 storicismo », pretesa risoluzione o
dissoluzione della filosofia nelle scienze, del valorenei fattio nelle opere », del perchè nel come ». Ma la ricerca speculativa
comincia precisamente dall’insufficienza di fronte ai massimi problemi del
sapere scientifico e di quello storico, i quali, pertanto, sono ben lungi dal
poter risolvere in sè la filosofia, che li oltrepassa e nella quale, da ultimo,
trova fondamento la Risulta senza
fondamento l’ipotesi secondo la quale ogni singola cosa esistente è contingente
e temporanea, mentre il mondo in sè e nella sua totalità è necessario ed
eterno, non svente un principio e una fine: è sempre stato € sempre sarà così
com'è, pur divenendo nascono, crescono e
muoiono gli esseri particolari. Chi così
pensa resta sul piano naturalistico, e costruisce una metafisica puramente
naturalistica; fa della cosmologia e non si pone ancora il problema primo della filosofia prima ». Infatti, cerca e stabilisce
le cause del divenire », ma non si pone
la questione del suo principio e delle
sue stesse cause immanenti; oppure confonde la sufficienza del mondo ha in se stesso le cause che lo governano con la sua autosufficienza »: ha in sè il principio da
cui è. In tal caso, il mondo si assolutizza e l’ipotesi Dio diventa superflua; ma tale irreale assolutizzazione è un'estrapolazione
arbitraria del concetto di sufficienza del mondo, o una limitazione del
problema al naturalistico e scientifico come », che non è ancora il problema
metafisico e filosofico del perchè ». 84
Filosofia e Metafisica loro stessa validità conosativa. Per conseguenza, anche
la più embrionale posizione filosofica non può evitare l’ipotesi Dio », che pertanto risulta ineliminabile e
razionalmente possibile, conveniente e fondata, ancor prima che razionalmente
provata. Se l’ipotesi Dio non è
eliminabile, in quanto ogni ente e il mondo nella sua totalità non risultano
metafisicamente autosufficienti, consegue che ha origine dalla coscienza dei
nostri limiti e della nostra insufficienza. Non che nasca dalla mancanza », da ciò che non siamo », quasi dal nostro non-essere », in quanto ciò che non è non è e
non pone problemi; nasce da quel che siamo, dal nostro essere », cioè dalla nostra realtà relativa e
contingente, ma sempre realtà »; dalla
nostra condizione di esseri reali, sufficienti nei limiti del nostro essere
umano, ma non autosufficienti; dunque dal senso radicale (metafisico) di dipendenza
di una realtà noi e il mondo da un'altra Realtà possibile fino a quando siamo ancora
nell’ipotesi; in breve, dal fatto che abbiamo coscienza di essere e perciò di
partecipare dell’essere. Una filosofia
dell’esistenza », nella quale quest’ultima è una possibilità fuori dell’essere, è semplicemente
una filosofia del nulla e il nulla della filosofia. 2. Di quale Essere si vuole dimostrare
l'esistenza quando si pone l'ipotesi Dio
». Non di un essere qualunque », in
quanto i dati reali da cui sorge l’ipotesi esigono la dimostrazione
dell’esistenza di un essere adeguato alla soluzione dei problemi posti: (3)
Sospendere l’ipotesi Dio », come vedremo
a suo luogo, è proiettare ogni ente, e l’esistenza in generale, al di fuori
dell'essere, gettarli nella pura empiricità, privarli della loro onticità; è
fermarsi al mero fenomenico, alla esistenzialità priva di essere, che è il
nulla; ma l’esistenza, appunto perchè tale, implica l’essere, senza di cui non
è. Pertanto, il problema di Dio è interno, non esterno, all’ente pensante;
anche quando lo si pone come ipotesi, è già molto, di più. L'esistenza di Dio
85 a) origine del mondo e del suo ordine; è) dello spirito, essenza dell’uomo,
e dunque dell’ordine di verità e di bene che è in lui e lo rende capace di
conoscere e volere, di pensare il vero e di agire secondo una legge morale, di
libertà e responsabilità; c) finalità dell’universo, dell’azione di ogni
singolo essere spirituale e del significato dell’umana istoria. Meraviglia e
stupore l’ordine dell’universo, che non riesciamo interamente a comprendere nell’orizzonte della nostra mente;
stupore una mente che pensa, la complessità della più semplice sensazione, la
capacità di scoprire una verità, di agire liberamente secondo una legge;
meraviglia e stupore l’enigma che è ogni essere vivente, il mostro uomo, il filo d’erba. Dunque l’Essere
che poniamo come ipotesi, esplicativo di tutta la realtà, non possiamo pensarlo
se non incondizionatamente ed immensurabilmente superiore a quanto è chiamato a
spiegare, altrimenti apparterrebbe all’ordine umano e naturale, sarebbe una
realtà da spiegare come le altre e non spiegante tutte le altre; ma se ci oltrepassano
per la loro enigmaticità il mondo umano e quello naturale, che pur non bastano
a se stessi e dunque mancano di realtà piena, a maggior ragione ci oltrepassa
infinitamente l’Essere che per ipotesi poniamo come esplicativo di tutto e che
non può non essere di ordine diverso. Di un ordine appunto trascendente e
soprannaturale e perciò impossibile, per la nostra mente, nell’ordine naturale,
a penetrarsi nella sua essenza: ogni conoscenza di Dio è conoscenza per mezzo
di Dio; non la creatura Lo conosce, ma Egli si fa conoscere rivelandosi.
L’enigma del mondo naturale ed umano rimanda al Mistero Divino. D'altra parte,
la definizione nominale di Dio come Essere intelligente, trascendente, esistente
da sè e provvidente, infinito, onnisciente, ci fa acquistare una più netta
coscienza della finitezza nostra e di ogni cosa, dei nostri limiti e della
nostra insufficienza; in breve, della nostra dipendenza essenziale dall’Essere
per ora ipote86 Filosofia e Metafisica ticamente posto. Di fronte a Dio,
infatti, la creatura si sente niente »;
l’immensurabilità con l’Essere la spinge ad annichilirsi, senza che tuttavia
perda la consapevolezza inequivocabile che anch’essa è essere che vive, sente,
pensa e vuole nell’essere. Così l’ente finito, imbevuto dell’Essere, secondo
un'espressione di Giovanni di S. Tommaso, avverte centuplicate le sue forze ed
irresistibile il bisogno di espandersi nell'azione operosa e molteplice. Appare
evidente che il problema umano di una
possibile esistenza di Dio e la sua trascrizione in termini di problema filosofico nascente dalla riflessione
sulla condizione dell’uomo e del mondo, non discordano da quelli in cui si
esprime la coscienza religiosa quando
onora, prega, adora Dio. Vi è una convergenza di sensi, solo apparentemente
diversi, nell’unico dato alla parola Dio
», che univocamente esprime la posizione umana del problema, la riflessione
filosofica su di esso e l’esperienza o la vita religiosa. Pertanto la.
dimostrazione razionale, se possibile, dell’ipotesi Dio », deve tener conto della realtà
umano-naturale, dei suoi problemi reali, da cui l’ipotesi nasce, e
dell’esperienza religiosa di cui Dio è fondamento e oggetto assoluto; sarà
tale, cioè, che dimostri realmente quello che s'intende con la parola Dio. In
breve: la riflessione filosofica, chiamata a precisare le formule e a dare
possibilmente la giustificazione razionale dell’ipotesi dimostrandola verità
universalmente e necessariamente valida, deve rispondere a suzta la domanda da
cui l’ipotesi nasce, cioè alla condizione umana nella sua totalità e, per
conseguenza, anche alla coscienza religiosa, a cui appartiene in proprio il
termine Dio. Oltre a ciò, la forza normale della dimostrazione si misura
sull’uso del termine Dio in maniera rispondente a come esso è presentato dalla
condizione umano-naturale e religiosa; altrimenti, alla fine del discorso, pur
dicendo di avere o no provato la verità dell'ipotesi, si è in effetti provata o
non provata altra cosa. L'esistenza di Dio 87 La risposta filosofica, chiamata
ad adeguare la integralità della realtà da cui sorge l’ipotesi Dio », deve essere soluzione integrale della
filosofia integrale. L’ipotesi va posta in discussione, così come essa è,
affinchè la filosofia indaghi se sia possibile dimostrarla razionalmente così
come essa è, se razionale e ragionevole »; in caso affermativo, la realtà
ha la sua spiegazione integrale e la religione la garanzia del fondamento
razionale (“). L’ipotesi Dionasce da una
reale problematica umana; la ricerca razionale è impegnata a confermarla o a
smentirla, a dire se e fino a che punto l’esistenza dell’Essere intelligente e
trascendente, creatore e provvidente, sia verità razionalmente provata e perciò
oggettivamente valida, o una pura verità di fede, o un mero flatus vocis. 3. L'esistenza di Dio non ci è nota quoad nos ». Come abbiamo detto, l’ipotesi Dio » nasce dall’esistenza degli enti
contingenti e finiti, come tali non principio di se stessi; per conseguenza la
prova della verità, o non, dell'ipotesi non può avere altro punto di partenza
che il mondo :1mano e naturale. Ciò esclude che vi sia un’intuizione o
conoscenza immediata dell’essere di Dio, che, secondo la religione cristiana, è
di ordine soprannaturale e non possibile per sua natura ad un'intelligenza
finita quale quella umana, i cui oggetti devono essere ad essa proporzionati.
Dunque, la mente supposta la
dimostrazione della ipotesi non può
conoscere Dio direttamente e in ciò che lo costi(4) La definizione nominale del
termine Dio, necessaria per sapere di che cosa si vuol dimostrare l’esistenza e
se l'ipotesi sia razionalmente fondata, non pregiudica in alcun modo la
soluzione del problema. Si tratta di una semplice ipotesi di lavoro: la
risposta può essere totalmente o parzialmente negativa o positiva, come potrà
anche arricchire di nuovi elementi la definizione nominale o respingere alcuni
di quelli in essa contenuti. Per l'impostazione del problema dell’esistenza di
Dio e limitatamente ad essa abbiamo tenuto presente in qualche punto lo studio
di F. Van SreeNnsERGHEN, Le problème philosophique de l’existence de Dieu, Revue philosophique de Louvain », nn. 5, 6, 7,
8, 1947. 88 Filosofia e Metafisica tuisce (quidditative), ma solo
indirettamente per cognizione mediata ed analogica (°). Se l’esistenza di Dio
fosse per sè nota quoad nos (6) non vi sarebbe problema nè bisogno di dimostrazione
razionale, ma solo una verità evidente per se stessa. Invece vi è proprio
problema, anche se quanti hanno fede non sentono necessità di alcuna
dimostrazione tanta è la forza del loro credo, anche se il problema si
chiarisse, poi, come esplicitazione di un implicito originario e la dimostrazione
come consapevolezza di una presenza. Ma evidentemente, altro è l’esperienza
vissuta, altro la dimostrazione razionale, anche se quest’ultima non può e non
deve eliminare o abolire la prima, dalla quale pur restando (come deve)
distinta, può ricevere e riceve forza. Dunque necessità della dimostrazione,
dato che Dio non è per sè noto rispetto a noi; ma necessità anche di far
convergere ed operare in essa quanti elementi legittimi in noi e nelle cose
possano concorrere a renderla più efficace e completa. In altri termini, non
dobbiamo privarci di nulla di quanto è a nostra disposizione e il cui uso è
razionalmente consentito. 4. Da quale
dato reale è conveniente partire per provare la verità dell'ipotesi Dio ». È vero che di Dio non vi è intuizione
immediata e vi è problema della sua esistenza, e possibile dimostrazione il cui
punto di partenza sono le cose dell’ordine naturale, oggetto proporzionato alla
nostra mente; ma l’espressione realtà
naturale non comporta, anzi esclude, un significato restrittivo quale quello di
cose materiali od oggetti del mondo esterno. Tra gli enti dell’ordine naturale
vi è anche l’uomo, realtà spirituale, che è intelligenza e volontà, avente un
ordine di verità e di bene secondo cui ha l’obbligo di regolare il pensiero e
l’azione. La mente umana, nella sua condi(5) S. Tommaso, S. TA., Ia, q. 12, a.
4. (6) Ivi, Ia, 2, 1; Quaest. disput. de veritate, 10, 12 L'esistenza di Dio 89
zione finita e mutevole, conosce solo cose dell’ordine naturale, ma, da un
lato, ha una naturale aspirazione all’in-finito e all’immutabile che non
potrebbe avere se, in qualche modo, non avesse di esso una certa nozione, sia
pure oscurissima e confusa; dall’altro, per quanto è capace di verità
intellettuale e morale, manifesta qualcosa dî necessario ed immutabile, dato
che son questi gli attributi convenienti all’essenza della verità; che, se è,
non può essere contingente e mutevole. Conveniamo che la verità di cui l’uomo è
capace e la sua mente scopre non è la Verità in sè, bensì quella confacente
alla natura dell’uomo, ma essa: a) non è contingente e mutevole; 5) è
fecondatrice della mente; c) per la sua validità universale, nel suo grado è
assoluta. Lo spirito e il suo contenuto di verità, se vi è verità, sono dunque
dati reali diversi dagli altri; se sono superiori ad ogni altro dell’ordine
naturale, sono le massime condizioni reali che danno origine all’ipotesi Dio ». Infatti, se l’uomo desse a se stesso le
verità fondamentali secondo cui giudica e i princìpi morali secondo cui liberamente
agisce, non sarebbe più finito e contingente, nè la sua mente mutevole e
limitata; dunque, è contraddittorio che un essere siffatto sia autore di
principî necessari e universali quali appunto quelli del pensiero e dell’azione.
Se si dimostrasse che l’uomo (la mente umana in generale) è autore dell'ordine
della verità e della legislazione morale, sarebbe egli l’essere infinito,
necessario e assoluto; l'ipotesi Dio non
si affaccerebbe alla nostra mente, venute meno le condizioni che la fanno
nascere. Dunque l’uomo sa che: 4) non è il principio che fa esistere le cose
naturali e le governa secondo un ordine; 5) non è principio di se stesso, della
vita organica e spirituale, della sua intelligenza e volontà come dell’ordine
che le informa. Sa, in breve, che egli e le cose sono dati reali, e che quanto
di universale e necessario è capace di scoprire e conoscere è anch’esso un dato
90 Filosofia e Metafisica reale; son proprio questi dati che pongono il
problema del loro principio, cioè fanno nascere l’ipotesi Dio nel senso sopra definito. Dunque, se il
punto di partenza è dai dati reali, si può partire da uno quale che sia, ma ci
sembra opportuno: 4) muovere da quello più idoneo per la prova dell’ipotesi,
che, presentando maggiore ricchezza e complessità, accrescerà la forza della
dimostrazione; £) senza escludere gli altri possibili punti di partenza, in
modo che le eventuali prove si potenzino reciprocamente e conferiscano alla
dimostrazione tutta la sua forza normale. D'altra parte, se dei dati reali
scelgo come punto di partenza le cose materiali è evidente che, perchè nasca il
problema della loro contingenza ed origine e da esso l’ipotesi Dio », è necessario che rifletta su di esse,
mi ponga il problema della loro ragion d’essere e significato, cioè che
trascriva il mondo esterno in termini mentali o di pensiero; ma porselo come
problema è già trascriverlo in questi termini. Pertanto non sono le cose come
tali che pongono il problema della loro origine e spiegazione e con esso
l’ipotesi Dio », ma il mondo esterno
fatto oggetto di riflessione; anche in questo caso, la prova non può non
passare dal pensiero, come meglio sarà chiarito in seguito. Posto ciò, possiamo
anche accettare la nota tesi tomista che l’esistenza di Dio probari debet a
posteriori, ma a patto che ci si intenda sul significato dei termini. Se 4
posteriori significa che non vi è intuizione diretta ed immediata di Dio,
concordiamo perfettamente che la Sua esistenza va provata 4 posteriori e che di
Dio c’è solo conoscenza mediata e analogica. Se, invece, s'intende che bisogna
partire dalla natura fisica per scoprire la causa non causata del suo esistere
e che non vi è nessun dato nell’uomo, nella vita dello spirito e la stessa vita
dello spirito, da cui è possibile partire, anche prescindendo dal mondo
esterno, respingiamo tale significato dell’ posteriori, pericolosamente
restrittivo in quanto per il suo esclusivismo, già come punto L'esistenza di
Dio 9I di partenza, è insufficiente a dimostrare, nel caso che la ragione umana
lo possa, la verità dell’ipotesi, contenente una ricchezza di elementi da esso
inadeguabili. Non si tratta solo di dimostrare se il mondo abbia un Architetto,
una Causa prima, una Legge incondizionata, concetti inadeguati ad esprimere
quanto è incluso nella definizione nominale di Dio. Inadeguati anche i concetti
di Essere supremo e di Ente realissimo », che, pur entrando nella
definizione e nella rappresentazione di Dio al pari déi precedenti se bene
intesi, indicano solo un Ente che può essere l’ Atto puro e immutabile di
Aristotele, la Sostanza unica e infinita
di Spinoza, il Legislatore dell’universo
degli Illuministi ecc.; termini tutti inadeguati ad esprimere il contenuto -di
quel che s'intende quando si dice Dio »,
la cui esistenza qui si cerca dimostrare. Nessuno di questi concetti Lo indica
come l’Essere personale creatore e provvidente, cioè contiene quegli attributi
che la coscienza religiosa od anche la semplice condizione umana gli
attribuiscono. Ora, come sopra abbiamo chiarito, l’ipotesi Dio nasce proprio dalla condizione umana, che
Dio definisce in termini non dissimili da quelli della coscienza religiosa, ed
è proposta alla ragione speculativa in tw4ta la ricchezza del suo contenuto.
Pertanto la dimostrazione richiesta è di un Dio che soddisfi tutta la
problematica della realtà umana della
vita spirituale e la stessa vita spirituale, come la sua esperienza religiosa oltre a quella della realtà fisica. Non si può
monopolizzare il problema dell’esistenza di Dio; è necessario che la
dimostrazione sia tentata con la presenza operante di tutti gli elementi e di
tutti gli strumenti possibili, affinchè abbia tutta la sua forza e, nello
stesso tempo, soddisfi tutti i problemi e i dati reali che l’hanno sollecitata.
Si tratta di un problema che interessa il fondamento assoluto della realtà:
come totale è la sua portata, così totale devono essere l’impegno e la
possibile soluzione. Sarà razionale e dunque lo92 Filosofia e Metafisica gica;
ma la logica che esige, affinchè tutto il reale vi sia presente e tutti i sensi
del problema vi si trovino concorrenti e solidali nella loro concretezza, è la
logica dell’ integrazione », di cui quella dell’ esclusione è solo un momento
nella prima contenuto. Pertanto a noi sembra che non siano da trascurare tutti
quei dati psicologici che, senza essere la prova, ne sono i preliminari: le disposizioni dello spirito nel loro insieme
fanno parte dei prolegomeni di una
dimostrazione concreta dell’ipotesi Dio». Evidentemente non si tratta di metterle al posto dell’argomentazione
razionale, ma di giovarsi delle migliori o più favorevoli condizioni perchè la
stessa forza della ragione possa esplicare tutta la sua capacità. Per esempio,
liberarsi da alcuni pregiudizi e il pregiudizio
è di natura psicologica è una specie di
purificazione che agevola l’intrapresa della ragione; riconoscere che alcuni
impedimenti sono apparenti o illogici quali la pretesa che di Dio si abbia
percezione immediata in modo da coglierne l’essenza senz'ombra di oscurità e
mistero, o che la metafisica possa sottostare al metodo sperimentale, ecc. è già un buon avvio. Così pure acquistar
coscienza dell’estrema importanza del problema, rendersi conto che dalla
risposta positiva o negativa dipendono l’orientamento, il valore e il
significato della nostra come di ogni altra esistenza, è una disposizione non
accessoria, in quanto rende cautissimi nell’argomentare e concludere,
estremamente vigili e tesi sì da potenziare al massimo del loro rendimento
tutte le risorse spirituali ed intellettuali: l’attenzione si fa attentissima,
intensa, concentrata. Queste disposizioni hanno un valore più che psicologico:
comportano la rettitudine della coscienza. Nè è da trascurare anche se non deve soL'esistenza di Dio 93
stituire la dimostrazione l’esperienza
religiosa sia comune che privilegiata, quella delle grandi umili anime mistiche
e dei grandi spiriti religiosi, esempio dell’alta tensione operante esigita da
una questione della portata di quella che qui si discute. Son tutte forze
concorrenti, anche se non determinanti in sede filosofica, alla realizzazione
di quel clima spirituale », intellettuale e morale insieme, confacente ad un
problema quale è quello dell’esistenza di Dio. In breve, crediamo che, per
scoprire e penetrare tutta la verità della prova e poterle aderire, sia
necessario conquistare la pienezza del nostro essere e ad essa affidarci. Ciò
non significa che l’adesione alla prova dipenda senz’altro dalla nostra
accettazione volontaria o dal rifiuto, come se essa fosse priva di verità attraente », ma che tale condizione è elemento
essenziale per cogliere tutta la sua forza razionale. Chi più ama, più conosce;
non che l’amore faccia essere la verità di ciò che è vero, ma dà maggior
penetrazione alla mente e contribuisce a farle scoprire ed intendere la verità.
Sempre dal punto di vista dei dati psicologici, l’odierno clima esistenzialista
», quando non è deteriore retorica o decadentismo e maniera, come presa di
coscienza della condizione umana, senso
dell’indigenza, del peccato, della morte ecc. ha la sua importanza in sede di
preparazione alla prova (7), anche se da solo insufficientissimo, in quanto
l’aspetto essenziale di tale preparazione è proprio il senso della positività
del nostro essere, senza della quale la (7) L'esistenzialismo, infatti, ha
riportato sul tappeto della discussione, anche se spesso con travisamenti
notevoli, la metafisica e i suoi problemi e ha contribuito a richiamare
l’attenzione sull'esperienza e i valori religiosi. In qualche modo, anche se
entro certi limiti e in maniera molto discutibile, ha come smondanizzato », esso mondano, Ja filosofia
riconferendole un certo carattere teologico. Ciò spiega, perchè i cosidetti
sostenitori del nuovo razionalismo marxista
e di tanti nuovi umanesimi assoluti combattono
anche le forme atee di esistenzialismo, preoccupati che questo stato d’animo », per sua natura, alimenti
sotto le ceneri del finito un’esigenza
religiosa e trascendentistica. Spiega ancora perchè qualche inguaribile cultore
di scienze mondane abbia sprezzantemente
qualificato la filosofia di un pensatore di rilievo una specie di praefatio ad missam ». 94 Filosofia e
Metafisica condizione umana sarebbe pura possibilità, illusione, niente: non vi
sarebbe problema dell’uomo e della sua indigenza, nè di Dio (*). Ma anche nella
sua pienezza, la preparazione psicologica non è la soluzione del problema, non
data esclusivamente da un'esperienza di tal natura nè solo da quella religiosa,
come sostiene il Bergson; è come dire che non vi è prova razionale
oggettivamente valida dell’esistenza di Dio. D'altra parte, come ancora dice il
Bergson, con un significato che non è precisamente il nostro, la soluzione va
posta ed affrontata sperimentalmente »,
cioè tenendo conto di tutti i fazt1, anche di quelli di natura psicologica, in
quanto la vita stessa dello spirito è un fatto, la più alta realtà data alla
nostra esperienza. Perciò come metodi e dati psicologici non debbono escludere
od ostacolare metodi e dati razionali, allo stesso modo questi ultimi non
debbono fare a meno dei primi, quasi il problema dell’esistenza di Dio fosse
una questione di ragione astratta, di pura logica formale, di geometrica
razionalità e fosse possibile operare un’astrazione dell’uomo concreto, quando,
come abbiamo visto, dalla sua vita integrale nasce l’ipotesi Dio ». Non comprendiamo perchè nessuno
pretende di liberare il poeta,
l’artista, lo scienziato da quelle condizioni preliminari che favoriscono la
risposta al bello o al vero e perchè invece si vuol pretendere (8) L'esistenza
come pura possibilità non è, è la non
esistenza, cioè un non-senso. Non c’è dramma nè tragedia nè angoscia, in quanto
fin dall’inizio ci si colloca nel nulla; si ha la certezza che la partita è
perduta in partenza, dunque il giuoco è fatto. Ecco perchè l’esistenzialista
s’inebria del nulla e dell’assurdo dell’esistenza: non c’è più rischio, la
catastrofe è scontata in anticipo; la tragedia, nel suo stesso porsi, si
tramuta in farsa. Lo stesso si può dire del dialettismo dello Hegel;
l’antinomismo dialettico, identificato con l’essenza stessa del reale e del
pensiero, divora l'essere dall'interno e
divorandolo lo alimenta. Per conseguenza la tragedia del Reale, che è quella
della Ragione, s’identifica col modo con cui la Ragione tesse il suo idillio
eterno. Tutto il senso tragico dell’antinomismo svanisce una volta che il male
e l'errore, le cadute e le colpe sono necessarie alla vita della Ragione
assoluta e al suo perenne conquistarsi: tutto è perfettamente ordinato,
pacifico. Una volta che il nulla e la contraddizione si assumono al posto
dell’essere, si accetta la negatività pura: non c’è più problema nè
dell’esistenza nè del reale e perciò non c’è problema di Dio: c’'è_ l'assurdo
all'inizio e alla fine. L'esistenza di Dio 95 che il filosofo, il quale si
accinge a provare, con le armi della ragione la più rigorosa ed intransigente,
l’ipotesi Dio nascente dalla totalità
del reale che da questa soluzione aspetta intelligibilità profonda, abbia a
prescindere da tutti quei dati psicologici che fanno parte della concreta vita
spirituale, la più impegnata nell’esito della ricerca. Infatti, la questione
che si pone col problema dell’esistenza di Dio, è di sapere se i dati reali
della nostra esperienza siano o no metafisicamente intelligibili, in quanto
tale intelligibilità dipende appunto dall’esistenza, o non, dell'Essere
personale e trascendente, creatore e provvidente, principio esplicativo di ogni
fatto 4/ di là di tutta la serie dei fatti. 6. La pregiudiziale critica da cui muove il
problema dell’esistenza di Dio. Notiamo a questo punto che il problema
dell’esistenza di Dio e della metafisica in generale muove da una pregiudiziale
critica, non da quella, propria di Kant, di saggiare, prima di affrontare il
problema, le capacità della ragione farla giudice di se stessa: imputata e giudice
insieme per accertare se abbia o no il
diritto di oltrepassare l’esperienza, bensì dall’altra che l’esperienza stessa
e quanto in essa è dato, approfonditi criticamente, restano metafisicamente
inintelligibili, se quel problema non si pone e non si risolve. Per conseguenza
il problema dell’esistenza di Dio s'inserisce alla radice stessa del problema
critico. Ma ciò non deve indurci, senza sufficienti prove razionali, ad
ammettere ugualmente che Dio esiste (conclusione edificante », ma non filosofica) per il timore
che altrimenti tutto sarebbe inintelligibile. D'altra parte, proprio
l’esperienza della nostra finitezza e di ogni cosa esistente, tutta
l’esperienza non bastante a sè stessa e perciò incapace di autospiegarsi, pone
il problema della sua intelligibilità e con esso fa nascere l’ipotesi Dio come possibile soluzione: il finito come
tale esige il che % Filosofia e Metafisica cosa lo spieghi e giustifichi. Che
non può essere pure un finito, in quanto ancora problema e non soluzione;
dunque, se è, dev'essere qualcosa che
esiste da sè », che, principio di se stesso, può rendere conto definitivo ed
ultimo di quante cose esistono non da sè
». Non è neppure un qualcosa ma un Chi, Ego, in quanto non una Cosa può essere
il Principio delle cose tutte, ma il Soggetto assoluto, l’Intelligenza suprema.
È precisamente l’ipotesi dell’esistenza di Dio. 7. La realtà spirituale punto di partenza della
dimostrazione dell'ipotesi Dio”. Prima di procedere fissiamo qualche
conclusione utile a precisare i termini della questione: 4) il problema
dell’esistenza di Dio è posto da dati reali, dalla condizione di reale finito
del mondo umano e naturale; 5) questo, come finito, non può avere in se stesso
il suo principio e pone il problema della sua origine e della sua suprema
intelligibilità; c) per conseguenza, la dimostrazione della verità o no della
ipotesi Dio », non può non partire dalla
realtà finita che la fa nascere e la presenta alla riflessione: dall’esistenza
di esseri limitati, dal fatto che degli enti sono, senza essere il principio di
se stessi. Mettiamo da parte inizialmente, salvo a saggiarne in seguito la
validità e a recuperare il recuperabile, la prova che muovendo dall’Idea di
Dio, 4 priori, attraverso l’analisi del contenuto dell’Idea stessa, ne deduce
l’esistenza. Accettato come punto di partenza il reale contingente finito, ci
sembra quanto mai conveniente ed anche necessario muovere da quell’ente che
presenta una maggiore complessità e ricchezza di contenuto e ne è il grado più
alto, tanto da non essere una parte tra le altre dell’universo, ma come il
centro e la sintesi; e più ancora, in quanto il compimento della vita
spirituale di un solo uomo trascende l’universo intero. L’uomo non è soltanto
un reale finito, ma è il solo L'esistenza di Dio 97 dotato di pensiero, capace
di volere e conoscere razionalmente, di riflettere. Solo egli, infatti, tra gli
enti finiti di cui abbiamo esperienza, si pone il problema dell’intelligibilità
metafisica della sua esistenza e con esso l’ipotesi Dio ». D'altra parte, anche se scegliamo come
punto di partenza quel reale finito che è il mondo detto materiale, o un suo
particolare aspetto, siamo sempre costretti, come già accennato, a porlo come
oggetto di pensiero, cioè a considerarlo per quanto ha di intelligibile: perciò
l’oggetto del nostro pensiero non è il mondo materiale come tale, ma i suoi
elementi concettuali. Il punto di partenza, anche in questo caso, è sempre
l’uomo soggetto pensante e capace di conoscenza razionale, cioè sono i dati mentali
che non sono le cose materiali, ma il risultato della riflessione su di esse.
D'altra parte, l’uomo non potrebbe pensare se non fosse e non vivesse, se non
fosse un essere vivente, ma l’essere e il vivere non implicano necessariamente
il pensare. Infatti, si può essere senza vivere e pensare (una pietra), ma non
si può vivere senza essere (il vivere importa necessariamente l’essere); però
si può vivere senza pensare (una pianta, un cane), mentre non si può pensare
senza essere e vivere, almeno nella condizione terrena degli esseri pensanti:
dunque il pensare implica l’essere e il vivere (*). Di qui: 4) il pensare è
superiore all’essere e al vivere: non si può pensare senza essere e vivere, ma
il pensare non è attributo essenziale di ogni essere e di ogni vivente, bensì
di una specie di esseri viventi e dunque è è più del puro essere e del puro
vivere in quanto coscienza di essere e di vivere e, posto, implica gli altri
due; 5) il soggetto pensante, che come tale implica nell’ordine naturale
l’essere e il vivere, è quel dato reale che, nella sua interezza di organismo e
pensiero, di materia e spirito, è ciò che sono le altre cose non pensanti,
essere e vita, più quello che non sono, pensiero. Dunque, nella sua interezza,
pos(9) S. Agostino, De libero arbitrio, L. Il, c. 3, n. 7. 98 Filosofia e
Metafisica siede, in questo senso, tutti gli elementi essenziali della realtà
finita. Dovendo partire per la dimostrazione dell’ipotesi Dio dai reali finiti,
mi pare estremamente conveniente scegliere come punto di partenza quello che è
(come sono tutti gli esseri), vive (come quanti di essi sono organismi) e pensa
(come solo a lui è concesso); che dunque assomma in sè tutte le categorie
essenziali del reale. Ma è solo conveniente, o anche necessario? Abbiamo detto
che, tra tutti gli enti finiti, l’ipotesi Dionasce nell’uomo, sia dalla
riflessione sul mondo fisico come indica la semplice domanda: chi ha mai fatto
tutte queste cose? », sia da quella su se stesso. E’ su quest’ultima che
dobbiamo portare la nostra attenzione al fine di ricavarne quanti elementi
preliminari ci è consentito dal rigore della ricerca e dall'obbligo di non
pregiudicare la dimostrazione. Come abbiamo già detto, l’uomo ha coscienza
della sua finitezza e contingenza, che è però anche e innanzi tutto consapevolezza
di essere, della miseria del dolore e della morte, di quanto lo fa consapevole
che non basta a se stesso, 20 è da sè. La consapevolezza di tale condizione è
propria dell’uomo: è dell’infelice e solitario pastore errante dell’Asia non
del gregge pago del suo stato perchè inconsapevole. Dunque, l’ipotesi Dio è posta e la sua dimostrazione richiesta
dall’uomo per l’uomo, quasi appello della sua condizione affinchè tenti di
capire veramente qualcosa di essenziale e definitivo della propria esistenza e
del suo significato. In altri termini, l'ipotesi Dio non nasce dal dato contingente come tale,
pura empiricità, ma dalla coscienza o dalla consapevolezza della sua
contingenza, cioè da un elemento spirituale; non dal puro fatto a cui si ferma la mentalità positivista, che
perciò fa a meno di Dio e, neppure sfiora il problema dell’intelligibilità
metafisica del reale ma dalla coscienza
del fatto, che importa già una valutazione di esso e un passaggio dal piano
empirico a quello ontico o dell’essere. L'esistenza di Dio 99 del dato stesso.
Questo, il dato da cui nasce l’ipotesi Dio e da cui bisogna partire. Abbiamo anche
accennato all’aspetto religioso del problema: alla essenzialità di Dio per
l’esperienza religiosa, all’importanza che essa ha per una possibile
dimostrazione razionale (!9). Non si dimentichi che il problema filosofico
dell’esistenza di Dio si pone quale indagine razionale intorno al termine così
come è definito sulla base della condizione umana e creduto dalla fede
religiosa; alla ragione si chiede di dimostrare la verità di quel che si crede
affinchè l’uomo sappia che è vero quello
che crede ». Chi rinunzia a partire dall’uomo, si priva in partenza
dell’esperienza umana e religiosa, a cui il problema appartiene e che lo
presenta all’esame della ragione, lo depaupera, quasi lo appiattisce. Dal filo
d’erba non ci sembra si possa arrivare al Dio dell’esperienza umana in tutta la
sua pienezza e della coscienza religiosa; d’altra parte, niente autorizza od
obbliga la ricerca a prescindere dall’uomo, che quel problema vede nascere dalla
sua condizione. Ammettiamo che ogni ente di natura abbia una finalità, cioè che
la sua vita si esplichi attraverso mezzi necessari disposti e combinati in modo
da raggiungere il fine che le è proprio e precede e domina la disposizione e la
combinazione dei mezzi stessi (!!). E’ evidente che esso: 2) non ha la conoscenza
del fine; 3) non si da sè la capacità di disporre e combinare i mezzi per il
suo raggiungimento; dunque, conclude, la finalità naturale presuppone
un’Intelligenza che non è nelle stesse energie vitali ma ad esse s'impone. Ciò
im(10) Giustamente è stato notato (H. De Lusac, De /a connaissance de Dieu,
Éditions du Temoignage chretien, 1941, 54) che la nostra epoca ha perduto,
almeno temporaneamente, il gusto di Dio
»; se questo gusto tornasse, le prove riapparirebbero plus claires que le jour ». (11) Com'è noto,
la biologia ammette con fondatezza una finalità degli organismi viventi, una
specie di loro pensiero embrionale o di
orientamento delle forme della loro attività vitale verso una unità di
realizzazione quasi che tale attività sia dotata di una specie di potere sintetico ». 100 Filosofia e
Metafisicaporta: ) dell’intelligenza che il mondo fisico presuppone c'è
conoscenza mediata, mentre l’uomo ha esperienza immediata di essa in quanto ne
è dotato, egli stesso fatto sperimentale
della presenza dell’intelligenza; 4) le cose non hanno consapevolezza del fine
a cui sono ordinate, nè sanno che il loro ordine presuppone un'intelligenza,
mentre l’uomo ha consapevolezza del suo fine, esperimenta direttamente in sè
l’intelligenza, sa che non si è autoposto come essere intelligente; dunque sa
che il suo essere ente intelligente pone il problema della sua origine come
tale. In breve, il problema del rimando dalla finalità delle cose
all’Intelligenza da cui sono state ordinate non nasce direttamente e direi
spontaneamente come quello del rimando dall’uomo-ente intelligente all’Intelligenza
da cui è intelligente; l’esperienza immediata che l’uomo ha di se stesso come
ente intelligente fa che sia più diretta efficace sicura la via dall'uomo a
Dio, mentre l’altra dalle cose (in questo caso dalla loro finalità) è indiretta
e si considera in un secondo tempo. Senza dire che la vita dell’ente intelligente
comporta tale ricchezza di esperienza e di valori co‘ noscitivi, morali,
estetici, religiosi da far sembrare ben povera cosa la finalità inconsapevole
del mondo fisico. Un'altra considerazione ci sembra decisiva per accettare il
reale-uomo come punto di partenza della dimostrazione dell’esistenza di Dio. Più
di ogni altra cosa e della sua stessa esistenza all’uomo interessa sapere che
cosa sia vero di quanto conosce e bene di quanto vuole, cioè se è capace di
conoscere la verità a cui è obbligato ad uniformare la propria condotta.
D'altra parte, se l’uomo non fosse capace di giudizi veri, non potrebbe niente
dimostrare e non penserebbe neppure; se ragiona, discorre, dimostra lo fa in
base a norme che considera vere, cioè oggettivamente valide e tali da garantire
la veridicità dei suoi giudizi e delle sue dimostrazioni. Per conseguenza,
quando, stimolato dalla sua condizione, considera l’ipotesi Dio e ne tenta la dimostrazione, si consiL'esistenza
di Dio 101 dera già in possesso di alcune verità che rendono validi i suoi
giudizi. Ma qui sorge un problema, quello del fondamento metafisico della
conoscenza: le verità fondamentali e primali, senza cui non vi sarebbe discorso
e dimostrazione, sono il prodotto della mente, poste da essa, o sono alla mente
presenti e da essa soltanto scoperte »? Nel primo caso la loro validità si
presenta notevolmente sospetta, in quanto il prodotto della mente mutevole,
capace di errore, di un essere finito e contingente non dà alcuna garanzia di
universalità, immutabilità e necessità, cioè di possedere gli attributi
essenziali alla verità. D'altra parte, la nostra stessa contingenza e finitezza
ci lascia perplessi nè ci convince di essere noi i creatori della verità; se non altro lascia in
dubbio e induce a pensare che se mai siamo portatori attivi di essa, che in questo caso è
oggetto della nostra mente e, come tale, da essa conosciuta ma non creata. Ma
se è così, la presenza oggettiva della verità alla mente, da essa conosciuta o
scoperta, pone il problema della sua origine e del come ne siamo in possesso,
cioè del da dove sia entrata in noi. Problema che l’uomo non può lasciare
sospeso o trascurare, in quanto si tratta di sapere qual’è la provenienza di
quell’ordine di verità intellettuali e morali in base a cui pensa ed agisce,
attua la sua vita spirituale; è il problema della intelligibilità profonda del
reale non solo umano ma anche naturale, in quanto le cose sono intelligibili
per il loro ordine, da cui, come sappiamo, nasce, quale eventuale soluzione,
l’ipotesi Dio ». Ammettiamo pure
provvisoriamente che sia conveniente e necessario partire dalle cose del mondo
esterno invece che dalla realtà-uomo, disposti anche a sacrificare l'apporto
della vita spirituale mobilitata in tutta la sua pienezza. Evidentemente la
dimostrazione o la catena dei ragionamenti si serve di norme o principî che
considera veri, cioè oggettivamente validi (per esempio, il principio di
causalità), tali da 102 Filosofia e Metafisica garantire la veridicità del
discorso. Ma il servirsi di essi imrta già avere risolto il problema, da noi
posto sopra, dell'origine della verità di cui la mente umana è capace, se suo
prodotto o suo oggetto e, in quest’ultimo caso, del come ne sia in possesso.
Dunque il punto di partenza dalle cose materiali presuppone quello da noi
scelto, dall’ente razionale, il solo capace di un ordine di verità, ed in esso
resta incluso. Se si dice che nell’uomo non vi è nulla di necessario e immutabile,
in tal caso: @) si nega che egli possieda verità e con ciò stesso che possa
provare l’ipotesi Dio »; 5) non si
spiega come avverta la sua contingenza e finitezza nè quella delle altre cose,
avvertibili solo se ha una certa nozione di ciò che è necessario e infinito,
cioè se sa cosa significhi la parola verità ». Ma il solo sapere che è verità è già
una verità e, come tale, qualcosa di immutabile e necessario, che appunto
consente all'uomo di conoscere che lui e tutte le cose finite sono contingenti
e mutevoli. Ed ecco che questa condizione di un contingente in cui è in certo
modo presente un che di immutabile, infinito e necessario pone il problema
della propria intelligibilità e con esso l’ipotesi Dio ». Da qualunque punto di vista si
consideri la questione, il problema dell’esistenza di Dio si presenta come
essenzialmente antropologico e solo subordinatamente cosmologico. Non problema
posto da qualcosa di astrattamente concettuale nè dalle cose materiali, ma che
interessa la realtà umana integrale, considerata nella sintesi dinamica e nella
compresenzialità di tutti gli elementi che la costituiscono, desiderosa
d’intelligibilità totale e perciò nello stazo reale di aspirazione al possesso
della suprema verità metafisica, fondamento e principio dell’intelligibilità
della vita spirituale. L'ipotesi Dio è
suscitata dal bisogno di una conoscenza radicale del reale finito, dall’urgenza
di sapere se gli esseri contingenti abbiano o no un senso assoluto. Si tratta
di un'esigenza, e dalla sola esigenza non si può. L'esistenza di Dio 103
concludere all’affermazione; tuttavia, non si può negare che essa, non
dimostrativa per se stessa, è almeno indicativa. Nel nostro caso, indica una
condizione reale della vita dello spirito e precisamente quella di conoscere la
verità della sua verità di se stesso e della realtà finita in generale. In
questo la verità che vuol conoscere, anche la più elementare e povera, ha
sempre come scopo ultimo, anche senza esplicita consapevolezza, di acquistare
una maggiore conoscenza della verità di se stesso e della realtà finita in
generale. In questo senso, sia pure oscuramente, anche inconsapevolmente, cercare
è cercare il senso assoluto dell’esistenza, la sua intelligibilità metafisica;
ma è questo il problema donde nasce l’ipotesi Dio »; dunque cercare è sempre porsi, anche
indirettamente, il problema dell’esistenza di Dio, dell'Essere personale e
trascendente. Vi è nello spirito, per il fatto che si avverte finito, un senso
immanente dell’Essere che l’oltrepassa (!); c'è una nozione oscura, implicito
originario, di quella che poi l'indagine speculativa chiarisce e precisa come
Idea di Dio. Il problema dell’uomo, quello detto psicologico-antropologico, è
intimamente legato al problema dell’esistenza di Dio; porsi l’uno è porsi anche
l’altro. Le realtà psicologiche pongono l’ipotesi Dio (psicologismo che non è affatto
soggettivismo) la cui dimostrazione investe il loro significato totale ‘e
assoluto, la loro intelligibilità (teocentrismo). Reali, dunque, i dati da
spiegare, realista il metodo della ricerca; la finitezza dell’ente contingente
e aspirante a sapersi fino in fondo è un fatto, come è un fatto la sua aspirazione
all’Assoluto. D'altra parte, non vi sarebbe quest’ultima se nello spirito
finito non fosse presente una certa nozione dell’assoluto infinito, oscura e
confusa quanto si voglia. (12) Non si fraintenda: non immanenza della
trascendenza nell’ente finito come quella che è posta dallo stesso ente finito, per cui la
trascendenza si risolve nell’immanenza dell'atto che la pone o in una
condizione dell’esistente pseudo-trascendenza di alcune forme di
idealismo immanentista e di esistenzialismo ma presenza della trascendenza all’ente finito
come presenza dell’Essere che l’uomo non pone e dal quale è posto e
oltrepassato. 104 Filosofia e Metafisica Il dato uomo è costituito da un
insieme di dati, di cui deve tener conto, proprio per rigore e scientificità
d’indagine, qualunque tentativo di dimostrazione dell’ipotesi Dioper saggiarne l’importanza, la portata e
quel che significa o indica la loro presenza. Cogito, ergo sum; ma nè il
cogitare, nè il mio esse si spiegano da se stessi non essendo assoluti ed
infiniti. La celebre formula cartesiana, che qui non discutiamo, non dà dunque
la soluzione del problema di me ente finito, bensì indica solo la mia
condizione di essere pensante. Ma proprio questa condizione pone il problema di
se stessa o se stessa come problema; pensiero ed essere sì, ma finiti; dunque
il mio essere come il mio pensiero sono dati; ma donde sono essere e pensiero o
n essere che pensa? È evidente che il cogito, ergo sum suscita il problema del
da chi sono stato pensato e sono pensato per esistere come essere finito
pensante. Fino a quando non l’avrò risolto non possiederò l’intelligibilità
piena del mio essere e ignorerò le radici del mio pensare e conoscere. Qual’è
il principio che fa essere me cogitante? Pongo l’ipotesi Dio ». Nel caso che riescirò a provarla,
concluderò che l’Essere personale e trascendente mi ha fatto e mi fa essere un
ente pensante; pertanto, non dirò più Cogito, ergo sum, ma in maniera completa
e più vera: Cogitatus sum et cogitor, ergo sum ens cogitans. Questa formula non
esprime più soltanto, come quella di Cartesio, il dato di fatto della mia realtà,
la coscienza che ho del mio esistere, ma anche e, in primo'luogo, la
intelligibilità radicale e profonda di me. Per la soluzione del problema
metafisico che comporta, essa fa che io contingente e finito mi avverta ormai
bastevole a me stesso nella conoscenza della radice metafisica del mio essere,
del mio vivere e del mio pensare, nella spiegazione e giustificazione del senso
assoluto della mia esistenza e della mia vita, del mio conoscere e volere. Non
è forse superfluo avvertire, ad evitare interpretazioL'esistenza di Dio 105 ni
errate, che qui non si sostiene affatto la tesi di un universo: in sè assurdo,
il quale acquista senso intelligibile solo se si ammette l’esistenza di Dio.
Infatti l'affermazione, l’universo è in
sè assurdo », non comporta neppure la formulazione dell’ipotesi, che non ha
senso quando si è già concluso che l’universo è assurdo; anzi si può pensare
assurdo solo perchè in partenza è escluso che Dio esiste. Quell’affermazione è
conclusiva; perciò non ha senso dire che solo ammettendo. l’esistenza di Dio
l’universo acquista un senso. Pertanto, per il fatto stesso che l’ente pensante
si pone il problema dell’esistenza di Dio, almeno non si può escludere a priori
che l’universo abbia un senso; ma, se è così, risulta senza senso la tesi di un
fideismo aberrante: l’universo in sè è assurdo, ma ciononostante ammetto
l’esistenza di Dio e dunque tutto mi diventa comprensibile. Tutto, tranne che
esista Dio, se l’universo è assurdo. Non
è Dio che non accetto, comprendi », dice l’ateo Ivan nei Karamézov, ma il mondo da lui creato; è il mondo di Dio
che non accetto e non posso risolvermi ad accettare ». Già, perchè assurdo o
tutto negativo; dunque non può accettare neppure Dio. Qui si annida anche un
sofisma: se tutto nell’universo è assurdo, è anche assurda l’affermazione che
tutto è assurdo, ma chi conclude che tutto nell’universo è assurdo, ritiene
vera, non assurda, questa conclusione: dunque non tutto è assurdo in quanto
ammettere che una cosa è vera è ammettere un pensiero capace di verità. Qui
appunto nasce il problema: perchè nel mondo c’è il pensiero? perchè ci sono io
che penso? donde sono? Ciò pone l’ipotesi Dio e fa che sia ragionevole », conveniente senza limitazioni
alla ragione, e sia assurdo il non porla
o rigettarla senza previa discussione impegnatissima. Da ciò consegue che il
senso assoluto del reale che cerchiamo scoprire non può essere immanente alla
stessa realtà finita. Se così fosse, non penserei all’ipotesi Dio in quanto. l'oggetto della mia ricerca
continuerebbe ad essere la realtà 106 Filosofia e Metafisica mondana; dunque,
il solo porre l’ipotesi già orienta in altra direzione, in quella
dell’esistenza dell'Essere trascendente.
Per conseguenza la posizione razionale del problema sembra essere la seguente:
4) esiste la realtà finita e contingente; 5) come tale, mi suggerisce l'ipotesi
dell’esistenza dell'Essere da sè esistente e di essa principio; c) dunque,
l’Essere esistente da sè non posso cercarlo tra gli enti finiti, nessuno dei
quali è assoluto ed incondizionato, e neppure nell’unità o totalità (nel mondo ») degli enti finiti Dio come unità impersonale è la più povera ed
inerte delle finzioni ; d) i quali, tutti contingenti, attestano una dipendenza
comune. Provare la verità dell’ipotesi Diosignifica scoprire se esiste l’Essere
incondizionato autosufficiente da cui tutto dipende e a cui tutto tende,
consapevolmente o inconsapevolmente. Da quanto abbiamo detto risulta che la
nostra integrazione del Cogito cartesiano è di fondamentale importanza. Essa
porta implicita questa affermazione: io sono coscienza pensante perchè l’Essere
che è il Pensiero mi ha fatto e mi fa essere, mi ha pensato, mi pensa e mi
penserà. Ciò significa che il mio pensiero come quello di ogni ente pensante e di tutti,
il pensiero umano o dell’ordine naturale in generale non è principio di se
stesso, non il Primo metafisico, anche se causa di ciò che pensa; rimanda al
suo Principio, è pensiero dal e per il Pensiero: è ed è pensante perchè è stato
pensato. Qui la differenza radicale (metafisica) tra l’idealismo
trascendentista-teologico-teocentrico e l’idealismo
trascendentale-mondano-antropocentrico, che è egocentrismo ed egotismo anche
quando è etica del dovere; scettici smo, anche quando è panlogismo o sistema
della scienza assoluta. Il primo è idealismo del pensiero che rimanda al
Pensiero, dell’essere che si abbevera, si innova, si arricchisce e si compie
nell’Essere; l’altro è idealismo del pensiero umano o naturale tutto immanente al mondo con cui si identifica e perciò cosmico o
cosmologico e non vera vita spirituale assolutizzato con un atto irrazionale, che, facendone
il Primo metafisico, lo chiude in se stesso, lo re108 Filosofia e Metafisica
cide, appassisce, essicca, in quanto lo strappa al Pensiero, fonte di ogni
pensiero, all’Essere da cui deriva il suo essere, per farne il Tutto, la cui
condanna è il suo nulla, il Nulla. Il dilemma dei due idealismi è il dilemma
dell’uomo, della realtà, della verità: o l’uomo, il reale, il vero sono da Dio
e l’uomo è uomo, il reale è reale e il vero è vero; o l’uomo, la ragione
naturale, il mondo e le verità umane sono essi stessi l'Assoluto, il Primo, e
questo tutto, fatto irragionevolmente i/ Tutto, precipita nel Nulla. O
l’idealismo del Pensiero e degli enti pensanti, quello del cogitazus sum et
cogitor, o l’idealismo del pensiero immanente che si autopone (e perciò si
autonega) come Pensiero assoluto, quello che, da Cartesio, gradualmente, ha
penetrato il pensiero moderno e si è sviluppato fino a culminare nello Hegel;
dopo lo Hegel, precipitosamente, è sboccato, con rigorosa consequenzialità,
nelle odierne filosofie del Nulla », del
problema », delle convenzioni », della pura metodologia ». Era necessario, affinchè fosse
chiara la posizione dei due idealismi, anticipare queste affermazioni, che il
seguito del nostro discorso cercherà di approfondire. Il problema che poniamo è
quello della verità della mia esistenza e di quella di ogni ente finito. In
altri termini: io sono l’assoluta verità di me stesso, o sono dalla e per la
Verità? Il problema dell’esistenza di Dio è quello della verità o dell’essere
di ogni ente, dell’ intelligibilità metafisica del reale o del senso assoluto
dell’ente finito. Indagare se Dio esiste è sondare se vi è la verità della
verità di ogni ente creato e della verità che è in ciascun ente pensante. Se il
problema è quello della verità degli enti, ancora una volta risulta necessario
muovere dall’uomo, il solo, tra gli enti finiti, che concepisce il suo esistere
in termini di verità o d'’intelligibilità. Infatti, non la pura sensazione
immediata fa sorgere in noi il problema dell’esistenza di Dio, ma la
riflessione sulle cose. E riflessione significa mediazione, giudizio; ma
L'esistenza di Dio 109 non c’è giudizio senza l’applicazione o l’uso di
principi in base a cui si giudica. D'altra parte, se dall’ordine delle cose
materiali finite e contingenti, come dal fatto che sono dotate di movimento, si
argomenta intorno all’esistenza di Dio, si fa uso di alcuni principi, per
esempio di quello di causalità. In tal caso, l’argomentazione a favore
dell’esistenza di Dio dal mondo esterno si fonda sulla validità oggettiva di
quel principio, cioè su una verità; pertanto il problema primo è di sapere se
la mente umana sia capace di verità, come si trovino in essa o in qual modo le
acquisti. Senza verità universalmente valida nessun giudizio e nessuna argomentazione
oggettiva sono possibili; similmente non nascerebbe il problema dell’esistenza
di Dio, se mancassimo completamente della nozione di una realtà non contingente
e assoluta, se non fosse in noi una presenza oscura ed operante di quel che
cerchiamo; se non fossimo in qualche modo nell’essere, cioè se non ne
partecipassimo analogicamente; dalla totale contingenza e relatività non nasce
il problema del necessario e dell’assoluto. La dimostrazione dell’esistenza di
Dio non può partire che dalla verità; ma essa è per sua natura intelligibile,
oggetto di un pensiero; dunque la prova non può partire, tra tutti gli enti
finiti e contingenti, che dall’ente che è mente, pensiero, spirito: dall'uomo o
dalla vita spirituale. La posizione del problema si va sempre più precisando:
a) dagli enti finiti e contingenti; è) da quelli di essi che sono menti o
spiriti c) dall’oggezto delle menti; cioè dalla verità non contingente e non
finita di cui sono capaci, dato che la verità non può essere che oggetto o
contenuto di una mente. Se si prova che la mente finita è capace di verità e
dalla presenza di essa alla mente l’esistenza di Dio, l’argomentazione può
muovere anche partendo dalle cose materiali, in quanto sappiamo che c’è verità
e siamo capaci di conoscerla, che la validità dei nostri giudizi è garantita
dalla oggettività di alcuni principi; non è una nuova dimostrazione, bensì
un’applicazione di quella dalla vita dello spirito, giacchè la verità della
seconda prova è condizionata, dipendente, da quella della prima, che la
include, come include le altre; di qui la sua superiorità, tanto da essere
l’unica prova dell’esistenza di Dio, fondamento di tutte. Così impostata, la
questione si presenta sotto forma di dilemma: o vi è verità e la mente umana ne
partecipa, e vi è problema e dimostrazione dell’esistenza di Dio; o verità non
è, o, se è, la mente umana non ne partecipa affatto, e non vi è problema nè
dimostrazione. Il nihilismo, lo scetticismo, l’agnosticismo, il relativismo
assoluti, negando che vi è o si possa conoscere una verità necessaria
universale immutabile, negano con ciò stesso il problema e l’esistenza di Dio:
per loro essenza, come pensiero sono atei. Resta da dimostrare però che non vi
è verità e, se vi è, la mente umana non ne partecipa; cioè se tali affermazioni
sono razionali, abbiano un senso comprensibile. Nè si dica che vi è verità, sì,
ma tutta umana, del solo ordine naturale o della sola universale ragione e ad
essa immanente, perchè se la ragione si fa creatrice di verità assoluta, si
divinizza contro ragione: mutevole e finita, è capace di scoprire verità assolute e non di crearle ».
Se si nega la trascendenza della Verità, non si può ammettere nè dimostrare ragionevolmente ammettere e razionalmente
dimostrare che la ragione conosca verità
assolute, per il semplice fatto che si è negata la verità nel momento stesso
che la si fa figlia della ragione naturale finita e mutevole: o verità non è,
ma se è, la ragione oltrepassa in quanto è alla ragione data e non da essa
posta. In altri termini: o non è verità e si arriva alla conclusione assurda e
contraddittoria che è vero che niente è
vero »; 0 è verità, e c'è un dl di là dalla ragione; se non c’è, di nuovo, c’è
il niente di verità. L'esistenza di Dio 116 2. Gli element: del giudizio e il problema della
sua valsdità. Affinchè sia un giudizio sono indispensabili: 4) un soggetto
razionale pensante e giudicante; 5) un dato da giudicare; c) delle norme o
principi in base a cui giudica. Attività giudicante, nell’ordine della natura,
è soltanto l’uomo; in quanto ente razionale giudica, gli altri enti sono giudicati.
Ma l’ente giudica sulla base di alcuni principî di giudizio, non solo le cose,
ma anche se stesso e gli altri enti pensanti, e ogni singolo ente pensante se
stesso e gli altri. Da ciò consegue che, per quanto poco conto possa fare delle
umane facoltà razionali, so che la conoscenza sensoriale nella sua pura
empiricità, è un grado conoscitivo inferiore a quella concettuale. Infatti,
anche quando giudicassi che nessun concetto o giudizio è vero e che la verità è
nella sola e pura sensazione, sarebbe sempre un giudizio quello con cui considero
vera la sensazione e falso il concetto; ma il giudizio con cui giudico vera la
sensazione non è dovuto alla mia attività sensitiva nè da essa derivato, bensì
alla mia attività razionale; anche in questo caso, è quest’ultima a pronunziare
un giudizio di veridicità della conoscenza sensoriale e di erroneità di quella
concettuale; ma il giudizio con cui giudico vera la prima e falsa la seconda è
una conoscenza concettuale, la quale, proprio per il fatto che si esprime in un
giudizio, è superiore ad ogni conoscenza sensoriale, di cui,
contraddittoriamente, le si vuole contrapporre la superiorità. Ora è evidente:
se la ragione giudica la sensazione non può essere da essa giudicata; ma la
giudica in quanto fa uso di principî, senza di cui non potrebbe formulare
giudizi. Per conseguenza: se non c’è giudizio senza il soggetto giudicante
secondo i principî del giudizio, la verità di ogni giudizio non risiede nel
soggetto giudicante contingente e finito o nella ragione per se stessa, anch'essa
finita e mutevole nè nella cosa
sottoposta a giudizio, anch’essa contingente, finita ed inferiore allo stesso
soggetto pensante per il fatto che è giudicata e incapace di giudicare e
giudicarsi, ma nei prinpi secondo cui il soggetto giudica (!). Dunque vi è giudizio
vero, oggettivamente valido, in quanto la ragione nel giudicare si serve di
regole, di principî necessari, immutabili, universali, assolutamente validi.
Non sono pure condizionidel conoscere in
sè vuote come le forme a priori kantiane,
ma conoscenze primali, originarie, fondamento di ogni conoscenza vera. Che
l’uomo sia capace di giudizi veri ci risulta dall’aver prima dimostrato che
nessuna forma di scetticismo, com'è provato dallo stesso argomento dello scettico,
può negare che l’uomo sia capace di verità; ma basta che egli lo sia anche di
una sola, perchè consegua: 4) che è capace di giudizi veri; 4) che sono
presenti alla sua mente alcuni principî, fondamento della veridicità di ogni
giudizio vero. Infatti, chi dubita conosce qualcosa di vero, se non altro che
dubita ed esiste come ente che dubita e s’inganna (si fallor, sum). Ma, come
rileva Agostino (De vera religione, c. XXXIX), chi conosce qualcosa di vero lo
conosce per la verità, dato che tutto
ciò che è vero, è vero per la verità ». La profondità di questa argomentazione
non risiede nel provare che l’uomo conosce alcune verità, tra cui prima quella
di non poter dubitare dell’esistenza di se stesso come dubitante ed
ingannantesi, ma nel rilevare che la presenza in noi di un solo vero sarebbe
impossibile senza la presenza del lume della verità: se siamo capaci di una
sola verità, c’è in noi la verità. Da ciò consegue: 4) ogni particolare verità,
compresa quella della coscienza che ogni singolo ha di esistere, presuppone altrimenti non sarebbe una verità primale, Un giudizio può essere formalmente corretto e sostanzialmente erroneo.
Ciò non significa che i principî del giudizio siano o possano essere erronei,
in quanto l’errore non è in essi. Il giudizio è vero quando la relazione che
enuncia è vera: falso quando è falsa, ma nell’uno e nell’altro caso i princìpi
sono sempre veri; infatti, il giudizio errato si corregge adoperando sempre gli
stessi princìpi. L'esistenza di Dio 113 di cui è una determinazione; 5) l’uomo
è l’artefice di tutte le verità (l’umano sapere), ma non è il creatore della
verità che è in lui e di cui tutto l'umano sapere è una specificazione; c) le
verità dell’uomo non sarebbero se non fosse in lui la verità che fa la mente
capace di conoscenze vere, ma la verità, fonte di ogni umano vero, è da sè,
anche se ogni umana scienza non fosse; 4) la coscienza di me esistente, cogito,
ergo sum, è la prima verità nell’ordine di quelle di cui sono artefice, ma non
è la verità prima, della quale la coscienza di me è solo la prima
determinazione, ma la verità prima e in quanto oggetto di una mente; e) dunque,
il soggetto pensante ma solo esso e non
le verità che egli formula sul fondamento di essa le è necessario senza che ciò implichi che ne
è il creatore: il lume di verità è oggetto interiore della mente; f) per
conseguenza, la coscienza di me, il Cogito, prima verità di cui sono
l’artefice, non s’identifica con la verità prima, che la rende possibile e che,
interiore alla mente, non è la mente nè è da essa prodotta; g) perciò, appartenenza
dell’uomo ma non dall’uomo, madre di ogni umana verità compresa quella
dell’autocoscienza, non è umana, ma divina: 4) dunque, la presenza nell’uomo di
verità attesta l’altra del lume di verità da e per cui è capace di verità, ma
questa seconda presenza, la verità-oggetto interiore, in lui, ma non da lui,
pone il problema di se stessa: principio di ogni vero del quale l’uomo è
artefice, pone il problema del suo principio, che è il problema del Principio
primo, della Verità o dell’Essere. Identificare il problema del conoscere o
gnoseologico con quello del suo fondamento o principio problema ontologico-metafisico e rinunziare a chiarire e ad approfondire, per
superficiale acrisia, il problema critico della conoscenza. La capacità umana
di formulare giudizi veri verità
prodotta dall'uomo è soluzione del
problema gnoseologico, ma è essa stessa problema, che porta implicito l’altro
del prin114 Filosofia e Metafisica cipio per cui ogni giudizio vero è tale; ma
il problema del principio del conoscere non è più gnoseologico, in quanto è
problema della verità, fonte di ogni vero, cioè della verità oggetto della
mente e non suo prodotto; come tale, di ordine ontologico », non gnoseologico ». È essa che fa nascere il
problema dell’esistenza di Dio o del suo Principio assoluto; dunque
l’ontologicità della verità la verità è
l’essere pone il problema metafisico del
Principio: gnoseologia o dottrina del giudizio; ontologia o dottrina della
verità prima interiore all’ente pensante; metafisica o dottrina del Principio
assoluto, che è la Verità in sè: dall’umano al divino nell’uomo e dall’uomo a
Dio. Questo discorso significa: 4) vi è una verità ontologica anteriore ad ogni
particolare conoscenza vera; 5) l’atto con cui so di esistere, non solo mi dà
la prima verità oggettiva, ma, quel che più conta, mi attesta la presenza di un
lume oggettivo di verità, di cui l’autocoscienza è solo una determinazione,
anche se la prima e la sola essenziale. Dunque, verità primale e fondante in
interiore homine, come oggetto della mente, madre dello stesso pensare, per la
quale il soggetto è pensante ed ha coscienza di esistere come tale; la mente
non adegua il suo lume di verità, l’autocoscienza non esaurisce l’interiorità;
la verità in inzeriore homine per la sua stessa presenza, stimola, slancia,
obbliga l’uomo a trascendere ez se ipsum. Autocoscienza è coscienza di sè e di
altro da sè; come autocoscienza pura, l’ altro da sè è l’oggetto o Idea, la verità
interiore, che il soggetto coglie nell’atto che ha coscienza di sè come ente
pensante; anzi ha coscienza di sè perchè ha coscienza dell’altro, l’oggetto
interiore o il lume di verità, che lo fa essere coscienza di sè e dell’oggetto
stesso. L’interiorità fonda l’autocoscienza trascendendola; dunque non
l’autocoscienza come coscienza di me soggetto pensante, ma l’autocoscienza come
atto primo o prima specificazione dell’interiore verità pone il problema
dell’esistenza di Dio, nè. L'esistenza di Dio 15 può non porlo; le è
necessariamente intrinseco: in quanto partecipe dell’infinito della verità non
può non porsi il problema dell’Infinito in sè. L’idealismo trascendentale e
qualsiasi filosofia dell’immanenza sono al di qua di questa problematica,
nell’anticamera dell’ontologia e della metafisica, che si rifiutano di
riceverli fino a quando si ostinano a fare filosofia della natura etichettata
fraudolentemente per filosofia dello spirito. 3. I principî del giudizio non sono posti dalla ragione, nè indotti
dall'esperienza esterna. In quanto abbiamo detto ci sembra implicitamente risolta,
nella parte negativa, anche la questione dell’origine dei princìpi del
giudizio. Infatti, se sono le norme assolute ed immutabili con cui la ragione
giudica ogni cosa, consegue: 1) la ragione non può sottoporre le norme a
giudizio, in quanto, se la norma stessa fosse passibile di giudizio, cesserebbe
di essere norma ingiudicabile per esserlo quella o quelle che la giudicano: o
la norma è norma di giudizio e allora essa che giudica tutto non può essere da
nulla giudicata; o è da sottoporre a giudizio e non è essa la norma di
giudizio, bensì quella che la giudica. 2) Se la ragione non può giudicare le
norme secondo cui giudica, essa stessa ne è giudicata: il giudizio errato, conseguenza
della finitezza della ragione umana, è riconosciuto per tale e corretto in base
alle norme con cui la ragione giudica; dunque sono esse che giudicano l’operato
della ragione, se i giudizi che essa formula siano veri od erronei. 3) Da ciò
consegue che le norme sono indipendenti dalla ragione, da essa non prodotte ma
ad essa daze e, come tali, superiori, in quanto, secondo una celebre
espressione di Agostino, non vi è dubbio che qui iudicat, co de quo sudicat
esse 116 Filosofia e Metafisica meltorem (*). In breve, ie norme del giudizio o
le verità che lo fondano non sono un prodotto dell’attività razionale, in
quanto, se tali, essendo la ragione mutevole e finita, sarebbero anch’esse
mutevoli e finite; dunque, son esse che rendono possibili i giudizi e
l’attività della ragione e non viceversa: non vi sono norme vere perchè vi sono
giudizi veri, ma vi sono giudizi veri in quanto la ragione può disporre di
norme vere, in base a cui giudica e dalle quali è essa stessa giudicata. La
ragione non è madre ma figlia della verità, e, perchè tale, madre a sua volta
di verità; dunque l’origine delle verità che la fanno vera non è da cercare in
essa. Pertanto altro è il problema della verità, altro il problema del
conoscere razionale. Torto dell’idealismo panlogistico di Hegel, di alcuni suoi
epigoni e di quanti non distinguono i due problemi, è di ridurre la metafisica
a gnoseologia, identificando il problema metafisico con quello gnoseologico e
dissolvendo quello del principio-fondamento del conoscere nell’altro del conoscere,
principio e fondamento di se stesso. Il conoscere, assolutizzato, si chiude in
se stesso, verità di sè a sè, si autopone, consumando la soppressione violenta
ed arbitraria del problema della verità o della intelligibilità metafisica del
conoscere razionale. È la sopraffazione che la ragione perpetra contro la
verità illuminante; il sovvertimento per cui essa, fondata dalla verità, si
pone come fondante la verità stessa. La distinzione, in seno all’idealismo di
Hegel e all’hegelismo, rinasce nella forma della dualità dialettica del pensiero
pensante e del pensiero pensato, nel dialettismo dell’autoposizione e
dell’autonegazione del pensiero; e non può non rinascere in quanto il conoscere
razionale va in cerca del suo fondamento, del suo principio che è la verità.
Dissolto il paralogismo e con esso la soluzione illusoria del problema nella dialettica
del pensiero, il problema del fondamento del (2) Il lettore si sarà già accorto
come l’argomentazione dalla verità, che stiamo svolgendo per provare
l’esistenza di Dio, sia di ispirazione agostiniana.: Il testo più completo a
questo proposito è il De libero arbitrio L. Il. conoscere rinasce imperiosamente e si pone
come problema ontologico della verità o dell’essere fondante ogni conoscere, e
il pensare come tale, e come problema metafisico del Principio assoluto, cioè
della intelligibilità della verità dello stesso conoscere razionale e del senso
e del fine dell’uomo nella sua integralità. Il problema dell’esistenza di Dio
non nasce nè può nascere in una filosofia come sistema dell’assoluta scienza
razionale in quanto in essa è dissolto il problema della verità; nasce invece
all’interno della ricerca del fondamento assoluto o del Principio primo della
veridicità delle norme del conoscere razionale, cioè in una filosofia che
indaga sul donde quest’ultimo deriva la sua validità. // problema
dell'esistenza di Dio è il problema della verità, che è l’oggetto primo ed
interno della filosofia; prima di essere problema della ragione o del giudizio
sulle cose, è problema della intelligenza, dell’intuizione fondamentale della
verità, lume della ragione. 4) D'altra parte, se le cose sono giudicate dalla
ragione secondo i princìpi del giudizio, non possono esse contingenti, mutevoli, finite e inferiori alla
stessa ragione essere produttrici di
tali verità; le cose posseggono un grado di verità o di essere (sono, per es.,
più o meno belle), ma non la norma universale, con cui la ragione giudica del
loro grado di essere o di verità, e che pertanto è indipendente dalle cose
stesse e preesiste al giudizio che per mezzo suo la ragione pronunzia sulle
cose. Voler ricavare dall’esperienza sensoriale i princìpi del giudizio è
rischiare, senza venire a capo della questione, conclusioni scettiche, a cui,
prima o poi, arriva ogni forma di empirismo. Il mutevole e contingente non può
essere fonte dell’immutabile e necessario; il grado di verità che riscontriamo
nelle cose contingenti non solo non adegua la verità conosciuta con la mente,
ma è conosciuto e giudicato in quanto nella mente preesistono le norme
oggettive del giudizio. Per conseguenza i princìpi immutabili, fondanti la
veridicità dei giudizi, non sono deducibili 118 Filosofia e Metafisica a priori
dalla ragione per analisi, nè sono un prodotto della sua attività; non
inducibili 4 posteriori nel senso di contenuti enucleati da una forma qualsiasi
di esperienza sensoriale. Donde, allora, questi princìpi? 4. Ragione ed intelligenza: l'intuito
fondamentale dei principi del giudizio. Prima di rispondere a questa domanda, è
opportuno chiarire un altro aspetto della questione. I princìpi del giudizio
sono noti alla ragione, che di essi si giova per giudicare; la sua attività è
discorsiva: stabilisce nessi e rapporti, formula giudizi e costruisce il
discorso. La ragione pertanto applica i i princìpi, li media, non ne ha conoscenza
diretta: essi sono conosciuti direttamente dall'intelligenza e applicati dalla
ragione, ia quale più che l’attività intuente i princìpi è quella, diciamo
così, che li adopera (*). Per conseguenza le verità sono oggetto della
intelligenza, ad essa presenti; la mente le vede in se stessa, le scopre dentro
di sè. Per l’intelligenza le norme sono illuminanti, le danno la visione
diretta della verità non com'è in sè ma come è alla mente presente nell’ordine
naturale; per la ragione sono, sì il suo lume, ma lume giudicante, ne mettono
in moto la capacità di formulare giudizi e le danno la conoscenza mediata o
indiretta della verità. Non abbiamo ancora detto l’origine di queste verità, ma
soltanto dimostrato che non le produce la mente umana che pur ne è illuminata e
costituita, nè la ragione, che pur di esse si giova per giudicare, nè derivano
dai contenuti dell’esperienza sensoriale ai quali li ap(3) Si può osservare che
i princìpi si colgono nel momento che sono applicati, non prima nè fuori della
concretezza della esperienza. Rispondiamo che ciò non mette in questione
l’intuito fondamentale dei princìpi, in quanto l’esperienza e i giudizi della
ragione sono possibili proprio per i princìpi, i quali, presenti
nell’esperienza non sono elementi derivabili da essa, che anzi li presuppone.
D'altra parte la distinzione intelligenza-ragione va sempre considerata nell’unità
concreta della vita spirituale. ” L'esistenza di Dio 119 plica: constatiamo che
sono in not, presenti alla nostra mente, da essa direttamente intuite, suo
oggetto intelligibile. Sono, dunque, innate? Non nel senso dell’innatismo platonico,
ma in quello dell’interiorità agostiniana: presenza illuminante ed operante
della verità in interiore homine; presenti anche quando la ragione erra, perchè
non è la verità che è assente a noi, ma noi ad essa. Se per ipotesi assurda, la
nostra mente fosse privata di questi princìpi, non solo sarebbe incapace di
verità, ma l’uomo, come spirito e anche come corpo, sarebbe annientato. Questa
presenza enigmatica della verità in noi, non proveniente da noi nè dalle cose,
e di cui pur partecipiamo, pone il problema della sua origine; dunque, ci
autorizza a porre l’ipotesi Dio come
possibile soluzione del problema dell'origine della verità dalla nostra mente
intuita e di quello dell’intelligibilità di ogni esistente. Meraviglioso già
che enti finiti e contingenti siano capaci di verità immutabile e necessaria;
che le cose abbiano un grado di essere o verità e nel loro divenire un ordine
che non passa, le regola e orienta. Qualcuno potrebbe osservare: i principî,
come dite, giudicano la ragione e non questa li giudica anche se giudica
secondo essi; ma chi riconosce veri i princìpi è la ragione; dunque, sia pure
per dire che son veri, essa li giudica. Esatto, ma l’atto con cui la ragione
dice che i princìpi son veri non è un giudizio, bensì una constatazione: la
ragione, giudicando veridicamente, testimonia della loro verità; d'altra parte,
i princìpi non sono oggetto immediato della ragione, ma della mente a cui sono
presenti. In altri termini, il cosiddetto giudizio con cui la ragione riconosce
la verità dei princìpi non fonda la validità dei princìpi stessi, ma è l’atto
con cui la ragione si costituisce come capace di giudizi veri sul fondamento
della loro verità fondante. 120 Filosofia e Metafisica 5. Il problema dell'origine dei princìpi del
giudizio: tre risposte fondamentali. Degli elementi che compongono il giudizio il soggetto pensante, un dato da giudicare e
le norme in base a cui la ragione giudica c’interessa quest’ultimo come quello che pone
il problema della verità oggettiva dei princìpi secondo cui la ragione giudica.
Il problema del conoscere è fondamentalmente quello della formazione dei
concetti; il problema della verità quello della origine dei princìpi, la cui profondità »:è tale da convincere che essa
oltrepassa le possibilità dell’uomo. Prendiamo in considerazione tre risposte,
corrispondenti a tre diverse concezioni metafisiche e gnoseologiche: in esse è
contenuta quasi tutta la storia della filosofia. Prima risposta. Non vi sono
nella mente umana princìpi del giudizio, in quanto tutto nella conoscenza
deriva dall’esperienza sensoriale. È la risposta dell’empirismo la quale, a
rigore, non è tale per il semplice motivo che non risolve ma sopprime il problema;
infatti, dall’esperienza sensoriale non possiamo indurre alcun principio
assoluto e universalmente valido. Non per nulla l’empirismo, dalle sue origini
occamiste a Locke, Hume e fino ai nostri giorni, è nominalista, agnostico, scettico.
Se e quando non è tale, è contraddittorio: voler derivare dall’esperienza
sensoriale i princìpi con cui la ragione giudica l’esperienza stessa, è come
dire che i princìpi sono anch'essi cose
». Ma i princìpi del giudizio non son cose e come non-cose sono ininduttibili
dall’esperienza sensoriale nè, d’altra
parte, sono conoscenze @ priori; consegue che l’empirismo è costretto a negare
la validità oggettiva dei princìpi e con essi la veridicità dei giudizi. Con
ciò nega la verità ed il problema della verità del conoscere razionale rchè
inizialmente, anche se implicitamente, fa della verità, realtà intelligibile, cosa tra cose. Assimilati alle quali .
L'esistenza di Dio 121 MERE i pira : : i princìpi del giudizio, l’empirismo ne
riduce a due gli elementi; ma, come vedremo tra poco, neppure a due. Seconda
risposta. I princìpi del giudizio sono a priori: innati nella mente umana
(Razionalismo cartesiano-leibniziano) o prodotti dall'attività del soggetto
pensante (Criticismo e Idealismo trascendentale). Nel primo caso sono
conoscenze assolute, nel secondo soltanto condizioni assolute del conoscere. Il
razionalismo innatista già comincia a non distinguere tra problema della verità
e problema del conoscere razionale. Di qui il suo andare ai due estremi: da un
lato, ammessa l’intuizione diretta dell'essere, nega il conoscere razionale e,
per conseguenza non può giustificare la ragion d’essere del mondo (Malebranche);
dall’altra, nega l’intuito della verità e riduce la conoscenza alla pura
razionalità con uguale conseguente negazione del mondo (panteismo acosmico
dello Spinoza). Ad eccezione del Malebranche, il razionalismo moderno perde a
poco a poco il senso dell’origine trascendente della verità e instaura
l’autonomia della ragione senza distinguere tra problema della conoscenza e
problema del fondamento del conoscere; d’altro lato, si avvia al filosofismo
illuminista che non distingue più tra filosofia e scienza e separa nettamente
il problema filosofico da quello teologico. Così è preparato il terreno al
Criticismo e all’Idealismo trascendentale, che segnano il passaggio dall’
innatismo all’immanentismo della verità: i princìpi del giudizio sono forme 4
priori immanenti dell’attività del soggetto pensante. Per conseguenza il
problema della verità s’identifica con quello del conoscere razionale: non vi è
un principio della sua assolutezza (Hegel), non esigenza di assoluto, ma
l’assoluto, essa, verità di e @ se stessa: il razionale adegua il reale e il
reale il razionale. Pertanto il problema dell’intelligibilità metafisica della
conoscenza non può avere più posto nell’idealismo trascendentale, in quanto il
sapere razionale 122 Filosofia e Metafisica è tutta l’intelligibilità
metafisica: la gnoseologia è essa la metafisica, la sola possibile. Il problema
dell'essere della verità del giudizio è risolto nell’altro della verità
immanente allo stesso soggetto pensante: metafisica del pensiero e non
dell’Essere o della Verità che fonda il pensiero. In altri termini, il pensiero
stesso è verità, padre e fondamento della veridicità di ogni conoscenza vera o
razionale, con cui s’identificano pensiero e reale. Anche questa volta i tre
elementi del giudizio sono ridotti a due; anzi, anche questa volta, neppure a
due. Infatti, l’idealismo trascendentale risolve e nega il reale ed ogni ente
nel Soggetto unico assoluto che è oggetto a se stesso; anzi con il Gentile nell’Azto del pensare o nel Pensiero pensante,
unico, ineffabile, puntuale. Allo stesso modo l’empirismo, diventato
positivismo, risolve il reale ed ogni ente nella Cose unica, alla quale
assimila il pensiero, che ne è un epifenomeno, cosa dalle stesse leggi delle cose governata.
Ma il positivismo non è solo sviluppo dell’empirismo, bensì risultato della
collusione di quest’ultimo e dell’idealismo trascendentale attraverso il
criticismo di Kant: se da un lato può sembrare rinunzia al panlogismo dello
Hegel, dall’altro, ne è uno sviluppo. Infatti, se la ragione è tutta immanente
al mondo ed il processo dell’uno è quello dell’altra; se vi è adeguazione
perfetta tra reale-cosmo e razionale, consegue che assoluto filosofare è
assoluto scientizzare: la filosofia si risolve nella scienza e vi s’identifica;
lo Assoluto è la Scienza, la filosofia ne è la metodologia ». La metafisica
cosmologico-gnoseologista dal razionalismo ad Hegel ha nel positivismo uno dei
suoi sviluppi coerenti: posto il conoscere razionale come fondante se stesso;
negato il problema ontologico-metafisico della verità e per conseguenza una
verità oggetto della mente; identificato il sistema del sapere con quello del mondo », consegue che tutto il pensiero è
ragione, che l’oggetto unico della ragione sono le cose e i princìpi del
conoscere, cose essi stessi, o schemi, L'esistenza di Dio 123 categorie in cui
ordinare i fatti dell’esperienza. Non più i princìpi, ma divino è il fatto, come dice Ardigò, quasi i
fatti fossero essi ad illuminare la mente. Così, per l’idealismo
trascendentale, posto che i princìpi del giudizio sono il prodotto
dell’attività del soggetto pensante, divino, anzi Dio stesso, è il Pensiero e
non più la verità che lo illumina; ma siccome il Pensiero è tutto immanente
nelle cose e nel mondo dire che il mondo
è immanente al Pensiero è dire la stessissima cosa che il mondo adegua,
immanentisticamente, il Pensiero stesso la divinità di quest'ultimo è divinità delle
cose. Perciò a un epigono di un Hegel pensato, o meglio spensato, con mentalità
afilosofica è stato facile ridurre la filosofia a metodologia della storia », cioè dei fatti
umani, forma di positivismo umanistizzante che, nel fondo, non differisce da
quello naturalistico, che riduce la filosofia a metodologia delle scienze o dei
fatti naturali. Infatti, se questo positivismo assolutizza la scienza, l’altro
assolutizza la storia. Così la Ragione-Dio dello Hegel si precisa, senza che vi
sia opposizione sostanziale, come Storia-Dio e Scienza-Dio. Ciò che è reale è razionale, ciò che è
razionale è reale »; consegue che se Dio non è razionale, non riducibile alla
Ragione immanente, se non è la stessa Ragione immanente, non è reale. Ma Dio
identificato con la Ragione immanente non è più Dio, è il Cosmo; e se il Cosmo
è Dio, Dio non esiste. In conclusione: 4) il problema della verità, fondante la
veridicità del conoscere, risulta soppresso e con esso la verità, la luce che
fa intelligente la mente e la ragione capace di conoscenza oggettiva: non sono
possibili giudizi veri senza l’oggettività dei princìpi del giudizio; 4) questi
cessano di essere oggettivi nel momento stesso che si riducono a funzioni trascendentali del Pensiero o della
Trascendentalità, principio creatore della verità, luce a se stesso e fondante
da sè la propria assolutezza: il conoscere razionale è tutto e l’assoluto
sapere; c) ma esso è giudizio sulle cose, dunque, tutto il sapere è sapere le
cose, e niente le oltrepassa; 124 Filosofia e Metafisica d) tutto è cosa: cose
spirituali o umane, ma sempre cose o fatti: idealisti, spiritualisti,
positivisti o come si chiamano sono in ogni caso fondamentalmente e sempre materialisti
(perciò il marxismo ha oggi tanto da dire, a prescindere dalle contingenze
politico-sociali); e) così come sono negatori della essenza della filosofia,
fatta necessariamente pura metodologia, in quanto le si nega l’oggetto interno il problema della verità quello che la costituisce autonoma e la fa
metafisica dell’essere che è verità e della verità che è l'essere. Ma non
basta: posto che l’unico sapere è quello razionale o mondano giudizio sulle cose per stabilire nessi e
rapporti tra i dati dell’esperienza sensoriale sapere assoluto in quanto ha il suo fondamento
in se stesso, consegue che, proprio perchè la ragione si pone come essa stessa
principio dell’oggettività, quel sapere e ogni sapere è privo di fondamento: la
filosofia dallo Hegel in poi è, infatti, processo di sfasciamento del sistema della Ragione. Essa
ha accolto dapprima la conclusione del criticismo kantiano, convergenza del
razionalismo e dell’empirismo, che l’4 priori è funzione del soggetto pensante e l’esistenza
di Dio per conseguenza non è razionalmente dimostrabile; e successivamente
l’altra, che la Trascendentalità è essa stessa l’essere tutto e che non c’è
problema dell’esistenza di Dio perchè Dio è lo stesso Logo immanente nel suo
eterno divenire dialettico (Hegel). Ma quest’ultima conclusione è stata spinta
fino a negare la teologicità della
Ragione hegeliana e a concludere, come il pensiero più recente, che, se Dio non
esiste e l’uomo non è Dio, niente ha più senso e tutto è assurdo. La filosofia
moderna, come filosofia della sola ragione
», è filosofia senza intelligenza »; perciò ha perduto Dio e l’uomo. Terza
risposta. I princìpi del giudizio sono
presenti alla mente, che ne ha l'intuizione. L'esistenza di Dio 125 Questa
l’inzelligenza costituita dalla verità interiore, luce che illumina la ragione,
che, illuminata, getta luce sulle cose, le giudica, e giudicandole le vede
nella loro intelligibilità o loro grado di essere. E’ la risposta
dell’idealismo trascendentista, di derivazione e tradizione platonica, il solo
idealismo autentico e, come tale, il solo vero realismo. I due idealismi
concordano sull’apriorismo dei princìpi del giudizio, ma discordano
radicalmente sul modo d’intenderli. L’idealismo trascendentale fa dei princìpi
del giudizio un prodotto del pensiero naturale e le condizioni categoriali
della conoscenza, identificando, come già detto, il problema della verità come
quello del conoscere razionale; l’idealismo trascendentista, invece, distingue
tra sapere intuitivo e conoscere razionale,
tra presenza immediata della verità a//a mente e presenza riflessa della verità
nella ragione; pertanto, per esso, i princìpi del giudizio sono verità
interiori alla mente, luce di essa, da cui la ragione è illuminata. La inzelligentia
è il fondamento della razio, che cerca l’intelligenza, la luce con cui,
giudicando, illumina le cose e le conosce: le conosce in quanto le vede nella luce della verità alla mente
presente. Ma /a presenza della verità oggettiva alla mente, appunto perchè
interiorità, esclude l'’immanenza della verità stessa ed importa la sua
trascendenza rispetto alla mente. La verità, presente alla mente, è più di
essa: nel mio pensare e conoscere vi è qualcosa che trascende l’atto del mio
pensare e conoscere, verità che è mia, zon da me, più di me. Per essa son vere
tutte le cose vere, ogni ente è verità, il pensiero capace di verità e la
ragion di giudizio vero; ma essa non è le cose vere, nè ogni ente vero, nè il
mio pensiero, nè i miei giudizi: è ciò che fonda i singoli veri e li trascende.
Per conseguenza, la presenza della verità alla mente è insieme trascendenza, in
quanto alla mente è presente qualcosa che non è prodotto da essa. Donde questa
presenza? Quale il Principio assoluto della verità che illumina la mia mente,
per cui sono capace di giudizi veri? E’ questo il problema dell’intelligibilità
metafisica del conoscere ed è appunto il problema dell’esistenza di Dio. 6. Indubitabilità ed indistruttibilità della
verità dei princìpi del giudizio. Irrazionale e ridevole qualsiasi tentativo di
mettere in dubbio la verità dei princìpi del giudizio; infatti, esso si configura
come pretesa di giudicare intorno alla loro veridicità fondandosi proprio...
sulla loro verità! Ma, se i princìpi del giudizio sono al di làdel dubbio, consegue che l’intelligenza
che li intuisce è fuori del dubbio e
dell’errore: il dubbio è della ragione e del conoscere razionale non della
intelligenza e del sapere intuitivo; l’errore è nei nessi e rapporti che la
ragione stabilisce ed essa stessa corregge, non nei princìpi del giudizio e
nell’atto intellettivo che li intuisce. L'intelligenza o intuito della verità è
sempre nella verità; la mia mente e ogni mente umana, in questo senso, è la
libera prigioniera della verità. Anche se in odio ad essa volesse scacciarla
non potrebbe: vi abita ed è in casa sua; neanche il pazzo perde la verità, che
resta presente alla sua intelligenza. Infatti, il pazzo è uno sconnesso », ragiona male o non ragiona
affatto, come si dice, pensa ed agisce con nessi mal combinati, ma non potrebbe
sragionare o sconnettere, senza i principi del giudizio presenti alla sua
mente: se ne fosse privo non penserebbe affatto, nè male nè bene, non
sragionerebbe. Pietre, piante, animali non sono pazzi. Dunue anche nel pazzo
c’è l’uomo essenziale e profondo, la presenza della verità: la ragione
sopraffatta lo ha abbandonato, la verità no, e fa che egli, sragionante, sia
sempre uomo, soggetto spirituale. D’altra parte, anche ammesso, a detta di
alcune teste scientifiche di pseudofilosofi di moda, che tutto il conoscere razionale
sia convenzionale nel metodo, nelle
premesse e L'esistenza di Dio 127 nelle conclusioni, ciò non scalfisce
minimamente il nostro discorso: è possibile il convenzionalismo della
conoscenza razionale, proprio in quanto vi sono princìpi non convenzionali che
lo rendono possibile. Dire che anche essi sono convenzionali è giudicare i
princìpi in base a cui si giudica e che non possono essere giudicati. Domando:
in base a quali altri princìpi si giudicano convenzionali i princìpi? Una delle
due: o non ve ne sono altri e non potete giudicarli convenzionali; o ve ne sono
altri, e allora sono essi i principi non convenzionali. Anche se tutto il
conoscere fosse convenzionale non potrebbero essere convenzionali i princìpi in
base a cui giudico che tutto è convenzionale; se lo fossero, bene, in tal caso
niente sarebbe convenzionale. Non vi è giudizio con cui io possa distruggere la
verità; se non altro non potrei distruggere la verità del giudizio con cui
pretendessi distruggerla! Non posso annientare la mia mente, l’uomo profondo in
me, anche se posso distruggere la mia ragione: non la distruggono nè la pazzia,
nè la scemenza, nè la violenza scatenata delle passioni, anche se sconvolgono o
annientano la mia ragione. Il mio io profondo,. perenne, immortale come perenne
ed eterna è la verità non è l’io
razionale propriamente detto, ma l’io intelligente, che è oltre la ragione e
perciò oltre la scienza, la pazzia, la morte. Anche nel naufragio totale di
un’anima, superstite la presenza della verità, sopravvive il meglio di lei, in
lei il più di lei. Perciò anche l’uomo più reietto è capace di affermazioni
vere, di slanci di bene; le profondità del suo essere restano sempre orientate
verso Dio. Se i sotterranei della sua coscienza, sia pure per un attimo, sono
rischiarati consapevolmente dalla luce della verità, quel lampo può essere
decisivo, operare una trasformazione radicale: il reietto può diventare lume di
verità e fuoco di carità, potenza di santità. La verità, ogni verità, per
piccola che sia, è eterna; perciò va riconosciuta, rispettata, amata: è divina;
in questo 128 Filosofia e Metafisica senso, è divino l’uomo nel suo ordine, e
ogni cosa per il suo grado di essere. Dunque, l’uomo va sempre rispettato ed
amato: avanzo dolorante di miseria o rudere di mille delitti, in lui abita
ancora e sempre la verità, che è divina (‘). Essa, non privilegio di alcuni ma
bene a tutti comune, inerisce alla natura di ogni ente pensante in quanto tale:
lume dell’intelligenza, è dell’uomo, di ogni uomo, del povero e del ricco, del
venturoso e del percosso dalla sfortuna. E’ la riflessione scientifica o
tecnica, la elaborazione dotta e concettuale che è solo di alcuni uomini; ma
l’uomo essenziale, radicale, è nell’intelligenza della verità primale,
fondamento di ogni elaborazione razionale e scientifica; in essa la sostanziosa
e sostanziale sostanza umana. Togliere, per ipotesi, all'uomo la verità e
dargli tutto il benessere possibile e l’universo, è un’operazione somigliante a
quella di un assassino che, dopo aver ucciso, adorna splendidamente con
meticolosa cura il cadavere della vittima. Chi è nella verità, chi sa, può sempre
arricchirsi di conoscenza, perchè quel lume è il principio che fonda la
veridicità di ogni conoscere. Non è divino il pensiero (idealismo
trascendentale), non il fatto o la cosa (empirismo e positivismo), è divina la
verità in noi, madre di ogni verità razionale e figlia della Verità che la
oltrepassa e ci oltrepassa immensurabilmente. 7. Elementi e formulazione della prova dalla verità ». Dopo questo lungo discorso
necessario e chiaritivo dell’essenza della prova, raccogliamo tutti gli
elementi che la ricerca ha messo a nostra disposizione. (4) Quanto sopra è
detto previene un'eventuale obiezione: la vita concreta dello spirito non è
solo verità e bene, ma anche errore e male; è da questa reale dialetticità che
si ascende a Dio e non dalla sola intuizione della verità. Certo, la vita
spirituale è conflitto di verità ed errore, di bene e male, ma tale conflitto
non vi sarebbe senza la presenza della verità alla mente. Ora è proprio questa
presenza il fondamento dell’argomentazione dell’esistenza di Dio. L'esistenza
di Dio 129 1) La verità è un'entità intelligibile, oggetto di un pensiero o di
una intelligenza: non vi è verità senza un pensiero che la pensa,
un'intelligenza che la intellige. Nel caso della mente umana finita, ciò non
significa che la mente faccia essere la verità, la ponga», ma solo che la
scopre in sè, la intuisce; dunque, la verità che l’umana mente intuisce è da
essa indipendente. D'altra parte, come verità non di ieri o di oggi, ma di
sempre, è necessaria, eterna; era verità prima che mente umana la pensasse e lo
sarà anche se nessuna mente umana esistesse. Ma se è verità, oggetto d’intelligenza,
non può essere senza un'intelligenza che la pensi, nè può non essere, appunto
perchè eterna; dunque vi è la Mente o il Pensiero che la pensa, eterno come
essa. Ma se Pensiero eterno, è della stessa natura della Verità; il Pensiero
eterno ed assoluto è la Verità eterna ed assoluta, a differenza della mente
umana finita che ne partecipa soltanto. Dunque esiste la Mente assoluta
infinita che è la Verità in sè assoluta e infinita, da cui è ogni verità: è la
Verità creatrice. Si potrebbe obiettare: concediamo che la mente umana intuisce
verità immutabili e necessarie, ma ciò non basta a provare che esiste Dio come
Verità assoluta, in quanto le verità dalla mente intuite, proprio perchè
intelligibili, appartengono all’ordine della mente o del pensiero non a quello
della realtà; dunque non è ancora spiegato il passaggio dal‘l’ordine del
pensiero all’ordine del reale. Chi così obiettasse dimostrerebbe di essere
affetto dal più grossolano empirismo, in quanto: 4) da un lato, identifica il
reale con l’empirico, cioè con il grado più povero della realtà; 5) dall’altro,
non tien conto che noi argomentiamo dalla presenza della verità alla mente,
cioè non da un possibile o pensabile, ma dall’erze pensante, dall'uomo alla cui
mente è presente la verità, e l’ente pensante appartiene all’ordine
dell’esistenza, non del possibile; c) nè tiene conto che, se per l’essere
finito la verità intuita è solo dell’ordine 130 Filosofia e Metafisica del
pensiero perchè egli per la sua finitezza non può essere il soggetto
sussistente ad essa adeguato (se il pensiero umano adeguasse la verità infinita
sarebbe esso Dio e per ciò stesso insensatamente ateo), per la Mente infinita,
invece, la verità è lo stesso ordine dell’Essere. La Verità in sè non è
un’entità di ordine ideale, ma è Dio, l’Essere con cui s'identifica. In altri
termini, la distinzione tra i due ordini, per cui non è logicamente corretto
dedurre dal pensabile la sua esistenza, è valida per il finito e non per
l’Essere infinito o Dio. Su questo punto ha ragione S. Anselmo e non Gaunilone;
e, posteriormente, il paralogismo è di Kant, non del Santo di Aosta. Questa
precisazione significa ancora ben altro: la verità è oggetto nell’uomo, perchè
non può identificarsi con il soggetto, ente finito, ma come Verità in sè è
soggetto, è il Soggetto infinito e assoluto; dunque Dio, che è la Verità, non è
l’Oggetto impersonale, ma il Soggetto. Questa precisazione è valida contro chi
obiettasse che io faccio di Dio l’Oggetto o la Sostanza assoluta, al pari dello
Spinoza o del Carabellese. 2) Si arriva alla stessa conclusione secondo un
altro ordine di considerazioni: la verità che la mente umana intuisce e di cui
la ragione si serve per formulare giudizi validi, ha i caratteri
dell’immutabilità, necessità, universalità, i quali ci obbligano a riconoscere
che è, sì, nella mente umana, ma non dall’uomo creata; i caratteri essenziali
della verità sono gli stessi della definizione nominale di Dio; dunque, la
verità presente nella mente umana non può essere che di origine divina: esiste
Dio, Mente o Verità assoluta, che gliene ha fatto dono. Di qui ancora la
necessità di tener distinte l’inzelligenza e la ragione di Dio: non vi può
essere ragione di Dio senza intelligenza di Dio, mentre, anche quando non vi è
o viene a mancare la prima, resta la intelligenza di Lui, inesprimibile perchè
la ragione ne è impedita come nel caso del pazzo, dell’idiota, dell’ateo:
niente può strappare la verità L'esistenza di Dio 131 dalla mente e la mente
dalla verità, che è divina, più dell’uomo e all’uomo donata. Anche nella mente
del pazzo o dell’idiota, del malvagio o dell’ateo c’è perennemente la presenza
di Dio come presenza della verità data all’intelligenza. Per conseguenza, da un
lato, la ragione che nega Dio è la ratio nemica di se stessa, ribelle
all’inzellectus, fuori dell’intelligenza, insensata: dall’altro, la ratio che
argomenta dalla presenza della verità all’inzellectus l’esistenza di Dio, dimostra
conformemente all’intelligenza, non la fa essere: la ratio chiede
all’intellectus la ragione di se stessa. Perciò, da questo punto di vista, la
razio è un potere conoscitivo inferiore all’inzellectus da cui dipende. Il
dubbio e l’errore possono trovarsi nella ragione non conforme al vero, non nell’intuito
fondamentale della verità. 3) Tutti i caratteri che analogicamente attribuiamo
a Dio sono contenuti nella verità dalla nostra mente intuita: 1) la verità
rispetto alla mente è incondizionata; Dio, l’Essere che è principio di se
stesso; 2) la verità è necessaria ed immutabile; Dio, l’Essere necessario ed
immutabile; 3) la verità oltrepassa e trascende la mente umana; Dio, l’Essere
trascendente; 4) la verità è creatrice di giudizi veri; Dio, l’Essere creatore;
5) la verità è ordine e perfezione; Dio, l’Ordine e la Perfezione assoluti; 6)
la verità è essere, ciò che di essere è nella mente e nelle cose; Dio, l’Essere
realissimo; 7) la verità guida la mente alla conoscenza vera, suo fine e
perfezione; Dio, l’Essere intelligente che ordina a un fine; 8) la verità è
l'oggetto di un soggetto pensante; Dio, che è la Verità, il Soggetto
intelligente infinito. 4) Ormai possiamo dare alla prova la sua formulazione
recisa: l'ente intelligente intuisce verità necessarie, immutabili, assolute;
l'ente intelligente, contingente e finito, non può creare nè ricevere dalle
cose per mezzo dei sensi le verità che intuisce; dunque esiste la Verità in sè
necessaria, immutabile, assoluta che è Dio. Oppure sotto altra forma più
propriamente agostiniana: nulla vi è nell'uomo di superiore 132 Filosofia e
Metafisica alla mente; ma la mente intuisce verità immutabili ed assolute, che
sono ad essa superiori; dunque esiste la Verità immutabile, assoluta,
trascendente che è Dio. La ragione giudica secondo i princìpi intuiti
dall’intelligenza senza che possa giudicarli; pertanto essa non può mettere in
discussione, pretendere di dimostrare, la verità di quelle verità, fondamento
della veridicità dei suoi giudizi. Intuite dalla mente, sono applicate dalla
ragione; non ha senso domandarsi perchè è così o se potrebbe o avrebbe potuto
essere diversamente, in quanto non ha senso pretendere la dimostrazione di
quelle verità, fondamento della veridicità di ogni dimostrazione: sono fuori
discussione, al di sopra della dimostrazione razionale. Nè dimostrare
l’esistenza di Dio dalla verità significa
porre in discussione i princìpi, punto di partenza fuori discussione. Per
conseguenza, nell’intuizione delle verità immutabili e necessarie è implicata
l’esistenza di Dio, in quanto la loro presenza è già presenza in immagine di
Dio stesso. In questo senso si può dire che ogni qual volta la mente è presente
alla verità che è in lei e di cui la ragione fa uso, è presente a Dio; dunque,
pensare è pensare Dio senza che Egli sia l’oggetto diretto ed immediato del
nostro pensiero: Dio è l'al di là interiore, il Trascendente. Non il
ragionamento o la dimostrazione fa che Dio esista, ma semplicemente constata
che esiste: 2+2 è uguale a 4 non che deve esserlo; Dio esiste, non che deve
esistere. Più brevemente si può dire che dimostrare l’esistenza di Dio è
acquistare piena consapevolezza della nostra vita spirituale, dalla quale
infatti muove l’argomentazione, la cui forza è nella proposizione è presente
alla mente umana qualcosa che è superiore ad essa, e alla ragione »; da qui la
ragione argomenta. Dunque il processo razionale va dall’esistenza degli spiriti
finiti e contingenti all’esistenza dello Spirito infinito e necessario; oppure
dal soggetto pensante nell’oggettiva verità che gli è interiore e lo
costituisce pensante, alla Mente infinita che è la Verità. Pertanto non si
tratta L'esistenza di Dio 133 di procedimento dall’idea all’esistenza di Dio,
ma dall’ente nsante finito e contingente all’Esistente assoluto e necessario
che lo fa essere ente pensante. D'altra parte, l’uomo pensa per la verità,
oggetto naturale del pensiero, che è tale solo per essa: la verità presente al
pensiero è presenza del pensiero, lo costituisce. Per conseguenza, la presenza del pensiero è compresenza della verità; dove c’è pensiero
c’è verità e viceversa; dove c’è pensiero c'è dualità, il pensiero, che è tale
perchè si illumina alla verità, e la verità, che gli è presente e fa che esso
sia. La prima alba del pensiero è la prima luce della verità, l’inizio
dell’esplicitazione dell’implicito originario, di quell’unità primale, per cui
anche la notte più densa della coscienza è sempre quella nella quale veglia la
presenza di Dio. La notte si ta giorno, ma solo perchè s’illumina alla verità
che dal di dentro illumina: l’oscura primitiva presenza si fa sempre più chiara
e si rivela come presenza di Dio. C'è l’ente pensante, dunque c'è Dio: basta
che vi sia un pensiero perchè sia implicata, come scrive Campanella,
l’esistenza dell’ Assoluto. In questo senso possiamo dire che c’è necessario
pensiero di Dio (per il fatto che esistono enti pensanti, Dio esiste) e
possibile consapevolezza di Lui, effettiva, ogni qual volta il pensiero
acquista coscienza di sè, cioè conquista la verità di se stesso, il senso della
sua dipendenza dall’Essere creatore. Consapevolezza di Dio, affinchè
l’argomentazione abbia rigore stringente e avvincente, è recupero integrale del
sensus sui, del momento della robusta coscienza genuina, ignuda, pura di
sofismi, vergine di menzogna: intelligenza della verità, che è senso
dell’essere, il costituirsi dell’uomo nella sua genuina umana sostanza! Chi pensa, pensa Dio»: al contrario chi non pensa Dio, non pensaperchè è assente
all’oggetto naturale del pensiero, la verità. Non avremmo coscienza del nostro
essere, se l’essere non fosse presente alla nostra coscienza; del nostro
pensare, se la verità non fosse presente al pensiero; del no134 Filosofia
e-Metafisica stro volere, se il bene non fosse presente alla volontà: noi
siamo, pensiamo, vogliamo nell’essere o nella verità. Solo chi si pone da
questo punto di vita cioè si colloca sul
piano dell’essere ha oltrepassato la
posizione empirica e positivistica, scientifica o storicistica, che sia, ed è
già ben saldo in quella metafisica e della vita spirituale. Insistiamo: altro è
l’inzelligentia, altro la ratio di Dio, cose distinte anche se non discordanti.
Sapere Dio è conquistare l'intelligenza di Lui, che è prima della razio e anche
senza di essa: la ratio trascrive in termini concettuali, traduce in discorso,
che è appunto dimostrare sul fondamento dell’intelligentia. Il pensiero moderno
ha voluto fare dell’esistenza di Dio un problema di pura ragione; ed ha perduto
Dio: ne ha fatto un problema di scienza
», di conoscenza scientifica », non uno
di vita spirituale, d’ intelligenza », di verità. Dio per la pura ragione quella del calcolo, dei nessi e rapporti è un ente di ragione: il Dio del deismo è Ente
razionale, in definitiva, la stessa Natura (Deus sive natura, dice Spinoza);
quello del meccanicismo di Newton è Legge o Causa del mondo, l’Architetto
dell’universo degli illuministi; fino a quando, con lo Hegel, si risolve nel
divenire stesso della vita della Ragione, che è tutto il Reale come spirito e
come natura, per cui vita spirituale e realtà naturale si adeguano
perfettamente in un cosmismo assoluto. Così Dio è perduto nè poteva non
perdersi: la ragione, fatta essa tutta la verità, è priva dell’intelligenza di
essa, veicolo a Dio. La ragione è giudizio delle cose, suo oggetto è il mondo
dell’esperienza; attinge dall ‘intelligenza i princìpi, ma li applica alle cose
di cui giudica: la ragione è scientifica
», esteriorizzante. Affinchè non sia solo questo è necessario Ché resti sempre
unita all’intelligenza, imbevuta della luce della verità, in modo che con un
occhio guardi nel mondo, e l’altro lo ficchi a fondo nella sorgente che la
illumina e tutto illumina. Il problema di una filosofia che voglia essere revisione
critica del pensiero moderno, è quello del recupero delL'esistenza di Dio 135
l’intelligenza, dell’intuito della verità che fa vera la ragione e ne è al di
là»; in altri termini, è il problema di oltrepassare la pura scienza, del
riscatto dell’interiorità, della profondità metafisica della mente. Bisogno di
Dio è bisogno di un al di là del mondo, cioè di un al di là della ragione; è
risveglio dell’intelligenza che penetra oltre nessi e rapporti, luce di verità,
sete di acqua sorgiva limpida e fresca: l’intelligenza è sempre più giovane
della ragione. Perciò la piena intelligenza di Dio è del mistico, dell’asceta,
del santo, che, folgorato dalla luce della verità, sente tutta la sua persona carne e ossa e sangue € spirito come fusa in una unità incandescente e
dinamica, che è slancio di azione, fecondità di pensiero, accensione perenne
dell’intelletto al fuoco della verità. Ragione sì, anche; ma riempita
d’intelligenza. 8. In interiore homine
habitat veritas. Presenza, non immanenza della verità alla mente; se immane
alla mente, nel senso proprio della filosofia moderna, la verità diventa un suo
prodotto e non pone il problema dell’esistenza della Mente assoluta, in cui il
pensiero e il suo oggetto (la Verità) s’identificano, a differenza che nella
mente finita: la mente umana si fa Dio essa stessa e perciò mente atea. Ma la
riduzione della presenza ad immanenza della verità implica contraddizione,
quella dell’idealismo trascendentale, specie della forma più matura e coerente
di esso, che è l’attualismo del Gentile. Se presenza è immanenza, verità e
pensiero s’identificano: l’oggetto del pensiero è lo stesso soggetto pensante
nell’4to che pensa; il pensiero pensa se stesso. L’attualismo dice invece che
pensare è mediare, ma la dialettica di pensiero pensante e di pensiero pensato
0 è un artificio, o è una contraddizione; infatti, o il pensiero pensante
adegua il pensiero pensato e c'è immanenza, non mediazione, o non l’adegua e c’è
trascendenza, non più immanenza. 136 Filosofia e Metafisica Presenza della
verità alla mente dunque, e, nello stesso tempo, trascendenza, in quanto
presenza è sempre dualità di pensiero e del suo oggetto intuito. Ora, se
intuire la verità che è in noi è partecipare di qualcosa che ha caratteri
divini, consegue che ogni qualvolta la mente cerca la verità, in fondo cerca
Dio e quando scopre un vero, scopre in esso e dentro di sè un’immagine divina.
D'altra parte, se la verità è interiore alla mente, in questo senso si può dire
che Dio è in noi, che è in noi quella che è stata detta, forse imprecisamente,
l’idea di Dio: alla nostra mente è presente un’immagine di Lui, cioè la verità
illuminante ed operante. Che non è Dio; e perciò la sua presenza accende il
desiderio di Lui, Verità in sè che non conosciamo, stimola al possesso del Bene
sommo, cioè all’unione con Dio. Infatti, il bene della mente è la conoscenza
della verità: Dio è la verità assoluta; dunque alla mente adherere Deo bonum
est (°). La presenza della verità in noi non è dato inerte, ma forza operante,
stimolante, potenziatrice di tutta la vita dello spirito; orientatrice e
unificatrice: l’oscura nozione della verità è il presentimento di Dio; la
stessa esigenza di verità è esigenza di Lui, come la prima verità scoperta è
implicitamente la prima scoperta della Sua esistenza. La verità in noi è
l’intermediario, le milieu, tra la mente finita creata e la Mente infinita
creante: l’uomo è unito alla verità che è in lui ed è perciò naturalmente, ma
indirettamente, unito a Dio. Questa la sua condizione naturale. Da ciò consegue
ancora: dato che oggetto e fine della mente è la conoscenza della verità, tutto
il processo conoscitivo, dall’infimo grado al più elevato, anche quando l’uomo
tende ad altro, è orientato a Dio, converge nella scoperta della verità, che coincide con la scoperta dell’esistenza di Dio, punto assoluto
di conver Acosrino, De diversis quaestionibus 83, q. 54. E' evidente che il
nostro processo 720 è dall’immanenza alla trascendenza. Dio non è nè una produzione
ideale nè un essere tra gli altri; la sua trascendenza è assoluta e non
relativa; Egli è Colui che è e gli altri
esseri sono per suo libero atto creativo. L'esistenza di Dio 137 genza di tutta
l’attività conoscitiva dell’ente pensante. O unica filosofia è quella scettica e perciò un’insormontabile e assurda
contraddizione o essa è capace di una
sola verità e allora /a filosofia è sempre teistica, perchè teistica è l'intelligenza
umana, la cui vita autentica è amore, attraverso la presenza della verità,
della Verità in sè. Vi è in ogni ente pensante un teismo embrionale, in quanto
gli è presente la verità, sia pure involuta o nascosta; vi è come un pensiero compendiato », che si fa sempre più
esplicito a mano a mano che lo spirito acquista coscienza della verità ad esso
interiore, quantunque, nello stato attuale, non avrà mai la conoscenza piena
della Verità assoluta, oggetto della sua suprema aspirazione ma sempre
rivestito di sacro mistero »; la Sapienza divina è mistero per la filosofia,
non è filosofia. L’infinito di verità che alla mente manca, anche all’estremo
confine della conoscenza, può esserle dato solo dalla Rivelazione e dalla fede
(6). L’uomo non è soltanto un essere razionale, ma intelligente e razionale;
come intelligenza è naturaliter teista. (6) F. BonatELLI, Pensiero e
conoscenza, Bologna. Vi sono verità che in nessun modo possiamo pensare che non
siano vere: questa proposizione è il fondamento della prova, meglio di
quell’aspetto di essa che sopra abbiamo sviluppato. Il fatto che la ragione,
malgrado la loro presenza, possa errare ed erri, non solo non prova nulla
contro di esse, ma anzi le conferma; infatti, se quelle verità non fossero, non
si potrebbe dire che la ragione sia capace di errore. Chi dice: la ragione
umana erra, s’inganna », sottintende: perchè ha deviato dalla verità, se ne è
allontanata »; dunque ammette la verità e, solo in quanto essa c’è, può
rilevare che la ragione erra. L'affermazione: la ragione umana erra e
s'inganna, perchè tutto è errore ed inganno », non ha alcun senso: è soltanto
uno sfogo passionale, un’insensatezza che, come tale, non interessa la ricerca
filosofica. Essa significa: l’uomo non può pensare altro che l’errore e
l’inganno, cioè il nulla di verità »; ma pensare il nulla di verità è non
pensare, e se l’uomo non pensa non C'è più questione di errore, nè di verità. Pensare il nulla », l’assurdo », il puro
errore», conoscere l’errore », ecc. sono espressioni senza senso, suoni verbali
che non significano niente. D'altra parte, il fatto che la ragione possa errare
e l’ente pensante in ogni sua parte è contingente e finito, conferma
L'esistenza di Dio 139 che la verità, della cui conoscenza è capace, non è sua
fattura: è stata data a lui, fatto capace di conoscerla. L'ente pensante è un
dato; la verità che egli, contingente e finito, non può creare, è anch’essa un
dato; ma se la verità in interiore homine è prodotta, consegue: 4) che non è la
verità in sè, il Primo Vero assoluto; 5) che è dal Primo Vero Assoluto o Dio;
c) che di essa è il Principio: dalla verità creata in me alla Verità creante in
sè; dal dato al Principio efficiente creatore: dalla mente finita alla Mente
infinita; dall’uomo a Dio. Questa si può considerare un’altra formulazione
della stessa prova. Qui il termine principio ha il duplice senso di Principio
esemplare e di Principio efficiente. La mia mente intuisce delle verità, che
sono un’immagine vera e reale del Modello verissimo e realissimo o della Verità
prima assoluta, ma non si tratta di un rispecchiarsi meccanico (l’immagine
dell’albero che si riflette nello specchio d’acqua), bensì di un atto creativo
efficiente che lascia nella creatura un’orma di sè, viva, operante ed
illuminante, produttrice dell’attività razionale, cioè di verità seconde (i
giudizi) che nascono dalle verità prime, date all'uomo e da lui non create.
L'immagine in me della Verità in sè non è rappresentativa bensì presentativa di
Dio, non com'è nella Sua essenza, ma come può essere presente all’ente creato
nello stato naturale. È invece rappresentativa la conoscenza razionale in quanto
lo è delle cose, rappresenta la loro essenza e i rapporti in termini
concettuali: è conoscenza spettacolare, di ciò che sta fuori di me. Il sapere
intuitivo, invece, è presentativo: l'intelligenza non si rappresenta la verità,
è presente alla verità e la verità ad essa: dunque inzeriorità. Il rapporto non
è di rappresentazione di qualcosa che sta fuori di me, ma di partecipazione a e
di qualcosa che è dentro di me. La prova si fa sempre più chiara, ma nello
stesso tempo più complessa; conta che ci fermiamo ancora a considerarla. 140
Filosofia e Metafisica 2. Il principio
di causa e le due forme di astrazione. Nella formulazione data testè della
prova abbiamo fatto uso del principio di causa, ormai legittimamente in quanto
si è dimostrato che l’ente pensante finito è capace di conoscere verità
oggettive, una delle quali è appunto il suddetto principio, che, come ogni
altro fondamentale del giudizio, è vero per se stesso e fonte di verità
razionali (!). Come tale è già una presenza, per se stesso una attestazione,
una testimonianza dell’esistenza di Dio; come principio di giudizio garantisce,
solo perchè in sè vero, la veridicità di ogni dimostrazione razionale che su di
esso si fonda e dunque anche di quella dell’esistenza di Dio. Ma nel contesto
del nostro discorso il principio di causa ha un significato particolare. Interiorità », presenza della verità alla mente, implicita ed
oscura quanto si voglia, significa sentirsi dentro la verità che è in noi,
viverla come vita e luce della nostra mente, esserne presi ed esser liberi
nella sua presa. Partecipare consapevolmente di questa presenza è acquistare
coscienza dell’esistenza di Dio, in quanto la consapevolezza della verità è già
coscienza che vi è nella mente qualcosa di superiore ad essa: la verità è di
per se stessa testimoniante. Pertanto il rapporto di causalità tra la Verità in
noi e la Verità in sè, stabilito dalla ragione, è dimostrativo dell’esistenza
di Dio, ma sulla base della capacità presentativa
di Dio stesso che ha la verità in noi. In altri termini, il rapporto di
causalità di ordine razionale si esplica e riceve verità e forza
dall’intelligenza, di cui fa parte, come verità originaria, lo stesso principio
di causalità; l’argomen(I) Resta da esaminare e provare se i princìpi
fondamentali non siano implicati in un'unica intuizione primitiva. Tale
approfondimento sarà fatto in altra sede, ma fin d'ora possiamo dire che i
princìpi del giudizio sono impliciti nell’intuito fondamentale dell’Idea
dell’essere, che intendiamo in un modo che non è più quello del Rosmini, anche
se da lui ispirato. Successivamente alla prima edizione della presente opera
abbiamo svolto questi punti nei seguenti volumi: L’interiorità oggettiva,
L’uomo, questo squilibrato, Atto ed Essere, Morte e immortalità,
rispettivamente I, IV, V, IX delle Opere complete. L'esistenza di Dio 141
tazione in base al suddetto principio dà forma razionale e dimostrativa al
momento interioristico della presenza della verità alla mente, presentativa dell’esistenza di Dio. Perciò
nella prova vi sono due momenti solidali e convergenti: a) prova come
esperienza della presenza della verità, che è acquistare consapevolezza
esplicita dell’ ospite celato e presente », come dice il Blondel; 5) e prora
come argomentazione dalla nostra realtà spirituale all’esistenza di Dio. Il
principio di causa è 4 priori, non nel senso che ha per Kant, ma nell’altro
che, come tutte le verità o princìpi primi, è interiore a noi, intuito dalla
nostra mente; dunque è già una conoscenza, sia pure inizialmente compendiata o
implicita, una verità oggettiva e non una pura condizione soggettiva, anche se
l’ priori di Kant è preteso come oggettivamente valido. Se è così, il principio
di causa, come ogni altro fondamentale, non è il prodotto dell’astrazione ideologica
o ascendente, cioè astratto dalle percezioni sensoriali, in quanto ogni
astrazione che l’uomo fa da queste presuppone proprio i princìpi fondamentali
come strumento di astrazione, dai contingenti finiti, di quanto hanno di universale
ed oggettivo. Tale astrazione ascendente, dai particolari a quel che le cose
hanno di universale, non forma le verità prime e non potrebbe mai formarle tanto è vero che ogni posizione empiristica
prima o poi conclude al nominalismo, all’agnosticismo, al fenomenismo ma le trova formate e ne fa uso nel
procedimento astrattivo. D'altra parte, esse sono prodotte e non dall'uomo,
veri derivati e non il Vero assoluto, da cui sono, immagine del Modello eterno.
Dunque astratti sì, ma non dalle cose, bensì da Dio stesso: sono il prodotto,
come ha dimostrato il Rosmini, non dell’astrazione ideologica ascendente, ma
dell’astrazione divina discendente (*). La verità non sale a noi dalle cose, ma
di(2) A. Rosmini, Teosofia, 1185; 1405 e passim. Il Rosmini dice precisamente astrazione teosofica », espressione che noi
non adoperiamo. Si potrebbe anche dire: astrazione logica ascendente e
astrazione ontologica discendente. 142 Filosofia e Metafisica scende in noi da
Dio (*), altrimenti: 4) non vi sarebbe in interiore homine una presenza della
Verità, ma la stessa Verità, non il divino, ma Dio stesso: il rapporto tra la
verità e la sua immagine non sarebbe analogico ma univoco; 5) l’uomo sarebbe
egli il Soggetto infinito della verità infinita, cioè Dio. Con l’astrazione
discendente si spiega l’origine non umana delle verità primali che sono
presenti alla nostra mente; con l’astrazione ascendente e sulla base di queste
verità si conoscono le cose e si giudica della loro realtà o verità. Perciò noi
non respingiamo quest’ultima, ma diciamo che essa, da un lato, presuppone
l’astrazione discendente e, dall’altro, ha il suo campo di applicazione
limitatamente al mondo esterno, cioè a quanto è oggetto di esperienza sensoriale.
Ma quel che importa è recuperare e far nostro il concetto di astrazione perchè
è garanzia del rapporto analogico tra Dio e la mente finita e dunque baluardo
contro l’ontologismo e il panteismo. 3. La verità presente alla mente è appartenenza
di Dio senza essere Dio. Ogni cosa esistente è per quanto, e sempre
parzialmente, contiene di quelle verità che intuiamo nella loro pienezza
ideale, dunque sempre mancanti della sussistenza reale. Perciò noi misuriamo, giudichiamo la verità o il grado di realtà di
ogni ente finito, senza che nessuno e tutti insieme adeguino la verità che è in
noi; dunque, la verità dalla mente intuita non trova in nessuna cosa esistente
la sua adeguata sussistenza e resta sempre un oggetto ideale astratto. Ma se
c’è nella mente creata una presenza della verità assoluta e necessaria senza
che alcuna cosa esistente, l’uomo compreso, perchè contingente e finita, possa
essere la sua sussi(3) Evidentemente si parla di astrazione da parte di Dio in senso analogico:
qui il termine non vuol significare l’operazione propria dell’uomo assurda se attribuita a Dio di astrarre l’universale dal particolare, ma
l'atto creativo con cui Dio dà all'uomo la verità primale, che, perchè creata,
non è più la verità come è in Lui, anzi la Verità che Egli è. L'esistenza di
Dio 143 stenza, consegue che esiste un Essere assoluto che, come tale, è il
Soggetto della Verità assoluta. In questo senso le verità primali che la mente
intuisce sono un’appartenenza di Dio, il divino nell'uomo (*)», ma non Dio, quantunque
opera dell’Intelligenza divina. Non Dio, assolutamente: la Verità in sè
contiene infinitamente più perfezioni di quante possiamo attribuire alla verità
che è in noi e le stesse perfezioni da noi conosciute le contiene senza
limitazioni, distinzioni e in grado eminente. Noi non possiamo conoscere di
Dio, se non per mezzo della Rivelazione, più diquanto ci fa conoscere la verità
intuita: gli attributi di questa, per analogia, li predichiamo anche
dell’Essere assoluto (°). Noi sappiamo di Dio quanto Egli stesso ci ha concesso
di sapere e per quanto ha voluto che fosse presente alla nostra mente. În
questo senso, ripetiamo, si può dire che l’Idea di Dio è in noi €, se in noi
non fosse, non ci potrebbe mai venire dal di fuori; è in noi perchè in noi è la
verità, immagine della Verità in sè, intermediario che ci unisce a Lui. L’idea
di Dio è in noi come derivata da Dio stesso, che è dire: le verità prime sono
in noi come derivate dalla Verità assoluta, che è Dio. Tale cognizione, oscura
implicata involuta quanto si voglia, è interiore alla mente, perchè interiore
le è la verità che la illumina, la fa pensare, conoscere e giudicare di ogni
cosa. Pertanto la proposizione, (4) Se qualcuno obiettasse che in tal modo si
unisce il soprannaturale alla natura umana, dimostrerebbe, come è avvenuto a
proposito del Rosmini, di non capire o di non voler capire. (5) Dio, la
Perfezione assoluta, possiamo definirLo solo negativamente. Omnis determinatio
negatio est; dunque Dio, assoluta Perfezione, è al di là dell’atto definitorio
della iogica della determinazione astratta o del definire escludendo. In questo
senso, come scrive Spinoza, si deve negare di Lui tutto ciò che si predica del
finito (Età. I, Prop. XVI Scol.). Ma bisogna chiarire subito che Egli è
l’indeterminato per eccesso e non per difetto: essere infinito e perfettissimo,
è l’Essere, non, però, un'astrazione o una pura idea. Dunque Dio è fuori della
serie degli esseri, non è analogo nell’analogia dell’essere: è l’analoguant createur (N. I. I. BartHasar, Mon
moi dans l'étre, Louvain, 1946, p. IX). E’ l'Ipse suus actus essendi
irreceptus, cioè non ricevuto in una essenza specifica; la sua essenza è l'atto
di essere e dunque ia sua perfezione non ha limiti: indeterminato perchè senza
limitazioni, perchè è tutta la perfezione. 144 Filosofia e Metafisica nihil est
in intellectu quod prius non fuerit in sensu, è valida per tutte quelle
conoscenze che non possiamo avere senza il concorso di similitudini sensibili,
non per quelle verità primali che intuiamo direttamente e che, se non fossero
in noi, non potremmo mai ricevere da alcuna specie sensibile. Per conoscere un
oggetto particolare è necessaria l’esperienza sensoriale; per giudicare di
questa o quella cosa è necessario ancora che preceda l’esperienza della cosa
giudicanda; ma per conoscere i princìpi primi, che fondano la validità di ogni
giudizio e rendono possibile la conoscenza riflessa delle cose particolari, non
è necessaria esperienza alcuna, in quanto sono interiori alla mente, da essa
intuiti, di essa lume; meglio è necessaria l’esperienza interiore. Ora è
proprio questo lume di ogni conoscenza, fondamento di ogni altra verità, questo
naturale iudicatorium, che si dice presenza di Dio nell’uomo, legame che a Lui
unisce sine ad4miniculo sensuum exteriorum (°). 4. Critica costruttiva del principio di causa. Da
questa conclusione possiamo trarre lumi per ulterioriconsiderazioni sul
principio di causa. E’ stato obiettato dallo Schopenhauer che coloro i quali si
servono del principio di causa da un
effetto alla sua causa fino alla causa ultima non causata fanno come quel tale che va in giro tutto il
giorno con una vettura da nolo e poi, alla sera, giunto a casa, la licenzia
sulla soglia. Secondo l’arguta osservazione, chi conclude ad una causa non
causata si serve del principio di causa fino ad un certo punto, poi lo
abbandona, come chi licenzia la vettura sulla porta. In altri termini, il
principio di causa è valido fino a quando si risale da effetto a causa, ma non
quando si arriva (o si postula) ad una causa che non rimanda ad altro; cioè è
valido per il mondo dell’esperienza e non per ciò (Dio) (6) S. Bonaventura,
Commento alle Sentenze, vol. II, d. 39, a. I, q. IL L'esistenza di Dio 145 che
trascende l’esperienza. Sotto l’obiezione dello Schopenhauer c’è la critica di
Kant all’argomento cosmologico. Tale osservazione ha per noi scarsa importanza,
dopo il chiarimento dato sopra dei due momenti solidali e convergenti della
prova e dell’uso che facciamo del principio di causa. Qui non si licenzia la
vettura, del resto non presa a nolo, sulla soglia di casa, ma si entra in casa
con essa, anzi si è già in casa, in quanto l’effetto è presenza del Principio
da cui è. L’esemplarismo ci consente di scoprire nella realtà spirituale
l’immagine (effetto) del Principio primo; perciò conoscere me è conoscere Dio
come posso conoscerlo nel mio stato attuale: zoverim me, noverim te, dice
Agostino. Ma anche questo punto va ulteriormente precisato. Quando diciamo che
la dimostrazione dell’esistenza di Dio muove dalla vita dello spirito (di cui
fino ad ora abbiamo considerato solo l’aspetto intellettivo) intendiamo dire da
quell’essere contingente che è l’ente pensante finito avente un contenuto, oggetto
d’intuizione, di verità immutabili e necessarie. L’intuito o l’intelligenza di
queste verità, che non sono perchè io le penso, ma, al contrario, io penso
perchè esse sono e mi illuminano; la coscienza di questo contenuto del mio
pensiero, per il quale ho certezza della mia stessa esistenza, non da esso
posto o creato e perciò suo oggetto, questo è il punto da cui muove la
dimostrazione dell’esistenza di Dio dalla verità ». Non dunque solo dal mio
pensiero contingente e mutevole, ma da esso avente un contenuto di verità
immutabili ed assolute, che, come finito, non si può dare da sè; dall’ente pensante », ma che è tale in quanto intuisce
un pensato oggettivamente valido, che
egli non crea e non giudica, ma da cui è come creato quale pensiero; dunque la
prova muove dalla vita dello spirito nella
sua pienezza, che governa secondo verità immutabili ed universali la sua
attività intellettiva e morale. L’obiezione dello Schopenhauer ha un fondo di
verità se mossa ad un determinato uso del principio di causa e preci146
Filosofia e Metafisica samente a quello che chiamiamo cosmologico o anche scientifico »; infatti, la causalità in questo
senso è uno dei princìpi di cui la ragione si serve per intendere (giudicare) e
unificare il mondo dell’esperienza. Come verità oggettiva, invece, al pari
delle altre primali, essa è una presenza in noi della verità e, come tale,
valida come punto di partenza per dimostrare l’esistenza di Dio. Allora non il
processo causale, applicazione che la ragione fa di esso ai fenomeni di esperienza,
per se stesso porta a Dio in tal caso è
valida l’obiezione dello Schopenhauer , ma il principio di causa in se stesso,
come puro principio, presenza di verità in noi. Bisogna distinguere tra il
principio di causa in se stesso e la sua applicazione. In altri termini, il
processo causale è un nesso di causa-effetto tra fenomeni ed è limitato
all’esperienza; il principio di causa in se stesso, invece, è un dato intuito,
la cui presenza è presenza di verità in noi: come tale e come ogni altra verità primale è punto di partenza per dimostrare l’esistenza
di Dio. Kant, che ne fa una pura condizione del conoscere, deve necessariamente
limitarne la validità all’esperienza e negare per conseguenza che esso sia
applicabile al di là di essa e dunque valido per dimostrare l’esistenza di Dio.
Ma in questo modo Kant, come lo Schopenhauer, criticano soltanto l’uso che la ragione fa del
principio di causalità negando che possa essere esteso al di là dei dati
dell’esperienza sensoriale. Certo, se il principio di causa è inteso nel suo
primo significato fisico o naturalistico, Kant ha ragione: causa in questo
senso è un fenomeno che precede e condiziona un altro fenomeno che è a sua
volta preceduto e condizionato da un altro ancora; è di questa causalità che lo
Hume aveva negato la oggettività. Ma Dio è l’Essere assoluto e necessario da
nulla preceduto e condizionato, cioè è fuori della serie dei fenomeni e di ogni
serie, fuori dello spazio e del tempo; perciò in questo senso non è causa
dell’Universo, ma Principio assoluto, diverso dalle cause del mondo fenomenico,
cause a L'esistenza di Dio 147 loro volta causate. Resta l’altro problema del
principio di causa in se stesso, cioè della verità oggettiva di esso, che la criticaignorò
per difetto di critica. Ora proprio la verità del principio in sè non la sola sua applicazione o il processo di
unificazione dei fenomeni pone il problema
dell’esistenza di Dio ed è punto di partenza della sua soluzione. A Kant resta
il merito di aver dimostrato, contro, la metafisica scientista e geometrizzante
del razionalismo moderno, che il principio di causa, considerato nel suo uso
scientifico o cosmologico, non può servire a dimostrare l’esistenza di Dio, in
quanto o Dio resta inserito nella serie dei fenomeni e non è più Dio, o ne è
fuori e non si dimostra con il solo uso del principio che viene infatti, come
dice lo Schopenhauer, licenziato sulla soglia di casa. Si è che il problema di
Dio non è affatto quello dell’unità dell’esperienza, che è problema puramente
gnoseologico : Dio è al di là della unità dell'esperienza. Se noi Lo
identifichiamo con il tutto dell’esperienza cadiamo in una forma di panteismo o
di deismo e, in qualunque caso, di ateismo. E° l’errore della metafisica
razionalistica (nel pensiero greco di Aristotele e degli stoici) da Cartesio a
Wolff: Dio principio unificante la esperienza, architetto del mondo ». Di qui la identificazione di Dio con
la Causa o la Legge, con la Ragione universale; ma questo è il problema della
causa cosmologica non quello del Principio teologico. Dal nostro punto di
vista, la questione s'imposta diversamente: non dal processo causale (di causa
in causa) a Dio Causa prima, ma dal principio in sè di causa, verità direttamente
intuita, a Dio. La consapevolezza della presenza della verità è chiarimento
dello spirito a se stesso, è toccare la sua interiorità profonda, che,
conquistata, è è testimonianza di Dio, del Principio di verità e di ogni
verità; poi la ragione argomenta e rende esplicito il rapporto di causalità, e
la presenzialità si fa dimostrazione. Ma qui la causalità ha senso diverso da
quello che ha come legge dei fenomeni. Per con148 Filosofia e-Metafisica
seguenza crediamo che l’espressione Dio-Causa prima sia impropria e generi
equivoci; meglio dire Dio-Principio ».
Dio non è causa, ma Principio anche del principio di causa, verità dalla mente intuita, come è Principio
dell’ordine di causalità che regola i fenomeni di esperienza (7). Il mondo, più
che effetto, è creatura di Dio; il concetto di effetto non traduce affatto la
pregnanza di significato di quello di creatura, come il concetto di causa, così
legato all’altro di serie, non adegua quello di Dio come Principio di tutto ciò
che è nell’ordine dell’essere limitato o creato. Dire che Dio è Causa di se
stesso importa la difficoltà di concepire una Causa in sè, indipendentemente
dall’effetto e da ogni effetto, tranne che non si stabilisca un rapporto
necessario tra DioCausa e il mondo-effetto; ma questo è panteismo. Ciò ci
consente di porre l’esistenza di Dio come problema di ordine metafisico, al di
là del piano delle scienze sperimentali e matematiche. Dio non è causa
esplicativa del mondo, sia pure causa ultima o prima spiegante il movimento o
altro, quasi integrazione o prolungamento della conoscenza scientifica; è solo
il Principio (e la ragione anche) di ciò che esiste: ciò che esiste si svolge
nel suo ordine come se Dio non esistesse, ma non potrebbe esistere se Dio non
fosse; infatti, esiste in quanto è il Principio creatore di tutto ciò che
esiste. In breve, il concetto di causa appartiene all’ordine dei fenomeni: Dio
invece è l’Essere, la ragion d’essere creatrice di tutto ciò che è. Il
progresso della scienza, da questo punto di vista, non interessa il problema
dell’esistenza di Dio, nè questa rende superflua o sostituisce la spiegazione
scientifica; il metodo e (7) Perciò abbiamo evitato studiatamente di parlare di
Dio Causa prima non causata, anche a costo di scostarci dall'uso tradizionale
dei termini. Per evitare equivoci non diciamo neppure che Dio è causa sui, in
quanto ciò potrebbe importare in Lui un assurdo prima e poi. Dio è Principio assoluto e solo per
analogia può chiamarsi anche Causa non causata. Cfr. la comunicazione di G.
‘Capone Braca nel vol. Ricostruzione metafisica, Atti del IV Convegno di Studî
Cristiani di Gallarate, Padova, Liviana, 1949, pp. 188-193. L'esistenza di Dio
149 l’oggetto della metafisica non sono quelli della scienza e viceversa. La
preoccupazione di tanti volonterosi di armonizzare metafisica e scienza e, peggio, fede e scienza è una forma di irenismo senza senso e
pericolosa. Dal nostro punto di vista il principio di causa, più che risolutore
del problema dell’esistenza di Dio, è esso stesso un dato che pone il problema
dell’origine di se stesso come verità primale presente alla mente; ma, appunto
perchè tale, esso è un dato che attesta l’esistenza della Verità in sè; d’altra
parte, serve alla ragione per argomentare dalla verità presente alla mente
all’esistenza della Verità in sè. In altri termini, la ragione dimostra
l’esistenza di Dio in quanto lo spirito è capace di Dio: la mente che intuisce
la verità attesta e desidera Dio. L'amore di sì come mente nella verità e
l’amore di Dio come Verità assoluta non sono esteriori, ma l’uno all’altro
interiori. 5. Il non senso dell’ateismo.
Se così, è possibile affermare razionalmente che Dio non esiste ? Affermare
razionalmente significa giustificare secondo ragione: si può giustificare
l’affermazione Dio non esiste ? Se la
domanda ha un senso non può significare che questo: l’affermazione Dio non esiste è un giudizio oggettivamente
valido. Come sappiamo, non ci sono giudizi oggettivamente validi senza princìpi
assoluti su cui si fonda la loro validità oggettiva; ma la presenza di questi
princìpi è proprio il fondamento della dimostrazione dell’esistenza di Dio;
dunque, dire che il giudizio Dio non
esiste è oggettivamente valido è una contraddizione nei termini, in quanto se
la ragione è capace di un solo giudizio di tal fatta, ciò basta perchè
argomenti l’esistenza di Dio e non possa più negarla. Esattamente S.
Bonaventura osserva (*) che, anche la (8) Commento alle Sentenze, d. VII, p. I,
a. I, q. II. 150 Filosofia e Metafisica negazione di ogni verità faugualmente
impensabile la negazione dell’esistenza di Dio. Infatti, chi dice non esiste verità pone come assolutamente vera
questa affermazione e dunque ammette qualcosa di oggettivamente vero; ma non vi
può essere un solo giudizio vero e una sola verità senza che si ammetta
esistente la Verità in sè, in quanto ogni vero è tale per la verità. Chi dice Dio non esiste e considera quest’affermazione
come assolutamente vera, con ciò stesso afferma l’esistenza di Dio: anche chi
nega che Dio esiste afferma Dio. Ma egli è convinto di essere ateo; benissimo:
non vede la contraddizione, non si accorge che la sua negazione è l’affermazione
senza senso di pensare l’impensabile: s’illude di pensarlo; l’ateo appunto è
l’instpiens, colui che non sa quel che dice, l’insensato. Dio è presente alla
nostra mente, interiore alla nostra vita spirituale: negare la sua esistenza è
atto irrazionale, in quanto la ragione attua la sua capacità conoscitiva e
giudicatrice perchè la verità è presente alla mente, cioè proprio per la
presenza di Dio in noi; dunque, non può razionalmente dubitare di ciò che la rende
capace di giudizi veri e la libera dal dubbio. Assurda la sua pretesa di
giudicare la verità, fondamento di ogni suo giudizio vero e dunque quella che
la giudica e non viceversa: alla ragione non spetta giudicare se i veri intuiti
dalla mente siano tali, ma solo usarne per pronunciare giudizi veri. Come già
abbiamo detto, dimostrare Dio non significa farlo esistere, ma semplicemente
passare dal sapere originario alla conoscenza discorsiva propria della
riflessione. La ragione che nega Dio si mette contro la verità intuita, cioè
contro il fondamento di ogni giudizio vero, contro se stessa, si contraddice;
non nega Dio, nega se stessa nell’errore: insipientia. In breve, non è
ragionevole negare l’esistenza di Dio; anche se la ragione costruisce un
discorso negativo in tal senL'esistenza di Dio 151 so, la forza di tale
ragionamento è nulla, puramente apparente: la coerenza formale è vuota della
verità che sostanzia ogni vero procedimento logico. La sua apparente logicità è
sostanzialmente irragionevole; discorso che, mancando di razionalità
intrinseca, è intrinseca irragionevolezza, solo estrinsecamente o verbalmente
razionale: l’ateismo non volgare è insensatezza sottile. Spesso si nega
l’esistenza di Dio perchè non si riesce a penetrarne l’essenza, quasi per uno
stolto ed irragionevole dispetto della
ragione diabolicamente superba: Tu sei l’Impenetrabile, l’Oscuro, ed io ti
nego; dico che, siccome non ti posso ridurre alla mia misura, Tu non esisti».
Lo stesso atteggiamento può determinare il fideismo assoluto: Tu sei l’Oscuro e l’Assurdo e perciò credo che
tu esisti ». È la conclusione di un razionalismo irrazionale che spinge la
ragione, uccidendola, a compiere lo sforzo innaturale di rendere lucido l’oscuro,
di misurare lo smisurato. Così l’innaturale maggiorazione della ragione si
risolve nel suo accorciamento sterilizzante, nella sua distruzione. Allora, non
ci dovrebbero essere atei? Ci sono, ma non sanno quello che dicono. L’ateo è
colui che pensando che Dio non esiste, in realtà non pensa: fa uso dei princìpi
di verità senza consapevolezza alcuna della loro profondità metafisica. La sua
è affermazione puramente verbale: egli pronuncia parole che non hanno senso e
di cui non si rende conto; le dice, ma ad esse non può dare il suo assenso, in
quanto non può assentire alla contraddizione e all’assurdo: il «sì», non
dettato dalla volontà libera ma dall’arbitrio, è anch'esso verbale. « Sarei
molto curioso di vedere qualcuno che fosse persuaso che Dio non c’è: almeno mi
direbbe la ragione invincibile che l’ha saputo convincere (La Bruyère). L’ateo
si trova in una strana situazione: afferma che Dio non esiste e non può dare un
ragionevole assenso a questa affermazione. Si può dire che la superstite « ragionevo152 Filosofia e Metafisica lezza del
negare l’assenso lo salva in parte dall’assurda «razionalità irragionevole del
suo ateismo (7). L’ateo, l’insensato che fa la ragione giudice della verità
invece di usarla per giudicare secondo verità, capovolge lo ordine del
pensiero, sottomette la verità alla ragione; una volta che lo schiavo crede di
essere diventato padrone non sa più dove vada: perduto il criterio del
giudizio, si perde nell’errore e nell’insensatezza. Conclusione: se Dio non
esistesse l’uomo non potrebbe neppur pensare che non esiste, in quanto non
penserebbe nulla. In questo senso pensare è pensare che Dio esiste; io penso, dunque Dio esiste », scrive ancora
La Bruyère, in quanto la mente pensa perchè Dio esiste (!9). Da quanto abbiamo
detto risulta che la dimostrazione dell’esistenza di Dio o la sua negazione è
questione, dal punto di vista logico, di uniformità o disformità della ragione
alla o dalla verità; la verità regola il buon uso della ragione, non viceversa.
Nella ricerca, guidata dalla verità, (9) J. Lacneav, nei frammenti raccolti
sotto il titolo Existence de Dieu (Paris, 1910), nota acutamente che quelli che
sono o credono di essere atei testimoniano in favore dell’esistenza di Dio;
infatti, ci aiutano a rendere sempre più pura la nostra concezione di Lui, a
liberarci delle rappresentazioni grossolane o infedeli: Ces douteurs ont frayé
la route Et sont si grands sous le ciel bleu Que, désormais, gràce è leurs
doutes, On peut enfin affirmer Dieu. (10) Con la prova da noi sostenuta, di
evidente ispirazione agostiniana, ha punti di contatto quella del Rosmini:
l’idea dell’essere illimitato ed immutabile, intuita dalla mente limitata e
mutevole, non può essere prodotta dalla mente stessa, la riceve come l’oggetto
primo che la fa intelligente; vi è pertanto in noi un effetto non prodotto da
noi nè da alcuna causa finita; dunque esiste una Mente infinita, necessaria ed
eterna. (Nuovo Saggio, n. 1456 sgg.; Teos., 797). Rosmini argomenta così perchè
la sua idea dell'essere non è la forma a priori di Kant. Conoscere è giudicare,
anche per lui: ma vi è un sapere intuitivo fondamentale che non è giudizio, e
garantisce la validità di ogni conoscere giudicativo. Nei nostri scritti
successivi, già citati, abbiamo fuso la prova agostiniana’ con. quella del
Rosmini attraverso un approfondimento del principio di verità e di quello dell’ essere
come Idea », per cui è necessario integrare quanto si legge in queste pagine
con quanto abbiamo scritto soprattutto in Atto ed essere, III ediz., pp.
124-134. L'esistenza di Dio 153 la presenza di questa è presenza dell'immagine
di Dio, cioè di un dato che testimonia del suo principio: nella stessa dimostrazione
dell’esistenza di Dio è presente quella verità la cui presenza rimanda al suo
principio. Si può dire che la dimostrazione scaturisca da tutto il processo del
pensiero, da ogni momento del suo svolgimento. Se conoscere significa
acquistare una sempre più chiara consapevolezza del grado di verità di cui la
mente umana è capace, il processo del pensiero è processo di consapevolezza
dell’esistenza di Dio: ogni verità scoperta è aztestazione della sua esistenza
e punto di partenza per la dimostrazione razionale. La originaria oscura
nozione di Dio si fa sempre più chiara a mano a mano che il pensiero acquista
coscienza della verità e ad essa uniforma l’attività intellettiva: il suo
destino di verità si precisa sempre più nettamente come desiderio di Dio. La
vita intellettiva dell’ente creato e finito è itinerario dalla verità in noi
alla Verità in sè, da Dio in noi a Dio in sè. La presenza dell’uomo a se stesso
lo è dell’uomo alla verità che gli è interiore ed infinitamente lo trascende.
Vi è in lui il segno di qualcosa che è più di lui e perciò l’uomo più di ogni
altro ente porta in sè i segni manifesti del suo Principio. 6. La presenza di Dio e il dinamismo del
pensiero. Veritas e ratio ». L’internità
della verità alla mente al tempo stesso che garantisce la validità oggettiva
della prova dell’esistenza di Dio precisa nettamente i compiti e i limiti della
ragione, che non pone la verità, ma
argomenta sulla base della verità posta
», data alla mente: giudica di ogni cosa
con cui l’esperienza la mette in contatto, in quanto le sono dati i mezzi per
conoscere e giudicare secondo verità. Vi è un nucleo essenziale di verità che
l’uomo non si dà da sè e che, illuminandolo e facendolo ente intelligente, lo
fa ca154 Filosofia e Metafisica pace di conoscere quanto appartiene all’ordine
della realtà creata e finita. Vi è, d’altra parte, una verità opera dell’uomo,
la conoscenza del mondo dell’esperienza, che la ragione è capace di costruire
solo perchè poggia su un fondamento che la trascende. Tale verità essenziale,
originaria ed orientatrice di tutta la vita intellettiva dell’ente razionale
creato, è presente alla mente e direttamente intuita da essa, che ne ha
inzelligenza; è in noi la presenza illuminante ed operante di Dio. Per
conseguenza, la verità intuita, fondamento di ogni conoscenza riflessa o di
ogni giudizio, è indipendente dalla ragione ed anteriore alle sue dimostrazioni.
Senza la sua presenza, che è presenza indiretta di Dio, il movimento stesso del
pensiero sarebbe incomprensibile ed inspiegabile: esso è originariamente mosso
dalla verità che è in lui verso la Verità che lo trascende. La ragione è
chiamata a seguire questo movimento intellettivo dalla presenza interiore della
verità alla Verità in sè, a inserirsi nella verità che fonda i suoi giudizi, ma
appunto perchè li fonda, è ad essi e alla ragione anteriore: la presenza
indiretta di Dio in noi è prima della dimostrazione della sua esistenza per concatenazione
di concetti. Lo spirito tende alla Verità in sè sollecitato dalla verità in lui
presente; tende a Dio che è in lui, ma che non gli è noto e perciò Lo cerca e
ne dimostra l’esistenza: ma la dimostrazione è possibile perchè nello spirito è
presente tutto ciò che la rende possibile, ciò di cui la ragione si serve per
argomentare rettamente. È evidente che i due termini veritas e ratio vanno
tenuti ben distinti: la veritas è l’insieme dei principi intelligibili dalla
mente intuiti; la ratio è l’attività che, sul fondamento di questi princìpi che
la trascendono, stabilisce nessi e relazioni. La ragione è il lume delle cose
in quanto è essa che le giudica, ma è /ume illuminato dalle verità
intelligibili, che le consentono appunto di illuminare e giudicare ogni cosa
(di fare che il mondo sia esperienza »),
tranne gli intelligibili stessi. Lume della ragione, la quale è lume del senso,
L'esistenza di Dio 155 è la verità che la trascende e la mette in grado di
stabilire relazioni e nessi; la ragione cerca l’intelligenza della verità.
Pertanto: 4) essa non potrebbe niente dimostrare e dunque neppure l’esistenza di Dio se nulla di vero o di intelligibile la
illuminasse: 5) è capace di conoscenze riflesse perchè la verità, indipendente
da essa e dalla quale essa dipende, la illumina; c) dunque, la ragione non fa
esistere Dio, ma solo dimostra che non può non esistere, in quanto è assolutamente
irragionevole che non esista e assolutamente ragionevole che esista. Per
conseguenza anche se la dimostrazione risultasse imperfetta a causa della
ragione mutevole e finita, ciò non infirmerebbe la verità dell’esistenza di
Dio. La concatenazione dei concetti può essere incompleta ed imrfetta, perchè
tale è l’umana ragione, ma non può mettere in dubbio l’esistenza di Dio, per il
semplice motivo che la stessa dimostrazione imperfetta ma sempre contenente una qualche verità non vi sarebbe se Dio non esistesse e non
illuminasse. Rosmini, che indubbiamente tiene presente S. Agostino, distingue
tra ragione e lume della ragione »: la
prima è l’attività che ha come oggetto l’idea dell’essere, che è appunto suo
lume. Questa distinzione va approfondita (l’approfondimento è nostro e non va
attribuito al Roveretano) perchè chiarisce, ci sembra, un punto fondamentale
del nostro discorso. Comunemente diciamo, retaggio dell’intellettualismo greco
e del razionalismo moderno, che il senso
è del particolare e la ragione
dell’universale »; il senso è del contingente
e la ragione del necessario », ecc.
Queste espressioni non significano affatto che il senso è particolare e la
ragione universale: non solo quest’ultima, ma anche il senso è la cosa meglio
distribuita »; non solo la facoltà di ben giudicare e di distinguere il vero
dal falso (che è propriamente quel che si chiama buon senso o ragione) è
naturalmente uguale in tutti gli uomini (Descartes, Discours de 156 Filosofia e
Metafisica la méthode, p. I), ma lo è anche la facoltà di sentire, anch’essa
naturalmente uguale in tutti gli uomini. Da questo punto di vista, il senso,
come facoltà comune a tutti gli uomini, è altrettanto universale come la
ragione o l’intelligenza. Per conseguenza, la particolarità e la contingenza
della sensazione e l’universalità e la necessità del giudizio non dipendono dal
senso o dalla ragione in quanto tali, ma dal diverso oggetto che è proprio di
ciascuna delle due fa coltà; in altri termini la ragione è universale, capace
di giudizi universalmente validi, perchè l’oggetto che le è proprio la fa tale,
cioè perchè illuminata dalla verità. Dunque, la universalità e la necessità del
conoscere razionale non sono date dalla ragione, ma dal suo lume, dalla verità
che è suo oggetto; nel caso in cui la ragione fosse privata (o si privasse da
se stessa) del suo lume, cesserebbe di essere universale e necessaria come
organo conoscitivo. Non vi è un rapporto gerarchico tra senso e ragione, questa
superiore all’altro, ma vi è tra quel che è oggetto del senso e quel che è
oggetto della ragione. Da ciò consegue che nella concretezza e sinteticità
dell’atto spirituale dove sono presenti, entrambi si coordinano e si
subordinano alla verità illuminante. Non la ragione, ma il suo oggetto è vero.
Da ultimo se la ragione producesse essa la verità, non vi sarebbe piùverità,
sarebbe essa stessa lume e, come tale, mutevole e soggettiva al pari del senso,
pur restando la cosa meglio distribuita ». Ciò spiega perchè l’idealismo
trascendentale si può sempre convertire in forme estreme di empirismo e scetticismo.
7. Partecipazione iniziale e finale. Vi
è una verità primale presenze all’intelligenza fondante la veridicità dei
giudizi della ragione; dunque l’uomo è creato con e per la verità, dove il conindica
la partecipazione iniziale è dalla
verità e il peril fine: L'esistenza di Dio 157 cercare la
verità nella vita temporale per fruirne nella vita eterna; dunque, la verità
guida il pensiero e, guidandolo, fa che esso la trovi e trovi, salvi, se
stesso: itinerario filosofico con meta religiosa. Vi è dunque una
partecipazione iniziale ed una partecipazione finale dell'ente intelligente
creato dalla e per la Verità creante; vi è una sua contingenza essenziale per
il fatto stesso che è partecipante della verità, ma non è /a Verità, la
contingenza della mente creata, che è per la Mente assoluta increata. Non una
soltanto di ordine, diciamo così, gnoseologico o del nostro conoscere, ma anche
e innanzitutto di ordine ontologico, del nostro essere: siamo enti perchè
l'Ente ci fa essere. Ci pensa e ci fa essere; come esseri e per quanto abbiamo
di essere abbiamo di verità, e la verità che siamo è il nostro grado di essere:
ciò che è vero È, e ciò che è, è vero (!!). La coscienza di me come essere
principiato implica l’esistenza di Dio. Ma io posso pensare di non-essere e il
Non-essere, ed identificare Essere e Nulla. Posso; però nell’atto che penso il
Non-essere e il mio non-essere è implicato il mio essere, altrimenti non potrei
pensare il Non-essere e me come nonessente; dunque, in quell’atto è dato il mio
essere, un essere, ed è implicata l’esistenza dell’Essere: giacchè qualcosa esiste,
esiste l’Essere assoluto indipendente. Infatti, o l’ente è indipendente e
allora ogni ente è #n essere assoluto indipendente, ciò che è assurdo perchè
non ci sono più esseri assoluti indipendenti, ma /’Essere assoluto indipendente;
o l’ente dipende da altro per esistere e allora, basta che esista l’ente
finito, perchè esista Dio come Essere assoluto indipendente. Il problema
dell’esistenza di Dio è dunque interiore, intrinseco, non solo al nostro conoscere,
ma a zutto il nostro essere: l’uomo può scartarlo o evitarlo solo evitando o
scartando se stesso, tanto tale problema è radicato in lui ed egli in esso.
Ora, se la parte Superfluo avvertire che questa espressione è differentissima
dall’altra hegeliana: ciò che è
razionale è reale e ciò che è reale è razionale », del resto già da noi
criticata. cipazione iniziale e finale all’Essere fa che l’ente creato non sia
l’Essere ma dal e per l’Essere, fa anche che esso non sia estraneo alla Verità
o all’Essere nè l’Essere a lui, ma si avverta nell’Essere, avvertendo, nello
stesso tempo, che vi è incommensurabilità e solo analogia tra l’ente
partecipante dell’Essere e l’Essere stesso. Il concetto di partecipazione, nel
senso da noi usato, importa contemporaneamente attrazione e repulsa; l’ente
finito è come attratto e respinto dall’Essere infinito: attratto perchè è 44 e
per l’Essere, respinto perchè non è l’Essere. Partecipazione significa
distinzione e diversità da ciò di cui si partecipa: in pari tempo, l’ente
finito diverso da Dio, è perchè è da Dio: l’abisso che lo divide è
contemporaneamente il ponte che lo unisce a Lui. Ma allora il problema
dell’esistenza di Dio non è tanto quello di conoscere se Dio esiste, quanto
l’altro di sapere che l’uomo esiste e conosce, perchè Dio esiste e solo perchè
esiste. Le due formule sono ben diverse: la prima conoscere se Dio esiste implica la possibilità del conoscere anche se
Dio non esistesse, come se Egli fosse un qualsiasi ente, di fronte al quale la
ragione si pone giudicante come di fronte ad una cosa di esperienza: è la
posizione dell’estrinsecismo razionalistico o scientificodei razionali non
ragionevoli ». L’altra formula, la nostra sapere che l’uomo esiste e conosce, perchè Dio
esiste e solo perchè esiste importa invece: 4) un sapere», che è più del puro
conoscere, in quanto è coscienza piena e completa di tutto l’uomo; ) una
dipendenza iniziale e finale dell’ente integrale che sa di pensare ed essere
perchè Dio esiste; c) l’impossibilità di esistere e pensare un solo istante se
Dio non esistesse; d) la partecipazione dell’ente creato all’Essere in sè, per
cui non è di fronte a Dio, ma, come può esserlo l’ente finito, in Dio ed Egli
in lui. Per conseguenza, il problema dell’esistenza di Dio non è di conoscere
se », ma di sapere che », cioè di
acquistare consapevolezza della dipendenza iniziale e finale, della
partecipazione interiore, per cui L'esistenza di Dio 159 si è in Dio:
siconoscono le cose esterne, fuori di noi; si sanno le cose che sono in noi e
noi in esse: perciò si sa che Dio esiste. Essere in Dio non significa, evidentemente,
identificarsi con Lui o essere della Sua stessa natura, ma sapere di essere
perchè Dio l’ha voluto e lo vuole, e che si sa perchè Dio ha illuminato ed
illumina. Dimostrare la sua esistenza significa, dunque, acquistare coscienza
della nostra dipendenza ontologica, sapere che noi siamo, viviamo, pensiamo e
vogliamo in Dio, anche quando siamo assenti a Lui. La dimostrazione non ci sta
davanti, ma noi le siamo dentro, poichè siamo la verità da cui essa muove e la
testimonianza vivente di quell’esistenza. Gli uomini sono esistenti in questa
verità che li unifica: sono reali, frammentariamente, nell’esperienza
fenomenica. Io sono reale nella scienza, ma sono esistente nella mezafisica e soltanto
nella metafisica. Pertanto, l’esistenza di Dio è un problema solo fino a quando l’uomo non
conquista la piena consapevolezza di sè e del suo essere, non è presente a se
stesso, che è essere presente a Dio, sempre presente; se lo è, non è più
problema, ma evidenza. Non inizialmente e perciò dapprima è problema;
provvisorio, fino a quando il pensiero non dissipa l’oscurità che avvolge la
verità originaria, non acquista consapevolezza di se stesso. L'esistenza di Dio
non s'impone alla mente con evidenza immediata, in modo da metterla nell'impossibilità
di dubitarne; è una verità che va cercata, ma, conquistata, è un’evidenza. La
conoscenza di sè lo è di sè principiato dal Principio; dunque, il pensiero che
conosce se stesso, sa che Dio esiste e, sapendolo, si sa da Dio: /eggendosi,
legge Dio. In breve: se c'è l’uomo, c'è Dio: chi nega Dio, nega l’uomo che è,
non si conosce. L’ateismo è una questione di analfabetismo; ignoranza
dell’intelligibilità metafisica di se stessi, perchè ignoranza della dipendenza
essenziale da Dio e della essenziale finalità in Lui. Basta l’esistenza di un
ente pensante 160 Filosofia e Metafisica perchè sia implicata quella del
Pensiero assoluto: se un ente è, è l’Essere assoluto. Le incertezze sono nel
processo della ricerca, non nella verità che lo guida. Questo processo si attua
attraverso due momenti di trascendimento: 4) della ragione, di cui oggetto di
giudizio sono le cose, il mondo visibile
di Platone, per elevarsi all’intelligenza della verità; 4) di questa o della
verità in noi, r elevarsi a Dio, la Verità in sè. Dunque, trascendimento
dell’esteriorità (mondo della scienza o della ragione) e dell’interiorità
(mondo della sapienza o dell’intelligenza); cioè ancora del momento
gnoseologico (ragione) e di quello intuitivo (intelligenza). Trascendimento che
non è negazione; è interiorizzazione di noi a noi stessi, salita dalla
profondità di noi e delle cose alla Profondità misteriosa e sacra che sovrasta
ogni cosa e la fa essere. A questo punto, l’evidenza dell’Esistenza di Dio,
Mistero che solve ogni enigma, dà all’uomo il presentimento (ma solo questo e,
in questa vita, sempre oscuro) di come egli sarà, penserà e vivrà nella visione
ultraterrena di Dio, quando, sciolto dai legami delle cose, dal discorrere
ormai superfluo della ragione, sarà tutto l’uomo, l’uomo assoluto, non come
specie, ma come singolo ente spirituale. Nell’ordine naturale, se non a tanto,
si arriva a riconoscere la dipendenza iniziale e finale da Dio, la nostra
grandezza. La ragione nel campo della sua attività è autonoma: giudica di ogni
cosa del mondo senza essere giudicata da nessuna; ma il mondo è piccolo e
l’umana autonomia della ragione più piccola della piccolezza del visibile. Quando Bacone, esaltato dai
progressi della scienza, esigeva un metodo (con lui, Cartesio e Galilei) che
consentisse all'uomo di farsi padrone della natura, di dominarla conoscendola,
evidentemente non rifletteva abbastanza che la grandezza umana era in tal modo
assoggettata ai limiti della natura stessa: l’uomo abdicava all’infinito della
sua intelligenza per incoronarsi piccolo re delle piccole cose, oggetto del
conoscere razionale. La scienza è la L'esistenza di Dio 161 grandezza dell’uomo
razionale, la sua cosmicità, ma è proprio essa la sua piccolezza;
l’inzelligenza, invece, con cui avverte la sua dipendenza da Dio, la sua
piccolezza, è essa la sua vera grandezza, la sua spiritualità. Come filosofò
Cusano, l’uomo è piccolo nella sua grandezza, la scienza del mondo; è grande
nella sua piccolezza, la dipendenza da Dio e la nonconoscenza di Lui. L'uomo è
in questo mistero: di fronte al mondo si tratta per lui di conoscere; di fronte
a Dio di essere. Il pensiero moderno ha identificato l’uomo con il suo
conoscere ed ha perduto l’intelligenza dell’uomo, cioè il problema del suo
essere, del consistere del suo esistere ». Come abbiamo detto, non può essere
pensato l’ente avente un certo grado di essere senza che si pensi
implicitamente all’Essere che è l’Esistente, da cui dipende ogni esistente e
ogni grado di essere; ma la consapevolezza dell’ente finito di partecipare e
dipendere dall’Essere lo ordina a Lui. La partecipazione iniziale lo spinge ed
orienta a quella finale, all’Essere in sè, l’oggetto adeguato dalla sua
interiorità; il pensiero è perenne ricerca dell’Essere, il pellegrino di Dio.
In questo senso, è come specificato dall’Essere a cui tende: la verità presente
alla mente preforma l’intelligenza e la dirige verso Dio è il senso profondo dell’idea dell’essere del
Rosmini, che ha il suo oggetto adeguato solo nell’Essere ; la partecipazione
manifesta la sua profondità nella finalità” ultima dell’intelligenza. Ma se è
così, nell’intelligenza, il cui fine è Dio, troviamo una solidarietà con la volontà:
la partecipazione finale si chiarisce come la finalità suprema dello spirito
nella sua totalità di vita. CapitoLo IV LE IDEE I. Le Idee come oggetto della mente. Critica
dell’a priori di Kant. Tanta vis in eis (ideis) constituitur, ut nisi his
intellectis sapiens esse nemo possit. Quattordici secoli dopo, con ben altro
orientamento di pensiero, Leopardi annotava (18 luglio 1824) nello Zibaldone: Certo è che, distrutte le forme platoniche
preesistenti alle cose, è distrutto Dio(?). Queste due profonde osservazioni di
uomini così diversi e lontani nel tempo, per la loro perfetta coincidenza, sono
estremamente significative. Per il santo dei primi secoli, come per l’ ateo dell’800,
di formazione illuministica, negare le idee come conoscenze in sè, anteriori
alle cose e misura oggettiva per giudicarle, è irreparabilmente negare Dio: o
nella mente umana vi è una verità che non deriva dalle cose nè pone essa stessa
e allora per questa presenza di qualcosa di immutabile e necessario, di
illuminante e fecondo, ci si convince razionalmente che Dio esiste ed è
irrazionale dire il contrario, o si nega che vi è una verità di tal natura e
con essa la presenza di Dio e non è più possibile pensare o provare l’esistenza
dell’Essere trascendente, creatore e provvidente. Se tutto nell’uomo è umano,
da lui prodotto e creato senza traccia orma immagine vestigio divino, è
impossibile dargli la nozione di Dio: egli è stato privato di quanto gli Acosrino,
De diversis quaestionibus 83, q. 46, n. 1. (2) G. Ltoparni, Pensieri di varia
filosofia e di bella letteratura, Firenze, Le Monnier, 1931, vol. II, p. 110. °
L'esistenza di Dio 163 è indispensabile per poterlo trovare e provare, del lume
della ragione, dell’oggetto che fa intelligente la sua intelligenza. Dio
avrebbe creato l’uomo non per Lui, ma per l’uomo stesso, non per cercarLo,
amarLo e pregarLo, ma perchè si perdesse nella finitezza e contingenza sua e
del mondo, cosa tra le cose. Perciò Platone, il metafisico delle Idee, è il padre
della metafisica della verità, essenzialmente teistica: se esiste la verità,
esiste Dio; la verità esiste, dunque Dio esiste. Bandire le Idee come oggetto
immutabile della mente, è bandire Dio dal pensiero. Se la mente non conosce
nulla di immutabile e necessario, niente vi è per essa d’intelligibile o di
vero: non vi è Dio. Ma siccome qualcosa di assolutamente vero è conosciuto
dalla mente insopprimibilità delle verità
che fa contraddittorio lo scetticismo l’intelligibile è, e Dio è. Se non
s’intelligono le Idee sapiens esse nemo possit; cioè: chi non è presente alla
verità che è in lui è insipiens,e l’ateo è l’insipiens, colui che non sa quel
che dice, non sa niente di sè, signora e perciò è ignorante dei motivi oggettivi,
che rendono impossibile negare l’esistenza di Dio; chiuso al lume
dell’intelligenza, è ottenebrato dalla duplice concupiscenza del senso e della
ragione: un irragionevole raziocinante. Alla base dell’ateismo, o c’è la caduta
volgare nella schiavitù delle passioni, o la caduta diabolica, da qualche tempo
qualificata nobileed eroica», nella
passione o superbia della ragione, quella che sta alla base della negazione
cosidetta scientifica o filosofica dell’esistenza di Dio: rifiuto di
conoscersi, negarsi della ragione a se stessa. Il suo limite non è
l’impossibilità di trascendere l’esperienza, ma il rifiuto di trascenderla,
l’ignorare che in essa è presente qualcosa che la trascende. Ragione critica non
è quella che si autonega la capacità di oltrepassare l’esperienza, ma la
ragione che sa che non può non oltrepassare l’esperienza e se stessa, in quanto
cosciente di possedere una luce,la verità, secondo la quale giudica, che è più
di essa ed ha dun164 Filosofia e Metafisica que al di là della sua mutevolezza
il Principio creatore. Solo se la ragione conosce che la verità è più e non
meno di essa, ritrova se stessa e Dio. Perciò il problema dell’esistenza di Dio
non si aggiunge all’esperienza quasi dall’esterno, ma è implicito nel problema
dell’esperienza e nella esperienza stessa, che, in questo caso, è
testimoniante: per il fatto che io ci sono e il mondo c’è, Dio esiste. Prima
che per inferenza esplicita, l’esistenza di Dio è data implicitamente dal dato
che l’attesta. Kant ha il torto di considerare l’esperienza sensoriale il
limite della ragione, affermazione che consegue dalla riduzione delle Idee o
verità prime, intuite dalla mente e fondamento della veridicità di ogni
giudizio, a forme priori, a pure
condizioni della conoscenza. Qui il punto della questione: le Idee per
l’idealismo ontologico sono verità, conoscenze prime, oggetto interiore della
mente; sulla base di esse la ragione giudica di ogni cosa, cioè conosce secondo
verità le cose date dall’esperienza, ma non giudica le Idee primali, che
l’oltrepassano. Di qui la conclusione; esiste una verità che è data ed è più
dell’io; dunque esiste Dio, la Verità in sè donante, illuminante, creante. Per
Kant, le forme a priori, quel che nella conoscenza è prima dell’esperienza e da
essa non derivato, non sono date all’intelletto, ma son funzioni di esso, forme
dell’attività sintetica del pensiero; non verità o conoscenze, ma pure
condizioni del conoscere e perciò vote: il contenuto lo riceviamo
dall’esperienza, 4 posteriori. Per conseguenza, dato che in se stesse son
vuote, la loro validità, pur essendo 4 priori, è limitata al mondo
dell’esperienza; dunque valgono solo a costruire e sistemare contenuti
empirici. È evidente che, svuotate le Idee del loro contenuto di verità e fatte
condizioni della conoscenza delle cose, non possono più trascendere
l’esperienza dalla quale restano bloccate; dunque, non è più possibile una
metafisica come scienza, tra l’altro, una dimostrazione razionale dell’esistenza
di Dio, in quanto le verità, secondo cui la ragione L'esistenza di Dio 165
giudica dell’esperienza, non sono più tali, ma pure condizioni di essa; le
forme a priori non trascendono la ragione, ma ne sono funzioni immanenti, nè
l’esperienza, pur non derivando da essa, alla quale soltanto si applicano. Conoscenza
valida è solo quella razionale e tutto il sapere è identificato con la
conoscenza scientifica. Kant nega il sapere intuitivo dell’intelligenza e
perciò deve negare che si possa dimostrare l’esistenza di Dio: limitato l’uomo
alla sua cosmicità lo si fa prigioniero del conoscere razionale e lo si priva
di Dio, che non è problema della ragione, se prima non è problema
dell’intelligenza. Così è distrutta qualsiasi possibilità di dimostrare Dio
perchè sono state distrutte le Idee. Chi ha parlato di veleno kantiano », da questo punto di vista,
ha avuto ragione, anche se egli, se tosse vivo, ci darebbe torto, ma non a
ragione, per il tipo di apriorismo non kantiano qui sostenuto. In breve, Kant
nega l’onticità dell’Idea e un sapere intuitivo: limite della forma 4 priori è
l’esperienza sensoriale; perciò limite dell’uomo è la sua impossibilità a trascendere
l’esperienza, cioè è il cosmo, la scienza.
Il concetto critico dell’4 priori, che ha il suo limite di funzionalità
nell’esperienza, e il concetto critico dell’esperienza che ha il suo limite
nell’4 priori che la organizza, sono critici a metà: sono critici del concetto
di scienza, non del concetto di metafisica. Secondo Kant, la struttura del pensiero,
la sua preformazione è tale da avere il suo oggetto adeguato nel mondo fisico,
in quanto l’esperienza fenomenica adegua la forma: il pensiero è ordinato al
mondo, che è la sua finalità. Ciò nega implicitamente la partecipazione iniziale
all’Essere e rende inutilizzabile filosoficamente il concetto di creazione;
infatti, se è posta la partecipazione iniziale, risulta contraddittorio negare
quella finale, cioè ammettere che l’Essere creatore abbia preformato l’ente
creato 166 Filosofia e Metafisica in maniera da non essere ordinato a Lui, ma
da avere la sua adeguazione nel mondo. In altri termini, se la creatura è dal
Creatore, non può non essere stata creata in modo da essergli ordinata; dunque
la partecipazione iniziale implica necessariamente quella finale. Per Kant,
invece, l’4 priori ha la sua adeguazione nel mondo nell'ordine naturale: il cielo stellatoe la
legge morale per conseguenza il mondo è la sua finalità suprema, e dunque anche
il primo iniziale. Basta: Dio è eliminato dall’ordine del pensiero e da quello
della realtà; non si spiega più neppure come possano nascere l’esigenza di Dio
e le Idee della ragione, che non si giustificano, dentro il sistema kantiano,
neanche come postulati della ragione pratica; Kant ve li introduce, ma restano
estranei alla Critica com'è intesa da lui, la quale si risolve nel sistema
della cosmicità ». La Critica non è
tanto critica da approfondire l’interiorità del pensiero, da sondare le
profondità dell’intelligenza: le manca l'intelligenza dell’intelligenza, e non
s’accorge che esigenze e postulati non potrebbero essere le une sentite e gli
altri pensati se lo spirito non portasse nella sua struttura i segni indelebili
e perenni di Chi lo ha creato spirito, di Chi, facendo l’uomo ente pensante,
gli diede il lume della verità e la verità come oggetto del pensiero. Se ne
accorse il Rosmini, la cui idea dell’essere (altro che riducibile all’a priori
kantiano!), oggetto intuìto dal pensiero, è presenza analogica di Dio in noi
(partecipazione iniziale) e preforma il pensiero stesso in modo che ad esso è
impossibile invenire in alcuno dei contenuti di esperienza, o in tutta
l’esperienza, il suo oggetto adeguato, per cui essa risulta ordinata, in
solidarietà con la volontà, con l’atto morale sintetico dell’ideale e del
reale, all’Essere, che, come tale, è la sua finalità assoluta, convogliante,
come letto d’immenso fiume, le innumerevoli sorgenti della vita, la totalità
del creato. L'esistenza di Dio 167 2. L'Idea nell’'empirismo inglese. Kant deriva il
suo criticismo dal Locke, dallo Hume e
dalla barbarie filosofica dell’Illuminismo, di cui è il più grande
rappresentante. Locke è il primo consapevole e sistematico distruttore
dell’Idea nel senso dell’idealismo oggettivo. Infatti, con la parola idea
indica sensazioni, immagini, percezioni, ecc., quanto è contenuto della coscienza:
l’idea non è più l’oggetto intelligibile, immagine priori dell’Intelligibile in sè, ma immagine
del sensibile: l’anima, white paper, acquista le idee, puro contenuto della
coscienza soggettiva, from experience. D'altra parte, anche per il Locke,
funzione della ragione è di stabilire nessi e relazioni, ma solo tra le
idee-immagini sensibili; per conseguenza, la verità è unione o separazione di segni (joining or
separating ofsigns), cioè di quelli impressi dalla esperienza sensoriale: il
valore oggettivo dell’idea è distrutto e con esso quello della verità.
Consegue: 4) la sostanza è un’idea o impressione sensibile complessa, cioè una
somma di qualità prive di vincolo reale; è coesistenza continua di alcune idee semplici, considerate (considered), per tale continuità
di esistenza, unite in una cosa ed indicate con un nome »; 5) l’identità della persona non viene
da una sostanza permanente e perseverante al di sotto del suo divenire, ma
semplicemente dalla continuità della coscienza: la mia identità arriva fin dove
arriva la mia memoria; c) se gli enti esistenti, di cui si conoscono solo le
qualità, abbiano un sostegno »,
un'entità reale € che cosa essa sia, l’uomo non lo sa: Io non so cosa sia (I
dont know what). Conclusione: l’idea è d'origine empirica, un puro nome, un
contenuto della coscienza soggettiva; non esiste un correlato oggettivo del
pensiero; la ragione unisce e divide segni che, soggettivi, non garantiscono
l’oggettività dei giudizi; dunque, non esiste una verità intelligibile, l’Idea
come oggetto della mente, non prodotta ma solo intuita da essa, nè ricavata
dall’esperienza. Per l’ideali168 Filosofia e Metafisica smo oggettivo gli
intelligibili sono, come Verità in sè, il contenuto della Mente assoluta; come
presenza della Verità in sè, l'oggetto d’ intuizione delle menti finite e
fondamento oggettivo dei loro giudizi; ancora sono realizzate imperfettamente
nelle cose, di cui costituiscono l’essere o il grado di verità. In altri
termini, sono il Primo Vero da cui deriva ogni verità; Vero creatore e vivente,
fecondo di quanto vi è di vero, vita della mente e di ogni cosa: voytà Zé, così
Platone nel Timeo chiama le Idee. Per Locke, invece, esse non sono il prototipo
o l’esemplare intelligibile, ma pure immagini di origine sensibile: quanto noi
conosciamo della realtà è quanto di idee
o immagini ci forniscono i sensi; il reale conosciuto s’identifica con il
contenuto della nostra coscienza empirica. Com'è noto, lo Hume, con maggiore
coerenza del Locke e attraverso un approfondimento critico dei presupposti dell’empirismo,
non dice di non sapere cosa sia la
sostanza, ma che non vi sono sostanze: la realtà, spirituale e materiale,
s’identifica tutta (nè vi è una Realtà in sè trascendente) con le impressioni e le idee ». Ma, per lo Hume, tra le une e le altre
non vi è differenza di origine le prime
sono copie di nostre impressioni(copies
of our impressions) bensì d’intensità,
le idee sono percezioni più deboli (more
fleeble perceptions); per conseguenza, di fronte ad un'idea, bisogna chiedersi
di quale impressione sensibile sia la copia. Non vi sono sostanze »: quella che
così si chiama è un insieme di percezioni che si assomigliano; non vi è un vincolo
causale necessario ed oggettivo, ma solo I’ attesa che al fatto 4 segua il fatto d: è l’
abitudine (custom) che fa nascere questa attesa; non vi sono nessi tra le idee
se non per somiglianze (resemblance),
per contiguità tempo- rale o locale (contiguity
in thime or place), per causa ed effetto, cioè seguenza accidentale di due
fatti. Ecco: negato il valore oggettivo dell’Idea e la sua presenza L'esistenza
di Dio 169 alla mente indipendentemente dall'esperienza sensoriale, non è più
possibile un criterio valido di giudizio, un fondamento della conoscenza e
della realtà; vien meno ogni regola della vita intellettiva e morale, ogni
sostegno delle cose. Distrutte le Idee, non vi è più alcuna ragione che le cose
siano come sono e non diversamente, che la ragione giudichi in un modo o in un
altro e la volontà agisca così e non altrimenti, per il fatto che non vi sono
più princìpi necessari, immutabili ed universali (*). Ciò prova come il punto
cruciale del proble- ma dell’esistenza di Dio, come di ogni altro metafisico,
sia la questione della verità: se vi è verità e fino a che punto e come la
mente umana ne partecipi. Se tale verità si nega, come fa lo Hume, cade la
validità oggettiva di ogni prin- cipio e qualunque dimostrazione è impossibile
4 priori ed 4 posteriori. La validità razionale delle prove 4 posteriori, in-
fatti, dipende da quella dei princìpi secondo cui la ragione argomenta; dunque
dal problema della verità: secondo che questo è risolto positivamente o
negativamente anch'esse sono valide o no. Ma se è risolto positivamente è già
dimostrata l’esistenza di Dio; se negativamente, impossibile qualsiasi altra
dimostrazione. In ogni caso le prove 4 posteriori sono (3) Ancora una volta il
Leopardi, con chiara intuizione (lo cito perchè non filosofo nel senso tecnico
del termine, e perchè imbevuto di empirismo e sen- sismo), scrive il 17 luglio
1821 (op. cit., vol. III, pagine 99-100): Quindi è chiaro che la distruzione [per un
errore di stampa nel testo si legge distinzione »] delle idee innate distrugge il
principio della bontà, bellezza, perfezione assoluta e de’ loro contrari. Vale
a dire di una perfezione ecc., la quale abbia un fonda- mento, una ragione, una
forma anteriore alla esistenza dei soggetti che la con- tengono, e quindi
eterna, immutabile, necessaria, primordiale ed esistente prima dei detti
soggetti e indipendente da loro. Or dov’esiste questa ragione, questa forma? e
in che consiste? e come la possiamo noi conoscere o sapere, se ogni idea ci
deriva dalle sensazioni relative ai soli oggetti esistenti? Supporre il bello e
il buono assoluto è tornare alle idee di Platone e risuscitare le idee innate
dopo averle distrutte, giacchè tolte queste, non v'è altra possibile (1341)
ragione per cui le cose debbano assolutamente e astrattamente e necessariamente
essere così 0 così, buone queste e cattive quelle, indipendentemente da ogni
volontà, da ogni accidente, da ogni cosa di fatto, che in rcaltà è la sola
ragione del tutto, e quindi sempre e solamente relativa, e quindi tutto non è
buono, bello, vero, cattivo, brutto, falso, se non relativamente; e quindi la
convenienza delle cose tra loro è relativa, se così posso dire, assolutamente
». 170 Filosofia e Metafisica legate alla sorte di quella dalla verità », da cui dipendono, di cui sono
una applicazione e in cui restano incluse. Hume è una buona lezione; negata
l’oggettività dell’Idea è negato Dio; niente più regge, non lo spirito nè le
cose, non la filosofia nè la scienza. In questo senso l’ultrailluminista Hume,
che sviluppa fino in fondo il principio ateo del- l’uomo fonda l’uomo e il suo
regno », è la crisi del mito illuminista, in quanto rappresenta la
vanificazione del reale ‘spirituale e corporeo e di ogni categoria del reale,
la banca- rotta del razionalismo e dello scientismo illuministici. 3. Ancora di Kant e Rosmini. Sinteticità del
conoscere e validità del giudizio. Kant si accorse della rovina della
conoscenza oggettiva e della metafisica come scienza, conseguenza della
negazione delle Idee; se ne accorse perfettamente anche il Rosmini. Ed ecco i
due pensatori porsi gli stessi problemi: 4) dell’oggetti- vità del conoscere;
4) della restaurazione della metafisica co- me sapere razionale. La risposta di
Kant è nota: i princìpi del conoscere non possono essere ricavati
dall’esperienza sensoriale; sono forme 4 priori della mente, oggettive ed
universalmente valide, con cui lo spirito, mercè l’attività sintetica,
costruisce l’esperienza, che alle forme fornisce il contenuto. Ma, per Kant,
come abbiamo detto, le forme @ priori non sono conoscenze, ma pure (vuote »)
condizioni della conoscenza: per lui non vi sono verità 4 priori, interiori
alla mente e da essa intuite, ma di 4 priori c'è solo la forma del conoscere. Per conseguen- za, egli
nega che vi siano verità intelligibili, oggetto dell’in- telligenza, cioè è d’
accordo con gli empiristi nel rigettare 1’ idea com'è concepita dall’idealismo
oggettivo. Per con- seguenza, quando affronta il problema della metafisica come
scienza non può non rispondere negativamente: le forme 4 priori, pur essendo
indipendenti dall'esperienza, come sue L'esistenza di Dio IZI pure condizioni,
al di fuori e al di là di essa non hanno al- cuna validità conoscitiva: 4
priori, ma bloccate nella e dalla esperienza. Prodotto dell’attività dello
spirito e prive di un contenuto proprio, non verità o oggetti intelligibili, ma
semplicemente condizioni di conoscenza dei fenomeni, possono giudicare solo le cose di esperienza
sensoriale. Ogni metafisica come scienza razionale risulta impossibile, come
ogni prova dell’esistenza di Dio. In breve, Kant nega un sapere intuitivo, nega
l’intelligenza e perciò l’intuizione dell’intelligibile, la presenza alla mente
della verità: la forma più alta di sapere è per lui il conoscere razionale o
scientifico, la matematica e la fisica come scienze. Kant critico non è platonico », è aristotelico ». L’intelletto e le sue forme priori (le categorie ») non sono attualità di conoscenza,
ma potenzialità di conoscere: quello kantiano è un intelletto possibile», in
quanto le forme non sono conoscenze o intuizioni originarie, ma pure condizioni
del conoscere e condannate a restare tali fino a quando non vengono riempite dal contenuto dell’esperienza; senza
di esso, l’intelletto, in sè, è privo di conoscenza, è pura possibilità di
conoscere. Per conseguenza esso, che non è in sè attualità, può conoscere
soltanto quanto è oggetto di esperienza, le cose sensibili nella loro fenomenicità.
La conoscenza di tipo scientifico o razionale diventa così il modello del
sapere e l’unico sapere umano. Kant critico almento il Kant della Ragione pura è più illuminista del Kant precritico »: è il filosofo della ragione
senza intelligenza, della razionalità impersonale e non dell’ uomo concreto. Ma
egli vide chiarissimo un aspetto del problema di Dio: che la prova cosmologica,
come ogni altra, in fondo dipende da quella ontologica, che non è da
identificare con la prova dalla verità o
dalla vita dello spirito », anzi la
presuppone e in essa s'inserisce; vide che il nodo della questione è 172
Filosofia e Metafisica sempre lì: se esiste una verità intelligibile data alla
mente. Fino a quando Kant fu platonico o come si dice precritico considerò valida la prova
ontologica; diventato critico la rifiutò, perchè, negate le verità primali date
alla mente ed ammessa la sola apriorità delle vuote condizioni del conoscere,
gli era preclusa la possibilità di dimostrare razionalmente l’esistenza di Dio
4 priori e conseguentemente 4 posteriori. Ancora: col riconoscere la importanza
primaria, rispetto a quella cosmologica, della prova ontologica, Kant si avvide
che il problema dell’esistenza di Dio inerisce alla vita dell’ente spirituale
più che a quella del mondo fisico; perciò egli, dopo aver creduto di aver
colpito al tallone l’Achille della metafisica, riprese il problema in sede
morale, cioè a proposito di un altro aspetto della vita dello spirito. Così
egli distinse nettamente l’ idea
cosmologica dall’ idea teologica facendo
di quest’ ultima un problema di pertinenza dell’attività morale. Ma, per lui,
l’Idea è sempre una forma vuota », che
aspetta di ricevere il contenuto dall’esperienza sensibile: la restaurazione
della metafisica gli risulta impossibile; l’Idea resta ingiustificata nel suo
sistema. Se Dio fosse solo un’Idea della ragione nel senso kantiano, sarebbe un
puro possibile; ma se Dio è solo possibile, Dio è impossibile; e tutto ciò che
è diventa di colpo impossibile ed inesplicabile. L’idealismo trascendentale
salta il fosso della pura noumenicità dell’idea
teologica, come dell’idea cosmologica e di quella psicologica; rovescia il
fondamento metafisico dell’idealismo oggettivo (la verità è principio del
pensiero) e fa il pensiero umano principio della verità: non è percettivo ma di essa costitutivo »; pensandola la fa essere. Così
l’immanentistica metafisica del Pensiero assoluto è antitetica alla
trascendentistica metafisica della Verità; l’idealismo trascendentale o spurio
è l’antitesi dell’idealismo trascendentista o autentico. Hegel è implacabile
contro l’ immediato », cioè L'esistenza
di Dio 173 contro il sapere intuitivo o
dell’intelligenza che, come implicante la Trascendenza, è l’ostacolo maggiore
alla riduzione di tutto il sapere al mediato conoscere razionale. La metafisica
della verità è negata in quella del Pensiero o della Ragione assoluta, cioè
nella metafisica dell’assoluta irragionevolezza, e l’uomo decapitato come
singolo. La metafisica è perduta, ma resta il problema kantiano della sua
restaurazione. Essa fu possibile al Rosmini, il quale dalla critica dell’empirismo
moderno non concluse alla forma 4 priori come pura condizione del conoscere, ma
all’Idea come oggetto intuìto dalla mente. Egli riprende l’Idea dell’idealismo
oggettivo, verità intuita dalla mente, ad essa data e di essa lume; restaura la
verità primale come fondamento di ogni giudizio e su questa base ricostruisce
la metafisica. Rosmini comprese benissimo che per arrivare a Dio, o si passa
dalla verità a noi interiore e trascendente, o non si passa e non si arriva,
tanto da distinguere, a proposito del problema delle idee, l’ aspetto ideologico
da quello che chiama teosofico ». Il
problema metafisico vero e proprio è quest’ultimo: origine da Dio dell’Idea
dell’essere, oggetto intuìto dalla mente senza che esso sia Dio. Qui la
soluzione del problema ideologico: le altre idee sono figlie dell’idea madre dell’essere, cioè giudizi sulle cose che
ci presenta l’ esperienza. Noi non accettiamo alla lettera questa dottrina, ma
facciamo nostra la sua anima di verità: vi sono verità seconde (i giudizi sulle
cose) per le quali è necessaria l’esperienza e sono dunque 4 posteriori, ma vi
è in esse un elemento 4 priori, una verità prima e non kantianamente pura condizione del
conoscere che le rende possibili, la
quale non viene da nessuna esperienza nè è creata dalla mente; viene da Dio ed
è alla mente data. Così è restaurata l’Idea nel senso dell’idealismo oggettivo
e, con essa, ricostituito il fondamento per la dimostrazione razionale dell’esi174
Filosofia e Metafisica stenza di Dio; ripristinato il concetto della
partecipazione iniziale e finale all’Essere. Da Cartesio a Hume due esigenze
fondamentali dividono il pensiero moderno intorno al problema della verità:
l’esigenza razionalista e quella empirista. Il razionalismo approfondisce un
problema che non va perduto di vista: se non vi è una verità prima
indipendentemente dall’esperienza è impossibile una conoscenza oggettivamente
valida; le conclusioni dell’empirista Hume confermano la veridicità dell’istanza
razionalista. L’empirismo da parte sua, contro l’apriori(4) Nel grande dialogo
della filosofia moderna e soprattutto in seno all’empirismo inglese, occupa una
posizione particolare il Berkeley. Grossolana e senza fondamento
l’interpretazione di un Berkeley che nega la realtà del mondo; infatti, a parte
quanto vi è di empiristico, fenomenistico e nominalistico, resta in lui un
nucleo speculativo che s'inserisce nella linea dell’idealismo oggettivo, Il
Berkeley non nega la realtà del mondo esterno; dice soltanto che è, e non può
non essere, in rapporto costante con uno spirito che se lo rappresenta ». Questa affermazione può essere
intesa in due sensi: 2%) il mondo è la rappresentazione soggettiva di uno
spirito e non si sfugge al fenomenismo ;
il mondo è reale per quanto partecipa dell’Idea, la quale, come oggetto
intelligibile, non può non essere senza una mente che la pensi. Forse il
Berkeley si presta ad entrambe le interpretazioni, dato l’uso equivoco che fa
del termine idea », ma la più rispondente al suo pensiero metafisico è la seconda.
Nei Dialoghi tra Hylas e Philonous, scrive testualmente: dal fatto che il mondo
esiste in quanto vi è uno spirito che se lo rappresenta, io non deduco che le cose non esistono
realmente », ma siccome non dipendono
dall'essere percepite da me ed esistono indipendentemente dalla mia percezione concludo che deve esistere un altro spirito
nel quale esistono ». Dunque, per il Berkeley a) le cose esistono realmente; £)
non esistono perchè io o un’altra coscienza finita ce le rappresentiamo; c)
siccome però non possono esistere da sole per la loro finitezza e contingenza,
esistono per uno Spirito infinito ed assoluto, cioè in quanto Dio le fa essere;
d) ma Dio fa essere le cose pensandole, cioè secondo un esemplare di verità; e)
dunque le cose sono in quanto Dio (la Mente) le pensa. Interpretato così le idee hanno un valore oggettivo di esemplari
eterni della Mente creatrice è sulla
linea dell’idealismo oggettivo. Dio non conosce questo mondo perchè esiste, ma
questo mondo esiste perchè Dio lo conosce; e S. Tommaso: Universas creaturas
non quia sunt, ideo movit Deus, sed ideo sunt quia movit. Che sia così lo prova
anche il celebre esse est peraipi: l'essere delle cose non è nel percepirle (in tal caso la loro realtà sarebbe
posta dal soggetto come per altre forme
di idealismo), ma nell’ essere percepite », cioè nell’ essere pensate come idee
da una Mente. Infatti, il mondo è in quanto Dio l’ha creato, cioè lo ha pensato
nel suo ordine o nella sua verità. Berkeley più che gnoseologo è metafisico:
tema primo della sua speculazione è la teologia naturale, esistenza di Dio e
degli spiriti finiti. Egli con la sua metafisica interiorista c non cosmologica
e gnoseologista, s'inserisce nella linea platonica; meglio, per restare più
vicini al suo tempo, in quella pascaliana e non nella cartesiana. L'esistenza
di Dio 175 stico razionalismo deduttivista, pone l’istanza del concreto, rivendica
il valore dell’esperienza e della singolarità degli enti, il fatto o il dato
dell’esistenza. Le due istanze vanno conservate e perciò pongono il problema
della loro sintesi. Il vichiano giudizio
storico », sintesi di filologia e filosofia », è il primo tentativo in tal
senso: Vico, da questo punto di vista, oltrepassa la filosofia europea del suo
tempo. La sintesi a priori di Kant e la percezione intellettiva del Rosmini sono la
maturità del problema e le sue due soluzioni. Dunque, dopo Vico Kant Rosmini,
non c’è più questione sulla sinteticità dell’atto del conoscere, ma c’è,
capitale e decisiva, sulla natura della forma o del principio della validità
del conoscere stesso. Le forme o i princìpi sono: 4) funzioni del pensiero, o
5) sua attività creatrice, o c) dati al pensiero, suo oggetto, sapere
originario? Questa la gran questione: la prima risposta differenzia Kant
dall’idealismo trascendentale (seconda risposta) e la terza oppone Rosmini a
Kant e all’idealismo. Come si vede, è in questione il problema della validità
del giudizio: l’4 priori è oggetto della mente, o suo prodotto? Torna in
discussione, in piena maturità del pensiero moderno, il problema centrale della
teoria della conoscenza di S. Agostino. Le risposte kantiana ed idealistica,
anche se in diversa maniera, fanno il pensiero umano creatore della verità,
fondamento a se stesso: il primo ontologico è il primo conoscitivo. La risposta
rosminiana, conforme nello spirito a quella di S. Agostino e della tradizione
platonica, fa della verità primale il lume dell’intelletto, dono di Dio, una
Sua presenza alla mente. La verità, così intesa, implica l’esistenza di Dio ed
è il fondamento dell’argomentazione razionale che la dimostra. La prima
risposta dice: l’uomo dà la verità a se stesso », e con ciò divinizza l’uomo e
nega Dio: è la risposta atea; la seconda: l’uomo riceve la verità da Dio », e
con ciò stabilisce un rapporto di dipendenza essenziale tra l’uomo e Dio: è la
risposta teista. Ma la prima risposta, dopo Hegel, avanza verso uno sviluppo fa176
a Filosofia e Metafisica tale: se l’uomo dà la verità a se stesso, la verità è
tutta umana »; dunque, deteologizzazione dell’uomo e della sua verità. Lo
scetticismo è inevitabile e, con esso, il nullismo. Lo sviluppo è coerente:
dalla negazione di Dio alla divinizzazione dell’uomo; dalla deteologizzazione
dell’uomo alla sua negazione, al nulla. La parabola dell’immanentismo si
conclude nell’assurdo; e la verità del teismo riemerge nella sua
indistruttibilità. Non ci meraviglierebbe che qualche Don Abbondio, molto
superficialmente, ci accusasse di ontologismo e pensasse a chi sa quali lontani
pericoli ». È necessario intenderci sulla questione, anche perchè non ci sembra
onesto che l’accusa sia lanciata, com’è stato fatto, a chi dall’errore è
immune. C'è conoscenza mediata di Dio quando: @) obiectum se reddit
cognoscibile per aliam realitatem quae illi est quodammodo similis; b) res
cognoscitur per speciem alterius rei (cognitio rei per speciem relucentem in
speculo, v. g. sensitiva). Crediamo che quanto abbiamo detto a proposito della
dimostrazione dell’esistenza di Dio risponda perfettamente alle due
proposizioni: a) la verità che la mente umana intuisce non è la Verità in sè o
Dio, quantunque ad essa simile; 5) conosciamo Dio per l’immagine di Lui
riflessa nello specchio della nostra anima senza che ci sia nota la Sua intima
essenza. Immagine di Dio, dunque, che non è Dio; essa fa che Lui, pur essendo
la sua natura diversa da quella della creatura, non sia un fine separato
dall’uomo, come pensano anche S. Agostino e il Rosmini, ma comunicabile, per
opera di Dio stesso, alla sua intelligenza e alla sua volontà, per cui l’uomo,
tornando al Creatore attraverso la Sua presenza in lui, opera di Dio stesso,
compie un atto che ha con Dio una relazione essenziale. Nella nostra mente 178
Filosofia e Metafisica vi è una verità primale che viene da Dio e dunque qualcosa
di divino, per cui l’ente pensante è unito al Creatore attraverso
l’intermediario della verità. Consegue che lo spirito che cerca la verità cerca
Dio: chi pensa la verità e nella verità pensa Dio ed ha Lui come fine. In
questo senso abbiamo detto che il pensiero umano è per sua natura teistico. In
altri termini: la presenza immediata della verità alla mente non significa
presenza immediata di Dio, intuizione della Sua essenza o contatto diretto
della mente; significa solo presenza immediata della verità com’è data alla
mente da Dio, e non della Verità com'è in Lui, cioè di Dio stesso. Se qualcuno
ci accusasse ancora di ontologismo gli domanderemmo se esclude qualsiasi
rapporto tra l’uomo e Dio, qualsiasi forma di unione, sia pure indiretta, di
partecipazione, sia pure mediata. Se così, gli obietteremmo che ha separato il
Creatore dalla creatura e che non incontrerà mai Dio col pensiero: se per noi
il pensiero è teistico, per lui è ateistico. Certo, non vi è visione immediata
di Dio nè conoscenza, nell’ordine naturale, della Sua essenza ed è errore
l’ontologismo inteso come cognizione diretta di Dio; ma vi è un tipo di
ontologismo sfido l’uso della parola
compromessa diverso dall’altro, anzi di
esso la confutazione, il quale non esclude l’intuizione di verità
intelligibili, interiori alla mente umana, anche se in maniera oscura e confusa
e poi sempre più chiara e distinta. Non si tratta d’innatismo, come abbiamo
sopra chiarito, ma d’inzeriorità, di presenzialità della verità in noi e a noi,
non di dato inerte gettato nell'anima come in un pozzo, bensì di energia operante,
di presenza attiva e attivante il dinamismo del pensiero, da essa orientato e
guidato e senza di essa inesplicabile ed incomprensibile. E interiorità della
verità significa trascendenza della verità stessa. Ora, se per ontologismo
s'intende intuizione o visione immediata e diretta di Dio, il nostro,
ripetiamo, non lo è affatto; se, invece, si considera impropriamente e a torto
on. L'esistenza di Dio 179 tologista ogni posizione filosofica che ammette
verità anteriori all'esperienza e interiori alla mente che le intuisce, allora
anche il nostro è ontologismo, che però non ha niente da spartire con l’altro.
Infatti, per noi, di Dio vi è solo conoscenza mediata ed indiretta, per
partecipazione e analogia; dunque, l’impropria qualifica ci lascia
perfettamente tranquilli, perchè confortati dalla solidarietà anche di chi ci
chiama ontologisti, tranne che, illuministicamente, non sostenga che l’uomo sia
del tutto separato da Dio. E che noi parliamo di analogia e non di univocità
nessun lettore di buona volontà può metterlo in dubbio. Vedere », intuire la verità che è in noi, non è affatto vedere », intuire Dio: non conosciamo la Verità in sè,
ma quanto di essa è riflesso nello specchio della nostra anima: videmus per
speculum. Tra la verità in noi e la Verità in sè vi è somiglianza»: dunque rapporto di analogia », che esclude l’identità o
l’univocità delle due nature. La mente partecipa » della divina Verità non
direttamente, ma mediatamente, attraverso l’intermediario della verità riflessavi,
per cui la verità in essa non è come è in Dio: è riflesso divino senza essere
Dio, che, non ora, ma d/lora vedremo facie ad faciem (!). La verità, lume e
vita dell’umana mente, ha i caratteri divini della immutabilità e
dell’assolutezza, ma non è Dio: è il più splendido riflesso » di Lui (?). In
questo riflesso la mente vede ciò che conosce assolutamente e ciò si dice omnia
in divina veritate vel rationibus acternitatis videre et secundum cas de
omnibus iudicare (*). Così S. Tommaso interpreta rettamente non ontologisticamente nè aristotelicamente S. Agostino: l’analogia da noi stabilita tra
Dio-Verità e la verità in noi è identica a quella tomista tra l’essere riferito
a Dio e l’essere riferito a noi. S. Agostino, De Trinitate,
1. XV, c. 8, n. 14. (2) S. Acosrino, De Gen. ad litteram, 1. X, c. 24, n. 40. (3) S. Tommaso, Summa contra
Gentes, l. Ill, c. XLVII. 180 Filosofia e Metafisica 2. Conoscersi ed essere conosciuti. Essenziale il
problema del conoscere, ma più, quello dell’essere conosciuti; infatti,
l'indagine sul fondamento metafisico della conoscenza ha rivelato che l’uomo conosce
ed è capace di verità in quanto è conosciuto. Il socratico conosci te stesso », al pari del cartesiano
Cogito, va anch'esso integrato: Conosci
te stesso e saprai che sei conosciuto »; conosci te stesso e dentro di te
troverai la presenza di Dio; non avrai conosciuto te stesso fino a quando non
avrai trovato questa presenza. La scoperta della verità in noi, il passaggio
dal suo stato implicito e oscuro, avvertito quasi come un lontano
presentimento, allo stato d’intuizione chiara ed esplicita è una folgorazione,
come se un fascio di luce investisse di colpo e improvvisamente la mente umana.
Perciò l’intuizione della verità ci dà ad un tempo gioia e sgomento, senso di
possesso e di ossequio: scopriamo in noi qualcosa che è più di noi. Nel momento
che l’intelligenza è folgorata, quello della scoperta, una ricchezza la riempie
e la fa folgorante: ricchezza e povertà, quella di chi è ricco per avere
ricevuto in dono la ricchezza per cui è ricco ed insieme povero, in quanto è
solo minimo anticipo per guadagnarsi la vera Ricchezza. Umiltà ed entusiasmo:
umiltà di fronte alla verità che è divina; entusiasmo chè essa, che è più di
noi, è in noi. La verità intuita è indissolubilmente della nostra mente: figlia
della verità, perchè tale, la mente è partorita madre di verità, creatrice di
molteplici veri. L'intelligenza è poessca; creatrice di bellezza, di bene, di
giudizi veri in forme sempre nuove ed infinite. Una verità scoperta è il motivo
centrale che ritorna, come in una sinfonia, variamente orchestrato nei veri che
produce; c’è armonia, profonda, della intelligenza, del senso e della ragione;
c’è l’unità concreta dello spirito nella luce della verità, il quale vede
chiaro dove prima era buio, ha potere penetrativo e dimostrativo. La scoperta,
che L'esistenza di Dio 188 è nostra, della verità ci eleva al di sopra di noi
in una zona di luce, al di là della quale permane il sacro mistero di Dio: la
verità che ci sovrasta rimanda ad un Mistero che ci sommerge; ma nel suo abisso
presentiamo che sarà la nostra chiarezza totale e definitiva, alla quale tende
la mente, dal mistero sgomenta ma dal presentimento esaltata. È il limite della
filosofia totale dell’uomo integrale, quella che è mania: meraviglia, entusiasmo,
follia. La verità in noi stimola, percuote, pungola, sferza, fa di chi la ama
un genio di verità . La preghiera del
filosofo alla verità che lo genera e lo fa padre di veri è una sola, semplice e
vera: Signore, che sei la Verità, fa che
io, nella umiltà della mia piccolezza e nell'amore per la Tua grandezza, possa
essere il più pazzo dei saggi . I risultati, a cui fino ad ora la nostra
ricerca ha approdato, possono essere così riassunti: 4) la mente creata e finita
conosce verità immutabili e necessarie, di cui, per quanto oscura e confusa, ha
intuizione originaria: le sono presenti, interiori; 2) di esse la ragione si
serve per giudicare di ogni cosa; c) son queste verità che ci insegnano, quasi maestro interiore , la presenza di Dio in noi;
d) esiste la Verità, dunque, esiste Dio. Se non esistesse non esisteremmo noi
stessi e non potremmo neppur dire che Dio esiste, in quanto mancheremmo di
intelligenza. Degli scettici del suo tempo Aristotele scrive: somigliano più a
delle piante che a degli uomini (4); lo
scetticismo, in qualunque tempo, prima o poi, finisce fatalmente per abbassare
l’uomo al puro livello biologico. L'osservazione di Aristotele, profondissima,
merita un breve commento. Lo scettico nega che il pensiero umano sia capace di
conoscere la verità che gli compete: fatto per la verità, non la conosce;
dunque il suo valore e il suo essere sono nulli. Ma l’uomo è uomo per il
pensiero (intelli(I) ArisroreLE, Met., l. IV, c. 3. L'esistenza di Dio 183
genza e ragione): negare l’uno è negare l’altro, è fare che l’uomo somigli più
a delle piante che all'uomo che è. Oppure: il pensiero, senza il suo oggetto
naturale che è la verità, è il non-pensiero; l’uomo, che è non-pensiero, è
non-uomo: un puro vegetale o un puro animale (livello biologico). Qualsiasi
questione sull’uomo non ha più senso, ma appunto per ciò, non ha senso lo
scetticismo, che, nel suo stesso porsi, è contraddittorio: si autonega. Non
solo lo scetticismo, ma ogni posizione filosofica che nega una verità oggettiva
è negazione del pensiero e dunque dell’uomo; lo è l’idealismo storicista e
dialettico. Se la verità e la sua validità sono storiche, consegue che il
pensiero greco è la verità storica dell’antichità, quello cristiano la verità storica del mondo moderno, ecc. Ciò significa semplicemente
che l’uomo non è capace di verità e non vi è verità, perchè verità significa
verità e nient'altro: nè antica nè medioevale nè moderna, ma verità scoperta nell’antichità o nel medioevo, da
greci o da italiani valida per ogni ente
pensante, una volta scoperta e acquisita al pensiero. Se la verità è dialettica
e la dialetticità è l’essenza del reale, consegue ancora che niente ha essere e
nulla è vero: la realtà o la verità di ciascun ente è in rapporto al suo contrario dove si nega e si conserva
dialetticamente. Nessun ente è quello che è: è nel suo conservarsi
distruggendosi; nessun ente ha una sua realtà o essenza e la verità non è tale.
Noi abbiamo difeso la presenza oggettiva della verità alla mente, perchè solo
così si può difendere la validità del pensiero e con essa l’uomo: perdere la
verità è perdere il pensiero, è svuotare l’uomo di se stesso, della sua natura,
farlo somigliante, come dice Aristotele, alle piante e alle bestie. D'altra
parte, se si nega validità oggettiva al sapere umano, si nega il fondamento
naturale di quello rivelato, cioè la base della fede. A chi avrebbe parlato Dio
se l’ente pensante non avesse lume oggettivo d’intelletto e discorsivo potere
di ra184 Filosofia e Metafisica gione ? Il suo discorso agli uomini avrebbe, in
tal caso, lo stesso senso, cioè nessuno, che per le piante e le fiere; o tanti
sensi mutevoli quante sarebbero le contingenti posizioni storiche del pensiero, o le autonegantesi sue posizioni
dialettiche j cioè ancora alcun senso
sensato. 2. La prova dalla vita morale.
Fino ad ora abbiamo insistito sull’attività intellettiva, affinchè la prova non
sembrasse pregiudicata da altri elementi, e soprattutto perchè qualsiasi altra
possibile dell’esistenza di Dio, a nostro avviso, presuppone quella dalla verità . Ma ora è necessario analizzare
gli altri aspetti della vita dello spirito, affinchè la prova manifesti tutta
la sua aderenza all’uomo nella pienezza della sua integralità e riveli intera
la sua forza normale. La verità originaria presente alla mente non interessa
solo la vita intellettiva, ma ogni forma della nostra attività. Anche la vita
morale ha il suo fondamento nei princìpi originari che guidano, orientano e
informano ogni azione, quantunque nessuna li adegui: ne sono la misura
senz’essere da essa misurati. L'azione buona o
quella doverosa non fanno essere bontà e dovere, anzi non vi
sarebbero senza la bontà e il dovere, che invece sarebbero ugualmente anche se
nel mondo non fosse e non fosse mai stata alcuna azione buona e doverosa.
Possiamo concludere: non vi sono i valori morali perchè esistono le azioni che
li esprimono, ma queste in quanto esistono quelli, preesistono a tutte le
azioni e ne sono indipendenti. I valori morali sono innanzi tutto verità
oggettive, intuite dalla mente; in questo senso, anche se pratici , sono teoretici, regole della volontà
che ad essi è obbligata a subordinarsi, e ai quali si subordina e uniforma ogni
qualvolta ne riconosce la verità ed il pregio: è la volontà volente
secondo l’ordine morale. La ragione speculativa giudica di ogni L'esistenza di
Dio 185. cosa secondo i princìpi primali del giudizio; la ragione pratica di
ogni azione secondo i valori morali, i quali sono verità (e come tali teoretici
) regolatrici della volontà e della nostra condotta e perciò aventi un uso
pratico. Per conseguenza, come alla mente sono dati i princìpi fondamentali del
conoscere, così le sono dati quelli del volere; dalla presenza in noi di verità
speculative si argomenta l’esistenza di Dio come Verità in sè; dalla presenza
in noi dei valori morali si argomenta l’esistenza di Dio come Valore assoluto,
Bene sommo. L’argomentazione è identica a quella fatta a proposito della prova dalla verità : la mente umana è capace di
conoscere valori morali assoluti che sono la vita, la forza e l’efficacia della
volontà che di essi è come la rivelatrice; essi non sono creati dalla mente o
dalla volontà, nè indotti a posteriori dall’esperienza, la quale anzi li
presuppone; dunque esiste Dio come Valore assoluto o assoluta Volontà creatrice
di tutti i valori, di essi fondamento e sostegno. Il bene morale è anche attrattivo
; la sua attrazione conferisce alla prova una nuova sfumatura e
rivela tutta la sua potenza dinamica. Oggetto naturale della volontà è il bene,
sua verità; essa ne è attratta, anche quando lo misconosce e gli si pone
contro: il pentimento del male fatto, rivincita del bene, è opera della sua
forza di attrazione. Il bene è il principio motore della volontà e l’elemento
informatore delle volizioni. Non c’è felicità senza bene; il suo possesso è la
felicità di ogni ente spirituale; dunque il bene è il principio di ogni nostra
azione. Vi è una intuizione intellettiva di esso, una presenza, che è presenza
di Dio come Bene sommo; non intuizione, ma ancora immagine reale di Lui e
pertanto il rapporto tra il bene intuito e Dio come Bene Sommo è sempre
analogico. Intuizione operante, creatrice: conoscere il bene e volerlo è
amarlo, esserne attratti; esso genera il movimento della volontà e ne concentra
gli sforzi verso lo stesso fine, che non è solo il bene che l’ente 486
Filosofia e Metafisica finito può conoscere e praticare, ma, attraverso questo,
è il Bene Sommo, che trascende ogni bene e lo fonda. Amare il bene è operare
nel bene, che si possiede in esso operando; le azioni buone sono le risposte
veraci che noi diamo all’oggetto della nostra suprema aspirazione. Solo quando
il bene diventa regola costante e continua della condotta, l’ente razionale,
stimolato interiormente dall’attrazione del Bene sommo, cammina e si approssima
sempre più alla meta. È la saggezza, ma saggezza mossa, inquieta ed attiva,
ricca ed indigente, suscitatrice di sempre nuove risposte secondo la norma
regolatrice ed orientatrice. Il Bene Sommo, lume della mente e della volontà,
illuminando, ama: Dio illumina ed il suo lume è amore; noi, gli illuminati, ci
illuminiamo amandoci ed amando gli altri enti creati. L'amore è l’attrazione
del bene; Dio è l’attrazione assoluta del Bene assoluto. Il dinamismo della
volontà, alla quale è presente il bene, è originariamente orientato verso il
Bene Sommo o Dio, Centro assoluto di attrazione, unificatore di tutti i suoi
sforzi, che, altrimenti, sarebbero inspiegabili, inintelligibili. L’ente
spirituale finito ha dunque il desiderio naturale del Bene Sommo, assolutamente
ed infinitamente perfetto. 3. La prova
dal desiderio naturale di beatitudine. L’ultima proposizione è la maggiore , se alla dimostrazione si dà la
forma sillogistica, di un 'altra prova dell’esistenza di Dio, la quale si fonda
pur essa su quella dalla verità .
Infatti, la proposizione tutti gli
uomini desiderano naturalmente il Bene sommo, infinitamente perfetto non
sarebbe formulabile se non avessimo la nozione del bene oggettivo; ma tale
nozione non potremmo avere non la crea
la mente altrimenti l’uomo sarebbe Dio, nè si può indurre dall’esperienza la
quale, al contrario, la presuppone se
non ci fosse data originariamente come oggetto intuito. Per conseguenza: ) gli
uomini desiderano natural. L'esistenza di Dio 187 mente il Bene sommo solo in
quanto vi è in loro la sua presenza indiretta, ma attiva ed operante; 5) il
desiderio del Bene sommo presuppone dunque la nozione di esso, cioè un
principio di verità. Ciò rileva diciamo
fugacemente quanto sia errata
l’interpretazione modernista di tale argomento, la quale si fonda su un
presupposto agnosticismo che distrugge fin dall’inizio il fondamento oggettivo
della prova; come pure quella pragmatistica, che, negato il suo valore teoretico,
limita la forza dell’argomento alla sua portata pratica e volontaristica.
«Tutti gli uomini cercano di essere felici; senza eccezione. Quali che siano i
differenti mezzi che adoperino, tendono a questo scopo... La volontà non muove
mai il più piccolo passo se non verso questo oggetto. È esso il motivo di tutte
le azioni di tutti gli uomini, financo di quelli che si vogliono perdere... ;
così Pascal in una delle sue Pensées. Questo desiderio di felicità, naturale ed
irresistibile, è il movente della volontà che, spinta di volizione in
volizione, non sa e non può arrestare il suo dinamismo se non quando fruisce
del Bene infinitamente perfetto. Ma nessun bene finito può adeguare le tendenze
e i desideri della volontà, il suo desiderio intimo e profondo del Bene
assoluto, anzi il possesso dei beni finiti lo accresce sempre di più: la «
volontà voluta non adegua la « volontà
volente , che vuole ancora e vorrà sempre fino a quando non possiederà
l'oggetto della sua suprema aspirazione, come scrive il Blondel. Ma se è così,
se gli uomini, anche quando si perdono, vogliono la felicità piena quella che non rinvia è evidente che la loro volontà è
originariamente orientata verso il suo fine assoluto, cioè che è in essa la
presenza di quel Bene sommo a cui aspira. Si può dire con Agostino: qualsiasi
cosa l’uomo cerchi e voglia, cerca e vuole Dio. C’è al fondo del desiderio
naturale di beatitudine il bisogno di fedeltà ad un bene a cui si può restare
sempre fedeli perchè assoluto: l’infinita capacità di 188 Filosofia e
Metafisica volere trova in esso il suo oggetto adeguato, la volontà realizza il
piano di se stessa. Venir meno a questa fedeltà è la caduta dell’uomo al
disotto dell’uomo. Vi è un dramma essenziale alla radice della volontà: vuole
con tutta se stessa il Bene assoluto e sa che anche la fedeltà e l'impegno al
massimo della loro forza normale non la garantiscono dalla caduta, nè bastano
ad ottenere da soli la beatitudine; ma sono la condizione indispensabile perchè
essa resti conforme alla sua norma e non evada dalla sua partecipazione finale.
Infatti, orientare tutta la capacità della volontà volente verso un voluto
finito è atto innaturale, è la guerra della volontà contro se stessa, contro il
suo desiderio naturale del Bene infinito; è il male, in quanto, dato che il
desiderio di infinito è indistruttibile, l’infinita capacità di volere,
concentrandosi in un finito, lo assolutizza, non lo riconosce per quello che è.
Così l’aspirazione all’infinito, teista e religiosa, degrada in idolatria e
fanatismo. È il sovvertimento: dir vero al falso per aver detto falso vero.
L'autenticità della natura umana è perduta fino a quando, caduto l’idolo,
l’orientamento genuino della volontà non riprende il suo corso naturale e non
si eleva al vero livello umano di desiderio naturale di beatitudine in Dio. Ma
l’esigenza, come la pura esperienza vissuta, non basta e, se puramente
psicologica, non è dimostrativa. Rispondiamo: 4) qui si tratta di un’esigenza
naturale, essenziale ed universale dello spirito e, come tale, dell’essere
umano; 5) i dati psicologici non sono illusioni ma realtà psicologiche; c)
l’esperienza interiore, per il fatto che è tale, è più vera di qualsiasi
esperienza esteriore; d) non ci troviamo di fronte al puro dato psicologico nel
senso ristretto e soggettivistico del termine, ma alla vita dello spirito, che
è un dato reale e all’intuito fondamentale del bene, oggetto della mente. Ora,
il dato psicologico che qui consideriamo tutti gli uomini desiderano la felicità piena
e dunque tutti aspirano al Bene L'esistenza di Dio 189 sommo, il solo che possa
appagare questo loro naturale desiderio o essenziale esigenza oltre che indicativo di una condizione reale,
è anche aztestativo o testimoniante, in quanto quella condizione sarebbe
inesplicabile senza la nozione o la presenza interiore del Bene sommo,
inquietudine e movimento della volontà, verso cui è attratta in un dinamismo
che in questo scopo unico ed assoluto trova la sua direttrice essenziale e la
sua unità totale. Ma proprio nella indicatività e attestazione della condizione
reale è il fondamento della dimostrazione razionale che giustamente si esige;
non vi potrebbe essere nella volontà la presenza creatrice di tanta vita
spirituale ed orientatrice di ogni desiderio ed azione, se non esistesse il
Bene sommo, a cui la volontà stessa aspira. In breve: non vi sarebbe nell’uomo
desiderio di Dio, se Dio non esistesse. L’ indicatività dell’esigenza, chiarita, approfondita e colta
nella condizione naturale dell’ uomo, si rivela fondamento oggettivo della
dimostrazione razionale. Ma se è così, anche se il desiderio di Dio si
manifesta per ultimo, anche nel caso che non si manifestasse affatto, esso è
ugualmente il motore interiore di tutto il dinamismo della vita spirituale:
senza questa originaria presenza della
trascendenza (dell’Al di là interiore e
trascendente) l’uomo sarebbe privo di ogni segno di Dio perchè da nient'altro
potrebbe riceverlo o ricavarlo. Giustamente San Tommaso nota che il desiderio
naturale e necessario del fine ultimo o del Bene sommo non è una inclinazione
incosciente, contingente e transitoria della volontà, ma un’inclinazione
consapevole, che ci porta verso il bene, non della sola volontà, ma di tutto
l’uomo (7). Gli altri desideri non sono che in funzione dell’appagamento del
desiderio essenziale e fondamentale della beatitudine, cioè del possesso del
Bene sommo (5); dunque, (2) S. Tommaso, De veritate, 22, 3, ad 5 m. (3) Qui non
si confondono affatto Bene e felicità, Valore e beatitudine: l'aspirazione alla
felicità non significa volere il Benc per la felicità. Se fosse possibile
pensarlo senza contraddizione, si potrebbe dire ed è stato detto dai mistici,
190 Filosofia e Metafisica la spiegazione di tutto il movimento della volontà
va cercata in questo implicito
essenziale , sua unità primitiva, di cui le singole azioni non sono che
l’esplicazione parziale e a cui tendono tutte come alla suprema unità finale.
Il bene infinito a cui la volontà tende è la ragione per cui vuole gli altri
beni: come l’oggetto della intelligenzaè il Vero assoluto, così l'oggetto della
volontà è il Bene sommo. L'ente spirituale è capace di desiderare l’Infinito e
perciò è vita perenne e dinamismo ascendente. Dinamismo verticale e non orizzontale,
che è di ordine fisico o biologico e non di natura spirituale; la dinamica
dello spirito è processo di trascendenza reale e non apparente o spuria, quello
che si mantiene sempre allo stesso livello, e non ascende, che guarda avanti e non in alto , avanza ctelluricamente verso ciò che è più ir /è e non sale iperuraniamente verso quello che è 42 di lè. Noi abbiamo
perduto il senso profondo ed autentico dei termini più pregnanti e perciò più
ricchi ed espressivi della nostra vita spirituale, quali quelli di dinamismo,
ascesi, trascendenza, ecc., corrotti dall’uso immanentistico, e perciò
naturalistico, che li ha depauperati, depotenziati, detonalizzati. Un dinamismo
che non è mosso ed alimentato da un fine che lo trascende è agitazione
inconcludente ed arrovellamento disperato; una trascendenza come posizione
provvisoria di un che che sarà immanentizzato è appiattimento dello spirito
nell’orizzontalità del livello terrestre e perciò negazione del suo slancio
ascendente alla trascendenza vera. Chi dice che noi, tendendo all’infinito, lo realizziamo nel nostro stesso tendere e lo coe come espressione mistica non è
contraddittoria) che la creatura è disposta a soffrire tutte le pene anche
eterne, in vita e dopo la morte, pur di fruire del Bene sommo. Pertanto il
desiderio di beatitudine Jo è del Bene assoluto in sè, anche se tale possesso
dovesse comportare l'eterno dolore; ma, senza che la creatura si preoccupi della
propria felicità, il Bene sommo per se stesso voluto è già tutta la beatitudine
dell’ente creato. In altri termini, il desiderio naturale di beatitudine, se il
possesso del Bene esigesse tutta la nostra infelicità possibile, sarebbe ugualmente
desiderio di beatitudine e felicità. L'esistenza di Dio 198 struiamo nel nostro divenire, dice cosa che non ha
alcun senso e, degradando l’infinito alla nostra finitezza, degrada noi al
livello della fisicità e ci assimila alle cose. Il Gott-imwerden di Hegel è
un'espressione senza senso, in quanto usa il termine Dio e dice di Lui cosa che
Lo nega, contraria alla Sua natura. Dio non è un fine che produce l’uomo ed è ridicolo che lo possa produrre ma un fine a cui l’uomo tende e
può attingere ; e ogni fine a cui si tende e che si vuole attingere presuppone precisamente l’esistenza del fine
desiderato. Dio, dunque, a cui ogni uomo tende, è la Mente che è Verità, la
Volontà che è Bene assoluto: è la Persona assoluta, fondamento di ogni vero e
di ogni bene e perciò essenzialmente e perennemente creatrice. Il Bene sommo
trascendente è appunto il fine adeguato dell'umano naturale desiderio di
beatitudine. Sia, tutti gli uomini desiderano naturalmente il Bene sommo; ma
potrebbe darsi che, desiderandoio, tendano a qualcosa di inesistente e
impossibile. Abbiamo già risposto a questa obiezione, la cui forza è puramente
apparente, in quanto, dimostrato che tutti gli uomini desiderano naturalmente
il Bene sommo, è provato anche che il loro desiderio naturale non può essere
vano, proprio perchè naturale. Omne agens agit propter finem (*), e non vi è
desiderio naturale che sia privo del suo oggetto, in quanto un desiderio
naturale senza l’esistenza dell'oggetto proporzionato sarebbe contraddittorio
ed inintelligibile: una potenza senza il suo atto, nel linguaggio tomista. Per
conseguenza, come argomenta Campanella, se Dio non fosse, l’uomo non potrebbe
avere il desiderio dell’Infinito, in quanto la mente finita non potrebbe
eccedere il mondo nelle sue appetizioni; se lo eccede è perchè l’Essere
infinito dà fondamento a questo suo desiderio; dunque esiste il Bene sommo,
infinitamente per- fetto, nostro fine supremo e beatitudine. Il bene per sua
(4) S. Tommaso, Summa contra gentes, }. III, c. 2. 192 Filosofia e Metafisica natura
tende a comunicarsi; Dio, Bene sommo, è massima- mente diffusivo, Attività
creatrice, da e per cui è ogni bene creato, di Lui debole immagine. Ma per quel
che è di bene è reale, ordinato ad un fine, che è il principio ed il fine del
suo movimento (7). Ma anche la prova dal desiderio naturale di beatitudine
‘presuppone l’altra dalla verità , senza
l’intuizione della quale non vi sarebbe in noi il desiderio del Bene sommo, in
quanto l’uomo non sarebbe creatura intelligente. Dio, creandomi ente
intelligente, mi dà quanto è necessario che io abbia per essere tale; la verità
a me interiore fa che la mia vitaintellettiva resti sempre sotto la dipendenza
divina: cammino sulle orme di Lui e dunque su una via già se- gnata ed
orientata; perciò Dio è anche il fine ultimo della mia volontà. Nessuna verità
finita può soddisfare la mia intelligenza e nessun bene creato il desiderio
infinito della mia volontà; io ho avuto quanto basta affinchè la nostalgia
della patria sia invincibilmente impressa nella mia vita
spirituale e ne segni la via : et
irrequietum est cor nostrum donec requiescat in te (6). L’autocoscienza o la
consapevolez- za di quel che sono è insieme coscienza di me o dell’io e di Chi
o del Tx che trascende; sapere me è sapere che Dio è; ed è amarLo.
L’autocoscienza profonda, sapersi fino in fondo, involge la coscienza
dell’esistenza dell’ente finito e quella dell’Essere infinito. L’autocoscienza
kantiana ed idealistica, invece, è coscienza di me come trascendentalità o
unità delle forme trascen- dentali. Per conseguenza: è coscienza di me vuoto
(le forme a priori in sè sono vuote) o di me piero, ma del contenuto
dell’esperienza, delle cose, a cui è limitata l'applicazione va- lida delle
forme. La trascendentalità, com’è definita da Kant, (5) Il desiderio naturale
di beatitudine, come scrive il Blondel, sebbene spesso ciò si dimentichi, sostiene e comanda ogni speculazione
filosofica sul mondo, sull’umanità e sul loro destino (Le problème de la philosophie catho- lique,
Paris, 1928, p. 161). (6) S. Acostino, Confess., L I, c. 6, n. 1. L'esistenza
di Dio 193 non può mai riempirsi di Dio e perciò l’autocoscienza tra-
scendentale non può mai trascendere il mondo, non è mai coscienza di me e di
Chi mi trascende. L’idealismo trasforma l’Io trascendentale kantiano in entità
metafisica per cui, da un lato, elimina il concetto di noumenicità (non vi è la
cosa in sè come pensabile), e dall’altro, dato che l’As- soluto è lo stesso Io
trascendentale, lo identifica coerente- mente con l’unità del mondo. Così
l’autocoscienza resta pri- gioniera della trascendentalità e lo spirito, tutto,
si assimila alla natura: l’immanentismo è cosmismo assoluto. L'uomo muore nella
trascendentalità: il suo desiderio naturale di beatitudine è compresso e
soffocato; il suo fine ultimo è il mondo, il suo unico amore la terra. Dio è
morto e, con Lui, l’uomo. Da quanto abbiamo detto, appare evidente che la prova
dalla vita dello spirito non è riducibile nè a quella onto- logica
nella forma di Sant’ Anselmo e nelle altre che ha rice- vuto nel corso della
storia della filosofia, nè alla prova cosmologica, di cui la più chiara ed
esatta formulazione sono le cinque vie di S. Tommaso. Non è riducibile, ma non ne
esclude alcuna, anzi le include e, a nostro avviso, dà loro più forza, perchè
di esse è il fondamento. Sarebbe quanto mai opportuno, ma non rientra nei
limiti della nostra indagine, un esame approfondito delle due prove ontologica
e cosmo- logica, nelle diverse e pur simili formulazioni che hanno avuto, in
rapporto a quella da noi sostenuta; mostrerebbe come esse, in molti punti
concordanti e convergenti, sono riducibili in fondo ad una sola. Qui ci
limitiamo a qualche osservazione, che giova a chiarire quanto abbiamo scritto. La prova ontologica. È la più accanitamente
difesa e combattuta, ma resiste sempre; non si tratta di respingerla o
accettarla integralmen- te, ma di bene intenderla e soprattutto di integrarla.
Infatti, se essa presuppone la prova dalla verità , tipica di S. Ago- stino, ci
sembra impossibile non riconoscerla vera, in quanto, in tal caso, muovendo
dalla realtà della vita spirituale, vien meno la forza della principale
obiezione: impossibilità L'esistenza di Dio 195 di dedurre dall’idea di Dio la
sua esistenza, di passare dal- l’ordine del pensiero a quello della realtà. A
nostro avviso, l'argomento di Anselmo presuppone la dottrina agostiniana della
verità e va inteso all’interno di tutto il suo pensiero. I sostenitori della
prova ontologica, S. Anselmo e S. Bo- naventura sicuramente, sono preoccupati
del fatto che, se la nozione di Dio non è in noi, non può in alcun modo essere
indotta dall’esperienza delle cose finite. Ciò significa: se non è presente
alla mente e da essa interiormente intuita la ve- rità, fondamento di ogni vero
particolare e modo come Dio può essere in noi, non è possibile all'uomo
partecipare del suo Principio: senza una verità originaria che illumina la
mente, egli non è capace di verità e di argomentare secondo verità; di pensare
e pensare Dio. Ma ciò più che dall’Idea di Dio, come chiariremo tra poco, è
partire dal fatto del pensare: è un fazto che la mente conosce verità aventi i
caratteri divini della necessità, dell’immutabilità e dell’assolutezza; un
fazto che essa non le crea e non le riceve dalle cose finite e contingenti;
dunque esiste Dio come Verità in sè, da cui deriva la verità che è in noi.
Intuire l’idea di Dio è possibile in quanto si intuisce la verità in noi,
quella di cui Egli ci ha fatto partecipi e che è presenza di Lui; verità
illuminante e operante, tanto è vero che le operazioni della ragione (il
giudizio e la dimostrazione) sono possibili in quanto presuppongono quel lume
di verità che è anche lume di bene, che alimenta il movimento della volontà e
fa che sia desiderio ed amore del Bene sommo. Se teniamo presente la
formulazione agostiniana della prova dalla verità nella forma sillogistica in cui l'abbiamo
enunciata, la minore la mente umana
intuisce verità immutabili e assolute, ad essa superiori implica
l’esistenza di Dio, cioè della Verità in sè: non vi potrebbe essere verità
presente alla mente e ad essa superiore se non esistesse la Verità. Abbiamo
avuto cura di dimostrare che non c’è verità semza un pensiero che la pensa e
che, d’altra parte, 19% Filosofia e Metafisica non c’è pensiero senza verità:
nell’uomo vi è verità, dunque egli è un ente pensante; privo della verità
cesserebbe di esserlo. Per conseguenza: esiste un pensante, dunque, esiste Dio,
Pensiero assoluto creatore di ogni ente pensante. Certo, per analisi, posso
distinguere e distinguo tra il pensare e la verità oggetto della mia mente, ma,
in concreto, il pensare, perchè tale, involge già la verità e questa il pensiero
di cui è oggetto; dunque concretamente io esisto come essere pensante la verità
e pensante per la verità: l’una aderisce all’altro e sono inscindibili. Perciò
la prova dalla verità non muove da un possibile, ma dall’ente
pensante, dall’uomo. D'altra parte, la verità oggetto della mente e per cui la
mente è mente, non ha la sua sussistenza nell’ente pensante che la pensa, in
quanto questo è finito e contingente e quella infinita e necessaria; dunque,
pensata dalla mente, le è superiore. Di qui la necessità che esista il Pensiero
infinito, necessario e assoluto, Soggetto sussistente della Verità, che con
esso s’identifica. Nell’ente creato la verità non scindibile dalla mente è suo
oggetto, da nessuna cosu creata adeguato; perciò l’unità non significa anche
identità; nell’Ente increato Pensiero e Verità s’identificano. A noi sembra che
l’argomento ontologico di S. Anselmo vada inteso tenendo presente quanto già
detto. Egli muove dall’idea di Dio come l’essere di cui non si può pensare nulla di
maggiore ; tale idea importa innanzi tutto che sia pensata, cioè che vi sia una
mente che pensa; ma non vi può essere pensiero senza presenza di verità; dunque
l’idea di Dio importa l’esistenza di un ente pensante e, come tale, dotato di
verità. Per conseguenza, la presenza alla mente dell’idea di Dio presuppone
l’esistenza dell’ente che è pensiero ed è tale perchè in lui è presente la
verità; l'argomento ontologico presuppone la prova dalla verità . Una sarebbe la difficoltà, che
non è alcuna di quelle prospettate da Gaunilone, S. Tommaso e Kant: come fa
l’uomo a pensare Dio? ad averne un’idea vera? In fondo, l’ateo nega Dio per-.
L'esistenza di Dio 197 chè nega che si possa averne un’idea vera; se lo si convince
che l’idea di Dio è presente alla mente e che perciò negarne l’esistenza è
contraddittorio, si arrende 0, se non altro, si dispone a ragionare secondo
verità. Dunque, superata la difficoltà di come l’uomo abbia l’idea di Dio, la
prova è imbattibile, in quanto basta pensare Dio per pensarlo esistente.
L’alternativa che pone l’argomento ontologico è la seguente: o si pensa Dio o
non Lo si pensa; se lo si pensa, Dio esiste. L’ateo Lo nega perchè non pensa a
Dio nel momento che Lo nega: la sua mente è fuori di se stessa. Dunque,
ripetiamo, se Dio si pensa, esiste; ma per il fatto che la mente Lo pensa, le è
presente la verità e con essa l’idea di Dio. Ancora: se Dio è l’essere di cui
non si può pensare nulla di superiore, la mente, nell’atto che Lo pensa,
riconosce che le è presente qualcosa che è superiore ad essa, e ad ogni cosa
esistente o pensabile; per conseguenza conclude (l’argomentazione è identica a
quella della prova dalla verità ) che
esiste l’Essere assoluto. La verità presente alla mente le aderisce, come già
detto, per cui non c’è mente senza verità e verità che non sia oggetto di una
mente. L’idea di Dio, in S. Anselmo, va intesa allo stesso modo: in concreto,
c'è l’uomo pensante Dio e l’idea gli appartiene come qualcosa che fa parte
della sua natura; non il pensiero e l’idea di Dio, ma il pensiero che pensa
Dio. Così intesa, la prova perde quel carattere concettuale ed astratto che, a
prima vista, presenta e acquista tutta la sua concretezza: non muove dall’idea
di Dio, ma dall’ente pensante Dio, dal pensiero cui aderisce la verità,
connaturata, nell’atto creativo, alla creatura umana. Bisogna ancora notare che
nei sostenitori dell’argomento ontologico c'è un’altra preoccupazione
legittima, quella di dimostrare l’esistenza di Dio, ma del Dio cristiano, cioè
dell’Essere che è Pensiero e Volontà, Verità e Bene creatore, Verità
illuminante ed Amore. In altri termini, il Dio di cui 198 Filosofia e
Metafisica si dà la prova deve soddisfare non solo le esigenze della ragione ma
anche quelle della fede, dato che Egli è l'oggetto proprio della religione e
della coscienza religiosa. Per il filosofo cristiano, il problema
dell’esistenza di Dio si pone in questi termini: è razionalmente dimostrabile
l’esistenza del Dio a cui si crede per fede? Quale il fondamento razionale
della fede in Dio Padre, Creatore, Amore, Provvidenza? Per lui, senza che la
fede abbia a pregiudicare la razionalità della dimostrazione, non si tratta
solo della ragione, ma del suo uso cristiano, cioè della ragione posta a
servizio della fede; dunque di dimostrare non l’esistenza di un Dio Causa prima
non causata del divenire, Legge dell’Universo, come quello aristotelico, ma di
Dio Padre Creatore ecc., Spirito o Persona Assoluta. Posto così il problema, il
punto di partenza dell’argomentazione ha una grande importanza: bisogna partire
da un ente che contenga tutti gli elementi per concludere a Dio come è creduto
per fede e poi anche conosciuto esistente per ragione. Sant'Anselmo su questo
punto è molto esplicito, all’inizio: Ergo, Domine, qui das fidei intellectum,
da mihi, ut quantum scis expedire intelligam, quia es sicut credimus, et hoc es
quod credimus (Proslogion, c. II); e nella conclusione della sua dimostrazione:
Gratias tibi, bone Domine, gratias tibi quia quod prius credidi te donante, iam
sic intelligo te illuminante, ut si te esse nolim credere, non possim non
intelligere (Proslogion, c. IV). È qui il punto: la mente intende Dio perchè
Egli, la Verità, la illumina facendola partecipe di verità, di quelle che
rendono valida la discorsività razionale. In questo senso è vero che, se Dio
non fosse originariamente a noi interiore, non potremmo mai dimostrarne
l’esistenza, non saremmo neppure enti intelligenti e per conseguenza neanche
razionali. Ma, oltre a ciò, ripeto, resta l’altra preoccupazione testè notata:
chi parte dal mondo fisico rischia di non incontrare il vero Dio quello in cui si possa credere, che si possa
L'esistenza di Dio 199 pregare, adorare, sentire vivente nel cuore di ogni uomo
ma un Principio impersonale, una Causa
cosmica, una Legge suprema della natura, come capitò ad Aristotele, il filosofo
di un deismo ante litteram e non del teismo. Ciò spiega perchè San Tommaso,
filosofo cristiano, pur essendo aristotelico, ha trasposto il pensiero del
filosofo pagano in termini di pensiero cristiano; e perciò, nello spirito, non
è aristotelico. Di qui il pericolo, se ci si ferma alla scorza aristotelica del
suo pensiero e non se ne rivive la profonda ispirazione cristiana di origine
agostiniana, di essere cristiani di fede, ma aristotelici e dunque non cristiani di -pensiero, cioè dei piissimi... atei.
Invece, chi muove dalla vita dello spirito nella sua integralità, se riesce
nella prova, dimostra il Dio che è Mente e Volontà creatrici di spiriti e di
menti, Verità e Libertà creatrici di verità e di libertà a loro volta
creatrici; questo Dio si può pregare, adorare, sentire nel cuore. D'accordo: si
tratta di partire da un dato positivo di esperienza su cui esercitare la
riflessione; perchè non può essere la nostra vita spirituale? la nostra
esperienza interiore più ricca di ogni altra? Forse lo spirito e l’esperienza
interiore, la realtà umana, non sono dati positivi? Ma proprio l’esperienza
interiore e la vita tutta dello spirito sono intelligibili per il lume
interiore di intelligibilità che le fa tali, per la verità presente alla mente,
immagine di Dio, da Lui data. Da e per questa, e solo in quanto essa c'è, la
ragione argomenta che Dio esiste; rapporto di somiglianza e analogia,
razionalmente corretto e perfettamente ortodosso. Se l'argomento ontologico è
inteso nel suo nucleo di verità ed in stretto legame con la prova dalla verità , da esso presupposta, perde le
sue apparenze di astrattezza e di argomentazione dal puro dato concettuale.
Inserito nella realtà della vita spirituale non è più raggiunto dalle obiezioni
di Gaunilone o di S. Tommaso, il quale non nega la presenza in noi delle verità
prime che, anche se è necessaria l’esperienza per acquistarne consapevolezza
(vengono 200 Filosofia e Metafisica dopo cronologicamente ), non sono date
dall’esperienza sensoriale. Così impostato, l'argomento ontologico è di
un’evidenza fuori discussione derivantegli dall’identità in Dio di essenza ed
esistenza (!). La stessa affermazione che nell’essenza di Dio è contenuta
l’esistenza ha un significato più che altro chiaritivo ed esplicativo; in
effetti, non è che nell’essenza di Dio è contenuta la Sua esistenza, bensì che
la Sua essenza è necessariamente la Sua esistenza. Non essendo Dio ricevuto in
alcuna essenza specifica, come abbiamo detto sulla scorta di Tommaso, perchè la
Sua stessa essenza è l’atto di essere o
il suo atto di essere è costitutivo dell’essenza consegue ancora la identità perfetta di
essenza ed esistenza. Dire che a Dio è necessaria l’esistenza significa che
l’esistenza è identica alla Sua essenza, che non è alcuna specifica essenza; in
breve, Egli è la Verità che è Verità, l’Essere che è l’Essere e non può non
essere l’Essere: è l’Esistente. Chiaro che l’identità di essenza ed esistenza
vale soltanto per Dio e non per l’isola beata di Gaunilone o per i cento talleri di Kant;
isola beata, talleri e ogni altra cosa non possiedono l’esistenza in e da sè e
perciò dipendono dall’Essere che è l’Esistenza, da Dio l’Esistente assoluto. La
derivazione, nell’argomento ontologico, dell’esistenza dall’essenza serve per
convincere la nostra mente, a cui Dio non è evidente per se stesso, con la
forza del ragionamento;DI cioè è necessaria per la nostra mente finita, ma in
Dio (I) Com'è noto, pur ammettendo l’identità in Dio di essenza ed esistenza,
S. Tommaso critica l'argomento ontologico anselmiano: accetta le premesse, ma
nega la conclusione, non accorgendosi che è impossibile perchè contraddittorio.
S. Tommaso concede che l’Essere perfettissimo non può essere concepito senza
essere concepito esistente, ma aggiunge che ciò significa che esiste solo in
intellectu e non in rerum natura. L’obiezione non ha alcuna forza: l’Essere
perfettissimo, che non può non essere concepito che come esistente, per ciò
solo esiste. Il passaggio dall’ordine dell’idea a quello dell’esistenza è
richiesto da tutte le altre cose, che possono essere concepite esistenti e non
esistere affatto în rerum natura perchè non perfettissime, tranne che da Dio,
in quanto solo in Lui, come S. Tommaso ammette, essenza ed esistenza
s’identificano. L'esistenza di Dio 201 non si può parlare di derivazione alcuna
per la identità di essenza ed esistenza. Se c’è identità, come si dice che
dalla essenza deriva necessariamente l’esistenza e per la mente finita non può essere
diversamente in quanto nello stato naturale non le è presente Dio com'è in sè così si può. dire, ma non più rispetto a noi,
che dall’esistenza deriva la Sua essenza. In verità, non c’è derivazione: Dio è
lo Essere che è l’Essere, identità assoluta di essenza ed esistenza come di
esistenza ed essenza. Ciò posto, possiamo dire che per Dio dall’essenza segue
l’esistenza; per ogni altro ente dall'esistenza segue l’essenza, ma tutti gli
enti che non sono Dio ricevono l’esistenza, non la pongono , non esistono da sè. Solo in Dio,
posta l’essenza, segue l’esistenza; meglio, posta l’essenza, è posta con essa
l’esistenza, perchè Egli è atto di se stesso; dunque non Lo si può concepire
senza concepirLo esistente: l’esistenza non si aggiunge, è nella Sua essenza.
Ma, se è necessario per Dio che dall’essenza segua l’esistenza, è necessario
per ogni altro ente che dall’esistenza segua l’essenza, cioè non può concepirsi
esistente senza concepirlo con una sua essenza. È qui la forza della prova
cosmologica: partendo dalle cose, non possiamo non muovere dalla loro
esistenza, cioè da ciò che non è contenuto nella loro essenza; ma appunto
perchè non sono atto di se stesse, pongono il problema del principio del loro
esistere. D'altra parte, non la sola loro esistenza lo pone, ma l’esistenza
contenente una essenza, un ordine, una verità ; dunque, pongono il problema del loro
principio non in quanto soltanto esistenti, ma in quanto esistenti con
un'essenza o essenze esistenziate. Per conseguenza, l'argomento dalle cose
contingenti si riallaccia a quello dalla
verità , come, del resto, l’argomento ontologico, il quale, a differenza di
quello cosmologico, che non può non partire dall’esistenza delle cose, non può
muovere che dall’essenza o idea di Dio, la sola che contiene necessariamente
l’esistenza. Da ultimo notiamo che l’argomento anselmiano con202 Filosofia e
Metafisica tiene un altro elemento di verità, del resto, già da noi evidenziato:
mettere l’ateo di fronte al senso dell’affermazione Dio non esiste . Che Dio
non esiste si può dire e l’ateo lo dice ;
ma ha un senso questa espressione verbale e le si può dare l’assenso? S.
Anselmo dimostra che quel che dice l’ateo non ha senso, e per questo è
insipiens, non sa quello che dice : parla di Dio, ma pensa ad altro, manca della vera nozione. Non perchè
non ce l’abbia, ma perchè egli non è presente a se stesso, è fuori della sua
vita spirituale e perciò della verità: i suoi giudizi non possono essere che da
insipiens, della ragione sensitiva non della ragione intellettiva. Che Dio non
esista non si può neppure pensare (Proslogion, cap. III), perchè non ha senso
pensare come non esistente l’Essere di cui non si può pensare nulla di maggiore,
perchè pensandolo non esistente mon si pensa più a Lui, ma ad un qualsiasi
altro ente che si può pensare senza pensarlo esistente appunto perchè non è
l’Essere di cui non si può pensare nulla di maggiore. L’ateo, in realtà, nel
momento che nega Dio, pensa a un altro ente. Ciò prova ancora che l’esistenza
di Dio non è una verità immediata nota a noi per se stessa e perciò è bisognosa
di dimostrazione, ma non perchè manchi in noi la nozione primitiva di Dio {e
dunque l’appoggio della dimostrazione debba essere cercato nel dato sensibile),
ma perchè possiamo allontanarci da noi stessi e dalla luce interiore, essere
assenti a noi, fuori di noi , lontani
dal sapere intellettivo ed immersi nel conoscere sensitivo. La dimostrazione
occorre non perchè manchi in noi la presenza di Dio, ma perchè non c’è
immediata nè sempre attuale consapevolezza di Lui. Se l’ateo riflettesse su
quello che dice non potrebbe pensare che Dio non esiste nè assentire alla sua affermazione negativa, in quanto,
incontrandosi con se stesso e con la verità che è in lui, si incontra con Dio.
L'argomento ontologico manifesta chiaramente la sua origine agostiniana, da
dove trae forza. Esso è anche valido negativamente: dimostra assurda. la
negazione dell’esistenza di Dio, cioè nega che abbia valore L'esistenza di Dio
203 razionale la proposizione Dio non
esiste , che l’insipiens pronunzia in cuor suo (?). 2. La prova cosmologica. Ci siamo più di una
volta richiamati alla prova (alle prove) cosmologica o a posteriori
dell’esistenza di Dio, anch’essa vera se riportata a quella dalla verità . L’argomentazione vi è il moto nelle cose; ciò che è mosso è
mosso da altro (quidguid movetur ab alio movetur); la serie causale non può
procedere all’infinito; dunque esiste un Primo Motore, qui ipse est immobilis prima che di S. Tommaso (I via) è di S.
Agostino, il quale a più riprese formula l’argomento cosmologico. Ma lo stesso
Agostino la riduce a quella dalla verità
per il motivo che la prova, la quale
parte dai dati sensibili, dipende da alcuni elementi intelligibili non derivati
e non derivabili dall’esperienza, quelli che le conferiscono validità
oggettiva; dunque, non (2) E’ nota la critica di Kant all'argomento ontologico:
4) l’idea di un oggetto non contiene la sua esistenza; essa dice solo che esso
è possibile, perchè non implica contraddizione; £) l'esistenza può essere
aggiunta solo dalla esperienza, cioè 4 posteriori (sinteticamente) ed è
indeducibile dall’essenza (analiticamente); c) perciò, se l’esistenza, anche
nel caso dell'idea di Dio, va aggiunta dall'esperienza, consegue che essa non
fa parte dell'essenza o idea; dunque toglierla o aggiungerla non diminuisce nè
accresce il contenuto dell’essenza; d) pertanto, anche negandogli l’esistenza,
l’idea o l'essenza di Dio non perde alcuna perfezione. In altri termini,
l’esistenza non è un predicato e dunque il contenuto del concetto di un oggetto
resta quello che è sia che esista o non esista. Ciò conferma che l'esistenza di
un oggetto pensato non può essere dedotta dalla sua essenza, ma è aggiunta
dall'esperienza nel caso che questa la fornisca; ma l’esperienza non fornisce
affatto l’esistenza di Dio e pertanto non è possibile dimostrare che Egli
esiste fondandosi sui princìpi speculativi della ragione, senza che ciò
impedisca che Dio venga pensato come l'Essere perfetto di cui non si può
pensare nulla di maggiore, appunto perchè, avere o non avere l’esistenza niente
aggiunge e toglie all'idea di un oggetto. Kant considera Dio alla stessa
stregua degli enti finiti per i quali vale la distinzione di essenza ed
esistenza, senza senso per Dio, che è identità di essenza ed esistenza;
infatti, l'affermazione di Anselmo, che l’idea di Dio involve necessariamente
l'esistenza vale solo per Lui, per l’ente di cui non si può pensare nulla di
più grande. Kant non si accorge (il paralogismo è suo) che quando afferma che
dall’idea di Dio non si può dedurre l’esistenza, la quale dunque dovrebb'essere
aggiunta, non parla più di Dio, in quanto non parla dell’essere di cui non si
può pensare nulla di più grande: quando critica l’argomento onto204 Filosofia e
Metafisica possiamo ascendere dalle cose sensibili a Dio senza appoggiarci alla
Verità interiore. Esatta l’affermazione di S. Tommaso che la prova deve avere
il suo punto di appoggio in un dato reale e non in una pura entità concettuale,
ma il dato reale primo non è il sensibile, bensì la realtà spirituale e quanto
in essa è implicitamente presente. Per esempio: esistono cose che hanno un
certo grado di perfezione; ciò indica che esiste il perfetto del quale
partecipano le perfezioni finite; dunque esiste Dio Perfezione assoluta (IV
via). Esatto, ma come può il soggetto conoscere, misurare, il grado di
perfezione delle cose, se non intuisce la perfezione, se non ha in sè la misura
con cui misura? In altri termini: non potrei dire questa cosa ha un grado di
perfezione se non fossi illuminato dalla
perfezione, cioè se non fosse interiore alla mia mente una nozione di essa, che
le cose possono anche esplicitare, ma non mi possono dare. La proposizione le
cose hanno un grado di perfezione è un
giulogico non pensa a Dio, e perciò è insipiens, non sa quello che dice. L'idea
di Dio è qualcosa che non posso dire soltanto presente in me senza contraddire
a quello che penso; secondo un’espressione del Bertini, il concetto di Dio è un
concetto reale, cioè implicante la realtà del suo oggettoTutta l’argomentazione
di Kant è errata sostanzialmente. La sua affermazione: sia che Dio esista o no,
nulla si toglie o si aggiunge alla sua perfezione, vale per l’ente finito, ma
non ha alcun senso per Dio, in quanto, data l'identità di essenza ed esistenza,
non ha senso parlare di togliere o di aggiungere a Diol’esistenza. Ne ha solo
uno: togliere a Dio l’esistenza non significa lasciargli tutta la sua
perfezione, ma negarlo senz’altro, in quanto l’esistenza è la sua stessa
essenza; dunque, negata la prima, è distrutta l’altra e anche l’idea. Così
resta confermato che se Dio non esistesse l’uomo non potrebbe pensarLo e lo
stesso ateo che pensa di negare Dio, può farlo perchè Egli esiste.
Negare Dio è ancora negare l’uomo come ente pensante; ma l’ente pensante esiste
e pensa Dio, dunque Dio esiste. Ma le critiche che Kant muove all’argomento
ontologico e agli altri hanno, in fondo, un'importanza secondaria nel suo
sistema, cosa a cui forse non si è badato abbastanza. Ci spieghiamo: è
l’impostazione della Critica che in partenza nega l’esistenza di Dio o almeno
non può più giustificarla; le obiezioni alleprove tradizionali, tutte
paralogismi, sono chiamate a coonestare i presupposti del sistema. Quando Kant
ha ammesso che le forme valgono solo nei limiti della esperienza c pertanto il
pensiero trova il suo oggetto adeguato nei contenuti finiti dell'esperienza
stessa o in quel contenuto finito che è il reale nella sua totalità, e che le idee
non sono conoscenze ma pure condizioni del conoscere il. % cui contenuto dovrebbero
ricevere dall’esperienza (e Dio non è oggetto di espeL'esistenza di Dio 205
dizio: come potrei giudicare se non possedessi i princìpi del giudizio a cui
conformare ogni giudizio? Ma con ciò oltrepasso i corpi e anche me stesso, in
quanto quella verità primale è più di me, misura anche la mia ragione e la mia
intelligenza. Scoperta essa, ho scoperto che Dio esiste non dalle cose , ma in quanto mi sono elevato da
esse alla verità che è in me e da questa a Dio: dall’esteriore all’interiore e
dall’interiore al Superiore. Quella cosmologica è una via anch'essa, ma più
lunga; l’altra dalla verità più breve: dalla verità in me (interiore) alla
Verità in sè (al Superiore). Entrambe si fondano sulla dipendenza essenziale
dell’ente finito dall’Essere che lo pone, ma nella prima il rapporto è diretto:
lo spirito conosce se stesso e in questo atto intuisce la verità che in lui è
presente e lo illumina; di qui argomenta che, partecipato, esiste l’Essere di
cui partecipa, il Principio da cui è. Pertanto l’autocoscienza implica la
presenza a se stessa del Principio creante: avverrienza) e se non lo ricevono
sono vuote , egli ha escluso non solo la
soluzione del problema dell’esistenza di Dio, ma Dio stesso dalla concreta vita
dello spirito: ha decapitato l'uomo affinchè con la testa non sovrastasse di un
infinitesimo il livello delle cose o del mondo. Quando Kant dice che non vi è
altra verità ncll'uomo oltre quella che egli stesso si costituisce col processo
sintetico del conoscere, ne fa il legislatore della natura (cioè gli
attribuisce il potere che spetta a Dio), ma nello stesso tempo,
mondanizzandolo, lo immondanizza, lo pone al di sotto di se stesso, al livello
dell’empirico. L'esigenza della metafisica e i postulati della ragione pratica
sono pure sovrastrutture che la Critica non sopporta se non contraddicendosi.
Essa nella sua impostazione iniziale non è orientata verso la teologia, bensì
verso la cosmologia intesa come conoscenza critica del fenomenico. Non possiamo
non accennare, a proposito dell’esistenza di Dio, all’ontologismo critico del
Carabellese, derivante da un ripensamento di Spinoza attraverso un'elaborazione
critica del Criticismo di Kant. Per il Carabellese, Dio è 1’ Oggetto puro
assoluto immanente alle singole coscienze, dunque non esiste; infatti, l’esistenza
è soggettività ed alterità ed è dei soggetti singoli; Dio, l'Assoluto, non è
soggettività nè alterità e perciò non gli compete l’esistenza: dire che esiste
è fare di Lui un soggetto singolo tra singoli, cioè négarLo. L'argomento
ontologico dev'essere pertanto abbandonato così come è nella sua forma
tradizionale e accettato solo nel punto di partenza, l’ Idea: Dio è 1’ Oggetto
o l' Idea assoluta, pura, oggettiva immanente allé singole coscienze: l’ Unico
nei singoli e non uno dei singoli, come sarebbe se si ammettesse esistente.
Così inteso, Dio non si può negare con il pensiero, pérchè sarebbe negare
l’oggettività del pensiero stesso con un atto di pensiero e ciò è
contraddittorio. /o penso, dunque affermo Dio; se tu neghi Dio, non pensi. Ecco
l'argomento ontologico nella sua forma positiva 206 Filosofia e Metafisica
tirsi, è avvertirsi dipendenti da Dio. In breve, se esiste l’uomo, esiste Dio;
l’uomo esiste, dunque Dio esiste: basta che esista un pensiero, perchè sia
implicata l’esistenza del Pensiero assoluto. Infatti, dato un pensiero, come
abbiamo detto, è dato un essere pensante e se è dato un essere, esiste l’Essere
assoluto. Dall’ente pensante all’Essere pensante, dalla verità-uomo, la verità
che ogni uomo è, alla Verità in sè, di cui ogni uomo partecipa per una
dipendenza essenziale iniziale e finale. Attraverso di essa, se vuole esser
valida, è costretta a passare la via cosmologica per il motivo che sono i princìpi
primi o le verità primali che rendono possibile il giudizio vero, la conoscenza
delle cose sensibili, e con ciò fanno che sia valida ogni argomentazione dalle
cose finite e conungenti a Dio essere infinito e necessario. Ogni regola di giue
in quella negativa (P. CaraseLLEsE, 1
problema teologico come filosofia, Roma, 1930, pp. 181-183). Ma quale argomento
ontologico? Qui non c'è più argomento di sorta: c’è solo l’affermazione che io
penso con la quale è identificato Dio. Altro è dire io penso, dunque affermo Dio ; altro io penso,
dunque Dio esiste . Le due formule sono antitetiche: la prima nega Dio e,
contraddittoriamente, afferma il pensiero; la seconda dimostra l’esistenza di
Dio dalla realtà del pensiero, che c'è perchè Dio esiste. S. Anselmo muove
dall'idea di Dio e ne argomenta l’esistenza; il Carabellese dice che Dio è
Idea, solo Idea, pura Idea immanente e ne nega l’esistenza. Altro che argomento
ontologico! Idea di chi? delle coscienze singole e dunque immanente e, come
tale, adeguata da quel finito che è il mondo; ma se Di è tutto immanente, è
finito come il mondo a cui è immanente, e ad esso relativo. Non la
trascendenza, e perciò l’esistenza, nega Dio come assoluto; è l’immanenza che
lo risolve e lo nega nella finitezza, singolare o globale, delle singole
coscienze, di cui è l’Oggetto unico. E Dio è l'Unico proprio in quanto esiste,
perchè è l’unico Esistente assoluto, in cui coincidono essenza ed esistenza.
Questa, in fondo, la posizione del Carabellese: accetta il concetto panteistico
spinoziano di Dio, lo ripensa utilizzando quello kantiano di Idea o noumenicità
pura e a questo assimila, contro la lettera e lo spirito della sua filosofia,
l’idea dell’essere del Rosmini. Da ciò trae le conseguenze estreme: se Dio è
pura nou-menicità o Idea e questa non è che l’oggetto di una coscienza
pensante, Egli è l’Oggetto puro immanente alle singole coscienze pensanti. Così
il Carabellese all’immanenza idealistica, con la quale ha polemizzato
efficacemente tutta Ja vita, sostituisce l’immazenza ontologica, dell’Idea od
Oggetto assoluto nei soggetti singoli. A noi qui non interessa l’importanza
polemica di questa posizione nei confronti dell’idealismo trascendentale, ma la
sua validità ai fini del problema dell’esistenza di Dio; e non ne ha alcuna. Il
Carabellese ha ripetuto anche lui l’errore di distinguere in Dio essenza ed
esistenza e non si è accorto che, negare l'esistenza, è negare anche l'essenza,
cioè l'Idea; in fondo, ipostatizza la rosmiL'esistenza di Dio 207 dizio lo è
innanzi tutto del nostro pensiero; dunque tutte le possibili prove cosmologiche
dipendono da quella dalla verità . Le
due forme di argomentazione a) esiste
qualcosa di contingente e finito, dunque esiste l’Essere necessario ed
infinito; 5) è presente alla mente una verità che le è superiore; dunque esiste
la Verità in sè nella loro profondità si
riportano allo stesso principio di verità, da cui ricevono la loro forza.
Infatti, partendo pure dalle cose sensibili, l’argomentazione non può non
seguire questo procedimento: le cose sono contingenti e mutevoli e, come tali,
non possono avere in se stesse la loro ragion d’essere: bisogna trascenderle per cogliere il Principio da cui derivano
quanto hanno di ordine, di perfezione e di essere; al di sopra dell’ordine e
della perfezione delle cose vi sono l’ordine e la perfezione del nostro
pensiero, con cui conosciamo, giudichiamo
e misuriamo quelli delle cose; la verità che è in niana
idea dell'essere, lume di ragione e oggetto della mente, e ne fa l' Idea
assoluta avente valore di Oggetto unico immanente. Il Carabellese, a cui
importa il problema dell’unità del molteplice come già al suo maestro Varisco,
identifica Dio con l’unità ideale o con l’ Idea pura; ma il problema dell'unità
del molteplice è ben diverso da quello di Dio e l’unità ideale non è l’unità
reale. Per la critica dell'immanenza ontologica cfr. le osservazioni di G.
Zamsoni nell’ Itinerario filosofico, (Verona, 1949, p. 118), che abbiamo tenuto
presenti. Per altre nostre osservazioni al pensiero del Carabellese su questo
punto cfr. 1! Secolo XX, Milano; Il problema di Dio e della religione nella
filosofia attuale, Brescia, 19533, pp. 120-122. D'altra parte, è errato
affermare che l'esistenza non è una perfezione e non aggiunge nulla all'essere
pensato, in quanto l’ente che esiste nel solo pensiero e non anche nella realtà
è inferiore a quello che esiste nel pensiero e nella realtà, come nota S.
Anselmo (Proslogion, c. Il); lo è in quanto l’essere che esiste solo nel
pensiero ne dipende: esiste perchè il pensiero lo pensa e soltanto come essere
pensato. Pertanto dire che l’esistenza non aggiunge nulla alla perfezione
dell'idea di Dio è dire che Egli è relativo al pensiero umano, è puro oggetto
pensato ed è solo in quanto il pensiero lo pensa. Perfettamente il contrario:
io penso in quanto in me è presente la verità che è presenza di Dio e dunque in
quanto la stessa idea di Dio è luce del mio pensiero. Ma Kant, tornando a lui,
nega che esistano nello spirito conoscenze primarie ed intuitivé e dunque una
verità originaria; consegue che non c'è altra verità nell'uomo oltre quella che
egli stesso si costruisce con la sintesi della forma 4 priori e del contenuto a
posteriori: Dio è escluso dal processo della vita dello spirito. Le obiezioni
di Kant all'argomento ontologico provengono dalla corruzione del significato
del termine idea operata dagli empiristi
inglesi ec mirano molto lontano: c'è già in nuce l’idealismo trascendentale,
che è la riduzione dell’essere all’immanenza del pensiero. 208 Filosofia e
Metafisica noi ci è data, dunque, il ragionamento ci porta a trascendere noi
stessi, a risalire dalla verità-data alla Verità-Principio, a Dio. In altri
termini: il pensiero discende dalle verità primali intuite per conoscere e
giudicare secondo queste verità le cose sensibili; da queste ascende alle
verità che sono in lui, inferiori alle cose, e da esse a Dio, l’Essere
perfettissimo, che ogni cosa ed ogni verità trascende. Per conseguenza,
l'ordine e la perfezione del mondo non si conoscono con i sensi ma con la
ragione, cioè misurandole con la verità che è in noi: il fondamento della loro
conoscenza è l’intuizione primitiva della verità; dunque le prove 4
contingentia mundi passano dalla vita dello spirito. È vero quanto scrive il
salmista (XIX, Vulg. XVIII): coelì enarrant gloriam Dei, et opera manuum cius
enuntiat firmamentum; ma nulla mi direbbero e mi indicherebbero, se in me non
lucesse la luce della verità. Così impostata, la prova cosmologica è inconfutabile;
non si può negare Dio senza spingersi ad affermazioni assurde come questa: è
contraddittorio concepire l’Essere assoluto ed ammettere l’esistenza, per poi
attribuire l’eternità e l’assolutezza alla materia e al mondo che sono
contingenti e finiti! La prova cosmologica non solo suppone quella dalla verità ma è riducibile, come osservò Kant, alla prova
ontologica: Dio, Principio assoluto, ha la ragione della sua esistenza nella
sua stessa essenza; perciò in Lui essenza ed esistenza s’identificano; ma è
questo, come sappiamo, il fondamento dell’argomento ontologico (*). (3) Com'è
noto, all'argomento cosmologico, così come lo riceve attraverso il razionalismo
cartesiano-leibniziano, Kant muove un’obiezione: non è possibile applicare
all’Essere trascendente la categoria della causalità, valida solo nei limiti
dell'esperienza, dove non si trova un ente incondizionato e dove, invece, ogni
causa è a sua volta causata; dunque la categoria della causalità, fuori della
esperienza, è una forma vuota, senza oggetto. Abbiamo già evidenziato i limiti
di questa critica kantiana del principio di causa, la quale, del resto non
infirma la validità dell'argomento. Cfr. pp. 144-149 di questo Il volume. G.
BontapinI nel vol. Ricostruzione metafisica (Atti del IV Congresso di Studi
filosofici cristiani, cit., p. 379) d'accordo con me afferma che la filosofia
non x persegue la ricerca di un Dio qualunque, ma di quello che è indicato
dalla coL'esistenza di Dio 209 D'altra parte, la formulazione della prova esiste qualcosa che non è da sè, dunque esiste
Dio è insufficiente a dimostrare
l’esistenza dell’Essere creatore e trascendente, Intelligenza e Volontà;
infatti, il puro Ens realissimum può essere una causa o un principio
impersonale, una legge cosmica ordinatrice. Non basta che esista qualcosa, ma è
necessario che esistano degli effetti tali, da cui si può argomentare per
analogia l’esistenza dell'Essere creatore, trascendente ecc., cioè di Dio,
quale Lo crede per fede la coscienza religiosa. L’Ens di ragione, causa
dell’origine del mondo, è un’idea cosmologica, che non è Dio, quantunque Egli
sia scienza religiosa; che, perciò, essa non parte dalla (mera) esperienza sensibile,
ma dalla coscienza cristiana (la quale rientra nella unità dell'esperienza);
che la più ricca delle cose reali di cui abbiamo certezza è l’uomo; che Dio si
dimostra con tutto l'uomo; che la metafisica, come voleva S. Agostino, è
metafisica della verità, la quale si coglie in interiore homine .
Successivamente aggiunge: con questo si
dice che l’essere, che è oggetto della metafisica, non è fuori dal pensiero
(per questa non estraneità dell’essere al pensiero è possibile la metafisica
stessa come scienza). Ma con questo è altresì chiaro che non è da opporre la
metafisica dell'essere a quella della verità: si tratta di aspetti di una
medesima posizione . Certamente, una volta che il Bontadini mi concede che
l'essere non è estraneo al pensiero, cioè gli è interno originariamente come
idea; del resto, non ho mai opposto la metafisica della verità a quella
dell'essere se ben intesa, nè Agostino e Rosmini a S. Tommaso, anzi ho sempre
sostenuto il contrario. Proprio la Neoscolastica italiana, invece, trova
opposizione, o tutto vuol ridurre al suo tomismo; perciò il problema
dell’opposizione è affar suo e non mio. Secondo Bontadini io ho sottoscritta (nel vol. 17 problema di Dio e della religione
nella filos. attuale, cit.) la prova
tomistica, soltanto spiritwalizzandola, appunto con quel riferimento a ’’tutto
l’uomo’ e anche qui si dichiara
d’accordo; ma, come per me va intesa la prova tomistica, appare chiaro da tutto
il presente scritto. Da ultimo il Bontadini mi ascrive tra i personalisti concilianti ; invece, io non
concilio niente, perchè non c'è niente da conciliare. Il conciliare presuppone
due punti di vista opposti o una lite; e qui non c’è opposizione o ite; è
sempre smorzare e attenuare e qui marco i concetti e li approfondisco come
posso e so. La parte del paciere in filosofia non ha senso o è posticcia. Successivamente
il Bontadini ha avuto modo, a proposito di non so qual Convegno francescano, di
occuparsi di me e, a quanto sembra, in particolar modo della prosa contenuta in
questo volume. Quel che in tale occasione egli ebbe a dire e pubblicare
(Spiritualismo cristiano e metafisica classica, Giorn. crit. d. filos. ital., I, 1955)
dimostra semplicemente che ha orecchiato senza leggere e criticato sulla base di preconcetti e luoghi comuni; ma
la maldicenza, anche se neo-scolastica non è oggetto di discussione. Del resto, il
superamento della fase esigenzialistico-fideistica e l'inserimento del mio
spiritualismo nella linea della metafisica classica è stato ampiamente vagliato
e riconosciuto dalla più autorevole critica mondiale, compresi i più
accreditati tomisti e neotomisti. 210 Filosofia e Metafisica l’Ente assoluto;
di qui ancora la necessità di partire dalla vita dello spirito che è intelligenza di verità, volontà morale
ecc., effetti da cui si argomenta per analogia l’esistenza di Dio essere
creatore, Mente e Verità assolute, Volontà, Perfezione infinita. Quale cosa del
mondo fisico potrebbe mai farmi pensare che Dio è Libertà e Persona? Non lo
pensò Aristotele, che cercava appunto un Dio Primo Motore Immobile, principio
del movimento o del divenire, non potenza ma Atto puro; ma quale abisso tra il
Dio au quel pense la plupart des hommes e questo Dio filosofico que les hommes
n’ont jamais songé è invoquer!. È il Dio di una filosofia ma di nessuna
religione e non può esserlo di una filosofia cristiana. Non diciamo che il Dio
della religione (e della cristiana) non si possa chiamare anche Primo Motore
immobile o Atto puro, ma che questa terminologia va trasposta in senso
cristiano. Pertanto è necessario non solo integrare Aristotele, ma trasporlo
come ha fatto S. Tommaso, la cui metafisica, che utilizza filosoficamente il
concetto di creazione, non culmina nell’aristotelico Motore Immobile, ma in
quello cristiano, che è l’Essere creatore, infinito e provvidente, cioè il Dio
che tutti gli uomini invocano. Non basta partire dal reale finito e diveniente
per arrivare a Dio; è necessaria una critica dell’ente finito e diveniente in quanto tale,
in modo da stabilire quali elementi contenga e se tali da farci concludere non
ad una o più cause immutabili del divenire, ma al Principio creatore e
provvidente. Daccapo: non è possibile alcuna critica dell’ente finito, cioè
alcun giudizio oggettivamente vero, se non è presente alla mente la verità che
è fondamento di ogni giudizio e della ragione giudicante; ma se è presente la
verità, esiste Dio, che è la Verità, il Lume eterno e trascendente, che
illumina la mente e riscalda il cuore delle creature. (4) H. Bercson, Les deux sources
de la morale et de la religion, Paris, 1946, pp. 256 segg. ° L'esistenza di Dio 211 Da ultimo, la prova
cosmologica dev'essere spogliata di quel suo carattere puramente razionalistico
e gnoseologico, più della tradizione tomista che di S. Tommaso. Il problema,
infatti, più che nei termini gnoseologistici di intelletto conoscente ed
oggetto conosciuto, di Causa prima ed effetto, s'imposta in quelli ontologici
di ciò che è empirico e contingente e di ciò che è metafisico e necessario;
altrimenti, se il metafisico (l’essere) non precede l’empirico (le cose), è
impossibile da questo arrivare all’essere. Dopo quanto abbiamo detto, le tre
prove dalla verità, che include anche
quella ontolcgica, dalla vita morale, legata all’altra del desiderio di
beatitudine e cosmologica si presentano
concorrenti e solidali: tutto il creato, nel suo ordine o nel suo essere o
nella sua verità, con una voce sola, attesta la sua dipendenza da Dio e in Lui,
e solo in Lui, cerca ed attua la sua finalità suprema (5). (5) Credo che ciò
possa tranquillizzare L. BogLioLo (Che cos'è metafisica, Salesiamum , I, 1948, p. 64), il quale esige
da me e da altri una interiorità più
robusta che non avesse timore della materia nè la fuggisse , cioè
un'interiorità profonda, universale e totale. Ci sembra che la nostra abbia una
tale robustezza: come una a filosofia dell’integralità potrebbe aver timore della materia e del
mondo, e fuggirli? La nostra indagine, muovendo dall’ipotesi Dio, ha dimostrato che è razionale porla; la
ricerca ha provato la sua verità oggettiva e necessaria. A questo punto è opportuno
domandarsi se è possibile porre l’ipotesi opposta, Dio non esiste e, se porla, sia razionale. La si può porre,
ma con un atto non razionale; dunque, non è razionale porla, come del resto
abbiamo chiarito a proposito dell’ateo che è insipiens. Se fosse razionale
porre, al pari dell’ipotesi Dio esiste ,
l’altra Dio non esiste , le due ipotesi
si distruggerebbero e bisognerebbe, come lo scettico antico, sospendere il giudizio e con esso la filosofia. Se è
razionale porre l'ipotesi Dio non è
razionale porre quella opposta. Qui non siamo sul terreno dell’empirico
accadere: è possibile che domani sia una bella giornata com'è possibile che sia
brutta; invece, non è razionalmente possibile che Dio esista ed altrettanto
razionalmente possibile che non esista. Per porre una ipotesi è necessario che
sia razionalmente possibile che possa essere dimostrata vera; non posso porre
come ipotesi da dimostrare una tesi destituita di qualsiasi fondamento
razionale, fantastica o assurda. Posso anche farlo ma ragionando per assurdo,
cioè per dimostrare indirettamente la verità della tesi opposta. Se così,
l’ateo non pensa, vocia ; non è
consapevole dell’assurdità della sua negazione: la sua non è una conclusione
critica, ma un’affermazione dommatica; non il risultato di una riflessione
esauriente, ma uno stato passionale che sottigliezze e sofismi s’incaricano di
fare, L'esistenza di Dio 213 apparire logico . Dio non esiste è l’ipotesi proibita, l’impossibile razionale.
Non si tratta di ammettere l’esistenza di Dio perchè soddisfa un mio desiderio
ed è consolante, ma perchè tale affermazione risponde all’ordine della ragione
e di tutta la realtà umana. Se l’ipotesi Dio non
fosse razionale e lo fosse quella
opposta tutto l’uomo e l’universo
sarebbero un falso incomprensibile ed assurdo. Ma non è razionale che sia
razionale l’ipotesi Dio non esiste , appunto
perchè l’uomo in ogni forma della sua
attività e in tutte convergenti e unificate, la pienezza sua nel suo ordine e
in ogni grado della sua normatività, attestante la razionalità dell’ipotesi Dio sarebbe sostanzialmente contraddittorio e
assurdo, nel caso che l’ipotesi opposta, anche come ipotesi, si ponesse
razionale e dimostrabile. L’ipotesi teista inerisce alla natura dell’uomo e
all’ordine della ragione; se quella ateista v’inerisse ugualmente, col solo
porla come razionale, si distruggerebbe l’uomo nella sua essenza. È contraddittorio
che alla stessa razionalità umana inerisca l’ipotesi Dio esiste e l’opposta; perciò Dio non esiste è l'ipotesi proibita perchè contraria alla
ragione e alla natura dell’uomo. Mi sembra che qui vadano cercate la forza e la
verità della pascaliana prova della
scommessa e non nel suo presunto
carattere pragmatistico e volontaristico, che è solo una interpretazione
scorretta o insufficiente. Pascal, posto che è impossibile la neutralità di
fronte al problema, vuol dimostrare e dimostra che non si può non scommettere a
favore dell’ipotesi Dio esiste , perchè
non si può scommettere a favore dell’opposta, in quanto è irrazionale,
contrario, non ad una pura esigenza, ma a tutto l’uomo nel suo ordine. Scommettere
per l’ipotesi Dio non esiste è implicitamente puntare per il mondo, cioè
per un bene finito; scommettere per l’altra Dio esiste lo è per il bene infinito, senza scommettere
contro il mondo. Ma, una volta che si tratta dell’Infinito, il giuoco è fatto,
dice Pascal: non si può non scommettere per Dio. Non perchè sia più conveniente
e con214 Filosofia e Metafisica fortevole scommettere per un ipotetico bene
infinito anzichè per un reale bene finito, ma semplicemente perchè il reale
bene finito (il mondo) non si spiega più come sia un bene se Dio non esiste: o
si considera un nulla, ed è assurdo scommettere per il nulla; o reale e
positivo nel suo ordine, ma basta che sia tale, perchè la realtà e positività
del mondo comporti l’esistenza di Dio; nè, ancora, si può scommettere per
l’ipotesi ateista perchè l’ordine della ragione giudica razionale e ad esso
conforme l’ipotesi teista e per conseguenza irrazionale e disforme la sua
opposta. Perciò la scelta, secondo Pascal e secondo noi, non è tra due ipotesi,
ma tra la ragionevolezza dell’una e l’irragionevolezza dell’altra, tra il
seguire la pienezza della ragione e l’abbandonarsi all’insensatezza della
passione sofisticata; non è tra due condizioni reali dell’uomo, ma tra la sua
condizione reale e la negazione insensata ed assurda di essa. L’ateo prima di
essere contro Dio è contro se stesso: si nega come uomo e nega Dio; non passa
da sè perchè ha negato Dio, attraverso cui l’uomo coglie la profondità di sè e
il suo ordine; dunque, la sua è l’ipotesi proibita. Da ultimo: anche in chi
nega Dio o Lo dimentica per attaccamento al mondo o a sua cosa (ateismo
pratico) vi è sempre la presenza di Lui, perchè l’atto con cui si attacca alle
cose è pur atto di pensiero; e non c’è pensiero senza Dio. C'è e non Lo
riconosce; dice di no al suo sì profondo ed indistruttibile: offendendo Dio offende
se stesso, si degrada al di sotto della razionalità. Nè di ciò è incolpevole:
certo, se ha dimenticato Dio per il mondo, non ha più coscienza di Lui, ma è
responsabile di essersi attaccato alle cose fino alla dimenticanza di Dio, alla
negazione pratica della Sua esistenza, che è negazione della sua natura umana e
della finalità che le è propria e non è il mondo. Ipotesi proibita è il dubbio iperbolico di Cartesio, che, perchè iperbolico anche se
metodico, sospende tutto, anche Dio, tanto da ammettere l’ipotesi di un Genio maligno .. L'esistenza di Dio 215 Ma il
dubbio spinto al massimo, fino a negare Dio, distrugge se stesso, perchè
distrugge il pensiero: se davvero fosse possibile bloccare la mente nel dubbio
assoluto, nel momento stesso, cesserebbe il pensiero e dal dubbio non
nascerebbe mai il Cogito; infatti, è contraddittorio pensare e nello stesso
tempo annullare il pensiero con un atto del pensiero quale è il dubbio
assoluto. Chi dubita pensa e, se pensa, anche nel grado più negativo del
dubbio, non può dubitare di pensare; ma basta che vi sia un pensiero, anche
come pensiero del dubbio, perchè sia implicata l’esistenza di Dio; dunque il
dubbio iperbolico è impossibile, in quanto, negando sia pure come momento
metodologico, l’esistenza di Dio, si nega il pensiero e anche quell’atto di
pensiero che è il dubbio iperbolico e
con esso l’ipotesi ateista. Metodo significa via; ma il pensiero per trovare la verità non
può seguire la via che lo porta alla negazione di se stesso nel
dubbio assoluto che comporta la sospensione dell’esistenza di Dio. Dunque, è irrazionale
ed assurda anche l'ipotesi del Genio
maligno , che implica, sia pure provvisoriamente, la possibilità di concepire
razionalmente ciò che non è razionalmente concepibile, cioè che tutto sia
assurdo stupido insignificante, al punto che un tal Genio avrebbe potuto aver
fatta la testa degli uomini in modo da far loro sembrare evidente e vero quel
che è sostanzialmente falso. Ma è precisamente questa l’ipotesi proibita perchè
assurda; dunque impossibile ed irreale, informulabile nell’ordine razionale
come ad esso contraddicente. Non per seguire un metodo che porta alla verità,
ma contro ogni metodo confacente alla ragione, Cartesio si è potuto spingere,
sia pure provvisoriamente, al dubbio iperbolico e alla ipotesi del Genio maligno (). Lo
stesso discorso vale per la Volontà cieca ed irrazionale dello Schopenhauer, altra
specie di Genio malefico, tanto è vero che, irrazionale quanto si voglia, in
fondo, pensa e delibera se, come dice il filosofo, crea illusioni cd
allettamenti per alimentare negli uomini la volontà di vivere; dunque pensa e
delibera l’assurdo; ma è assurda una pura volontà dell'assurdo. 216 Filosofia e
Metafisica Proprio alle origini del razionalismo moderno, nella sua stessa
posizione, c'è insito un elemento d’irrazionalità: l’atto irrazionale con cui
la ragione presume di poter ancora esser tale negando la trascendenza della
verità e con essa l’esistenza di Dio, autosufficienza del pensiero, il quale,
nell’atto che si autopone, si autonega: è l’elemento dissolvente immanente alla
stessa filosofia moderna. Concludiamo che il dubbio sull’esistenza di Dio si
può spingere al punto da esigere una prova razionale, da discutere questa o
quella prova, ma non fino a negare la razionalità dell’ipotesi Dio esiste e ad ammettere quella dell’ipotesi opposta, la
quale, se posta, distrugge lo stesso dubbio e lo stesso pensiero: se l’ipotesi Dio non esiste fosse razionale, tutto sarebbe falso, e dunque
anche l’ipotesi stessa; perciò impossibile che sia vera e formularla razionalmente
perchè assurda. Un dubbio che si spinge fino a quella ipotesi varca i confini
della razionalità e della ragionevolezza, si pone fuori dell’una e dell’altra,
del pensiero e dell’uomo, nell’irreale. L’ateismo è lo stato irreale dell’uomo,
è di chi è fuori del pensiero, della sua natura di uomo, di se stesso; è
dell’insipiens. Il razionalismo moderno, fin dal suo inizio cartesiano,
contiene un elemento di insensatezza:
ammettere la razionalità e la verità del pensare anche se Dio non esistesse; e
ciò è contraddittorio. Secondo Kant, è pensabile che Dio esiste, anzi è solo pensabile , perchè non implica contraddizione.
Egli esclude il dubbio iperbolico e l’ipotesi del Genio maligno , ma non che sia razionalmente
possibile e dunque pensabile l’altra ipotesi Dio non esiste ; se così non fosse, le antinomie o i conflitti della ragione pura non sarebbero possibili.
Infatti, i due corni dell’antinomia, la tesi e l’antitesi, propri della
dialettica dell'idea cosmologica, sottintendono il primo che Dio esiste e
l’altro che non esiste: il mondo ha un cominciamento nel tempo e, per lo
spazio, è chiuso dentro limiti , dunque Dio esiste; il mondo non ha cominciamento nè limiti
spaziali, ma è infinito sia rispetto al tempo come rispetto allo spazio ,
dunque Dio non esiste; la causalità secondo le leggi della natura non è la sola
da cui si possano derivare tutti i fenomeni del mondo e perciò è necessario
ammettere per spiegazione di essi anche una causalità per libertà , dunque Dio
esiste; non c’è nessuna libertà, ma
tutto nel mondo accade universalmente secondo leggi della natura , dunque Dio
non esiste ecc. Come sappiamo e lo stesso Kant ammette, è pensabile, perchè non
contraddittorio, che Dio esiste e dunque è pensabile la serie delle tesi; ma,
come abbiamo dimostrato, non è pensabile razionalmente che Dio non esiste e
dunque non è razionalmente pensabile la serie delle antitesi; se è contraddittorio
pensare quest’ultima, una volta che è razionale pensare quella delle tesi,
cessa l’antinomismo della ragione pura. In breve: è pensabile che Dio esiste,
non che Dio non esiste; dunque non è pensabile la serie delle antitesi che si
fonda sulla pensabilità della ipotesi Dio non esiste ; perciò non vi sono antinomie
o conflitti della ragione pura, in quanto la pensabilità della serie delle tesi
non consente razionalmente la pensabilità e dunque la razionalità di quella
delle antitesi. Se l’ipotesi Dio non
esiste è impensabile, anche la serie
delle antitesi, che si fonda sulla pensabilità di questa ipotesi, risulta
impensabile; con ciò cessa l’antinomismo e il conflitto, restando compatibili
con l’ordine della ragione solo l'ipotesi della esistenza di Dio e, con essa,
soltanto la serie delle tesi. Possiamo aggiungere che neppure secondo un
convenzionalismo logico sia razionalmente possibile porre l’ipotesi ateista, in
quanto non ha senso porsi come ipotesi di lavoro un dato convenzionale
intrinsecamente assurdo. Dunque non c’è il dilemma o Dio
esiste , 0 Dio non esiste perchè
il secondo corno è assurdo, infondabile razionalmente anche come ipotesi:
nell’ordine razionale manca l’alternativa di questo 44 aut. Non c’è scelta se
non tra ciò che è pensa218 Filosofia e Metafisica bile, rispondente a tutta la
natura dell’uomo e ciò che è impensabile, perchè in sè assurdo; dunque
razionalmente è formulabile solo l'ipotesi dell’esistenza di Dio, la sola pensabile.
L’ateismo non è neanche un problema perchè non è un problema sensato. Indubbiamente
la psicologia dell’ateo è molto più complessa di quel che risulta da quanto
sopra si è detto limitatamente all’ateismo considerato come posizione
speculativa. Abbiamo trascurato tutti gli elementi che formano lo stato d'animo dell’ateo, interessantissimi ma marginali per
un metafisico che non desidera farsi sopraffare dalla psicologia e dal
sentimento. Tuttavia nell’ateismo filosofico vi è un aspetto sul quale vale la pena
d’insistere ancora. L’ateo ‘egli come
individuo o la ragione umana in generale, fa lo stesso vuole essere Dio senza Dio: è qui la
contraddizione costitutiva dell'essenza stessa dell’ateismo, in quanto nessuno
penserebbe di essere Dio senza l’idea di Dio, cioè... se Dio non esistesse!
Ancora: egli nega che Dio esiste non perchè sia impossibile che esista l’Essere
assoluto o perchè riconosca che non merita di esistere, tanto è vero che
identifica con Dio qualcosa che non lo è ed egli stesso vuole essere Dio.
L’ateismo filosofico è l’autodeificazione dell’uomo e della ragione, idolatria;
ma anche in tanta assurdità c'è una conferma dell’esistenza di Dio: l’ateo non
potrebbe autodeificarsi se non avesse ricevuto come ente pensante la vocazione
ad aspirare all'adozione divina. Egli devia irrazionalmente questo dono di Dio,
invece di indirizzarlo a Dio stesso, ma non riesce ad annientarlo, altrimenti
non potrebbe autodeificarsi. Il suicidio metafisico della sua umanità profonda
gli è impossibile: la sua insensatezza non sopprime l’eterna coscienza della
sua aspirazione (M. BLonpeL, La philosophie et l'esprit chrétien), tanto che
egli, in fondo, tende a realizzare la sua unione con Dio, anche sotto la forma
mostruosa di una unione con se stesso divinizzato. L'orientamento primitivo e
radicale del pensiero umano verso Dio non è sterminabile . Lo si può tradire; e
l’ateismo ne è un tradimento, è dire di no a Dio; ma l’ateo, come tale, dice di
no anche a se stesso, all'uomo che è. Non lo neghiamo: vi è nel cuore dell’ateo
serio una sofferenza, che merita tutta la nostra simpatia umana, e si può
guadagnare dalla misericordia di Dio la chiamata . La sua condizione è quella di chi
ad ogni momento si rifiuta ad una chiamata interiore, generosamente cd instancabilmente
insistente. A proposito dell'argomento ontologico abbiamo notato che S. Anselmo
si propone dimostrare che esiste il Dio a cui si crede per fede e quale la fede
Lo indica; anche noi teniamo fermo questo punto: non si tratta di dimostrare
l’esistenza di un Dio quale che sia, ma del Dio, a cui si crede per fede. Ciò
non significa nè che la ragione penetri la sua essenza (!), nè che la fede sia
il fondamento della dimostrazione della Sua esistenza, la quale, verità di fede
e verità di ragione insieme, interessa la filosofia e la religione. Certo, esse
vanno distinte e la via per cui la ragione arriva a Dio è diversa da quella per
la quale vi arriva la fede, ma le due vie devono concludere allo stesso
concetto di Dio, in modo che la ragione sia una conferma della fede: conosco
razionalmente che esiste il Dio a cui credo per fede. Così impostato il
problema, la fede non solo non è un ostacolo, ma è anzi un aiuto per la ragione
e nulla toglie alla forza razionale della dimostrazione; anzi, in un certo
senso, gliene conferisce, in quanto fa che la ragione dimostri il Dio di cui si
cerca sapere anche razionalmente se esiste, Quello che l’uomo prega, invoca,
adora ed in cui crede e spera. Evidentemente il fatto che la ragione non
penetri l’essenza di Dio non infirma l’argomento ontologico nel senso che, se
la ragione ignora Dio nella sua essenza, non si comprende come dall’essenza o
idea possa dedurre l’esistenza. E' chiaro che, quale che sia Dio nella sua
essenza, questa s'identifica sempre con l’esistenza. 220 Filosofia e Metafisica
Impostare la questione in questi termini ci sembra estremamente importante per
oltrepassare l’apparente antitesi, tanto rovinosa quanto inconsistente, tra il Dio della fede e il Dio della ragione , il Dio d’Isacco e di
Giacobbe e il Dio dei filosofi, la quale oppone fede a ragione, verità a
verità, cioè stabilisce un’antinomia senza senso. Da un lato, un fideismo che,
per il fatto che nega la ragione, non salva la fede, la quale non dev'essere invocata
per provare l’esistenza di Dio; dall’altro, un razionalismo che, negando la
fede, di essa non è più una conferma e se anche dimostra Dio, egli non è quelio
della coscienza religiosa, ma una causa cosmica, una legge della natura. È
necessario, invece, conservare nella sua interezza il contributo della ragione
e del pensiero critico-dimostrativo (altrimenti s’impoverisce sia detto per i volontaristi ed i pragmatisti proprio la ricchezza di quella vita spirituale
che credono difendere contro il razionalismo astratto), senza separare la
ragione dalla fede. Se separata, non sa precisamente che cosa si proponga di
dimostrare; disincarnata, la sua dimostrazione, risultato di un'’astratta concatenazione
concettuale e priva di quella forza reale che può attingere solo dalla pienezza
e dalla concretezza della vita spirituale, è di un Dio che non è quello
dell’esperienza religiosa ed umana. Teniamo fermo il punto centrale della
questione: l’esistenza di Dio si dimostra razionalmente, dunque è una verità di
ragione; ma la ragione è chiamata a dimostrare, senza fondarsi sulla fede, il
Dio della coscienza religiosa, Quello che gli uomini invocano ed adorano, e,
per una filosofia cristiana, il Dio della Rivelazione. La fede non interviene e
non deve nella dimostrazione, ma è lì presente ad indicare alla ragione qual’è
il Dio di cui è chiamata a dimostrare l’esistenza; è indicativa della meta da
raggiungere e, dunque, in certo senso, orientativa: è l’assente presente. L’esistenza
di Dio, dunque, è verità di ragione e anche di fede. Ma il fideismo, oggi più
pericoloso che mai dopo quasi tre secoli di accanita corrosione della
metafisica, è tentatore e non risparmia neppure la coscienza comune. Infatti,
quasi sempre si dice: io credo o non
credo nell’esistenza di Dio facendo di
essa, implicitamente e spesso inconsapevolmente, una questione di pura fede. Il
pensiero speculativo moderno, quando non è ateo o indifferente, è
prevalentemente fideista ed afferma che l’esistenza di Dio, di cui si riconosce
l’esi-genza, non è dimostrabile razionalmente: è una credenza, un bisogno
morale, un atto di volontà, un affare intimo, un sentimento personale. Di qui il
pragmatismo e il volontarismo religioso: credo nell’esistenza di Dio che non
posso dimostrare razionalmente; credo, voglio credere che esiste e dunque esiste. Un dunque inconcludente. Fideismo è agnosticismo; alla
ragione agnostica, oppone la volontà credente: posizione insostenibile e
contraddittoria. Vi è ancora un’altra forma non agnostica nè scettica di
fideismo, quella protestantica, che non nasce dalla sfiducia nei poteri della
ragione, ma da una reazione contro di essa, considerata troppo pericolosa e
nemica della fede; contro la ragione che pretende di risolvere, non solo il
problema dell’esistenza di Dio, ma anche Dio stesso nel processo del pensiero,
come se Dio e la religione fossero questioni puramente razionali e filosofiche.
È il fideismo che combatte il razionalismo deista o ateo (il
deismo, in fondo, è ateismo bello e buono), la pretesa della ragione di dire
tutto intorno a Dio, di costruire una religione naturale o razionale, o di
risolvere il momento inferiore della coscienza
religiosa in quello superiore della coscienza filosofica o della
razionalità. In questa forma di fideismo vi è un fondo di verità: rivendicare i
diritti della fede contro la ragione scatenata, quella dello Hegel, e, come
tale, irrazionale per passione e cecità; indicarle che il Dio che si cerca non
è quello filosofico o l’ Ente supremo di ragione del deismo e neppure il Dio che si fa . Ma vi è anche un gran torto:
rivendicare i diritti della fede contro 222 Filosofia e Metafisica la ragione e
concludere che essa nega Dio e la fede, è loro nemica, il diabolico nell’uomo, come sostengono, per
esempio, Unamuno e Chestov. Invece la fede deve far valere i suoi diritti non contro
ma con la ragione, di essa giovandosi; se è contro la ragione è contro se
stessa: non si può credere senza o contro la ragione; il conflitto distrugge i due
termini. Il fideista dimentica che la sua è sempre la fede di un essere
razionale e dunque sempre imbevuta di ragione, come quest’ultima, pur distinta ,
non è separata dall’altra, altrimenti è ragione atea: deista,
illuminista. Il fideismo puro, che è ateismo della ragione e dunque fede per disperazione , è esso stesso ateo;
l’ateo precisamente si rifiuta di credere perchè, secondo lui, la ragione
smentisce la fede. La difesa della ragione, dentro i limiti delle sue capacità
naturali, è anche difesa della fede (2). Posto ciò, contrapporre il Dio della fede
al Dio della ragione è architettare un’antitesi convenzionale ed inesistente,
se per ragione s'intende non quella immaginata dal razionalismo assoluto, ma la ragione
normale, la quale non si oppone alla fede, non le si può contrapporre, nè la
fede ad essa. Nel caso del problema che stiamo discutendo, essa argomenta
intorno all’esistenza di Dio per dimostrarne la verità, cioè per confermare la
credenza religiosa. Collaborazione, dunque: dimostrare cor la ragione
l’esistenza di Dio a cui si crede per fede. (2) Queste mie affermazioni
esplicite e chiare rendono inspiegabile il discreto sospetto dello STEFANINI (Ricostruzione metafisica,
cit., p. 387) che anch'io non rasenti la
metafisica della fede per la mia insistenza (sì, insistenza, e senza sospetti neppure
discreti) nel sostenere che nella dimostrazione dell’esistenza di Dio bisogna
tener conto della coscienza religiosa e cristiana dell’uomo. Tutto quanto
questo saggio esclude il fideismo, la metafisica della fede e la petitio
principii di presupporre ciò che si deve dimostrare. Vedo che anche C. Ferro
(Guida storico-bibliografica allo studio della filosofia, Milano, 1949, p. 162)
accusa me e lo Stefanini, senza neppure discreti sospetti, di fideismo e volontarismo ; ma che si può fare contro le
accuse gratuite ed orchestrate sempre nello stesso ambiente se non alzare le
spalle e continuare tranquillamente il proprio lavoro? L'esistenza di Dio 223
Con ciò si soddisfa ancora un’altra profonda esigenza: la esistenza di Dio non
è solo una verità razionale, ma di tutto l’uomo: verità integrale dell’uomo
integrale. Non della ragione astratta, disincarnata, ma della ragione concreta,
profondamente umana, che non prescinde dall’uomo nella pienezza della sua vita
spirituale. La ragione filosofica, che non è quella geometrica , non ha da essere
passionale ma non può non essere appassionata, accesa , ad alta tensione; è passione di
verità (eros) e, come tale, anche finesse. Solo in quanto eros è ragione
penetrante: solo in quanto si accende di amore per la verità attinge la verità;
in questo senso è vero che l’uomo conosce anche razionalmente per quanto ama, e
più ama e più conosce. Pertanto dimostrare l’esistenza di Dio non è
un'operazione, diciamo così, di ordinaria amministrazione; non è fare un
calcolo, mettersi di fronte ad una questione indifferente, con indifferenza e
quasi con pigrizia: non ci si esercita con questo problema. È necessario
viverlo intensamente, nella drammatica alternativa del sì e del no, da cui
dipende tutto il senso della nostra esistenza e delle cose, la consistenza
essenziale del nostro accidentale vivere. Riflettere sul problema dell’esistenza di Dio è sopravvanzare
con la ragione, nell'amore per la verità, la stessa ragione per renderla
aderente a quella, verità primale che la illumina, per mezzo di cui giudica e
che pur la trascende (*). Dimostrazione rigorosissima, ma il cui rigore logico
deve essere vita e non morte dello spirito, fiamma di verità e non estintore. È
qui che presta il suo aiuto la fede, pur senza interferire: la sua presenza
indicativa è anche incentiva, eccitatrice dei poteri della ragione, sollevata
al massimo della sua forza normale dalla consapevolezza che la risposta che da
essa si attende, è quella del sì o del no al problema assoluto. La risposta
dev'essere senz'altro conforme 6 Amore petitur, amore quacritur, amore
pulsatur, amore revelatur, amore denique in co quod revelatum fuerit permanetur
(S. Acostino, De moribus cath. ecclesiae, c. XVII, 31). 224 Filosofia e Metafisica
alle conclusioni della dimostrazione, quali che siano, ma le conclusioni stesse
sono più sicure razionalmente se si è certi che la ragione abbia fatto il suo
dovere, fino in fondo. Perciò la ragione riflessa non può non tener presente
l’oggetto della fede religiosa, di un’esperienza che non può essere
un'illusione universale (se il teismo lo fosse, sarebbe la ragione ad
autorizzare tale illusione!); e, a sua volta, la fede si tenga sempre ancorata
al suo fondamento razionale: credendo cogitat et cogitando credit (*). (4) S.
Acosrino, De praedestinatione sanctorum. Molti i portatori di ferule, pochi i bacchi ,
nè basta portar la ferula per essere un bacco; lo è chi è acceso del sacro
fuoco. Similmente, non basta esercitarsi a dimostrare l’esistenza di Dio, ornarsi di
sillogismi e filati discorsi, anche se indispensabili ; è necessario impegnarsi con la totalità di se stessi, dirigere,
unificate e solidali, tutte le proprie energie spirituali e vitali verso lo
stesso punto; fare sul serio, perchè si tratta dell’unica cosa assolutamente
seria della nostra esistenza. Ciò richiede particolari disposizioni, una reale
condizione psicologica di tutto l’essere spirituale che esclude l’indifferenza
e la pigrizia ed include la consapevolezza della profondità della questione,
dell’urgenza improrogabile di risolverla, della totalitarietà della risposta,
dalla quale dipende persino se noi siamo veramente o solo apparentemente degli
esseri intelligenti e non cose, il cui funzionamento organico ha delle
singolari manifestazioni dette
impropriamente pensiero, ragione, volontà che gli altri organismi animali non hanno,
beati loro in questo caso! Non si dimostra l’esistenza di Dio senza aderire
pienamente alla verità che si vuol provare, se non si è disposti a dimostrarla,
chiamati dall’interno di noi a tentare la prova. Non è
una chiamata qualsiasi: è quella dell’Essere che scende in noi e sale dalle
profondità del nostro essere; nè chiamata vi sarebbe se l’atto della creazione
non ci avesse radicato in Lui. La chiamata aspetta in silenzio quando noi,
perduto il senso autentico del nostro 226 Filosofia e Metafisica esistere
nell’onda del tempo, dall’Essere ci sradichiamo: déracinés, sperduti e campati
nel vuoto; allora le ore inesorabili s'incurvano fino a saldarsi e ad
annientarci nel cerchio del finito più insignificante, opprimente, insopportabile.
Se le cose stanno così, dimostrare Dio significa desiderare una tale certezza
della sua esistenza da essere poi nella condizione di non più dubitare;
infatti, è sapere tutta la verità di tutta la nostra vita, ciò che appunto
toglie il potere di dubitare di Lui. È l’atto dell’adesione totale e traboccante,
il momento della piena armonia, dell’equilibrio del nostro essere integrale,
che trova il suo appagamento nella conversione all’Essere; è la fedeltà, 1! non
poter dire di no. L’uomo è libero solo se è liberamente prigioniero della verità.
Perciò, la dimostrazione dell’esistenza di Dio, affinchè la ragione sia nella
condizione di rendere al massimo , esige
preventivamente una conversione di tutto l’uomo a quel problema. Tale conversione al problema (non a Dio) riguarda innanzi tutto
la ragione. Sofistica non è la ragione retta, ma quella deviata;
sofisma è un’argomentazione corretta nella forma ma sostanzialmente errata,
gioco di sottigliezze non forza di ragionamento; perciò chi sofistica è sempre
contraddittorio. Vi sono nella sua argomentazione nessi e relazioni formalmente
coerenti, ma il discorso è ugualmente errato ('). È la stessa ragione che lo
corregge dimostrando falsa l’affermazione da cui muove e argomenta, ma non
potrebbe se non le fossero presenti i princìpi veri a cui deve uniformarsi. Ciò
significa che la verità non è nel nesso razionale, ma nel principio secondo cui
esso è fatto: i nessi razionali (le argomentazioni) sono veri se il principio è
vero, sono solo formalmente corretti e sostanzialmente errati se muovono da un
errore assunto come verità. Da questo punto di vista la ragione è inferiore
all’intelligenza Le raisonnement n'est pas la raison; il en est
souvent la parodie (E. Hetto, Du Néant è
Dieu, Paris, 1921, p. 154). L'esistenza di Dio 227 che intuisce i princìpi,
fondamento su cui la ragione argomenta; ma la verità dell’argomentazione non è
nel puro nesso logico, opera della ragione, ma nel principio, conosciuto
dall’intelligenza, che ne è il fondamento. L°’intelligenza è illuminata
direttamente dalla verità, la ragione mediatamente attraverso la prima, la
quale, nella sua immediatezza, è infallibile. L'intelligenza non è sofistica,
la ragione può esserlo fino al punto di dire vero al falso e falso al vero, di
convincere di menzogna, di sofisticare la verità: il sofisma è l’alibi della
menzogna; buona parte della vita individuale e sociale è volgare sofisma. La
ragione riceve luce dall’intelligenza, intuitiva della verità e creatrice di
verità; giudica di ogni cosa e ci fa conoscere la verità delle cose, ma solo in
quanto l’intelligenza la illumina, la fa feconda di verità; l’una è la verità
fresca, allo stato incandescente, zampillante come sorgiva, l’altra è la verità
riflessa, solidificata. Ma affinchè sia verità riflessa è necessario che sia riflessione
secondo verità , che si converta , s'indirizzi alla verità e soltanto ad essa:
solo purificandosi della tendenza sofistica, la ragione si eleva al livello
della sua vera natura, riconquista se stessa in tutta la forza di cui è capace;
affinchè possa dimostrare la verità di una proposizione e conferirle tutta la
sua potenza logica è necessario che essa sia tutta della e per la verità. Solo
a questo livello la ragione conquista e realizza tutta la sua forza normale;
fino a quando è nell’errore, è al di sotto di se stessa e l’uomo al di sotto
dell’uomo. La sua natura di uomo lo sollecita semplicemente a vivere al suo
livello di uomo. Eppure soltanto l’uomo, tra tutti gli enti creati, non vive al
suo livello normale, sempre in squilibrio sul punto del suo equilibrio
integrale; tutti gli altri viventi sì; la bestia è tutta la bestia che è,
difficilmente l’uomo è tutto l’uomo che è. Destino tremendo, drammatico, quello
che alimenta insopprimibile una filosofia dell’integralità. Sembra di facile
attuazione il 228 Filosofia e Metafisica comando sii tutto l’uomo che puoi
essere ; è invece tremendamente difficile: io non so mai in quale condizione
raggiunga il limite della mia umanità totale. Ammesso pure che lo raggiungessi
e ne fossi sicuro, non basterebbe per salvarmi: questo livello posso perderlo
in ogni attimo ed ogni attimo debbo riconquistarlo. Salvarmi non dipende solo
da me; da me dipende mettermi nella condizione di esserlo: qui tutto il senso
di una filosofia cristiana dell’integralità. È evidente, dunque, che quando
parliamo di ragione o dell’uomo senz’altro al livello di tutta la sua forza
normale non intendiamo un’assurda super-ragione o un assurdo superuomo, che è
la negazione dell’uomo o meglio la sublimazione di quello inferiore, ma
semplicemente della ragione che sia tutta la ragione, dello spirito che sia
tutto lo spirito, dell’uomo che sia tutto l’uomo, cioè che attui integralmente
tutto il suo essere secondo l’ordine dell’essere, in modo che sia la pienezza
di se stesso. Ma qui è il punto: non c’è attuale e totale normatività dell'uomo
se ogni sua energia e forma di attività non sia indirizzata a Dio; e non c’è
salvezza se Dio non lo salva. Solo in questo caso la pienezza dell’uomo è
colma. La filosofia cristiana dell’integralità è la filosofia dell’umiltà
assoluta. La disposizione intellettuale di conversione alla verità è anche disposizione morale,
processo di purificazione di tutto lo spirito, elevazione al suo livello
autentico: è mettersi nella condizione di esser liberi dall’errore. Per dimostrare
secondo verità, è necessario escir fuori dal nostro egoismo, dalle nostre
passioni, sofisticherie e bassezze: solo allora la ragione dispone di tutta la
sua efficacia; non sottomettere il pensiero alla concupiscenza, le norme del
giudizio alle cose da giudicare, in modo da ascendere al livello dello spirito,
fino al punto in cui la sua attività, convertita al problema, converge tutta
nella sua soluzione. Non basta ragionare secondo la logica, è necessario
esistere, pensare, ragionare secondo la verità. Alla base L'esistenza di Dio
229 dell’autentica ricerca filosofica vi è una iniziale onestà di pensiero e di
volontà, che è frutto di ascesi e purificazione: non si conosce la verità se
non si è già nella condizione intellettuale e spirituale di essere degni di
conoscerla. La sua scoperta è la scoperta dell’io profondo a cui è interiore, è
il premio di chi si è liberato dell’io superficiale, egoista, frammentario,
disperso; premio dell’onestà fondamentale di una ragione votata alla verità e
di una volontà che è buona volontà di servirla. Tutti possono far versi, ma son
pochi i poeti; e non vi è poeta senza una particolare condizione di spirito,
quella che chiamano estro; e vi è anche un estro filosofico, come ve ne è uno religioso ed uno
anche scientifico. L’ estro della
filosofia è l’amore incondizionato della verità, che è poi, anche quando non se
ne ha coscienza, amore di Dio, che è la Verità; i bei discorsi , di cui parla Socrate, sono il
suo modo di pregare, la maniera con cui la ragione si rivolge alla verità, come
ne testimonia purificata e purificantesi sempre più e meglio nella verità
stessa. Solo allora le argomentazioni manifestano tutta la loro forza normale.
Questa la condizione per acquistare tutta la consapevolezza possibile della
nostra iniziale e finale partecipazione all’Essere. Come abbiamo già detto, del
nulla non c’è discorso nè filosofia: il
nulla è il nulla e non avrebbe alcun senso senza la positività dell’essere.
Ogni ente è l’essere che è; è il richiamo, la sollecitazione dell’Essere che lo
stimola ad essere il pieno attuale ed ascendente del suo essere: l’ente
spirituale emerge perennemente dal suo essere per la spinta che riceve
dall’Essere che lo ha creato e l’attrae. La partecipazione all’Essere gli dà
tanta ricchezza da sentirsi come afflitto, (2) Difficilmente la forza attuale delle attività dell’uomo è tutta la loro forza
normale , la quale, d’altronde, anche
allo stato interamente attuale, non è mai autosufficiente, anche se sufficiente
nell'ordine naturale. Anzi la normatività piena è impossibile senza la
convergenza di tutto lo spirito in Dio, cioè senza la condizione attuale della
transnaturalità. L’autosufficienza, invece, è l’al di là della norma,
l’abrorme, che è la negazione dell’uomo. 2% Filosofia e Metafisica più che
dalla sua povertà, dalla pienezza potenziale che non riesce a rendere tutta
attuale. L'uomo è sempre più di quel che è in un’ora: in ogni oggi ha sempre un
domani. Perciò è speranza e fedeltà e non nostalgia, che è del disperato, di
chi non ha domani significante ed eterno, dei sradicati dall’essere. È
nostalgico chi nel futuro vede il nulla e nel presente il vuoto: misconosce la
partecipazione iniziale e perciò si volge al passato, non perchè lo trovi significante,
ma per un fatale abbandono in ciò che non è. L’uomo è lievitato dall’essere:
farina che si fa pane, sempre nuovo pane: la fame dell’essere è lievito
inesauribile. Ogni ente è dato, ma è esso che si fa, si costruisce nello
spirito, ma solo perchè si costruisce nel e sull’essere; il livello dello oggi
sporge sempre in quello del domani: lievito e lievitazione perenne. È la
tensione della vita spirituale nella sua integralità; nè teme rotture, perchè
la tensione dell’essere all’Essere è il tonico , il ricostituente dello spirito. È la tensione al finito che
spezza l’esistenza; quella all’infinito, risposta totale alla chiamata, è
l’autenticità della creatura, che salda e tempra il legame d’amore e di verità
dell’atto creativo. Da un punto di vista empirico questa tensione incandescente
può far sembrare allucinata e allucinante la vita; ontologicamente, nella
dimensione dell’essere al livello di tutta la sua forza normale, è luce piena
dell’esistenza, che ha saputo addossarsi fino alla sofferenza (distacco e
riconquista) tutta la pienezza della vita. Pour étre vraiment homme il faut accepter
d’ètre et accepter l’ètre sans aucune réserve (L'’ontologo, il metafisico vero, non parla dell’essere, vive del e nell’Essere assumendosi il problema
totale del significato del suo essere integrale, fin nelle sue profonde ed
abissali radici. Tale condizione è esigita assolutamente dalla dimostrazione
dell’esistenza di Dio, dell’unum necessarium, dal pro(3) BaLtHAsar. L'esistenza
di Dio 231 blema essenziale della filosofia essenziale: tutto il dinamismo
della vita spirituale è chiamato a convergere nella soluzione del problema
totale della verità totale. Solo allora non capiterà d’incontrare persone che
conoscono benissimo tutte le prove dell’esistenza di Dio tanto da saperle
esporre meglio di coloro che ne sono convinti, ed essere atei ugualmente; o
altre che ne sanno dimostrare esattamente l’esistenza a degli atei senza
convincerli, pur avendo costoro perfettamente inteso per filo e per segno tutti
i processi logici. Che manca? manca la tensione, la convergenza totale della
vita spirituale e di tutte le sueinfinite ed a volte misteriose energie. Non
basta mettere in opera la ragione, a tavolino, tranquillamente; occorre che io
metta in moto, con la ragione, tutto me stesso, in modo che essa viva di tutta
la mia vita, pulsante di tutte le energie del mio spirito. Si scoprono allora
nella ragione una forza insospettata e risorse che sembrano quasi non
appartenerle; e laragione scopre nello spirito la presenza di qualcosa che
prima intravvedeva solo confusamente: si fa luce e nella luce cerca e dimostra
secondo verità, con intelligenza, con quell’intelletto di amore, che potenzia
le sue capacità dimostrative senza comprometterle. La ragione cerca e trova,
cerca scopre dimostra, vivente di tutto il mio spirito, non l’Ente necessario o
la Legge o la Causa, ma il Dio creante, vivificante, provvidente: lo scopre
essa che ama, ed è vita ed è artefice di verità, perchè dalla verità
illuminata. La originaria ed oscura nozione di Dio si chiarisce ed il presentimento
primitivo, che ha sempre orientato e sollecitato ogni atto spirituale, si svela
come verità razionalmente vera. La dimostrazione è ricca di tutta l’intensità
presentativa della verità: tutto lo spirito dimostra l’esistenza di Dio, perchè
tutto convergente in questa dimostrazione. La prova non è soltanto lavoro di
dialettica e concatenazione astratta di concetti, ma di logica incarnata, piena
di tutte le risorse, adesione integrale dello spirito integrale. Allora ogni
ente 232 Filosofia e Metafisica conosce il senso assoluto della sua
contingenza: la risposta è tutta la sua verità, tutta la sua realtà; orienta
indefettibilmente la vita nel tempo di
un passato che altrimenti non importerebbe più e di un futuro che diversamente
sarebbe inutile all’eternità. La prova
non ha fatto certamente che Dio esista; il suo rigore logico ha confermato
l’essere di Dio, del Trascendente interiore; ed è tale presenza che ha reso
possibile la prova stessa. Il presentimento, prima segreto e confuso, si
traduce in termini discorsivi: la vita dello spirito, nella consapevolezza
razionale della sua significanza, trova pace nella verità operosa e creatrice
di nuovi veri, che sono nuovi beni, al di sopra e al di là delle parvenze
sensibili e delle schematizzazioni astratte, in una pace che è solennità di
pensiero maturo e compiuto, operosità di volontà inesauribile nella
realizzazione del bene. Trop de vérité m’étonne, scrive Pascal. M°étonne non
direi, perchè la verità non stordisce nè fulmina: la verità illumina. Certo
che, nello stato naturale dell’uomo, resta una zona infinita di Luce, che, per
troppa luce, non si penetra. Vedere buio nella Luce: è questa la reale
inquietudine dell’uomo, la sua felice e feconda infelicità sulla terra. La Grande Luce è per noi la Grande Tenebra:
più si riflette sulla sua essenza e più la Luce inviolabile ed accecante
nasconde a noi il suo essere. Di qui l’irresistibile bisogno del ritorno all’
Essere, di veder nella luce tutta la Luce. Con Agostino ed il migliore
agostinismo e S. Tommaso ne è il più
originale assimilatore noi rivendichiamo
una dimostrazione dell’esistenza di Dio in tutta la sua efficacia concreta, che
solo la vita dello spirito e il suo interiore dinamismo le possono conferire.
Dio non si dimostra ambulando (Aristotele, a mo’ di esempio, insegnava passeggiando ) ed astrattamente sillogizzando
come se bastasse un sillogismo per far decidere del senso di tutta la umanità e
delle cose. La vita spirituale è più ricca della ragione, anche se è vero che
non vi è vita spirituale senza ragione. È necessario che nella prova vi sia la
solidarietà essenziale di L'esistenza di Dio 233 tutti gli elementi attivi e
reali della vita dello spirito (vedute dell’intelletto, disposizioni della
volontà, amore di verità, rigore razionale, indicatività della fede e desiderio
di possederla, insegnamenti della tradizione ecc.) concorrenti allo stesso
scopo: solidarietà essenziale di elementi in una convergenza totale, orientata
e guidata dalla primitiva verità interiore. A questo livello e sulla base di
una razionalità sì piena e pregnante l’esistenza di Dio si presenta come verità
assoluta e la sua non esistenza come affermazione insensata e ipotesi proibita;
a questo livello la ragione dimostra, inconfutabilmente, che vi è l’Essere
creatore trascendente, Bene e Provvidenza, Principio unificatore della vita
spirituale di ogni singolo ente razionale, Verità che dona a noi la verità,
Luce della nostra mente, Valore assoluto, fonte di ogni valore. Tutto converge
in Lui perchè tutto è da e per Lui. La verità in me, immagine della Verità in
sè, presentimento primitivo di Dio e principio motore originario di tutto il
mio movimento spirituale, se non sono assente a me stesso, fa sì che tutta la
mia attività armonizzi in una convergenza radicale assoluta; solo essa ha il
potere di unificare tutti i momenti della mia vita e dirigerli verso la meta
unica. Se, come abbiamo scritto altrove, in me mancasse la presenza operante di
questa intuizione originaria, se essa
non esercitasse il suo potere sintetico ed unificante, la mia vita sarebbe
sparpagliata, dispersa in tante direzioni insufficienti e tutte insieme
inefficaci ad unificarla e a dirigerla verso un punto assoluto e totale. E’ la
condizione dell’ateo, dell’insipiens, che non sa più dove vadano e dove cadano
i brandelli della sua insignificante esistenza. Ed è una condizione ”’irreale”’
perchè frutto di ignoranza e di errori, disconoscimento o falsificazione della
reale condizione dell’uomo... . Perduto l’essere, si spezza l’unità
dell’esistenza, si disperde nel frammento: è la disintegrazione, il
disfacimento; questa la morte, non quella corporea. Un uomo ed una società
senza Dio sono fuori dell’uomo € 234 Filosofia e Metafisica dell’umana
convivenza. In una società che ha ucciso l’uomo perchè ha ucciso Dio, non si
comunica perchè la comunicazione è possibile solo nella verità. Solo tenendo
presente che la nozione di Dio vivifica, penetra, permea, imbeve ‘e mette in
moto l’interezza della vita spirituale, per cui la forma logica
dell’argomentazione aderisce perfettamente alla concretezza dell’integrale
realtà umana, si coglie tutta l'efficienza di cui la prova è capace. Pace della
mente nella verità creatrice di nuovi veri: mente vera; pace della volontà
inesauribile nella realizzazione del bene: volontà operosa. Mente vera e
volontà buona: è la rettitudine dell’uomo. La pura razionalità non è intelligenza , che include l’altra e
l’oltrepassa; la prima, fatta di nessi e di rapporti, o è astrattismo e
formalismo, o conoscenza dell’empirico: c’è razionalità pura dell’astratto e
delle cose fisiche (la Critica della ragion pura, da questo punto di vista, è
una metodologia delle scienze). Di Dio non c’è pura razionalità, ma intelligenza
penetrante. Nel conquistare la verità della Sua esistenza vi è un recupero
dell’io profondo, del sensus sui, della verginità e schiettezza del nostro
essere, della sua ‘autentica originarietà: è la prossimità del noi sorgivo alla
Sorgente eterna. Il pensiero moderno ha voluto essere razionale e perciò è scientifico e metodologico; si è
privato dell’ intelligenza di Dio e perciò ha cercato di demolire o fare
a meno della metafisica: ha confuso i due piani diversi dell’empirico e del
metafisico. Posizione formalisticamente razionale , ma non ragionevole. La ragionevolezza è la razionalità fatta penetrante
dall’intelligenza e vivificata dal sentimento: chi è ragionevole non può negare
l’esistenza di Dio. Perciò è necessario avere tanta ragionevolezza da non
‘essere puramente razionali o passionali, tanto calore di sentimento da rendere
umana la ragione e tanta forza di ragione da purificare ed illuminare il
sentimento, in modo che la verità dell’esistenza di Dio manifesti tutta la sua
razionalità L'esistenza di Dio 235 e ragionevolezza, che sono anche quelle
della ragione. Tutto il nostro discorso è un invito ai razionali e ai passionali affinchè tornino ad essere ragionevoli . A questo punto, dimostrata
razionalmente e con una ragione ricca di
tutto se stessa — l’esistenza di Dio, il discorso della filosofia cessa e
comincia quello della fede. Ma il filosofo deve dire di sì alla sua vocazione
di arrivare , di spingersi fino a questo
punto, se pensa interamente, se è spietatamente critico : non deve fermarsi a
metà. Egli non può sottrarsi alla responsabilità di realizzare quell’equilibrio,
in cui tutta la vita dello spirito è compresente, solidale e unificata, in cui
si attua la rormazività piena, inclusiva di tutte ie norme di ogni forma di
attività e di tutti gli equilibri parziali. Il filosofo non può sottrarsi,
costi quel che costi, ad elevarsi — senza niente disprezzare o respingere di
quanto ha positività al livello in cui
l’essere conquista la sua chiarezza nella partecipazione consapevole
all’Essere, in cui si coglie l’intelligibilità metafisica del senso dell’esistenza,
il suo significato assoluto nell’immortalità e nella speranza della salvezza.
Poi la fede, quella che ha tale forza attrattiva da sollevare l’anima al punto
in cui cade in Dio, suo centro di gravità. Se mi
seppellisco nel mondo, mi faccio cosa tra le cose, mi sottraggo alla legge
della gravitazione degli spiriti, la terra mi ghermisce, mi attrae e terra e
fango mi coprono. Se dal mondo ascendo, non per derlo di vista ma per
riconquistarlo, vedo tutto il creato nella luce dell’Essere che è Verità. Da
questa altezza il mondo non mi attira e lo vedo sospeso a Dio, in cui gravito,
in cui bramo cadere non per annullarmi, ma perchè la sua Luce mi
trasfiguri. A questo punto il discorso si conclude come Agostino il XV ed ultimo libro del De
Trinstate — precatione melius quam disputatione. Di diritto e di fatto il solo
Istituto e il solo sistema dottrinale che riconoscono e garantiscono la libertà
autentica del pensiero e dell’azione sono l’istituto della Chiesa cattolica e
il sistema dottrinale filosofico-teologico del Cattolicesimo. Una tale
affermazione, nei tempi perduti che l’umanità attraversa, a prima vista,
superficialmente e solo in ap- parenza, è scandalosa e sconcertante. Dal
Rinascimento in poi, attraverso i libertini , gli spiriti forti , i deisti del Seicento e
successivamente i cosiddetti liberi pensatori del giacobinismo settecentesco e del laicismo
dell’800, si è prevenuti a vedere nella Chiesa e nel Cattolicesimo la nega-
zione della libertà e di ogni libertà e ad identificare l’una e l’altro con la
coazione più oppressiva e tirannica. La lotta. tra la Chiesa e le altre
confessioni religiose, le teorie politiche moderne, il liberalismo e il
marxismo è stata interpretata, da storici e scrittori non cattolici, come la
lotta tra l’oscuranti- smo della tirannia chiesastica e clericale e
l’affermarsi della libertà dell’uomo, con una confusione di problemi e piani €
un travisamento di fatti e princìpi che può solo spiegarsi con la graduale e
progressiva ignoranza, caratteristica del mondo moderno e contemporaneo, di
quel che sono la Chiesa e il suo complesso dottrinale. Di fatto è accaduto
sempre al contrario: quando un’au- torità ha misconosciuto i diritti della
persona umana e ogni forma più elementare di libertà, si è trovata di fronte,
non nemica ma intransigente e irriducibile, la Chiesa di Roma senza paure al
cospetto di qualsiasi tirannide, per cui gli 240 Filosofia e Metafisica
oppressi hanno in Lei visto l’unica speranza e cercato l’estremo rifugio. Così
ogni qual volta gli stessi uomini che mettono in moto le forze oscure del
potere e dell’ambizione, sopraffatti dallo stesso ingranaggio da essi scatenato
ed impotenti ad arrestare lo sfacelo di ogni legge ed autorità a cui consegue
anarchia, perdono smarriti il controllo e il prestigio d'’istituti e leggi è
atterrato, chi raccoglie l’eredità e guida ancora tra tanta tenebra di
sanguinosa violenza negatrice di ogni libertà, è la Chiesa. Ai nostri giorni,
in quei Paesi dove tirannia impera e libertà è delitto da punire di morte, è la
Chiesa che ancora resiste, infonde speranze ed offre un’oasi ristoratrice di
libertà al gregge di uomini che terrorizzato applaude alla sua schiavitù. Per
rendersi conto di come soltanto la Chiesa è sempre stata ed è l’unica tutrice
della-libertà umana e la sola immancabile garanzia di essa, non per finalità
diverse dalla difesa della libertà stessa e dunque non per una sua concezione
strumentale, bisogna che vengano tempi duri, anni in cui la libertà è
minacciata o calpestata. Quando tutti s'inchinano alla realtà di fatto, la
Chiesa protesta per quanti tacciono e difende assiste protegge anche gli stessi
oppressori affinchè costoro, riacquistata la libertà per se stessi, possano di
nuovo sentirsi creature spirituali e redimersi dalla colpa di aver negato agli
altri questo naturale e fondamentale diritto. Questo storicamente. Ma quale il
concetto cattolico di libertà, e, più particolarmente, della libertà di
pensiero? Come intenderla dal punto di vista del Cattolicesimo? Problema
imponente, che in una brevissima nota può essere soltanto sfiorato in quelli
che a noi sembrano i suoi aspetti teoretici essenziali. Innanzi tutto, libertà
di pensiero significa libertà del pensiero, cioè non libertà di pensare quello
che piace, che è la negazione radicale della libertà nell’arbitrio irrazionale
e nel non-pensare, ma di pensare in maniera conforme alla natura del pensiero,
cioè in modo che, pensando, il pensiero avverta Il concetto cattolico di
libertà di pensiero 241 che quel che pensa è confacente alla sua essenza e non
una violenza, che è sua schiavitù. Dunque, libertà di pensiero come tale
significa semplicemente libertà del pensiero di pensare l’oggezto che gli è
conveniente e a cui la sua natura lo porta e sollecita. Ma l’oggetto del
pensiero alla sua essenza conforme è la verità; pertanto libertà di pensiero
significa libertà del pensiero di fronte alla verità, pensare nella verità. Chi
pensa nella verità non può non pensare la verità che l'umano pensiero può
conoscere e chi la pensa, pensa conformemente alla natura del pensiero stesso e
dunque in piena libertà di pensiero, conformemente ai princìpi illuminanti la
ragione e garanzia della veridicità di ogni giudizio. Ma la verità è più del
pensiero che la pensa e per cui esso pensa, in quanto non vi è pensiero senza
il suo oggetto. E’ più perchè non è il pensiero a crearla: la verità è prima ed
indipendentemente da esso; e vi sono i veri che la mente può conoscere perchè
c’è la verità, presente in ogni vero € per cui ogni vero è tale. Se la verità è
più del pensiero, gli sovrasta, lo trascende; dunque, il rapporto
verità-pensiero è di ordine gerarchico: il pensiero deve ubbidire alla verità.
Il diritto » alla sua libertà, a pensare
il vero nella verità, lo esercita, afferma e garantisce solo a patto che compia
il « dovere » di ubbidire alla verità, in quanto è libero solo ubbidendole.
Altrimenti si fa schiavo dell’errore, esce dalla verità che è come escire fuori
di strada, perdersi nel buio di sè a se stesso, pensare disformemente dalla sua
natura, che è non pensare, soffrire della privazione della verità e del peso
dell’errore. Dunque il concetto cattolico di libertà di pensiero si può così
formulare: chi pensa conformemente alla verità pensa conformemente alla natura
stessa del pensiero, il quale è libero quando pensa il suo oggetto proprio,
cioè quando si sottopone all’ordine oggettivo e superiore della verità. Libertà
del pensiero è libertà dall’errore: solo chi si fa servo della verità è libero
dall’errore ed in possesso dell’oggetto che appaga la sua natura e,
appagandola, gli dà la gioia della libertà piena. La libertà è processo di
liberazione dall’errore senza che tuttavia s’identifichi con il processo
attraverso cui si conquista. Similmente la libertà della volontà è libertà dal
male, cioè volere conformemente al bene, il quale sovrasta la volontà e la
trascende; dunque la volontà è libera quando è libera di ubbidire al bene, come
il pensiero lo è quando è libero di ubbidire alla verità. Il concetto cattolico
di libertà della volontà significa: obbedienza libera a legge giusta e buona;
disubbidire in questo caso è farsi schiavi del male e perdere la libertà del
volere. Anche per la volontà, dunque, libertà è processo di liberazione dal
male, conquista del bene e conformità dell’azione al bene voluto, che,
cristianamente, significa amato. Ma ecco pronte le obiezioni o i luoghi comuni:
qui s’impone al pensiero una verità bella e fatta e lo si obbliga a seguirla;
non gli si consente che si scelga la sua verità. Hanno un senso razionale
queste parole ? Non bisogna imporre al pensiero nessuna verità? lasciarlo
sospeso a se stesso, nel vuoto? Ma il pensiero non è affatto libero nel vuoto,
anzi tende a liberarsi dal vuoto da cui rifugge. Bisogna dunque dargli un
oggetto; e quello che gli è conforme e lo rende libero è proprio la verità, che
è tal cosa che non è nè antica nè moderna, nè di ieri nè di oggi: è di sempre,
extratemporale o superstorica, quantunque sia madre del tempo e della storia; è
tal cosa che non può non imporsi al pensiero ed obbligarlo a seguirla. Se il
pensiero dice di no, mentisce, e la menzogna, come l’errore, è schiavitù. i Che
significa che il pensiero, se libero, deve scegliere la sua verità? Ha solo un
senso: scegliere la verità invece che l’errore. Ma di fronte alla verità non
c’è scelta, perchè non c'è più alternativa. Sua, sì, se significa che il
pensiero scegliendola, se ne impossessa, la ama, le si sente unito; se la
fatica della conquista gliela fa sembrare tutta per sè; sì ancora nel senso che
in essa si trova a suo agio e vi si adagia, anche se per una veglia perenne.
No, invece, se significa che Il concetto cattolico di libertà di pensiero la
verità è prodotta o creata dal pensiero, a lui relativa e da lui dipendente,
tanto da essere verità per uno e non-verità per un altro. Tal verità non è più
tale, è opinione; ma qui delle opinioni non si fa questione. In breve: o si
dice dimostrandolo che non vi è verità e non c’è più libertà di pensiero, per
il semplice motivo che il pensiero è sempre nella non-verità; o verità c'è e
allora, siccome la verità è tal cosa che è sempre vera e mutare non può, la
libertà del pensiero ha ‘un senso razionale e comprensibile, se è libertà di
essere nella verità, di conoscerla e amarla, di pensare e giudicare secondo
essa. Ma il pensiero moderno non cattolico ha proprio negato l’esistenza di una
verità oggettiva ed immutabile, dei principi stessi della ragione, per una
verità storica e relativa, che è nello stesso dialettizzarsi e divenire del
pensiero, temporanea e quasi puntuale, produzione mutevole della mutevole mente
umana. Perciò, perduto il vero con- cetto di libertà del pensiero, schiavo
dell’errore, accusa di negatore della libertà il Cattolicesimo, il solo che ne
abbia un concetto vero avente tutta la sua forza normale perchè conforme alla
genuina natura del pensiero, la cui libertà si realizza nell’ubbidienza alla
verità, che è tal padrone che riscatta dalla schiavitù dell’errore ed impone
tale di- pendenza che, solo dipendendone, si è perfettamente liberi. Dentro
questa libertà del pensiero nella verità e della volontà nel bene è legittima e
vera ogni altra libertà: po- litica e sociale, privata e pubblica, ma sempre
tale che si attui nel vero e nel bene e in ubbidienza ad essi. Solo il concetto
cattolico della libertà di pensiero è fondamento e garanzia di ogni altra
libertà, della libertà integrale; perciò la Chiesa difende i diritti naturali
della persona umana, che si compendiano in un solo fondamentale diritto:
libertà di essere per la verità che è esser liberi di tutta la libertà e
liberati dalla schiavitù dell’errore. Tale libertà ha un solo limite: la verità
per il pensiero, il bene per la volontà; perchè non ha senso una libertà del
pensiero e della volontà oltre la verità, al di là del bene. Oltre la verità e
il bene c'è il nulla di verità e di bene, che è il nulla di pensiero e di
volontà; e nel nulla non c’è questione nè di libertà nè di schiavitù: c’è il
nulla della persona umana, di ogni suo di- ritto e dovere. Pensare fuori della
verità è non pensare e non essere affatto liberi di pensare; è sbrigliarsi
nell’errore, che è il niente del pensiero; pensare quel che piace è rifiu-
tarsi di pensare quel che è vero, è il non-pensare perchè ciò che piace non è
oggetto del pensiero ma del senso. Se si abbandona il piano della libertà
spirituale o di pensare nella verità si scende a quello della libertà biologica
o vitale, governata dal meccanismo degli istinti e dalla violenza delle
passioni. Allora il soggettivismo incontrollato del « ciò che piace » fa che
l’uomo venga meno alla sua prima libertà so- ciale e morale, quella di
riconoscere e rispettare la libertà dell’altro: è la violenza in tutte le sue
forme, dell’assassinio singolo e di quello collettivo (la guerra), della
rivolta o della tirannide. Per esser libero, l’uomo deve farsi libero di non
fare quel che gli piace, e di fare quel che è giusto perchè conforme all’ordine
del bene, in cui soltanto la sua volontà è libera e all’ordine del vero, in cui
soltanto il suo pensiero è libero. Dunque libertà nella verità e nel bene. Da
un punto di vista teologico questa formula si traduce in quest'altra: libertà
nell’ortodossia. La verità è infinita e si manifesta in aspetti infiniti, che
mai la esauriscono; pen- sare nell’ortodossia è aggiungere qualcosa,
armonizzante col tutto, al sistema dell’inesauribile verità, come una guglia ad
una cattedrale. Perciò noi crediamo che una filosofia, per quanta verità possa
contenere, non è mai tutta la verità e dunque non vi è alcuna filosofia che
possa dirsi tutta la verità cattolica. Tante filosofie perciò, ma non come
tante verità, bensì come tanti veri, parziali e concordanti, della unica
verità, in essa convergenti, come i raggi di un cer- chio convergono tutti al
centro. La Chiesa ha conosciuto nel migliore Medioevo questa magnifica libertà
di pensiero den- Il concetto cattolico di libertà di pensiero 245 tro
l’ortodossia; il pensiero ortodosso non può identificarsi senz'altro con una
filosofia o con una determinata corrente filosofica. Non una philosophia
perennis, perchè perenne c’è solo la verità e la filosofia come ricerca e
scoperta di sempre nuovi veri nella verità, ognuno dei quali è perenne come
particolare vero. Perenne è ogni filosofia le cui verità rive- lano un aspetto della
verità, perchè vive della vita perenne della verità; è ogni pensare
nell’ortodossia, senza esclu- sione, in quanto la verità è soltanto monopolio
di se stessa ed oggetto di ogni pensiero retto e di ogni volontà onesta.
Chiunque abbia scoperto un vero ed accresciuto l’umana conoscenza dell’unica
eterna verità, anche se si dice ateo, contro se stesso, pur essendo schiavo
dell’errore, è libero per quanto pensa e conosce di vero, nella misura in cui
ubbi- disce alla verità, ed è anche cattolico per quel che pensa non
contraddicente l’ortodossia. Il concetto cattolico della libertà di pensiero è
tal cosa che rende liberi anche coloro che fanno di tutto per essere schiavi
dell’errore e del male. Michele Federico Sciacca. Sciacca. Keywords: il
veintennio fascista, metafisica, ontologia. Refs.: Grice e Sciacca” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speraza -- Grice e Scipione: la ragione conversazionale del
circolo degli Scipioni – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Si trova al centro
del più antico portico romano. Console, distrugge Cartagine, ottenne la
censura, dirige un’ambasciata in Oriente, e di nuovo console, distrugge
Numanzia. È un appassionato lettore della "Ciropedia" di Senofonte e
ha tendenza del Portico. Forse, anche per questo motivo, da alle sue orazioni
contenuto morale e vi dipinta la corruzione. A statesman, military leader, and scholar. More
a patron of philosophers than a philosopher himself, he is particularly close
to Panezio. Cicerone regards him sufficiently highly to include him as
character of some of his philosophical works. He is much admired for his
courage and moral integrity. C UM in Africani veniftem, M. Manilio z Confuti
ad quartam legionem Tribunus, ut fcitis, militum ; nihil mihi potiusfuit,
quam ut $ Mafmiffam convenirem, regem farri il \x noftrsejuftis decauflis
amicìfllmum * Ad quem ut veni, complexus me (enex collacrymavit :
aliquantoque polì (ulpexit in calum, Grate (inquic) tibi ago, furarne Sol,
vobifque, 4 rel qui Caelites; quod, antequam ex bac vita migro,
confpicio in meo regno et histe&is P. Cornelium Sci* pionem,
cujus egO nomine ipfo recreor .* ita numquam ex animo meo difcedit illius
Optimi atque invitìiffìmi viri memoria, Deinde ego illum de fuo regno,
illemd denofìra Repub. percontatus eft : multifque verbis uttro citroque
habitis, i 1 le nobis confumptus eli dies « Poftautem regio apparatu
accepti, fermcnemin multata nodem produximns; cumfenex nìtiil nifi de Africano
loqueretur, omnìaque eius non fafta folnm, fed ttiam di&a m^miniflet;
deinde, ut cubitum difcedi. mus, me et de via fefl'um, et qui ad multam noflem
vi t Seipio . Figliuola di
Lucia Emilio Paolo Macedonico, adottato da Scipittne figliuolo dell*
Affici cano il maggiore, che diflrutfe Cartagine e Numanzla
nell'anno 609 Or etto nella difputa di Repubblica follenea cotitra l'
oppln Ione di Filo, che tanto era falfo non poterli lenza commettere
inglnftiiie la Repubblica governare, che anzi dicea non poterli reggere
Lina una » fornirla gluftizia Sant* Agoftino di clb ragiona nel
libro il cap. 21. de Civltate D I, a' cui tempi quelli libri di Rtpubl.
fi leggeano, come pare, ed andavano attorno . 1 Confuti ......
tribunus militum . Ulata maniera, nort Confuti. Diccafi
fimilmente Ir* gatus confuti non confuti . I Maftnifj'am . Re d'
una patte d' Affrica . Solleone in prima 11 partito de* Cariaginelì
contra i Romani, nell' anno di Roma 541. Ma quattro anni apprelfo,
avendo Scipione niello in rotta l'armata d'Afdrubale, rimandò
fé u za prezzo di rifcatto 11 nipote a MalTìnilfa ; per tale eciierofo
ano sì ptefo e per taf modo fu quello principe, che poi fu fempre
cffezionjiiflimo a' Romani . Con erti congluofe l lue forze, e nell'anno
55I. di Roma lì trovb alla battaglia, che quelli guadagnarono contro N
SCIPIONE PARLA, / K . E Sfendomi portato in Affrica, militar
tribuno, co» me fapete, alla quarta legione fotte il Confole Manio
Manilio; non ebbi cofa, che piò a cuor mi folle, quanto il far vifita a
Maflìniffa re per giu» Hi titoli aftezionatiflìmo alla noftra cafa* Al
qua! come fui giunto, il vecchio abbracciatomi, versò lacrime : ed alquanto
appreflo levò, gli occhi al cielo, e, Grazie, difTe o fommo Sole, ti
rendo, ed a voi al* tri, celefti Dii, che, prima di pa (Tare di quella
vita, nel mio reame veggio, ed in quelli foggiorni Pubblio Cornelio
Scipione, pel cui nome i He ITo prendo riftoro: s\e per tal modo
dall’animo mio non fi diparte giammai la memoriadi quell’ottimo, ed
invittiffimo uomo Apprelìò io gli feciftudiofe ricerche del reaméluo, ed
egli Culla Repubblica noftra . Accolti pofeia in reai trattamento,
menammo per la lunga irragionar lioftro fino a gran pezza di notte;
conciofoffèchè il vecchio non avelie alla lingua altro che 1* Africano, è
ricordane non folamente tutte le azioni di lui, mà i detti altresì: come
ci fummo fu levati per andare a letto, e per efier dal viaggio fianco, e
perché io vegliato ayea fino a notte molto inoltrata, mi prefe cm Tonno
più ferrato, che nonfolea. In quefto a me (credo veramente da ciò
procedeffe, di che avevacn parlato ; • O o a che Afdrubale, e dì
Si face . Dopo, la pace conci «fa tra.* Romani ed i Carraginifi
ebbe la fovfanirà di diverfe provincle d* Affrica, e vide Tempre
amico de* Romani . Morì di qo. anni, e lafciò 44. figliuoli di di
vetfe conferii . Dicefi che nell’ ultima malartia pregafle Mal Ho
generale dcll'armata Romana, ad Inviargli il giovane Scipione, affine d*
aver la conio lezione di morire nelle Tue braccia, e per dargli gli
op* portunLordioi, che offcrvati vo lea fui rìpaftimento del fuo regno
.\E da quella contezza per, avventura s’accatta I’occalìone data al
fogno . 4 Reìt^ui Calìtes . Accenna la luna e gli altri pianeti e
delle del elei fu premo, annoverate dalla pift parte degl’Antichi
tra gli Dei. Di che Lattanzio ragiona nel de Fal/a Religione
. Platone nel Cratilo deride sì beftiaJe oppimene vigilaflem, ar&ior,
quam folebat ; fomnuscomplexus eft. Hic mihi (credo equidem ex hoc» quod
eiamus Jocuti : 1 fit enim fere, ut cogitationes fermonefque noflri
parfant aliquid in fonino tale, 2 quale de Homero fcribit Ennius, de quo
videlicetj faepifTime vigìJans folebat cogitare et loqyi) Àfricanus fe oftendit
illa forma, qua: mihi 3 ex imagine ejm, 4 quam ex ipfo, erat notior. Quem
ut agnovi, equidem cohorrui. Sed ille, Ades, inquit, animo ; et orni tee timorem,
Scipio ; et, quae dicam, trade memori. V Idefne ilfamurbem, qu* parere Pop.
Roro. eoa da per me, renovat priftina bella, nec poteft quiefeere
(oftendebat aurem Carthaginem 5 de excelfo, et pieno flellarum, illuftri,
et darò quodaro loco) ad quam tu oppugnandam nunc veois piene miles? hanc
hoc 6 biennio Conful evertes : 7 eritque cognomen id tibi per te
partum, quod habes a nobis adhuc heredita x Fit enim fere iti cogitaiiona
<y c . Socrate appretto Platone nel 1 bro 9. de Repub. di quelle
cagio.ù, il fognar generanti, va nobilmente filosofando. a Squali
de Homero fcribit Bnrtiuf . Leggendo Ennio % e meditando 1 verfi d*
Omero e fluitandone con premura Pihritaiiene, fognò <1* effere divenu'O
O nero, e che l’ anima di colui (offe pattata m etto gialla il Pitagorico
domina . A ciò allude Orai. uell’Epift., Ennius et f api Citi, for «*
tis (5 f alter Homerus . ÌJt
Critici dicunt, leviier curare vìdetur. Ut pronti fa cadant, <y fo»
mai* Pytbagorea w v Oc. nel Luculìo cita un etrffU
cMo del luogo, dove Ennio >1 fuò fogno narrava . Fifus Homr.
rus adejfe poeta. j Ex imagine ejus &c. Allude a que* ritratti
degli antenati, che fottenuto a reano curut ma* gittrato,oche tener
fi folcano appetì uell* atrio. Quam ex ipfo . Vuole 11
Sigonio che nell' anno, che trapafsò 1* avolo Scipione Affocano il
Maggiore, venitte a htee il nipote adottivo 1' Affricano il Minore, cioè
nel 571. fotto 1 confoli Apjlo Claudio Pulcro, e Marco Sempronio Tuditano
. Altri però lo fanno nato due anni prima : e* pare che ciò piò
confuoni all'efpref* fumé, che nel prefeme luogo fi adopera .
5 De exctlf» . 1/ Affocano parlava dal cerchio ^ della via
Latea, gremita di piccole ttel* le, come dicono Ariftoti le 1
thè d* ordinario fuccede che ipenfamenti e difcorfi no* Ari
generano un non fo che di Tinnii nel Tonno, come Ennio Tcri ve a lui Tu
d’Omero avvenire, del qual fovente Tolea nel Vero penfar vegliando e parlarne)
in quello, dilli, a me mi fi fe l’ Affocano vedere in quel
iembiante, che più dal ritratto di lui, che da elio medefimo, m’era
noto* Cui come ravviato l’ebbi, fentii del ribrezzo. Ma egli dà qua mente,
prefe a di* re, o S., e caccia via il timore; ed a memoria manda quel,
che dirò* Q Uella città vedi tu, cheper opera mia cofirettaa
predare ubbidienza al popolo romano, le guerre prilline rinnovella,
nè può racchetarli (ed additava Cartagine da un certo alto lungo, e pien di
flelie, illuminato, ed arioTo) a cui oppugnare ora tt| ne vieni
quali faldato? quella tu interinine di due anni con podellà conlolare
diroccherai: e ti avrai quel cognome per tua opera procacciato, che d^noi
fina do* ra pofliedi ereditario. Quando avrai poi fllrtag'n di firutto,
menato trionfo, e Tara illato Cenfore, e legato avrai cerco attorno T Egitto,
la Siria, .T Alia, e la Grecia, Tarai di nuovo eletto Confole Tenza
cohcorre. re, e recherai a fine una poderofiffi ma guerra, rovine*
O 0 ì rat ^ } Eritrite càgnomin &c. Dite 1* Affricano il Maggiore ;
t* acq unterai per tue valorofe Opere II cognome d* Africano,
che firtadora da me avolo tuo 1* hai ereditarlo . Ottervano che
1* A Africano il Maggiore fu il primiero -tra* Romani comandanti,
dopo terminata la seconda guerra Punica, che fregiato forte del ritolo
formato da natiorte foggìogata da lui . Su tal prorofi'o Liv. nel fine
del llb. 3CXX. riflette . Exemplo fèittdg hujus, tìffHaquàm
V'&ori* p*-, tei •> infignes, imaginum tiiulot tlaraque
cognomina f amili* fi* cin le e Toìommeó, la qUale pef coiai
fimiglianza od apparenza, che ha col ìatte, fa da Greci detta a (•
Svariate furono le oppiniont della cagione di cotal comparfa, ma la piA
naturai pare « quel color fifultare dalla moltttudin folta di quelle
piccole «elle .. Biennio tonfai . Ottervà il Slgonio che 1*
Affrica no fu ben confole due anni appretto, ma pattaron tre anni
prima di compier r imprefa, e la città ditteutte In carattere di proconsole,
come egli dimoftra ue* commentar j de' ratti . . tanurn, Cum aurem
Carthaginecn deleveris, triumphum egeris, Ceniorque fueris, et i obieris
legatus Egyptum, Syriam, Afìam, Grgciam, deligere iterum conful x
abfens, bellumque maximum conficies » Numantiam exfcindes: fed, cum eri* curru
Capitolium inve&us, offencles Renripub. perturbatane confiliis $
nepotis mei • 4 Hic tu, Africane, oflendas opcrtebit patri» lumen
animi, ingemì, confiliique tui . Sed ejus temporis aneipitem video quafi
fatorum viam. Nam, cut» aetas tua feptenos otììes 5 t Solis anfratìus,
reditufque converterit ; duoque .hi numeri (quorum utetque plequs,
alter altera de caufla habetur) circuicu naturali fummam tibi fatalem
confeceriot ; in te unum, atque in tuuic nomen, fe tota con verter
civiras : te Senatus, te omnes boni, te focii, te Latini intuebuntur : tu
eris unus, in quo mtatur civitatis falus: ac, ne multa, 6 diélator Rempub.
confti. tuas oportet | fi impias propinquorum manus effugerìs. Hic
cum exclamafTet Laelius ingemuiflentque ceteri vehementius, leniter arridens
Scipio. Qn^fo, io* quit, ne me e fonino excitetis ; 8 pax ; audite ce*
tera. W 1 Oliar is legatus. Scrive Giuntino nel ìib. j8« che
per esplorare gli animi de re, e de comuni fu mandato legato con
Spurio Mummio, e Lucio Metello . Oc. però dice nel I.ucullo che quella
lega, rione feguì prima della esercirata ceuftira, e così pur fente il
Sigouio . Che qui poi prima fi accenni la ce n fura, fi P u h cib
riportare al cumino, do della efpouzione, alla quale tornava piti
in acconcio il mct. terla prima. z Abfens . Giulia la maniera, d-:
Ila qual parla fovente .Livio, quando fi ragioni dell* elezione de*
magiftrad 1* ai» fetts importa 11 non concorrervi ed il non proiettarli
candidato coll'andare in quel mimerò nel campo Marzo • Glb ben ritrae fi
dal conte fio di molti luoghi degl’istorici, ed olcraccib il
comprova la propria forza di abejj*, il qual verbo importa non l'efier
lontano, ma il non efier prefente. ? Nepotis mei . Intende Ti. berlo
Gracco, figliuoi di Cornelia figliuola dell* lAiTrjcano il Maggiore, il
quale, colla legge agraria taflarsu i 5 0. ju« ger! di poflefTo,
voleva abbattere lo fiato già corroborato degli ottimati *11 fatto t coìrti
Itinio nella llorfa Romana, del quale abtiam già fatto pai volte ricordo.
4 Hic tu, Africane, Vuole. s ui rai Numanzia; ma quando in cocchio
farai condito al Campidoglio, troverai la Repubblica fcompigliau
per le màcchine del nipote mio. Qui converrà che tu, o AfFricano,
facci alla patria vedere il la^reddl* animo, ingegno ed accorgimento tuo
. Ma di quel tempo io veggio ambigua effer quafi la traccia de’ fati .
Imperciocché quando la età tua voltato avrà per otto volte fette tortuofi
giri e ritorni del Sole: e queRi due numeri (che amendue per pieni tengonfi
qual per una cagione e qual per altra) come con periodo naturale t*
avranno compiuta renduto la fatai fomnru : tutta la città in te folo
rivolgeralTì, ed a| tuo nome: in te Afferà lo (guardo il fenato, in te
tutti i buoni, in te gli alleati, ed i Latini: tu farai 1’unico, nel quale la
fai vezza della città foflerraffi: e, per non farla più lunga, d’uopo è che tu
dittatore metti in buon ordine la Repubblica, fe ti verrà fatto di
fcanfare 1 empie mani de’ tuoi parenti In quello avendo Lelio levato alto
la voce, e dato aceefi gemiti gli altri, S. per maniera piacevole (or?
ridendo, deh, difTe, non mi rifcotcte dal foono: fiate chieti :
fentite il refìo. qui il Sigonio accennato il facto di Cajo Carbone tribuno
della plebe, quando condii fle fu’roftri Scipione, ed il coftrinfe
a dire, che gli parerle dell* uccisone di Tiberio Graccp, al J [uale egli
con franchezza rifpo-e, eum [iti fare cafum videri. 5 Soli* anfratti* s
Cosi nomina i giri del Sole per la obliquità del' Zodiaco, per cui vigore il
fole or piega a fettentrione ed ora a meriggio . Cosi pur chiamanti le
curve e sinuose vie de* fiumi e de lidi con rutta proprietà latina. 8
Dittator rempub. Significa, che fenza fallo farebbe ft.uo dittator
creato, per acchetare gli fcompigU della Repubblica, te non folle
flato tolto di vita da* parenti con infidie, ed in O 0 4 HL Affetto
fu trovato morto fui fuo letto. Hic cum exclamafjet . Si finge che
nella leena del fogno v* Intervenirle Lelio e gli altri perfonagoj
accennati di fopra, che deputavano di Repubblica. Or qui Cic.
l’erba il carattere decoroso di S. . Perciocché mentre alPafcoltarfi de
futuri rifichi di lui gli alcolcnnci dimoftrano conimozion d* ani-mo:
folo l’eroe, a cui appartengono, ferba intrepidezza e cofanza % Pa . Voce
da Latini concici ufata ad accennare filenzio. Terenz, Eavtont. 4. j* Unus eiì
dits, dum argentarti eripio, pax, ni AH amplia s . U fai la
pur Plauto. C*ED; quo fis, Africane, alacrior adtotandamRemò pub. fic
habetoi omnibuJ, qui patriam confervarint, adjuveriot, auxerint, certum effe
incacio ac definitum locum, ubi beati aevo ftmpiterno fruantur. Nihil eft enim
illi principi Deo, qui omnero hunc mundum regie, quod quidem interrii fiat,
acceptius, «pian» concilia caetulque hominum ajure lodati, qu*
civitatesappellantur : harum redloresS confervatores ahinc profefti, huc
revertuntur. Hic ego, etfi eram perterritus non tatti metu mortis, quam
infidiarum a meis, quaefivi tamen, viveretne ìpfejPauIlus pater, salii,
quosnos extinflos arbitraremur . Imo vero, inquit, 11 »ivunt, qui 4
exeorporum vinculis, tamquam e carcere evolaverunt . Veftra vero, qua; dicitur
vita, mori eft. Quin tu afpictas ad te venientem Paullum patrem.
Quem ut vidi, equidem vim lacryroarum profudi. Jlle autem me amplexus,
atque ofculans Aere proh.bebat Atque ego ut primum ftetu repreflo loqui polle
1 cce- t 1 Jure focidti. Si accennano tutte le raguuanie, che
risultano dal conienio ed offervauza di legpl . Dà buon lume all* efprcllìone
un luogo di Macrobio. Servili s quondam, die* egli f et gladiatoria manus
concilia, CcBtufque hominum fuerunt, fed non jure {odati . JUa autem fola
eli jufia multitudo, cujus vnitfrjitas in legum tonfentit
otfequium. E quella definizione conviene con quella» che Platone ci
da della legittima moltitudine ne' J'hfl della Repubblica, ed Ariflotile
nel ljb. II. de* Poikic*. I Bine profetili Già nel llb. de'Senec
Spiegammo la fentenza Platonica Sulla origin di tira delle anime, ammetta pure
da Cic. Qui aggiungo in conferma un patto tratto dal V. l* b »
delle Tufculane . Bumanus ani-f ntus decerptur ex mente divi- i
*4, cum alio nullo, nifi cum \ tpfo Deo % fi hoc fas e fi diflu, comparar
i potefi . Or in quello luogo Spezialmente attribuisce il ritorno
in Cielo a quegli Spiriti, che /landò in quella vita, dirittamence
prefederono alle Repubbliche . 3 Vaullus . Che fu naturai padre di
Scipione Affricano il Minore, il quale foftiene il Sogno . Quegli
chiamoflì Lucio Emilio Paolo, che Soggiogò Perfeo Re di Macedonia . L* adottivo
fu Pubblio Scipione figliuolo dell* Affricano il Mag* giore : quello
Affricano ha dato principio all* iftruzione del, fogno ; la quale è fiata
Inter. rotta da Paolo . 4 Ex cor forum vitteulis Ella 1 . v
M A, oAflfrictno, acciocché pibcoraggiofofii a fofìcner la Repubblica,
Tappi, che a tutti coloro, i quali confervatohan la patria, aiutata, e
vantaggiata, v’ha in cielo uo fitto e determinato luogo, dove godan beati
un eterna vita. Imperciocché a quelprincipale Dio, che tutto queir univerfo
governa, di quello, che fi opera almen nel mondo, nulla v’ha di pih accettevole,
che le ragunanze ed i ceti degli uomini per leggi aflTociati, che città
fi appellano : i reggitori, e confervatori di quelle quinci partiti,
quafsh fan ritorno. In quello io, febbene mi trovava (paventato, non
tanto dal timor della morte, quanto dall’ infidie, che m’ordirebbono i
miei, ricercai tuttavia Te vi veflfe l’ifteffo mio padre Paolo, ed altri, cui
noi cedevamo eflinti • Che anzi, loggiunfe, e(Ti vivono, i quali da’
corporali legami, come da carcere, fono via volati La voftra poi, che vita dicefi, ella è
morte. Che anzi volgiti a vedere il padre Paolo, chea te ne viene. Il
qual come veduto ebbi, verfai veramente gran copia di lacrime, Maegli
abbracciatomi, ed imprimendo baci, il piangere mi vietava. Maio come prima,
ripreffo il pianto, cominciai a poter parlare, deh, dilli, o fintiamo, ed
ottimo padre, poiché quello egli é vivere (come lento dire all’ Affricano) che
fio a fare nel mondo? perchè non m* affretto a venire da voi quaf.
sii ? Non va così la faccenda, replicò egli. Se quel Dio, del quale
è tutto quello profpetto, che vedi, non t'avrà dal corporal carcere
liberato, non ti fi può aprire ac ceffo Ella è dottrina ed
efpreltìone Socratica . Nei Fedone di Platone Sando Socrate per ber la
cicuta, tra le altre cofc, cui viene introdotto a dire full* anlma,
prefenti 1 difcepoli; afferma il corpo efierc una carcere dello fpirlto, che
ivi con violenza dimora come legato, il di lui naturai luogo, e
plft puro elTere 11 cielo, e la morte altro non elTere che un
difcloglinienro da quello carcere, ed un ritorno alla maggion
celefte . E coerentemente nd ' Fedone, nel Ostilo, ed in
altri dialogì di Platone il corpo chiamali« 7 a vi»» cui a animi,
e lèCfduvnpiOf career . Che ami alcuni vogliono che ìsutui corpus tragga
Parlino logica origine da Ai? f/os, coltcch<è Ha come Vinculum
animi, ed al corpo li a 0Uìlihp&vn 'luXt! colli» gatus animus
capi, Quasfo, inquam, pater fan&iflìme atque optime, quando hasc eft
vita ( ut Africana m audio dicerc) quid - luoror in terris? quia huc ad
vos venire propero ì Noti eft ita, inquitille. NifiOc*usis, i cujus hoc
templum eft omne, quod confpicis, iftis te corporis cuftodiis Jif beraverit,
huc tibi aditus patere non poteft . Homines cairn funt hac lege generati,
qui tuerentur ilium globunri, quem 2 in hoc tempio medium vides, quae terra
dicitur . Hifque animus datus eft ex illis lempiternis ignibu9,
quas 5 fiderà et ftellas vocatis ; 4quae globo» fae et rotundae, divi nis
animata^ mentibus, circos fuos orbefque confìciunt celeritate mirabili.
Quare& tibi, Publi., et piis omnibus retinendus eft animus in
cuftodia corporis: nec injuftu ejus, a quo ilie eft vobis da tus, ex
hominum vita migrandum eft ; ne munus humanti m aflìgnatum a Deo, defugifte
videamini. Sedfic, Scipio, ut avus h*ic tuus, ut ego, qui ce genui,
juftitiam cole et pi età te m ; quas cum fit magna in parentibus et propinqui,
tum in patria maxima eft . Ea vi* ta via eft in caelum, et in hunc ccetum
eorum, qui jam vixerunt, et corpore iaxati illum incolunt locum,
quem vides (erat autem is fplendidiflìmo candore in» t ter ffommas
circuseluceni ) quem vos, ut aGrajisaccepìftis, $ orbem la&eum nuncupatis.
Ex quo omnia mihb contemplanti preclara cetera et mirabilia vide»
bantur. Erant autem eae ftellas, quas numquam ex hoc loco vidimus;
et eae magnitudinesomnium, quas erte numquam fufpicati fumus . Exquibus
erat ili* minima, qua ultima cacio, citima terris, luce lucebat aliena.
Stellarum autem globi terrae magitudinem facile vin* cebant . Jam
ipfa terra ita mihi parva vifà eft, ut me 1 Cu fui hot templum e
fi o* mnt, Tutto il ciclo dicefi t*m~ plum con proporzione, cbe I
luoghi rilevati, per tenere le Kf elioni degli auguri, dicean*
v tempi a % che viene a. Tigniti* care laogo, che da ogni parte ha
profpetto c veduta . D* onde nato è il verbo tontem» flavi. Così
pure Terenzio chiama 11 cielo tempia nell* atto HI. dell'Eunuco • v*;: -1
.• Ai quem Dtum, qui lem pia cali fumma fonitte coifcutit .
1 In toc tempio medium . Cioè la terra, che da ogni parte dal cielo
è circondata, come punto da fmifurara circonferenza tujvs templi di quello
hnmenfo profpetto. ì Sidera. Propriaménte fono 1 fegni celefti componi
di più Itelle, quali fono T Ariete ceffo quafsà .
Imperciocché fono gli uomini con quella condizion generati, che quel
globo guardino, cui col* locatovedi nel mezzo di quello profpetto, il
qual globo r dicefi terra. Ed a quelli è flato dato lo fpirito da quei
fempiterni fuochi, cui voi codellazioni e delle chiamate ; le quali
eflendo globofe e rotonde, e da divine menti animate, i cerchi e i giri Tuoi
compifconocon mirabilecelerità • Laonde ed a te, o Pubblio, ed a tutte le pie
pedone dee lo fpirito rimanere nel carcere corporale : nèfenza il beneplacito
di colui, da! quale vi fu compartito, non fi deedalla vita, che menan
gliuomini, diloggia re; per non parere di volere sfuggitela umana incombenza
da Dio afTegnata, Ma in quefla condizione, o S., come fatto ha quello tuo
avolo, ed io, che t’ ho generato, la giudizia pratica e la pietà ; la
qua. le ficcome ne genitori efercitata e ne’ parenti è di gran
pregio, così verfo la patria è d* eflìmazione grandini* ma.
Queftotenor di vita firada è pel cielo, ed in quello ceto di coloro, che
viffergià, e dal corpo difciolti, quel luogo abitan, cui tu vedi (ed era quello
un cerchio tra le fiamme lucente d’un candore rifplendentifTimo) il qual
voi, come avete da’Greci apprefo, il chiamate la via lattea. Dal quale io
ogni oggetto contempiando, nobililTimemi fembravan le altrecofee ma.
ravigliofe. Erano poi quelle flelle, le quali nonabbiam giammai da
quedo luogo veduto ; e di effe tutte tali le grandezze, quali non le ci
damo immaginategiammai Infra le qua ! i
quella era di minor grandezza, che nell’ ultimo cielo, e pih vicina alla
terra, rifplendeadi luce accattata . Ma' i globi delle delle la grandezza
della terra vinceano lenza fallo. Orla terra mededma co.
tc, l’Andromeda, 11 Leone ec. 4 . J£ud globofd . Crede Ari. dotile
che le ftelle fieno di forma sferica, sì perchè In qualunque lor
progre filone noti ci dinioftran couiparfa d* alcra figura, sì
ancora, perchè, fiecome la luna, che annoverar fi dee tra le ftelle, è di
forma sferica, egli è arresi vorifimilc, che le altre ftelle pure portin P
Iftdfa figura . Oltracciò gli Stoici appretto Cic. nel de Nat. Deorum furon d* avvita aver le
ftelle la forma e figura ìftetta dell* Uni verfo, perciocché quefta
è la pi fi bella, la piA univerfale, che le altre comprende, ina
fen* za 1 difetti . Orbem laHeum . Della via httea già parlammo di
(opra » Per dottrina degl] antichi filo, fofi quella era deftinato feggio
de* beati {pirici imperii nofì ri, quo quali punftum ejusattingimus, pae*
niteret. Quam cum magis intuerer, quacfo, inquit Africanus, quoufque humi
defixa tuamenserit? Nonne aipicis, quae in tempia veneris? i Novem cibi
orbibus, vel potius globis, connexa lune omnia, quorum unus eft cfleftis
extimus, qui reliquoSvOmnes compie-élitur, 2 lummus ipfeDeus, arcens&
continens ceteros; in quo infixi funt illi, qui volvuntur, ftellarum
curfus fempiterni,• cui fubjeéli funt feptem, qui ver. fantur
retro, $ contrario morti, acque Cglum, ex qui* bus unum globum
pofTidetilIa, 4 quam in terris Saturniam nominane; deinde eft hominum generi prosperus
et falutaris i Ile 5 fulgor, qui dicitur Jovis ; tum rutiJus horribilifque
terris, quem Martem dicitisi deinde 6 fubtermediam fere regionem Sol obtinet,
dux& princeps, et moderator luminum reliquorum, mens mundi et 7
temperano, tanta magnitudine, ut cunéta (uà 1 Movent tìii orbi bus
. 1 cerchi Tono nove, comprefa la terra, la nual non fi muove: l’uno e l’altro
è giuda 1’oppìnion degl’antichi . Sicché sopra I’ottavo cerchio celefte
altro non ne poneano, e quello {limavano che tatti gli altri comprendere
e deiTe Ior confiftcma, come Oc. viene qui dichiarando. 1
Summus ipfe Devi . Quefta. fuprema ed . ultima sfera regolatrice delle
altre chiamai» Dio per ecce llema, come Cic. ta. lora cotal titolo
attribuire ad uomini fingolarmente valenti in alcun genere . V. G.
nel Ut. I. de Orat. Te fetnper in dicendo putavì Deum . Ad Art.
IV. 15. Feci idem, qvod in Tolitia fu a Detti 'tilt nofler Flato .
Altri interpreti poi credo no ( ed è il plfi verifimile ) che qui
Oc. parli fecondo l'oppìnione non tua . ma di molti Antichi, che I*
Onlverfo, 11 Cielo e le Stelle riputavano divinità . Nel de Nat.
Deor. esponendo Clc. la fem tema fu di cib di Platone così feri ve
. Idem in Timeo Jrcit in legiius fy murtdum Deum effe, et célum, et
4Jira, fV terram, animo t . Nell' iftetfa opplnione fu Senocrate, e
Cleame, come ivi riporta fi poco appretto. j Contrario motu atquè Ca 0
lum . U atqtte è particola correlativa di contrario, polla li»
cambio di quam . 4 jQuam in tetris Saturni dm, La della di
Saturno » la piil alta delie erranti : chiamata é da' Greci
QctiVCùV j Uccome quel così piccola mi fembrò, che (enea mi
malcontento del noftro imperio, nel quale ne tocchiam come un punto
di quella. LA quale io vie maggiormente riguardando, deh, l’ Affricati
foggiunfe, e fino a quando farà la tua mente in terra fida? E non vedi tu in
che profpetti fei venuto? ogni cola ti viene concatenata in nove giri .
o piuttofto globi, de 1 quali l’uno è il celefte nell’ultima efterior
parte, che tutti gli altri contiene, in sé fommo Dio, che tutti gli altri
lega e comprende : nei quale fermati fono que’ (empitemi corfi di delle,
che fi vanno aggirando; al quale fot topofìi fono i fette globi, che
indietro fi volgono, con moto contrario a quello ; che fa il cielo, de*
quali un ne poftiede quella della, che nel mondo chiaman Saturnia;
fuccede appretto quel fulgore profperoe (aiutare all'uman genere, che
chiamali Giove; quindi ne viene il rodeggiante pianeta, fpaventevole al
mondo,. cui dicono Marte; il Sole occupa pofeia la regione, colà intorno
a lotto mezzocielo, guida, e capo, e direttore degli altri luminari,
fpirito, e temperamento dell’univerfo, di sì fmifurata grandezza, che colla
luce illumina, ecorapie ogni cola. Tengono a quedo dietro, comecompagni, l’uno
il camino di Venere, e l’altro di Mercu quella il Mercurio c/ h/?àtv voci latinamente per Aufonio
adoperate . Tempori qua StiU von volvat, qua facula Pia. i
io* . Queita ftclla crederi mandare influenze gelide e torpide : oude fu
rlpurato iL^lancta de* vecchi,* che però ueno tantalici e fartidiori .
Compie il Tuo cerchio iu anni ig. f iorii! 1 6t. ed ore iz. Cic. pel
uo tardo procreilo nel de Nat. Deor. vuole che così chiamili
quod •fdturrtur attui s . li Ricciolio peri» nell* Almegirto dà al dì lei
corfo ip. anni c ipo. giorni • 5 Fulgor, qui dieitur Jo* v'tt .
Quanto alla difporizion rio; grammaticale, o Jovis i genie.
retto da fulgor, ovvero è nomin. giufta 1* ufo, nel qual era nell*
antichi (limo Lazio . Quefta rttlla fu da* Greci detta (pctttitùv da /«- •
cto, ardto . Da Latini fu detto Jupittr Jovis da j uvando, atteri
gi’influflì fuol temperati e falutarl : onde da Cic. chiamali prosperus
(gf f alutaris . 6 Subttrmediam . Vocfe ottima, ma pure dal Calepino
riformato non ricordata punto nè popo . 7 T tmperat io . Perchè il
Sole col calor fuo comcmpera il deio e la terra. ; sua luce iUuIIrer et compleat.
Hunc ut cornice» conte» quuntur alter i Veneris, alter a Mercurii curfus
; in infirooque orbe Luna radiis Solis accenta convertitur infra
autem jam nihil ed > nifi mortale et caducum, praster animos generi
hominum munere Deorum datos» fupra Lunam funt aeterna omnia. Nam ea, quae
media et nona tellus, j neque movetur : infima eli, in eam feruntur
omnia 4 nutu luo podera. Q xjk cum intuererflupens, utmerecepi, Quishic,
inquarti, quis ed, qui complet aures meas tantu$ et tam dulcis fonus < Hic eft, inquic ille,
qui intervallisconjunfìusimparibus, fed tameng prò rata parte
ratione diftin&is, ó impulfu et motu ipforum or» r bium t
Veneris . Quello pianeta fi difttngue per la fua lucidezza, e
biancheria « onde avatua tut* tl gli altri pianeti » ed è si
notabile, che in un ofcuro luogo fpòrge ombra fenfibìle • 11
fuo luogo e tra la terra e Mercurio . Egli accompagna collantemente
11 Sole, e mai non fene dilunge più di 47. gradi. Quando quella
ftcjla va innanzi al Sole, che fi leva 9 dicefi Fosforo, Lucifero o
Ileila mattutina t c quando gli tien dietro, e che tramonta dopo di lui,
chiamali Espero, o Vesper, o stella Vespertlna . 1 Mercurii . Il piò piccolo
de* pianerf inferiori,< ed il piò vicino al Sole. La mezzana
diltanza di mercurio dal Sole per rispetto a quella della ter*
i;a al Sole tiene la proporzione di 387. a I00O. Giulia il
fentimento di Neuton, fondato fulle prefe efperienze per mezzo d*
un termometro, il calore del Sole fulla fuperficle di Mercurio <
7 volte più Intenso, che fulìa fuperficle della terra . La rivolnzion di
Mercurio attorno al Sole, ovvero il fuo anno compie fi in 87.
giorni e 17. ore La rivoluzione diurna
poi, ovvero la lunghezza del fuo giorno non è ancora determinata .
Per iò altre contezze vedi gli A* ronoml . ì Neque movetur,
Fa oppi* ninne comun degli Antichi che la terra non fi mo velie, cd
anche univerfal de* moderni, Ma non fono mancati filofoli e
ne* vetulll tempi, e ne' moderni, che ne folteneflero il fuo continuo
moto, e fpezlal* mente al prefcntc . Furon tra* Filofofi ' antichi
Filolao Pittagorico ed Eraclide Pontico ec. ed Ecfanto pur pittagorico,
Clc. ' nel Lucullo riporta I*opplnione di Niceta da'Siracufa con
quelle parole . Nicetas Si racupus, ut aìt T beophrafius % c eel urti,
folem, lunam, f ìellas % fupera dentque omnia (tare ten fet t neque
pr^ter ieh*m, rem ul«•IL SOGNO DI SCIPIONE. 5*1, rio; e nell’infimo
cerchio la Luna da raggi del Solé accefa raggirali: di foteo poi nulla
pili altro v’è, it toon mortale, t cadevole, dalle anime in fuori, pet
grazia degli Dii all’uman genere compartite; foprala Luna le
fòftanze tutte fono immortali. Che quanto aU la terra, eli 5 è in mezzo
ed è la noni, nè muovefi t élla è 1* infima, e verfò di ella viene ogni
pefo per propria inclinazione portato. I Quali oggetti io attonito
rimirando, come in me fui ritornato, che è egli n a*, dirti, quello sì
grati* dee sii foave fuono, che m’empie le orecchie ) Quello, ti
loggiunfe, è quel fuoho, che da intervalli dilpari venendo a un tempo, ma
con avvedimento però diflin ti fecondo la debita proporzione, per impullo
e moto delle orbite illelTe fi forma; il qual fuonoagli acuti tuoni co*
gravi contemperando, proporzionatamente forma fvariati lonori concerti.
Imperciocché movimenti di tanta mole non poflòn ertère chetamente
incitati ; e itìlam in mundo mtverì : qud tum circa axem jumma fe
et licitate -tonvertat, torqueat, tadem effici omnia, qua, fi fi
ante terra, cdlum movéretur, Àtque hoc ttiam Platonem in Timeo
dicere quidam arbitrantur. Sed pattilo obfcwìus. Ma «toppo pift foro i
moderni, iCopernico GALILEI ec. Di quella fi fica controversa, quali che
fieno quinci e quindi i fondamenti il certo fi, che ogni vero ed
ubbidiente cattolico dee contenerli a norma delle ordinazioni dalla
Romana chiefa emanate, ciò* che il moto della terra foftenere 1ppteticamente
fi pofiTa, in quanto, fe tale fikppofizion fi faccia * fi
fpicgherebfcutio agevolmente molli fenomeni della natura : ma cl vieta il sostener
ciò, come tefi . Ma por Ì3;0 voglia che alenili non facciali
pafiaggio dalPjpotcfi a difender la tefi 1 4. Nutu fuo . Importa indinazion,
tendenza, ed affézion naturale. E’ di frequente ufo in Cic. Pro
rata parìe fattone, Col Gronóvlo riconofeo . quella lezione non
punto fconciata, perciocché ben confuona con tutto il cancello del
fentimento. E viene a dire che quelli difpari intervalli delle sfere,
che ne* loro moti rendon fuo110, fono proporzionati a* diversi gradi de*
tuoni, che formano : né fono quelle diflanze fatte a cafo, ma catione con
avvedimento, come appunto ricerca la natura di quello concerto armonico .
6 ìmpulfu et mota . Ancor Platone ammife quell 1 armonia dello s9 2 biuro
conficitur; qui acuta cum gravibus temperans, variòs^quabiliter concentus
efficit . Nec enim filentio tanti motus incitari poffunt ; et natura fert,
ut excrema ex altera parte graviter, ex altera auteni acute fo. nent.
Quam ob cauflam funimus ille ftelliferi Cfli curfus, cujus converfio ed
concitatior, acuto et excitato movetur fono, graviamo autem hic lunaris arque
indmus Nam terra nona imobilis manens, ima fede femper haeret
complexa medium mundi locum . Il ! ì autem o&ocurfus, inquibus eadem vis ed
deorum i Mercurii, et Veneris, septem efficiunt didintìos ìntervallis
fonos: qui numerus rerum omnium fere nodus ed . Quod 2 dodi homines
nervis imitati acque cantibus, aperuere fibi reditum ad hunc locum; ficut alii,
qui f traedantibus ingeniis in vita humana divina fludìacauerunt. Hocfonitu
oppletae aures hominum obfurduerunt; nec ed ullus hebetior fenfus in
vobisjficut, ubi Ni. delle sfere celelH, colicchè nella Repub.
deputò a tutte le eelefti orbite ciafcuna firena, che fopra dj effe
dandoli giraffe con quelle, acconpugnandone col canto loro la
rivoluzione. Altri poi appreffo Aridotile nel lib. 11. de Carlo
cap. 9 . c di Plin. nell* Iftor. Nat. vollero quello fuono non procedere
dalle celeftl orbite, ma dalle (Ielle medefime in quelle fide, che
nelle orbite fanno loro ri voltinone . Quindi è che i Platonici filofofi
credettero che il uiov imeneo de* corpi celefli una vera ed
effettiva armonia formaffe s al qual errore drè luogo la feutenza
de* Pittagoricl, i quali per formare giudizio de* tuoni ad_ altro non
aveati riguardo che alle ragioni delle proporzioni efatte, che
perfette appari van ne numeri, i quali furon 1’ìdolo di Pittagora, fenza
punto attendere al giudìzio dell' orecchiò • Ma quella oppinione ne* con»
feguenti tempi, a proporzione che abbracciata era la dottriua
Platonica, fece i Cuoi progredì . Quindi è che Filone Ebreo, i>. Agoftino, S
Ambrogio, S. lddoro, Boezio 9 ed altri molti furono molto impegnati
per quella celcfte armonia, cui attribuivano alle varie proporzionate
impreffioni de* globi celefti, che fan 1 un fopra l'altro t le quali comunicate
per certi giudi intervalli formano cotale armonia . Non ut> far,
dicon* efli, che sì erminar! corpi con tanta rapidità movendoli, cheti
(fieno ed In filentio . Ed all* Incontro 1 ' atmosfera di continuo da que'
corpi fofpinta dee produrre una ferie di fuoni proporzionati alle
itnpulfioni » che la riceve : e per confeguente, conciodìachè tutti i
globi ce ledi non facciano la medefrma
m perù il altura 1 ordine delle cofe, che gli eftremi fi
et* dall* una parte rendano grave Tuono, dall’ altra poi il rendano acuto.
Per la qaale cagione i! Tu premo corio del cielo ftellifero, la cui
rivoluzione è più concitata, vien molto con acuto ed elevato (uono, c con
graviffimo quefto lunare ed infimo corfo . Che quanto alla terra, nona
d’ordine', ilandofi immobile, rimanfi Tempre nel feggio infimo, occupando il
luogo di* mezzo nell 5 univerfo. Quegli otto corfi poi, infra i quali il
tuono de* due Mercurio e Venere fi èd’un tenore me. defimo, formano
Tette fuoni difpari per intervalli diversi: il qual numero fi è, quali come il
legamedi tutte le cole. Cotal concerto i dotti uomini colle corde da
Tuono avendo imitato, e co 5 canti, fiaperfero il ritorno a quello luogo ;
ficcome altri, che per loro eccellenti ingegni nella umana vita coltivarono
divini ftudj. Diquefio ftrepito ingombrate le umane orecchie fi
fono aflordite ; nè vi è in voi alcun feotimento più ottufo : a quella
guila che, dove il Nilo in quelle parti, cheCatadupe fi appellano, da altiffimi
monti precipita, quella gente, che intorno a quei luogo abita) P p
per ma rivoluzione, né colla medesima velocità, 1 tuoni differenti t che
provengono dalla diversità de* moti, dall* Altiffimo Indirizzati, formano tm ammirabile
musicale concerto. Il difeorfo par ragionevole r ma noni effondo
foftenuco dall’efperienza delle nostre orecchie, che pur parrebbe dovcSTero
averne alcun femore, cosi concludo il mio debole fen timento fu di tale
oppfnione. Quell* armonia de* cieli fe ridur SI voglia a muftcal tuono è
una bella e fpeciofa favola degli antichi fi Io Toft, che pretendeano
alle oppinlonl loro dare aria e fembiania di maravlgliofe . Ma quefta
celaste muSica ed armoniofo concerto altro non è veramente che le
proporzioni, cui I dotti moderni astronomi han riprovato nelle mifure e
quantità, che foco portano i movimenti di questi oeleSli corpi ; i Mer
curii (f Ventri s . I quali pianeti accompagnando il Sole, fi
comprendono elfere dell* IfteSfo fuono t ficchè gli otto globi
formano fette diversi fuoni . z DoRi hominet . Ritrovatori 'dell*
eptacordo, cioè dei mnltcale iftrumento di fette corde, annoverati
perciò tra» Semidei. Macrobio e Severino furono in opinione che costoro
col numero ferteunarlo di queftè corde IntendeSTero d* imitare il
moto armonlofo de* fette pianeti . L* Affrlcano però qui intende da
costoro imitato il. fuono delle, otto orbite già divlf.ite. Su di costoro
non vo* tralafciare 1* oppiatone, che n: portò Quintiliano
usi Nilusad illa, qu^e | Catadripa
nominantur, prscipitat CI altiflimirThontibus, ea gens» quae illum Iocura
agcolie propter magnitudi bear fonitus> fenfu audiendi caret. Hic vero
cantu* eft totius mundi incitati rti ma, converfioneionitus, ut euoi aures
bominum capere noti portine: ficut intuerì folem nequitis adverfum,
ejufque radiis acies vedrà (enfufque vi nei tur- Hate ego admìfans »
referebam tamen oculos ad te&rain ideutidem. T UM Africanus, Sentio,
inquit, te fedem etiarn dune bominum ac domum contemplali: qusefitibi
parva, ut et!, ita videtur, haeccaeleftia femper (pelato, illa Humana
contemnito. Tu enim quam celebritatem fermonis hominum, aut 2 quam expetendam
gloriam confequi pote$> Vides hab tari iti terra rana et anguftis in !oci$, et in ipfis quali
maculis, ubi ha- bjtatur, vaftas folitudines incerje&as; hofque, qui in-,
colunt terram,»non modo interruptos ita erte, utnihil incer Jpfos
ab aliis ad alios manare portìt ; led par. tim£ obliquos, partim 4
averfos, parcim etiam 5 adverfos flare vobis ; a quibus expeéhre gloriam certe
nullam poteftis. Cernis autem terram eamdem, quali 1 quibufdam
redimitami circumdatam òcingulis, equibus • t nel lib. I. io.
Claror dòmini fapitnt'ue viros rtemo dubita* Vtrit Jìudtofor
tnuficis fuifft tum * Vytb agoras, dtque tum fittiti acce pt am
fitte dubio antiquituf opittionem vulgati* itint f mundum ipfum tjm ra fiotti
ifit rompo jltum, quam Pojlta fit lyra imitata . Quindi cred* io che
procedcfie la cftimation grande J od anzi la venerazione, che gli
antichi Greci Nerbavano per, |a molici! che però I mutici dic^nfi
pare tatts e fapitttttsi e T^fepiilhcle effendi» inesperto in
toccar la cetera, gli folte imputato a difetto d* imperizia .
Catadupa . Le cataratte fono del Nilo dette da Xaf<T«J
ovvric* dt or furti cado, 2 fhfdm txptttttdam glor*am . Cic.
ne* lib? ! della Repubblica fu di, parere, che dovefle chi maneggia
la Repubblica effe re fomentato, ed eccitato alle generofe imprefe colla
gloria, e credc'a che ciò folle alla Repubblica vantaggio^», - rifle Alone
t che altresì de* Romani fece S Agoftino nel Uh. V- c*.- ij. de Cl.
Ir. Dei . Or coerentemente 1 # Atfricano non condanna del •tU'to 1'
appetito della . lori a, ma vuole a quello rlufcire, che qualunque
umana gloria i pef enrro ad auguttl tifimi confini rirtretta, e non pur
non e ter 1 5 p* per U grandezza dello flrepito, priva è d’udito.
fVfa quello Crepito di tutto l’utiiverfo con rapidiffima rivoluzione è di
tenore sì fatto > che le umane orecchie noi poffon comprendere:
ficcome non potete fiflar gii occhi del Sole 5 quando Ila di rincontro, e
da’raggidì lui l’acume voftro e’1 (enti mento del, vedereè lover.
chuto. Quelle cofeie con ammirazione afcoltando, ri* volge» pure di
tanto in tanto gli occhi alla terra. Vi. . » . # i
A Llora T AfFricano, ben m’ accorgo, logp^iunfe, che tu anche al prefente
il faggio contempli e l’abitazione degli uomini; la quale fé piccola ti pare,
com’è ineffetto, tieni (empre rivolto l’occhio a quelle celefti magioni,
e quelle non curare, che umane fono • Im* perciocché tu qual mai
confeguir pool ftrepitofa fama dell’uman ragionare, o qual gloria, che da
appetir (la ? Vedi che nel mondo abitazioni fono in rari ed retti
luoghi, ed infra quelli medefimi, come fparfe macchie, dove fi
abita valle folitudini vi fono interpone; e coli oro, che abitan la terea, non
pure edere per tal maniera feparati, che tra elTì nulla dagli uni polla trapelare
agli altri; ma parte rifpetto a voi dare a fgembo, parte alle (palle, e parte
ancora di rinccntroal di fotto ; da* quali certamente fperar non potete
veruna gloria. Vedi poi la medefima terra, come coronata di certe
zone ed intorniata, delle quali due fommamente tra 1 or* dittanti* e
quinci equjndt fugli fletti celefli po* P p a li eterna, cria neppur
durevole lungo tempo. Quelli rifletti peri» a chi per la evangelica Fede
crede una eterna immortai vita, in elei prometta a chi dirittamente
opera, debbono eflere podetofi incitamenti a . non curare la
umana gloria dei tutto, ed a prendere àccefi ttimoli per rivolgere
ogni aiion noltra a promuovere la gloria divina I Obliquo * . Qaefti fur
detti da* Greci 9rfpi oi xf f * 4 /ìdterfos . Coloro fono che
tfgaafd;in diverfo polo, e di coivi» * vvoixOt . Quelli fono, :hc
abitano nella cont rapporta na temperata fotto il rontrappcflto
paralello, ma nell* Irte fio' fenutircolo meridiano. 5 Adterfos .
Sono gli antipodi, così de^ti per li piedi o veftigj, che fi rifpondono
di rincontro . t)i qoett! termini vedine fplegazioite pift ampia
appretto gl/ A Urologi 'ed I Geografi. 6 Cittguljs . Divifa le di,*
ode zòne, delle qual! le portreme frigidi ttìme fono, la aie# dia
caldi Éfi ma . % > bus duos maxime intet fe diverfos, et iceji «ertici*
bus ipfis ex utraque parte fubnixos obnguiffe pruina vides: medium
autem lllum et maximum folis ara?'"® torreri. a Duo funt
habitabiles, quorum a udrai is «Ile tin quo qui infiftunt, 3 adveria
vobis urgent veft.gia) 4 nihil ad veftrum genus . Hic autem alter
(ubieflus Aquiloni, quecn incolitis, cerne, 5 quam tenui vosparte
contingat • Oronis enim terra, quac coli tur a vo* bis, 6 anguQa
verticibus, 7 laterìbus latior, 8 parva quaedam infoia eft; circumfufa
ilio mari, quod Atlanticum, quod Magnum, quod Oceanum appellatis m
terris: quitamen tanto nomine, quam fit parvus, vi» des. Ex his
ipfis cultis notifque terris, nutnaut tuum, aut cojufquam noftrum nomen,
vel Caucafum nunc, quem cernì*, trascendere pctuit, vel illum Gangem
tranfnare? Qui* in reliquis orienti*, aut abeuntis folis ultimi*,
aut. Aquilonis* Aufirive partibus tuum nomen audiet^ Quibus amputatis,
cet ni s profeto, quanti* in .anguftiis veflragloria fedilatari velie •
IpOautem, qui de nobis loquuntur, quamdiu loquentur ? * Y va ; . ',
Q Uinctiam fi cupiat prole* illa futurorum hominum deincep^ laudes
uniufcujSque noftrum apatribus acceptas pofteris prodere, tamen prepter
eluviones exuftitionefque terrarum, qua* accidere tempore certo necefle
eft, non modo aeternam, fod ne diu turnam quidem gloriano affequi poffumus.
Quid autem in ter t % Cai* Virtìcibur. Ai p»U .
1 Duo furtt Jbabit abile s . Vie* tic efponendo le due zone
temperate intermedie quinci e quindi da' lati t auftrale l* una
boreale 1’altra* $ Adverfa vobis . Perciocché dimorano dall*
altra parte dell*’eccliptica folare . Niktl' ad vefitum genus .
Perciocché «è voi a loro nè efli a voi trapalano . JQuàm
tenui vos parte, Vedi quanto fi a piccolo fpaxio quello ) dove fi
aggirano le Volbe glorie . Angui a vertieibus * ' In brevi parole
accenna la latitudine della terra fottopofta a’ Romani, la quale coi.
fitte nella dittatila d * un luogo dall* Equatore ed un arco del
meridiano, comprefo tra *1 Zenit h del luogo, e l'Equatore. (Quindi la
latitudine dlctfi efiere fettcRtrionaie 0 meridionale, fecondo che li
luogo del qual fi parla è fett^ntrionale, 0 meridionale . Or 4a parola wrticibus
fignifica i poli Artica Afr .; fp
7 ii pofàndo, vediefTere per la brina irrigidite ♦ equeila di
mezzo» e la più ampia edere dal folare ardore avvampata* D.ie le abitabili
fono, delle quali l’audrale ( dove chi dà (opra imprimon veftigj di
rincontro a noi ) alla vodra fpecie non appartiene . Di queO” altra
poi all* Aquilon foggetta, cui abitate, guarda come tenue parte a voi ne tocchi
* Imperciocché tutta quella parte di terra, che da voi fi abita, da
vertici rifìretta, più diflefa da fianchi, è come una piccola ifola; bagnata
intorno da quel mare, che in terra chiamate Atlantico, Magno, ed Oceano:
il qual però comecché di si gran nome, pur vedi quanto picco! fia.
Da quelle idede coltivate e note regioni o*l nome tuo, ovvero il
nome d* alcun de’ nodri potette egli forfè o queft’Oceano valicare, cui
tu vedi, o traghetfarequel Gange? Chi mai i]\nome tuo afctìlrerà o nelle
altre parti del nafcente fole, o nefl’eftreme del medefimo
tramontate, ovvero nelle parti dell’Aquilone, edell’Aulirò? Le quali
regioni edendo feparate, certamente fcor* gi in che augufli fpazi la
vodra gloria alpi ri ad ed'er didefa. Quelli poi, che di noi ragionano,
finoaquan* do il faranno? G HE anzi fe quella gènéraxìone di
futuri uomini bràa mera fuceeflìvamente di trafmetterea’poderi legione di
ciafcun di noi da* padri loro fentite, tuttavia ber le inondazioni, e
divampamenti de'paefi, i quali Fora* è che in determinati tempo
fuccedano, nonpoflìamò acquiflar gloria, non che fempiterna, ma neppuf
lungamente durevole. Or che mónta che da colorò, i quali nafceran
dappoi, fu di tefìterran difcorfimen Pp - j tre fe Aritattlco t
che fono 4 ter, mini, per cui rapporto fi mi. fura r eftenfione
della latitudine ' Ì Ut tribù s f
Attor. Viene efpretta la longitudine dell* Imperio Romano, cioè 1’eftenfione,
che area da Ponerite a Levante fecondo la direzione dell' Èquatore . E
quindi fi viete a concludere che maggior nc forte ia longitudine che la
la tir udinè •8 Par va quaJatn ihfulA efb &c- Dal Cielo
additando l'im* perfo Romano lo dlmoftra come una piccola ifola
conirtefa e bagnata dall’Oceano. Ma quella è una mani fetta
efagerazld<* ne per efprimerne la piccolezza, chfe dal cielo all*
Affrica* no appariva . Aulì, a dir vero, non fi potea ncppor chiamar
ifola . r tereft ab iis, qui poftea nafcentur, fermonem fore de
te, cum ab iis nuilus fuerit, qui ante nati fint ; qui nec
pauciores, et trerte 1 meliores fueruntviri? cam pradertim apud eos
ipfos, a quibus a udiri nemen no. flrum poteft, nemo uniusanni memoriam
confequi pof. fit . Homines eoiro populariter annum tantummedo SoJis,
ideft unius aftri rHitu metiuntur ; cum autem ad idem, unde femel profeta
funt, cun£te aftra redierint, eamdemque tetius cadi deferiptionem longis
interva!Jis retuleriot, tum ille 2 verevertens annusappellari poteft; in
quo vix dicere audeo, quam multa incula, bominum teneantur- Nacnque, $ ut
olimdeficereSoi •bominibus extinguique vìfus eft, cumRomuIi animus
baec ipfa in tempia penetravi; ita quardoque eadem parte So^,
eedemque tempore iterum defecerit, tum fibus ad idem principium
ftellifquerevocatis, ex«1 Meliores fuerunt, I coftumi degli’antichi, la fede,
gli andamenti ec. univerfalmente dagli fcrittori commendane :
quello è vezzo comune anche a eh! è vecchio, deferitto da
Orazio con quelle parole. Laudai or tempori s afri . Onde quello giudizio
non Tempre al ver corrifponde . 1 Vere verterti annus . Quelle
maniere verterti annus, verterti menfis fono pagamente prefe per un anno,
.per un mele trafeorfo . Altri parcirlp j n'arreco di voce attiva
in forza partiva alla nota 7. nella vita d* Agelìlao apprettò Nipote. Qui
però mi 'pare pift coturnoda V interpretazione in forza attiva, actefe
tutte le parole ed il contefto. Or qui li parla •* dell' anno
grande, che\ ebte più e dlvcrfi titoli . Fu chiamato, or ma gnu s, or
fidereus, quando mundanus, tal Hata Platonìcus, e comprende tutta
l’efteulion di tempo, ovvero il perìodo di tanti anni, quanti
li richiedono perchè i corpi celefti torniti tutti a Quella poli»
zion primiera, nella quale furono al principio del mondo • Cic.
acconciamente il divlfa nel lib, 11. cap. de Nat. Deo-. rum .
Maxime vero funt ad*n ir abile s mot us earum quinqete jtellarum, qua
falfo vocantttr errante s $ nihil enìm trat, quod in omni
eetemitate conferva progreffus, regrejjus t reliquofque motus confante s
(jf ratos .... jQuatum ex dijpnribus Motiombur magnurn anriunì mai he mutici
nominaterunt, qui tum efficitur, tum folis fy lume, et quinque errarti
ium ad earrtdem itJer fé zompar ationem.y tonfi fòt) 0 ntniuru fpatiis,
ejl fatta convergo. Pare che qui nel coffo di que(|' anno inetta in confide
razione i Ioli pianeti . Ma gli alt» i fcrìttoti, e Cic. ifteflb nel
prefen.t fogno palla .di tu^tc le ftellc u*b ver Talmente -\ Quale
poi lia il numero precifo degli auul ella è controverfìa non
1 V * i $. * . m tre nonfen’è fatto
pur parola da quelli, che negli ante• riori tempi vennero a luce; i qua!» nè
furono in mirtor numero, e certamente uomini furono più valenti? maffime
che apprerto quegli flerti, da’ quali fi può il nome noftro afcoltare;
niiino ne può la ricordanza ottenere d'un fole anno. Imperciocché g li uomini
giulia J’eftimazion popolare dal rirorno (oltanfo del Sóle mifuran
l’anno, cioè d’una fola (Iella : quando poi faran tutte le (Ielle
al punto medefimo ritornate, onde una volta fi modero ; ed avranno ne*
lunghi loro intervalli riportato il drvifamento medefimo di tutto il Cielo,
allora quello fi può veramente appellare anno, che opera rivolozione: nel
quale appena d’efprimer ro* attento quan. ti fecoli umani fieno comprefi.
Imperciocché, ficcome una volta agli uomini parve che il Sole foftenedè
ec. elidi, e fi ammorzarti;, quando l’anima di Romolo penetrò in quelli
(ledi profpetti ; coslallor quando il Sole nella parte medefima, e nel tempo
irteffo da capo avrà (ottenuto ecclirtì, allora ertendo tutti i celetti
corpi, etutte le (Ielle al lor principio medefimo richiama, re, terrai
l’anno erter compiuto . E Tappi chedftjueft* anno non n’ è per anche la‘-
vigefima parte trafeoria % Che però (e difpenerai di far ritorno in
quello luogo, ; ... y a r P p 4 nel non per anche decffa . Clc.
Iftetfo parlando di quella rivo» In z. ione foggi agile appreflb ..
Quaquam longa fit, 'magna quelito ejl, ejfe Viro cirtam
defintiam necejfe eji . Si cita perb un frammento dell* Opera
intitolata l'Orccnfm, dove chiaramente efprime il fuo Tenti, mento.
1s eft magnai et Virus annus, quod i aderti pofìtìo cali fiderumque cum
maxima ifi, rurfum exijigt j ifque annui horutn, quoi tocamui, annorum
Xll. . compie Bit ur 9 cioè dodici mila novecento quatir' anni . In. cib
fono fvariatiifime le eppinioni degli altri-, che ci danno
argomento ad affermar con certeira non effor ancora 1’agronomia pervenata a
tanto, eh» pocefle fame probabile decifìo. ne. Sicché quel, che fi
foggiti, gne pift innanzi in quello cipo, hu)us anni nondum vieejimatn
partem itfi cot/Virj'am, fb. vuol prendere per piccolo, c fcarfo
tempo, non per determinata mifura trafeorfa . Ovvero fe Clc. ha pretefo
di far dire * all* Affricano il preclfo fpazio del trapalato tempo,
non fi vuole attendere in cofa cotanto incerta. j Ut olim. Ferma
il principiò dell* anno grande dalla morte di Romolo, cu! dicono
che moriffe nelPecliffe del fole . Per altro da ogni punto di tempo
fi pub dare cominciamento al computo di quello anno Platonico.
Qxpietum aonum habeco. Hujus quidem anni nóndulft vicefimam partem
fcitoeffe converfam. Quocirca fireditum iit hunc locum deiperaveris, in quo
omnia fune magnis et praeflantibus viris ; quanti tandem eft ifta hominuui
gloria, quae pertinere vix ad unius anni partemexiguam poteft ? Igitur alte
(pelare fi voles,. a tque hanc fedem et aeternam domum contueri, neque te
fermonibus vulgi „ dederis, nec in praemiis humanis fpem pofueris
rerum tuarum ; fuis te oportet iilece brìs ipfa virtus trahat àd verum
decus, Qui detealiì loquantur, ipfi videant, fed loquentur tamen. Serma autem
omnis ilie, et augufliis cingitur iis regionum, quas vides, nec umquam de
ullo perennis fuit ; et obruitur hominum inceritu, et oblivione
pofteritatis extinguitur. Q UiE cumdixiflet, Ego vero, inquam,
oAfricatie* fiquidem bene mentis de patria, i quali limes ad cali
aditum patet, quamquam a pueritia vedi* giis ingreflus patriis et tuis,
decori vefìro non defui; nunc tamen, tanto praemiopropolìto, enitar multo
vigilantius. Ét ille : Tu vero enitere, fitfic habeto, non esse te
mortalem, fed corpus hoc: 2 necenim i9 es, quem forma irta declarat ; fed
mens cujufque, is eft quifque,* non ea figura, qua? digito demonOrari po*
teli. 1
Deum te igitur fcitoeffe; fìquidem 4 Deused, qui viget, qui fentit, qui
meminit, qui provider, qui tam regie et moderatur et movet id corpus, cui
P**1 lima. Sono propr
lanterne le ftrade, che fervono di’ cfivifionc alle campagne, e per
confeguente fono od hanno anche T. varchi per enrrare né * campì .
Quindi fi accatta la metafora, e fi trafpórca al cielo. a Nec e» im is
es, quem &C. Qucfii rifleffì e dottrine con aU tre, che
fieguono, fono Platoniche. Socrate appretfb del divi» filofofo dìmoftra al fuo
Alcibiade che I* uomo noli £ il foto corpo, ne il corpo
colla mente, ma ta fola mente . E nell* Affoco cosi ferivi Hgeif
uiV yip tVjuiv * «d tf VOtOZfV y tv •Sl'l/ <7» xat$HpyfjisvGÌr
Qpoupta Imperciocché noi pani lene V 44 stinta, immortale animale, rat •
eh tufo in mortai cufiodia . SIniigliantc fu 'il fenthnento d*
Arnobio e di Lattanti©. ^ ' 3 Deum
te igitur jtito effe . Gli Stoici definivano 1* nomo animai
rationale mortale, e Diù t 6o i hel quale per
li grandi ed eccellenti uomini v'è ogn * bene ; alla fin fine corefta
gloria degli uomini a che valore monca, la quale appena comprender fi può
in una parte piccola d' un folo anno? Se vorrai pertanto fi (Tare
l'occhio dell’intelletto in alto, e quefto feggio rimirare, e quella eterna
magione, non ti farai fervente a’ parlari del volgo, nè Tulle ricoropenle
umane la fperanza riporrai delle imprefe tbe; conviene, che la virtù medefima
cogli allettativi fuoi ai decoro vero ti tragga . A quello, che gli altri
fieno per parlare di te, ci penfino erti, ma pur parleranno . Ma ogni lor
difcoirere e vien compralo tra le anguftie delle regioni, cui vedi, nè fu
d’alcun foggetto fu perenne giammai; e riman fepolto dal morire degli uomini, e
nellaoblivione della pofterità vien meno . « o - t è »*’ 1 a* . Y* ~ l * i 1 »
VHI. • % r ', * ! * • L E quali contezze avendomi efpofto, or io, fog.
giunfi, o Africano, giacché a’ foggetti) bene mefiti della patria è come
quafi aperto il varco all' ingreflo del cielo, febbene fin dalla puerizia
mefTomi ìu i paterni vefiigj e fu de’ tuoi, non ho al decoro voftro
mancato j pur nondimeno al prefence, portomi avanti cotanto premio, con
troppo maggior vigilanza farò miei sforzi . Ed ei replicò : Metti pur
tuoi sforzi ; e pervaditi, cbfc tu non fei mortale, ma quello corpo
fibbene * che non fei dello, cui la fembianza tua dimoftra; ma Io fpirito
di cialcuno è quello, che fi è ciafcuno ; non è tal la figura f che
accennar fi polla col dito * Sappi adunque che tu lei Dio: poiché Dio è
chi ha vivacità, fentimento, memoria, provvidenza, e che tanto regge, e modera,
e muove quello corpo, cui è a governar deputato, quanto quel
principale Dio queil’universo; e ficcome l'iddio eterno Dio animai
rationalt immortaìe . Sicché giuda la loro dot* trina 1* uomo per quella
pondo ne di fc, ond’è immortale, non farà da Dio differente k
4 Ùeus e fi qui Iftitulfce la parità tra Dio e l’uomo e la ragione,
onde provati l’immortalità deirefTema divina, l’eftende a provare rìnynortalità
dell'anima, eziandio anteriore. prstpofitus ed, quam hunc tnuodum princeps ille
Deus: et ut mundum exquadam parte mortalem ipfe Deus asterifus, fic
fragile corpus animus fempirernus nrovet. Nam i quod femper movetur,
«ternani eft: quod autem motum affert alicui, quodque ipfum a. gitatur
aliunde, quando finem habet motus, vìvendi *|faemUiabe*t neceflè est.
Solum igitur quod iefe mo* •vèt, quia 1 numquam deferitur a fé, numquam
ne moverì quidem definii : quin etiam ceteris, qu« moventur, hic fons,
hoc principium eft movendi. Principio autem nulla eft origo: nam ex principio
oriuntur omnia; ipfum autem nulla ex re: nec enim id efl’et principium,
quod gigneretur aliunde . Quod fi numquam oritur, uè occidit quidem umquam Nam
principium extinàum, nec ipfum ab alio renafcefur, nec ex se
aliud.creabit: a fiquidem neceffe eft a princi* pio oriri omnia. Ita fit,
ut motus principium ex eo fit, quod ipfam a fe^ roovetnr ; ìd autem nec
calci poteft nec mori: v *el concidat omne caelum, omnifque natura
confiftat necefl'e eft ; nec vira ullam nancifcatur, qua prime impulfu
moveatur. CUM pateat igitur, aeternum id esse, quod a fe ipfo moveatur;
quiseft, qui hanc naturai» ariimis effe tributam neget ? Inanimum eft enim
omne, quod pulfu agitatur externo. Quod autem animai est, id mota cietur
interiore et fuo. Nam haec eft natura propria animi atque vis*; quae fi
eft una ex omnibus, quae fefe moveant, oeque nata eft certe, et atterri
eft. Hanc tu exerce in' optimis rebu 9 . Sunt autem hae opti ma?
cura? de falute patriae, quibus agitatus et exercitatus animus, i
velocius in nano fedem et domum fuam pervolabit . Iraque ocyus faciet, fi iam
tu, cum erit inclufus in corpore, croincbit foras; et ea, - i jQuotì
femper movetur tye. Quefto
argomento lo efpóne quafi colle iftefle parole nelle Tumulane 1. 2
$. Latta mio. v ancora .lo tratta con principi ancor più forti 2
Yel tonciÀAt omne tàtìum &c. $ no Dio T univerlo muove per alcuna
parte cadevole, così l’immortale spirito muove il fragile corpo. lm*
perciocché eterno è quello, che Tempre muovei: quello poi, che
communica moto ad altra cofa, e che pure impulfion foftiene da altra
cagione, quando il moto ha fine, egli è di neceffieà, che al fin pervenga
del viver Tuo . Quel foio adunque, che le Hello muove, perciocché non è
mai da sé abbandonato, nep* pur cella giammai di muoverli ; che anzi
alle, altre cole àncora, che muovonfi, egli è origine, egli -è principio
di moto. Ma il principio non riconofce ortgine i che dal principio tutte le
cole traggono lor nalcirrienio;.e(To poi da ninna il trae; imperciocché
non farebbe principi® quello, che generato folle d’ai* tronde. Che
fe giammai non nalce, neppur muore giammai. Concioflìachè il principio edendo
venuto meno, nè eflo da un altro rinalcerebbe, nè di sé potrà creare un’
altro ;* poiché egli è forza che tutto nafea da un principio . Per tale
maniera n’avviene, che il princìpio del moto da quello fi a, che da le
lleflb fi muove; or quello nè nafeer può nè morire: ovvero di
necelfìtà è che rovini giù tutto il cielo, e l’universa natura fi
arrefti; nè trovi alcun vigore, onde colla impulfion primiera fi muova. E
Sfendo pertanto manifeflo quel lo effere eterno 9 che da le ftelfo fi
muove, chi negar potrà che quella naturai proprietà fia fiata alle anime
conceda» ta ? I mperciocchè- inanimato è tutto ciò, che foftien
moto da impullo eflerno . Quello poi, che è anima Te, viene per interiore
e proprio moto rifeoffo. Im-, perciocché quella è la natura propria e la
virtù dell* anima ; che fe P una é infra tutte quelle nature, che fe
ftcflfe muovono, non ha certamente avuto prin-ci&c. Il fentimento e le
parole 1’anima più facilmente da fe altresj, fono di Platone nel -
fcocerà il mortale e torpido Tedro. ' ' pefo del còrpo, e pift fpedita-;
V elotius fife. Con quello niente voleranne alla celeitc ma cfcrdifo e moto d'
ojcraiìonl gione. } éo ea, quae extra erunt, contemplans, quam maxime (e a Corpore
abftrahet . Nam eorum animi, qui (e corporis voluptatibus dediderunt, earumque
(e quafi mi* ni (Ir os praebuerunt, impuifuque libidinum voluptati*
bus obedientiurti * Deorum et hominum jsra violavo* runt,
corporibus elapfi i circum terram ipfam volo, tantur, noe in hunc locum,
nifi multis exagitati (aeculis, revercuntur « Iile diiceffìt : ego (ornilo
folutus fum. i Circum terrdm ipfdm . Quella 6 oppiatone dì Socrate, da Platon f
ragionata nel Fedone dove dice che le anime de* malvagi rimaugonfi In
terra condannate a divagare intorno a* fepolcri, dave pagan le pe«
ne della vita malvagiamente menata . £d alla fatta oppi* ninne dà
pure alcuna compatta di fondamento 1’apparire ta« lora in si fatti
luoghi fpcttrf cd ombre 60$ cipio dì nafci mento, ed eterna è.
Quella tu eiercita in ottime operazioni . Ed ottime lono le premure
fall* falvezza della patria, {ielle quali Panima meda in moto ed
efercìrata, piò velocemente a quello leggio e magion (ua ne volerà E ciò pib
fpeditamente farà, Te già fin d* allora, quando farà nel corpo raccbiufa,
fi loileverà fuori di sè, e contemplando quegli oggetti, che eftranei faranno,
fi difiorrà, quanto può mai, dal corpo. Imperciocché le anime di colo,
ro, che fi fono a corporali piaceri dati, e fi rendettev ro quafi
minidri di quelli, e che, per impulfo delle didemperate padroni a*
piaceri fatti obbedienti, le leggi ruppero e degli Dii e degli uomini, da'
corpi ufci te fi vanno intorno alia terra medefima ravvolgendo, nè
io queflo luogo, fe non dopo d’edere (late tribo late molti fecoli, fan
ritorno. Egli dipartirti; edio mi difcoHi dai fonno. INTERLOCUTORI P. C.
SCIPIONE TENORE LUCEJO, principe de' Celtiberi SOPRANO C. LELIO, duce romano
.TENORE ERNANDO, re delle isole Baleari .. BASSO BERENICE, prigioniera .
SOPRANO ARMIRA, prigioniera SOPRANO La scena è in Cartagine
nova.All'eccellenza..Scipione All'eccellenza..di Carlo Lenos duca di Richmond e
Lenos, conte di March e Darnly, barone di Setterington e Methuen, e cavaliere
del nobilissimo Ordine del bagno. My lord, nulla meno dell'eroico deve dare
pubblico divertimento alla britanna nobiltà per interamente compiacerla. Gli
antichi Romani sono il modello di questa in armi e in lettere floridissima
nazione: e non può trovarsi soggetto più nobile delle loro gran geste, per un
teatro ove la medesima vegga rappresentati i personaggi a' quali i suoi più
gloriosi figli somigliano. P. C. Scipione che fu poi nomato l'africano,
vittorioso, amante, e vincitor di sé stesso, comparisce al pubblico, e mi
dà una
giusta occasione di
attestar pubblicamente l'interno
mio sentimento di stima e devozione verso l'e. v. con dedicarglielo. Io sin da
che v. e. tornò da' suoi viaggi, la stimai, l'ammirai, ed ottenutone l'accesso
ed il patrocinio, la ritrovai adorna delle più belle doti e naturali e
acquistate: prestanza di persona, vivezza d'Ingegno, nobiltà di costumi,
grandezza di maniere, affabilità di conversazione, conoscimento di lettere,
buon gusto nelle belle arti ammirai nell'e. v. e godei vederla felice presso a
nobile gentile e bella consorte. Negli affetti di padre e di marito dio
prosperi il corso de' suoi floridi anni,
al quale se non mancheranno occasioni, non potranno mancar fatti che lo
rendano ancor più simile a quegli eroi, che d'uno de' più Illustri de'quali, io
presento la più ragguardevole azione all'e. v. in questo mio novo dramma. Ed
ossequiosamente mi rassegno di v. e. umilissimo servitore ROLLI. P. Rolli
Händel, Argomento Argomento. Publio Cornelio Scipione proconsole nelle Spagne
prese per assalto Cartagine nova signoreggiata dalli Cartaginesi: s'innamorò d'una bellissima prigioniera,
ma trovandola già promessa a Lucejo principe de' Celtiberi, gliela rese
generosamente con tutti i doni portati dal di lei padre per suo riscatto. N.B.
Il solo primo motivo ed alcuni pochi versi di questo dramma sono stati tolti da
un vecchio dramma del medesimo titolo. Il celebre signor Federico Handel ne
compose la musica, al sommo espressiva ed armoniosa: ed il tutto fu eseguito in
tre settimane. librettidopera.it Atto primo Scipione ATTO PRIMO
[Ouverture] Scena prima Piazza con arco trionfale. Scipione su carro trionfale
seguìto dall'Esercito vittorioso, Schiavi d'ambo i sessi, e Lelio duce romano.
[Marcia] [Arioso] SCIPIONE Abbiam vinto: e Iberia doma, par che dica il fato a
Roma, serva Egitto ancor sarà. Recitativo SCIPIONE A Tiberiolo e a Sesto porgo
egualmente la mural corona, ché noto è a me, ch'ambo saliro i primi sovra il
muro scalato. Lelio, al roman senato fia noto il tuo sommo valore, in tanto
segno d'illustre militar decoro splendati al crin questa corona d'oro. LELIO
Scipione, grazie ti rendo e del dono e del merto: ché se i doveri adempio; di
tua grand'alma sol seguo l'esempio. Di tanti illustri prede, queste stimai
degne di te; cui rende rare amabil beltà che i cori accende. SCIPIONE (Numi!
Che gran bellezza!) Bella, nel vago petto ad un vano timor non dar ricetto:
cadesti in sorte a vincitor cortese. BERENICE Ah mia sorte infelice! SCIPIONE
Il nome? BERENICE Berenice. librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel, 1726
Atto primo SCIPIONE Non ti lagnar: tu nel bel volto porti armi che il vincitor
rendon già vinto. (ad Armira) E tu chi sei? ARMIRA De' predatori all'ira tolta
da Lelio illustre, io sono Armira. SCIPIONE A te duce fedel consegno queste sì
preziosa spoglie. BERENICE A te Scipione confido l'onor mio: tu che le leggi
sai tutte di virtù, tu lo proteggi. [N. 3 Arioso] SCIPIONE Scaccia o bella
dal seno il timore, di tua vaga beltà, dell'onore la virtù a difesa starà.
Abbiam vinto, e Iberia doma par che dica il fato a Roma, serva Egitto ancor
sarà. (parte) Recitativo BERENICE Oh Lucejo! LELIO E qual nome con dolor
proferisti? BERENICE È forse noto tal nome a te? LELIO Del generoso parli
principe de' Celtiberi? BERENICE Deh come t'è noto? LELIO Prigioniero un tempo
io fui del re suo padre, e generoso ei volle rendermi libertade, e il cor
m'avvinse. BERENICE Destinato in mio sposo egli a me fu, ma di nemica sorte il
barbaro furore cangiò in dure ritorte i bei lacci d'amore. Oh prence amato che
fia di me! Di te che fia! LELIO Non darti in preda al duolo. librettidopera.it
Atto primo Scipione ARMIRA Io spero, che il vincitore ancor sì generoso libere
ne farà. BERENICE Misero sposo! LELIO Nella regal magion ricetto avrete vaghe
illustri donzelle: nei giardin dilettosi troverete riposi al vostro affanno. BERENICE
Ahi qual riposo i miei tormenti avranno? [N. 4 Aria] BERENICE Un caro amante
gentil costante mi diede amor, e un empio fato me 'l tolse allor che amante
amato venia fedele in braccio a me. Infin che porto tal piaga al cor, senza
morire al mio martire altro conforto no che non v'è. (partono) Scena seconda
Lucejo in abito di soldato romano. Recitativo LUCEJO Quando vengo alle mie
nozze bramate con Berenice l'idol mio, ritrovo Cartagin presa d'improvviso
assalto, e cerco invan l'anima mia: mi vesto qual soldato roman: vengo alla
pompa trionfal di Scipione, e per mia sorte la veggo, oh dèi! ma prigioniera.
Udii che Lelio n'è custode: ne' giardini reali m'introdurrò: seconda amor la
frode. Oh con quai fissi sguardi l'ammirò il vincitore! Ahi! La perdo per sempre
s'ella non fuggirà. M'aita amore. librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel, Atto
primo [Aria] LUCEJO Lamentandomi corro a volo, qual colombo che solo solo va
cercando la sua diletta involata dal cacciator. E poi misero innamorato
prigioniero le resta a lato, ma la gabbia pur l'alletta perché restaci il su'
amor. Scena terza Giardino. Scipione, e poi Lelio. Recitativo SCIPIONE Oh
quante grazie amore in quel bel viso accolse! Ma non son io già preso da quel
celeste sguardo? La mia gloria è in periglio. E si dirà. LELIO Signor, le due
vezzose prigioniere lodar tua cortesia. SCIPIONE Lelio, alla vaga Armira troppo
spesso girar ti vidi i guardi. LELIO Perché celarlo? Il cor per lei sospira; ma
il vincitor tu sei... SCIPIONE Molto l'avanza di beltà Berenice. LELIO E pur
soggiace all'altra l'amor mio: d'ogni bellezza è più bel quel che piace.
SCIPIONE A te la cura d'ambe già diedi. Capital delitto sia l'ingresso a
tutt'altri in queste mura. Armira tua sarà. (parte) LELIO Generoso Scipione!
Ecco la bella. librettidopera. Atto primo Scipione Scena quarta Armira e detto.
LELIO Armira, e perché mesta? ARMIRA Oh quante volte in questa selvetta amena a
mio diporto venni! Chi mai creduta avria le delizie cangiarsi in prigionia?
LELIO Dal momento che tu fosti mia preda, che t'affanna? ARMIRA Il pensar che
serva io sono. LELIO Ma di questa crudel sorte al rigore involar ti potria.
ARMIRA Chi? Dillo. LELIO Amore. [Aria] ARMIRA Libera chi non è i lacci del suo
piè no mai, non porta al cor. Chi adora una beltà, le renda libertà poi le
domandi amor. (parte) Recitativo LELIO Indegna è inver di servitude un'alma di
sì bei pregi ornata: quand'ella in mio poter sarà concessa, risolverò. Scena
quinta Berenice e detto. LELIO Del vincitore, o bella, vittoria avesti co'
begli occhi tuoi: che t'ami un tanto eroe vantar ti puoi. BERENICE Onde
scorgesti l'amor tuo? librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel Atto primo
LELIO M'impose che a tutt'altri che a noi delitto capital sia qui l'ingresso.
BERENICE E tal segno è d'amor? LELIO Dirne potrei altri ancor: ti consiglio a
riamare il primo fra' Romani. BERENICE E ingrato sei. Che? Già ti prese oblio
dell'amico Lucejo? LELIO Ah! Che diss'io! BERENICE Giunger dovea l'istesso dì,
che presa fu Cartago infelice. Chi sa? Forse perì. LELIO No, Berenice: spera
miglior destino, e ti conforta. BERENICE Ah! Chi scampar può mai, quando a
ruina il fato inesorabile ne porta? [N. 7 Aria] LELIO No non si teme
d'incerto affanno quando la speme con dolce inganno l'alma che brama può
lusingar. Cangian vicende il male e il bene: spesso un s'attende, e l'altro
viene, se vuol temere, non disperar. (parte) [Recitativo accompagnato] BERENICE
Oh sventurati, sventurati affetti! Di Cartagin col fato periro le mie gioie,
cadder le mie speranze. Chi sa, chi sa, se mai rivedrete il mio bene, occhi
dolenti. Continua nella pagina seguente. librettidopera.it Atto primo Scipione
BERENICE Che fortunosi eventi hanno sempre delusa la speme (o dèi!) de' puri
miei diletti! Oh sventurati sventurati affetti! [Aria] BERENICE Dolci aurette
che spirate, deh volate all'idol mio, poi tornate a dir, dov'è. Aure dolci se
'l trovate, velocissime tornate: oh potesse ove son io, dolci aurette, far con
voi ritorno a me. Dolci aurette che spirate, deh volate all'idol mio, poi
tornate a dir, dov'è. Scena sesta Lucejo dentro la scena, e detta. Arioso e
recitativo LUCEJO Molli aurette v'arrestate. Sì malgrado al fato rio, idol mio,
pur vengo a te. BERENICE E che ascolto! Che veggio? LUCEJO Mia Berenice.
BERENICE Oh dèi! Quale ardir? Qual consiglio? LUCEJO Così accogli lo sposo? Che
turba la bell'alma? BERENICE Il tuo periglio. LUCEJO Son deluse le guardie
dall'abito mentito. BERENICE Ah se scoperto in finte spoglie sei, chi dall'ira
di Scipion ti toglie? LUCEJO Non bramasti vedermi? BERENICE Sì vederti bramai.
LUCEJO Che più, mio bene? librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel, Atto primo
BERENICE Ma vederti tornar liberatore, e non compagno delle mie catene. Parti,
se m'ami, e a quelle del mio padre unisci le tue squadre, e torna armato: e se
ingiusto anche il fato il tuo zelo tradisce, e il mio desire; vedrai se o cor
che nacque, se non teco goder, teco a morire. [Aria] LUCEJO Dimmi, cara, dimmi,
«tu dei morir» ma, o cara, non mi dir, «parti lontan da me». Pria di vederti,
sì forse potea partir: or che ti veggio, no no che non vuol non può partire il
cor e il piè. Recitativo BERENICE Ah t'ascondi: non lunge veggo Scipione: ahi!
di timor son morta. LUCEJO Non temer, ti conforta. BERENICE S'ami la vita mia,
prence t'ascondi. LUCEJO T'ubbidirò. (si ritira) BERENICE Numi 'l celate! Ei
giunge. Che improvviso timor m'ingombra l'alma! Lo scorgerà nel volto: altra
cagione ne fingerò! Scena settima Scipione, e detta, e poi Lucejo. BERENICE
Guardin gli dèi Scipione... SCIPIONE Bella, perché turbata ne' begli occhi
sereni? Non rispondi? Perché? Forse non lice saperlo a me? BERENICE Come
apparir può mai se non turbata ognor serva infelice? librettidopera.it Atto
primo Scipione SCIPIONE Deh rasserena i languidetti lumi: la servitù non ti
sarà penosa. Comanda al vincitore chi tanta ha in sua beltà forza amorosa.
BERENICE Ignoti senti a me ragioni. SCIPIONE Ancora a donzella di sì vago
sembiante, ignoto ancora è forse il parlar d'un amante? LUCEJO Soffrir più non
poss'io. BERENICE Oh ciel! SCIPIONE Qual calpestio? Che fai tu qui soldato? Chi
sei? Rispondi. LUCEJO Io sono uom qual mi vedi innanzi ad un altr'uomo e se fra
noi v'è differenza alcuna, non è merto, è fortuna. SCIPIONE (Sotto latine
spoglie straniera è la favella.) Qui che pretendi? BERENICE (Anch'ei si scopre,
oh dèi!) LUCEJO Io non pretendo in costei di te maggior ragione. SCIPIONE
Grand'ardire! Chi sei? LUCEJO Sono... BERENICE Scipione, lascia, ch'io parli: e
quale hai ragion sovra me? LUCEJO Sono... BERENICE Tu sei o folle o temerario,
che con finto pretesto insidi l'onor mio, cerchi la preda rapire al vincitor.
LUCEJO Sogno! Son desto! Librettidopera P. Rolli / Händel Atto primo [Aria]
BERENICE Vanne, parti, audace, altiero, menzognero. Ahi! Non bastan le mie
pene, ch'altri viene più infelice a farmi ancor. Taci, fuggi, non m'intendi? Mi
proteggi, mi difendi o cortese vincitor. (parte) Scena ottava Lelio, e detti.
Recitativo LELIO (Giunsi a tempo, si salvi.) LUCEJO (È Lelio.) LELIO Erennio,
che fai qui? Vanne al campo! Signor, folle soldato ti disturbò. (a Lucejo) Non
ubbidisci ancora? LUCEJO (Errai nel mio trasporto.) Ubbidirò. SCIPIONE
All'accento credei fosse un ibero. LELIO Servì Publio tuo padre, e restò
prigioniero, e nelle ostili tirannie perdette parte del senno, ma il mio cenno
teme, ed anche è pieno di valor. SCIPIONE Gran cura prendine o Lelio nella sua
sventura. Pietade inver l'amico abbi eguale al valor contro al nemico. (partono)
librettidopera Atto primo Scipione LUCEJO Gelosia,
m'ingannasti? Gratitudin d'amico oh quanto industriosa mi scampasti! Ma!
Soffrir chi potea sentir parlar d'amore alla sua bella? Non è costume ibero un
rivale soffrir: ma... menzognero! Audace! Vanne! Parti! Fur sentimenti d'alma,
o fur sol arti? Ahi! Con troppo diletto ella certo sentia parlar d'affetto.
[Aria] LUCEJO Figlia di reo timor, freddo velen d'innamorato sen, o gelosia
crudel esci dal cor, lasciami in pace. Gelo ed ardor, smania ed affanno,
dubbiosa fé, nascosto inganno porti con te, e alfin così di vita e amor spegni
la face. librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel Atto secondo ATTO
SECONDO [Sinfonia] Scena prima Porto con nave approdata. Ernando padre di
Berenice, che sbarca, e poi Lelio. Recitativo ERNANDO Mercé del vincitor mi fu
concesso pacifico lo sbarco. Se i tutelari numi che veglian d'innocenza alla difesa,
scampar la figlia dal furor di Marte, le portate ricchezze ne renderanno facile
il riscatto. Vadano diligenti esploratori subito sulla traccia: ma fino a sua
scoperta l'infortunio si taccia. Un roman duce s'appressa. LELIO Al forte
Ernando che alle due Baleari isole impera, manda Scipion salute. ERNANDO Al
proconsol romano la gloria e l'armi cedo, offro tributo, ed amistà gli chiedo.
LELIO Grata a Scipione sia l'amistà d'Ernando, ma il tributo maggiore anzi il
sol ch'ei ricerca, ad offrir vieni, a Roma e a lui pien d'amicizia il core.
[Aria] ERNANDO Braccio sì valoroso core sì generoso il mondo vincerà. E senza
usare il brando, co 'l nobil cor pugnando tutto vi cederà. librettidopera.it
Atto secondo Scipione Scena seconda Appartamenti delle due prigioniere.
Berenice e poi Scipione. [Arioso] BERENICE Tutta raccolta ancor nel palpitante
cor tremante ho l'alma. BERENICE Ah! pria di rivederti adorato mio sposo in tal
periglio, prendi dagli occhi miei perpetuo esilio. Quanto propizia sorte ebbe
il regal mio genitore Ernando non approdaro per contrario vento! Ch'abbia già
Lelio il fido amico, io spero, persuasa la fuga al prence amato: ma so che
disperato soffre di gelosia le pene amare, e fuggir non vorrà. Gravi tormenti
alfin cadrò sotto la vostra salma. BERENICE Tutta raccolta ancor nel palpitante
cor tremante ho l'alma. Recitativo SCIPIONE Di libertate il dono, prigioniera
gentil, grato ti fia? BERENICE Mi renderà del donator più serva. SCIPIONE
Spera, ma dimmi pria tuo vero stato: i nobili sembianti spiran grandezza.
BERENICE Io son d'Ernando figlia re delle Baleari isole. SCIPIONE E come in
Cartagine? BERENICE Il principe Sitalce che n'è morto a difesa, era germano
della mia genitrice, ed in sua corte vissi gran tempo, ah! librettidopera.it Rolli
Händel Atto secondo SCIPIONE Deh non darti in preda a vano duolo: è inesorabil
morte. Libera tu sarai, ma libertà per libertà si chiede. Del suo laccio più
forte per te già strinse amor. BERENICE Signor, t'arresta, non mi dir che tu
sei... SCIPIONE M'odi. BERENICE No, ascolta. De' Celtiberi al prence, che meco
un tempo visse, il cor già diedi. Riamar non poss'io se non... SCIPIONE
(Spietato spietato mio destin! Misero core scoppierai di tormento e di furore.
[Aria] SCIPIONE So gli altri debellar, ma porto nel mio cor chi mi fa guerra.
Che giova trionfar, se tirannia d'amor l'onor ne atterra.) [Aria] SCIPIONE
Pensa o bella alla mia speme e il desio non ingannar. (Ahi che l'alma troppo
teme, e comincia a disperar.) (parte) Recitativo BERENICE Troppo qui noto è il
mio natal, celarlo era timido e vano: dissimulare affetti è di me indegno.
Scena terza Lelio, Lucejo, e detta. LELIO Ecco o prence la bella cagion del tuo
dolore. librettidopera.it Atto secondo Scipione LUCEJO Tu per me le favella: io
non ho tanto core. BERENICE Oh numi! E questa di Lucejo è la fuga? Ah folle! Ei
torna a turbar l'alma mia. LELIO (Sì mi dicesti 'l vero, o gelosia.) BERENICE
Lelio, da me l'invola. LELIO E non vuoi tu? BERENICE Voglio che parta, e che
non torni più. LELIO Ei brama sol..BERENICE Folle colui che vuole perdere le
pupille per rivedere una sol volta il sole. LUCEJO Lelio andiam. Vado a morte.
BERENICE A morte! Ah no. Lelio l'arresta. LELIO A morte. Sirena ingannatrice,
che importa a te? L'amor la fé giurata son questi? E qual ragione puoi dirmi
ingrata? BERENICE Ahimè! Verrà Scipione. LUCEJO Verrà il novello oggetto
dell'amor tuo? BERENICE Cieco, e non vedi? LELIO Io vidi già ne' tuoi lumi
infidi il cor fallace. In vana ambizion cangi il tu' amore, e il mio divien
furore. Resta con quella pace che a me dai, ma la falsa alma poi tema piangere
del rivale o dell'amante o d'ambo a un tempo sol, fu l'ora estrema. Ma no,
risolvo abbandonar. BERENICE Rivolto ogni pensiero in te... LUCEJO Va', non
t'ascolto. librettidopera.it Rolli
Händel Atto secondo [Aria] LUCEJO Parto, fuggo, resta e godi di tue frodi, tu
sarai felice altera, menzognera. Sventurato io resterò sventurato sol per te.
Resta ingrata, e che puoi dire? Quando invece di fuggire, vuoi restar co 'l
vincitore. Quest'è amore? Questa è fé? (parte) Recitativo BERENICE Seguilo o
duce. L'agitata mente lo trasporterà certo al suo periglio. LELIO L'orme ne
segue, e penserò allo scampo. (parte) BERENICE Misera Berenice! Ah già preveggo
il fine della tragedia mia tutta infelice. [Aria] BERENICE Com'onda incalza
altr'onda, pena su pena abbonda, sommersa al fine è l'alma in mar d'affanno. E
tutt'i miei momenti oh come lenti lenti di dolore in dolore a morte vanno!
(parte) Scena quarta Armira, e Lelio. Recitativo ARMIRA Importuno tu sei.
Quando in tua man sarà il darmi libertà, penserò allora di riamarti. LELIO Ed
ora perché amor non prometti? ARMIRA Sarian forzati e men sicuri affetti. librettidopera Atto secondo Scipione [Aria]
LELIO Temo che lusinghiero il labbro menzognero amor prometta per ingannar. Pur
benché finga, sì dolce è la lusinga, che più m'alletta sempre a sperar. (parte)
Recitativo ARMIRA Lusingarlo mi giova, finché del mio servaggio a Indibile il
mio padre giunga l'infausta nuova, onde s'attenda soccorso tal, che libertà mi
renda. [Aria] ARMIRA Voglio contenta allor serbar del piè, del cor, la cara
libertà. L'amante avvezzo a dir che sol volea servir, tiranno poi si fa. Scena
quinta Lucejo e detta. Recitativo LUCEJO Qui torno, e qui vuo' pria morir, che
mai lasciar. ARMIRA Qui che vuoi tu? LUCEJO Vuo' quel che vuole la mia
disperazione. ARMIRA Chi cerchi? LUCEJO Berenice. ARMIRA Ancor non sai, che
l'adora Scipione? LUCEJO E corrisposto credi il romano amante? ARMIRA E tu qual
cura ne prendi? L'ami ancor? librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel, 1726
Atto secondo LUCEJO Per mia sventura. ARMIRA Del vincitor latino non paventi lo
sdegno? LUCEJO Alma che nacque al regno non conosce timor. ARMIRA Dimmi chi
sei? LUCEJO Ora de' casi miei non mi lice dir più. ARMIRA M'offendi: in pegno
di fé, la destra mia prendine. LUCEJO O bella, tu mi conforti. (si danno la
mano) Scena sesta Berenice, e detti. BERENICE Bella! Mi conforti! Ah traditore!
Ah indegno! LELIO Oh van sospetto! BERENICE Sospetto il ver? Ma il tuo decoro,
Armira? Sì l'audace correggi? ARMIRA Lascioti sola con quest'altro amante, così
titolo avrai d'insegnar di modestia a me le leggi. (parte) LUCEJO E la mancata
fede? Con finta gelosia pur si colora? BERENICE Va' traditor. Scena settima
Scipione, e detti. SCIPIONE Tanto s'ardisce ancora, contra gli ordini miei?
LUCEJO Scipione, a te costei diede fortuna, a me la diede amore. BERENICE È
quel folle soldato. www.librettidopera.it Atto secondo Scipione LUCEJO Io son
Lucejo de' Celtiberi il prence: un vil timore non mi celò: tentai ritor la
preda, se si potea, con onorata fuga, ma la crudel non m'ascoltò. SCIPIONE
Tentasti, prence, un delitto: e prigionier già sei. BERENICE Ah misera! Il previdi.
LUCEJO Se qual duce roman parli, ti cedo. Ma come un mio rivale, so ch'hai
nell'alma onor, se non m'abbatti; prigionier non son io: ceder non voglio fin
che vivo, il mio ben. SCIPIONE Deggio al senato risponder della mia, della tua
vita. LUCEJO Disperazion non t'ode: il ferro stringi. Scena ottava Lelio con
Guardie che circondano Lucejo con l'aste al petto. BERENICE Numi, lo
difendete... Io manco... Io moro... SCIPIONE Olà? Non m'offendete. Non temer
principessa, ei salvo fia. LELIO Cedi amico quel ferro. LUCEJO Avverso fato!
Lelio m'uccidi tu... Son disperato. [Aria] LUCEJO Cedo a Roma, e cedo a te.
Questi dica innanzi a me, s'ebbi già romano il cor: ma in amor, no non ti cedo
no, ti sfido all'armi. E se rival tu sei, esser duce più non déi: l'onor ti
vieterà privar di libertà chi non disarmi. (Lucejo, Lelio e guardie partono)
librettidopera.it Rolli Händel Atto secondo Recitativo BERENICE Signor, del tuo
fisso pensar pavento. SCIPIONE Sì sì Roma altro sposo sceglierà del tuo merto
ancor più degno. BERENICE Lucejo è nato al regno. SCIPIONE Merta però di
posseder tuoi pregi un che dia legge ai regi, un romano. BERENICE In vil core
han sempre forza ambizion, fortuna; nel mio non già, dove ha sol forza amore.
SCIPIONE Del senato a' decreti forza è chinar la fronte, ed ubbidire. BERENICE
Forzata esser non può, chi può morire. SCIPIONE Odi tanto i Romani? BERENICE Io
n'ammiro il valor, n'amo il bel core, e se mia fede e l'amor mio non fosse
avvinto altrui, sì n'arderei d'amore. [Aria] BERENICE Scoglio d'immota fronte
nel torbido elemento, cima d'eccelso monte al tempestar del vento, è negli
affetti suoi quest'alma amante. Già data è la mia fé: s'altri la meritò, non
lagnisi di me; la sorte gli mancò del primo istante. librettidopera. it Atto terzo Scipione
ATTO TERZO Scena prima [Sala magnifica.] Scipione e poi Lelio ed Ernando.
Recitativo SCIPIONE Miseri affetti miei! Tutte le vie d'onore saranno chiuse
all'amor mio? LELIO Scipione a privata udienza Ernando vedi, secondo i cenni
tuoi. ERNANDO Del vincitore l'alta presenza onoro. SCIPIONE A cortesia amistà
corrisponda: accetta Ernando la destra in pegno. Fortunato evento pose tua
figlia in mio poter. ERNANDO Già Lelio tutto narrommi: dal tuo nobil core spero
sua libertà. SCIPIONE La sua bellezza l'alma m'avvinse: in casto nodo io spero
ottenerla da te. ERNANDO Sì grande onore, per mia sventura, troppo tardi è
giunto. La promisi a Lucejo principe de' Celtiberi. SCIPIONE Ma questi è nostro
prigionier. ERNANDO Con la sua vita la mia parola irrevocabil vive. La mia
vita, il mio regno son tuoi, né per serbarli unqua io vorrei mancare all'onor
mio. Corso è l'impegno, memore sino a morte animo grato n'avrò. SCIPIONE Vanne,
e ci pensa. ERNANDO Ho già pensato. librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel,
1726 Atto terzo [Aria] ERNANDO Tutta rea la vita umana saria sol brutale e vana
senza il freno dell'onor. Dar parola, è dar sua fede: e la lingua che la diede
fu ministra sol del cor. (parte) Recitativo SCIPIONE Degni amici di Roma son
questi Iberi. Il saguntino onore sparso di tutti è nelle vene! Vanne, qui
conduci Lucejo e Berenice, e a lui dirai, che deve gir prigioniero al novo
giorno a Roma. LELIO Esperienza, e senno ai più ch'io possa consigliar. Fia
tosto eseguito il tuo cenno. (parte) [N. 24 Recitativo accompagnato] SCIPIONE
Il poter quel che brami, il bramar quel che puoi sono in tua forza, e tu goder
non vuoi? Della vita i diletti non sono che momenti, se brami... pensi... e
speri, fuggono come venti. Chi meno gode, vive men. Virtute è tormentosa
opinion per cui muor di sete il desire al fonte appresso. Sì sì voglio... ma...
no...torna in te stesso. Puoi non usar tua forza, puoi non voler, giusto perché
tu puoi posseder quel che vuoi. Questo è un piacer che non avrai comune co'
bruti e co' tiranni. Qual fama di virtù! Ma no. Per fama ben oprar non si dée.
Ben far verace è quel ch'uom fa, perché al su' interno piace. Oh fecondo
pensier, sei generoso, tu riporti, lo sento, il mio riposo. (parte)
librettidopera.it Atto terzo Scipione Scena seconda Lelio, Lucejo, in proprio
abito, e Berenice e Guardie. Recitativo LELIO In questo luogo o prence, ov'io
dovrei renderti quel che tu a me desti, in questo devo darti un annunzio aspro
e funesto. BERENICE Numi! Che fia? LUCEJO L'alma ho maggior dei mali. Di' pur.
LELIO Prence, tu devi... ah! LUCEJO Da un romano con sì lungo esitar, morte si
noma? LELIO Gir prigioniero ero al nuovo giorno a Roma. LUCEJO Questo è più
fier che morte. BERENICE No non andrai senza di me, mio bene. Il dolore o la
mano l'alma mia scioglierà da sue catene. Ti seguirò nud'ombra. LUCEJO Oh fida!
Oh cara! Di cieca gelosia perdon ti chiedo! Oh compensati affanni miei! Deh
resta, deh vivi sì amorosa, e sì costante alla memoria mia sola, e poi serba
serba a fato miglior tua nobil vita. Amico un solo da te aspetto, un solo segno
di gratitudine infinita, deh fa che cangi il vincitore in morte l'aspra
sentenza della mia partita. [Aria] LUCEJO Se mormora rivo o fronda, sussurrano
venticelli, di', che i sospir son quelli, ho l'alma mia che viene, mio bene,
intorno a te. Dia vita o morte il fato, fian' ambe ugual tormento: sarò sol
consolato pensando alla tua fé. (parte) librettidopera.it Rolli Händel Atto terzo Recitativo LELIO Più
resister non posso. Il cor si spezza. Se a sì teneri affetti, se a lacrime sì
belle può resister Scipione, il cor romano ei non ha, ch'esser dée grande ed
umano. (parte) [Recitativo accompagnato] BERENICE Ah! Scipion dove sei? Ascolta
i pianti miei: o rendimi il mio bene, o avvinta in sue catene, mandami seco, sì
spietato vieni saziati delle mie lagrime amare. Scena terza Scipione e detta.
Recitativo SCIPIONE (Tenerezze del cor, cedo, son vinto.) BERENICE Non dovevo
sdegnarti, ma non potevo amarti. La rea sola son io; mortal sentenza deh fa
ch'io sola dal tuo labbro senta. SCIPIONE Bella non pianger più. Sarai
contenta. (parte) [Aria] BERENICE Già cessata è la procella e la calma tornerà.
E ne' rai d'amica stella l'amor mio scintillerà.librettidopera.it Atto terzo
Scipione Scena quarta Sala con trono. Scipione assiso che riceve Ernando
preceduto da Mori che portano vari presenti d'argento e d'oro. [Sinfonia]
[Sinfonia] Recitativo ERNANDO All'invitto proconsole romano, all'inclito
Scipione, e al Campidoglio offro tributo e pace. SCIPIONE In nome del senato
l'amiche offerte accetto, e patrocinio ed amistà prometto. ERNANDO Queste
ancorché inuguali al tuo gran merto ricchezze accetta ancor: prezzo al riscatto
della mia figlia Berenice. Oh degno cui tutto il mondo ceda, rendimi della vita
il conforto migliore. SCIPIONE Venga la bella. Scena quinta Berenice e detti.
ERNANDO Oh dolce figlia! BERENICE Oh genitore amato! SCIPIONE Libera sei: ma le
ricchezze tutte del mondo, prezzo eguale a te non sono: ti rendo al caro
genitore in dono. BERENICE Ho il cor da gioia oppresso. ERNANDO Vieni al
paterno affettuoso amplesso. Cortese vincitor, pregoti almeno d'accettare in
legger segno d'affetto i nostri doni. SCIPIONE Accetto le preziose offerte: ma
in tuo volto tutta non veggo scintillare ancora l'anima lieta o Berenice.
librettidopera.it Rolli / Händel Atto terzo BERENICE È vero. Troppo timida
ancor l'alma paventa. SCIPIONE Spera, non sospirar, sarai contenta. [Aria]
SCIPIONE Gioia si speri sì, sol voglio in questo dì letizia e pace. Marte
riposo avrà, e lieto accenderà amor la face. (partono) Scena sesta
Appartamento. Lelio ed Armira. Recitativo LELIO Tu d'Indibile figlia tanto
amico a' Romani? E perché mai tacermi il tuo natal? ARMIRA Bastante asilo
pareami aver nel tuo cortese affetto. LELIO In risponder così, mostri chi sei.
In piena libertate or vivi, ed io rimango in tue catene. ARMIRA Qual Berenice,
io non ho dato ancora ad altri il cor. LELIO Se a fedeltà sincera vorrai darne
possesso. ARMIRA Amami, e spera. (parte) [Aria] LELIO Del debellar, la gloria,
è il bel piacer d'amor, sono del mio valor pregi immortali. Del par con la
vittoria un corrisposto ardor è il sommo del gioir, ch'è senza uguali. (parte)
librettidopera.it Atto terzo Scipione Scena settima Berenice e Lucejo.
Recitativo BERENICE Dove o principe amato? LUCEJO A te mio bene. BERENICE
Veggoti al fianco il nobil ferro. LUCEJO Dianzi per man di Lelio, Scipion me 'l
rese, ed a sé m'invitò. BERENICE La gioia intera speriam da un cor generoso.
LUCEJO Oh cara, abbiasi il mondo tutto, mi lasci del tuo cor libero il dono, e
il più felice io sono. BERENICE Anch'io dovea senza vederti ire a Scipione, ma
volli, principe amato, rivederti pria. Vo piena di lietissima speranza. LUCEJO
Oh fida! Oh dolce? Oh cara anima mia. Aria] BERENICE Bella notte senza stelle
chiaro sole senza rai tu vedrai, non il mio core senz'amore e senza te.
Mancheranno al mar le sponde, mancheranno ai fiumi l'onde, pria che manchi la
mia fé. (parte) Recitativo LUCEJO Squarciasi 'l fosco vel del mio sospetto, e
qual fra nube il cui torbido seno rompa e dilegui il vento, veggo apparir più
chiaro il ciel sereno. .librettidopera.it P. Rolli Händel Atto terzo [Aria]
LUCEJO Come al natio boschetto augel che vien dal mar vola nell'arrivar,
l'anima mia così impaziente già se 'n vola al caro ben. No più non è crudele la
bella mia fedele: anima mia sì sì vattene innanzi a me posati nel bel sen.
(parte) Scena ultima Scipione, Lelio, Ernando, Armira, Berenice, e poi Lucejo.
[Arioso] SCIPIONE Dopo il nemico oppresso voglio esser di me stesso più forte
vincitor. (ascende il trono) Recitativo SCIPIONE Venga Lucejo... SCIPIONE
Prence, vinto dai primi sguardi arsi d'amor per la beltà che adori: la trovo
tua: vinco me stesso, e illesa pronto a renderla io sono, poiché d'ambedue noi
fia degno il dono premio da te si chiede a Scipio e a Roma d'amicizia e fede.
Lelio all'illustre tuo scampo tentato per l'amico Lucejo tutta la lode io do
d'animo grato. Ernando, i doni tuoi accettai per poter disporne poi: seguano la
vezzosa Berenice al possesso del suo sposo felice. LELIO Oh magnanimo core!
ERNANDO Oh virtù rara! LUCEJO Oh senza esempio anima grande! librettidopera.it
Atto terzo Scipione BERENICE Oh degno d'esser fra i numi accolto! [Recitativo
accompagnato] LUCEJO In testimonio io chiamo Giove e gli eterni numi, che la
mia vita e il regno a Scipione a Roma, in guerra e in pace, impegno. [ Duetto]
BERENICE E LUCEJO Si fuggano i tormenti, si vengano i contenti di bella
fedeltà. Non più crudel timore il dolce dell'amore amareggiar potrà. Recitativo
SCIPIONE Marte riposi, accenda amor la face sia questo un dì sol di letizia e
pace. [Coro] CORO Faran la gioia intera vittoria pace e amor. E sia l'Iberia
altera d'un tanto vincitor. librettidopera.it P. Rolli Händel, Interlocutori All'eccellenza
Argomento Atto Ouverture Scena Marcia Arioso]. Arioso Aria Scena Aria Scena
Scena Aria] Scena Aria Recitativo accompagnato Aria] Scena AriaScena
AriaScena AriaAtto SinfoniaScena AriaScena Arioso Aria Aria Scena Aria Aria Scena
Aria] Aria Scena Scena Scena Scena Aria Aria]. Atto Scena Aria Recitativo accompagnato].
Scena Aria Recitativo accompagnato]. Scena Aria Scena Sinfonia Sinfonia Scena
Aria Scena Aria Scena AriaAria Scena ultima. Arioso Recitativo accompagnato Duetto
Coro Brani significativi Scipione BRANI SIGNIFICATIVI Abbiam vinto: e
Iberia doma (Scipione) Il poter quel che brami (Scipione) Scoglio d'immota
fronte (Berenice) Se mormora rivo o fronda (Lucejo) PIETRO METASTASIO / WOLFGANG AMADEUS MOZART Il sogno di
Scipione Azione teatrale Scipio Costanza Fortuna Publio Emilio Recitativo
Fortuna Vieni e segui miei passi, O gran figlio d'Emilio. Costanza I passi
miei, Vieni e siegui, o Scipion.
Scipione: Chi è mai l'audace Che turba il mio riposo? Fortuna: Io son. Costanza Son io; E sdegnar non ti dèi. Fortuna Volgiti a me. Costanza Guardami in volto. Scipione Oh dei, Qualle abisso di luce! Quale
ignota armonia! Quali sembianze Son queste mai sì luminose e liete! E in qual
parte mi trovo? E voi chi siete?
Costanza Nutrice degli eroi.
Fortuna Dispensatrice Di tutto il ben che l'universo aduna. Costanza Scipio, io son la Costanza. Fortuna Io la Fortuna. Scipione E da me che si vuol? Costanza Ch'una fra noi Nel cammin della vita
Tu per compagna elegga. Fortuna Entrambe
offriamo Di renderti felice. Costanza E
decider tu dèi Se a me più credi, o se più credi a lei. Scipione Io? Ma dèe... Che dirò? Fortuna Dubiti! Costanza Incerto Un momento esser puoi! Fortuna Ti porgo il crine, E a me non
t'abbandoni? Costanza Odi il mio nome,
Nè vieni a me? Fortuna Parla. Costanza Risolvi. Scipione E come? Se volete ch'io parli, Se
risolver degg'io, lasciate all'alma Tempo da respirar, spazio onde possa
Riconoscer se stessa. Ditemi dove son, chi qua mi trasse, se vero è quel ch'io
veggio, Se sogno, se son desto o se vaneggio. Aria Risolver non osa Confusa la
mente, Che opressa si sente Da tanto stupor. Delira dubbiosa Incerta vaneggia
Ogni alma che ondeggia Fra'moti del cor. Recitativo Costanza Giusta è la tua
richiesta. A parte, a parte Chiedi pure, e saprai Quanto brami saper. Fortuna
Si, ma sian brevi, Scipio, le tue richieste. Intollerante Di risposo son io.
Loco ed aspetto Andar sempre cangiando è mio diletto. 2. Aria Fortuna Lieve sono al par del vento;
Vario ho il volto, il piè fugace; Or m'adiro, e in un momento Or mi torno a
serenar. Sollevar le moli oppresse Pria m'alletta, e poi mi piace D'atterrar le
moli istesse Che ho sudato a sollevar. Recitativo Scipione Dunque ove son? La
reggia Di Massinissa, ove poc'anzi i lumi Al sonno abbandonai, Certo questa
non'. Costanza No. Lungi assai É l'Africa da noi. Sei nell'immenso Tempio del
ciel. Fortuna Non lo conosci a tante Che
ti splendono intorno Lucidissime stelle? A quel che ascolti Insolito concento.
Dele mobili sfere? A quel che vedi Di lucido zaffiro Orbe maggior che le
rapisce in giro? Scipione E chi mai tra
le sfere, o dèe, produce Un contento sì armonico e sonoro? Costanza L'istessa ch'è fra lorto Di moto e
di misura Proporzionata ineguaglianza. Insieme Urtansi nel girar; rende
ciascuna Suon dall'altro distinto; E si forma di tutti un suon concorde. Viarie
così le corde Son d'una cetra; e pur ne tempra in guisa E l'orecchio e la man
l'acuto e il grave, Che dan, percosse, un'armonia soave. Questo mirabil nodo,
Questa ragione arcana Che i dissimili accorda, Proporzion s'appella, ordine e
norma Universal delle create cose. Questa è quel che nascose, D'altro saper
misterioso raggio, Entro i numeri suoi di Samo il saggio. Scipione Ma un armonia si grande Perchè non
giunge a noi? Perchè non l'ode Chi vive lá nella terrestre sede? Costanza Troppo il poter de'vostri sensi
eccede. 3. Aria Ciglio che al sol si
gira Non vede il sol che mira, Confuso in quell'istesso Eccesso di splendor.
Chi lá del Nil cadente Vive alle sponde apresso, Lo strepito non sente del
rovinoso umor. Recitativo Scipione E quali abitatori... Fortuna assai
chiedesti: Eleggi alfin. Scipione Soffri
un istante. E quali Abitatori han queste sedi eterne? Costanza Ne han molti e vari in varie
parti. Scipione In questa, ove noi siam,
chi si raccoglie mai? Fortuna Guarda sol
chi s'appressa, e lo saprai. 4. Coro
Germe di cento eroi, Di Roma onor primiero, Vieni, che in ciel straniero Il
nome tuo non è. Mille trovar tu puoi. Orme degli avi tuoi nel lucido sentiero
Ove inoltrasti il piè. Recitativo Scipione Numi, è vero o m'inganno? Il mio
grand'avo, Il domator dell'Africa rubello Quegli non è? Publio: Non dubitar,
son quello. Scipione Gelo d'orror!
Dunque gli estinti.... Publio Estinto,
Scipio, io non son. Scipione Ma in
cenere disciolto Tra le funebri faci, Gran tempo è giá, Roma ti pianse. Publio Ah taci: Poco sei noto a te. Dunque tu
credi Che quella man, quel volto, Quelle fragili membra onde vai cinto Siano
Scipione? Ah non è vero Son queste Solo una veste tua. Quel che le avviva Puro
raggio immortal, che non ha parti E scioglier non si può che vuol, che intende,
Che rammenta, che pensa, Che non perde con gli anni il suo vigore, Quello,
quello è Scipione: e quel non muore. troppo iniquo il destino Sraia della
virtù, s'oltre la tomba Nulla di noi restasse, e s'altri beni Non vi vosser di
quei Che in terra per lo più toccano a'rei. No, Scipio: la perfetta D'ogni
cagion Prima Cagione ingiusta esser così non può. V'è doppo il rogo, V'è merce
da sperar. Quelle che vedi Lucide eterne sedi, serbansi al merto; e la più
bella è questa In cui vive con me qualunque in terra La patria amò, qualunque
offri pietoso Al publico riposo i giorni sui, Chi sparse il sangue a benefizio
altrui. 5. Aria Se vuoi che te raccolgano
Questi soggiorni un dì, degli avi tuoi rammentati, Non ti scordar di me. Mai
non cessò di vivere Chi come noi morrì: Non merito di nascere Chi vive sol per
sè. Recitativo Scipione Se qui vivon gli eroi... Fortuna Se paga ancora La tua
brama non è, Scipio, è giá stanca La tolleranza mia. Decidi... Costanza Eh lascia Ch'ei chieda a voglia sua.
Ciò ch'egli apprende Atto lo rende a giudicar fra noi. Scipione Se qui vivon gli eroi Che alla
patria giovar, tra queste sedi Perchè non miro il genitor guerriero? Publio L'hai su gli occhi e nol vedi? Scipione É vero, è vero. Perdona, errai, gran
genitor; ma colpa Delle attonite ciglia É il mio tardo veder, non della mente,
Che l'immagine tua sempre ha presente. Ah sei tu! Giá ritrovo L'antica in
quella fronte Paterna maestá. Gia nel mirarti Risento i moti al core Di
rispetto e d'amore. Oh fausti numi! Oh caro padre! Oh lieto dì. Ma come Si
tranquillo m'accogli? Il tuo sembiante Sereno è ben, ma non comosso. Ah dunque
non provi in rivedermi Contento eguale al mio! Emilio Figlio, il contento Fra
noi serba nel Cielo altro tenore. Qui non giunge all'affanno, ed è
maggiore. Scipione Son fuor di me. Tutto
quassù m'è nuovo, Tutto stupir mi fa. Emilio Depor non puoi Le false idee che
ti formasti in terra, E ne stai si lontano. Abassa il ciglio: Veddi laggiù
d'impure nebbie avvolto Quel picciol globo, anzi quel punto? Scipione Oh stelle! É la terra? Emilio Il
dicesti. Scipione E tanti mari E tanti
fiumi e tante selve e tante Vastissime province, opposti regni, popoli
differenti? E il Tebro? E Roma?... Emilio Tutto è chiuso in quel punto. Scipione Ah, padre amato, Che picciolo, che
vano, Che misero teatro ha il fasto umano! Emilio Oh se di quel teatro Potessi,
o figlio, esaminar gli attori; Se le follie, gli errori, I sogni lor veder
potessi, e quale Di riso per lo più degna cagione Gli agita, gli scompone, Li
rallegra, gli affligge o gl'innamora, Quanto più vil ti sembrerebbe
ancora! 6. Aria Voi collogiù ridete D'un
fanciullin che piange, Che la cagion vedete Del folle suo dolor. Quassù di voi
si ride, Che dell'etá sul fine, tutti canuti il crine, Siete fanciulli ancor.
Recitativo Scipione Publio, padre, ah lasciate Ch'io rimanga con voi. Lieto
abbandono Quel soggiorno laggiù troppo infelice. Fortuna Ancor non è
permesso. Costanza Ancor non lice. Publio Molto a viver ti resta. Scipione Io vissi assai; Basta, basta per me.
Emilio Si,ma non basta A'disegni del fato, al ben di Roma, Al mondo, al
Ciel. Publio Molto facesti e molto Di
più si vuol da te. Seza mistero Non vai, Scipione, altero E degli aviti e
de'paterni allori. I gloriosi tuoi primi sudori Per le campagne ibere A caso
non spargesti; e non a caso Porti quel nome in fronte Che all'Africa è fatale.
A me fu dato Il soggiogar sì gran nemica; e tocca Il distruggerla a te. Va, ma
prepara Non meno alle sventure Che a'trionfi il tuo petto. In ogni sorte
L'istessa è la virtù. L'agita, è vero, Il nemico destin, ma non l'opprime; E
quando è men felice, è più sublime. 7.
Aria Quercia annosa su l'erte pendici Fra'l contrasto de'venti nemici Più
sicura, più salda si fa. Chè se'l verno le chiome le sfronda, Più nel suolo col
piè si profonda; Forza acquista, se perde beltá. Recitativo Scipione Giacchè al
voler de'Fati L'opporsi è vano, ubbidirò. Costanza Scipione, Or di scegliere è
il tempo. Fortuna Istrutto or sei; Puoi
giudicar fra noi. Scipione Publio, si
vuole Ch'una di queste dèe... Publio
Tutto m'è noto. Eleggi a voglia tua.
Scipione Deh mi consiglia, Gran genitor! Emilio Ti usurperebbe, o
figlio, La gloria dela scelta il mio consiglio.
Fortuna Se brami esser felice, Scipio, non mi stancar: prendi il momento
In cui t'offro il crin. Scipione Ma tu
che tanto importuna mi sei, di': qual ragione Tuo seguace mi vuol? Perchè
degg'io Sceglier più che l'altra?
Fortuna E che farai, s'io non secondo amica L'imprese tue? Sai quel
ch'io posso? Io sono D'ogni mal, d'ogni bene L'arbitra collagiù. Questa è la
mano Che sparge a suo talento e gioie e pene Ed oltraggi ed onori, E miserie e
tesori. Io son collei Che fabbrica, che strugge, Che rinnova gl'imperi, Io, se
mi piace, In soglio una capanna, io quando voglio, Cangio in capanna un soglio.
A me soggetti Sono i turbini in cielo, Son le tempeste in mar. Delle bataglie
Io regolo il destin. se fausta io sono, dalle perdite istesse Fo germogliar le
palme; e s'io m'adiro, Svelgo di man gli allori Sul compir la vittoria ai
vincitori. Che più? Dal regno mio non va esente il valore, Non la virtù; chè,
quando vuol la Sorte, Sembra forte il più vil, vile il più forte; E a dispetto
d'Astrea La colpa è giusta e l'innocenza è rea.
8. Aria A chi serena io miro Chiaro è di notte il cielo; Torna per lui
nel gelo La terra a germogliar. Ma se a taluno io giro Torbido il guardo e
fosco, Fronde gli niega il bosco, Onde non trova in mar. Recitativo Scipione E
a sì enorme possanza Chi s'opponga non v'è? Costanza Sì, la Costanza. Io,
Scipio, io sol prescrivo Limiti e leggi al suo temuto impero. Dove son io non
giunge L'instabile a regnar; che in faccia mia non han luce i suoi doni, Nè
orror le sue minacce. É ver che oltraggio Soffron da lei Il valor, la virtù; ma
le bell'opre Vindice de'miei torti, il tempo scopre. Son io, non è costei, Che
conservo gl'imperi: e gli avi tuoi, La tua Roma lo sa. Crolla ristretta da
brenno, è ver, la liberta latina Nell'angusto tarpeo, ma non ruina. Dell'Aufido
alle sponde Se vede, è ver, miseramente intorno Tutta perir la gioventù
guerriera Il console roman, ma non dispera. Annibale s'affretta Di Roma ad
ottener l'ultimo vanto E co' vessilli suoi quais l'adombra; Ma trova in Roma
intanto Prezzo il terren che vincitore ingombra. Son mie prove sì belle; e a
queste prove Non resiste Fortuna. Ella si stanca; E alfin cangiando aspetto,
Mia suddita diventa suo dispetto. 9.
Aria Biancheggia in mar lo scoglio, Par che vacilli, e pare Che lo sommerga il
mare Fatto maggior di sè. Ma dura a tanto orgoglio Quel combattuto sasso; E'l
mar tranquillo e basso poi gli lambisce il piè. Recitativo Scipione Non più.
Bella Costanza, Guidami dove vuoi. D'altri non curo; Eccomi tuo seguace.
Fortuna E i donni miei? Scipione Non
bramo e non ricuso. Fortuna E mio
furore? Scipione Non sfido e non
spavento. Fortuna In van potresti,
Scipio, pentirti un dì. Guardami in viso: Pensaci, e poi decidi. Scipione Hò giá deciso. 10. Aria Di' che sei l'arbitra Del mondo
intero, ma non pretendere Perciò l'impero D'un'alma intrepida, D'un nobil cor.
Te vili adorino, Nume tiranno, Quei che non prezzano, Quei che non hanno Che il
basso merito Del tuo favor. Recitativo Fortuna E v'è mortal che ardisca Negarmi
i voti suoi? Che il favor mio Non procuri ottener? Scipione Sì, vi son io. Fortuna E ben, provami avversa. Olá venite,
Orribili disastri atre sventure, Ministre del mio sdegno: Quell'audace
opprimete; io vel consegno. Scipione
Stelle, che fia? Quel sanguinosa luce! Che nembi! che tempeste! Che tenebre son
queste? Ah qual rimbomba Per le sconvolte sfere Trerribile fragor! Cento saette
Mi striscian fra le chiome; e par che tutto Vada sossopra il ciel. No, non
pavento, Empia Fortuna: in van minacci; in vano Perfida, ingiusta dea... Ma chi
mi scuote? Con chi parlo? Ove son? Di Massinissa Questo è pure il soggiorno. E
Publio? E il padre? E gli astri? E l'Ciel? Tutto sparì. Fu sogno tutto ciò
ch'io mirai? No, la Costanza Sogno non fu: meco rimase Io sento Il nume suo che
mi riempie il petto. V'intendo, amici dei: l 'augurio accetto. Licenza Recitativo Non è Scipio, o signore
(ah chi potrebbe Mentir d'inanzi a te!) non è l'oggetto Scipio de'versi miei.
Di te ragiono, Quando parlo di lui. Quel nome illustre É un vel di cui si copre
Il rispettoso mio giusto timore. Ma Scipio esalta il labbro, e di Girolamo il
core. 11a. Aria Ah perchè cercar degg'io Fra gli avanzi dell'oblio Ciò che in
te ne dona il Ciel! Di virtù chi prove chiede, L'ode in quelli, in te le vede:
E l'orecchio ognor del guardo É più tardo e men fedel. Coro Cento volte con
lieto sembiante, Prence eccelso, dall'onde marine Torni l'alba d'un dì sì
seren. E rispetti la diva incostante Quella mitra che porti sul crine, L 'alma
grande che chiudi nel sen. Publio Cornelio Scipione Emiliano Africano
Minore. Keywords: Silio, il sogno di Scipione. Scipione.
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